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CAPITOLO VI<br />
La dolorosa via della droga di Carmine mi si svelò solo con il<br />
tempo: il mio ragazzo si era ridotto a vivere pietosamente e i suoi<br />
genitori erano stanchi per le continue richieste di soldi per procurarsi<br />
“la roba”.<br />
Anche la sua malattia andava avanti senza tregua e le medicine<br />
non potevano più nulla su un male ormai incurabile. I genitori le<br />
tentarono tutte: chiesero aiuto al sindaco del paese, alle associazioni<br />
locali, agli amici intimi, ma gli aiuti arrivavano col contagocce.<br />
Una delle ultime volte che lo vidi lo convinsi ad uscire lungo la<br />
strada maestra del paese per svagarsi un po’: con mia sorpresa<br />
accettò l’invito. Durante la passeggiata non lo vidi molto cambiato:<br />
indossava il suo solito vestito pulito. Camminava con imbarazzo,<br />
forse perché capiva che i conoscenti incontrandolo si sarebbero<br />
meravigliati nel vederlo così denutrito e ridotto.<br />
Scambiammo poche frasi, impacciato com’era nel vedere amici<br />
e paesani. Parlammo di tutto e di niente fino a che non rivangò la<br />
vita nella metropoli che ingoia l’essere umano senza un accenno, un<br />
av<strong>viso</strong>. Mi raccontò del suo calvario, il suo dramma: l’incontro con<br />
una ragazza tunisina, i rapporti intimi frequenti, le gite, le scampagnate,<br />
le cene con gli amici. La vita sfrenata durò sino a quando si<br />
presentò il male e il calvario. Qualunque somma di denaro, guadagnata<br />
onestamente col lavoro che non mancava, era insufficiente<br />
per le cure. Terribilmente depresso capì che sarebbe morto e decise<br />
di rientrare al paese natio, per vivere l’ultimo periodo della sua vita,<br />
confortato dal calore della famiglia.