Nelle Valli Bolognesi N° 67 - AUTUNNO 2025
Il trimestrale su natura, cultura, storia e tradizioni locali edito da Emil Banca e diffuso in abbinamento al Resto del Carlino Bologna
Il trimestrale su natura, cultura, storia e tradizioni locali edito da Emil Banca e diffuso in abbinamento al Resto del Carlino Bologna
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NATURA, CULTURA, TRADIZIONI E TURISMO SLOW TRA LA MONTAGNA E LA PIANURA
Nelle
Anno XVIII - numero 67 - OTTOBRE - NOVEMBRE - DICEMBRE 2025
LA MACCHINA
DEL TEMPO
Felsina o Bononia?
MIti dello sport
Marco Bonamico
e Franco Cresci
AUTUNNO
San Petronio
Vita, opere e curiosità sul Patrono della città e con
Succede solo a Bologna la Basilica non ha più segreti
Da sempre al fianco di chi crea cultura
raccontando la storia delle nostre comunità
1895-
2025
www.emilbanca.it
IL CUORE NEL TERRITORIO
Periodico edito da
Numero registrazione Tribunale
di Bologna - “Nelle Valli Bolognesi”
n° 7927 del 26 febbraio 2009
Direttore responsabile:
Filippo Benni
Hanno collaborato:
Valentina Fioresi
Stefano Lorenzi
William Vivarelli
Claudia Filipello
Katia Brentani
Gianluigi Zucchini
Claudio Evangelisti
Gian Paolo Borghi
Paolo Taranto
Guido Pedroni
Serena Bersani
Marco Tarozzi
Andrea Morisi
Mario Chiarini
Veronica Righetti
Fausto Carpani
Sandra Sazzini
Giuliano Musi
Alessio Atti
Elena Boni
Gianluigi Pagani
Daniele Fini
Paolo Spedicato
Adriano Bacchi Lazzari
Giuseppina Bergamini
Stefania Marconi
Valeria Pritoni
Foto di:
Guido Barbi
William Vivarelli
Paolo Taranto
Giacomo Zati
Archivio Bertozzi
Archivi AppenninoSlow
eXtrabo e Bologna Welcome
e altri in pagina
Progetto Grafico:
Studio Artwork Grafica & Comunicazione
Roberta Ferri - 347.4230717
Pubblicità:
distribuzione.vallibolognesi@gmail.com
051 6758409 - 334 8334945
Rivista stampata su carta ecologica
da Rotopress International
Via Mattei, 106 - 40138 Bologna
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vallibolognesi@emilbanca.it
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Questa rivista
è un prOdotto editoriale
ideato e realizzato da
In collaborazione con
CITTÀ
METROPOLITANA
DI BOLOGNA
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SOMMARIO
Gli scatti di William Vivarelli
Fiorrancino
La foto dell’autunno
Il concorso fotografico
In dialetto si dice...
Sgamboz e Sgambuzzen
Erbe di casa nostra
Erba Luigia
La nostra cucina
È tempo di una zuppa calda
Speciale prodotti locali
Brazadela tonda e Carciofo violetto di San Luca
Non tutti sanno che
Petronio, il santo del popolo
Succede solo a Bologna
Alla scoperta della Basilica
In giro con Confguide
Santa Maria della Carità
Tracce di storia
Una galleria d’arte lunga tutta via Zamboni
In giro con AppenninoSlow
La magia del foliage in quattro percorsi
Trekking
Le prime due tappe de I Tesori del Reno
L’autunno con eXtraBo
Dalla Rocca di Bazzano alla Paciu Maison
Appuntamenti
La Tartufesta e altre sagre
Tradizioni
Il Natale contadino
La nostra storia
Memoria in terracotta a Giugnola
Sui banchi come nell’800 a Castello d’Argile
Il delitto Spisani
Quella faida tra i Canetoli e i Bentivoglio
Personaggi
Enrico Giordani e Albertina Cassani
Miti dello sport
Marco Bonamico e Franco Cresci
La macchina del tempo
Felsina o Bononia?
Alle origini del vino
La vendemmia 2025
L’altra faccia della medaglia - Sustenia
L’Edera
Fotonaturalismo
La sedicesima puntata del corso
Entomologia
Forte come una formica
Dialetto e altre storie con Carpani e Borghi
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GLI SCATTI DI WILLIAM VIVARELLI
Il Fiorrancino
(Regulus ignicapilla)
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In provincia di Bologna, il Fiorrancino (Regulus ignicapilla) è una
presenza affascinante che anima i nostri boschi e giardini. Questo
uccello, tra i più piccoli d’Europa, è un vero e proprio testimone
della salute dei nostri ecosistemi forestali, e la sua osservazione è un
momento di pura gioia per gli amanti della natura. Il Fiorrancino è un
passeriforme di dimensioni molto ridotte, con una lunghezza di circa
9-10 cm e un peso che si aggira intorno ai 5-6 grammi. Si riconosce per
il suo piumaggio verde oliva sul dorso e grigio chiaro sul ventre. La sua
caratteristica più distintiva è la cresta colorata sulla testa: arancione nel
maschio e gialla nella femmina, bordata da due strisce nere laterali. A
differenza del suo simile, il Regolo, ha una stria superciliare bianca ben
visibile. Nella provincia di Bologna, il Fiorrancino predilige i boschi
di latifoglie e conifere, come quelli che si trovano nei parchi regionali
dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa, o nei boschi dell’alta
collina e dell’Appennino. Spesso lo si può incontrare anche in parchi
urbani e giardini ben alberati. È un uccello molto attivo e agile, che si
muove in continuazione tra i rami e le foglie degli alberi. La sua dieta
è prettamente insettivora: si nutre di ragni, afidi e larve che scova con
grande abilità. Durante l’inverno, non è raro vederlo in piccoli stormi
misti con altre specie, come le cince, in cerca di cibo. La sua presenza
è un indicatore di un ambiente non eccessivamente inquinato e con
una ricca varietà di insetti. Le popolazioni di Fiorrancino che nidificano
nella provincia di Bologna sono considerate sedentarie o parzialmente
migratrici. Questo significa che molti esemplari rimangono tutto l’anno
nel territorio, spostandosi a quote più basse in inverno, mentre altri
possono intraprendere brevi spostamenti verso sud. La sua capacità di
adattarsi al freddo e la sua resilienza lo rendono un abitante stabile
dei nostri ecosistemi. La conservazione del Fiorrancino è strettamente
legata alla tutela dei boschi e delle aree verdi. La distruzione degli
habitat e l’uso di pesticidi sono le principali minacce per questa specie.
Proteggere le foreste e i boschi maturi, dove trova rifugio e cibo, è
fondamentale per garantire che questo piccolo e prezioso uccello
continui ad allietare la natura della provincia di Bologna.
L’ALFABETO di VIVARELLI
Nei numeri precedenti:
Albanella Autunno 2010
Allocco Inverno 2010
Assiolo Primavera 2011
Allodola Estate 2011
Airone cenerino Autunno 2011
Averla maggiore Inverno 2011
Averla piccola Primavera 2012
Aquila reale Estate 2012
Ballerina bianca Autunno 2012
Ballerina gialla Inverno 2012
Barbagianni Primavera 2013
Beccamoschino Estate 2013
Balestruccio Autunno 2013
Calandro Inverno 2013
Capriolo Primavera 2014
Capinera Estate 2014
Cervo Autunno 2014
Cinghiale Inverno 2014
Canapiglia Primavera 2015
Canapino Estate 2015
Cannaiola comune Autunno 2015
Canapino maggiore Inverno 2015
Cannareccione Primavera 2016
Cardellino Estate 2016
Cavaliere d’Italia Autunno 2016
Cinciallegra Inverno 2016
Cincia bigia Primavera 2017
Cincia dal ciuffo Estate 2017
Cincia mora Autunno 2017
Cinciarella Inverno 2017
Cesena Primavera 2018
Cicogna bianca Estate 2018
Civetta Autunno 2018
Cornacchia grigia Inverno 2018
Cormorano Primavera 2019
Codibugnolo Estate 2019
Codirosso comune Autunno 2019
Codirosso spazzacamino Inverno 2019
Colubro di Esculapio Primavera 2020
Coronella Girondica Estate 2020
Covo Imperiale Autunno 2020
Corriere piccolo Inverno 2020
Cuculo Primavera 2021
Culbianco Estate 2021
Cutrettola Autunno 2021
Daino Inverno 2022
Chirotteri Primavera 2022
Cinghiale Estate 2022
Cigno Autunno 2022
Canapiglia Inverno 2023
Uccello combattente Primavera 2023
Codirossone Estate 2023
Colombaccio Autunno 2023
Fagiano comune Inverno 2023
Faina Primavera 2024
Falco Cuculo Estate 2024
Falco di palude Autunno 2024
Falco pellegrino Inverno 2024-2025
Fanello Primavera 2025
Fenicottero rosa Estate 2025
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LA FOTO DELL’ AUTUNNO
di Paolo Taranto
PORCINI - I porcini sono tra i funghi più
rinomati e conosciuti in ambito culinario,
si raccolgono già dalla primavera ma sono
ancora più abbondanti nella tarda estate e
nel periodo autunnale. I momenti migliori
per trovarli si hanno dopo piogge seguite da
giornate calde e soleggiate
Appartengono al genere Boletus, che include
diverse specie. Il porcino vero (Boletus
edulis) che come dice il nome scientifico è
il migliore da mangiare, il Boletus aureus
(porcino nero) con carne più soda, il Boletus
reticulatus (Porcino reticolato) molto
profumato e il Boletus pinophilus (Porcino
dei pini), tipico dei boschi di conifere (pini e
abeti rossi principalmente).
6
7
IL CONCORSO
È aperto a tutti, fino al 9 novembre, un contest fotografico
dedicato alle meraviglie dell’Emilia-Romagna
Sguardi sul paesaggio
Testo di Ilaria Di Cocco – www.tourer.it
C’è ancora un mese di tempo per partecipare a un contest fotografico molto speciale,
dedicato alla straordinaria – e talvolta poco nota - bellezza dei paesaggi tutelati
dell’Emilia-Romagna, più di 150 aree riconosciute di grande interesse pubblico,
di cui ben 28 nel territorio bolognese, tutte localizzate con grande precisione sulla
mappa interattiva del portale Tourer.it.
Tutte le foto meritevoli saranno pubblicate in modo permanente sulla mappa di
Tourer.it, associate al nome dell’autore. Tourer.it infatti è una mappa collaborativa,
dove i cittadini possono sempre caricare foto dei tanti beni censiti: pievi, castelli,
ville, palazzi, ponti, aree archeologiche, alberi monumentali e adesso anche i
paesaggi tutelati: più di 8 mila mete diffuse in tutta l’Emilia-Romagna.
Santuario della Beata Vergine di San Luca
Bologna | @A.Malinowska
I PREMI
Le foto selezionate come finaliste dalla giuria di esperti saranno
esposte in una mostra che partirà da Bologna, nello splendido
Chiostro dei Celestini, e proseguirà in celebri luoghi d’arte in
tutta la regione. Oltre ai premi per i vincitori quindi, messi a
disposizione dal Touring Club Italiano – Emilia-Romagna, il
contest sarà l’occasione per decine di fotografi di vedere esposti
in grande formato i propri scatti, all’interno di sedi prestigiose in
alcune delle principali città emiliano-romagnole.
Comacchio | Ferrara
@F.Forlani
Torrechiara | Parma
@G.Montali
PER ParteciPARE
www.tourer.it/eventi
tourer@cultura.gov.it
8
Eremo di Tizzano | Bologna
@A.Malinowska
Le foto sono
OPEN SOURCE
Solo nel primo mese di
concorso sono arrivate alla
mail del concorso più di 500
foto, come quelle pubblicate
in queste pagine. Tutti i dati
raccolti dal portale, verificati
con grande scrupolo e
localizzati con altrettanta
precisione dal personale
dedicato del Ministero della
Cultura, sono a disposizione
in formato open di tutti gli
operatori (Enti, associazioni
ecc ecc) per essere riutilizzati
nelle loro iniziative.
COLLABORAZIONI
Pianello Val Tidone | Rocca d’Olgisio - Piacenza
@G.Galatin
Il contest fotografico, che
ha avuto il sostegno di Emil
Banca, vede la collaborazione
fra istituzioni (Ministero della
Cultura e Regione Emilia-
Romagna) e alcune delle
associazioni più attive sul
territorio regionale, come il
Touring Club Italiano, il CAI,
la Federazione Italiana delle
Associazioni Fotografiche,
e la Fondazione Bologna
Welcome.
9
VILLA INDIPENDENTE - SAN LAZZARO COLLINARE
Calvo Immobiliare propone in vendita prestigiosa
villa di 450 mq su due livelli con parco privato
alberato di circa 1 ettaro. Spazioso ingresso,
soggiorno doppio, cucina abitabile, altro salotto
con grandi vetrate panoramiche a tutta altezza,
disimpegno notte, 2 camere di cui una con terrazza,
2 bagni più suite matrimoniale con cabina armadio e
bagno. Al piano sottostante bilocale con uscite verso
il giardino oltre a spazi accessori, cantine, porticati
e autorimesse per 5 auto. Possibilità, con progetto
già approvato, di frazionamento e ampliamento per
ottenere 4 unità indipendenti ognuna con proprio
giardino esclusivo e garage. Libero subito.
Classe energetica G - in attesa di redazione
¤ 1.470.000
Tel. 051 225564
VILLA PADRONALE - IMOLA AD.ZE AUTODROMO
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esclusivo, due ingressi carrabili per eventuale frazionamento
in due unità autonome. In contesto residenziale, la villa è
stata edificata utilizzando materiali pregiati, perfettamente
manutenuta. Ingresso principale da porticato che conduce
all’atrio, dove risulta protagonista lo scalone di grande
rappresentanza che collega i due piani principali; al primo
livello: ampia zona giorno, studio, 2 camere e servizi; al secondo
livello: generosa zona notte con servizi, terrazza abitabile e
collegamento diretto alla mansarda open space. Completano la
proprietà i locali di servizio al piano terra finestrati, garage, oltre
a posti auto coperti. Ottimo investimento anche per strutture
ricettive o per più nuclei famigliari.
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sono le note distintive dell’appartamento al 4^ piano
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luminosità in ogni fase del giorno. Da personalizzare
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il riscaldamento è autonomo e dispone dell’aria
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e cantine, la proprietà gode di piscina fuori terra e posti auto esterni.
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In dialetto si dice...
LA FAUNA LOCALE NELLA TRADIZIONE
DELLA BASSA BOLOGNESE
Foto e testi a cura di Mario Chiarini
Oggi desidero parlarvi di due specie ornitiche, lo svasso
piccolo e il tuffetto, che presentano caratteristiche
fisiche e comportamentali simili, appartenenti alla
famiglia dei PODICIPIDI, più comunemente, ma meno
scientificamente, chiamata famiglia degli svassi. Già
il nome scientifico della famiglia, PODICIPIDI, ci fa
subito pensare ad un esplicito richiamo ai piedi e alle
zampe. Provate ad esempio a pensare al “podologo”,
professionista esperto dei piedi. Infatti le due specie in
oggetto, presentano le zampe con una attaccatura al
corpo molto arretrata, per rendere più rapida e veloce
l’immersione. Difficile vederli sul terreno, dove la
loro andatura sarebbe lenta e goffa proprio per questa
Svasso piccolo - SGAMBOZ
Ascolta il suo canto !
In Italia è specie nidificante, migratrice e svernante
regolare, anche se le concentrazioni maggiori di questa
specie si hanno nel corso dell’inverno quando tende ad
occupare vaste aree , selezionando le”valli” con maggior
distribuzione di acque aperte. Nelle acque della bassa
bolognese è presenza rara e occasionale, cosa che non ha
però evitato l’assegnazione di un proprio nome dialettale:
sgamboz. Si nutre di pesci, insetti, larve acquatiche che
cattura immergendosi sott’acqua. Collo piuttosto corto,
corpo tozzo linea di galleggiamento piuttosto alta collo
e sottogola bianco, capo nero, groppone grigio, ma ciò
che lo caratterizza e l’occhio di un bel rosso brillante
che lo differenzia rispetto al tuffetto. In abito estivo,
difficilmente presente nelle aree umide del bolognese, un
sottile ventaglio di piume gialle gli contornano l’occhio
rosso rendendolo inconfondibile.
loro caratteristica che tende a sbilanciarli in avanti.
Un’altra caratteristica che li accomuna è il sistema
di difesa: a differenza degli altri uccelli acquatici,
che all’apparire di un pericolo si involano, le nostre
due specie con veloce ed armonioso movimento si
tuffano a spariscono nell’acqua riemergendo, anche
dopo un minuto, a diversi metri di distanza, per poi
immergersi nuovamente se il pericolo persiste. Infine
un’ultima considerazione: certamente è noto che il
termine “gambuccio” sta ad indicare la parte finale
di un prosciutto, per intenderci la parte più vicina alla
zampa del maiale. E da qui, la derivazione del nome
dialettale di queste due specie ornitiche.
Tuffetto – SGAMBUZZEN
Il Tuffetto è il più piccolo degli svassi europei, dal
caratteristico profilo tondeggiante, con collo corto e
becco dritto e breve, piumaggio scuro, guance e collo
color castano e macchia chiara all’attaccatura del becco.
Schivo e spesso nascosto tra la vegetazione acquatica,
è più facilmente individuabile per il frequente ed
inconfondibile richiamo trillante. Nidificante, è la specie
più frequente nelle aree umide della bassa bolognese;
in inverno è facilmente riconoscibile per essere il più
piccolo “anatroccolo” presente negli spazi umidi della
bassa bolognese, mentre nella stagione estiva si presenta
con becco dritto e breve, piumaggio scuro, guance e collo
color castano e macchia chiara all’attaccatura del becco,
che lo rendono inconfondibile. Per le dimensioni minori
rispetto alla specie precedente, ma con caratteristiche
comportamentali simili gli è stato assegnato il nome
dialettale di sgambuzzen. Gaspare Ungarelli, un grande
studioso del folclore, delle tradizioni e del dialetto
bolognese, in un suo celebre articolo pubblicato sulle
rivista “L’archiginnasio” nel 1930 lo chiama, fra gli altri
nomi, “pi in tal cul” in virtù delle caratteristiche sopra
richiamate
Ascolta il suo canto !
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ERBE DI CASA NOSTRA
Con una naturopata
per conoscere le leggende,
gli usi medici e quelli tradizionali
delle piante della nostra provincia
L’Aloysia Citriodora, detta anche Cedrina
o Lippia, è una pianta aromatica perenne
della famiglia delle Verbenaceae. Originaria
dell’America del Sud, è stata introdotta in
Europa dagli Spagnoli nel XVII secolo
L’Erba Luigia
Testo di Claudia Filipello - www.naturopatiabologna.it
Da anni il grande ventre di un vaso
in coccio accoglie una pianta che, al
solo sfiorarla, emana un’intensa ed
inconfondibile fragranza di limone.
Sto parlando della profumatissima ed
intensa Lippia citriodora o Aloysia
Citriodora, meglio conosciuta con
l’appellativo di Erba Luigia. Ora
facciamo un bel respiro e proviamo
a dire tutto d’un fiato, i numerosi
nomi con cui è conosciuta questa
pianta: Aloysia citriodora, Lippia o
Verbena triphylla, Verbena odorosa,
da non confondere con la Verbena
officinalis, Erba Luigia, Erba Luisa,
Limoncina, Cedrina, Limone Luigia,
Yerba Louisa. È quasi impossibile
da farsi, ma sicuramente ora avremo
capito di quale pianta si tratta, perché
tra i tanti appellativi ci sarà quello
usato nella nostra regione. Il nome
Aloysia è un omaggio a Maria Luisa di
Parma (1751-1819), moglie di Carlo IV
di Spagna; mentre l’epiteto specifico
citrodora deriva dal latino e significa
dal profumo di limone. Le foglie ed
i flessibili rami, infatti, emanano un
intenso profumo agrumato di limone e
cedro. Mentre il termine Lippia deriva
dall’esploratore che la vide per la
prima volta Augusto Lippi.
È una pianta aromatica arbustiva
perenne della famiglia delle
Verbenaceae, originaria dell’America
del Sud, dove cresce allo stato selvatico
in Ecuador, Perù, Cile, Bolivia ed
Argentina, da dove i conquistadores
spagnoli la introdussero in Europa nel
secolo XVII.
È una pianta rustica, che può
sopravvivere tranquillamente anche
in giardino, se correttamente esposto,
poiché sopravvive in modo spartano,
sfruttando l’acqua ottenuta dalle
piogge del cielo. Tuttavia, durante
i mesi più caldi in caso di siccità,
la pianta tende a soffrire; necessita
quindi, di annaffiature regolari, da
fornire solo quando si nota che il
terreno è ben asciutto, al fine di evitare
dannosi ristagni, che possono rovinare
irreparabilmente le delicate radici. In
autunno l’arbusto perde il fogliame e
le annaffiature possono essere sospese
fino alla primavera successiva. In
generale può sopravvivere anche a
temperature vicine allo zero, ma in
caso di clima particolarmente rigido è
consigliabile posizionarla in una zona
riparata del giardino.
Nel caso fosse coltivata in piena terra,
se l’inverno è particolarmente gelido,
è bene coprirla con dell’agritessuto al
fine di proteggerla dal freddo.
Per avere un arbusto compatto e
dall’aspetto gradevole, è bene potarlo
a fine inverno, in modo da accorciare
i rami più lunghi e sgraziati e da
stimolare la produzione di un ampio
numero di foglioline profumate. Le
foglie sono maggiormente profumate
in piena estate: raccomando la
raccolta per l’utilizzo dopo la prima
metà di giugno. L’aroma delle foglie
raccolte dalla pianta madre continua
ad essere sprigionato anche dalle
foglie secche; per tale motivo possono
essere conservate per lungo tempo in
Rimani aggiornato
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12
Cedrina
“Very irresistible”.
L’olio essenziale è inoltre ricco di
composti volatili, fra cui il geraniolo, il
citrale e il limonene. L’infusione viene
usata come digestivo, carminativo e
antispasmodico ma anche in caso di
dolori dello stomaco o indigestione.
Si consuma inoltre, come blando
sedativo.
Le parti della pianta utilizzate in
infusione vengono raccolti due volte
l’anno: tarda primavera e inizio
autunno. Le parti maggiormente scelte
ed utilizzate per la preparazione di
composti sono le giovani foglie e le
sommità fiorite.
La Lippia è una pianta dotata di
proprietà antispasmodiche, sedative,
febbrifughe, utile anche nei disturbi
digestivi, meteorismo, ipotonia
digestiva; tali proprietà sono ascrivibili
ancora una volta e principalmente,
all’olio essenziale contenuto al suo
interno.
Le attività sedative dell’olio
essenziale della Lippia sono state
confermate da alcuni studi condotti
su animali. La letteratura non cita
effetti secondari tossici; è opportuno
comunque non abusarne, poiché l’uso
eccessivo può determinare irritazione
dello stomaco.
Un altro studio condotto sempre su
animali, ha invece messo in luce le
potenziali proprietà antiparassitarie
dell’olio essenziale. Più in particolare,
si è rivelato utile nelle infestazioni da
Trypanasoma cruzi nei topi.
Nei mesi estivi mettere sui davanzali
o in giardino una o più piantine di
Lippia, permette l’allontanamento
delle zanzare, mosche ed altri insetti.
un recipiente ermetico; oppure messe
in congelatore e consumate entro sei
mesi.
Se amiamo le tisane profumate e
rilassanti, l’Erba Luigia è indicata per
rendere le nostre giornate serene e
leggere; infatti, in erboristeria si usa
nelle preparazioni oltre che per la
preparazione di tisane, anche per infusi
ed impacchi. Quest’ultima modalità
terapeutica è particolarmente indicata
per gli occhi, quando si presentano
gonfi ed arrossati; ma anche in
cucina per fare liquori, marmellate,
macedonie o come spezia fresca nei
piatti freddi.
Le foglie ed i fiori essiccati si possono
usare come antitarme o per profumare
armadi e ambienti, e sempre dalle
foglie, è possibile estrarre l’olio
essenziale. Il suo uso è indicato nella
realizzazione di prodotti cosmetici.
Il profumo di questa pianta è ancora
ampiamente usato in miscele formulate
in marche famose anche oggigiorno,
come Givenchy con il suo profumo
LA RICETTA | Pesto di erba Cedrina
Concludo con una ricetta unica ed interessante da gustare,
il “pesto di erba Cedrina”
Ingredienti:
20 gr di Erba Luigia
50 gr olio extravergine d’oliva
0 gr pinoli
1 pizzico di sale marino integrale
2 cucchiai di acqua ghiacciata
Preparazione
Si raccolgono le giovani foglie, si lavano sotto acqua corrente e si
lasciano asciugare. In un frullatore rendere a farina i pinoli, aggiungere
le foglie di erba Luigia, il pizzico di sale e frullare il tutto, aggiungendo
a filo l’olio, i cucchiai di acqua fino ad ottenere una crema morbida.
Mettere in freezer il bicchiere con il composto per qualche minuto per
evitare l’ossidazione e per mantenere il bellissimo colore verde chiaro.
Invasare, ricoprire di olio e tenere in frigorifero. Da consumare entro
qualche giorno dalla preparazione. È ottimo su crostini, per condire gli
gnocchi, la pasta o con i cereali.
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12
LA NOSTRA CUCINA
Curiosità, consigli e ricette
della tradizione
culinaria bolognese,
dalla Montagna alla Bassa
a cura di Katia Brentani
Piatto povero alla base della nostra
alimentazione sin dalla notte dei
tempi. E anche il primo ristorante
noto come tale fu aperto nel 1765
da un venditore di minestre
È tempo di una
ZUPPA CALDA
Con l’arrivo della stagione autunnale cosa
c’è di meglio di una zuppa calda per
coccolarci, per riscaldare il corpo e nutrire
l’anima. La zuppa esiste dalla notte dei
tempi, è semplice da preparare, nutriente
e versatile. La prima traccia documentata
dagli archeologi risale a circa ventimila
anni fa. Nella grotta di Xianrendong, in
Cina, sono stati rinvenuti frammenti di
ceramica con segni di bruciature. Questi
RICETTA DELLA MONTAGNA
Zuppa del bosco
Ingredienti: 100 gr di funghi porcini, 100 gr
di finferli, 300 gr di orzo perlato, 1 porro, 1
gambo di sedano, 2 carote, il litro e mezzo
di brodo di carne (o vegetale), olio evo,
prezzemolo, sale e pepe.
Procedimento: pulire, lavare le verdure
e tritarle. Versare in una pentola due
cucchiai di olio evo, unire le verdure, fare
dorare e aggiungere l’orzo. Unire i funghi
porcini e i finferli tagliati a fettine e coprire
con 2 litri di acqua. Fare cuocere fino a
quando l’orzo non è cotto (circa 40 minuti).
Guarnire con fettine di porcini, finferli e
crostini.
