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I Quaderni della Rinascita. Racconti - Versione lunedì 8/06/2020

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Italia Poetica

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 2


Italia Poetica

AUTORI E AUTRICI

Federica Zingarelli - Pag. 4

Antonella Tavalente - Pag. 6

Cristiana Venturi - Pag. 8

Riky Puntil- Pag. 9

Elisa Poletto - Pag. 10

Gianluca Garrapa - Pag. 13

Lorenzo Titta - Pag. 14

Elisabetta Bortolozzi - Pag. 15

Simona Zarcone - Pag. 17

Morgana Galasso- Pag. 18

Rosaria Mascellaro - Pag. 20

Rosalia Alberghina- Pag. 21

Giacomo Felici - Pag. 22

Elena Bacchielli - Pag. 24

Giulia Bellucci - Pag. 26

Laura Gronchi - Pag. 30

Maria Mastrogiovanni - Pag. 35

Irene Speziale - Pag. 37

Guido Noemi - Pag. 41

Riccardo Martellini - Pag. 42

Maria Luisa Farolfi - Pag. 43

Margherita Talia - Pag. 45

Lisa Bortolini - Pag. 50

Lorenzo Magnani - Pag. 57

Donatella Rabiti- Pag. 59

Vera Lazzaro - Pag. 61

Andrea Bogoni - Pag. 63

Paola Ragazzi - Pag. 65

Arianna Marinelli - Pag. 69

Maria Antoniazzi - Pag. 71

Eliana Di Prima - Pag. 73

Debora Nappi - Pag. 75

Emma Giuliana Grillo - Pag. 77

Martina Gerelli - Pag. 78

Eleonora Bellani - Pag. 80

Elena M. Giudici - Pag. 82

Giada Canzian - Pag. 85

Giulia Detoni - Pag. 87

Serena Sabino - Pag. 88

Rita Mariconda - Pag. 89

Arianna Giannino - Pag. 93

Francesca Marzano - Pag. 94

Iana De Muro - Pag. 95

___________________

A tutti gli autori e tutte

le autrici, grazie di cuore.

Per aver risposto con

entusiasmo alla nostra

semplice idea, per la loro

passione e anche

per la pazienza.

Un abbraccio di cuore.

La Redazione di

Italia Poetica

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 3


Italia Poetica

Federica Zingarelli

Due mesi fa mai avrei creduto che saremmo potuti arrivare a questo punto.

Sembra surreale anche parlarne. Abbiamo studiato della guerra tra i banchi e sui libri di scuola,

con ricostruzioni di documentari e film d’ogni tipo.

Mai avrei creduto di poterne far parte.

Sembra incredibile come l’uomo, sempre lui, riesca a innalzarsi e distruggersi con la stessa dose

di caparbietà, perseveranza, coraggio e negligenza. Eppure eccoci qui.

Tutti, chi più, chi meno, a dover fare i conti con noi stessi. Noi. Uomini e donne che negli anni

hanno studiato e messo in pratica minuziosamente il modo migliore per fuggire da sè stessi,

oggi siamo qui: costretti a prenderci cura di noi.

Non è abitudine comune e diffusa quella di dare peso al tempo. Il tempo, già. Una parola dietro

cui si cela mistero. Il mistero delle nostre intere esistenze.

Viviamo convinti di possedere il tempo o, in altri casi, che esso ci sia nemico.

Che voglia sottrarci sempre qualcosa. Semplicemente perché non siamo abbastanza coraggiosi

per ammettere la nostra totale incapacità nell’apprezzarlo, nel viverlo pienamente. E di conseguenza

viviamo nell’affanno.

Come correndo su un tapis roulant che non ci porterà mai a superare il traguardo. Perdiamo di

vista tutto, anche le cose più semplici e banali. Ci dimentichiamo di correre sempre sullo stesso

posto, illudendoci costantemente di fare progressi. E invece siamo come criceti sulla ruota: senza

via d’uscita. Però adesso, siamo costretti a scendere dalla giostra. Ed è subito black out.

È come risvegliarsi da un coma profondo. Inermi, deboli, senza fiato.

Ci si guarda allo specchio e nemmeno ci si riconosce. Ci parlano i nostri cari e non riconosciamo

le loro voci. Qui, sospesi in questa bolla d’aria che ci fa fluttuare. Leggera si sposta e smuove

l’aria ma risulta pesante lo stesso, anzi, tutti quelli che vi si trovano all’interno soffocano.

È come lasciare un pesce senz’acqua: all’inizio sembra di non potercela fare.

I silenzi diventano assordanti, le distanze si accorciano e risultano ingombranti.

Ci si trova a doversi conoscere ancora, ripartendo dal punto in cui ci si era lasciati, o semplicemente

dimenticati. I respiri, che sembravano incessanti boccheggi, ritornano lenti, profondi. Ci si

riscopre, ci si scopre. Spogliati. Nudi. Senza obiettivi. Nell’oblio.

Con la speranza di non precipitare. Con la paura di cadere e farsi del male. Ci si distrae come

si può, ma alla fine il pensiero torna su noi stessi, sul nostro essere.

Quanto è difficile controllare i pensieri.

Quanto è facile ignorarli, presi dalla nebbia e dallo smog che intasa le nostre vite e annebbia

le nostre menti. Adesso siamo nudi, qui, sul ciglio della strada.

Senza macchine che passano, senza vento che soffia. Bloccati insieme al lento scorrere del

tempo che sembra inevitabilmente intento a metterci catene strette e pesanti e ad attendere, da

bravo spettatore, la follia che incombe.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 4


Italia Poetica

Ma siamo ancora qui.

E più andiamo avanti più la pelle brucia, si stacca, si rinnova.

Scivolano via le catene, diventano leggere. Non danno più fastidio.

L’orologio si ferma. Le lancette non girano e il sole s’allunga con un raggio per darci la mano,

per scaldarci l’anima in questa fredda primavera di incongruenze.

Lo guardiamo timidi, da dietro alla finestra, sporgendo con cautela l’occhio oltre la tenda, intenti

nel non farci scoprire. E tutto fuori la bolla procede, continua senza di noi. Non sembra sentirne

la mancanza.

Le acque tornano limpide, trasparenti, fresche.

I cieli si liberano dalla sofferenza d’ogni tipo di sostanza che ne tentava incessantemente il soffocamento.

Le radici d’ogni albero sono libere di esistere e saldarsi nella terra che a sua volta

torna fertile con campi rigogliosi e fioriture. Tutto continua a esistere anche senza di noi e sembra

anche funzionare bene, molto meglio.

Dall’alto fluttuare della bolla in cui siamo costretti, possiamo vedere le stelle che illuminano il

firmamento e sembrano parlarci. Ci ricordano che di questo mondo noi siamo solo ospiti, semplici

passeggeri. Che non siamo stati creati per possederlo, ma per preservarlo. E come al solito,

come solo noi sappiamo fare, ci siamo illusi di esserci riusciti… fallendo.

Ma la vita continua, al di là dei fallimenti. Ogni fondo ha una superficie.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 5


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Antonella Tavalente

Pensavo che dopo carnevale, avrei indossato una mascherina solo dopo un anno… invece, arriva

una particella invisibile che ha la capacità di costringerci all’uso di protezioni individuali e

non solo!Così piccolo ed invisibile, eppure ha avuto la forza di toglierci la libertà e obbligarci a

stare casa. Io, con le malattie, anche quelle un pò strane, sono avvezza ad averci un contatto,

sono un’infermiera, quindi, le ho studiate e mi hanno pure fatto dannare! Alcune le ho anche

trattate da vicino, mi sono formata alla metà degli anni ’80, quando l’HIV si manifestò e sembrava

un flagello di Dio pronto a sterminarci, ma non riuscì a chiuderci in casa.

Poi si sono avvicendate la sindrome della “mucca pazza”, la SARS, l’aviaria, l’H1N1… ma non

sono riusciti a chiuderci in casa. Lui si, ci è riuscito, un “cosino” rotondo con delle “trombette”

che ricoprono la sua superficie tondeggiante… buffo da vedere, come un giochino per intrattenere

un cucciolo, leggero, si fa trasportare dalle goccioline di saliva e ha anche un nome: Corona

virus, sintetizzato in una sigla COVID19. E’arrivato da lontano e passando da un posto

all’altro, alle sue spalle si chiudevano le frontiere e la gente nelle abitazioni. Ci ha fermati, tutti,

ci ha insegnato un nuovo termine: Lockdown, vuol dire: scuole chiuse, lavorare da casa, negozi

chiusi cinema, teatri, palestre, musei, parchi, centri commerciali, contatti sociali e familiari…tutto

fermo, tutto rallenta e insieme tutto il tempo si dilata. Lavorano solo i sanitari, in prima linea,

infaticabilmente, nei punti Covid, i medici di base e la guardia medica; oppure nelle retrovie,

garantendo la continuità assistenziale. Altri lavoratori senza stop, quelli della distribuzione alimentare.

I primi giorni sembrano una vacanza, si sta di più con la famiglia, si cucina come se

non ci fosse un domani, si fanno file chilometriche per pochi grammi di lievito di birra, tutti con

la mascherina, tutti a distanza… tutto fermo… ma io vivo a Taranto, lavoro a Taranto e solo a

Taranto, mentre tutto è fermo, c’è qualcosa che non si è fermato MAI, nemmeno lui, il piccolo

potente nemico Covid19 è riuscito a fermare l’Ilva! Qualcuno forse non sa che l’Ilva è un colosso

siderurgico che esiste a Taranto da più di 50 anni e che, con il suo inquinare, fatto di fumi

tossici e polveri sottili, ci ha fatto vincere la medaglia d’oro per i morti di tumore. Siamo sempre

primi in classifica, specie con i decessi pediatrici e ogni governo che si succeduto in questi anni,

ha prodotto solo decreti che hanno dato immunità alla fabbrica, ben 13, che le autocertificazioni

di Conte a noi ci sciacquano i piatti, condannando di fatto l’intera cittadinanza ad un destino

di morte. Mentre il governo studia i provvedimenti da adottare per garantire il contenimento

del contagio da Covid19, contestualmente, si dimentica di disporre la chiusura di quella fabbrica,

dove il rischio di non poter adempiere alle normative emanate per arginare questa emergenza

sanitaria è praticamente il massimo! Gli operai continuano ad andare in fabbrica, anche

quando si verifica il primo caso di positività tra i lavoratori.

Tutto è fermo, anche la giustizia, infatti, non si prendono provvedimenti, non si da risalto a questo

avvenimento e si continua a cucinare, a sentire gli amici solo in video chiamata, a consumare

il divano e l’abbonamento dei canali tv a pagamento ma anche a progettare il futuro. Eh si,

perché noi a Taranto lo vogliamo un futuro, specie per i nostri figli e lo vogliamo senza virus ma

anche senza veleni! Le mascherine si toglieranno quando supereremo tutte le fasi di questa

emergenza, ma a Taranto continueremo virtualmente ad indossarle, perché la nostra emergenza

non ha fine. Non potrò concludere i miei quaderni della rinascita se ai bambini di Taranto

saranno ancora vietati i giochi in strada, perchè ci sono depositi di polveri sottili, se l’infertilità

femminile non abbatterà la sua percentuale, se i casi di leucemia da metalli pesanti non saranno

azzerati, se quel Mostro non sarà riconvertito in qualcosa di ecosostenibile, se non dovremo

temere più i giorni di vento, i winday, quando non possiamo aprire le finestre perché la tramontana

ci porta in casa il minerale. A Taranto siamo allenati a combattere contro piccolissimi nemici

che si insinuano nel nostro organismo devastandolo. I nostri danni, le nostre ferite sono più

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 6


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profondi, più difficili da risolvere e curare. La nostra rinascita è indissolubilmente legata alla fine

di una emergenza sanitaria che per noi però, è costante, alimentata dal continuo inquinamento.

