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intervista Daniele Costantini<br />

16<br />

Il regista<br />

A destra Agostina Belli<br />

Crocevia della vita<br />

Le canzoni di De André e gli ambienti promiscui della città vecchia genovese rivivono in<br />

“Amore che vieni, amore che vai”, tratto dal romanzo scritto dal cantautore con<br />

Alessandro Gennari. Nel cast Paravidino, d’Aquino, Finocchiaro, Popolizio e Nigro<br />

L’umanità descritta dal poeta e<br />

cantautore Fabrizio De André, fatta di<br />

prostitute, papponi e malviventi, rivivrà sul<br />

grande schermo nel nuovo film di Daniele<br />

Costantini, Amore che vieni, amore che vai,<br />

tratto dal romanzo Un destino ridicolo che il<br />

cantautore genovese scrisse nel 1996 insieme<br />

ad Alessandro Gennari. Il regista ha preferito il<br />

titolo di una famosa canzone dell’autore<br />

genovese per sottolineare il forte legame del<br />

film con la materia cantata da De André, i suoi<br />

personaggi marginali e fuori dalle regole, la sua<br />

Genova dei vicoli intorno al porto. Proprio qui,<br />

negli angoli della città vecchia scelti fra quelli<br />

rimasti uguali nel tempo, si muovono i<br />

protagonisti della storia, interpretati da Fausto<br />

Paravidino, Tosca d’Aquino, Donatella<br />

Finocchiaro, Massimo Popolizio e Filippo Nigro,<br />

tutti rigorosamente dediti ad attività illecite e<br />

legati da rapporti “professionali” e amorosi.<br />

Come avete lavorato sul romanzo, avete<br />

apportato dei cambiamenti?<br />

Il libro ha una struttura molto articolata. Ci<br />

sono capitoli costruiti come un dialogo, in cui i<br />

due autori ricordano in prima persona l’epoca<br />

in cui si colloca la vicenda, i primi anni<br />

Sessanta. Poi ci sono altri capitoli in cui viene<br />

raccontata la storia vera e propria, che vede<br />

intrecciarsi i destini di Carlo, il giovane<br />

protettore di prostitute, Bernard il<br />

contrabbandiere, Salvatore il bandito sardo,<br />

Veretta la prostituta e Maritza, la ragazza<br />

che fa perdere la testa a Carlo e che è ispirata<br />

al personaggio di Bocca di rosa. Nella<br />

sceneggiatura, scritta con Antonio Aleotti e<br />

Franco Ferrini, abbiamo ripreso piuttosto<br />

fedelmente questa parte, lasciando perdere i<br />

dialoghi.<br />

In che modo ha usato la musica di De<br />

André nel film e come ha affrontato la<br />

traduzione in immagini di canzoni che<br />

VIVILCINEMA settembreottobre08<br />

Donatella Finocchiaro e Tosca d’Aquino<br />

ormai sono dei classici della musica<br />

italiana?<br />

Le musiche del film sono state scritte da Nicola<br />

Piovani, che ha inciso due album con De André<br />

nei primi anni Settanta. In particolare una<br />

canzone, Amore che vieni, amore che vai, è<br />

stata utilizzata sia nell’originale di De André<br />

che nell’arrangiamento di Piovani. Nel<br />

realizzare il film ho tenuto a mente l’esempio di<br />

Alice’s Restaurant di Arthur Penn, tratto da<br />

una ballata di Arlo Guthrie, per la leggerezza e<br />

la partecipazione emotiva con cui riusciva a<br />

raccontare una storia ispirata a delle canzoni. È<br />

un richiamo puramente affettivo, perché nella<br />

musica di De André non c’è niente di<br />

americano. Credo che della sua generazione sia<br />

stato l’autore che più ha saputo sviluppare un<br />

linguaggio originale, poco influenzato dal<br />

blues o dal folk. L’ispirazione per l’atmosfera<br />

della storia è venuta piuttosto da altri film,<br />

come ad esempio Billy il bugiardo, per il tipo<br />

di personaggio e lo sfondo di una Londra<br />

proletaria.<br />

L’incontro fra i vari personaggi avviene<br />

grazie a una promiscuità di ambienti e<br />

classi sociali che forse non esiste più…<br />

Questa storia si svolge nel ’63, un periodo di<br />

grandi cambiamenti. Sono presenti<br />

contemporaneamente mondi che si stanno<br />

chiudendo e mondi che si sanno aprendo. Ci<br />

sono persone ancora immerse nell’atmosfera<br />

del dopoguerra, altre già proiettate verso gli<br />

anni Sessanta. Il contrasto si percepisce<br />

nell’abbigliamento, nei modi di pensare, nei<br />

modi di fare: alcuni ragazzi si pettinano alla<br />

maniera di Elvis, altri come i Beatles. Di lì a<br />

qualche anno la cultura del rock anni ’50<br />

scomparirà, travolta dalle mode legate ai<br />

Beatles e ai Beach Boys. Abbiamo cercato di<br />

rendere molto presenti questi piccoli e grandi<br />

segnali di cambiamento nelle scenografie, nei<br />

Fausto Paravidino, Massimo Popolizio e Filippo Nigro<br />

costumi e nel carattere dei personaggi. I tre<br />

protagonisti maschili appartengono a classi<br />

sociali e ad ambienti che fino a qualche anno<br />

prima erano nettamente separati e che in quel<br />

momento cominciano a mescolarsi. Carlo, che<br />

vive con la mamma, è di estrazione piccoloborghese,<br />

Salvatore viene da una cultura<br />

antichissima, molto chiusa, mentre Bernard è un<br />

contrabbandiere cosmopolita legato ad altri<br />

tempi, non è un uomo moderno.<br />

Come ha scelto gli attori?<br />

Li ho scelti per le loro caratteristiche e le loro<br />

qualità e anche per il sentimento, la sintonia che<br />

si è creata sui personaggi. Fausto, per esempio,<br />

mi sembrava particolarmente adatto a questo<br />

ruolo di ragazzino che da un giorno all’altro<br />

diventa pappone e si porta dietro la mamma<br />

quando fa il giro di controllo. Lui è piemontese<br />

ma ha studiato a Genova, conosce bene la città<br />

ed era nell’umore della storia.<br />

L’idea del film nasce da una sua personale<br />

passione per la musica di De André?<br />

È stata una coincidenza. I produttori Gabriella<br />

Buontempo e Massimo Martino, con cui avevo<br />

girato Fatti della banda della Magliana nel<br />

2005, possedevano i diritti del libro e mi hanno<br />

proposto di fare il film. A me piaceva l’atmosfera<br />

del romanzo, l’ambientazione fra malviventi e<br />

prostitute nei bassifondi di Genova di<br />

quarant’anni fa. È una storia un po’ sopra le<br />

righe, in parte realistica in parte astratta, e anche<br />

il film è così, una via di mezzo fra reale e surreale.<br />

Nel libro c’è un momento in cui De André non si<br />

ricorda cosa sia successo esattamente, e riporta la<br />

voce popolare. In particolari ambienti e su certe<br />

figure il racconto popolare finisce per diventare<br />

un po’ mitico ma anche un po’ comico. Questa<br />

per me è stata la chiave di lettura per trovare il<br />

tono adatto al film. È come se tutte queste storie<br />

fossero arrivate a me passando di bocca in bocca.<br />

BARBARA CORSI

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