Le RICETTE
contenitori venivano utilizzati per scaldare
gli alimenti, le prime zuppe. Per tanti
anni La zuppa è stato il piatto principale
delle fasce più povere della popolazione e
l’alimento dei soldati, come la “zuppa nera”
che mangiavano i soldati spartani, preparata
con gli scarti del maiale e l’aggiunta del
sanguinaccio e del vino. Per l’ esercito
ottomano la zuppa era talmente importante
che gli ufficiali della fanteria personale del
RICETTA DELLA PIANURA
Zuppa di cavolo rapa al cardamono
Ingredienti: 500 gr di cavolo rapa,1
litro di brodo di verdure, 1 patata,
cardamomo q.b., olio evo, sale, crostini
o polpettine di pane.
Procedimento: pelare, lavare e tagliare
a dadini il cavolo-rapa. Sbucciare, lavare
e tagliare a dadini la patata. Mettere
a cuocere nel brodo il cavolo-rapa e
la patata. Quando le verdure iniziano
a disfarsi sono cotte. Salare e servire
la zuppa calda cosparsa con semi di
cardamomo e accompagnata da crostini
di pane a forma di cuore o polpettine di
pane.
Curiosità e ricette sono tratte da
Inzuppiamoci di Katia Brentani
per i Quaderni del Loggione
sultano erano chiamati “Chorbaji”, il cui
significato letterale è “cuoco della zuppa”.
Non a caso il primo ristorante, noto come
tale, fu aperto nel 1765 da un venditore di
minestre, M. Boulanger, e serviva solo zuppe
e minestre. Il locale prese il nome dal motto
latino “Venite ad me omnes qui stomacho
laboratis et ego resta urabo” (venite da me
voi tutti il cui stomaco si lamenta e io vi
ristorerò). La parola “zuppa” ha origine
dal gotico suppa (da cui deriva suppe in
tedesco, soupe in francese e soup in inglese)
che significa “fetta di pane bagnata”. Povera
come piatto, ma nutriente e gustosa, la
zuppa veniva preparata con quanto si
riusciva a raccogliere nei campi, nell’orto o
nel bosco aggiungendo, quanto c’era, un po’
di pollame o di maiale. La zuppa è leggera,
ipocalorica e gustosa. Si può preparare di
sole verdure, con legumi, aggiungere aglio
e cipolla, carne, uova, soia, miso. Non è
solo nutriente, ma mette allegria. Si può
servire con crostini, fette di pane grigliato
o grattugiato vegetale. Si può guarnire con
prezzemolo tritato, erbe aromatiche, falde
di peperoni, dadini di zucca, scaglie di
Parmigiano Reggiano, piccoli fiori, bacche,
fiori di zucca e altro ancora.
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SPECIALE PRODOTTI LOCALI
La quinta tappa del viaggio alla scoperta dei prodotti
De.Co. di Bologna e della Città Metropolitana
La brazadela medievale
e il carciofo dei Colli
A cura di Valentina Fioresi
Siamo alla quinta tappa del viaggio
alla scoperta di altri due prodotti (la
“brazadela” di Crevalcore e il carciofo
“Violetto di San Luca”) che vantano
la Denominazione Comunale. La
De.Co. è un riconoscimento fornito
dai comuni a prodotti agroalimentari
o attività tradizionali specifiche che
siano fortemente identitari di quel
luogo. Ad oggi sono 17 i prodotti
tipici iscritti al registro De.Co di
Bologna e dell’Area Metropolitana,
mentre i saperi tradizionali sono
cinque.
LA BRAZADELA TONDA
DI CREVALCORE
Chi non ha mai sentito parlare
della “brazadela”? Questo termine
particolare (ma non sicuramente
sconosciuto ai bolognesi) identifica
la ciambella, il dolce più tipico
delle colazioni fatte in casa, il più
“impalugante”* che c’è. Questo
effetto può essere facilmente mitigato
da un bicchiere di latte (o di vino…)
in accompagnamento alla fetta di
torta.
Qui vogliamo parlare in particolare
della “brazadela tonda” di Crevalcore,
che ha ottenuto il riconoscimento
De.Co. nel 2022. Di questo dolce
si trova traccia fin dal 1250 ed
era normalmente considerato un
prodotto tipico dei giorni di festa;
era anche consuetudine preparare
la brazadela in occasione della
cresima dei bambini, in un formato
più piccolo e confezionate con
nastri. La ricetta tipica prevede pochi
e semplici ingredienti (uova, farina,
burro, zucchero, buccia di limone)
e naturalmente l’utilizzo di uno
stampo che conferisca al dolce la
tipica forma col buco al centro. Una
piccola curiosità: sembra che il nome
“brazadela” derivi dal fatto che nelle
locande gli osti la tenessero infilata in
un braccio, mentre con l’altra mano
mescevano vino.
*(Impalugare = termine dialettale che
identifica la caratteristica specifica di
un prodotto, solitamente dolce, che
provoca un certo “allappamento”
mentre viene consumato. Il tasso
di impalugazione si può misurare
in scala che va da zero a “Tortino
Porretta”, il più temibile tra i dolci).
IL CARCIOFO VIOLETTO
DI SAN LUCA
Il “Violetto di San Luca” è una varietà
di carciofo tipica del bolognese,
coltivata nella zona dei colli
bolognesi, tra la città, San Lazzaro
di Savena, Ozzano nell’Emilia e
Pianoro.
I terreni argillosi presenti in queste
aree sono molto importanti per la
coltivazione di questo ortaggio: la
composizione del suolo gli conferisce
infatti il suo sapore particolare fresco
ed erbaceo, con note simili alla radice
di liquirizia. Queste caratteristiche,
unitamente al tipico colore violaceo,
hanno reso il “Violetto di San Luca”
un prodotto conosciuto e richiesto
in tutta l’Emilia Romagna e quindi
anche un’ottima fonte di reddito per
i contadini locali.
A partire dagli anni ‘70 l’abbandono
progressivo delle campagne e delle
coltivazioni agricole ha comportato
la quasi totale scomparsa di questo
carciofo: se la specie è sopravvissuta
fino ad oggi è in particolare per via
del lavoro della famiglia Albertazzi,
che ha continuato a coltivarla.
Oggi il “Violetto” vanta non solo il
riconoscimento De.Co. ma è anche
un presidio Slow Food, coltivato
nelle aziende che fanno parte dell’
“Associazione carciofo Violetto di
San Luca” (Podere San Giuliano,
Azienda agricola Ca’ de Cesari,
Azienda agricola La Galeazza,
Podere Castel de’ Britti e Podere
Chiesuola).
La coltivazione di questi carciofi
segue un particolare disciplinare:non
possono essere utilizzati fertilizzanti
chimici e la riproduzione delle
piante non avviene tramite semina,
ma per via agamica: per produrre
nuove piante vengono utilizzati i
“carducci”, polloni laterali asportati
dalla pianta madre. In generale la
regolamentazione segue i dettami
dell’agricoltura biologica.
Il “violetto di San Luca” viene
raccolto tra metà maggio e metà
giugno e può essere consumato
crudo, lessato o trasformato
(sott’olio, patè o creme). Anche i
“carducci” vengono utilizzati per la
produzione di trasformati, limitando
la produzione di scarti come nella
migliore tradizione contadina.
1731
NON TUTTI SANNO CHE
Il Patrono incarna a pieno lo spirito ribelle della città:
autonoma, indipendente, mai del tutto allineata
PETRONIO
Il santo del popolo
Testi di Serena Bersani - Foto di Guido Barbi
L’aggettivo “bolognese” ha due soli
sinonimi, uno di testa e uno di cuore:
“felsineo” e “petroniano”. Ma essere
petroniano è molto più che essere
bolognese: significa incarnare i valori
della città, condividerne l’anima e lo
spirito più profondo, in chiave più civica
che religiosa. Perché, quando si parla di
santi patroni, ci si aspetta un protettore
canonico, scelto dal clero. A Bologna,
invece, il patrono è un santo “civico”,
adottato dal popolo e dal Comune
prima ancora che dalla Chiesa. San
Petronio incarna lo spirito ribelle della
città: autonoma, indipendente, mai del
tutto allineata. Petronio rappresenta
l’anima orgogliosa di una città che non
ha mai smesso di difendere la propria
autonomia. Ogni 4 ottobre Bologna
rinnova questo patto antico, ricordando
che la sua forza non sta soltanto nelle
pietre di Piazza Maggiore, ma in un
legame spirituale e civile che dura da
oltre millecinquecento anni. Petronio
per i bolognesi non è solo un santo, ma
un’idea di città.
LE ORIGINI DEL CULTO
Capire come e perché nasca il culto
di un santo – e proprio di quello – al
punto da designarlo protettore e in
qualche modo anche simbolo della
città significa entrare nel profondo di
essa e uscirne con un ritratto dei suoi
sentimenti, della sua cultura e dei suoi
valori. Non è un caso che la diffusione
del culto dei santi coincida, come
periodo storico, con l’alto medioevo
e con l’avvento dell’età comunale. In
epoca medievale la città si distingue per
la presenza di un vescovo e il patrono
è di solito il proto vescovo o uno dei
primi, sulla cui tomba si costruisce una
nuova cattedrale. Inoltre, nei momenti
di grandi incertezze amministrative,
il vescovo rappresentava il principale
fattore di coesione cittadina. Non è
quindi un caso che soltanto a metà
del XII secolo si sia sentita l’esigenza
impellente di dare a Bologna un santo
protettore, che riposava indisturbato e
nell’indifferenza dei più da ben sette
secoli, finché i suoi resti non vennero
ritrovati da un padre benedettino
della basilica di Santo Stefano, che
proprio Petronio aveva fondato a metà
Giovanni di Balduccio
(1317-1349),
Basilica di Santo Stefano, Museo
Gabriele Brunelli, (1683)
Piazza Ravegnana, ora in Basilica
del V secolo sul modello della santa
Gerusalemme.
Ma a questo punto occorre fare
parecchi passi indietro rispetto a quel 4
ottobre dell’anno di grazia 1141 in cui
vennero ritrovati i resti di Petronio, che
non fu il primo, bensì l’ottavo vescovo
di Bologna, successore di Felice, l’unico
con il quale condivide la condizione di
santo. Della sua vita sappiamo quello
che ci raccontano due biografie, una
in latino e una in volgare, scritte in
epoca medievale e basate non su
fonti scritte, ma sulla tradizione orale,
nonché condite da personali fantasie.
Così, gli autori dell’agiografia finirono
con l’attribuire al santo tutte le opere
più significative della storia di Bologna,
compresa la fondazione dello Studium
che avvenne invece molti secoli dopo
la sua morte. Del resto, quando si parla
dei santi, non ci si può limitare alla
narrazione della vita e della morte, ma
occorre concentrarsi sui miracoli, a cui
si crede per fede o per campanilismo.
LE ORIGINI DEL SANTO
Il futuro patrono cittadino molto
probabilmente non nacque a Bologna,
ma forse a Costantinopoli figlio di un
alto funzionario imperiale alla corte
di Teodosio, o in Francia o Spagna
dove visse al seguito del padre,
discendente della famiglia dei Petronii,
prefetto pretorio delle Gallie. In ogni
caso, ebbe un’ottima educazione e
scelse ben presto la carriera religiosa
anziché quella civica. A renderlo il
Pietro di Giovanni Lianori
(1428-1460), Pinacoteca Nazionale
simbolo principale della libertà delle
istituzioni bolognesi fu il suo agire per
la ricostruzione della città una volta
nominatone vescovo, a metà del V
secolo. Una nomina che, tra l’altro,
era avvenuta su pressione della città
più che per decisione papale. Infatti,
si narra che, nell’anno 331, al papa
Celestino I fosse apparso in sogno San
Pietro – protettore di Bologna prima
di Petronio – per predirgli la nomina
di Petronio a vescovo della città e
che il giorno successivo fosse giunta
a Roma una delegazione di bolognesi
per annunciare la morte del vescovo
Felice e sollecitare la consacrazione di
Petronio.
All’arrivo del futuro patrono, Bologna
usciva distrutta dalle invasioni
barbariche e subito il nuovo vescovo
si diede da fare per la ricostruzione
delle mura di selenite, ponendo quattro
croci ai punti cardinali del territorio
per consacrarla e proteggerla dal male
e dando il via all’edificazione di una
serie di edifici riproducenti i luoghi
santi di Gerusalemme. Nacque così
la chiesa del Santo Sepolcro, primo
nucleo del complesso delle Sette
Chiese dedicato al protomartire Santo
Stefano, successivamente arricchito da
una serie di reliquie che Petronio riportò
da un suo viaggio a Costantinopoli.
Ovviamente, alla sua morte, nel 450,
volle essere sepolto nel complesso
stefaniano, dove rimase piuttosto
dimenticato fino al 1141. Questa,
in sintesi, vita e morte di Petronio.
Michelangelo (1494-1495),
parte superiore del Sarcofago
dell’Arca di San Domenico
Ma non mancano i miracoli, come
nella migliore tradizione agiografica.
Il pragmatismo dei bolognesi non
tramanda alcun evento prodigioso
avvenuto durante la sua permanenza
in città, ma sono ormai passati dalla
leggenda alla biografia del nostro
santo alcuni eventi miracolosi avvenuti
nella sua giovinezza. Si raccontava (e
lo dimostrano anche le riproduzioni
iconografiche della sua vita) che,
quando non era ancora sacerdote,
assistendo ai lavori di costruzione di
un edificio (il prototipo del bolognese
davanti ai cantieri è stato traslato anche
sul santo patrono) vide un muratore
travolto da una colonna che stava
ergendo. Petronio alzò gli occhi al cielo
e l’operaio si salvò, nonché la colonna
trovò da sé la corretta collocazione.
Un’altra leggenda, riprodotta anche in
un affresco della cappella Bolognini in
San Petronio, narra dell’assoluzione
data dal non ancora vescovo durante
una messa celebrata nel tempio
di Costantinopoli a un pellegrino,
uccisore del principe di Capua, che da
lungo tempo stava peregrinando per il
mondo portando sempre una pietra in
bocca per espiazione.
RISCOPERTA E CONSACRAZIONE
La riscoperta e la consacrazione
a protettore della città in epoca
medievale riproduce quasi sempre
San Petronio, in abiti vescovili, con
in mano un modellino di Bologna,
a significare l’andata in porto
Lorenzo Costa, particolare (1502),
Pinacoteca di Bologna
dell’operazione che aveva fatto di
questa figura un simbolo dell’identità
cittadina e dell’autonomia dei poteri
locali - chiesa, comune e università
– apertamente anticentralisti. A
compimento di ciò, il Comune decise
di erigere in suo onore una chiesa
degna della sua grandezza, che doveva
superare per dimensioni persino San
Pietro a Roma. La prima pietra fu posta
nel 1390, ma il progetto grandioso
rimase incompiuto, bloccato dalla
Chiesa e dalle difficoltà finanziarie.
La chiesa metropolitana, il “duomo”
di Bologna, è rimasta San Pietro, ma
la maestosità di San Petronio che
domina la piazza è un simbolo della
città e, in quanto tale, senza rivali.
L’incompiutezza della facciata rende
la basilica unica nel suo genere,
bella e allo stesso tempo imperfetta
come chi abita la città accolta tra le
mani del suo santo patrono. Che il
culto civico di San Petronio sia stato
frutto di un’operazione politica di
stampo autonomista e repubblicano
piuttosto che di un moto spontaneo
di devozione popolare, oggi i due
aspetti appaiono perfettamente fusi e
in equilibrio. Ogni 4 ottobre, ancora
nel terzo millennio, Bologna celebra il
proprio simbolo, ad un tempo religioso
e civico, richiamo vivo a un’identità
che si riconosce più nella comunità
che nell’individualismo, più nella
piazza condivisa che nell’isolamento.
Buon San Petronio.
19
SUCCEDE SOLO A BOLOGNA
San Petronio è un luogo
magico, da conoscere con
le visite guidate gratuite di
Succede solo a Bologna.
In occasione del Giubileo
2025 non mancano i tour
dedicati all’arte sacra nelle
altre chiese cittadine
Alla scoperta
della Basilica
“Surge nel chiaro inverno la fósca turrita Bologna, e il colle
sopra bianco di neve ride. È l’ora soave che il sol morituro
saluta le torri e ’l tempio, divo Petronio, tuo; le torri i cui merli
tant’ala di secolo lambe, e del solenne tempio la solitaria
cima.” Comincia così “Nella piazza di San Petronio”, celebre
poesia di Giosuè Carducci dedicata alla piazza più famosa di
Bologna, Piazza Maggiore. Sotto le Due Torri il poeta, primo
italiano a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, visse
per diversi anni, mentre insegnava all’Università di Bologna,
e proprio qui morì nel 1907. Alla città che l’ha ospitato per
tanto tempo dedicò, nel 1877, questa poesia. Bastano poche
parole per trovare uno dei simboli di Bologna, evidentemente
tanto caro a Carducci: la Basilica di San Petronio. Questo
luogo si erge, mostrandosi in tutta la sua bellezza, da secoli.
È il tempio civico della città. Nel 1388, infatti, il Consiglio
Generale dei Seicento aveva deciso di costruire una chiesa
dedicata al suo Santo Patrono, San Petronio, con lo scopo di
ringraziare per la libertà civica di cui la città godeva in quel
periodo storico, con l’augurio che proseguisse in futuro.
La Basilica è quindi legata a San Petronio, vescovo di Bologna
dal 431 al 450, celebrato in tutta la città il 4 ottobre. Anche
nel mese di ottobre – e in quelli successivi - non mancano
le visite guidate gratuite di Succede solo a Bologna per
ricordare questa ricorrenza, la storia e i tanti primati che da
secoli contraddistinguono uno dei monumenti cittadini più
Il calendario delle visite guidate organizzate
da Succede solo a Bologna, sempre aggiornato, lo trovate
su www.succedesoloabologna.it. Tutte le visite sono svolte
da guide professioniste e sono gratuite con donazione finale
facoltativa a favore del progetto di crowdfunding “Monuments
Care” con cui l’ente si prende cura dei luoghi di interesse
turistico di Bologna e provincia. Per informazioni e prenotazioni è
possibile contattare il numero 0512840436 o scrivere a
prenotazioni@succedesoloabologna.it.
prestigiosi. San Petronio conserva infatti ancora al suo interno
un prezioso patrimonio artistico, oltre alla meridiana più
lunga del mondo e a un organo della fine del Quattrocento
ancora funzionante. Le guide professioniste di Succede solo
a Bologna porteranno così i visitatori alla scoperta della
Basilica, costruita fra il 1390 e il 1663. La posa della prima
pietra avvenne infatti il 7 giugno di 635 anni fa, mentre la
sua costruzione si protrasse per diversi secoli. Il risultato,
ancora oggi visibile a tutti, è assolutamente maestoso (132
metri di lunghezza, 60 di larghezza e 44 di altezza) e rende
la chiesa uno dei più significativi esempi di cattedrale gotica
italiana.
Al suo interno è anche possibile trovare alcuni record. Nella
Basilica di San Petronio è ad esempio conservato l’organo
monumentale a registri indipendenti più antico al mondo.
Lo strumento di Lorenzo di Giacomo da Prato, situato sul
lato destro del presbiterio, fu costruito tra il 1471 e il 1475
L’interno della Basilica
La meridiana più grande del mondo
20
San Petronio
giubilari. Tra i monumenti gestiti da Succede solo a Bologna
c’è anche la Cripta di San Zama, in via dell’Abbadia,
protagonista di numerose visite guidate organizzate
dall’ente. Si tratta di uno dei luoghi più antichi della città,
dove affondano le radici cristiane di Bologna e dove è
possibile viaggiare attraverso i secoli, dall’epoca romana a
quella napoleonica. Un vero e proprio gioiello nascosto, un
luogo nel quale già nel III secolo d.C esisteva il primo e più
importante centro di diffusione del cristianesimo.
ed è il primo grande strumento a registri indipendenti, poiché
ne possiede ben dieci, quasi il doppio del numero consueto.
Dalla musica alla scienza. Nella navata sinistra della Basilica
si può ammirare la meridiana più lunga del mondo. L’opera
è lunga ben 67 metri e fu realizzata da Giovanni Domenico
Cassini, professore di Astronomia all’Università, nel 1655.
Cassini scelse la Basilica della città perché era l’ambiente più
vasto in cui poter realizzare il suo lavoro e perché c’era già
una meridiana più piccola, costruita nel secolo precedente.
La meridiana indica con precisione il mezzogiorno locale
grazie a un piccolo foro praticato sul tetto, da cui entrano
i raggi solari che si proiettano sul pavimento. Il 21 giugno
(giorno del solstizio estivo) del 1655 Cassini invitò tutti i
matematici e professori universitari ad osservare il transito
del sole grazie alla meridiana. Quest’anno sono quindi 370
anni da questa speciale osservazione del solstizio.
E non è l’unica ricorrenza. Il 2025 è infatti anche l’anno del
Giubileo e anche in virtù di questa occasione non mancano
le visite guidate di Succede solo a Bologna all’interno della
Basilica di San Petronio e di tante altre chiese cittadine e
della provincia. Un calendario ricco, che ogni mese riserva
novità, alla scoperta del patrimonio artistico dei luoghi
sacri del territorio. Sono in programma, ad esempio, tour
all’interno del Santuario della Beata Vergine di San Luca,
sul Colle della Guardia, che è tra l’altro una delle chiese
Le altre Basiliche
Poi ci sono le basiliche del centro storico, che custodiscono al
loro interno opere e particolarità uniche nel loro genere. Tra
le più famose, sono numerose le visite guidate organizzate
nelle Basiliche di San Francesco e di Santo Stefano. La prima
venne eretta nel XIII secolo, costituisce uno dei primi esempi
di stile gotico di derivazione francese in Italia e riserva
molte sorprese, come le tombe dei Glossatori della Scuola
bolognese (ovvero fra i primi e più importanti professori dello
Studium) al suo esterno e la grande pala marmorea di gusto
squisitamente gotico che fa da quinta all’altare maggiore,
all’interno. Impossibile non citare, poi, la Basilica di Santo
Stefano, uno dei luoghi di culto più antichi della città. Il
complesso delle Sette Chiese, come viene chiamato, è tra i
monumenti più visitati della città ed è composto, appunto,
dall’unione di più edifici sorti in epoche diverse. Durante la
visita guidata si approfondirà così la storia della chiesa del
Crocifisso e della Trinità, oltre alle Basiliche dei SS. Vitale
e Agricola e del Santo Sepolcro e al Cortile di Pilato. Un
viaggio, insomma, che ripercorre tutte le epoche e i diversi
stili che si sono stratificati nei secoli.
Nel calendario di Succede solo a Bo non mancano la
Basilica di San Giacomo Maggiore di Piazza Rossini -
splendido esempio di architettura del XIII secolo-, la chiesa
di San Giovanni in Monte, che ospita al suo interno un
importante patrimonio artistico con opere di Guercino,
Niccolò dell’Arca e Lorenzo Costa, e la Basilica di San
Martino di via Oberdan con le straordinarie opere d’arte
conservate al suo interno, dipinte da Carracci, Amico
Aspertini, Lorenzo Costa e Paolo Uccello. Il calendario dei
tour si completa poi con altre proposte come la Basilica
di Santa Maria Maggiore in via Galliera, più antica chiesa
bolognese dedicata alla Madonna, la chiesa di San Nicolò
degli Albari, gioiello rococò di via Oberdan, la Cattedrale
di San Pietro, la chiesa dei Santi Gregorio e Siro di via
Montegrappa, il Santuario del Ss. Crocefisso del Cestello e
la Chiesa ortodossa di San Basilio il Grande in via Sant’Isaia.
Non solo città. Da tempo Succede solo a Bologna organizza
il mercoledì sera visite guidate in dialetto bolognese anche
in provincia, al di là dei confini cittadini. Tra queste, non
mancano le proposte dedicate all’arte sacra, come la Pieve
di Sala Bolognese e la Collegiata di San Giovanni Battista a
San Giovanni in Persiceto.
Alfonso Torreggiani, la Cappella barocca che racchiude
il monumentale reliquiario di San Petronio, in Basilica
21
IN GIRO con confguide
Dopo due anni di lavori riapre la chiesa
di via San Felice. Una visita guidata
racconta i segreti dell’antico Borgo di cui
parla Dante nel De Vulgari Eloquentiae
Santa Maria
della Carità
Testi di Sandra Sazzini - Confguide
La chiesa di Santa Maria della Carità ha finalmente riaperto
dopo due anni di intensi restauri. I lavori hanno riparato i diffusi
danni strutturali provocati dal terremoto del 2012 alla copertura
e alla complessa decorazione delle volte dipinte. L’evento è
stato celebrato con una serie di manifestazioni nel quartiere
indicate sotto il nome di Shekinà, una parola della spiritualità
ebraica che indica la presenza divina in uno spazio accogliente,
di amicizia e comunione, aperto alla comunità del quartiere.
Le celebrazioni sono culminate con la messa inaugurale officiata
dal Cardinale Matteo Maria Zuppi il 14 settembre scorso,
mentre le visite guidate svolte da Confguide sotto l’egida di
Ascom hanno contribuito a riscoprire e valorizzare la chiesa e
gli altri luoghi sacri dell’area tra San Felice, via della Grada e via
Riva Reno. Il complesso parrocchiale di Santa Maria della Carità
(SAMAC) è infatti una delle realtà cittadine più importanti. Qui
è l’antico Borgo di San Felice, di cui parla anche Dante nel De
Vulgari Eloquentiae: da fine linguista, egli distingue l’accento del
Borgo dal bolognese allora parlato in piazza di Porta Ravegnana.
Nell’ex convento del Terz’Ordine francescano, trasformato
dagli austriaci in carcere politico, fu tenuto prigioniero anche
padre Ugo Bassi prima dell’esecuzione. Nel 1901 nacque qui la
Società Ginnastica Fortitudo, “Casa Madre” della Fortitudo
Pallacanestro Bologna.
La chiesa
La chiesa di Santa Maria della Carità ha origini lontane:
la prima chiesa romanica sorse nel 1252, accanto a
un hospitale, fondato a proprie spese da don Egidio
Venecello per ricoverare i pellegrini lungo quella che era
l’antica via Emilia. Dapprima sotto l’autorità dell’abate di
Monteveglio, l’intero complesso venne successivamente
affidato alle cure dei Frati del Terzo Ordine Francescano
o della Penitenza. La chiesa nelle forme attuali venne
iniziata da Pietro Fiorini nel 1580, secondo il modello
della grande aula post-tridentina, per essere completata
un secolo dopo da Giovan Battista Bergonzoni, un frate
architetto dell’ordine francescano, che allungò la cappella
maggiore e allargò le due cappelle laterali. Suo è anche
il progetto della bellissima Sacrestia con i due grandi
armadi, dove venne successivamente realizzato il altare
settecentesco della statua della Madonna della Carità in
terracotta, inquadrata tra grandi angeli in stucco.
Tra Sacrestia e Chiesa si contano oltre 60 opere d’arte che
22
VISITE GUIDATE
a Santa Maria della Carità
e San Valentino della Grada
con Sandra Sazzini
Domenica 9 novembre | ore 15
Sabato 13 dicembre | ore 15
Prenotazione obbligatoria
sandra.sazzini@gmail.com
cell. 3391606349.
spaziano dal Cinquecento all’Ottocento, opera di alcuni
dei maggiori artisti bolognesi: Marcantonio Franceschini,
Giuseppe Crespi e figlio, Felice Cignani, Galanino, Cesare
Aretusi, Valesio, Lorenzo Franchi.