Se sarà finalmente fermato, potremo riprenderci quella vita colorata, chiassosa, gustosa di

mare e di sole, di albe luminose e tramonti rosseggianti. Rinascerà il lavoro dignitoso, il sorriso

sui volti segnati dal sale, rinascerà un tempo di prosperità e progetti , un tempo di salute ed abbracci,

questo è il finale caro al mio cuore!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 7


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Cristiana Venturi

“La Regina col mantello”

Nell’ora della sera che domani tornerà legale, guadagnando qualche spicciolo di luce prima

che diventi buio, una donna sta seduta sopra uno scalino largo di un negozio chiuso per la

pandemia.

Stoffe, pezze, stracci e strati di cartone le dilatano la forma, la circondano. Sembra una regina

col mantello grosso che le scende attorno, arrotondandola.

I capelli paglia sono raggi attorno al viso incuriosito dal passaggio di una in bicicletta sulla

strada sgombra. Terminato il turno di lavoro, la signora pedalava verso casa con la giustificazione

pronta ripiegata in quattro parti e il tesserino personale dell’azienda nello zaino.

Si guardarono.

La signora in bicicletta vide una regina col mantello, nel salotto di città che non si era mai mostrato

così comodo. La strada le faceva da tivù.

Pedalando dentro la tivù della regina comoda sul trono di cartone, la signora stanca proseguì

nel suo tragitto verso casa.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 8


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Riky Puntil

“La porta”

La porta era socchiusa il rumore nitido l'odore impermanente. Ero li davanti con quel profumo

di curiosità che la porta mi stava emanando, inconsapevolmente attratto da ciò che li dietro

c'era. Tutte le mie cellule pulsavano si muovevano vibravano, avevo addosso la sensazione di

una nuova condizione vitale, un tam tam primordiale che selvaggio incitava ad un libero viaggio,

dove il confine del giorno, spogliandosi dello ieri dell'oggi e del domani, faceva prendere

all' essenza tribale la coscienza degli elementi. Il mio destino era ormai deciso, fino a questo

momento era sempre stato in bilico e mai deciso, confinato all'interno di un movimento senza

vento. L'immensa perdizione insinuatasi nel profondo del mio Cuore da antiche sabbie mobili,

non aveva più parole, solo musi duri sguardi eterei e senza meta, che le nebbie stagnanti offuscare

dall'oggi, non si spogliavano del mio domani. Sono un attore che nell'arena, si lascia

sbranare dalla platea, cosi che Ella può sfogare le Sue remote e recondite paure. L antico anfiteatro

è un vociare di parole eccitare ma quanti di loro sanno di essere vivi? Dentro in nostro Io

siamo tutti immacolati, accomodati sulla rossa rabbia del posto che occupiamo, in attesa dell'interprete

che nel prossimo spettacolo, si darà in pasto senza più avere il Suo domani. Dirigo i

miei passi verso la porta socchiusa uno dopo l'altro, passo dopo passo, senza paura senza timore,

mentre prendo pian piano coscienza avvicinandomi delle mie prigioni. Sentivo ad ogni

passo rompersi uno alla volta i folli pensieri che da sempre avevano dato conferma della mia

esistenza. Lo sguardo assassino guardava il mio, l'umano esemplare voleva soltanto poterlo

amare. Ero in balia ad ogni mio passo, di quella orribile maschera che l ottusa ragione lodava

soltanto con un canto ostinato, il mio terreno ormai desolato. La porta mi aspetta...mi

chiama...mi invita a varcarla...un passo poi un altro, poi un altro ancora...sulla soglia dell aperta

porta la vedo...eccola...la spianata nella quale solenne si innalza la Croce dalla quale pende

la Mia Morte! Amo la Morte e morire con Lei...il mio libero viaggio dalla terra dei giusti, è

giunta alla gelida cella chiusa. Il promesso banchetto è li ad aspettare. Nel vasto giardino dirigo

i miei passi senza timore, verso l'incontro con la mensa pagana. Il corridoio rimbomba ad

ogni mio lento passo. Eterna Compagna del grande cammino, salta nel baratro...la ricerca è

finita. Getta nel fango il Tuo Cuore che sta sopra a dune morte dove ormai non c'è più erba,

solo diavoli e serpenti. Corri accanto a me corri accanto a me...cavalca la nascita di un nuovo

sole Figlio di un Dio Figlio di un Re. L'alba dell uomo vive il presente, il sole ti scalda con raggi

di fuoco. Ritira la lotta dentro la vita prendi coscienza delle Tue prigioni, essere Tu il tuo eterno

sovrano.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 9


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Elisa Poletto

“Emanuele”

Non potevamo sprecare quell’occasione, difficilmente si sarebbe potuta ripresentare, lui si trovava

per lavoro nello stesso Comune in cui io lavoravo, entrambi quindi eravamo autorizzati a

trovarci là nello stesso momento: eravamo ancora in Stato di Emergenza Nazionale, gli spostamenti

al di fuori del proprio luogo di residenza potevano avvenire soltanto per motivi di lavoro

o strettamente necessari. Il virus che tutti pensavano sarebbe rimasto confinato in Oriente lontano

dalle nostre vite, ci aveva raggiunti più di due mesi addietro, mettendo in ginocchio tutto il

mondo occidentale, sconvolgendo esistenze e priorità, mietendo vittime al pari di una guerra.

Come “primo appuntamento” sarebbe stato quantomeno originale: il piazzale di un centro

commerciale, a distanza di sicurezza. Non sapevamo quanto la limitazione degli spostamenti

sarebbe durata e convenimmo entrambi che fosse un’occasione irripetibile, da afferrare all’istante.

Il parcheggio era ampio e, nella zona più lontana dall’entrata del supermercato, restavano

sempre parecchi posti vuoti e più isolati rispetto agli altri, per lo meno avremmo potuto

avere un minimo di privacy per poterci parlare guardandoci per la prima volta negli occhi, senza

avere timore di ritrovarci in mezzo al tanto demonizzato “assembramento”. Individuai il suo

furgone, andai a posizionare la mia auto lì vicino. Quando spensi il motore, iniziai a realizzare

che finalmente stava per accadere ciò che avevo desiderato così tanto per tutto quel tempo, ed

io quasi non mi capacitavo. Andai con la mente a ritroso, ripercorrendo velocemente col pensiero

il filo che fino a quel momento ci aveva tenuto uniti, un contatto virtuale nel vero senso della

parola, ma che aveva resistito per tutti quei giorni, fino ad allora. Mi soggiunse il ricordo di

come ci eravamo “conosciuti”: non era mia abitudine inviare richieste di contatto sui social se

non conoscevo già la persona, ma erano ormai diverse settimane che la sua foto continuava a

riproporsi su Facebook tra gli utenti che avrei potuto conoscere e, quasi un po’infastidita di ritrovarmi

la sua immagine accattivante sotto gli occhi ad ogni connessione, il suo sguardo particolare,

gli occhi luminosi ma che lasciavano trasparire un’ombra indefinita, l’espressione distesa

ma non sorridente, le labbra socchiuse, fu così che un giorno di Novembre, senza un motivo

particolare, gli inviai la mia richiesta di amicizia, che venne accettata. Il nostro dialogo cominciò

però diverso tempo dopo, il sedici Febbraio, il giorno del mio compleanno: mi contattò lui,

Emanuele, non solo per farmi gli auguri, ma per dirmi che si era reso conto in quel momento

che eravamo nati lo stesso giorno, anche se non lo stesso anno, e ciò in effetti era una cosa curiosa

e simpatica. I primissimi giorni di Marzo, complice un libro che gli avevo consigliato perché

per me era stato “illuminante”, ci eravamo dati appuntamento per sabato 7 Marzo per

prendere un caffè insieme e conoscerci di persona. Esisteva già la cosiddetta “zona rossa” attorno

a Codogno, qualche caso si era verificato anche nella regione in cui vivevo, il Piemonte,

ma il virus sembrava ancora qualcosa di lontano, anche se personalmente avevo iniziato ad

evitare i luoghi affollati e a lavarmi ancora più spesso le mani. Eppure, solo un paio di giorni

prima dell’appuntamento, accadde che, da un momento all’altro, il virus divenne per me e per

chi mi stava attorno qualcosa di molto più concreto e vicino. Venni a sapere che era stato trovato

un caso positivo al Covid nella cittadina in cui lavoravo e un parente di questa persona, impiegato

nell’azienda, era stato messo in quarantena. Da quel momento in avanti la sensazione

di non essere più in sicurezza prese piede, iniziai a non andare più a trovare i miei genitori per

non metterli in pericolo e, nonostante i colleghi mi guardassero un po’ storto, cercai di pretendere

che la distanza di sicurezza, dove possibile, fosse rispettata. Decisi a quel punto di limitare

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 10


Italia Poetica

al massimo anche i rapporti sociali se non indispensabili, comunicai quindi alla mia amica Sara

con cui avevo appuntamento in settimana e ad Emanuele che dovevamo per lo meno posticipare,

spiegandogli cos’era accaduto. Seppure con dispiacere, sentivo che evitare di incontrarci

sarebbe stata la cosa giusta. Col senno di poi, potevo affermare con una discreta certezza che

la mia decisione si sarebbe rivelata quasi profetica: solo un paio di giorni dopo, mi colse infatti

una febbriciattola, insolita per me, che mi accompagnò per soli tre giorni insieme ad un forte e

continuo mal di testa, che mi debilitò molto, lasciandomi dolori al petto e una leggera tosse stizzosa.

Il mio medico di famiglia mi disse di stare tranquilla, per lui era una semplice influenza

stagionale, e mi diede una settimana di mutua. Dopo pochi giorni che la febbre cessò, persi

completamente gusto ed olfatto, all’improvviso. Mi sentivo molto debole, pensai fosse un calo

generale delle mie difese immunitarie e il medico prolungò la mutua di un’altra settimana. I due

sensi mi tornarono dopo diversi giorni. Solo qualche giorno dopo, mi capitò di leggere che tutti

i maggiori esperti in campo sostenevano che questo fosse proprio uno dei sintomi più palesi della

manifestazione del virus, soprattutto nei soggetti giovani o asintomatici. Tuttora non ero sicura

al cento per cento di aver contratto una forma più leggera del virus in quanto non era ancora

possibile effettuare il test per sapere se avessi sviluppato gli anticorpi, ma di sicuro, scegliendo

di auto-isolarmi, avevo evitato possibili eventuali contagi. Tornai al qui ed ora, da dentro l’abitacolo

della mia auto, guardai dentro la sua, mi accorsi che anche lui mi stava osservando per

capire come procedere, indossavamo entrambi la mascherina. Io provai a sorridergli, ma lui

non poté vederlo e questo mi provocò un tonfo al cuore. Realizzai in quel momento che la voglia

di manifestare la mia felicità nell’incontrarlo non poteva e non voleva essere sminuita e nascosta

dietro a quel dispositivo di protezione che ormai era diventato parte del nostro quotidiano.