La star è tuttavia Annibale Carracci con la sua Crocifissione
del 1583, il discusso e affascinante manifesto delle novità
introdotte dai “cugini” nella pittura bolognese, che oggi
il nuovo impianto di illuminazione mette in risalto, con il
corpo naturale del Cristo che si staglia contro il cielo buio.
Al di sotto risplende il nuovo confessionale in metallo,
fortemente voluto da Don Davide, con all’interno opere
meditative di Ettore Frani. Le nuove luci rivelano anche le
complesse pitture ottocentesche delle volte, pazientemente
stuccate e ripulite lungo le navate e nella cappella
maggiore, che era già stata riparata nel 1951 dopo i danni
dei bombardamenti.
L’itinerario nel Borgo
L’itinerario prosegue verso la graziosa e raccolta chiesa di
Santa Maria e San Valentino della Grada, ora aggregata
alla parrocchia di Santa Maria della Carità. Costruita nel
1632 dalla devozione popolare intorno all’immagine
della Madonna dipinta sulle mura, a ringraziamento della
protezione ricevuta contro la peste, la chiesa a pianta
quadrata mostra ancora il soffitto ligneo a cassettoni di
Antonio Levanti, lo stesso architetto che ha progettato il
Bologna
Teatro Anatomico dell’Archiginnasio. Diversi artisti legati al
Collegio Venturoli hanno collaborato al restauro neoclassico
commissionato dal Conte Salina, che divenne proprietario
della Chiesa dopo gli espropri napoleonici. Altri elementi
preziosi sono le cantorie in legno, l’organo, dotato di alcune
canne molto antiche del leggendario organaro Giovanni
Cipri, e la teca settecentesca del capo di San Valentino, qui
venerato - ahimè - non come romantico protettore degli
innamorati ma degli infermi.
L’Oratorio di San RoccO
L’ultimo gioiello del quartiere, più volte recuperato e
ripulito dopo le peripezie della storia, i disastri della guerra
e l’abbandono, è l’oratorio di San Rocco collocato sopra
l’omonima chiesa, oggi affidata al culto ortodosso. L’edificio
porticato, costruito anch’esso contro le mura, funge da
elegante sfondo architettonico alla strada del Pratello.
La chiesa fu voluta dalla Confraternita di San Rocco cui
appartenevano i filatoglieri, ovvero i famosi lavoratori della
seta di Bologna, che si raccoglievano in preghiera al piano
superiore. L’oratorio, oggi sede del Circolo culturale lirico
Bolognese grazie anche all’ottima acustica, presenta un
soffitto a cassettoni decorati nella luce interna dai principali
pittori della città tra Seicento e Settecento, alternando figure
di santi, evangelisti, dottori della chiesa e virtù cristiane.
La decorazione architettonica a fascia, intercalata da
illusionistici telamoni, appartiene a Girolamo Curti, detto
il Dentone, che come i Carracci ed altri pittori abitava
proprio nel Borgo San Felice. Nei riquadri delle pareti
scorrono gli episodi della vita di San Rocco, cui si sono
applicati gli allievi di Ludovico Carracci, grande amico della
Confraternita: dalla nascita, al soccorso degli appestati, alla
malattia e all’incarceramento, meravigliosamente dipinto dal
Guercino stesso, fino alla morte in prigione di questo santo
medioevale, umile e generoso, così venerato in Francia e
Italia a protezione dalle ondate di peste che regolarmente
affliggevano la popolazione. All’uscita, uno sguardo alle
tracce di un’antica apertura murata ci ricorda che qui si
apriva la misteriosa tredicesima porta di Bologna, con la
sua storia di sangue. Pare che da qui fuggissero i congiurati,
dopo aver ucciso a tradimento Annibale Bentivoglio il 24
giugno 1445. Così, per vendetta, gli amici e gli alleati dei
Bentivoglio la murarono per sempre.
23
Tracce di sTOria
L’antica strê San Donè è come un museo,
dalle bellissime sedi dell’Alma Mater fino
al Comunale e oltre. Tra un Crocifisso
sorridente e una ‘Partita a Tarocchi’, tante
meraviglie da godere… gratuitamente
Una galleria d’arte
lunga tutta via Zamboni
Testo di Gian Luigi Zucchini
Sulla torre della Specola
A Bologna c’è una strada che è come
un’ampia galleria d’arte, che si può
visitare con neve, pioggia o sole rovente.
Si tratta di Strada San Donato (strê San
Donè, in dialetto), oggi via Zamboni, in
memoria di Luigi Zamboni, condannato
a morte da un tribunale austriaco e
suicidatosi in carcere a soli 23 anni.
Gli ingressi in questa spettacolare
quadreria sono quasi tutti gratuiti, e
quindi parrebbe conveniente che molti
ne approfittassero, di tanto in tanto.
Scorriamo pertanto, come in un volo,
questo prezioso itinerario:
Dopo la piccola chiesa “Divo Donato
dicata”, al n. 10 di via Zamboni,
abbelita da decorazioni barocche, un
tempo bellissime, oggi purtroppo molto
deteriorate, ci troviamo nello slargo
di piazza Rossini. Di fronte, si impone
l’ampia facciata della chiesa di San
Giacomo Maggiore (erroneamente si
dice dedicata a santa Rita, che pure si
venera in quel santuario); da lì facciamo
scorrere l’occhio sul lungo portico
che, in una fuga di colonne e preziosi
capitelli, termina in piazza Verdi, dove
sorge il settecentesco teatro Comunale,
ricco di storie musicali. Mentre
siamo ancora fermi in piazza Rossini,
diamo un’occhiata alla lapide che,
sul lato destro, ricorda che lì abitava
l’aristocratica famiglia dei Lambertini,
e lì nacque e visse la propria infanzia
Piazza Verdi
quel personaggio, famosissimo a
Bologna, che fu Prospero Lambertini,
prima sacerdote, poi arcivescovo e
cardinale, infine papa col nome di
Benedetto XIV. E proprio lì di faccia, nel
cinquecentesco palazzo Magnani, al n.
20, sono conservati gli affreschi delle
“Storie di Romolo e Remo” dei giovani
Carracci, insieme ad altri importanti
dipinti di arte antica e moderna dell’ex
Credito Romagnolo (ora Unicredit)
che vanno dal Cinque-Seicento
(Dosso Dossi, Guercino, ecc. ) fino al
Novecento (De Pisis, Morandi, ecc.).
L’ingresso è gratuito. Per informazioni e
prenotazioni, tel. 051 2962504, (ore 9
-17,30), dal lunedì al venerdì.
Da qui, percorrendo il lato sinistro
della via Zamboni, al n. 22, si incontra
Palazzo Malvezzi-Campeggi, oggi sede
della Facoltà di Giurisprudenza. Si dia
almeno un’occhiata al cortile, dove si
trova una grande statua di Ercole scolpita
da Giuseppe Maria Mazza, artista che
incontreremo ancora più avanti, nella
stessa via Zamboni. Volendo, sarebbe
poi interessante vedere l’imponente
Aula Magna, che conserva affreschi e
grandi dipinti di battaglie.
Non si trascuri, in questo rapido
excursus, l’interno della chiesa di san
Giacomo, ricchissima di opere d’arte,
tra cui la Cappella Bentivoglio con
affreschi importandi di Lorenzo Costa,
e soprattutto l’Oratorio di Santa Cecilia,
al n. 15, il più importante documento
pittorico del Rinascimento bolognese,
24
Bologna
Il Crocefisso sorridente
Chiesa di Santa Maria Maddalena
comprendente le storie di Santa Cecilia
e Valeriano, affrescate da Lorenzo
Costa, Amico Aspertini, Francesco
Francia e altri minori.
Superata la piazza dedicata a Giuseppe
Verdi, passiamo sul lato destro della
strada ed entriamo nel fastoso palazzo
fatto costruire dal cardinale Giovanni
Poggi alla metà del XV secolo e diventato
poi sede dell’Accademia delle Scienze.
Non si trascuri, a questo punto, di dare
un’occhiata agli affreschi realizzati tra
il 1549 e il 1551 da Pellegrino Tibaldi
sul tema dell’Odissea, prima di entrare
dall’ingresso principale della sede
centrale e del Rettorato dell’Alma Mater
Studiorum - Università di Bologna.
Qui hanno sede alcuni importanti
musei (Museo di Palazzo Poggi, Museo
Europeo degli studenti, Museo della
Specola) collocati nelle sale del palazzo,
ricco di affreschi cinquecenteschì; tra
gli altri, di grande effetto è “La Partita
a tarocchi” e “Il Convito” eseguiti da
Compianto sul Cristo morto,
di Giuseppe Maria Mazza
Chiesa di Santa Maria Maddalena
Nicolò dell’Abate tra il 1550 - 51, in cui
si rappresenta un festoso incontro, con
dame e cavalieri che indossano curiosi
cappellini piumati.
All’uscita, l’ escursione continua; dopo
pochi metri, arriviamo nella piazzetta
dedicata al noto fumettista Roberto
Raviola detto Magnus, all’incrocio tra via
Zamboni e via De Rolandis, lo studente
patriota che, insieme a Zamboni, fu
condannato a morte e fucilato dagli
Austriaci. Qui si trova la Pinacoteca
Nazionale (v. Belle Arti, 56), una delle
raccolte d’arte più importanti d’Italia,
con opere che vanno dal Trecento
bolognese (in apertura, come ouverture,
lo straordinario dipinto su tavola “San
Giorgio e il drago”, di Vitale da Bologna),
fino al Sei - Settecento, con i nomi più
prestigiosi del Seicento bolognese, quel
‘barocco’ che in questa città emerse
come innovazione, quasi realizzazione
in pittura di quel ‘parlar disgiunto’ a cui
faceva cenno Scipione Gonzaga, in una
lettera indirizzata a Torquato Tasso l’1
ottobre del 1575, per indicare, come
pure in letteratura, fosse necessario uno
stile aperto all’invenzione linguistica ed
espressiva, come già stava avvenendo in
pittura.
Ma l’esplorazione non finisce qui,
come di solito di pensa, trascurando
purtroppo l’ultimo tratto della via
Zamboni. Pertanto, lasciata alle spalle la
Pinacoteca Nazionale, entriamo subito
nella chiesa che sorge quasi di fronte,
dedicata a santa Maria Maddalena. Qui,
presso l’altare, a sinistra entrando, è stato
collocato un Crocifisso, che sembra
trasformare la smorfia di dolore in un
mesto sorriso, per cui è stato definito ‘il
Crocifisso sorridente’.
Il pezzo, appeso al muro in una sala
interna del complesso parrocchiale
insieme ad altri crocifissi di mediocre
fattura, fu notato per la severa qualità
dell’intaglio, tale da non sembrare opera
settecentesca, come pareva vedendo
il perizoma del Cristo drappeggiato
con rifiniture in oro. Infatti, sottoposto
ad un attento restauro, risultò essere
opera tardo-medioevale, molto
probabilmente di ascendenza tedesca.
Per cui fu eliminato il perizoma barocco
e sostituito con un altro più sobrio e
severo, e l’intero corpo del crocifisso
ripulito da vecchie incrostazioni e
ridipinture non corrette. E si cerò di
valorizzare ulteriormente il volto, che
l’artista medioevale - consapevole o
no – aveva modellato trasformando
l’espressione sofferta del Cristo in una
specie di doloroso sorriso.
Nella chiesa inoltre ci sono altre opere
da non trascurare, di artisti bolognesi:
Lippo di Dalmasio, Angelo Piò, Tiburzio
Passerotti, Carlo Cignani, i Gandolfi,
Alessandro Guardassoni, Giuseppe
Marchesi detto ‘il Sansone’ e altri
ancora. Tra tutti, emergente, la stupenda
terracotta del Compianto sul Cristo
morto, di Giuseppe Maria Mazza, con
le tre Marie disperate e il corpo del
Crocifisso disteso pietosamente su un
candido lenzuolo funebre. L’opera è
uno, o forse il capolavoro giovanile, di
Giuseppe Maria Mazza, artista di rilievo
non soltanto locale, che si distinse per
i numerosi lavori di carattere sacro e
profano (si veda l’articolo che si fece
su questa stessa rivista in occasione
dei restauri a cui fu sottoposta l’opera.
Insieme, nello stesso aticolo, una
citazione del ‘Crocifisso sorridente’ ).
All’uscita, non si abbandoni la strada:
ci sono ancora suggestive sorprese: i
musei di petrografia e di paleontologia
e il maestoso arco dell’antica porta, con
cassero e resti delle mura cittadine, che
conserva ancora il nome di Porta San
Donato e non porta Zamboni, come
molti bolognesi ancora dicono.
Alcuni aspetti di questo itinerario
non rientrano strettamente nel campo
dell’arte, ma sono comunque cultura:
e tutto contribuisce ad arricchire
questa città di una preziosa eredità
di arte, di storia e di vita, che sarebbe
doloroso e ignobile trascurare o, peggio,
dimenticare.
25
3026
IN GIRO CON APPENNINOSLOW
I più bei tracciati del Cai
per apprezzare i colori
dell’autunno e scoprire
luoghi insoliti, dalla cascata
dell’Acqua Caduta al borgo
fantasma di Chiapporato
La magia
del foliage
in quattro
percorsi
Testi di: Valentina Fioresi
Foto di: Giovanni Zati
Il foliage: uno spettacolo di colori e sfumature
che dipinge i boschi dell’Appennino durante
l’autunno, a cavallo tra ottobre e novembre.
Prima che le foglie cadano gli alberi sfumano
dal verde brillante dell’estate verso tonalità
gialle, arancioni e marroni, conferendo alle
foreste l’aspetto di un mosaico, intervallato
soltanto da macchie scure di sempreverdi
come abeti e cedri. Passeggiare tra boschi
e crinali durante la stagione autunnale vuol
dire camminare col naso all’insù, immersi in
una tavolozza di colori caldi. Ecco qualche
consiglio per scoprire il lato più vivo della
stagione autunnale in montagna.
La Scola
MONTEACUTO E LA CASCATA
DELL’ACQUA CADUTA
Monteacuto delle Alpi si trova all’interno
del Parco Regionale del Corno alle Scale,
adagiato su un crinale che domina la
valle del Silla e il corso del più nascosto
rio Baricello. Dall’abitato di Monteacuto,
poche case e atmosfera che più medievale
non si può, si scende lungo un’antica strada
lastricata (oggi sentiero CAI 109) che conduce
prima al mulino della Squaglia (dove un
tempo si macinavano le castagne raccolti
nei numerosi castagneti intorno al paese)
e poi al santuario di Madonna del Faggio.
L’edificio venne costruito a metà ‘700, in
seguito all’apparizione dell’immagine della
Madonna su un albero: un evento che viene
ancora oggi celebrato il 26 luglio di ogni
anno. Dal santuario si prosegue tra piccole
salite e discese lungo il rio Baricello, immerso
tra gli ordinati faggi che punteggiano i
versanti. Dopo qualche km si raggiunge
finalmente la cascata dell’Acqua Caduta, non
imponente come altri salti presenti nell’area
Montovolo
del Belvedere ma ugualmente affascinante,
nascosta e misteriosa. Superata la cascata si
prosegue fino a Pian dello Stellaio, un prato
che si apre tra gli alberi, e poi sul sentiero CAI
101 fino al “Rombicciaio”, un luogo custodito
da imponenti faggi secolari, veri e propri
pezzi di storia del bosco. Successivamente il
sentiero CAI 143 ci condurrà al passo della
Donna Morta, un luogo che, a discapito della
toponomastica, appare accogliente, grazie
alla presenza di un bivacco sempre aperto.
Ormai siamo più o meno a metà del trekking:
il sentiero 111 ci riporterà a Monteacuto,
attraverso spettacolari faggete dove si possono
ancora vedere tracce che testimoniano quanto
un tempo i boschi fossero importanti e vissuti:
muretti a secco, casoni, antiche dimore e
lastricati.
MONTE DI STAGNO
E BORGO DI CHIAPPORATO
I boschi tra il lago di Suviana e quello del
Brasimone (entrambi i bacini si trovano
all’interno dell’omonimo parco regionale)
non sono troppo frequentati dai camminatori,
ma non hanno nulla da invidiare rispetto
ad altri luoghi più “gettonati”. Il Monte
di Stagno, Monte Calvi, il Poggio delle
Vecchiette, il Monte Gatta sono solo alcuni
dei rilievi che si trovano in questa zona,
dove si alternano boschi misti e, a quote più
elevate, vaste faggete. Partendo dal piccolo
abitato di Stagno, da cui si può ammirare
un meraviglioso panorama che abbraccia il
lago di Suviana, si può raggiungere il Monte
di Stagno (1213 mslm) camminando lungo
il sentiero CAI 155, totalmente immerso nei
boschi. Dopo un meritato riposo in cima al
monte si ripiega verso Stagno seguendo il
sentiero 009. Sempre da Stagno è possibile
raggiungere anche il borgo abbandonato di
Chiapporato, grazie a una comoda e semplice
passeggiata su strada sterrata. Disabitato dal
2013, il piccolo gruppo di case versa in uno
stato di abbandono che conferisce all’area
Autunno 2025
Tresana
un aspetto romantico e decadente: visitarlo
durante il periodo del foliage non fa che
amplificare questa particolare percezione.
MONTOVOLO E MONTE VIGESE
Una deviazione di pochi km dalla Porrettana
(la via di comunicazione che unisce Bologna
e Pistoia, passando per Porretta Terme come
punto intermedio) ci conduce nel comune di
Grizzana Morandi, in un’area dove un tempo
si estraeva la pietra arenaria, fondamentale
per l’attività degli scalpellini e per la
costruzione degli edifici. Alcune cave sono
ancora visibili, tra castagneti e ripide strade di
montagna, così come i risultati del lavoro di
questi artigiani che nei secoli hanno decorato
finestre, architravi e cantonate dei borghi
della zona: la famosa “Scola”, Predolo, Sterpi,
Campolo. Tutti questi luoghi negli ultimi anni
hanno visto una riscoperta dell’arte della
lavorazione della pietra, grazie a diverse
associazioni locali che tramandano questa
attività tradizionale. Merita sicuramente una
visita (e raggiungibile sia in auto che a piedi
-CAI 0039-) anche Montovolo, un rilievo di
962 mslm dove si possono visitare il Santuario
omonimo e il piccolo oratorio di Santa
Caterina d’Alessandria. Imperdibile anche lo
spettacolo naturalistico: una volta emersi dai
colorati castagneti si può raggiungere la cima
del monte e ammirare il panorama sconfinato
sulla vallata circostante. Merita anche una
camminata sulla cima del monte Vigese,
raggiungibile da Montovolo tramite i sentieri
VMDBO 008 e 039B. L’ultimo tratto presenta
una salita piuttosto decisa, che si snoda tra
boschi misti di querce e castagni, che solo
al termine del sentiero lasciano spazio a
qualche faggio.
Monte Vigese
INTORNO A PORRETTA TERME
Una manciata di abitazioni a pochi km da
Porretta Terme: questa è Madognana, località
immersa tra i colori e la frescura dei boschi
che ricoprono il Monte della Croce; l’abitato
si può raggiungere direttamente da Porretta
grazie al sentiero CAI 103. Le poche case
di Madognana sono raccolte intorno alla
suggestiva piazza, dove sorge anche la chiesa,
abbellita dagli affreschi del pittore ungherese
Adam Kisléghi-Nagy. La passeggiata prosegue
poi verso il Monte della Croce lungo il
sentiero CAI 101: impossibile non fermarsi al
belvedere per ammirare la vista su Porretta.
Lo spettacolo dei castagneti in autunno si può
ammirare anche a Tresana (il “borgo delle
ortensie”), un piccolo gruppo di case in sasso
immerse in un curato castagneto. Tresana si
può raggiungere anche in auto, ma il modo
migliore è a piedi, tramite il sentiero CAI 147
partendo dai prati del Monte Piella oppure dal
già citato Santuario di Madonna del Faggio.
STAMPATORI
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3028
TREKKING
Le prime due tappe del
“Tesori del Reno”, percorso
ad anello da fare a piedi o in
MTB con partenza e arrivo
a Vergato per conoscere
le eccellenze storiche,
artistiche e naturali della
media valle del Reno
Da Ontani
alla Rocchetta
A cura di Daniele Fini
Partenza dal municipio di Vergato
Nel numero di luglio abbiamo presentato
il nuovo Cammino nato dalla scintilla
scoccata tra Davide Muzzarini e
l’Associazione Teamleggero aps-asd:
Davide ha portato l’idea e l’Associazione
di Rocca di Roffeno l’ha “messa a
terra” con la collaborazione di Trekking
Italia Emilia Romagna. Il Cammino,
convintamente sostenuto da Emil Banca e
pensato per il trekking e la mountain bike,
si snoda quasi interamente su sentieri
CAI già presenti e attraversa i territori
di Vergato, Grizzana Morandi e Castel
d’Aiano per una lunghezza totale di circa
90 km (il “circa” è frutto della presenza di
alcune varianti di diverso chilometraggio
Sculture Faggioli - Predolo
pensate alternativamente per utenti
praticanti o utenti esperti).
Fruibile tutto l’anno, anche se nel periodo
invernale la percorrenza è subordinata
alle condizioni meteorologiche, è stato
pensato per soddisfare il piacere di
muoversi tra le montagne e le valli del
medio Reno dove è presente una grande
ricchezza di biodiversità vegetale e
animale e, al pari, per dare valore ai tanti
“tesori” diffusi su tutto il territorio: dalle
testimonianze storiche, spirituali, artistiche
e architettoniche alle spettacolari risorse
naturalistiche. In questo numero vogliamo
spiccare con voi un volo planato sulle
prime due tappe a piedi (fuse in un’unica
tappa per le mtb) per farvi scoprire cosa vi
attende in questa avventura.
Vergato - Grizzana Morandi
La tappa degli artisti (13 km)
La tappa che dà il via al nostro viaggio
parte dal municipio di Vergato, che
ha sede nel Palazzo dei Capitani della
Montagna, un edificio storico che fu la
sede del Capitanato della Montagna dal
Quattrocento fino all’inizio del Settecento;
la sua facciata è impreziosita da stemmi e
iscrizioni dei Capitani, e l’interno ospita
vetrate e museo del maestro locale Luigi
Ontani, l’artista che ha anche realizzato
nella piazza della stazione l’originale
fontana di marmo e bronzo raffigurante
un fauno antropomorfo. Immediatamente
ci si incammina sulla stretta via Bacchetti
dove sono presenti numerose opere
artistiche.
Attraversato il ponte sul fiume Reno in
direzione Grizzana Morandi si imbocca
il sentiero CAI n. 174 che si inerpica
decisamente sul versante grizzanese; il
rapido guadagno di quota apre alla vista
di un piacevole panorama sulla valle del
Reno e sul maestoso Corno alle Scale, la
più alta vetta dell’appennino bolognese; i
biker invece, per l’impossibilità di seguire
la prima parte del sentiero, salgono lungo
la strada provinciale fino alla loc. Cà
Piretto; si raggiunge la località Poggio
di Carviano per poi entrare nel territorio
del Parco regionale di Monte Sole
percorrendo sentieri ampi e immersi in
una vegetazione traboccante; incontrerete
poi la prima variante che consente di
scegliere alternativamente il sentiero più
lungo per camminatori ESPERTI (monte
Pezza/Poggio di Veggio/Veggio e poi il
I tesori del RENO
ROCCHETTA-MATTEI
Scola, un antico agglomerato di case da
visitare con estrema cura osservandone i
numerosi particolari.
Prima di raggiungere la meta, meraviglia
tra le meraviglie, la maestosa, misteriosa
e indimenticabile Rocchetta Mattei si
paleserà inaspettatamente ai vostri occhi
come in un sogno. Entrati nel paese di
Riola, prima di attraversare il ponte sul
fiume Reno, potrete ammirare la Chiesa
di Alvar Aalto, una originale opera
religiosa del grande architetto finlandese.
Nell’abitato di Riola termina la seconda
tappa a piedi (la prima per i biker),
moderatamente faticosa. Rifocillatevi e
riposate esaurientemente perché vi aspetta
la tappa successiva, Riola-Castel d’Aiano,
tanto selvaggia quanto emozionante e
severa.
paese di Grizzana M.) o quello FACILE e
più breve per raggiungere il capoluogofine
tappa dove sarà possibile visitare, su
prenotazione, i luoghi del pittore Giorgio
Morandi, i Fienili del Campiaro e la Casa-
Museo, rifocillarsi e pernottare. Tappa
breve ma fisicamente impegnativa con un
guadagno di quota di 530 metri.
Grizzana Morandi – Riola
Chiese, Castelli e Borghi (17 km)
Lasciata alle spalle Grizzana Morandi,
si resta sul tracciato pianeggiante
inizialmente asfaltato in direzione sud/
ovest e, nei pressi del Monumento ai Caduti
Sudafricani nella 2° Guerra, alzando gli
occhi in direzione ovest si palesano due
imponenti montagne: il bolognese Corno
alle Scale e il modenese Monte Cimone,
la vetta più alta dell’Appennino Tosco-
Emiliano con i suoi 2.165 metri; il tracciato
entra nei boschi di querce e castagni poi,
superata la frazione di Collina, il sentiero
inizia a salire fortemente e si può godere
di un ampio panorama sulle valli del
Reno e del Setta; pochi ma impegnativi
chilometri ci separano dal massiccio di
Montovolo consentendoci di raggiungere
il punto più alto della seconda tappa (962
metri). Proprio a Montovolo, conosciuto
nell’antichità come la Montagna Sacra,
scoprirete un luogo magico, carico
di mistero, culla di culti arcaici e, dal
XIII° secolo sede di un sacro complesso
cristiano con il Santuario della Beata
Vergine della Consolazione e l’Oratorio
di Santa Caterina di Alessandria.
Un’emozionante belvedere concederà la
vista della valle sottostante e di quasi tutto
il territorio attraversato del Cammino; una
silenziosa e rispettosa sosta consentirà
di entrare in sintonia con un’atmosfera
mistica che catapulta la mente in un
passato remoto enigmatico e segreto con
la presenza, anche qui come altrove,
del Fiore della Vita scolpito sulla pietra.
Inizia da qui la lunga discesa che
attraverserà in sequenza prima le
località Sterpi, con il piccolo ma molto
decorato Oratorio di Santa Maria sulla
Via (visitabile su appuntamento), Predolo,
sede dello scultore Luigi Faggioli e delle
sue opere esposte nel grande prato,
poi Campolo, Vimignano (sede dello
scultore Daniele Pandolfini) ed infine
l’incredibile borgo medievale de La
Ti guardiamo negli
OCCHI.
IL CUORE NEL TERRITORIO
La nostra banca è fatta
di persone con le quali
costruiamo una
relazione di fiducia.
Curiamo la relazione diretta con persone
e imprese per crescere insieme partendo
non solo da obiettivi, ma anche da valori condivisi.
2931
L’AUTUNNO CON EXTRABO
Da ottobre a dicembre con
“Alla scoperta di Ville e
Castelli” tante visite guidate
a dimore storiche, palazzi
nobiliari e borghi medievali
solitamente non accessibili
Dalla Rocca
alla Maison
Testi di Veronica Righetti
La Rocca di Bazzano
Informazioni e prenotazioni
www.extrabo.com | extrabo@bolognawelcome.it | 051 6583109
Il fascino delle Valli Bolognesi si
manifesta anche attraverso le sue
dimore storiche, palazzi nobiliari e
borghi medievali. Con la rassegna “Alla
scoperta di Ville e Castelli”, eXtraBO
apre le porte di luoghi solitamente non
accessibili al pubblico, trasformando
ogni visita in un viaggio nel tempo tra
arte, architettura e storie di famiglie
che hanno segnato la vita del territorio.
Si parte il 12 ottobre con un itinerario
che unisce il Castello di Serravalle
e la Rocca dei Bentivoglio, due
simboli dell’Appennino bolognese
che raccontano storie di battaglie e
strategie politiche, ma anche di vita
signorile e cultura artistica.
Il 19 ottobre è la volta di Villa Marana,
residenza seicentesca immersa in
un parco secolare e custode della
straordinaria collezione barocca di
Francesco Molinari Pradelli: un tesoro
che documenta la pittura italiana ed
europea del Sei e Settecento.
Il 9 novembre il percorso porta
tra le viuzze di La Scola, uno dei
borghi medievali meglio conservati
dell’Appennino, dove torri, caseforti
e passaggi sospesi convivono
con il maestoso cipresso secolare,
in un’atmosfera sospesa tra storia e
natura.
Il 16 novembre si apre invece il
Palazzo Comunale di San Giovanni
in Persiceto, con i suoi affreschi che
attraversano i secoli dal Rinascimento
al Novecento e con l’elegante
Teatro Comunale, autentico gioiello
settecentesco incastonato all’interno
della sede municipale.
Il 14 dicembre l’appuntamento è
con l’Accademia dei Notturni, antica
Villa Ranuzzi Cospi trasformata
nel Settecento in raffinato salotto
intellettuale: una dimora che affascina
per la sua facciata affrescata e i grandi
spazi verdi, e che oggi accoglie
anche un ristorante dove è possibile
concludere la visita con una cena
tipica.
Infine, il 7 dicembre, si entra in un
luogo unico e sorprendente: Paciu
Maison, la casa-opera dell’artista
Harry Baldissera, dove ogni
stanza diventa un’installazione e
un’esperienza immersiva. Una visita
che non è solo culturale, ma anche
emozionale, capace di mostrare come
l’arte possa reinventare lo spazio
abitato.
19 ottobre - Appennino
I weekend
del gusto
22
Paciu Maison
Il 19 ottobre sono in programma due
esperienze alla scoperta dei sapori
montanari. Al mattino un tour in bus
toccherà le aziende Ca’ de Cesari
e Cinti, per una degustazione che
va dal caffè, ai succhi di frutta e alle
confetture. Nel pomeriggio passeggiata
con raccolta di castagne al Castagneto
didattico di Granaglione, seguito da
degustazione di birra Beltaine.
4 ottobre - Monteacuto Ragazza
Sulle tracce
del LUPO
Gli appuntamenti di eXtraBimbi
SULLE TRACCE
DELLE Fate
Il 4 ottobre è in programma “Sulle
tracce del lupo”, un’esperienza
pensata per adulti e appassionati
di fauna selvatica. L’escursione ad
anello lungo la Via della Lana e della
Seta diventa un vero e proprio viaggio
conoscitivo: si imparano a riconoscere
segni di presenza del lupo e di altri
animali, si scoprono le tecniche di
fototrappolaggio e, al termine, ci si
ritrova al ristorante Montagò di per la
proiezione di immagini e video inediti.
A guidare la giornata ci saranno la
Guida Ambientale Giovanni Rossi
e la biologa Antonella Piccirilli
dell’associazione Io non ho paura del
lupo, che arricchiranno l’esperienza
con racconti e approfondimenti
scientifici.
I TOUR
SU MISURA
Oltre al ricco calendario stagionale,
eXtraBO offre anche la possibilità di
organizzare tour privati e personalizzati:
un regalo originale per compleanni,
anniversari o semplicemente per chi
desidera vivere un’esperienza su misura.
Che si tratti di un piccolo gruppo di
amici o di una famiglia, le proposte
possono essere costruite attorno a temi
come natura, gusto o storia, e adattate
alle età e agli interessi dei partecipanti.
Un modo unico per scoprire il territorio
con lentezza e autenticità, trasformando
una giornata in un ricordo speciale.
Con eXtraBimbi i più piccoli diventano
protagonisti di un’avventura che unisce
manualità, gioco e natura. Ogni mese
vengono proposti appuntamenti che
alternano un laboratorio creativo a
un’escursione all’aperto, con l’obiettivo
di stimolare la curiosità dei bambini e
avvicinarli alla scoperta del territorio.
Si comincia il 18 ottobre con il laboratorio
“Spiriti del bosco”, dove i piccoli
partecipanti, ispirati da racconti e leggende,
costruiranno maschere mimetiche con
foglie, rami e ghiande, per immedesimarsi
nelle creature che proteggono la natura. La
settimana successiva, il 26 ottobre, quelle
stesse maschere torneranno utili durante
l’escursione “Nel bosco delle fate”, tra
grotte misteriose, alberi secolari e rocce
dalle forme fantastiche.
A novembre l’attenzione si sposta
sulle tracce lasciate dagli animali: il 22
novembre il laboratorio “Traccia la
traccia” porterà i bambini a sperimentare
con argilla e colori per scoprire i segni del
passaggio di uomini e animali, mentre il
30 novembre l’escursione “Chi è passato
di qui?” li guiderà nell’area protetta della
Bisana, con taccuino e matita alla mano, alla
Fino a novembre tra Bassa e Appennino
FOLIAGE
Con l’arrivo dell’autunno i boschi e
le colline del bolognese si tingono di
sfumature calde e avvolgenti. La rassegna
Foliage (ottobre–novembre) invita a
godere di questo spettacolo naturale con
passeggiate ed escursioni nei luoghi più
suggestivi: dal Corno alle Scale, dove i
boschi d’Appennino si infiammano di
colori, al Parco dei Laghi, che in questa
stagione offre riflessi unici tra acqua e
foreste, fino alla pianura di Sala Bolognese,
con l’Area di riequilibrio ecologico
“Dosolo”, un’oasi di quiete immersa
nelle tonalità autunnali. Occasioni per
camminare, fotografare e respirare il
fascino della natura che cambia veste.
ricerca delle orme degli abitanti dell’oasi.
L’anno si chiude a dicembre con un percorso
dedicato agli alberi: il 27 dicembre il
laboratorio “Un anno tra gli alberi”, ispirato
da un albo illustrato, permetterà a ciascun
bambino di realizzare il proprio albero
legato al mese di nascita, dando vita insieme
a un calendario 2026 speciale. Infine, il 30
dicembre, l’escursione “Simbiosi e altre
piccole opere d’arte nel bosco” condurrà
famiglie e bambini tra i boschi di Loiano,
alla scoperta di presepi, opere di land art
e segni creativi che raccontano il dialogo
millenario tra uomo e natura.
In questo modo, tra racconti, laboratori
e passeggiate, eXtraBimbi trasforma ogni
esperienza in un’occasione di gioco e
crescita, dove i bambini diventano veri
esploratori del territorio e imparano a
guardare il mondo con occhi nuovi.
31
Diamo vita
alle emozioni
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Bologna
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32
APPUNTAMENTI
Dal 12 ottobre al 16 novembre in dodici
Comuni dell’Appennino bolognese torna
la sagra diffusa dedicata ai prodotti del
bosco e al pregiato fungo ipogeo
Tartufesta 2025
Con l’autunno torna, puntuale, anche la Tartufesta: una sagra
diffusa su tutto l’Appenino per celebrare il tanto prezioso
fungo ipogeo. Un evento che si ripete anno dopo anno
con l’obiettivo di valorizzare le eccellenze paesaggistiche,
culturali e gastronomiche dell’Appennino bolognese. Tanti
appuntamenti in altrettanti comuni dell’Appennino per
gustare il tartufo grazie a menù prelibati e degustazioni.
Durante le sagre sono in programma anche gare di cani
da tartufo, escursioni guidate e mercatini di prodotti tipici.
IL CALENDARIO
OTTOBRE
Domenica 12 - Monzuno
Sabato 18 e domenica 19 - Lizzano
Sabato 18 e domenica 19 - Pianoro
Domenica 19 - Monzuno
Domenica 19 - Castiglione dei Pepoli
Domenica 19 - San Benedetto Val di Sambro
Sabato 25 e domenica 26 - Savigno
Sabato 25 e domenica 26 - Sasso Marconi
Domenica 26 - Loiano
Domenica 26 - San Benedetto Val di Sambro
NOVEMBRE
Sabato 1 e domenica 2 - Savigno
Sabato 1 e domenica 2 - Sasso Marconi
Sabato 1 - Grizzana
Sabato 1 - Monghidoro
Domenica 2 - Campolo
Sabato 8 e domenica 9 - Savigno
Domenica 9 - Camugnano
Domenica 9 - Castel di Casio
Sabato 15 e domenica 16 - Savigno
LE ALTRE SAGRE
DELL’AUTUNNO
LIZZANO IN BELVEDERE
Sabato 11 ottobre a partire dalle ore 12:30 in
Piazza della Chiesa a Monteacuto delle Alpi c’è
Autunno diVino.
Domenica 16 novembre a Rocca Corneta si
tiene la tradizionale sagra di San Martino con
stand gastronomici, sfilata dei trattori, musica.
MINERBIO
Sabato 4 e domenica 5 ottobre al Castello dei
Manzoli di San Martino in Soverzano si tiene la
Fiera d’Ottobre
MONGHIDORO
Domenica 9 novembre “San Martino nel
castagneto” presso il castagneto del Casone.
Stand gastronomici, raccolta dei marroni.
ARGELATO
Dal 12 ottobre a Funo di Argelato si tiene la Fiera
d’Autunno
NERO GIARDINI
STONEFLY
CAFE' NOIR
TIMBERLAND
MEPHISTO
MELLUSO
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S.Lazzaro Di Savena
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33
> INSERZIONE PUBBLICITARIA
> INSERZIONE PUBBLICITARIA
“Restanza”:
Nuove vite in in un territorio antico
Per
Per
ogni
ogni
camminatore
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vivere
vivere
l’accoglienza
l’accoglienza
lungo
lungo
la
la
Via
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degli
degli
Dei
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o
o
la
la
Via
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della
della
Lana
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e
e
della
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Seta
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è
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parte
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del
del
viaggio:
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vi
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si
si
incontrano
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persone
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e
e
si
si
ascoltano
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storie
storie
di
di
amore
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per
per
il
il
territorio
territorio
e
e
di
di
tradizioni.
tradizioni.
Si
Si
scopre
scopre
il
il
volto
volto
più
più
bello
bello
e
e
autentico
autentico
della
della
“restanza”
“restanza”
e
e
il
il
gusto
gusto
dell’ospitalità
dell’ospitalità
calorosa
calorosa
tipicca
delle delle terre terre tosco-emiliane.
tosco-emiliane.
tipi-
La La parola parola “restanza” “restanza” indica indica l’atteggiamentgiamento
di di chi chi decide decide di di rimanere rimanere
l’atteg-
in in montagna, montagna, abbracciando abbracciando il il senso senso
di di appartenenza appartenenza a a un un luogo, luogo, talmentte
radicato radicato da da non non ammettere ammettere ab-
ab-
talmenbandonobandono.
L’Appennino tosco tosco emiliano, emiliano, che che
rischiava rischiava lo lo spopolamento, si si è è
adesso adesso arricchito di di tante tante storie storie di di
“restanza”, tra tra chi chi rimane rimane e e trasformma
la la casa casa di di famiglia, chi chi ha ha deciso deciso
trasfor-
di di restare a a vivere vivere ed ed è è riuscito ad ad
immaginare se se stesso stesso nel nel territorio
nonostante le le difficoltà, prendendo
coscienza del del valore e e delle delle potenzialità
del del luogo, ma ma anche di di chi chi ritorna
alle alle origini e e delinea una una nuova
vita vita su su vecchie radici.
Sono molti anche coloro, spesso
anche stranieri, che che decidono di di ini-
ri-
ini-
ziare
ziare
una
una
nuova
nuova
vita
vita
in
in
montagna,
montagna,
rilevando
rilevando
attività,
attività,
aprendone
aprendone
di
di
nuove,
nuove,
tornando
tornando
a
a
lavorare
lavorare
tra
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campi
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e
e
vigneti.
vigneti.
Andiamo
Andiamo
a
a
scoprire
scoprire
insieme
insieme
alcune
alcune
di
di
queste
queste
storie?
storie?
Hanno
Hanno
scelto
scelto
di
di
restare
restare
Francesca
Francesca
e
e
Ivano,
Ivano,
rendendo
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il
il
loro
loro
grazioso
grazioso
bilocalcale
Casanove12 Casanove12 “una “una piccola piccola chic-
chic-
bilocaca”
arredata arredata con con cura. cura.
Casalecchio Casalecchio di di Reno Reno è è per per loro loro casa casa
e e per per questo questo Francesca Francesca ha ha deciso deciso di di
aprire aprire l’attività l’attività dove dove vive vive da da quando quando è è
nata, nata, un un luogo luogo che che ha ha visto visto crescere crescere
e e cambiare cambiare “fino “fino a a diventare diventare la la bellissimsima
città città che che è è ora”. ora”.
bellis-
Il Il loro loro principale principale obiettivo? obiettivo? Un Un ospite ospite
soddisfatto e e accontentato in in ogni ogni
esigenza.
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Elisabetta
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grande
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casa
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famiglia,
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trasformando
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la
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sua
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antica
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dimora
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colonica
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del
del
1700
1700
nel
nel
B&B
B&B
Elisir
Elisir
Tagliaferro.
Tagliaferro.
Una
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location
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completamente
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ristrutturata,
ristrutturata,
con
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un
un
bellissimo
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panorama
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a
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360
360
gradi
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sulle
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colline
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toscane.
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B&B B&B Elisir Elisir Tagliaferro Tagliaferro
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Nella Nella Val Val Bisenzio, Bisenzio, lungo lungo la la Via Via della della
Lana Lana e e della della Seta, Seta, l’atmosfera l’atmosfera del del Nido Nido
della della Rondine Rondine è è quella quella di di una una grande grande
casa casa resa resa viva viva da da una una famiglia famiglia numerosarosa.
Qui Qui Cristina, Cristina, con con la la mamma mamma Ada Ada
nume-
e e l’aiuto l’aiuto prezioso prezioso del del marito marito Ido Ido riceve riceve
gli gli ospiti ospiti con con accoglienza, discrezione
e e disponibilità. Nella Nella grande grande cucina cucina di di
famiglia l’atmosfera è semplice è e rilassatasata:
uno uno sfondo sfondo perfetto per per gustose gustose
e rilas-
colazioni con con il il sapore sapore di di una una volta. volta.
34
Il Nido della Rondine
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Schignano, Vernio (PO)
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+39 347 363 3356
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cristina.rossomandi@gmail.com
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www.viadellalanaedellaseta.com/vaiano-il-nido-della-rondine
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A Casa Le Bandite, nella vecchia
A Casa Le Bandite, nella vecchia
dimora del padre, Lisa ha realizzato
dimora del padre, Lisa ha realizzato
due grandi sogni: accogliere al meglio
gli ospiti in una casa vacanze
due grandi sogni: accogliere al meglio
gli ospiti in una casa vacanze
(che adesso offre anche una piscina
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con acqua salata), e aprire un ristorante,
perfetta location per eventi e
con acqua salata), e aprire un ristorante,
perfetta location per eventi e
matrimoni grazie alla bella vista su
matrimoni grazie alla bella vista su
prati e montagne. Lisa è ben decisa
prati e montagne. Lisa è ben decisa
a “non smettere mai di migliorare,
a “non smettere mai di migliorare,
aggiustare, inventare e sognare!”
aggiustare, inventare e sognare!”
Casa le Bandite - Vernio (PO)
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Tel. + 39 347 3186487
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Federico, aprendo nel 2018 il B&B
Federico, aprendo nel 2018 il B&B
La Dimora dei Folletti, ha recuperato
La Dimora dei Folletti, ha recuperato
un
un
progetto
progetto
di
di
famiglia
famiglia
interrotto
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anni
anni
fa:
fa:
ora
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è proprietario
è proprietario
di
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un
un
luogo
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che
che
per
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lui
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è
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sempre
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stato
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magico.
magico.
Suo
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zio
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Carlo
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desiderava
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che
che
questo
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luogo
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fosse
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visitato
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e conosciuto
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da
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più
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persone
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possibili,
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tutti
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coloro
coloro
che
che
ora
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lasciano
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un
un
pensiero
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o
o
una
una
firma
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sul
sul
quaderno
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degli
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ospiti.
ospiti.
B&B
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Dimora
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dei
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Folletti
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Monzuno
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(BO)
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3465296089
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dimoradeifolletti@hotmail.com
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www.viadeglidei.it/monzuno/b%26b-dimora-dei-follettno/b%26b-dimora-dei-folletti
www.viadeglidei.it/monzu-
L’ L’ idea idea del del b&b b&b accarezzava accarezzava da da temppo
Manuela, Manuela, un’artista un’artista che che divide divide la la
tem-
sua sua vita vita tra tra Vicenza Vicenza e e Madonna Madonna dei dei
Fornelli. Fornelli. Proprio Proprio qui qui ha ha ristrutturato
ristrutturato
la la casa casa ricevuta ricevuta in in eredità eredità dal dal padre padre
e nel e nel 2021 2021 ha ha inaugurato inaugurato la la sua sua nuova nuova
attività. attività.
L’obiettivo L’obiettivo è quello è quello di di unire unire ospitalità ospitalità
e cultura, e cultura, offrendo offrendo ai ai camminatori camminatori la la
possibilità possibilità di di una una art- art- experience experience dedicatdicata
alla alla modellazione della della creta creta e e
de-
nell’acquerello.
Una Una sintesi sintesi tra tra le le sue sue due due “vite” “vite” si si
trova trova già già in in piazza piazza a a Madonna Madonna dei dei
Fornelli: Fornelli: il il monumento dedicato dedicato al al
“Viandante” è opera è opera sua! sua!
B&B Passo dopo Passo
B&B Passo dopo Passo
Madonna dei Fornelli (BO)
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+39 335 7956569
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passodopopasso.vdd@gmail.com
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www.viadeglidei.it/madonna-dei-fornelli/b%26b-passo-dopo-passo
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A volte le storie di vita si assomigliano,
anche se da una parte all’altra
A volte le storie di vita si assomigliano,
anche se da una parte all’altra
dell’Appennino. Sia Lucia (a Vaglia,
dell’Appennino. Sia Lucia (a Vaglia,
sulla Via degli Dei) che Paola (a Vaiano
sulla Via della Lana e della Seta)
sulla Via degli Dei) che Paola (a Vaiano
sulla Via della Lana e della Seta)
hanno ristrutturato la casa di famiglia,
seguendo un progetto radicale
hanno ristrutturato la casa di famiglia,
seguendo un progetto radicale
di cambio vita.
di cambio vita.
Casa Milù è un ambiente storico, fa
Casa Milù è un ambiente storico, fa
parte del complesso rurale “La Spelonca”,
antico magazzino e forno
parte del complesso rurale “La Spelonca”,
antico magazzino e forno
del Convento di Montesenario. Qui
del Convento di Montesenario. Qui
Lucia gestisce anche un home restaurant.
Lucia gestisce anche un home restaurant.
L’affittacamere di Paola è una struttura
degli anni settanta completa-
L’affittacamere di Paola è una struttura
degli anni settanta completamente
ristrutturata e inaugurata a
mente ristrutturata e inaugurata a
luglio 2021, con la nuova denominazione
Le camere di Mario (in ricordo
luglio 2021, con la nuova denominazione
Le camere di Mario (in ricordo
dell’ultimo
dell’ultimo
della
della
famiglia
famiglia
Tacconi).
Tacconi).
I
I
viaggiatori
viaggiatori
sulla
sulla
Via
Via
della
della
Lana
Lana
e della
e della
Seta
Seta
possono
possono
godere
godere
di
di
una
una
vista
vista
panoramica
panoramica
sulla
sulla
Val
Val
di
di
Bisenzio
Bisenzio
e
e
dei
dei
Monti
Monti
della
della
Calvana.
Calvana.
Casa
Casa
Milù
Milù
- Bivigliano,
- Bivigliano,
Vaglia
Vaglia
(FI)
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+39
+39
338
338
5279823
5279823
lucia.telegatto@gmail.com
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www.viadeglidei.it/bivigliano-vaglia/
www.viadeglidei.it/bivigliano-vaglia/
casa-milu
casa-milu
Le Le Camere Camere di di Mario Mario - Schignano,
- Schignano,
Vaiano Vaiano (FI) (FI)
+39 +39 329 329 595 595 5190 5190
lecameredimario@gmail.com
lecameredimario@gmail.com
www.viadellalanaedellaseta.com/
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le-camere-di-mario
le-camere-di-mario
Laura Laura e Riccardo e Riccardo non non sono sono originari originari
dell’Appennino, dell’Appennino, ma ma hanno hanno acquistatto
nel nel 2021 2021 un un mulino mulino in mezzo mezzo al bo-
al bo-
acquistascosco,
con con l’intenzione l’intenzione di di ristrutturarllo
per per trasformarlo trasformarlo nella nella loro loro nuova nuova
ristrutturar-
casa, casa, progettando progettando da da subito subito una una
parte parte dedicata dedicata all’accoglienza.
La La struttura struttura conserva conserva le le sue sue caratteristiche
originarie, originarie, anche anche se se è è
ca-
stata stata resa resa accogliente e funzionale,
e con con vista vista sulle sulle cascate. cascate.
B&B Il Molinello - Loc. Il Molinello -
B&B Il Molinello - Loc. Il Molinello -
Monzuno (BO)
Monzuno (BO)
+39 3939150528
+39 3939150528
ilmolinello.58@gmail.com
ilmolinello.58@gmail.com
www.viadeglidei.it/monzuno/b%26b-il-molinello
www.viadeglidei.it/monzuno/b%26b-il-molinello
Livia e Lorenzo abitano a Brento dal
Livia e Lorenzo abitano a Brento dal
2015, ma solo nel 2024 hanno aperto
il B&B L’Occhio di Adone, accan-
2015, ma solo nel 2024 hanno aperto
il B&B L’Occhio di Adone, accanto
alla loro abitazione principale. Ex
to alla loro abitazione principale. Ex
pallanuotisti che hanno dedicato
pallanuotisti che hanno dedicato
tanto tempo a questo sport, hanno
tanto tempo a questo sport, hanno
sempre sognato di vivere in montagna,
credendo fortemente nel po-
sempre sognato di vivere in montagna,
credendo fortemente nel potere
attivatore della natura stessa e
tere attivatore della natura stessa e
nell’insegnamento che quotidianamente
offre.
nell’insegnamento che quotidianamente
offre.
B&B Occhio di Adone
B&B Occhio di Adone
Brento, Monzuno (BO)
Brento, Monzuno (BO)
+ 39 348 7143293
+ 39 348 7143293
occhiodiadone@gmail.com
occhiodiadone@gmail.com
www.viadeglidei.it/brento/bb-occhio-di-adone
www.viadeglidei.it/brento/bb-occhio-di-adone
Il sogno di Lucia è iniziato nel 2024
Il sogno di Lucia è iniziato nel 2024
con
con
il desiderio
il desiderio
di trasformare
di trasformare
la sua
la sua
casa
casa
in una
in una
piccola
piccola
oasi
oasi
di accoglienza.
di accoglienza.
Da
Da
bambina
bambina
sognava
sognava
di
di
girare
girare
il
il
mondo,
mondo,
da
da
adulta
adulta
ha
ha
deciso
deciso
di portare
di portare
il mondo
il mondo
a casa
a casa
sua:
sua:
“La
“La
dimora
dimora
di
di
Dafne”.
Dafne”.
Ci
Ci
piace
piace
concludere
concludere
con
con
le sue
le sue
parole
che
parole
che
riflettono
riflettono
lo spirito
lo spirito
di ospitalità
di ospitalità
che
che
anima
anima
ogni
ogni
nostro
nostro
operatore
operatore
sulla
sulla
Via
Via
degli
degli
Dei:
Dei:
“Ogni
“Ogni
nuovo
nuovo
ospite
ospite
è una
è una
gioia
gioia
diversa,
diversa,
volti
volti
che
che
forse
forse
incontrercontrerò
una una volta volta soltanto, soltanto, ma ma tut-
tut-
intti
suscitano suscitano l’emozione l’emozione di di un un nuovo nuovo
incontro, incontro, il piacere il piacere dello dello scambio.. scambio..
.cresce .cresce la la consapevolezza consapevolezza che che il nostrstro
mondo mondo è pieno è pieno di persone di persone mera-
mera-
il novigliosvigliose
e il e contatto il contatto con con la natura la natura ci ci
rende rende tutti tutti persone persone migliori.” migliori.”
La La Dimora Dimora di Dafne di Dafne 48 48 - Monzuno - Monzuno (BO) (BO)
+39 +39 392 392 473 473 3951 3951
ladimoradidafne48@gmail.com
www.viadeglidei.it/monzuno/la-dimora-di-dafne-4ra-di-dafne-48
35
TRADIZIONI
Dai falò alla donviccia, le tradizioni secolari
dell’Alta valle del Reno
Il Natale
contadino
Testi di Valentina Fioresi e Gruppo Studi Capotauro
Il periodo natalizio è un momento dell’anno in cui le
tradizioni vengono riscoperte e celebrate, soprattutto
nelle aree montane, dove il legame con la cultura
locale è più forte.
Nella maggior parte dei casi si tratta di atti e
consuetudini antichissime, in tempi più recenti
“inglobate” dal cristianesimo: la religione ha così
cercato di domare (e dominare) gesti tipici del ceto
contadino associati al paganesimo. L’accensione
dei falò, il gesto di apporre simboli solari su cibi e
abitazioni, le questue tipiche del periodo intorno a
capodanno (così come molte altre tradizioni) non
sono in effetti altro che manifestazioni di culti pagani
sopravvissute fino ai giorni nostri.
IL FALÒ
Il fuoco da sempre affascina e contemporaneamente
spaventa l’uomo: questo timore misto a curiosità ha
fatto sì che diventasse un importantissimo mezzo per
contrassegnare momenti di passaggio durante l’anno
o che venisse utilizzato con valenza benaugurale. I
falò venivano accesi nei campi e il fumo che si levava
dall’accensione del fuoco veniva divinato, alla ricerca
di segni e auspici per il nuovo anno.
Con l’avvento del Cristianesimo è diventata tradizione
accendere un falò davanti alla chiesa durante la notte
di Natale, prima della messa di mezzanotte, per
scaldare Gesù Bambino.
Un tempo si andava di casa in casa chiedendo un
vinciólo (un piccolo fascio di bastoncini) cantando
una filastrocca “Vinciolìn, vinciolìn per scaldar Gesù
Bambin!”. Tutti i vincióli venivano raccolti e utilizzati
per accendere il fuoco.