Iniziai quindi a togliermela, continuando a guardarlo, e lui, di rimando, fece altrettanto:

ecco che finalmente i nostri sorrisi poterono specchiarsi! Una ventata di gioia mi investì, dopo

tutti quei giorni fatti di messaggi su uno schermo e una voce attraverso il microfono di un cellulare,

che ci consentivano sì di tenere vivo il dialogo, ma che di fatto ci relegavano in un limbo

indefinito in cui ci sentivamo vicini ma, senza essersi mai incontrati di persona, non abbastanza

in confidenza per potersi aprire davvero all’altro, finalmente potevamo ora essere lì insieme in

carne ed ossa. Gli feci segno di scendere, seppur a distanza, non potevo rinunciare all’occasione

di poter percepire la sua presenza fisica, vederlo realmente, e non solo più attraverso

un’immagine statica. Ci ritrovammo di fronte, in mezzo a noi lo spazio di sicurezza, ci fissammo

per qualche istante solamente per il gusto di poterlo finalmente fare, poi fu lui a rompere il

ghiaccio, la sua voce dal vivo ancora più piacevole di come l’avessi conosciuta fino a quel momento.

Si scusò per gli abiti da lavoro e a me venne da ridere, nella mia testa si materializzò il

pensiero che un uomo come lui manteneva il suo fine portamento indipendentemente dagli abiti

indossati. Non ero ancora del tutto soddisfatta, in condizioni normali, ci saremmo potuti salutare

con un contatto fisico, una stretta di mano o un bacio sulle guance, invece no, gesti come quelli

ora erano diventati rischiosi, eppure non volevo arrendermi alla dimensione asettica e distaccata

a cui il virus ci stava costringendo. Mi balenò un’idea, cercai nella mia borsa il pacchetto di

salviette igienizzanti che portavo con me, ne presi una e poi glielo porsi. Dopo aver deterso

entrambi le nostre mani, allungai il mio braccio verso di lui, tenendolo completamente disteso,

lo stesso fece lui, in questo modo i palmi delle nostre mani arrivarono a toccarsi, pur mantenendo

una certa distanza tra noi. Guardai le mie mani appoggiarsi alle sue, sentii la necessità di

sfiorare le sue dita, lunghe e sottili, ne percepii il contatto, il loro calore, dopo tutto quel tempo

potevo sperimentare una dimensione tridimensionale di Emanuele. La sua presenza era stata

fino a quel momento quasi spirituale, mi aveva supportata a distanza durante tutto il periodo

della quarantena, la sua voce calda mi aveva fatto sentire meno sola, la sua attenzione nei miei

confronti mi aveva donato entusiasmo nonostante i giorni complicati, fatti di apprensione, precarietà

ed inquietudine. L’idea di poterlo incontrare alla fine dell’isolamento sociale mi aveva

dato la forza per affrontare un giorno dopo l’altro con un atteggiamento di apertura alla vita,

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 11


Italia Poetica

sentivo che il poterlo conoscere di persona era il dono concreto che mi attendeva alla fine di

quel lungo e complicato percorso, era la speranza che mi faceva sentire più leggera l’attesa di

un ritorno ad una pseudo-normalità. Ed ora lui era lì, di fronte a me, mani nelle mani! Ci venne

da ridere, probabilmente la scena, vista dall’esterno, sarebbe sicuramente risultata ridicola, eppure

quel gesto semplice significava molto, per entrambi era l’inizio di un nuovo modo di rapportarci

l’uno all’altra, era la curiosità di scoprire più da vicino chi fosse l’altro, era l’entusiasmo

per aver trovato la conferma che la sintonia percepita fino ad allora attraverso un telefono potesse

diventare davvero una possibilità concreta di specchiarsi nell’altro e, specchiandosi, poter

capire qualcosa di più di noi stessi e poter evolvere. Sentii l’emozione prendere il sopravvento,

non fui capace di ricacciare indietro le lacrime, piangevo e ridevo allo stesso tempo, in una mescolanza

di gioia, sollievo ed incredulità: era il richiamo alla vita, e noi eravamo lì ad accoglierlo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 12


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Gianluca Garrapa

“Frenetici immobili”

Frenetici come particelle di un moto browniano o girini convulsi di vita e leggeri, allo stesso

tempo, e immobili, a lungo trascinati dal vento lieto della giovinezza, soffioni che ci si divertiva

a strappare e soffiare via dalla terra quando non era ancora in devastante reclinante vecchiaia,

vorticosi e armonici come le eliche del fiore di tiglio quando scende lungo il tragitto del suo percorso

esistenziale verso una nuova esplosione di vita, percorrevate la via maestra lungo il parco

immenso dell'adolescenza. E ora? Che ne è stato delle foglie raccolte tra le pagine dei giorni, a

testimoniare la frequenza ossessiva dei nostri amori, delle amicizie amplificate dalla calma deriva

dei giochi, quando si stabiliva una regola nuova pur di non concludere il giro, e si costruivano

ambienti lontani dal mondo degli adulti, nascosti in camerette profumate di coccolino e artificiali

coacervi di odori, e già pregustavamo la chimica, l’eldorado dell’elettronica che sanciva

definitivamente la separazione delle menti e dei corpi – scelsi la carta dei fogli e l’inchiostro

indelebile delle alchimie letterarie; e che ne è stato?

Ma le domande non hanno necessità alcuna e le soluzioni, le risposte, i ninnoli che non sono

laddove ci aspettiamo che siano, non cadono nel vuoto ma lo generano e è questo buco nella

trama delle certezze che pretende la risoluzione di un interrogativo. Allora, diceva la nonna,

fazza Diu, e ci si lasci addebitare l’infinito scatto a una risposta vuota che definisce una domanda

inutile. Così, ora, la mia lieta occupazione, la predisposizione al momento del mondo, è

solo: il nome delle piante e dei fiori: il cardo, il trifoglio, il geranio, la salvia, il lentisco o il rosmarino,

la loro storia officinale, il maleficio e il bianco angelico della rosa, degli alberi: l’odore

del cipresso, la menta scivolata tra le mani. Solo questo. Leggere il mondo attraverso gli occhi

del regno vegetale, sentire il vento, trasportarmi altrove nei campi, come un segreto germogliare

di fragranza primaverile in certe intense giornate di sole.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 13


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Lorenzo Titta

“Gente di Paese”

Sono le 05:50 e l’uomo si alza dal letto nonostante tutto. L’aria di primavera mormora tra i meli

del giardino, filtra tra le persiane socchiuse mescolandosi al placido respiro della donna che

dorme. L’uomo la guarda rannicchiata nella sua vestaglia bianca, poi in punta di piedi si allontana.

Prima di uscire di casa mangia tre fette di pane spalmate di burro. Nel cielo scorge ancora

due stelle. Indossa gli stessi scarponi da vent’anni, gli stessi jeans consumati, la canottiera

viola sbiadito. Raccoglie la vanga, la zappa, il sacco di tuberi e sale nell’auto. Per avviare il

motore gira due volte la chiave. Le strade sono deserte e rimarranno così chissà per quanto. Il

paese si è spento da settimane. La gente esce dalla propria abitazione solo per fare la spesa,

sempre con una mascherina sul viso. Gli unici a lavorare sono i commercianti, i carabinieri, i

becchini e pochi altri. C’è di mezzo la legge e per qualcuno anche la paura. L’uomo rivive l’atmosfera

delle storie sulla guerra che suo padre gli raccontava da ragazzo. Nel paese regna lo

stesso silenzio, la stessa desolazione. Ma se suo padre fosse ancora vivo si metterebbe a ridere

al paragone. Gli direbbe che gli anni della guerra erano un’altra cosa. Albeggia. L’uomo scende

dall’auto e guarda a ovest le prime vette illuminate dai raggi del sole. Prende i suoi utensili e

sia avvia verso il campo, un ritaglio di terra all’interno di un grande prato. È quanto basta per il

sostentamento famigliare. Si spoglia la canottiera e inizia a vangare. La terra è soffice. L’uomo

spera in un buon raccolto. Tra due settimane tornerà per seminare il grano. Tra agosto e settembre

raccoglierà il tutto. Così fa ogni anno, da decenni. Ogni domenica la donna prepara la

polenta con la farina ricavata dal grano macinato, tagliuzza le patate del campo e le inforna

con un po’ di aglio e di cipolla, cucina un coniglio che il vicino di casa gli dona in cambio di

piccoli favori. Ogni domenica l’uomo vede i suoi tre figli cibarsi dei risultati della sua fatica;

questi sono i giorni più belli, soprattutto quando il sole entra dalla finestra illuminando la tavola

apparecchiata e l’uomo, volgendo lo sguardo, vede i rami degli alberi sulle montagne ondeggiare

nel vento. Gli giungono i rintocchi del campanile. Sono le sette. Lascia la vanga e appoggia

le mani sui fianchi raddrizzando la schiena. Osserva la strada in fondo al prato, le case che

via via si rimpiccioliscono verso la parte alta del paese. Tutti sembrano ancora dormire. L’uomo

si siede un momento ai piedi di un pino. Si bagna il petto e il viso con una bottiglia d’acqua

quando all’improvviso sente una voce. «Buongiorno!» L’uomo si guarda attorno senza capire

da dove provenga. «Buongiorno!» Si alza e si allontana dal pino. A un tratto scorge un’auto

scura ferma sul ciglio della strada. Due uomini gli stanno facendo un cenno con un braccio.

Sono vestiti uguali. Portano la divisa dei carabinieri. «Venga!» Dice quello che sembra più alto.

L’uomo si infila la canottiera e si avvicina. «Si metta la mascherina, per cortesia» dice il collega.

«L’ho dimenticata» ammette l’uomo. Il carabiniere più alto solleva le sopracciglia e dice: «Lo sa

che è obbligatoria?» «Lo so, mi dispiace.» L’uomo si guarda le mani. «Ce l’ha un documento?»

«Certo, ve lo porto subito.» L’uomo si allontana per prendere la patente dentro la sua auto.

«Ecco a voi» dice tornando. Porge la patente al carabiniere alto. «Abito qui vicino» dice. Ma i

due uomini sembrano non averlo sentito. Si guardano, si dicono qualcosa che l’uomo non comprende.

«Signor Ghilardi» annuncia il carabiniere alto schiarendosi la voce, «ci dispiace comunicarglielo

ma dobbiamo stilare un verbale.» L’uomo si passa una mano tra i capelli e lo fissa.

«È proprio necessario?» Chiede. «Temo di sì.» Il carabiniere basso compila il verbale. Quando

finisce lo porge all’uomo e dice: «Ci dispiace, ma è la legge.» L’uomo solleva le spalle. «Capisco.»

I carabinieri gli comunicano le modalità di pagamento dell’ammenda. Poi si congedano

montando in vettura e abbandonando il luogo. L’uomo piega il verbale e lo infila nella tasca dei

pantaloni. Prima di tornare al campo nota un movimento dietro la finestra della casa di fronte.