LA FA∫’ÈLLA
Una fa∫’èlla è un tronco di faggio nel quale vengono
praticate verticalmente delle spaccature, riempite di
legnetti, pezzetti di corteccia, pezzetti di assi e altri
piccoli rimasugli di legno. Veniva posizionata vicino
alle porte delle abitazioni e accesa durante la notte del
solstizio d’ inverno (21 dicembre), la notte più lunga
dell’anno. Naturalmente questa scelta non è casuale:
il chiarore della fa∫’èlla, che una volta accesa brucerà
lentamente fino all’alba, ha la funzione di evocare
la luce, allontanando così le influenze negative
portate dal buio. In epoca più recente la fa∫’èlla ha
continuato a venire accesa durante la notte di Natale,
per mostrare a Gesù Bambino la fede degli uomini.
Non tutti i paesi del Belvedere condividono allo
stesso modo questa usanza, perpetrata principalmente
nelle frazioni di Pianaccio, Monteacuto delle Alpi e
Vidiciatico.
LA DONVICCIA
Il 5 gennaio, vigilia dell’Epifania, a Vidiciatico era
tradizione che i maschi adulti del paese (donne
e bambini erano esclusi, così come erano esclusi
dall’usanza di “dare il buon anno” a Capodanno)
andassero di casa in casa chiedendo offerte di cibo,
portando in cambio auguri di abbondanza. Come
36
DA FARE
DURANTE LE FESTE
ZOLA PREDOSA
Venerdì 6 dicembre accensione delle luminarie e
mostra di presepi in occasione della festa di San
Nicolò.
Da venerdì 6 a lunedì 8 dicembre mercatini di
natale a Villa Edvige Garagnani
Il 6 gennaio (nel pomeriggio) la befana arriva nella
sala dell’Arengo, in municipio.
SASSO MARCONI
Dall’11 al 14 dicembre a Villa Davia (Pontecchio
Marconi) “Riuse with love”, mercatini dell’usato
Domenica 14 dicembre mercatini di natale,
stand gastronomici, intrattenimento con
“Christmas road”
Lizzano in Belvedere
Sabato 22 e domenica 23 novembre; sabato 29
e domenica 30 novembre; sabato 6, domenica
7 e lunedì 8 dicembre dalle ore 10:00 alle ore
18:00 presso la canonica in Piazza della Chiesa
a Monteacuto delle Alpi si terrà il Mercatino di
Natale
MONGHIDORO
Lunedì 8 dicembre “Festa d’inverno” a Ca’
del Costa con stand gastronomici, mercatino e
mostra di presepi
MARZABOTTO
Domenica 30 novembre Gardeletta diventerà un
distaccamento del Polo Nord, popolandosi di Elfi e
ospitando La Casa di Babbo Natale, la fattoria degli
Elfi e tante altre soprese.
L’8 dicembre accensione dell’albero di Natale,
stand gastronomici, mercatino, laboratori per
bambini
Domenica 14 dicembre festa di Natale a
Medelana
Il 24 dicembre, dalle 18:00 alle 23:00. Alla Chiesa
di San Lorenzo di Panico “Presepe vivente”.
Da Domenica 7 dicembre al 5 gennaio si terrà la
mostra dei presepi presso la Chiesa di Santa Maria
Assunta di Luminasio. Aperta tutti i weekend.
Dal 26 dicembre al 6 gennaio a Sibano sarà
possibile ammirare il Paese dei Presepi.
BENTIVOGLIO
A dicembre, a Villa Smeraldi, “Open day del gusto”
di Natale
NELLA BASSA
A inizio gennaio a San Matteo della Decima, San
Giovanni in Persiceto e Crevalcore appuntamento
con i tradizionali “Roghi delle Befane”
nel caso della raccolta dei vincióli anche per la
“Donviccia” veniva cantata una filastrocca:
«Siamo giovani pellegrini, senza pane e senza
quattrini; noi giriamo di qua e di là, sian pietosi chi
ce la fa. Donviccia, pane e sonsiccia [salsiccia]!».
Una buona offerta veniva seguita da auguri benevoli,
un rifiuto da insulti di vario genere come «Scurià,
scurià! » (Frustate, frustate!) o “Pulci e pidocchi ti
saltino agli occhi”: inutile aggiungere che quasi tutti
donavano qualcosa ai questuanti! Questo rito ruota
intorno all’importanza del cibo, un tempo presenza
non sempre scontata, soprattutto sulle tavole dei
contadini. Le offerte, la raccolta e la condivisione di
cibi e bevande faceva sì che tutti potessero mangiare
qualcosa, augurandosi contemporaneamente di poter
vedere tempi migliori. Oggi la Donviccia viene ancora
praticata, per perpetrare la memoria delle tradizioni.
BABBO NATALE E LA BEFANA
La befana, Gesù Bambino e Babbo Natale sembrerebbero
avere ben poco da spartire, in realtà hanno una
caratteristica che li accomuna: tutti e tre portano doni.
La befana porta regalini e dolcetti ancora oggi, ma
un tempo queste offerte (rappresentate soprattutto da
frutta secca o mandarini) servivano più che altro a
farsi benvolere dagli antenati defunti, rappresentati
appunto dalla befana. Nel Belvedere un tempo anche
Gesù Bambino recava piccoli doni ai bambini, che
esprimevano la loro devozione e obbedienza recitando
in chiesa piccoli “sermoncini” a Lui dedicati. Gesù
Bambino ha continuato a portare regali fino a circa
50 anni fa, quando pian piano è stato “soppiantato”
da Babbo Natale, un personaggio moderno che deve
comunque la sua origine a culti pagani prima e al
Cristianesimo poi (nella figura di San Nicola).
37
LA nostra sTOria
L’antico borgo di Giugnola,
al confine tra Emilia, Romagna
e Toscana, rivive in centinaia
di piccole sculture realizzate
da Renato Ferri-Gasperini
Memoria
in TERRACOTTA
Testi di Paolo Spedicato
Giugnola è un borgo di alta collina
sull’Appennino tosco-romagnolo. è una
specie di “finisterre”, un territorio di
frontiera sospeso tra due regioni, Emilia-
Romagna e Toscana, e due comuni:
Castel del Rio in provincia di Bologna
e Piancaldoli appartenente a Firenze.
Questa peculiarità l’ha accompagnata
lungo i secoli della storia, segnati dalla
vicina strada militare romana Flaminia,
da alterne vicende di lotte tra famiglie
feudali nel Medioevo e soprattutto dal
vicinato geo-politico tra il potere dello
Stato Pontificio nella parte emilianoromagnola
e quello dei Granduchi
toscani Asburgo-Lorena fino alla prima
metà dell’800. La vicinanza alla Linea
Gotica negli anni della guerra 1943-45
ha visto all’opera nel suo territorio la lotta
resistente della 36° Brigata Garibaldi
“Bianconcini” attiva nell’Appennino
Renato Ferri-Gasperini
imolese-faentino, e con la partecipazione
di membri della stessa famiglia Gasperini
originaria della zona. Ancora oggi un
monumento ricorda la battaglia di Ca’
di Guzzo (27-28 settembre 1944) e il
sacrificio di numerosi partigiani.
Sono ben visibili i segni della contiguità
dei due stati confinanti per la presenza
di una doppia dogana: quella pontificia,
oggi restaurata, in località Doccia, e
quella granducale in località Mercurio.
Riconoscibili altresì sono un Palazzo
dei Doganieri e una caserma delle
Guardie. Le tracce di una fiscalizzazione
quasi eccessiva colpiscono ma non
stupiscono a causa dell’annoso fenomeno
del contrabbando di frontiera, che si
serviva anche di cunicoli e di passaggi
segreti di casa in casa. Di questa antica
professione è rimasta a otto chilometri da
Giugnola, verso il Passo della Raticosa, la
testimonianza di una fontana, la cosiddetta
Busa di Ledar, intorno alla quale avveniva
la spartizione delle merci contrabbandate.
Renato Ferri-Gasperini ha alle spalle
una vita professionale di geometra nella
Bologna dove vive con la famiglia, ma le
sue radici son ben salde nella Giugnola
della madre Lina Gasperini, nata nel
1912 da genitori emigrati a Landsberg,
Germania, e nella vecchia casa di famiglia,
chiamata sgatera, toponimo che la indica
come appoggiata su un costone del fiume
Sillaro, ossia un crinale arenaceo.
Nel 1991 Renato decide di costruire con
un po’ di creta un presepe in miniatura
per la figlia bimba di dieci anni. Si inventa
letteralmente una tecnica di cottura
usando una stufa a legna, e la magia,
complici i ricordi, comincia a prendere
forma. Dal presepe fanciullesco il lavoro si
sposta alla ricostruzione dell’intero borgo:
case dei vicini e dei parenti, chiesetta, i
caratteristici purgazi o portici a galleria che
collegano le case con le rustiche panche
su cui si ritrova la gente per le chiacchiere
quotidiane; ma anche la cultura materiale
del borgo di montagna prende vita con la
miniaturizzazione degli oggetti di lavoro
in casa e fuori, le pipe, l’attrezzatura per
andare a pesca, la valigia legata con lo
spago, un ombrello, una pila di libri…
“Dopo quel presepe - ricorda Ferri-
Gasperini - ho capito che avrei potuto fare
le case del paese d’origine di mia madre.
Cominciai a fare la casa del fabbro Enea,
la buferina, il mulino della Madonna e
così via. Prima le interiorizzavo, poi le
disegnavo, le rilevavo scrupolosamente,
le foggiavo e le cuocevo nel forno di
Nepoti, in via della Beverara. Facevo tutto
ciò che aveva segnato la mia infanzia in
quei luoghi montanari dove la civiltà
contadina si era fermata. Poi venne la
crisi, nel 2008, del lavoro vero e per
non perdere l’autostima ho cominciato
a produrre di tutto e di più e, senza
rendermene conto, ho fatto circa 1100
pezzi, che ora sono esposti in una piccola
mostra nel cuore di Giugnola. Ora non
produco quasi più per sopravvenuti
acciacchi ma quello che ho fatto non si
cancella si può vedere e offrire ai giovani
che verranno”.
Per il momento, le sculture di Ferri sono
conservate in un luogo privato (ma
accessibile previo contatto con l’autore:
ferrirenato1948@libero.it) in attesa che
termini la ristrutturazione del Mulino
della Madonna di Giugnola dove poi
verranno esposte al pubblico.
38
LA nostra sTOria
Penna, inchiostro e calamaio:
a Castello d’Argile rivive
l’aula scolastica di un tempo
Sui banchi
come
nell’800
Testi di Gian Paolo Borghi
Su lodevole iniziativa del
Comune, a Castello d’Argile è
stata ricostruita un’aula scolastica
d’epoca all’interno della locale
Scuola Primaria Don Bosco, in
uno specifico spazio individuato
nell’ambito di un piano di restauro di
quella struttura. L’iniziativa culturale
costituisce un simbolico “ponte” tra
passato e futuro, a memoria della
conquista di un fondamentale diritto
all’istruzione, progressivamente
realizzato grazie ai processi di
alfabetizzazione di massa realizzati
tra la seconda metà dell’800 e i
primi decenni del ‘900 e proseguiti
nei successivi anni ’50 per adeguare
i livelli conoscitivi alle esigenze dei
nuovi tempi.
Base per la programmazione del
progetto si è dimostrata una efficace
ricerca condotta dalla storica Magda
Barbieri, che, in collaborazione
con la Biblioteca comunale,
ha realizzato una specifica
pubblicazione in occasione delle
celebrazioni del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia (Castello d’Argile
dall’analfabetismo alla scuola per
tutti. Un percorso lungo 150 anni),
alla quale ha fatto seguito, sempre
a cura della medesima ricercatrice,
una relazione a uno specifico
convegno di studi, curato da Mirella
d’Ascenzo, dal titolo Tutti a scuola?
L’istruzione elementare nella pianura
bolognese tra Otto e Novecento
(Clueb, Bologna, 2013).
La fase realizzativa dell’aula d’epoca
ha visto il coinvolgimento di un
gruppo di volontari che ha dato
avvio a una condivisa campagna di
ricerca e di raccolta che ha coinvolto
tutta la cittadinanza. Grazie ai social,
hanno peraltro aderito anche persone
di altri paesi e della stessa città di
Bologna.
Il lavoro ha progressivamente
condotto al recupero di materiali
di rilevante valenza documentaria
che in sintesi possono così essere
elencati: banchi e arredi d’epoca,
libri, quaderni scolastici, fotografie,
cartelloni e giochi didattici, carte
geografiche, fotografie di scolaresche
e di singoli scolari, memorie scritte e
orali di scolari e insegnanti, filmati,
penne, pennini e matite, cartelle,
inchiostro ecc.
L’aula d’epoca si è fin da subito
dimostrata in grado di ospitare
visite guidate, occasioni di incontro
e di confronto su tematiche sia
storiche sia del nostro tempo, in
omaggio a quella scuola che tanto
ha contribuito all’istruzione locale.
Nello stesso tempo, si sta pure
traducendo in “osservatorio” per
lo studio dell’evoluzione culturale
novecentesca di un territorio,
finalizzato al monitoraggio della
didattica per le future generazioni.
L’aula d’epoca prevedrà una apertura
straordinaria senza prenotazione la
prima domenica del mese di ottobre
per la Fèsta d’Èrzen (Festa d’Argile).
Per le visite ordinarie, vi si può
accedere con prenotazione scrivendo
alla e-mail cultura@renogalliera.it o
telefonando al numero di cellulare
334 3457691 (anche Whatsapp).
39
LA nostra sTOria
Morte, orrore e mistero nella
Bologna dell’Ottocento
IL DELITTO
SPISANI
Testi di Claudio Evangelisti
Bologna alla fine dell’Ottocento
è una città in pieno sviluppo
economico, urbano e sociale. Ma
fra le sue strade si moltiplicano
le rapine, gli omicidi, i furti e i
ferimenti, riportati quotidianamente
sui giornali. Gli abitanti, al calar
della sera, si rinchiudono nelle loro
case e le strade vengono illuminate
dalla flebile luce delle finestre
che si rinchiudono non appena si
odono rumori sospetti, lasciando
al buio lo sventurato viandante,
delinquente o innocente che sia.
La TESTA di una donna
GALLEGGIA sul Reno
Il 21 gennaio del 1874 un terribile
delitto funestò l’intera città. Verso
l’imbrunire, un birocciaio di nome
Pietro Barozzi mentre si accingeva
a caricare la ghiaia lungo le sponde
del Reno, fuori di porta San Felice,
intravide una sagoma nera sopra
un banco di sabbia. Credendo
si trattasse di un cane morto, si
avvicinò. Il suo raccapriccio fu tale
che emise urla strazianti: era un capo
di donna decapitato dal corpo, col
viso rivolto verso terra. Coi capelli
nerissimi sparsi, raggrumati, gli occhi
stralunati pareva la testa di Medusa.
Accorse gente e accorsero le guardie:
poco dopo risalendo il corso del
fiume si trovò il resto del cadavere.
Il corpo fu portato all’ospedale della
Vita. La misera donna assassinata
fu ben presto riconosciuta per Rita
Spisani, scomparsa da qualche
giorno. L’infelice così macellata
d’anni 36, nubile, era abitante in via
Miola 1068 (ora via Farini) ed era
la governante dell’ingegnere belga
Giovanni De Rechter, dimorante in
Palazzo Pepoli e proprietario della
miniera di Paderno. Sulla Spisani
immediatamente cominciarono a
girare notizie reali ma più spesso
di fantasia, tra cui quella di essere
conosciuta in città per essere stata
cameriera di classi agiate, ma che
ultimamente aveva impiantato un
laboratorio di sartoria nella casa
dove serviva. Era ritenuta confidente
di persone illustri e si vociferava che
conservasse due bisacce in cui si
diceva fossero presenti documenti
compromettenti su parecchi
personaggi altolocati. Tali documenti,
contenuti in una borsa che la donna
portava sempre con sé, non furono
però ritrovati. La Spisani in gioventù
fu per qualche tempo suora di carità,
ma durante la visita fatta anni prima
dalla Superiora generale di Parigi
venne invitata ad abbandonare
l’ordine.
Lunedì mattina uscì dicendo alle
ragazze di laboratorio che sarebbe
rientrata dopo pochi minuti e
non si vide più. A detta di una
sua conoscente, aveva lasciato
all’improvviso la camera dopo la
lettura di una lettera, che non fu mai
trovata, abbandonando gli orecchini,
senza chiudere i mobili, senza
pettinarsi, raccogliendo i capelli
entro una reticella di seta.
LA CRONACA DELL’EPOCA
Come era d’uso nei quotidiani d’epoca,
i particolari più raccapriccianti
vennero gettati in pasto agli avidi
lettori. Si parlò di un’accurata autopsia
eseguita all’Ospitale della Vita dai più
celebri uomini dell’Istituto medico
alla presenza dei più alti ministri
della legge. La morte fu causata con
stilettate nelle spalle e nella schiena.
Particolare di rilievo: tutti i grossi vasi
sanguigni erano privi di sangue tanto
che si opinò che il corpo e la testa
fossero stati tenuti a sgocciolare. Negli
abiti e nella biancheria, attorno al
collo, non si trovarono tracce alcune
di sangue, cosicchè era a dirsi che la
decapitazione fosse stata preceduta
da un denudamento. La veste era di
lana colore marrone: in tasca furono
rinvenute alcune dichiarazioni di
ricevuta di gioie appartenenti a un
fantomatico signor T.
Diverse le segnalazioni di testimoni.
Raffaele Trevisi, servo di casa
Bentivoglio mentre raggiungeva via
Castagnoli notò nella notte tra il 19 ed
il 20, verso le ore 1.30 del mattino,
giungere a gran trotto un biroccino
che riconobbe essere della famiglia
De Rechter; che svoltava all’angolo
del Teatro Comunale diretto verso via
Moline. Vi riconobbe alla guida un
certo Enrico Galavotti, servo anche
lui della casa in cui era governante
40
Bologna
Canale Reno - originebologna.com
la Spisani. Sulla predella del veicolo
poggiava l’estremità di un grande
sacco che giungeva fino alle spalle
del guidatore, coprendolo con i lembi
della “capparella” (mantello). Altra
testimonianza. Eugenia Ferri dichiarò
di avere udito, stando a letto, tre gridi
disperati di donna verso le ore 8. La
Ferri non ebbe dubbi quando furono
ritrovati i resti della Spisani: l’assassino
della sarta non poteva che essere che
il Galavotti, che sapeva avere una
tresca amorosa con la Spisani, e che
considerava uomo pericoloso.
Solo il 26 gennaio il Galavotti venne
arrestato: nato il 9 marzo 1840 a
Bologna, non era individuo troppo
raccomandabile: era anche l’amante
della Marchesa Pio Lamm, più volte
condannato per furto ed ammonito dalla
polizia. Presto risultò dalle indagini,
che il Galavotti poteva essere ritenuto
l’assassino della Spisani, e che la
povera donna, la quale spesso si recava
in scuderia per appuntamenti amorosi,
era stata colpita alle spalle e decapitata
quando ancora non era morta. Nella
stalla si erano trovate numerosissime
tracce di sangue e perfino una parte
della reticella che raccoglieva i suoi
capelli. Ma per quali ragioni il Galavotti
aveva compiuto un così efferato delitto?
Si disse che doveva dei soldi alla
Spisani; si disse che voleva derubarla;
ma l’opinione pubblica non ne fu mai
convinta; circolarono poi voci che la
Spisani aveva abusato della fiducia
di potenti persone di cui conosceva
terribili segreti. Tali documenti,
contenuti in una borsa che la donna
portava sempre con sé, non sono stati
però ritrovati. Da qui il sospetto che vi
sia stato un mandante della Bologna
bene che abbia istigato il delitto e che
la povera donna sia stata decapitata per
ingarbugliare le indagini.
Il processo e la condanna
Il processo ebbe inizio quindici mesi
dopo il delitto cioè il 12 aprile 1875,
nell’ex convento dei Barnabiti. Mai
un processo aveva maggiormente
interessato i bolognesi. Il Galavotti
si presentò disinvoltamente: era un
individuo magro dal viso lungo e
pallido, dagli occhi grigi infossati,
indossante un paletot turchino, calzoni
a scacchi bianchi e neri, con le mani
impegnate a sostenere il cappello a
tuba. Galavotti si mantenne sempre
nella negativa e fu splendidamente
difeso dal famoso avvocato Giuseppe
Ceneri e da Busi che gli salvarono
la testa (esisteva allora la pena di
morte). Sulla colpevolezza come
omicida della Spisani la giuria non
ebbe dubbi, ma per quanto riguarda
il quarto capo di imputazione che lo
incolpava dell’omicidio a scopo di
furto, la giuria rispose negativamente.
E quindi quale era il vero motivo? Il 21
aprile Enrico Galavotti che durante il
processo si dichiarò sempre innocente
fu condannato ai lavori forzati: non
battè ciglio alla lettura della sentenza.
Qualche mese dopo il 4 agosto di quel
medesimo anno, a Nisida il cocchiere
assassino moriva di tisi (anche durante
il processo sputava sangue) portandosi
nella tomba il segreto di quel delitto,
mentre ancora erano esposti nei
negozi, a distanza di tempo dal
verdetto, il suo ritratto insieme a quello
della sua vittima. Rita Spisani venne
tumulata nel cimitero della Certosa e
successivamente i resti furono collocati
in un ossario comune.
Fonti: Museo del Risorgimento, Storia
e memoria di Bologna
41
PERSONAGGI
Figlio di un oste di Casalecchio, verso la fine dell’Ottocento
divenne uno dei tenori più ricercati del mondo. Morì
suicida a soli 42 anni dopo la scomparsa della sorella
ENRICO GIORDANI
Testo di Adriano Bacchi Lazzari
Questo artista lirico che i compositori
di fine Ottocento letteralmente
si litigavano per la sua sensibilità
interpretativa, era un uomo delicato,
sensibile che amava la sua famiglia
di origine, non si era mai sposato, e
soprattutto la sorella che addirittura
idolatrava. La famiglia era composta
dal padre Giovanni, originario di
Casalecchio di Reno di professione
oste, dalla mamma Garavini Maria
Luigia casalinga e di tre figli: Teresa,
Enrico e Gaetano. Abitavano in via
Mascarella al n.83
I cronisti dell’epoca affermano che
Enrico era di carattere faceto, allegro,
affabilissimo, sempre pronto allo
scherzo. Nonostante questa sua
spensieratezza fu talmente colpito
dalla morte dell’amata sorella che
decise di togliersi la vita. Si trovava
in America, impegnato su importanti
palcoscenici, quando venne raggiunto
da un cablogramma che annunciava la
morte della sorella. Subito partì per la
volta di Bologna dove perpetrò il suo
progetto che noi oggi definiremmo
“insano” ma che, per lui, rappresentava
la sola via d’uscita. A 42 anni ha voluto
togliersi la vita, che per lui significava
lasciare per sempre l’ammirazione
dei pubblici di tutti i teatri, l’affetto
generale di chiunque lo conoscesse e
la stima dei compositori di opere come
Puccini.
Chi ama la lirica e i suoi personaggi
non può restare indifferente a questo
tragico evento accaduto 120 anni fa,
è impossibile. Infatti anch’io ho fatto
infinite ricerche e ho trovato il certificato
di morte, la tomba e parecchie notizie.
Sono così riuscito a ricostruire la sua
vita artistica e le sue creazioni.
Già, le sue creazioni. Vi ricordo quelle
del “campanaro” Sgalisa nell’opera
“Cristo di Valaperta” del Maestro
Brunetto data al Lirico di Milano
nel 1894, l’Incredibile nell’Andrea
Chénier di Giordano, lo Spoletta nella
Tosca di Puccini, l’Abaten ell’Adriana
Lecouvreur di Cilea, lo Spallanzani nei
Racconti di Hoffmann di Hoffenbach
e del Mirronedella “Messalina” di De
Lara messa in scena a Piacenza nel
1904. E questa fu l’ultima creazione del
nostro Giordani.
Ho detto che i compositori letteralmente
si litigavano le sue partecipazioni perché
sapeva rappresentarli come essi stessi
immaginavano quei personaggi spesso
inventati dai librettisti. La sua sensibilità
era ritenuta proverbiale. I personaggi da
lui interpretati erano spesso secondari
ma in quelli era ritenuto il migliore.
Enrico Giordani è sepolto alla Certosa
di Bologna nel Pilastro n. XLV del
Campo Nuovo (nel 1922 hanno
invertito la numerazione che ora inizia
dal lato di San Luca, pertanto il pilastro
attualmente, da chi entra dalla parte
della chiesa, è il n. VII) vicino a lui la
sorella e la mamma.
Purtroppo sono riuscito a decifrare solo
una parte della scritta perché il tempo,
l’acqua e il sole l’hanno praticamente
cancellata: si legge solo che gli amici
posero….
I suoi dischi sono ultra-rari e
quasi introvabili, io sono riuscito
a trovarne uno dopo oltre 60 anni
di collezionismo. È un Columbia
Phonograph con afacciata singola,
il cui ascolto è un po’ precario ma,
anche se solo a tratti, si può notare la
sua natura musicale e il pieno possesso
delle facoltà tenorili.
Purtroppo è l’unico ascolto che posso
proporvi ma credetemi, avete avuto
un vero privilegio: ascoltare la voce di
Giordani è un vero evento.
Finisco con le parole di un giornalista
dell’epoca: nella sua spensieratezza
s’annidava, dunque, la disperazione.
Povero signor Giordani!
Diventa un punto di distribuzione
della rivista
Puoi contattarci al numero 379 113 5432 o scrivere
una mail a: distribuzione.vallibolognesi@gmail.com
per sapere come diventare un punto di distribuzione
42
RICEVERAI LE COPIE RICHIESTE DA CONSEGNARE AI
TUOI CLIENTI
PERSONAGGI
Soprano sopraffino, a inizio ‘900 ha girato i teatri di
tutta Europa. Ritiratasi dalle scene si dedicò con passione
all’insegnamento
ALBERTINA CASSANI
Testo di Adriano Bacchi Lazzari
Cantante bolognesissima, abitava in
via Nosadella poi si trasferì in via
Saragozza in un appartamento più
grande dove poteva meglio impartire
le sue pregiatissime lezioni di canto.
La Cassani ha avuto, nella sua vita,
due grandi momenti: fu allieva
del grande Achille Corsi e maestra
dell’altrettanto bravo, simpatico e
mai abbastanza rimpianto Gianni
Raimondi. Da Achille Corsi (nato
a Legnano nel 1840 e spentosi a
Bologna il 15/4/1906) Albertina
Cassani aveva appreso la tecnica
e lo stile dei cantanti dell’800 che
poi avrebbe trasmesso, riveduto e
corretto, al nostro Gianni Raimondi.
Ricordo che Achille Corsi era padre
di Emilia, soprano tra i più affermati
dell’epoca e di Carlo, forse il pittore
bolognese dell’800 più insigne.
Albertina apprende tecnica, musica
e spartiti molto rapidamente tanto
che fra i 17 e 18 anni può debuttare
al Teatro Sociale di Portogruaro nella
Carmen di Georges Bizet nel ruolo
sopranile di Micaela. Il successo
personale della giovanissima
Albertina è di quelli che determinano
subito il grado di appartenenza: era
nata una stella della lirica.
Dal ferrarese approda al Balbo di
Torino e al Municipale di Modena.
Canta in molti teatri ma è nel 1912, a
25 anni, che affronta il difficile ruolo
di Traviata. Inutile dire che Violetta
diventerà un suo cavallo di battaglia
tanto fu l’impressione che destò in
critica e pubblico.