Per un istante gli sembra di vedere qualcuno, il volto curioso e forse colpevole che, ora cosciente

dell’atto commesso, si ritrae nel suo rifugio sicuro.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 14


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Elisabetta Bortolozzi

“Fuori c’è il male"

Si chiama COVID-19. C'è chi ne ha paura e chi invece non gliene frega niente. C'è chi muore e

chi si salva. Chi ha combattuto e chi invece ne è uscito illeso. Sembra di essere catapultati nel

passato , quando c'era la guerra, le strade sono deserte , fra di noi ci si guarda con sospetto.

Scoppiano liti per le distanze non rispettate o perchè si è comprata più farina del dovuto e non

ci si riconosce più con quelle mascherine addosso che dovrebbero proteggerci da noi stessi. Il

mondo è un po' più freddo , più circospetto . Sta cambiando? Forse. All' inizio eravamo tutti

presi da mille fobie, e mi pare che siano rimaste. La preoccupazione maggiore è sapere quando

apriranno i parrucchieri , anche se molti hanno perso il lavoro e non hanno più soldi, l'importante

è avere i capelli in piega. Mezza Italia è ferma : fabbriche, negozi, ristoranti , bar,

cinema e scuole , ma " Dio, fa che riaprano presto i parrucchieri!" Ma forse Dio non può ascoltare

le preghiere visto che anche le chiese sono state chiuse. Non si può fare nemmeno un funerale.

Si avviluppano i malati nel lenzuolo in cui hanno agonizzato , li si sigilla in una bara e li si

porta a bruciare. Non li vedi più. Nemmeno un attimo per dire addio e al funerale, che non c'è,

non si può nemmeno abbracciare chi nel dolore si sta chiedendo cosa diavolo è successo. Cos'è

tutto questo casino che nel giro di due mesi ha cambiato la vita di quasi tutti gli abitanti della

Terra? Molti si chiedono quando finirà? Finirà? Se si, ci sarà un nuovo regime , forse dittatoriale?

Oppure il mondo conoscerà un nuovo modo di fare e di vivere? Gli esseri umani avranno

imparato qualcosa da questa esperienza o finiremo di nuovo a mangiarci gli uni con gli altri?

Continueremo a combatterci per ogni singola cosa , anche la più stupida che esista? Useremo

l'intelletto per una volta cercando di trovare un modo per far vivere tutti in maniera dignitosa e

giusta o guarderemo solo al nostro guadagno e il resto passerà nella nostra indifferenza più

totale? Il mondo ha bisogno di soluzioni mentre intorno aleggiano soltanto problemi e complotti.

E certo... Tanti complotti! Quanti complotti! A dar ascolto a qualcuno sembra che tutto il

mondo non veda l'ora di farci secchi : con i vaccini, col 5G , e ora con questo virus. Vero è che

nessuno sa da dove sia uscito: colpa dei pipistrelli o di una svista in un laboratorio? "MORIRE-

MO TUTTI !" gridano gli estremisti , tranne la regina Elisabetta e i Rolling Stones , loro sono una

sicurezza! E fuori continua ad esserci il male, quello che uccide, poi chiamiamolo come si vuole:

virus , 5G , scie chimiche o in altri mille modi . Non c'è nessuno che abbia una soluzione? Nessuno??

Già , nemmeno io... ho solo un sogno , un' utopia , l'idea di un mondo diverso fatto di

cose concrete costruite da e con valori sani e nobili. Un mondo dove esseri umani aiutino altri

esseri umani in una catena a spirale con un inizio ma senza una fine, in moto perpetuo. Un posto

dove ogni essere vivente sia rispettato, onorato per il contributo che la sua vita dà alla comunità

, aiutato quando non ha la possibilità o i mezzi per farlo da solo. Possibilitato a esprimere

al meglio il suo talento perchè ognuno di noi ha una propria abilità e sarebbe giusto poterla

mettere a disposizione di chi ne ha bisogno. Curato , perchè non tutti hanno questo privilegio e

non tutti vogliono farci stare in salute. Tutti dovrebbero avere la libertà di scelta di come vivere

la propria vita , anche se ammetto che questo potrebbe creare non poche difficoltà visto che

non a tutti piace la libertà altrui. Ma nel mondo che io sogno queste persone non esistono e tutti

sono ben capaci di gestire la propria libertà senza ledere in nessun modo quella degli altri. E

ancora ( perchè non osare visto che è un sogno?) potremmo essere anche altruisti , aiutarci

senza pensare al fatto che magari "se aiuto te tolgo qualcosa a me " . Questo pensiero sarebbe

cancellato e al suo posto metterei quello che dice " Io sto bene e ora aiuto te a star altrettanto"

. Perchè la felicità è nulla se non la puoi condividere con qualcuno. Da questa idea potrebbero

nascere cose bellissime come la fiducia verso il nostro prossimo, che sia straniero o sia

di un'altra regione. Non ci importerebbe più . Nascerebbero amicizie importanti che ci darebbero

una mano ad ampliare la nostra cultura , ma non solo, anche la nostra mente perchè la

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 15


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conoscenza è fonte di saggezza che si trasforma in esperienza e a trarne beneficio sarà la nuova

generazione , quella a cui sarà affidato il compito di ricostruire , con nuovi mezzi e nuove

informazioni che assimilerà solo se noi oggi impariamo e iniziamo a comunicare fra noi. Tutti

noi. E per noi intendo i popoli , le varie culture, lasciando da parte le religioni, con quelle ci

abbiamo già provato e abbiamo fallito. Concentriamoci sulla Vita quotidiana , quella che ci dà

la possibilità di sostenerci economicamente , che ci fa mangiare , che ci fa esprimere come esseri

viventi con una intelligenza in continuo sviluppo perchè la bellissima caratteristica che abbiamo

noi è la capacità di imparare cose nuove a qualsiasi età senza barriere di sesso, ambito sociale

o lingua. L'essere umano ha da sempre imparato , nel corso dei millenni ha sviluppato la

capacità di adattarsi e di creare. Creare qualsiasi cosa. E' stato l'essere umano a creare questo

mondo: perchè oggi non potrebbe migliorarlo? Principalmente credo perchè non abbiamo fiducia

in noi stessi e poi perchè siamo diventati pigri e avari. Ci siamo seduti sulle nostre creazioni

fatte nei 2000 anni precedenti e ce le siamo godute . Abbiamo capito che sono imperfette,

ma invece di rimetterci al lavoro per migliorarle ci siamo stravaccati ancor di più, lamentandoci

a gran voce ed elencando tutte le mancanze. Facendo così abbiamo cresciuto in noi anche

un altro brutto aspetto : l'avarizia di sentimenti. Non amiamo più con tutti noi stessi. Non

diamo più tutto come una volta per una causa o per una persona come facevamo prima. Prima

di evolverci nell'era tecnologica. Ammetto che questa è stata l'era più creativa e grandiosa che

il genere umano potesse produrre, ma cosa abbiamo sacrificato per essa ? I rapporti umani,

quelli belli , quelli pieni d'amore, dove sono finiti? Oggi, costretti in casa con la nostra famiglia

patiamo la loro compagnia mentre una volta non avevamo che quella e guai a chi ce la toccava!

Ora abbiamo i nostri coniugi ipnotizzati dalla creazione più straordinaria che esista, la televisione.

I nostri figli , evoluzione e nostro futuro, imbambolati dai social. Preferiscono cioè interagire

con persone virtuali piuttosto che comunicare con persone reali. Perchè nel 2020 è più

facile avere 100 "followers" che 1 amico in carne e ossa. Solo a me la cosa stona? Abbiamo

perso davvero tutta la nostra umanità , il piacere di stare insieme trasformandoci in fredde macchine?

Siamo diventati prigionieri delle nostre opere? Sotto a quei vestiti firmati, cravatte eleganti,

auto di lusso, unghie rifatte e capelli in ordine, batte ancora il cuore? Osservando qua e

la io direi di si per fortuna. Seppur questo virus ci abbia tolto tanto, qualcuno si è accorto di

cosa invece ci ha dato.

Ci ha dato la possibilità di capire quanto ancora siano importanti le persone nella nostra vita,

gli affetti, l'amore, l'amicizia e quanto sia facile perderli. Forse da oggi non aspetteremo più

così tanto a dire un TI VOGLIO BENE , ad abbracciare , a far capire che noi ci siamo. Siamo

presenti per la persona che amiamo , per l'amico a cui vogliamo bene, per il vicino simpatico e

cortese, e non ci imbarazzeremo più a far capire quanto teniamo ad una persona. Questo virus

ci ha dato l'opportunità di metterci alla prova e fare cose che non avremmo mai pensato di fare

a partire da quelle piccole e semplici come impastare e cuocere il pane e , un po' come i nostri

antenati, abbiamo sperimentato , fallito e imparato dai nostri errori per poi giungere ad un risultato

che ci soddisfacesse. Abbiamo riscoperto il piacere di stare con i nostri figli e tornare un

po' bambini giocando con loro. Riscoperto l'amore per il nostro partner stando ore e ore a parlarci

come quando eravamo fidanzati. Capendo l'importanza di avere un animale domestico in

casa che ci tenga compagnia, soprattutto per chi sta affrontando questa esperienza da solo. E'

vero , la fuori c'è il male , ma dentro casa nostra ci può essere il mondo. Come ci può essere

dentro noi stessi perchè questo periodo ci insegna anche a guardare dentro di noi , ad affrontare

le nostre zone d'ombra , le nostre paure , i nostri dolori e questo ci porterà senz'altro ad essere

persone nuove , più positive verso la vita, più propense a metterci in gioco , a provare, a

osare. Una volta sconfitto il male che c'è la fuori ci aspetta un modo pronto ad essere esplorato

e non parlo solo di luoghi , ma anche di emozioni e di esperienze da fare, senza rimandare a

domani. Perché ormai lo abbiamo capito che in un attimo il domani può non esserci più.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 16


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Simona Zarcone

“Caro 2020”

Caro 2020, non è tutto perduto. Hai davanti ancora diversi mesi per recuperare, non sei neanche

a metà, per cui, se posso permettermi di darti un consiglio, non dico da oggi, e non da domani,

ma da dopodomani comincia a impegnarti un po’ di più. Che passerai alla storia è sicuro,

ma se vuoi occupare più pagine sui libri, devi fare qualcosa di diverso, i libri sono già pieni di

guerre e sciagure, per essere ricordato nei secoli devi fare anche qualcosa di buono! Te lo immagini

se, dopo un periodo così catastrofico, cominci a risolverci i problemi che avevamo già

prima che ti mettessi a fare i capricci e ne aggiungessi altri? A parte il vaccino, potresti, che so,

occuparti della fame nel mondo, dei migranti, della povertà, della violenza sulle le donne, (e

anche sugli uomini, che poi si arrabbiano, e noi, nonostante tutto, abbiamo ancora bisogno di

loro) dell’ambiente, delle tasse, e di quelli che mettono il formaggio sulla pasta alle vongole.

Magari non tutto insieme; considera che già una sola di queste cose sarebbe un primo passo.

Diventeresti l’anno della tanto declamata resilienza, esempio di rinascita dopo un lungo periodo

di morte e sofferenza. Vuoi mettere? Lo so, ti chiedo assai, sarai stanco, demotivato, influenzato,

ma chi ha avuto la fortuna di restare, conta su di te. E poi, se proprio non ce la fai, pensa a

me, un po’ di sano egoismo non guasta; ti giuro che parlerò bene di te nel futuro e, visto che

molto probabilmente non avrò nipotini, li affitterò appositamente per perorare la tua causa.

Non ti chiedo niente di preciso, scegli tu, magari un piccolo bonus che mi migliori la vita, di

poco, tanto lo sai che la mia è già bella così. E che non ti venga in mente di mandarmi un fidanzato,

ho già dato, anche se…proprio perché sei tu, se ne trovi uno giusto, non troppo bello,

(tu lo sai che la bellezza non mi interessa, a me basta che si possa guardare), educato, onesto,

che ami gli animali, automunito e stipendiato il minimo per potersi compare le sigarette, ideologicamente

monogamo, che azzecca, non dico tutti i congiuntivi, ma almeno essere e avere, (gli

altri verbi glieli condono), con una sola patologia che non necessiti di più psicofarmaci, che capisca

l’ironia, che sappia introdurre gli indumenti sporchi dentro l’apposita cesta, che non voglia

trasformarmi nella brutta copia di sua madre, che si accontenti del mio amore, io di no non

te lo dico. Però forse sto esagerando, hai ragione tu, forse è più facile che salvi l’Amazzonia o

ti occupi dell’estinzione dei panda. Che dirti, caro 2020, spero sarai più clemente, e ti ringrazio

a prescindere; sono viva e in buona salute, e questo è già un grande regalo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 17


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Morgana Galasso

“Carmen”

Il pensiero fisso di ciò di cui aveva parlato con Carlo, l'amico di sempre, non lo abbandonava

mai.

"Pensa non sarebbe bello avere tutti i soldi di tua moglie,senza tua moglie?" questa la frase che

continuava a pensare, sarebbe bello.certo, ma come?

Passarono i giorni, poi le settimane e Marco le parole le dimentico',fino a quella mattina, quel

10 marzo, in cui sua moglie, Carmen,ereditiera di una grande famiglia, gli disse che avrebbe

chiesto il divorzio,dopo aver scoperto l'ennesimo tradimento del marito,e a nulla valsero le scuse

,lei ormai aveva deciso.

Nella mente di Marco,prese forma un'idea, folle, terribile, un'idea che anche a lui faceva paura.

I giorni successivi li passo' pianficando e studiando ogni piccolo particolare.

Annoto' a che ora Carmen usciva,rientrava, che cosa faceva, in quali giorni pranzava fuori o

faceva shopping e in che giorni frequentava l'esclusiva palestra di cui era socia e fondatrice.-

Pianificò tutto e decise che il 20 marzo sarebbe stato il giorno in cui sua moglie sarebbe sparita

dalla sua vita.

Il 20 marzo arrivo', Marco si alzo' di buon ora, preparo' la colazione per se e per Carmen

avendo cura per ogni particolare,persino per il fiore al centro del tavolo.

Fece colazione guardando il grande appartamento che,presto sarebbe stato solo suo,come tutto

il resto d'altronde e il pensiero lo fece sorridere.

Usci di casa lasciando un biglietto a Carmen

CIAO TESORO, DORMIVI COSI BENE CHE NON HO OSATO SVEGLIARTI. LA COLAZIONE E'

PRONTA, A PRESTO.

Uscì dal garage di casa con la sua Volvo nera, vetri oscurati,cantando e ridendo.

Parcheggio l'auto non lontano da casa, entro' in un vecchio palazzo in procinto di essere abbattuto

e li si cambiò.

Tolse il costoso completo Dior e si mise una tuta nera,con scarpe scure e un passamontagna.

A piedi percorse i pochi metri che lo separavano da casa sua, sali' le scale,sicuro di non essere

visto.poiché i giorni precedenti aveva provveduto a rompere le telecamere di sorveglianza lanciando

dei sassi.

Salì le scale, ed entrò in casa dalla porta di servizio, lasciata appositamente aperta per l'occasione.

Camminò lungo tutta la cucina, passo' davanti alla camera da letto, vedendo il letto vuoto, sentì

l'acqua della doccia e vide la colazione ancora intonsa sul tavolo della sala da pranzo.

Estrasse dalla tasca una fialetta che versò nel caffè,e, cosi come era entrato,uscì.

Carmen uscì dalla doccia, si mise una vestaglia e si accomodò al tavolo.

Felice per le attenzioni riservatele dal marito, fece un'abbondante colazione e bevve il caffè.

Aspettò qualche minuto e si diresse verso la cabina armadio per vestirsi,ma, all' improvviso, le

giro' la testa, grandi crampi allo stomaco la fecero rantolare sul pavimento, cercò il telefono,

pigiò il tasto per le chiamate di emergenza ma quando dall'altra parte risposero, non riuscì a

dire e fare più nulla.D'improvviso il silenzio nell’appartamento, rotto solo dalla voce metallica

dell'operatore del 112. In pochi istanti sotto casa di Marco e Carmen arrivarono un'ambulanza

e i carabinieri.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 18


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Tutto successe in pochi istanti,salirono, constatarono il decesso e chiamarono il medico legale e i

RIS. Il medico legale stabilì che il decesso fosse avvenuto poco prima e sicuramente per avvelenamento,

forse da arsenico.

In casa, nessuna impronta strana, tranne quelle della coppia, nessun oggetto fuori posto.

I carabinieri cercarono sul cellulare della vittima il numero di telefono dei famigliari e trovarono

il numero di Marco,che ovviamente chiamarono.

Dopo aver dato la notizia della morte di Carmen a Marco, al telefono,gli agenti andarono ad

incontrarlo in ufficio, Marco responsabile dell’ufficio anagrafe del comune,li accolse con gli occhi

gonfi per il pianto incontrollabile e subito si dimostrò collaborativo rispondendo a tutte le

domande, anche le più scomode.

I carabinieri, anche se con sospetto, lo lasciarono al suo lavoro dicendogli però che non avrebbe

potuto rientrare a casa per qualche giorno per dare il tempo ai RIS di svolgere le ricerche

sulla scena del crimine.

A Marco questo in realtà non importava, in auto aveva già portato via quel che gli sarebbe

servito per qualche giorno e aveva già chiesto all'amico Carlo di ospitarlo.

Sicuro di se stesso e di non essere sospettato, uscì dall'ufficio e si diresse a casa dell’amico, in

via Dante, senza però accorgersi di essere seguito.

Suonò il campanello della casa di Carlo e ad aprire la porta fu un carabiniere, con le manette

pronte per lui.

Marco sbiancò, senza riuscire a capire cosa stesse succedendo e, proprio in quel momento gridò

e sobbalzò sul letto completamente madido di sudore.

Accanto a lui, Carmen, l'unico amore della sua vita che dormiva beatamente.

“Menomale che non si è svegliata”, pensò.

“Basta non devo più mangiare al ristorante cinese”.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 19


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Rosaria Mascellaro

“Lettera al Covid”

Ciao, sono Rorrichia, ti scrivo dalla Sicilia, più esattamente da Palermo, città tanto bella quanto

bistrattata. Oggi è una splendida giornata di sole ma io faccio la brava, sto a casa. E’ l’unico

contributo che posso dare per aiutarti. Si, perché se sto ferma contribuisco a frenare questo maledetto

virus e permetto a tutto il personale medico ed agli infermieri di riposarsi e di avere più

tempo per te.

Lo so, vorresti qualcuno vicino a te, che ti faccia sorridere, ti parli, ti tenga la mano, ti accarezzi,

nel momento in cui ti senti stanca o hai un colpo di tosse. Che ti chieda come stai con la voce

dolce di chi prova tanto affetto per te.

Ah, non ti ho detto che tra due mesi compio 63 anni, ho qualche “acciacchetto” ma questo non

lo diciamo in giro se no pensano che io sia vecchia. Magari ci saremo pure incontrate qualche

volta visto che ho viaggiato parecchio attraverso le bellezze della nostra Italia, quindi mi sento

vicina a te come se ti conoscessi da sempre.

Ascoltando la tv, ho imparato a vedere con il cuore, tanta gente, le vostre storie, i vostri affetti e

soprattutto la vostra sofferenza.

So che siete in buone mani e che tutti danno il massimo. Che vorrebbero stringervi forte e coccolarvi.

Sai, mia nuora è medico in un centro Covid, Non la chiamo al telefono per non rubarle neanche

un minuto.

Ma l’altro giorno mi ha scritto un messaggio, te ne riporto un pezzetto per farti capire quanto

voi siete diventati parte integrante della loro vita.

“Non possiamo stringere la mano ai nostri pazienti, se non separati da strati e strati di protezione,

ma questo non ci impedisce di conoscere le loro storie, di leggere le loro emozioni negli

occhi”.

Siete importanti per tutti noi che stiamo fuori, la vostra vittoria contro il covid è anche la nostra,

quindi ti chiedo di non mollare, di guardare in faccia questa palletta rossa e spinosa e dirle

chiaramente che tu sei più forte perché hai una volontà di ferro e tantissime cose da fare fuori

da questo ospedale.

Avrai dei figli da riabbracciare, magari anche dei nipotini (io ancora non ne ho!), dei pranzi da

preparare, dei viaggi da fare o semplicemente avrai voglia di stare a casa tua, su un divano a

vedere un film; o prendere un tea con le amiche; o magari andare a passeggio con il tuo cane

tenendo per mano tuo marito.

Come ti ho detto, amo viaggiare e appena questo caos sarà finito, organizziamo un viaggio io

e te e chi vorrai tu.

Si, andremo liberi a vedere il mare, a farci accarezzare dalle onde e magari andremo pure su

qualche montagna per farci scompigliare i capelli dal vento. E rideremo per le facce buffe che il

vento ci costringerà a fare e osservando tutto questo diremo che siamo fortunate!

Aiutami a sognare, regalami i tuoi sogni e io ti regalo i miei. Chissà che non diventino insieme il

più bel sogno che potremo realizzare.

Con affetto, un grande abbraccio e se ti farà piacere scrivimi pure.

Rorricchia

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 20


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Rosalia Alberghina

Mi sveglio in piena notte, sono sudata, sento una morsa alla stomaco.

Guardo alla mia sinistra e la piccola dorme beata accanto a me: scalcia nel sonno e dischiude

la boccuccia come se volesse ciucciare il latte.

Dall'altro lato c'è il grande, che poi grande non è perché ha solo 5 anni. Dorme scoperto come

al solito e ogni tanto ridacchia.

Mio marito dorme, suo malgrado, nel letto singolo accanto al lettone.

Mi tranquillizzo. Va tutto bene. Faccio un respiro profondo e poi la mia mente mi ricorda del

perché l'angoscia mi sveglia ogni notte di soprassalto.

Siamo "imprigionati" nella nostra casa da più di un mese.

Coronavirus è la motivazione. Cercare di non ammalarsi è lo scopo. Sopravvivere ad una pandemia

è l'obiettivo. Rivedere e riabbracciare tutte le persone care, i genitori, le sorelle il desiderio

più grande.

Quando esco per fare la spesa mi sento nervosa... La mascherina mi dà un senso di oppressione,

mi occlude la gola che comincia a prudere e sento che mi sta salendo un colpo di tosse che

provo a trattenere.

Dio, non pensavo che avrei mai vissuto dei momenti del genere: ho paura di tossire e che la

gente cominci a guardarmi con sospetto o addirittura con paura.

Torno a casa sempre con una sensazione di angoscia. Con il pensiero di disinfettare le mani, il

palmi, le dita, i polsi, con gesti meticolosi e al tempo stesso frenetici, come se potessi cancellare

il senso di impotenza almeno per quei secondi in cui il sapone lava via il pericolo del contagio.