Dal 1924 inizia anche la carriera
internazionale come il debutto
al Teatro Real di Madrid proprio
in Violetta dalla Traviata di Verdi
accanto a Miguel Fleta e il baritono
Celestino Sarobe. Anche questo
esame lo supera a pieni v0ti e la
brillantissima carriera prosegue con
successi ininterrotti. Il giornale “La
Rassegna Melodrammatica” che
ho esposto qui davanti celebra un
successo senza eguali al Teatro Verdi
di Padova in Traviata. In maniera
molto colorita l’autore finisce per
dire che un trionfo simile, in quel
teatro, non era mai stato raggiunto
da nessuno prima.
Albertina ha cantato con tutte le
celebrità della sua epoca, basti
pensare a Miguel Fleta, Riccardo
Stracciari, Galliano Masini,
Dino Borgioli per citarne alcuni.
Celebrità tra le celebità. Questa era
un’autentica legge del palcoscenico.
Io chiesi a Gianni Raimondi quello
che la Cassani diceva di Miguel
Fleta. Lui mi disse che la maestra
era ancora in estasi e rapita dalla
personalità di Fleta. Diceva che
cantare con lui era come toccare il
cielo con un dito!
Ha avuto una carriera lunga e
senza parentesi negative perché
non ha mai tradito la sua vocalità
cantando opere a lei inadeguate. La
sua voce era chiara e brillante ma
era con la ricchissima tavolozza di
colori che conquistava i pubblici.
Ritiratasi dalle scene si dedicò con
passione all’insegnamento. Ha avuto
tantissimi allievi ma uno su tutti
Gianni Raimondi, che non ha mai
lesinato onori e lodi alla sua maestra.
L’AUTORE
Adriano Bacchi Lazzari è tra i più
noti collezionisti di dischi a 78 giri
di lirica e musica leggera. Ha scritto
articoli biografici di cantanti lirici
bolognesi pubblicati sulla rivista
inglese “The Record Collector”
e da anni collabora con il sito
“La voce antica”, per le ricerche
discografiche e biografiche.
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43
la nostra sTOria
La vita di Arcangelo a cui Papa Benedetto XIV
(il bolognese Prospero Lambertini) conferì il
titolo di beato
Quella faida
medievale
tra i Canetoli
e i Bentivoglio
Arcangelo Canetoli in un dipinto
di Luigi Crespi (XVIII secolo)
Testo di Gianluigi Pagani e Giuseppina Bergamini
La storia della famiglia Canetoli, a partire dal XIV secolo,
si intreccia con quella della famiglia Bentivoglio, nella
lotta per il predominio su Bologna. Dato che la storia la
scrivono i vincitori, i Canetoli sono sempre stati ritenuti
“una famiglia ribelle”, con i componenti esiliati da
Bologna, essendosi opposti al predominio dei Bentivoglio.
Queste due famiglie non erano nobili e si erano entrambe
arricchite attraverso le attività economiche e commerciali,
anche se i Canetoli potevano vantare un’aristocrazia
conquistata sui campi di battaglia, all’epoca delle Crociate.
Il loro stemma rappresenta tre canne di canapa in bocca
ad un cane di aspetto feroce. Era proprio quella canapa
coltivata nei loro terreni di Trebbo e Ponte Poledrano.
Le grosse corde che si ottenevano dalla sua lavorazione
erano indispensabili sia nell’edilizia per la costruzione dei
palazzi, sia sulle navi per il cordame delle vele.
Nel 1416 i Canetoli giungono sulla scena politica di
Bologna quando Antongaleazzo Bentivoglio, figlio di
quel Giovanni massacrato 15 anni prima, guidò l’assedio
al palazzo comunale con alleati i Gozzadini, i Ghisilieri
Iacopo della Quercia, Sepolcro di Anton Galeazzo
Bentivoglio, 1438, Chiesa di San Giacomo Maggiore
La famiglia Bentivoglio
e gli stessi Canetoli. Ma era un’alleanza debole, e
Antongaleazzo non si fidava di Matteo Canetoli. Il 26
gennaio dello stesso anno, infatti, i Canetoli furono esiliati
da Bologna e Matteo, da lì a poco, morì cadendo da
cavallo, anche se qualcuno mormorava essere stato ucciso
da un sicario. Dopo l’esilio e dopo la distruzione del loro
palazzo, la famiglia Canetoli cadde quindi in disgrazia.
Cercando tra i tesori custoditi nell’Archivio di Stato di
Bologna, è stata fatta una scoperta di grande interesse:
un testo con la descrizione dell’assassinio di Annibale
Bentivoglio, signore di Bologna, avvenuto il 24 giugno
1445 al termine di una funzione religiosa tenuta nella
cattedrale di San Pietro. Le coltellate che lo uccisero
furono di Bettozzo Canetoli, uno dei capi della storica
famiglia “rivale”.
Un altro personaggio della famiglia viene però ricordato
in tutta Italia. Parliamo del beato Arcangelo Canetoli,
nato a Bologna del 1460 e morto a Gubbio nel 1513.
Arcangelo da bambino aveva subito le amare vicissitudini
della rivalità fra i Canetoli e i Bentivoglio, ed ancora
fanciullo era sopravvissuto in modo provvidenziale allo
sterminio dell’intera famiglia. Proprio per espiare questi
tragici avvenimenti, da giovane era poi entrato fra i
canonici regolari di Santa Maria di Reno detti ‘Renani’.
Questo era un ordine monastico che seguiva la Regola di
S. Agostino e cercava di unire “…l’impegno apostolico a
favore del Popolo di Dio con l’ideale contemplativo, per
crescere nella comunione intima con Gesù, alimentando
la devozione verso la Beata Vergine Maria, Madre del
Salvatore e verso i Santi Canonici”, come recita lo statuto.
Compiuto il periodo di noviziato, fu destinato al convento
di S. Salvatore di Bologna, dove ricevette l’ordinazione
sacerdotale. Ben presto chiese di essere trasferito, poiché
la continua presenza di pellegrini e di ospiti non gli
44
Bologna
Ginevra Sforza e Giovanni II Bentivoglio, terracotta
dipinta, 1889, Palazzo Pepoli Vecchio a Bologna
permetteva il raccoglimento interiore e la meditazione.
Andò quindi a Gubbio, dove l’Ordine ha sempre avuto un
monastero sul Monte Ingino, per onorare S. Ubaldo (1095-
1160) cittadino eugubino, vescovo e riformatore della vita
canonicale, ed un altro monastero sulle falde del Monte
Foce (Calvo), nell’antico eremo di S. Ambrogio, dove è
custodito il corpo incorrotto dello stesso beato Arcangelo
Canetoli (1460-1513).
Durante la sua esistenza, per l’estrema umiltà e per
l’amore della solitudine e della preghiera, il beato
Arcangelo rinunciò ad ogni dignità ecclesiastica. Dopo
essere diventato sacerdote, dal 1498 visse nel convento
di Sant’Ambrogio di Gubbio, amato e venerato sia dagli
umili che dai potenti, fra cui proprio gli Acquisti di Arezzo
e i Medici di Firenze.
Della sua vita conosciamo tanti avvenimenti, perché un
frate suo amico ha tenuto un diario con tutti i miracoli
ed i fatti principali. È morto il 16 aprile 1513 ed il corpo
incorrotto è tuttora venerato a Gubbio. La sua festa è
la seconda domenica di luglio e ancora oggi gli eredi
bolognesi dei Canetoli vanno a Gubbio, vicino all’altare e
al Vescovo, a rendere omaggio al loro parente. Il cardinale
bolognese Prospero Lambertini, testimone oculare della
diffusione del suo culto, divenuto Papa con il nome di
Benedetto XIV, il 2 ottobre 1748 gli conferì il titolo di
‘beato’.
“Mi pare di vedere il giovane religioso - racconta Eleonora
Vescovi, parente dei Canetoli e storica della famiglia – mi
pare quasi di sentirne i passi per i corridoi dei conventi,
di intravederne l’alta figura vestita di chiaro sostare nel
fresco dei chiostri. Una persona gentile dal tratto distinto,
che si distingueva fra gli altri canonici. Aveva nel cuore
un solo desiderio, ossia unirsi alla voce di Dio nella
solitudine della natura. Ma solo a 38 anni, nel suo amato
eremo, il beato Arcangelo ha potuto seguire e dedicarsi
alla sua più vera vocazione. Qui a Gubbio si è impegnato
fin da subito per migliorare l’eremo, per costruire la
cisterna dell’acqua per il monastero, e per prepararsi (con
martello, scalpello ed il proprio lavoro) una celletta nella
roccia viva, per isolarsi in preghiera. Si diceva conducesse
una santa vita ascetica, anche se la gente raccontava che
fosse d’antica illustre famiglia bolognese. Era un uomo
di povertà e di preghiera, certamente fuori dal comune
e ricordava molto il poverello d’Assisi”. Tante persone si
recavano a Gubbio per parlare con il beato Arcangelo,
che dava speranza a tutti coloro che si affidavano a lui, sia
che fossero illustri dame come Elisabetta Gonzaga (che
ha poi lasciato al monastero alcuni suoi possedimenti), o
famosi principi come Francesco della Rovere (che col suo
casato aveva preso il posto dei Montefeltro di Urbino) o
persone semplici del popolo, che lui amava.
Si racconta ancora del viaggio del beato Arcangelo a
Firenze, quando Giuliano dei Medici gli offrì il posto di
arcivescovo di Firenze. “Arcangelo non voleva offendere
nessuno ma rifiutò quella proposta - continua Eleonora
Vescovi - nei primi giorni di marzo 1513 ha fatto ritorno
nella sua Gubbio. Non stava bene e una forte febbre lo
lasciava esausto da alcune settimane. Arrivato a Gubbio,
è riuscito solo a dettare due lettere ad un confratello, e
il 16 aprile è spirato fra i monaci e la gente che tanto
lo stimavano. Dato che la fama di santità di Arcangelo
Canetoli cresceva e si difendeva anche fuori Gubbio, e
tutti parlavano dei miracoli, nel 1617, ossia un secolo
dopo la sua morte, è stato aperto un processo canonico
per la beatificazione del religioso e nel 1736 molte
chiese lo hanno sostenuto. A Gubbio si ricorreva a lui,
con fiducia, in quanto guariva i malati, aiutava i pellegrini
e le persone sofferenti nel corpo e nell’anima. Si prega
ancora oggi davanti al suo corpo incorrotto come si fa
da Sant’Ubaldo, patrono della città. Ho scoperto con
emozione che in diverse chiese d’Italia sono esposti
quadri che rappresentano il beato Canetoli. Sono dipinti
del XVIII secolo, a dimostrazione che, subito dopo la
beatificazione di Benedetto XIV il suo culto, si è diffuso
rapidamente. A Bologna lo troviamo a Grizzana Morandi
su un’opera di Luigi Crespi e poi a Venezia, Candiana di
Padova, Ravenna e Orvieto”.
Nell’anno 1764 il religioso Nicola Lepri ha fatto stampare
un inno per il Beato, che dice “…beato, a te sia gloria
ed onore; fa che il Signore abbia di noi pietà”. Per
approfondire la vita del Beato, e per altre notizie si può
fare riferimento ad Eleonora Vescovi ed al suo manoscritto
“Dal buio una luce”.
Ti diamo
VOCE.
IL CUORE NEL TERRITORIO
Crediamo nella
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Con soci e socie condividiamo progetti di crescita comune e offriamo loro
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45
I MITI DELLO SPORT
Piccole grandi storie
dei campioni
di casa nostra
A cura di
Marco Tarozzi
Marco Bonamico
Il ricordo di due giganti:
Marco Bonamico, il “Marine”
dei canestri, e Franco Cresci,
uno dei “Magnifici Sette”
fedelissimi del Bologna
QUANDO GLI EROI SE NE VANNO
Cosa si fa quando se ne vanno le
bandiere, quei meravigliosi eroi che
con le loro gesta sportive ci hanno
aiutati a crescere? Si può piangere,
maledire il destino, sentire il vuoto.
Ma soprattutto ricordare e raccontare
quello che hanno rappresentato, forse
l’unico modo per ritrovare un sorriso
all’idea che non se ne andranno mai
del tutto. Lungo la strada della vita
abbiamo perso Marco Bonamico, il
“Marine”, bandiera della Virtus della
Stella, della Nazionale più gloriosa, ma
anche capace di “reggere”, seppure in
prestito, il salto di sponda così delicato
in questa Città dei Canestri. Un Porthos
straripante, ironico, diretto, ancora
pieno di progetti e voglia di futuro.
Tanto quanto era silenzioso Franco
Cresci, difensore eccelso di un Bologna
minore, quello degli anni Settanta, uno
che viaggiando sottotraccia è diventato
bandiera rossoblù, uno dei “fedelissimi”
della storia del club.
ONDE. Un giorno, tanti anni fa, fecero
a Marco Bonamico quella che forse
è la domanda più scontata per un
uomo di sport: chi è il tuo campione
ideale? Normale aspettarsi che un
ragazzone che stava trovando una
dimensione importante nel mondo
della pallacanestro, a quell’ambiente
guardasse. Lui spiazzò tutti, citando
Dennis Conner, l’imperatore
dell’America’s Cup. Un velista.
Strano, pensarono in molti. Non lo
era, per un ragazzo che nascondeva
dietro quella stazza da wrestler una
profonda cultura, non solo sportiva, e
una sferzante ironia. Per di più, nato a
Genova e cresciuto davanti al mare. «Il
vento e il mare mi scorrono nelle vene,
anche in un deserto vorrei svegliarmi
col rumore delle onde».
“MARINE”. Amava tanto Bologna
che negli ultimi anni si era messo
a raccontarla per mestiere ai turisti
stranieri, inventandosi percorsi
meravigliosi tra cultura e gastronomia,
storia e aneddotica. Culturalmente,
Marco camminava su piani alti.
Sportivamente aveva scritto pagine di
storia indimenticabili, proprio qui nella
Città dei Canestri. Inizi col calcio, nel
ruolo di portiere, poi ovviamente nuoto
e pallanuoto e il basket scoperto con
la canotta dell’Athletic Genova. Così
bravo che nel 1972 finì in casa Virtus,
e a sedici anni era già aggregato alla
prima squadra. In prestito alla Fortitudo
nella stagione 1976-77, quella della
semifinale di campionato e soprattutto
Bonamico con il resto della Virtus
che nel 1984 vinse il decimo scudetto.
Foto - Archivio Luca e Lamberto Bertozzi.
della finale “scippata” in Coppa
Korac, vinta dalla Jugoplastika, tornò
in bianconero l’anno dopo e diventò
quell’ala grande capace di battersi
senza tentennamenti su ogni parquet,
dotata anche di un tiro precisissimo
dalla distanza.
STELLA. Alla Virtus restò nell’ultima
stagione bolognese di Dan Peterson, il
primo a gettarlo in mischia, poi passò
da Siena e da Milano prima di tornare in
bianconero, stavolta per restarci a lungo
e vivere momenti indimenticabili. Su
tutti, quel decimo scudetto del 1984,
la Stella strappata alla terza sfida di
finale-scudetto all’Olimpia Milano del
vecchio maestro Peterson. Insieme a
Villalta, Brunamonti, Lanza, Valenti,
Fantin, Daniele, al giovanissimo Gus
Binelli, allo stralunato Elvis Rolle e
a Van Breda Kolff, la truppa di un
meraviglioso debuttante sulla panchina
bianconera, Alberto Bucci, e del suo
vice Ettore Messina.
AZZURRO. Poi, gioie e dolori. Tra
questi ultimi, la finale di Coppa
Campioni dell’81, persa a Strasburgo
per un solo punto contro il Maccabi,
con un dubbio fallo di sfondamento
fischiato proprio nell’ultima azione
contro Marco. Undici stagioni in
Virtus, con 356 gare disputate e 3665
punti messi a referto. Ma le gioie
sono state anche azzurre: l’argento
olimpico di Mosca nel 1980, l’oro
europeo di Nantes nel 1983. Del resto,
l’impronta di Bonamico in Nazionale
è fatta di 154 presenze, 777 punti e
una solidità sempre determinante.
Poi, dal 2009 al 2013 presidente
3046
BOLOGNA
Franco Cresci
lungimirante di Legadue, e a lungo
commentatore Rai e Dazn. Con la
coerenza e la combattività di sempre.
Solo prendendolo di sorpresa il male è
riuscito a sconfiggerlo. Subdolamente,
lasciandoci addosso mille domande
perché a sessantotto anni la vita ti deve
ancora qualcosa.
CRESCI. Franco Cresci faceva parte
del “club dei fedelissimi”: era uno dei
sette giocatori della storia del Bologna
che hanno superato le 400 partite
con la maglia rossoblù. Il settimo, per
l’esattezza, con 404 presenze totali,
preceduto solo da Bulgarelli, Roversi,
Reguzzoni, Nervo (arrivato anni dopo),
Perani e Gasperi. Diventò bandiera
negli anni Settanta, quando lottare per
lo scudetto non era più possibile, ma
quella squadra restava comunque un
mix di vecchi maestri e giovani talenti,
capace di togliersi grandi soddisfazioni,
senza timori reverenziali. Non ne
aveva certo lui, difensore tenace e
indistruttibile.
FEDELISSIMO. Milanese, classe 1945,
cresciuto nell’Inter senza arrivare in
prima squadra, passò dal Rapallo
e dal Varese, dove centrò subito la
promozione e alla seconda stagione
debuttò in Serie A, appena dopo
aver compiuto ventidue anni, il 24
settembre 1967. Al Bologna arrivò
nella stagione 1968-69, trovando
presto spazio anche grazie alla
sua duttilità, che gli permetteva di
esprimersi da centrale o da laterale
difensivo. Ci sarebbe rimasto per undici
stagioni, spesso sbrigando i lavori
meno semplici, ovvero prendendosi
cura degli attaccanti avversari più
pericolosi. Collezionando in rossoblù
301 presenze in campionato, 73 in
Coppa Italia, 30 nelle varie ribalte
internazionali, tra Coppa delle Coppe,
Coppa delle Fiere, Mitropa, Coppa di
Lega italo-inglese. In tutto, appunto,
404 apparizioni.
TROFEI. Ha vinto due Coppe Italia
e una Coppa Italo-Inglese, prima
di affrontare l’ultimo quinquennio
bolognese molto più complicato e
decadente, con stagioni caratterizzate
da salvezze spesso agguantate a fatica.
Non certo per suoi demeriti, perché
è stato indiscutibilmente uno dei
migliori difensori italiani del proprio
tempo, anche se spesso sottovalutato:
in Nazionale, per esempio, fu preso
in considerazione solo negli anni
giovanili, vincendo l’oro con l’Under
21 ai Giochi del Mediterraneo del 1967
e arrivando fino all’Under 23..
MAINE ROAD. Uno dei ricordi che
lo inorgoglivano era quello della
finale di Coppa di Lega italo-inglese,
un trofeo da tempo finito nell’albo
dei ricordi. Fu un faccia a faccia tra
il Bologna, fresco vincitore della
Coppa Italia, e il Manchester City,
detentore della Football League Cup e
campione appena cinque mesi prima
in Coppa delle Coppe. Dopo l’andata
al Comunale, vinta 1-0 dai rossoblù, il
ritorno a Maine Road del 15 settembre
1970 fu una partita spettacolare, in cui
gli toccò occuparsi di una bandiera del
City, Francis Lee. Non se le mandarono
a dire: il rossoblù tornò negli spogliatoi
con un occhio pesto. Ma l’uscita dal
campo del Bologna vincitore, tra gli
applausi degli avversari disposti su
due file e del pubblico inglese, fu un
momento impagabile.
DERBY. Nel 1979, trentaquattrenne,
Cresci si trasferì al Modena per le
ultime tre annate di calcio giocato.
Poi mostrò il suo valore di tecnico,
guidando tra l’altro Modena, Carpi, Vis
Pesaro, Imola, Castel San Pietro, e fino
a pochi anni fa coordinando il settore
giovanile del Fossolo ‘76. Ma il biennio
più felice arrivò tra il 1992 e il 1994,
quando con il Crevalcore mise in fila
il tricolore dilettanti e la promozione
dalla C2 alla C1. Finendo, per uno
strano scherzo del destino, a giocare
in quest’ultima categoria due derby
storici per il Creva, proprio contro il
“suo” Bologna. Negli ultimi anni, la
malattia gli aveva progressivamente
fatto dimenticare tutto questo passato.
Ma noi non riusciremo a dimenticare lui.
Cresci in marcatura
su Ciccio Graziani
4731
30
LA MACCHINA DEL TEMPO
La convivenza tra Etruschi
e Celti è all’origine di
Bologna
Felsina
o Bononia?
Testi di Elena Boni
Subito prima della dominazione romana,
il territorio bolognese fu abitato da due
popolazioni di origini diverse: gli Etruschi
e i Celti. Grazie ai ricordi scolastici e
alla letteratura divulgativa, siamo portati
a immaginare le due popolazioni come
ben distinte e ad associarle a luoghi
molto differenti: infatti quando diciamo
“Etruschi” pensiamo solitamente alla
Toscana, alle tombe decorate, ai ricchi
corredi funerari e all’origine del nostro
alfabeto; invece il termine “Celti” ci
rimanda immediatamente alla Gallia di
Asterix e alle brughiere dell’Irlanda, con
scenari di battaglie epiche e di musiche
meditative o ballabili. Raramente
pensiamo alla provincia di Bologna
come luogo di incontro, scontro,
coabitazione e scambio di queste due
antiche civiltà: eppure, si tratta dei
nostri antenati, che hanno lasciato sul
territorio tracce importanti della loro
presenza. Fortunatamente oggi queste
tracce sono ben conosciute e studiate,
e tutti possiamo usufruirne con facilità.
Dai Villanoviani AGLI Etruschi
L’epoca villanoviana, di cui abbiamo
Capanna etrusca | Monterenzio
Foto: courtesy Museo civico archeologico di Bologna, archivio Fotografico
parlato nella puntata precedente (VB n.
66 pp. 38-39) è oggi considerata dagli
archeologi la prima fase della civiltà
etrusca nella bassa Pianura padana. Tale
civiltà si sviluppò dal IX al VI secolo
circa, con insediamenti importanti
nella futura area urbana di Bologna,
a Marzabotto, nel Ferrarese (Spina) e
in Romagna (Verucchio). I primi scavi
archeologici furono avviati dal conte
Giovanni Gozzadini tra il 1862 e il
1870 al Pian di Misano di Marzabotto,
con i fondi messi a disposizione dai
conti Aria; in seguito la valle del Reno
si è rivelata ricca di siti archeologici.
Proprio a Pompeo Aria è dedicato
oggi il Museo nazionale etrusco,
che conserva importantissimi reperti
rinvenuti soprattutto nelle necropoli di
Kainua. Questa parola etrusca significa
“città nuova” e indica la fondazione
dell’abitato di Marzabotto, nel 500
a.C., sui resti di un precedente abitato
del VI secolo. Kainua rappresentava,
per la sua epoca, un eccezionale
esempio di pianificazione urbana, con
una serie di strade che si intersecavano
perpendicolarmente (quello che poi
diventerà l’impianto ortogonale tipico
dell’urbanistica romana), un’acropoli o
città alta e due necropoli pure esterne al
centro abitato. Tanto rilevanti furono le
Candelabro etrusco
V sec. aC
Inventario reperti del 1880
Guerriero celtico
ETRUSCHI E CELTI
scoperte archeologiche che l’area diventò
il primo vero Parco archeologico dell’Italia
settentrionale e il conte Gozzadini volle
organizzare a Bologna il grandioso
Carnevale degli Etruschi nel 1874.
Di reperti etruschi è ricchissimo il
Museo civico archeologico di Bologna,
tanto che alcune sale sono dedicate
esclusivamente a questa civiltà. I preziosi
oggetti provengono dagli scavi bolognesi
e da collezioni private.
Tra gli altri siti è particolarmente nota
la necropoli etrusca dei Giardini
Margherita, con le due tombe tuttora
visibili, seppure rovinate dal tempo; da
qui proviene il famoso candelabro con
donna e bambino, pregiato esempio di
arte etrusca. Al museo civico si possono
ammirare steli, urne, fibule, specchi,
armi… un ricchissimo corredo di oggetti
che ci raccontano l’evoluzione nei secoli
di una civiltà raffinata e complessa.
Nel 2019 il museo ha ospitato la grande
mostra Etruschi. Viaggio nelle terre dei
Rasna con 1.400 oggetti provenienti
da 60 istituti italiani ed esteri. Per chi
volesse approfondire, il ricco catalogo
della mostra è ancora in vendita, insieme
alle altre pubblicazioni scientifiche o
divulgative sul tema, presso il negozio
del museo civico.
CELTI O GALLI BOI
La città etrusca vide un importante
cambiamento all’inizio del IV secolo
con l’arrivo dei Galli Boi, una tribù
celtica proveniente dal nord. Gli
invasori si stabilirono soprattutto nelle
zone di pianura e di montagna, ma
i resti archeologici ci raccontano di
frequenti scambi e commistioni con la
città e con le popolazioni locali. L’uso
delle armi, ad esempio, è rivelatore
della coesistenza delle due civiltà:
accanto alle armi in ferro di foggia
celtica o gallica si ritrovano armi in
bronzo prodotte da officine etrusche
secondo l’uso centro-italico (ad
esempio nel sepolcreto Benacci, in
zona Andrea Costa/Ravone). Anche i
metodi di sepoltura dei defunti erano
differenti: inumazione per gli Etruschi,
cremazione per i Galli o Celti; eppure
alcune sepolture rivelano matrimoni
misti, come a Monte Bibele. Proprio
su questo monte che sovrasta la Valle
dell’Idice furono scoperte nel 1978 le
tracce archeologiche di un importante
villaggio etrusco del 400 a.C. Pochi
decenni dopo nell’abitato si insediarono
i Galli (Celti), ma gli Etruschi non
scomparvero. Gli scavi e le ricerche
hanno portato a costituire il piccolo
ma ben organizzato Museo civico
archeologico di Monterenzio e il Parco
archeologico in rete dell’Appennino
bolognese, entrambi gestiti da un
vivace gruppo di archeologi oggi riuniti
nell’associazione ARC.a.
Intorno alla ricerca storica e archeologica
si sono sviluppati anche eventi ludicosociali
e divulgativi, come la famosa
festa celtica “I Fuochi di Taranis” che
si svolge ogni anno a Monterenzio tra
giugno e luglio. Inoltre hanno preso
avvio attività ricettive, agricole o di
trasformazione ispirate alla storia e alla
natura del luogo (v. articolo sulla Valle
di Taranis in VB n. 65 pp. 36-37).