Guardo i miei figli con il viso pallido di chi non vede il sole da troppo tempo. Mi impongo di

non piangere mai davanti a loro.

E la sera in cucina mentre preparo la cena, lontana dal loro sguardo, che lascio scorrere le lacrime

per attenuare il peso dell'angoscia e della frustrazione.

E quando sento che sto per cedere al pessimismo, al pensiero che questo incubo non finisca,

che appena usciremo ricomincerà tutto più violento e forte di prima, penso al mio mare.

Penso allo specchio d'acqua limpido che vibra sotto un venticello estivo, che riluce danzando

insieme al sole, alla sensazione di comunione con la natura che ti trasmette e allora faccio un

respiro profondo e mi dico che tutto questo finirà.

E gli abbracci saranno più belli di prima: saranno veri e avvolgenti e rassicuranti e pieni di

gratitudine.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 21


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Giacomo Felici

“Quanto rumore”

Esco fuori e sento gli uccelli cinguettare, è notte saranno le due e con la storia della quarantena

non si sentono voci o macchine in giro. c’è silenzio. Mi ritrovo a pensare che forse male male,

non ci ha davvero fatto tutta questa storia.

Sono sorpreso, erano anni che non sentivo un silenzio così.

Man mano che mi perdo in questo silenzio, mi accorgo che non era tutto silenzio così grande

come avevo avuto la percezione iniziale. C’era un gran vociare fuori, erano gli uccelli che cantavano,

no più che altro parlavano in coro. Sì e ascoltare loro era come essere l’unico stronzo

in mezzo ad una conversazione tra stranieri. Riuscivo a capire quando parlava uno e quando

parlava l’altro, perché ognuno aveva una sua voce particolare; ognuno aveva un suo modo di

parlare, il suo timbro, ognuno aveva i suoi intercalari e le sue differenti pause. Sentivo un cinguettio,

diciamo, musicalmente abbastanza tenore, che si sviluppava, in lontananza dal mio

balcone, alle ore dieci più o meno. Quello doveva essere sicuramente un maschio che stava

scherzando di qualcosa di osé con un paio di gruppi di ragazze che erano situate rispettivamente

alle mie ore sette e alle mie ore quattro; le prime si intuiva tranquillamente, dalla coralità

con cui rispondevano e dal timbro più acuto di tutte, che fossero un gruppo di sciacquette chiaramente

divertite dalla provocazione rivoltagli; mentre il secondo gruppo, dal cinguettio un po’

più grave, restando pur sempre acuto e sempre da reputarsi a delle ragazze, lasciava trasparire

una maggiore maturità rispetto alle prime. c’era dell’evidente divertimento, ma era forbito di

termini più elevati che variavano, come se, oltre che a divertirsi, allo stesso tempo stessero cercassero

di valutare l’abilità del maschio nella risposta. il maschio dal suo punto di vista non demordeva,

e si capiva che le battute del gruppo a ore quattro, gli creavano un po’ più di preoccupazione;

infatti le risposte a seguire avevano un intervallo più lungo, come se si soffermasse

un secondo di più sul ragionare se la battuta andasse fatto o meno. Mentre invece quando era

il gruppo a ore sette a parlare si notava un aumento della velocità nella risposta e un innalzamento

vocale come a volersi far sentire rispondendo alle prime, dalle seconde. Si insomma cercava

di fare l’occhiolino alle seconde mentre si teneva buone le prime in modo da non restare

totalmente a bocca asciutta in caso di fallimento.

Ero abbastanza entusiasmato, non perché capissi effettivamente quello che si dicessero (non

avrei mai una tale presunzione), ma le idee trasmesse al livello emozionale mi erano chiarissime

in testa. come se nel passaggio della comunicazione, oltre al suono, ci fossero delle immagini

che percepivo a pieno segnale. Vi dirò che, da uomo che si è cimentato più volte nella nobile

arte della conquista, ammiravo quel tipo perché sembrava di cavarsela veramente bene, mi ci

ritrovavo pure nei suoi panni se non che, quasi provavo un senso di invidia.

Ad un tratto sento chiaramente che nella conversazione che stava tendendo quasi a favore per

il nostro eroe, si intromette un'altra voce. È un gallo, parla forte, si intromette sgarbatamente se

non di forza cercando di prendere la scena. Per un attimo gli concedo il beneficio del dubbio;

non l’avrà fatto apposta, magari voleva solo cantare la sveglia per qualcuno. Guardo l’orologio,

sono le due e mezza; ma il gallo non cantava al sorgere del sole? Vabbè sai con il fatto

che si va verso l’estate il sole sorge prima. Sì, però hanno inserito l’ora solare proprio per

prendere un’ora di sole in più quindi, male che vada, il sole sorgerà verso le cinque. Guarda

guarda che quello stronzo lo ha fatto davvero apposta a intromettersi, irruento che non è altro.

Se c’è una cosa che non ho mai sopportato sono le persone ignoranti che si mettono in mezzo

con pura volgarità, senza neanche un minimo di classe per poter reggerti il gioco. Sentivo che il

primo ragazzo stava rispondendo a tono al gallo, alzando la voce e diminuendo il periodo

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 22


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quasi a voler interrompere sul nascere la frase del gallo. Le sciacquette, si capiva perfettamente

che erano divertite da questa lotta per il potere, per la supremazia di maschio alfa; e lo dimostravano

facendo da cornice alla loro sfida con cinguettii sconclusionati da ogni parte. Facevano

il tifo per entrambi e, cosa assai peggiore, aizzavano la competizione. Al contrario le ragazze

un po’ più mature e allo stesso tempo con una capacità di analisi personale e comportamentale,

mischiata ad una buona dose di esperienza pregressa, risultavano infastidite dall’intromissione

del gallo. Infatti, esse, rispondevano solo dopo che il primo ragazzo aveva concluso,

ed una ogni due volte, come per dargli manforte e di conseguenza più peso per il povero

gallo che di suo non mollava. L’appellativo fare il gallo mai mi parve più appropriato che in

questa situazione, e devo ammettere che gli si addiceva perfettamente. Il gallo infatti, con il suo

rombo fragrante, aveva quasi ammutolito il nostro ragazzo e si stava già conquistando la piazza.

Le ragazze più mature palesavano un crescente disinteresse, pronte alla ritirata se necessario,

in caso di vittoria del gallo; mentre le sciacquette sembravano sempre più galvanizzate dalla

possibile esecuzione pubblica a cui lo scontro stava andando incontro, cantando estasiate

come in preda ad un orgasmo. Sentii chiaramente che il nostro amico, umiliato e sconfitto, si

zittiva piano piano defilandosi dal campo di battaglia per andare a logorarsi in qualche angolo

buio mentre le ragazze serie, abbandonavano lo scontro con una signorilità impeccabile.

Deluso dalla sconfitta di un mio possibile compagno di rimorchio rientrai in casa, dove a regola

nessuno oltre me era presente, ero l’unico rimasto in quella casa come un reietto per il periodo

di quarantena; rimasi assordato dall’incommensurabile rumore che c’era in casa, un delirio

pazzesco che io ingenuamente avevo sempre reputato silenzio. Era il rumore del frigorifero, lo

avevo sempre sentito e, a furia di sentirlo, lo avevo assimilato e isolato allo stesso tempo. Come

avevo potuto, io, commettere quel tale errore di reputarmi in silenzio con un tale rumore sempre

presente sullo sfondo. Solo allora compresi quanto i miei tentativi di meditazioni cercando una

sorta di pace interiore fossero stati inutili; né mai come allora mi ero sentito così tanto schiavo di

una società consumistica e capitalistica talmente elargiva, talmente insistente, talmente spudorata

da rubarci ogni cosa, compreso il silenzio.

Ero sull’orlo della disperazione, quando un’onda di tristezza e malinconia mi pervasero. Feci un

respiro profondo carico di nostalgia:

“E chi l’aveva mai sentito un silenzio così!”

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 23


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Elena Bacchielli

“Il fiore della rinascita”

Alice si era svegliata come ogni mattina nel suo letto matrimoniale, grande, accogliente, ma

vuoto. Da quando era scoppiata l’epidemia da Covid-19 viveva da sola nella sua casa di Milano.La

vita era improvvisamente cambiata da quando quel nemico invisibile e misterioso era riuscito

ad entrare nella sua vita e in quella di altre migliaia e migliaia di persone.

Il compagno viveva bloccato in un’altra parte della città e lei era isolata.

Non si sentiva sola, dopo le prime due settimane di quarantena si era abituata al nuovo stile di

vita. Più limitato. Chiuso. Ma lei sentiva sempre vivo dentro il suo piccolo corpo il fuoco della

creatività.

Era un fuoco caldo, vivace, che si muoveva di qua e di là come fa la fiammella di un cerino.

Ecco, lei si sentiva piccola e fragile come quel cerino che si impegnava ogni giorno a restare in

piedi; ma quella fiammella era sempre e comunque accesa.

Non poteva e non voleva spegnerla. Era naturale che restasse viva. E allora, seguendo quel

fuoco vitale sempre acceso, si dedicava a riempire i giorni interminabili scrivendo le sue emozioni

in fogli di carta di vari formati: a volte erano i resti della carta del fruttivendolo, altre fogli

A4 che per caso aveva raccolto mesi prima dentro un block-notes colorato.

Non era preparata all’isolamento forzato. Non lo poteva essere nessuno. Ma si arrangiava a

trovare nuove possibilità. E quei pezzi di carta ritrovati in casa un po’ alla rinfusa le sembravano

un segno di apertura verso il futuro. Quale sarebbe potuto essere il futuro della

sua Nazione ed il suo? Non lo sapeva, non poteva saperlo.

Certe risposte erano sconosciute anche a virologi ed esperti che ogni giorno parlavano e facevano

ipotesi più o meno credibili. Non apparteneva a lei né a nessun essere umano, fragile e

insicuro, cercare risposte così grandi. L’Universo che regnava e vegliava quotidianamente

dall’alto, la avvolgeva di sensazioni diverse e nuove ogni volta; era l’unica certezza per Alice.

Esso governava sopra di lei e sopra altre migliaia di persone facendo muovere stelle e pianeti.

Facendo crescere piante, fiori, frutti. E permettendo ad ogni creatura umana di respirare. Sì,

perché ora l’unico pensiero certo che emergeva nella mente di Alice era il mutare continuo della

Natura.

Dal suo piccolo terrazzo di casa vedeva allungarsi la siepe, colorarsi di bianco la pianta di gelsomino,

penetrare scorci di sole sempre più ampi che riuscivano a filtrare nonostante gli alti tetti

delle altre abitazioni intorno.

Le api venivano a bussare dalla porta- finestra in vetro della cucina e lei le salutava con un sorriso

spontaneo, sincero.

Questo era per Alice un segnale di vita esterna, fuori dalla sua piccola casa. E quel movimento

così vitale esterno lei lo sentiva riprodotto dentro di sé da quella fiammella, che a volte si colorava

di giallo, altre di arancione. La vita non andava ricercata lontano, nelle notizie dei virologi,

nei quotidiani che raccontavano di morti e guariti e facevano continue statistiche. No. Ora

ne era sicura.

La vita si muoveva al di là della sua finestra, nei rumori armoniosi e delicati che facevano le

rondini sopra i tetti. La Natura era vita, e lei conteneva dentro di sé tutti i suoni, gli odori e i co-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 24


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lori della vita.

All’improvviso Alice si accorse che un fiore era sbocciato nella piantina del suo

terrazzo: non lo aveva innaffiato, ma era nato spontaneamente. Le sembrò un

segno di rinascita. Era di colore giallo – arancione.

“Proprio come la mia fiammella”, pensò con le lacrime agli occhi di

commozione.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 25


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Giulia Bellucci

“Archie e Marada”

I rami dell’ontano sono agitati violentemente dal vento di tramontana, che ha portato di nuovo

freddo. Marada li guarda da dietro il vetro e non riesce proprio a staccare lo sguardo sebbene

assumano via via un aspetto inquietante. Domani sarà il primo giorno di apertura, finalmente si

potrà uscire all’aria aperta, concedersi una passeggiata. Anche Archie, che sta correndo nella

ruota all’interno della sua gabbietta, improvvisamente si ferma e inizia a guardare fuori fissamente.

È stato nervoso durante tutto il giorno, come se avvertisse qualcosa di strano o fosse impaziente

del domani, così ha corso a lungo. Marada si è sempre chiesta se il suo piccolo amico

si sia reso conto della quarantena. Probabilmente sì, dal momento che lei è stata in casa con lui

per tutto il tempo! O forse no, perché in fondo per lui non è cambiato nulla; continua a effettuare

ripetutamente lo stesso percorso all’interno della ruota, illudendosi, e chi lo sa, di percorrere

lunghe distanze. Ora però sembra stanco e anche annoiato. Che abbia compreso l’inganno e

l’insofferenza abbia preso il posto della sopportazione?

Forse è stata la voce sibilante del vento ad averlo svegliato, come avrebbe fatto un pungolo nel

fianco. Marada si avvede di quel mutamento quando sente lo scricchiolio dei denti di Archie,

che ha preso a rosicchiare le sbarre della gabbia, rompendo il silenzio che regna dentro la

casa. Progetta la fuga, questo sospetta Marada. Si avvicina alla gabbia quasi in punta di piedi,

poi infila le sue dita scarne e pietose tra le sbarre e fa i grattini sulla schiena dell’amico che

prontamente si lascia cadere in posizione supina e non si muove più. Finge di essere morto e

Marada quasi ci casca, ma poi intuisce che si tratta solo di una finzione. In fondo lei è la sua

carceriera! Ecco cos’è lei per Archie! Ma lei lo fa per il suo bene; sa di doverlo proteggere.

Controlla che non gli manchi nulla, né cibo né acqua, e torna vicino alla finestra con la coscienza

a posto. La luna piena, già alta nel cielo, sembra volersi nascondere dietro i rami spogli del

vecchio Ontano, come se volesse giocare a nascondino, ma la sua luce argentea riesce a passare

attraverso i rami sottili e spogli. Chissà se ride dell’uomo che si è rinchiuso in casa per paura

di un essere così piccolo da essere addirittura invisibile. Ma forse anche l’uomo è invisibile

per lei. La guarda di nuovo e le rassomiglia ai fari che illuminavano il palcoscenico mentre lei,

Odette, danzava leggera sulla scena de Il Lago dei Cigni. Quella era stata l’ultima volta che

aveva danzato su un palcoscenico. Ma ora non pensa a questo dettaglio. Anzi si sente leggera,

quasi come se levitasse in aria. Si trasforma in una farfalla volteggiante ed esegue i passi di

danza come quando ancora calcava i palcoscenici più rinomati. Fatica però a tenere l’equilibrio

mentre una lacrima le scende sulle gote. Tutto come quella sera di due mesi prima! Un grande

dolore l’aveva assalita all’improvviso, proprio nell’anima, non un dolore corporale, e allora

aveva barcollato. Chissà se qualcuno se n’era accorto, perché gli applausi erano arrivati lo

stesso, ma da allora era rimasta prigioniera di quell’inciampo e non riusciva tuttora a superarlo.

Si sofferma di nuovo a guardare fisso davanti a sé, oltre il vetro. A osservarla non c’è nessuno,

purtroppo o per fortuna, tutti saranno già chiusi in casa ma lei gli applausi li sente, anzi vuole

sentirli e li cerca, tendendo le orecchie. Le pare di sentire anche la musica. E gli applausi scrosciano

e sono tutti per lei. Fa un inchino e alla fine si sente spossata e si lascia cadere sulla poltrona

vicino alla finestra. Le manca il fiato, e tutto intorno a lei si improvvisa in una misteriosa

danza: anche le pareti e le ombre che si proiettano su di esse. Chiude gli occhi desiderando

riposare. Ed effettivamente in breve tempo si sente già rigenerata, quel senso di spossamento

sembra svanire completamente. Riapre gli occhi e il suo sguardo si ferma fuori dalla sua casa

ma ciò che ora vede al di là del vetro la inquieta molto. All’esterno della casa distingue, nonostante

il buio, una figura mostruosa che allunga le sue mani giganti verso di lei, nel tentativo di

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 26


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afferrarla. La paura si impossessa di lei e le toglie anche il respiro. Stringe le palpebre e decide

di non muoversi. Pensa di fingere di essere morta, come fa Archie sperando che lei apra la

gabbia per scappare. Magari il mostro nel contempo se ne andrà. Passano dei minuti e ogni

volta che schiude un poco le palpebre il mostro è ancora lì. Ne distingue nettamente i tratti fisici,

gli occhi quasi scintillanti, e quelle dita che si allungano verso di lei e le fanno il solletico sulla

pancia attraverso le sbarre di una gabbia.

Sì! Una gabbia. Adesso Marada è rinchiusa in una gabbia, anzi nella gabbia. Nella gabbia di

Archie al posto suo. E il mostro, quello che sembrava essere un mostro, è proprio Archie, che le

sorride da dietro i lunghi baffi e Marada è incredula.

«Archie? Come è possibile? Cosa è successo? Lasciami uscire!?»

Archie continua a fissarla, allunga una zampa come per farle una carezza ma si trattiene. Lei

sente ribrezzo e si rintana nella ruota. Si stupisce di come riesca a entrarci. La ruota comincia a

muoversi e lei deve aggrapparsi con le mani per non cadere. Si siede e torna a guardare Archie.

Lui se n’è andato ma torna dopo poco tempo con un bicchiere d’acqua e indossa ora

guanti e mascherina. Marada lo guarda terrorizzata.

Archie intuisce il suo stato d’animo e tenta di tranquillizzarla.

«Non aver paura, ora sarò io a prendermi cura di te.»

Così dicendo, le fa una carezza. La voce di Archie è umana ma lui è un criceto.

Lei si ritrae di più.

«Archie fammi uscire. Per favore, fammi uscire da qui.»

«Non posso farti uscire, potrebbe essere pericoloso per te. Fuori ci sono tante insidie e non so

cosa potrebbe capitarti.»

«Cosa vuoi che mi capiti?»

«Non so, qualcuno potrebbe farti del male. Il corona virus, ad esempio...e poi potresti infettare

anche me.»

«Ma io sarò prudente! Te lo prometto!»

Archie torna serio e le dice: «Stare un po’ al sicuro ti farà bene. E poi cosa cambia per te? Non

vedi che sei finita in una gabbia già da tanto tempo, da prima della pandemia? Questa casa è

la tua gabbia e la gabbia, che tu hai allestito per tenere prigioniero me, è nulla in confronto a

quella che concretamente imprigiona te. Perché la tua gabbia sei tu stessa, ecco perché ora tu

sei là dentro e io qua fuori!»

Marada non comprende, vorrebbe urlare ma sa che nessuno potrebbe sentirla. La gente è chiusa

nelle case ormai da settimane a causa dell’emergenza.

«Non è vero» farfuglia.

«Certo che è vero. Dove sono finite tutte le persone che ti hanno voluto bene? E quelle cui dicevi

di voler bene? Da quando hai smesso di danzare, sei rimasta tu e i tuoi ricordi. E la danza? E

il tuo pubblico? Li amavi così tanto da scegliere di abortire pur di continuare a inseguire il tuo

sogno! Ma non sei riuscita ad andare fino in fondo e la tua vita si è fermata in attesa di una

svolta! Ci stai ancora pensando...»

Ride Archie e il suo riso è quasi crudele. Poi aggiunge: «E io?»

«Per favore, ridammi la mia libertà e io ti ridarò la tua. Te lo assicuro» lo implora Marada.

«Tu dici che posso crederti? Voi umani non siete affidabili. Pensate di poter controllare tutto e

invece...»

«Io sì, sono affidabile.»

Qualche secondo di silenzio e aggiunge: «Che stupida che sono! Da quando i topi pensano? E

da quando parlano?»

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 27


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Stringe forte le palpebre e continua a ripetere quelle domande e, mentre lo fa più e più volte,

sente uno strano rumore, come se qualcuno stesse rosicchiando qualcosa. Il rumore diventa

sempre più chiaro e distinguibile. All’improvviso si rende conto di aver dormito. Riapre gli occhi.

Tutto è tornato al suo posto. Archie sta ancora rosicchiando la gabbia e fuori è già sorto il sole.

Il vento si è placato, così l’Ontano, imponente come sempre, non le fa più paura. È l’alba di un

giorno nuovo che rappresenta per molti una svolta. Ora si potrà riprendere le proprie vite da

dove si erano interrotte. Forse bisognerà essere ancora cauti, ma tutto procederà bene. Marada

ne è certa. Si alza dalla sedia, si avvicina alla gabbia di Archie e gli dice:

«È giunto il momento di riprenderci le nostre vite. Stamani faremo una lunga passeggiata io e

te. Andiamo!»

Archie la fissa per un istante come se comprendesse, poi riprende la sua occupazione preferita.

Marada va a prepararsi e poi esce per raggiungere il boschetto poco lontano da casa sua con

Archie chiuso in una scatola. Appena giunta, si apparta dietro un cespuglio, apre la scatola e

Archie viene fuori dalla scatola con fare incerto, come se non riuscisse a credere a ciò che gli

sta capitando. Quando acquista un po’ di sicurezza scivola dentro il cespuglio.

«Ecco, ora sei libero. Vai incontro al tuo destino» sussurra Marada e fa per tornare a casa.

Mentre attraversa il sentiero, quasi deserto, si sente più leggera e sta pensando di dover intraprendere

un nuovo viaggio. Strano che le venga in mente proprio ora che invece ancora non si

può fare. Magari però potrebbe non essere un viaggio corporale ma una nuova nascita. Ha

bisogno di progettare una nuova vita anche per sé, come ha fatto per Archie. Non sta pensando

a una rinascita, perché ciò implicherebbe l’inclusione di ciò che è ormai passato. Pensa invece

a una nascita, completamente nuova.

‘Diventerò una Marada nuova di zecca’ sta pensando.

Mentre cammina e medita, dimentica di indossare la mascherina, nonostante vada incontro a un

gruppetto di persone che proviene dalla direzione opposta. Una voce le impone di fermarsi.

«Signora!»

Si volta e un’agente di polizia le si avvicina. È una ragazza molto giovane.

«Signora, anzitutto si metta la mascherina.»

All’improvviso l’agente fa lo sguardo di sorpresa, mentre Marada si tira su la mascherina. La

donna esclama: «Marada! Ma è proprio lei!?»

Marada non riesce a credere che qualcuno si ricordi di lei.