UN NOME, UN INDIZIO
Anche i nomi della nostra città
portano in sé le tracce della presenza
delle due popolazioni. Infatti gli
Etruschi chiamavano la città Vezna
o Felzna, toponimo poi latinizzato
in Felsina. Invece i Galli Boi diedero
probabilmente origine alla dicitura di
Bononia, da cui l’attuale Bologna. Gli
aggettivi “bolognese” e “felsineo”, oggi
usati come perfetti sinonimi, non hanno
quindi in origine lo stesso significato;
ma stanno a testimoniare una storia
locale davvero ricca e complessa, di
cui possiamo scoprire le tracce nei
numerosi musei ed aree archeologiche
del territorio.
da visitare
Museo civico archeologico
Via dell’Archiginnasio, 2
40124 Bologna
Tel. 051 2757211
mca@comune.bologna.it
Museo nazionale etrusco “Pompeo
Aria” e area archeologica di Kainua
Via Porrettana Sud 13
40043 Marzabotto (BO)
Tel. 051 932353
mn-bo.museonazionaletrusco@
cultura.gov.it
Museo civico archeologico
“L. Fantini” e Area d’interesse
archeologico di Monte Bibele
Via del Museo, 2
40050 Monterenzio (BO)
Tel. 329 1949532
info@montebibele.eu
https://montebibele.eu
Teniamo le ORECCHIE
ben aperte.
IL CUORE NEL TERRITORIO
Ascoltiamo le necessità
del territorio che abitiamo
per contribuire a trovare
soluzioni efficaci.
Crediamo nell’ascolto come strumento attivo per le nostre comunità
al fine di promuovere maggiore benessere, coesione e inclusività.
4931
ALLE ORIGINI DEL VINO
La storia
dei vitigni
dei Colli Bolognesi
Il clima è stato favorevole, le previsioni sono
incoraggianti ma la situazione internazionale
preoccupa le aziende che devono esportare
che Vendemmia è stata?
Testo di Alessio Atti
Prima di osservare da vicino i Colli Bolognesi è bene
avere un quadro generale e complessivo dell’andamento
produttivo vitivinicolo del Paese.
A metà agosto, dal Veneto alla Toscana, dal Piemonte
alla Puglia, passando per Sicilia e Sardegna, la campagna
viticola 2025 mostra un’Italia del vino in salute, con
condizioni climatiche variabili ma complessivamente
favorevoli. Il quadro non è uniforme: le differenze tra
Nord e Sud si manifestano soprattutto nel ciclo vegetativo,
nella gestione fitosanitaria e nelle stime produttive, ma la
tendenza generale è positiva.
In Emilia-Romagna, ad esempio, le previsioni indicano
un lieve aumento per Lambrusco e Trebbiano, mentre
Ancellotta e Pignoletto segnalano un piccolo calo,
dovuto in parte alla cascola fiorale e a una scarsa
allegagione. Ci sono però aree in netta crescita: la Sicilia
orientale registra un +20% rispetto allo scorso anno,
l’Oltrepò Pavese si attesta su un +10% e la Franciacorta
prevede uve di qualità eccellente e raccolti abbondanti.
In controtendenza, il Consorzio Asti DOCG ha scelto di
limitare le rese, per mantenere l’equilibrio tra domanda
e offerta.
Il clima ha giocato un ruolo determinante. L’inverno, mite
e regolare, non ha creato problemi di gelo; la primavera,
fresca ad aprile e segnata da piogge ben distribuite, ha
favorito una fioritura graduale e accumulato preziose
riserve idriche. Queste scorte d’acqua si sono rivelate
fondamentali a giugno, quando un’ondata di calore ha
accelerato lo sviluppo vegetativo: grazie all’umidità del
suolo, le piante non hanno subito stress rilevanti. Luglio
ha poi portato marcate escursioni termiche tra giorno e
notte, un fattore chiave per un’invaiatura regolare e una
maturazione fenolica ottimale.
Oggi, a poche settimane dall’inizio della vendemmia,
lo stato sanitario delle uve è in gran parte ottimo: i
grappoli sono ben conformati, le rese attese in linea con
le medie storiche e la prospettiva qualitativa molto alta.
Alcune varietà bianche potrebbero essere raccolte con
un leggero anticipo rispetto alla norma, dando vita a vini
freschi, precisi e fortemente identitari, a condizione che
agosto non riservi eventi estremi.
Sul versante commerciale, tuttavia, lo scenario è meno
incoraggiante. Il settore teme l’effetto delle giacenze
accumulate: l’Italia rischia di affrontare il nuovo
raccolto con cantine già piene, inclusi vini Dop. Un
surplus dovuto a un export in rallentamento, consumi
interni stagnanti e un potere d’acquisto che fatica a
riprendersi. L’inflazione, seppur più contenuta rispetto al
2023, continua a pesare sul clima di fiducia di imprese
e consumatori.
E sui Colli Bolognesi?
Ne ho parlato con l’amica Eleonora Lolli, grande
conoscitrice del panorama vitivinicolo locale, ne
conveniamo che le nostre colline risentono degli stessi
andamenti climatici del resto del Paese e soffrono delle
stesse incertezze di mercato, aggravate però da una
cronica mancanza di coesione: un “fare squadra” che
altrove funziona e qui stenta a decollare.
Dal punto di vista agronomico, l’andamento è positivo.
La vendemmia è iniziata prima del 10 agosto con la
raccolta delle uve destinate alle basi spumante – in
primis Chardonnay e Pinot Nero. Una data che ormai
non stupisce più, dato che le estati sempre più calde e
siccitose stanno consolidando la tendenza ad anticipare
i tempi. La maturazione è in netto anticipo, ma con le
50
dovute attenzioni non dovrebbero esserci problemi di
gradazioni alcoliche eccessive.
La qualità delle uve è eccellente. Restano, purtroppo,
alcune criticità fitosanitarie: in certe zone persistono
malattie come la flavescenza dorata e il mal dell’esca.
L’annata 2025, però, ha visto un rischio molto contenuto
di attacchi fungini, grazie a condizioni meteorologiche
favorevoli che hanno ridotto la pressione di peronospora
e oidio.
Da tenere presente che le zone soggette a smottamenti
e frane dovute alle alluvioni, non sono del tutto
ripristinate. Questa problematica incide notevolmente
sulla produzione e sulla gestione dei vigneti interessati.
In sostanza, non sarà un anno molto diverso dal
precedente: la qualità media sarà alta, con vini ben
progettati e lavorati con sempre maggiore attenzione.
Nonostante le sfide poste da clima e mercato, i Colli
Bolognesi confermano il loro potenziale qualitativo,
frutto di competenza, passione e di un territorio
eterogeneo che sa dare molto.
Eppure, non mi stancherò mai di ripeterlo: queste colline
hanno bisogno di essere amate e valorizzate. Meritano
un abbraccio collettivo, un impegno condiviso che le
aiuti a esprimere tutto il loro carattere e la loro unicità. Il
mondo vitivinicolo felsineo sente l’urgenza di rinnovarsi,
di trovare una voce originale e un’identità forte. E forse
siamo proprio noi, frequentatori di valli e colli, a poter
accendere questa scintilla di rinascita.
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51
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Piante, animali e ambienti normalmente visti
in modo negativo hanno anche aspetti positivi,
poco o niente considerati
A cura di Sustenia - Ecologia Applicata
Non è un parassita, non soffoca e non danneggia
gli alberi sui quali si abbraccia per crescere. È un
importante generatore di biodiversità
Avvinta
come l’EDERA
Falena dell’edera
Euplagia quadripunctaria
Testo di Andrea Morisi
L’edera è tra le piante più conosciute
e di solito si pensa di conoscerne
anche la biologia, nonché il suo ruolo
nell’ecosistema. È tipicamente odiata
dai più. Viene accusata innanzitutto
di essere un parassita degli alberi,
di causarne la morte. Di far cadere
gli alberi e di “soffocarli”. E poi di
rovinare i boschi. Per di più non risulta
utile ad alcunchè: non si mangia (è
velenosa!) e non fornisce legname…
L’edera rappresenta quindi un ottimo
Edera monumentale
su grande pioppo
soggetto per questo articolo.
Vediamo un po’. L’edera (Hedera
helix) è una pianta che ha assunto
una sua strategia per concorrere
con le altre nella gara quotidiana a
trovare nutrienti e luce. Il suo “spazio
vitale” se lo conquista non investendo
energia nel formare un tronco robusto
e molto lignificato, bensì sviluppando
la capacità di accrescersi in modo
strisciante e utilizzando il sostegno
fornito dai tronchi di altre piante su
cui fa aderire i propri fusti mediante
delle “radici avventizie” composte da
piccoli fasci di radichette ad uncino
che si saldano alla corteccia della
pianta ospite. Di fatto, quindi, l’edera
è una pianta rampicante, che invece
di attorcigliarsi o usare pampini come
fanno le altre lianose, le cinge con un
fortissimo abbraccio. “Avvinta come
l’edera”, cantava la Nilla nazionale.
I fusti dell’edera formano pian piano
un intreccio attorno al tronco della
pianta ospite, crescendo assieme
ad esso e andando a costituire una
specie di telaio, spesso con i fusti del
rampicante che si fondono tra loro.
L’edera ha un’altra caratteristica: non
sopporta bene l’insolazione diretta.
Ma si capisce bene il perché, dato
che questa liana arriva in genere
dopo che gli alberi su cui si abbarbica
hanno avuto modo di crescere e
creare anche l’ombra sul suolo. Va
evidenziato inoltre che si tratta di una
“sempreverde” che fiorisce nella tarda
estate ed i suoi frutti maturano durante
l’inverno, tutte caratteristiche non
molto comuni nella nostra flora.
IL SUO RUOLO
Avendo tratteggiato chi è l’edera e
di cosa viene solitamente accusata,
vediamo di evidenziare il suo
ruolo ecologico, le sue funzioni
nell’ecosistema ed i servizi
ecosistemici che è in grado di erogare.
Prima di tutto, una cosa: l’edera non è
un parassita. Non succhia la linfa della
pianta ospite. Le sue radici vere sono
nel terreno, quelle con cui si attacca
al tronco degli alberi sono solo degli
agganci per arrampicarsi. La riprova
è semplice, basta tagliare uno dei
cordoni che formano i fusti dell’edera.
Dopo alcuni giorni, le foglie e i getti
posti al di sopra del punto di taglio
appassiranno e poi seccheranno
completamente. La parte sotto il taglio
resterà, invece, verde. Ciò significa
che acqua e nutrienti non arrivano
dalle radici avventizie succhiandoli
dall’ospite, ma da quelle vere, nel
terreno.
Per quanto riguarda il “soffocamento”
degli alberi o il loro crollo sotto il peso
dell’edera, occorre dire che, se un
albero è sano, la sua crescita sovrasta
quella dell’edera. Tipicamente le
chiome degli alberi su cui cresce
l’edera sono più sviluppate del
rampicante, lo si vede molto bene
osservandoli da lontano. L’edera può
soverchiare gli alberi ancora piccoli
oppure non più vegetanti. Con gli altri
convive, con specifici effetti.
La significativa mole di vegetazione
che l’edera può sviluppare sul tronco
e sulle branche degli alberi può
effettivamente arrivare a costituire
52
BIODIVERSITà
Il taglio dei cordoni causa
il disseccamento dell’edera
Ammasso vegetazione
di edera su alberatura
un peso elevato e causare anche
l’effetto “vela” che può sbilanciare la
stabilità degli alberi, fino a causarne
lo schianto in caso di forti venti o
particolari eventi atmosferici (per
esempio nevicate abbondanti). I suoi
effetti negativi sulla stabilità vengono
però compensati dal telaio portante
che l’edera stessa costruisce attorno
al tronco e ai rami della pianta ospite.
GENERATRICE DI BIODIVERSITÀ
La presenza dell’edera va poi vista
sotto il punto di vista delle condizioni
ambientali che è in grado di generare
che ne fanno una importantissima
generatrice di biodiversità. La
copertura in continuo di suolo e di
gran parte della pianta ospite crea
delle nicchie estremamente utili per
il rifugio, il riparo, la riproduzione
e l’alimentazione di moltissimi
organismi. Il groviglio di getti e
foglie sempreverdi sono un ottimo
nascondiglio e vi si creano accumuli
di sostanza organica e di umidità ove
prosperano numerosi invertebrati,
sia adulti che nelle loro forme
larvali (Insetti Dermatteri, Coleotteri
e Emitteri, Molluschi Gasteropodi,
Aracnidi, piccoli Crostacei terrestri,
ecc.). Questi organismi sono poi
attivamente ricercati dai loro
predatori, sia al suolo dove l’edera
può formare tappeti su cui si
muovono toporagni, mustioli, ricci (e
ulteriori predatori come le donnole),
sia su tronchi e rami, frequentati
tipicamente dagli uccelli (picchi di
diverse specie, cince e altri uccelli
di “macchia”). Nel folto dell’edera
sono tanti gli uccelli che nidificano o
passano la notte in dormitorio.
L’edera può effettivamente
essere considerato un elemento
dell’ecosistema che genera habitat
e microclimi e quindi favorisce la
diversificazione della componente
biologica.
E poi, pur essendo velenosa,
costituisce il cibo direttamente per
diversi organismi. Quello forse
più specifico è la falena dell’edera
(Euplagia quadripunctaria), farfalla
protetta in tutta Europa e caratterizzata
da una bella livrea aposematica, che
si nutre nella fase finale della sua
vita da bruco proprio delle foglie
dell’edera. Ma altre parti dell’edera
sono molto apprezzate: i fiori, tra
quelli che fioriscono più avanti nella
stagione, quando le fioriture sono
ormai rare, sono preziosissimi per
gli impollinatori selvatici (e anche
per le api: si produce un particolare
miele di edera), mentre le bacche
nere, che maturano diventando più
tenere con i primi freddi, diventano
un fondamentale pasto quotidiano
per molti uccelli, in particolare merli,
tordi, storni.
L’ALTRA FACCIA DELL’EDERA
Il paesaggio stesso e la forma della
vegetazione e di singole piante,
soprattutto quando si raggiungono
dimensioni monumentali, sono
arricchiti dalla presenza dell’edera,
talvolta con significativi risultati
estetici.
La sua ininterrotta fotosintesi durante
tutto l’anno, unita alla sua grande
capacità di produrre biomassa
organica, ne fanno poi anche un
utile alleato nell’assorbimento
dell’anidride carbonica e nel fissaggio
del carbonio e, quindi, nel contrasto
del cambiamento climatico.
Esistono quindi tanti motivi per non
criminalizzare l’edera e sono tanti i
benefici che derivano dalla presenza,
anche quando molto rilevante, di
questo rampicante sempreverde.
Edera morta su olmo dopo
il taglio dei cordoni
53
FOTONATURALISMO
La sedicesima puntata
di un piccolo corso
sui segreti
del fotografo naturalista
WildWATChing
Leggere i versi
degli animali
Testi e foto di Paolo Taranto
Negli articoli precedenti abbiamo
visto perché è utile conoscere le
vocalizzazioni degli animali e come
registrarle al meglio. Registrare le
vocalizzazioni è utile per costruirsi
un archivio personale, per consultare
altri esperti utili per le identificazioni
difficili ma anche per poterle
analizzare meglio tramite appositi
programmi per computer e dunque
“leggere” le loro caratteristiche.
Questi programmi trasformano il
segnale acustico in un sonogramma,
cioè una rappresentazione grafica
che mostra nel tempo (asse
orizzontale, in secondi) l’andamento
della frequenza (sull’asse verticale,
misurata in kHz) e anche l’intensità
del suono attraverso diverse
sfumature di colore (solitamente in
bianco e nero e tonalità di grigio
intermedie, misurata in dB). In
questo modo la vocalizzazione
diventa “visibile” e può essere letta
come una sequenza di elementi
(punti, tratti, curve etc) consentendo
di misurare e scoprire tutta una serie
di parametri e caratteristiche che
è difficile o impossibile percepire
a udito ad esempio le variazioni di
tonalità, la presenza di armoniche,
la complessa struttura a sillabe e
frasi; in pratica il sonogramma è
una sorta di “impronta digitale” di
una vocalizzazione. Il sonogramma
è dunque un prezioso strumento
per lo studio delle vocalizzazioni
consentendo confronti oggettivi tra
individui o specie o sottospecie e
fornendo un potente strumento per
lo studio della bioacustica.
Come leggere un sonogramma
L’elemento base: la nota. Una “nota”
è la più piccola unità sonora di una
vocalizzazione che si può vedere
in un sonogramma sottoforma di
una traccia sonora continua; è
un evento acustico singolo e può
essere costituita da un suono puro
con frequenza costante, come nel
caso di un fischio, oppure con
frequenza e ampiezza modulate; una
nota può anche avere una struttura
armonica cioè può avere toni con
frequenza multipla della frequenza
fondamentale (cioè la frequenza più
bassa) oppure può essere composta da
una serie di impulsi o da una banda di
rumore. Il numero e l’intensità delle
componenti armoniche determina il
timbro del suono.
STRUTTURA
DI UNA VOCALIZZAZIONE
O UN CANTO
La struttura di una vocalizzazione è
una struttura gerarchica, la sequenza
totale della vocalizzazione può
essere anche molto lunga, da pochi
secondi a qualche minuto ed è
formata da unità più piccole cioè le
frasi o motivi; ogni frase o motivo si
può ripetere in maniera uguale o può
cambiare ma in ogni caso è composta
da sillabe; ogni singola sillaba è a sua
volta formata da singoli elementi o
note. È però da notare che i confini tra
i vari elementi di una vocalizzazione
come le frasi, le sillabe o gli elementi
singoli sono spesso poco chiari e
non sempre si riesce a distinguerli in
maniera chiara in un sonogramma;
alcune specie hanno vocalizzazioni
molto complesse con confini poco
definiti tra le diverse componenti.
Nell’analisi di una vocalizzazione
attraverso il sonogramma vi sono
diversi principali aspetti che possono
essere analizzati ad esempio la durata,
il picco di frequenza, l’intensità del
suono, il tono, la trama del suono.
Descriviamoli più dettagliatamente.
1) Durata
La durata è il primo parametro
che si può osservare e misurare
in sonogramma; l’unità di misura
solitamente sono i secondi o i
millisecondi. La durata può riferirsi
a tutta l’intera vocalizzazione, a una
parte di essa (una frase o motivo), a
54
WildWatching
Nella pagina a sinistra, un Allocco,
rapace notturno molto comune
nei boschi, il tipico canto territoriale
del maschio è composto da note
a bassa frequenza, come avviene
per diverse specie di rapaci notturni.
A sinistra, un Fiorrancino in canto,
piccolissimo Passeriforme ma
dal canto molto melodioso e complesso.
una sillaba, o a un singolo elemento
o nota. Ma le varie parti di una
vocalizzazione sono separate da
spazi vuoti, anche la lunghezza
di questi intervalli è importante
per l’analisi di una vocalizzazione
(intervalli tra motivi o frasi, tra sillabe,
tra note etc).
2) Picchi di frequenza
La seconda informazione che
ci fornisce un sonogramma è la
frequenza o picco (sull’asse y delle
ordinate). Maggiore è la frequenza
e maggiore è il picco di un suono e
si misura in hertz (Hz o kHz); negli
uccelli le frequenze sono comprese
tra 1 e 10 kHz. Più in alto si trova
un suono nel sonogramma maggiore
è il suo picco di frequenza e udito
risulterà acuto, viceversa un suono
con frequenza bassa si trova in basso
e risulta più cupo.
Le singole note o sillabe possono
essere classificate in funzione della
loro frequenza e del modo in cui essa
può variare. Si possono distinguere le
seguenti tipologie:
-Suono monotono: la frequenza
non cambia, appare come una linea
orizzontale sul sonogramma
-Suono crescente (upslurred): la
frequenza aumenta, appare come
una linea inclinata verso l’alto
-Suono decrescente (downslurred):
la frequenza si abbassa, appare come
una linea inclinata verso il basso
-Fischio (overslurred): appare come
una linea curva rivolta verso il basso,
il suono prima si alza in frequenza poi
si abbassa, dunque ha la maggiore
intensità nella parte centrale. Se la
linea curva è al contrario, cioè rivolta
verso l’alto (underslurred) il suono
inizia con una frequenza alta, che
pian piano si abbassa per poi tornare
al valore alto alla fine, con l’intensità
minore posta al centro.
La nota pura si mantiene su una
frequenza singola e ha una certa
durata nel tempo (circa 0,2 secondi);
la nota modulata in frequenza (2)
invece lungo la sua durata copre
diverse frequenze (circa da 3 a
5 kHz); quando la modulazione
diventa molto rapida (4) si ha una
nota vibrata; il click (5) è una nota
semplice molto breve ma che
si estende in un ampio range di
frequenze (circa da 2 a 6 kHz).
3) Intensità
La terza informazione fornita dal
sonogramma è l’intensità del suono,
questa viene rappresentata da una
scala di grigi (o da una scala di colori)
dove alle tonalità più chiare di grigio
(o ai colori più chiari) corrisponde
una bassa intensità del suono mentre
alle tonalità più scure corrisponde
un’intensità maggiore del suono.
4) Frequenze fondamentali e
armoniche
Nelle vocalizzazioni spesso sono
presenti diverse frequenze e sono
visibili sullo spettrogramma. La
frequenza più bassa (lowest-pitched)
è detta frequenza fondamentale
o prima armonica. Poi si possono
avere altre armoniche (dette anche
frequenze parziali) che hanno
frequenze via via più alte e sono
sempre multipli della frequenza più
bassa (per esempio un’armonica con
frequenza fondamentale a 500 Hz
presenta anche frequenze a 1,0 kHz,
1,5 kHz e così via). Le armoniche
danno origine ai suoni nasali; la
nasalità è maggiore o minore in base
alla scala di intensità del suono delle
varie armoniche (colori più chiari
o più scuri andando verso l’alto o
verso il basso).
Le armoniche o sfumature
(“overtones”) sono rappresentate
in un sonogramma da un tipico
pattern a scala dove una frequenza,
quella fondamentale, è quella più
bassa. L’ampiezza relativa di queste
armoniche può variare modificando
notevolmente la qualità del suono;
le sfumature a volte non sono
armoniche ma formano delle bande
laterali nel sonogramma.
Gli aspetti e i parametri mostrati dal
sonogramma di una vocalizzazione
non finiscono qua, ma continueremo
ad analizzarli nel prossimo articolo.
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DUE NUOVI CALENDARI NATURALISTICI
DI PAOLO TARANTO
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ENTOMOLOGIA
Un viaggio nel territorio
per conoscere la diversità
biologica che rende unico
il nostro ecosistema
Alla Dolina della Spipola
l’incontro con Messor capitatus
Forte come
una formica
A cura di Guido Pedroni e Maria Mihaela Dogaru Pitirici
WBA - World Biodiversity Association, Verona
GRN - Gruppo di Ricerca Naturalistica “Charles Darwin”, Bologna
Messor capitatus
Ancora una volta ci siamo ritrovati a
camminare nella Dolina della Spipola sulle
colline del primo Appennino bolognese,
e qui abbiamo osservato (e fotografato)
due colonie di formiche appartenenti
alla specie Messor capitatus descritta da
Latreille nel 1798.
La dolina, zona carsica impostata sul gesso,
è stata trattata più volte in questa sede; è
un ambiente di grande interesse ecologico
perché ha in sé caratteri xerotermici sui suoi
versanti (secchi e caldi, quindi) e caratteri
microtermici (freschi o addirittura freddi) nel
bosco posto sul fondo della dolina stessa e
soprattutto in prossimità delle aperture della
grotta omonima.
Messor capitatus è comune nell’Italia
centrale e meridionale, mentre non si
conosce bene il limite settentrionale del
suo areale, a parte popolazioni relitte nella
Valle di Susa e nelle Prealpi Venete (A.
Scupola in litt.).
Diffuse in tutto il mondo, le oltre 100
specie conosciute appartenenti a questo
genere, nidificano in luoghi aridi e brulli
o anche nelle insenature delle rocce se
queste si trovano sotto un piccolo spessore
di terra, proprio come abbiamo osservato
sui versanti secchi e caldi della Dolina
della Spipola, costruendo il nido nei siti
opportunamente individuati.
Le formiche (Imenotteri come le api e le
vespe) rappresentano da sempre un mondo a
sé stante nell’entomologia, un microcosmo
dove “vince” il superorganismo che ogni
colonia rappresenta, non tanto per il
numero di esemplari (spesso varie migliaia)
ma per la capacità di organizzarsi e di
interagire degli esemplari fra loro, proprio
per il bene di tutta la colonia.
Il nome “Messor” significa “colui che
miete”, da intendersi dunque come una
formica mietitrice. In Italia ci sono nove
specie appartenenti a questo genere.
Il nome è perfettamente attinente ad un
comportamento tipico di questa specie,
in quanto dedita ad un foraggiamento di
gruppo arrivando a formare colonne larghe
e regolari. Le operaie vengono reclutate
grazie alla produzione e al rilascio di
feromoni dalla ghiandola di Dufour invece
che dalle ghiandole velenifere.
Un comportamento particolarmente
interessante riguarda pure la produzione
di feci contenenti gli stessi idrocarburi
della cuticola delle formiche operaie; le
feci vengono sistemate intorno al loro
nido per facilitarne il riconoscimento
della posizione; tali idrocarburi vengono
utilizzati, anche, nella fase di contatto
ravvicinato per determinare se un’altra
formica appartiene alla stessa colonia.
La principale fonte di cibo di Messor
capitatus sono i semi, ma le formiche
possono mangiare anche resti di piante
(cereali soprattutto) e animali. I semi spesso
sono dispersi in ambiente; gli effetti della
dispersione dei semi da parte delle formiche
sono importanti in quanto possono
influenzare la crescita della vegetazione
e il fatto che siano posizionati in una
vegetazione rada significa che i semi sono
sottoposti ad una competizione limitata.
Nelle operaie, il torace presenta un profilo a
gobbe, rialzato rispetto al propodeo, e due
corte spine ridotte a semplici tubercoli sulla
parte dorsale posteriore del propodeo.
L’addome, ovale e di dimensioni ridotte
rispetto al resto del corpo, ha il pungiglione,
che può infliggere punture raramente
dolorose per l’uomo. Le mandibole, di
conformazione tozza, sono ricurve ed
unite alla sommità dell’apparato boccale, e
presentano numerosi denti sul lato interno.
La fondazione di una colonia viene indicata
come “fondazione claustrale”, cioè la
regina cerca un posto tranquillo nella terra
per fondare la colonia, isolandosi in una
cella da cui non uscirà più.
Messor capitatus è una specie polimorfica, il
che significa che ha individui di varie taglie
raggruppabili in classi ricorrenti (minore,
media e maggiore), inoltre è una delle poche
specie che in rare situazioni può avere operaie
telitoche, vale a dire che vengono prodotti da
uova non fecondate solo esemplari femmina
attraverso la partenogenesi. Le operaie major
sono caratterizzate da un capo di grandi
dimensioni, con forma a ciliegia, mentre
le operaie presentano una testa piccola ed
ovale.
Formiche, piccoli animali che hanno
comportamenti straordinariamente
curiosi e interessanti, di grande strategia
comunicativa e comunitaria, e di
“intelligenza” fine e ben organizzata.
Osservando e studiando anche questi
piccoli imenotteri pensiamo si possa
comprendere meglio il nostro stesso ruolo
nella natura.
(Ringraziamo l’amico esperto mirmecologo
Antonio Scupola, del Museo Civico di
Storia Naturale di Verona, per la lettura
critica dell’articolo).
57
Il racconto di FAUSTO CARPANI
Da Gaggio Montano alle trincee sul Podgora
nel primo conflitto mondiale
La guerra
di Turindo
Era stata l’unica licenza dopo otto
mesi di prima linea. Venti giorni
in una Gaggio popolata solo da
donne, vecchi e bambini, perchè gli
uomini validi erano tutti al fronte.
Pochi giorni durante i quali era stato
mèta di un continuo pellegrinaggio
di madri e mogli che venivano a
mendicare notizie dei loro cari, che
solo raramente riuscivano a filtrare
attraverso le maglie della censura
militare.
Era il 16 dicembre del 1916 quando
lasciò il paese con un fiasco di vino
sotto al braccio, piangendo. Quei
lunghi mesi di guerra gli avevano
insegnato che era facile, troppo facile
morire, come Giovanni, il suo amico.
Aveva sporto la testa fuori dalla
trincea per vedere se era vero che i
tedeschi erano a pochi metri da loro.
Era così: la pallottola di un cecchino
lo aveva colto in mezzo alla fronte.
Partì da casa con la certezza di non
farvi più ritorno, perchè la morte
era sempre in agguato, in mezzo al
fango come loro, mai sazia. Lassù,
sul Podgora, c’era un nemico da
combattere, un nemico che però
non era mai venuto a bruciare il suo
raccolto, non gli aveva insidiato le
donne di casa, non gli aveva vuotato
la stalla. Un nemico che non poteva
odiare, montanaro e contadino come
lui, ma al quale doveva sparare e
nel cui ventre doveva affondare la
baionetta, come nella gola di un
porcello; un nemico verso il quale
il 24 maggio 1915 avanzarono di
notte fino a ridosso dei reticolati e lì
presero a scavare con la pala e con
le mani, per fare la “trincera”(trincea)
, lottando con quella roccia dura
che non si lasciava neppure scalfire,
mentre gli ufficiali li incitavano a far
presto, poichè solo rintanandosi in
qualche buca potevano sperare di
vedere l’alba.
Salì sul treno a Porretta, con gli occhi
ancora umidi di pianto, intruppandosi
con altri ragazzi con l’aiuto dei quali
il fiasco fu presto vuoto. Pian piano
il nodo che aveva in gola si sciolse,
stemperando in artefatta allegria
l’angoscia che aveva dentro, mentre
il treno, come cento altri, portava
il suo giovane carico in “zona
d’operazioni”, squallido eufemismo
che nascondeva una realtà fatta di
fango, freddo, inettitudine degli alti
comandi, eroismo inutile e morte.
Attraversarono la grande pianura
ove a lui, contadino di montagna,
apparve così facile il lavorare quella
terra senza grotti e rovine, senza sassi
da scalzare; una terra spartita fra
pochi padroni che abitavano in città e
che venivano in calesse a pretendere
il frutto delle fatiche altrui, in virtù di
chissà quali antichi preivilegi.
Vide anche il grande fiume, quasi
un mare per lui, il cui orizzonte era
chiuso fra il Reno, il Silla e i fossi
intorno al suo campo, gonfi d’acqua
solo al disgelo o dopo un temporale;
quei rii dove andava a “fare la stîrpa”
( ripulire i fossi dagli sterpi - stirpa -
che venivano poi usati per scaldare
il forno.) perchè solo così l’acqua vi
scorreva senza far danno. Dopo la
pianura altri monti: dapprima sagome
azzurrognole che emergevano oltre
la bruma, poi sempre più grandi
piramidi bianche. Il 12 dicembre
1917 il treno giunse in terra friulana
con il suo carico di tristezza.
Fu subito trincea. Non erano
trascorse ventiquattr’ore dagli addii
che già scendeva nel fango di quel
mondo semitrogloditico, gironi
danteschi ove si poteva vivere anche
per mesi, aspettando un cambio che
non veniva mai; ove si moriva senza
quasi accorgersene e sempre senza
saperne il perchè. Scese la sera sulla
trincea. A quell’ora, a casa, andava a
governare le bestie prima di sedere a
tavola, col fuoco che scoppiettava nel
camino. Poi una partita a carte e un
bicchiere di vino.
All’improvviso la montagna impazzì
e lontane vampe annunciarono che il
nemico stava dando loro il bentornato.
La granata arrivò sibilando e fu come
se il mondo andasse in frantumi:
un bagliore accecante, un ruggito
di morte e poi il silenzio rotto dal
lamento dei feriti. Fra questi anche
lui. Con la mano sentiva la punta
dell’enorme scheggia che gli aveva
squarciato il fianco e che premeva
all’interno della sua schiena come un
orribile bubbone che volesse aprirsi.
Quanto tempo trascorse? Qualcuno
lo trasse dal fango e lo portò via da
quell’inferno. Mentre lo sballottavano
su una barella vide ammucchiare
su un camion i compagni morti,
pietosamente composti dai
sopravissuti. All’ospedale da campo
gli levarono quel ferro dal corpo
insieme a un paio di costole e
ricucirono lo squarcio lasciandogli,
a perenne ricordo, un “crespon”
(cicatrice) che è come una medaglia
al valore. Poi l’immobilità su un letto
bianco, in mezzo a una folla di feriti
che si lamentavano e lì, accanto a lui,
quella voce forestiera che gli diceva:
– Amico, se non vuoi morire non
58
Bologna
bere!
Una sete terribile gli arroventava la
gola e gli faceva sognare i suoi fossi
colmi d’acqua, udire il risucchio
delle bestie che bevevano nella
stalla. Per cinque lunghissimi giorni
non potè dissetarsi, con le labbra
che si screpolavano, mentre un
lupo famelico gli piantava le zanne
nel fianco. Ad ogni ora gli facevano
un’iniezione, ora su una gamba,
ora sull’altra e alla domanda di rito:
“Come và?” lui rispondeva:
– A g ho séda! (ho sete..)
La sete! Il supplizio che superava il
dolore della ferita, che non si placava
con la pezzuola umida che ogni tanto
gli mettevano sulle labbra.
Venne anche il cappellano a
chiedergli se voleva confessarsi e
comunicarsi ma lui, come tanti altri
pur credenti, rifiutò. Fra i feriti si era
sparsa la voce che quello era un falso
prete che aveva l’ordine di eliminare
i moribondi con un’ostia avvelenata:
qualcuno aveva creduto di notare
una strana mortalità fra coloro che
avevano fatto la comunione, per far
posto ai feriti che in sempre maggior
numero arrivavano dal fronte. Si
trattava, forse, di fantasie di poveri
cristi che si sentivano esattamente
quello che erano: carne da cannone,
gente che aveva visto esecuzioni
sommarie compiute per decimazione;
ragazzi terrorizzati che si rifiutavano
di tornare in trincea sparando in aria
per protesta e che venivano fucilati
alla schiena per insubordinazione, a
ribellione sedata, avendo come unica
prova la canna del fucile ancora
calda. Soldati per forza che andavano
all’assalto all’arma bianca, falciati
come spighe di grano, povera fanteria
stracciona, la “buffa” che pagò con
un numero altissimo di vite ogni
metro di terra strappato al nemico.
Al quinto giorno bevve un po’ di
Marsala, centellinandolo goccia
a goccia in ventiquattr’ore. Poi,
finalmente, l’umile, preziosa sorella
acqua.
Venne Natale e quel giorno bevve un
po’ di brodo caldo, che mandò giù
titubante, convinto com’era di sentirlo
fuoriuscire dalla schiena. Invece
ne sentì il calore che gli riscaldava
le viscere, sulle quali un anonimo
cerusico militare aveva eseguito un
perfetto lavoro di chirurgia idraulica.
Ancora lunghi giorni di immobilità e
di fame. La sete era ormai un ricordo
e il suo corpo, non ancora pronto
ad accogliere cibi solidi, stentava a
riprendersi, debilitato com’era dalla
perdita di sangue e dalla forzata
inedia. La lunga odissea da un
ospedale all’altro, su lunghi treni
carichi di dolore, fino a Pavia, dove
il cibo era buono ma sempre troppo
scarso.
– Hai da mangiare a casa? – gli chiese
un ufficiale medico dopo averlo
visitato. Rispose di sì anche se non
era vero.
– Allora preparati che ti mando al tuo
paese!
– Mo còmm fâghia andè a cà?An stò
in pè! (Come faccio ad andare a casa?
Non sto in piedi!)
Era vero. Pur non riuscendo a reggersi,
quella era un’occasione da non
perdere: quell’ufficiale aveva fama di
duro, uno che raramente concedeva
convalescenze a casa, soprattutto a
quelli del 78° Fanteria, il reggimento
di suo figlio, ucciso in combattimento
da una pallottola italiana.
Fu caricato sul treno a braccia e
sistemato in uno scompartimento
riservato agli ufficiali, dove avevano
già preso posto quattro capitani. A
Parma un controllore cercò di farlo
sloggiare, ma uno di loro prese le sue
difese:
– Soldato, fai vedere come sei messo!
Aiutandosi con le braccia,
faticosamente si alzò, guadagnandosi
una poltrona imbottita fino a Bologna.
Quivi giunto, un commilitone lo
aiutò a scendere e lo accompagnò
fino alla sala d’aspetto in attesa del
treno per Porretta. Verso l’una di
notte, raccolse tutte le sue forze e si
alzò, trascinandosi fino al convoglio
in partenza. Davanti all’ostacolo
insormontabile rappresentato dalle
predelle per salire si fermò e ancora
una volta fu issato a braccia come un
bambino in fasce. Finalmente il treno
si mosse: stava veramente tornando a
casa, malmesso ma vivo e pensava a
quei ragazzi che lo avevano aiutato a
vuotare il suo fiasco di vino. Quanti
di loro avrebbero preferito tornare
nelle sue condizioni piuttosto che
continuare a marcire nelle trincee! Il
treno correva nella notte verso i suoi
monti, scavalcando ogni tanto quel
fiume, il Reno, lo stesso che scorreva
laggiù, sotto alla sua casa, al quale
portavano acqua anche i suoi fossi.
Arrivò a Porretta a notte fonda e anche
lì qualcuno, un facchino, gli prestò le
sue robuste braccia per farlo scendere.
Nessuno in giro a quell’ora, non un
birocciaio che andasse verso Gaggio,
ma era tanta la voglia di tornare che,
combattendo contro il dolore, si mise
in cammino.
Scarpinò per cinque ore, quasi
strisciando a carponi quando la
strada, poco più d’una mulattiera, si
faceva particolarmente ripida. Arrivò
che era giorno fatto.
A casa, disteso sul letto, sua madre
gli tagliò le brache per poterle sfilare,
tanto erano gonfie le gambe.
Era il 25 febbraio 1917 e lì, nella sua
camera, fra rumori e odori familiari,
pensò che per lui la guerra fosse finita.
Si sbagliava: fu congedato il 4
novembre 1919 e tornò a lavorare il
suo podere a Gaggio Montano. Fece
l’agricoltore fino all’età di 96 anni.
Turindo Brasa, Cavaliere di Vittorio
Veneto, è morto a 101 anni nel 1996.
59
ISTITUZIONI
Gli sportelli della Città Metropolitana per sostenere cittadini
e aziende che vogliono vivere e crescere in Appennino
Lavoro, impresa,
ambiente
Sempre più persone scelgono l’Appennino
bolognese per la qualità della vita che
offre e per la dimensione di comunità che
qui resta viva, ma anche perché possono
ritrovare spazi, tempi e relazioni che altrove
sembrano perdersi. Un trend confermato
dalle statistiche più recenti e dal rinnovato
interesse verso la vita in montagna, che
negli ultimi anni è tornata a essere vista non
solo come meta di svago, ma come luogo
di opportunità, dove costruire progetti di
vita e di lavoro. Chi immagina il proprio
futuro in Appennino oggi può contare sui
servizi che Città metropolitana e Comune di
Bologna mettono a disposizione attraverso
il progetto BIS – Bologna Innovation Square
e gli Sportelli attivi in Appennino: una rete
pensata per sostenere cittadini e imprese,
finanziata con i fondi PNRR destinati al Piano
Urbano Integrato “Città della Conoscenza -
Centro ricerche ENEA Brasimone e Centro di
Mobilità San Benedetto: per una maggiore
attrattività dell’Appennino”, seguendo la
logica che gli interventi fisici debbano essere
accompagnati da investimenti sul capitale
umano e sullo sviluppo imprenditoriale
sostenibile del territorio.
Gli sportelli sono tre, ricevono gratuitamente
su appuntamento, nella sede di Castiglione
dei Pepoli o online in videochiamata,
e accompagnano chi desidera vivere,
lavorare o sviluppare il proprio business
in Appennino, trasformando un’idea in un
percorso concreto.
Lo Sportello Vivere e lavorare in Appennino,
racconta Sara Donati – operatrice del servizio
–, si rivolge a persone e famiglie che stanno
valutando un trasferimento o che si sono da
poco insediate sul territorio. “Le richieste più
frequenti riguardano la ricerca di una casa
o di un’occupazione, ma non mancano
domande sui servizi educativi, sanitari e di
mobilità: aspetti fondamentali per chi vuole
mettere radici”. Lo sportello offre quindi
informazioni pratiche, aiuta a orientarsi
tra pratiche amministrative e adempimenti
burocratici, facilitando l’accesso ai principali
punti di riferimento del Comune o dell’area
vasta di interesse e mettendo a disposizione
contatti utili in base alle esigenze di
ciascuno. Ma soprattutto, apre la strada alle
di Stefania Marconi
reti locali, rendendo l’ingresso in comunità
più semplice e naturale.
Lo Sportello Imprenditoria, invece, è pensato
per chi ha in mente un’attività economica e
vuole svilupparla in Appennino. Il servizio
accompagna aspiranti imprenditori e
imprenditrici, start up e imprese già insediate
che desiderano rilanciare il proprio business,
supportandoli nella definizione del progetto
e creando al tempo stesso occasioni di
confronto attraverso eventi e iniziative
che mettono in rete imprese e istituzioni,
generando nuove idee e fiducia nel futuro
della montagna.
Lo Sportello Green per le imprese è dedicato
alle micro, piccole e medie aziende che
vogliono affrontare la transizione ecologica.
Un tema decisivo ma spesso percepito come
difficile, perché richiede di superare ostacoli
legati a costi, normative e cambiamenti
organizzativi che possono sembrare lontani
dalla quotidianità di un’impresa. Lo sportello
nasce proprio per questo: rendere la
sostenibilità più vicina e praticabile, aiutando
le aziende a informarsi su opportunità e
strumenti concreti, ma anche a condividere
esperienze e trovare soluzioni insieme.
Attivi da marzo 2024, in poco più di un anno
gli sportelli hanno già affiancato più di cento
tra nuovi abitanti e aspiranti imprenditori.
Tra le storie più significative c’è quella della
famiglia che ha deciso di cambiare vita e
trasferirsi in un piccolo borgo non lontano
da Lizzano in Belvedere, per avviare un
progetto di ospitalità e crescere i figli in un
contesto a misura d’uomo. C’è poi la giovane
artigiana che, tornata in montagna, ha aperto
una bottega di moda sostenibile nel comune
di Gaggio Montano, grazie al sostegno del
progetto Giovani Imprese in Cammino e
dello Sportello Imprenditoria. E accanto
a queste storie individuali, ci sono più di
cento imprese che hanno beneficiato dei
servizi: numeri che raccontano un impegno
costante, capace di tradursi in opportunità
concrete per chi guarda all’Appennino come
a un luogo dove costruire futuro.
Accanto all’attività di ascolto e orientamento,
anche la promozione di eventi ha assunto un
ruolo di primo piano: oltre trenta iniziative
in dodici mesi hanno dato nuova linfa al
INFO E CONTATTI
GLI SPORTELLI RICEVONO
GRATUITAMENTE
E SOLO SU APPUNTAMENTO
ogni martedì, mercoledì e giovedì in orario
da concordare tra le 9 e le 18
- in sede: di persona presso il Comune
di Castiglione dei Pepoli (BO), Piazza
Marconi 1
- on line: attraverso videochiamata
Per fissare un appuntamento scrivi a
- viverelavorareinappennino@
cittametropolitana.bo.it
- progimpresa.appennino@
cittametropolitana.bo.it
- sportellogreen@cittametropolitana.bo.it
confronto tra cittadini, imprese, istituzioni e
comunità locali. Tre percorsi, in particolare,
si sono distinti per il loro impatto:
L’Appennino è casa mia (giugno 2025 – in
corso), rassegna di appuntamenti che si
svolge tra Bologna e i comuni montani per far
conoscere da vicino la vita e le opportunità
dell’Appennino, attraverso le storie di chi
ha già scelto di viverci e lavorarci; ECO-
LAB (maggio-luglio 2025), un ciclo di
laboratori pensato per chi desidera avviare o
trasformare un’attività in chiave sostenibile;
“Vuoto a rendere” (febbraio-aprile 2025), tre
incontri che hanno acceso i riflettori sul tema
della locazione aprendo un dialogo con i
proprietari immobiliari per la valorizzazione
delle abitazioni vuote o sottoutilizzate, un
tema centrale per la montagna bolognese,
dove il patrimonio sfitto rappresenta una
delle sfide più urgenti.
Il filo che unisce servizi ed eventi è la volontà
di rendere l’Appennino un luogo in cui sia
possibile vivere bene, fare impresa e sentirsi
parte di una comunità in movimento. È lo
stesso messaggio che gli sportelli trasmettono
in ogni attività: “Hai un progetto di vita o
d’impresa? In Appennino trova spazio per
crescere”. Non una promessa astratta, ma
l’invito concreto di un territorio che sa unire
ambiente, comunità e innovazione, e che
oggi è pronto ad accogliere nuove energie
e nuove idee.
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61
Il rACCONTO
Pubblichiamo uno dei capitoli del
volume di Valeria Pritoni
Nonna
ERMELINDA
Ermelinda era la mia nonna paterna. La sua vita è stata
quella tipica di tante donne della sua generazione che
hanno attraversato due guerre ed eroicamente hanno
allevato nidiate di figli.
Ci voleva una forza notevole, spesso nascosta dalla mitezza
che la cultura del tempo richiedeva al sesso femminile.
Ermelinda però non fu mai mite, antesignana di una stirpe
di femmine combattive e appassionate, non rinunciò mai
ad affermare il suo pensiero e a lottare con coraggio e
pervicacia per il bene della sua famiglia. I racconti che
seguono mi furono narrati dai figli che, quando si riunivano
in grandi tavolate, attiravano noi bambini con queste storie
in cui l’eroina era proprio lei, Ermelinda.
La guerra, la sfoglia e l’urineri
Mia nonna odiava la guerra e quando ne parlava diventava
triste e concludeva il discorso in fretta, come per scacciare
il ricordo del timor panico che le prendeva quando gli
aerei bombardavano la popolazione di notte e di giorno,
o quando i soldati dell’esercito invasore invadevano le
cascine e minacciavano e uccidevano mentre i fascisti
collaboravano alla carneficina. E prima ancora, giovane
sposa, aveva aspettato il nonno quando era in trincea,
ogni giorno col cuore in gola, ansiosa di avere notizie e
nello stesso tempo con il patema di riceverne. Di guerre
ne aveva viste due, da donna, da moglie e da madre e
aveva imparato che la guerra rendeva peggiori le persone
e portava soltanto morte e miseria.
Questo fatto mi fu narrato da mia zia Guerrina che ne fu
testimone oculare.
Un giorno, nel caseggiato, dove abitava la famiglia di
mio padre, arrivò un gruppo di soldati tedeschi, carichi di
farina, uova, carne, formaggi e ogni altro ben di Dio che
avevano razziato lungo la strada.
Le donne e i bambini terrorizzati dal frastuono e dalle grida
dei militari, stavano nascosti dietro le porte, ma i tedeschi
bussarono con violenza e intimarono loro di aprire.
Due soldati entrarono nella stanza dove la nonna stava
rammendando e le ordinarono di provvedere a fare la
sfoglia e a cuocere per loro il pranzo.
Naturalmente Ermelinda non poté rifiutarsi e così si mise
al lavoro.
Cominciò ad impastare con tanta rabbia, per la sua
impotenza contro la violenza che stava subendo, per
quella rapina che i soldati avevano compiuto, per tutto
quel buon cibo che lei e i suoi figli avrebbero solo potuto
guardare e che invece sarebbe andato a nutrire le pance
di quegli assassini.
Chiamò allora mia zia Guerrina e le disse: “Vam a tur
al granadel per pulir i urineri!” (Traduzione: Vammi a
prendere lo spazzolino per pulire i vasi da notte).
La zia obbedì, anche se non capiva che cosa ne volesse
fare la nonna.
Appena fu di ritorno, Ermelinda prese l’attrezzo e lo usò
per spruzzare la sfoglia di acqua.
La zia spalancò tanto d’occhi e si mise le mani davanti
alla bocca poi disse mormorando, tutto d’un fiato: “Ma
mamma, se se ne accorgono ci ammazzano”
“Te sta zèta, sa vut chi saven! Set sa ghe ed nov, che con
tota la cativeria che ian in tla panza, a ni gnirà gnanc la
caghetta” (Traduzione: Tu stai zitta, che cosa vuoi che
sappiano! Sai qual è il problema, che con tutta la cattiveria
che hanno nella pancia, non gli verrà neppure la diarrea).
In effetti il suo tentativo di boicottaggio dell’esercito
tedesco non ebbe altra conseguenza se non quella sua
piccola soddisfazione personale.
P.S.
Chiedo scusa per il mio pessimo dialetto, lo capisco ma
non lo so assolutamente scrivere...ci fosse ancora la nonna
mi potrebbe insegnare, dimostrando, in questo modo di
non essere ignorante come credeva
Se volete altri racconti di nonna Ermenilda scrivete a
vallibolognesi@emilbanca.it
3062
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IL NONNO DELLA BASSA RACCONTA
Ugo Lamberti
e il Passaporto
della Leggera
Gian Paolo Borghi
Le tradizioni popolari
della pianura
bolognese tra fede,
storia e dialetto
Tra gli artisti che caratterizzarono il mondo
popolare della Bologna dell’800, un ruolo di
spicco è rivestito da Ugo Lamberti. Nato nella
città felsinea nel 1858, si distingue fin da
giovane come straordinario strillone-venditore
di giornali e come caustico o esilarante autore
e declamatore di componimenti dialettali.
La sua attività lo conduce in varie località
nelle quali, per integrare i non sempre
cospicui guadagni, stampa e distribuisce
“fogli volanti” e opuscoli umoristici. Ugo
Lamberti (il cui cognome vero è Lambertini)
si dimostra, nel corso degli anni, un autentico
protagonista della ciarlataneria padana. A
questo proposito, il mantovano Arturo Frizzi
(1864-1940), che è suo amico e compagno di
lavoro in diverse occasioni, così lo ricorda nel suo famoso libro
Il Ciarlatano, che conosce varie edizioni a partire dal 1902: «A
Bologna organizzo una squadra di strilloni. Fra gl’ingaggiati è
il bizzarro Ugo Lamberti, noto compilatore di Sirudele, ossia
poesie in vernacolo bolognese, illustrato più volte dal Gandolin.
Aveva un cuore d’oro: distribuiva ai compagni più poveri ciò
che gli restava di guadagno, non potendo addormentarsi con
del peso nelle tasche, perché diceva di volere maestosamente
rispettare le regole da me poste nel famoso Passaporto della
Leggera». Questo “Passaporto” era costituito da un foglio
volante che riproduceva lo stile del documento ufficiale, ma
con prescrizioni decisamente fuori dalle righe. Stampato
dall’Impero della Miseria-Mandamento della Povertà-Comune
della Fame (cito da un’edizione del 1890), tra le regole della
Società della Leggera (della miseria, nel gergo della piazza)
c’era anche quella dell’obbligo di sperperare i soldi guadagnati,
pena la condanna a diversi mesi di reclusione (o, addirittura al
taglio della testa!) ai risparmiatori più virtuosi.
La sua esuberante attività nella piazza del mercato e l’insofferenza
a qualsiasi rapporto subordinato gli procurano diverse, piccole
noie giudiziarie: viene spesso multato perché contravviene al
divieto, sancito dall’allora regolamento di polizia urbana di
Bologna, di “emettere alte grida e di annunciare i fatti contenuti
negli stampati”. Le contravvenzioni, mai pagate, finiscono alla
Pretura Urbana, alle cui udienze (come altri) si difende da sé
oppure con l’assistenza di avvocati più o meno improvvisati!
Tra le sue zirudèle spicca un testo, stampato dalla Società
Tipografica già Compositori di Bologna nel 1889. Conservato
alla Biblioteca dell’Archiginnasio, porta un titolo chilometrico:
Nova Zerudèlla sòura èl questiòn di lardarù
ovvero La Cavalleide ovvero la odissea dei
venditori di carni in…fette (vulgo felsinesi
salumier). Po-e-metto Troicomico-Bestiale-
Serio Faceto. Ugo Lamberti denuncia uno
scandalo petroniano: la sofisticazione di
carni. Questi sono i versi iniziali della sua
composizione: Zèrudèlla propri d’bòn/
Quèst è un fatt an’iè rasòn,/Che a pensar
a zer(t) miseri/L’è davvèira un affar seri./
Che pladur, che confusion/Pr’el trèi cass
che a la Staziòn/L’alter de foun sequestrà
(Zirudella proprio davvero/Questo è un
fatto non c’è ragione,/Che a pensare a
certe miserie/È davvero un affare serio,/Che
subbuglio, che confusione/Per le tre casse
che alla Stazione/L’altro giorno furono sequestrate).
Una sua Nòva Zèrudèlla, priva di data, esce dai torchi della
Tipografia Legale di Bologna. Incentrata su alcuni timori dei
bolognesi, ha come protagonista la torre degli Asinelli, che
pare sia “scossata” a causa di un forte vento. Depositata alla
Biblioteca Nazionale di Firenze, ha questi versi introduttivi:
Ecco una nova Zè-rudella/L’è un po’ lunga mo l’è bella,/Sòura
la pora di bulgnis/Perché, a quell che’es dis,/Al gran vèint di dè
indri/Fè scussar la torr di Asnì./Dov es sèint, la mi zènt/I scherz
ch’po’ far èl veint!:::/Badà che UGO LAMBERTI/Al dis sèimper
del coss zerti,/Un suldein paga la pora/Se a vli reder Tiral fora!
Secondo me, il testo non richiede traduzione in italiano.
La Biblioteca Nazionale di Firenze possiede vari suoi testi, tra
cui un’altra Nova Zerudela, sempre stampata dalla Tipografia
Legale. È una protesta per l’aumento della tassa sulle sigarette,
ma è integrata con la denuncia di una serie di altri problemi che
affliggono l’Italia, tra cui la spedizione ottocentesca in Africa,
che darà luogo alle guerre coloniali etiope e abissina. Ecco i
versi con cui inizia la composizione: Zèrudella an so capir/Cus
al seppa st’lavurir,/In bastaven al Spediziòn/Ch’ien l’arveina dla
Nazion/Ai selta fora int’al piò bell/Anche la tassa del zigal.
La tirannia dello spazio mi costringe a interrompere la mia già
sintetica antologia e chiudo segnalando che dopo la scomparsa
di Ugo Lamberti, avvenuta nel 1893 a Massa Lombarda, nel
ravennate, inizierà a frequentare i mercati l’allora “apprendista”
Giuseppe Ragni (Quall dla sarâca, Quello della salacca), che in
breve tempo diventerà il re della nostra Piazzola. Ma questa è
un’altra storia di cui vi ho già “parlato” in un numero precedente
di questa rivista.
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