«Sì...» balbetta. Si accorge poi che la donna ha in mano una scatola, che di tanto in tanto sembra

agitarsi lievemente.

«Quando tornerà a danzare? Io sono una sua grande ammiratrice. Da bambina andavo a scuola

di danza e sognavo di diventare brava come lei. Poi, come può vedere, sono tornata con i

piedi per terra.» Parlava, continuando ad agitare la scatola, che poi, a un esame più attento,

pareva simile a quella che lei aveva usato per trasportare Archie.

«Anche io l’ho fatto e non so se tornerò mai più a danzare.»

«Ma perché? No! Cioè...lei deve tornare...»

Marada osserva che ora ha smesso di agitare la scatola.

«Mi fa un autografo!» le dice porgendole foglio e penna.

Molti ricordi si svegliano in Marada mentre rilascia quell’autografo ma non sente nostalgia. La

donna sembra molto felice di ciò che ha ottenuto e alla fine le raccomanda:

«Si ricordi di indossare sempre la mascherina quando si trova in strade affollate. Per questa volta

chiuderò un occhio, ma potrebbe non andarle bene la prossima volta!»

Alla fine le porge la scatola e Marada ancora non comprende che si tratta proprio della sua

scatola.

«Prenda! Questa è sua. L’aveva dimenticata sul prato.»

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 28


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È imbarazzata Marada, ringrazia la donna e torna a casa. Non appena dentro decide di disfarsi

della scatola rompendola e gettandola nel bidone della carta e per farlo la gira. In quel

momento la scatola prende decisamente vita e si agita dall’interno. Marada si spaventa e la

getta sul pavimento. Con sua grande sorpresa Archie esce fuori dalla scatola un po’ malconcio

e si rifugia nella sua gabbia.

Marada è sorpresa ma anche felice. Pensa che se Archie è tornato nella scatola spontaneamente,

ciò non può che essere un segno positivo anche per lei. Forse in fondo anche lei ha già quello

che vuole e non dovrebbe angustiarsi a cercare qualcosa di nuovo. Deve solo lasciare che la

propria vita proceda e tutto, alla fine, andrà nel modo giusto.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 29


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Laura Gronchi

“Racconti ai tempi del Coronavirus”

Mi chiamo Laura, abito a Cascine di Buti, un piccolo paesino tagliato a metà da una statale e in

famiglia siamo solo in due: io e mio marito Mario.

Ho una piccola azienda che si occupa di lavorazioni meccaniche in provincia di Pisa.

Lui lavora a Lucca in una grande multinazionale che produce scatole, anche per il settore alimentare.

Giorno 1

È appena suonata la sveglia, mi stiracchio nel letto caldo e ho un primo flash di cose da fare.

Sorrido, la mia giornata è piena. Ancora un secondo ed ecco che a rovinare tutto arriva il pensiero

del virus. La mia radiosa giornata si tinge di grigio. Comunque sia, mi alzo e vado in bagno,

tra poco suonerà la sveglia di mio marito Mario e dovrà trovarlo libero.

Il tragitto casa-lavoro è come sempre: caos, camion, gente che va a lumaca perché guida e

chatta al cellulare, se gli suoni, ti guarda pure male.

La situazione al lavoro è come gli altri giorni: un gran casino, telefoni che suonano ignorati a

causa del rumore delle macchine che vanno a tutto spiano. C'è fretta, una dannata fretta, non

ho tempo di pensare, di riflettere, devo solo correre.

Ho smesso di fumare da cinque anni e per scaricare la tensione ora mastico chewingum. Arrivo

a sera che sono sfinita. Guardo la borsa della palestra e tiro un sospiro: è tardi, sono stanca,

forse è meglio che faccia come dicono in TV ed eviti i posti affollati. Una vocina mi urla di rimando:

è solo pigrizia! Ok lo ammetto, ma ad allenarmi non ci vado.

Giorno 2

Il risveglio è pessimo: raffreddore, mal d'orecchi, mal di testa e nella mia gola pare ci sia passata

la carta vetrata.

Il virus!

M'importa un tubo del virus! Ho l'allergia, maledizione! Come tutti gli anni affogo e lo spray

omeopatico che prendevo non lo producono più! Giornata di merda!

La solita vocina mi ricorda che la settimana prima sono andata in palestra, al ristorante e dall'estetista.

Fai attenzione! Mi grida.

La ignoro.

Vado in bagno e tiro fuori il kit d'emergenza per questi casi: sciroppo, propoli, spray al cortisone,

Tachipirina, Benagol. Ficco tutto nella borsa frigo assieme al pranzo e vado al lavoro.

C'è da fare, arranco tutto il giorno e cerco di non pensare che mi sento male. La sera a casa sto

peggio, starnutisco e tossisco senza posa mentre preparo la cena.

A tavola Mario mi guarda male, però non dice nulla. Passo la notte in bianco, al mattino sono

uno straccio.

Giorno 3

È come il giorno prima, solo che si aggiungono torcicollo e mal di testa sempre più forte. Che

sia il virus? No, non ho la febbre.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 30


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Penso: sono sola, ho tre operai e una ditta che scoppia di ordini da mandare avanti. Nella mia

zona sono privilegiata. Mi faccio forza, m'impasticco e vado a lavorare, anche se mi affanno

un po' meno.

E se ho preso il virus, non lo so e infetto tutti? Che faccio?

Appena arrivo al lavoro frugo nell'armadio degli utensili e tiro fuori una scatolina con delle

vecchie mascherine da saldatore. Ne prendo due e il resto lo metto a disposizione dei dipendenti

assieme ad Amuchina e dei guanti di lattice. Almeno la coscienza è a posto.

La sera, di nascosto, mi comincio a informare sul Covid19: i sintomi ci sono tutti però, a parte

naso otturato e mal di gola, respiro benissimo. Boh? Meglio andare a letto.

Giorno 4

Finalmente è sabato. Dormo fino alle undici perché anche stanotte ho fatto cagnara. Mi alzo

m'impasticco e comincio le pulizie di casa. Il tarlo del virus mi rode in testa.

Mio marito mi gira intorno, mi guarda tra il preoccupato e l'apprensivo, però non dice niente.

«Forse sono da tampone?» chiedo.

«Lo fanno solo a quelli che stanno davvero male. Tu hai un po’ di raffreddore e mal di gola.

Non sei da 118.» Si sforza di avere un tono leggero, tuttavia lo sguardo rimane serio.

«No, hai ragione.» bisogna essere con un piede nella fossa, per essere presi sul serio.

A cena stappiamo il vino bianco, bello fresco. Ho preparato una cenetta a base di pesce: pasta

al sugo di cozze e sgombro al forno.

Stasera non usciamo, tutta l'Italia è stata dichiarata zona rossa, gli spostamenti sono consentiti

solo per motivi di necessità. Bar, ristoranti, pub, discoteche, palestre, qualunque luogo di ritrovo

è stato chiuso. Chi se ne frega, tanto c'è un bel film in TV!

Giorno 5

Questa notte ho dormito, mi sento meglio. Merito del vino? Poi mi torna a mente il virus.

Mentre preparo colazione, riprendo a starnutire e tossire. Mi sforzo di non pensare. Apro la

porta, c'è un bel sole ma fa freddo, è tornata la tramontana.

A pranzo altro vinello su un bel pollo alla griglia poi, nel pomeriggio, una bella passeggiata sul

fiume.

Capperi! Il sole e la primavera ci hanno dato alla testa, avremo percorso almeno dieci chilometri

a piedi, tra boschi e campi semideserti.

Al ritorno due chiacchiere con i vicini. Mi ci viene da ridere, sembra di giocare ai quattro cantoni

per rispettare le distanze, e tutti parliamo ad alta voce.

Io e Mario ci facciamo l'aperitivo sul terrazzo: solo un paio di birre e patatine, chissà perché io

mi ubriaco.

Per preparare il risotto ai carciofi ci vuole un’eternità e dopo cena mi addormento sul divano.

Giorno 6

Mi sveglio male. È lunedì, sono ancora costipata e in aggiunta a tutto il resto ho anche la

sbronza complicata. Giornata di merda! Comunque oggi chiamo il dottore. Il pensiero del virus

è sempre lì.

Durante il tragitto per andare al lavoro penso a tutte le implicazioni che comporterebbe il mio

ricovero all'ospedale. Se m'intubano non potrò più parlare con nessuno. E la ditta? Gli operai?

I pagamenti? Il fisco? Dio che casino! Sono sola, come faccio?

«Hai la febbre?» Mi chiede il medico al telefono.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 31


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«No. Mai avuta.»

«Dalle undici e trenta in poi ho finito con gli appuntamenti, vieni all'ambulatorio, ti visito.»

Sono sulla panca dello studio con mascherina e guanti. Guardo la segretaria e gli altri medici

che girano da un ambulatorio all'altro, con sguardo colpevole, cerco di rendermi invisibile e mi

sforzo di non tossire.

La paziente esce e il dottore mi chiama. Ormai sono rassegnata al verdetto e mi sento più leggera.

Sul lettino mi osculta i polmoni con lo stetoscopio. Una bella visita, accurata.

«I tuoi polmoni sono così aperti che ci passerebbe un tir» è la diagnosi.

«Ma scusi: il mal di gola? La tosse? Il raffreddore? Le fitte alle orecchie?»

«Hai la gola leggermente rossa. Sei allergica e in questo periodo il raffreddore lo hai sempre

avuto e lo porterai fino a maggio. Nel canale uditivo non hai niente. Con tutta probabilità hai

un problema di masticazione che ti infiamma gola e orecchi. Però ora non è il momento di fare

accertamenti.» Porca miseria,! Accidenti al mio vizio di mangiare in continuazione chewingum!

Devo smettere! Scendo dal lettino e mi rivesto.

«Quindi cosa prendo?»

«Che sciroppo vuoi?» chiede lui. Resto a bocca aperta.

«Solo uno sciroppo?»

«Certo! Hai la tosse e te la tieni finché non avrà fatto il suo corso. Non ti prescriverò certo l'antibiotico

per una blanda irritazione!» Ci resto quasi male.

«Uno sciroppo che calmi la tosse allora. Almeno la notte dormirò.»

«Bene.» In pochi minuti ho la mia ricetta bianca e sono in coda in farmacia.

Giorni 7-8-9-10

Lo sciroppo funziona, la tosse sta passando. Al lavoro si corre come al solito e nella zona industriale

i rumori sono sempre gli stessi. Non sembra nemmeno di essere in emergenza sanitaria

nazionale. Solo la mattina e la sera c'è meno traffico.

Giorno 11

È strano. Non me ne ero ancora accorta, sempre tutta indaffarata, ma non possiamo più progettare

niente: una cena con gli amici, una gita, una visita al museo, un giro in moto al mare,

una vacanza.

Mio marito mi fa tenerezza, è sul sito della Moby a spulciare le tariffe estive. Me le mostra,

sono davvero allettanti.

«Se prenoto entro il trenta marzo e poi non si potrà partire, ci rimborseranno il biglietto intero!»

esclama sognante e contento.

«Lascia stare, non mi sembra il caso.» Ci rimane male. Ci pensa un po', poi spegne il PC e torna

a stravaccarsi sul divano con il telecomando in mano.

In TV pochi film o programmi di qualità e molti talk incentrati sul coronavirus, in cui si dice tutto

e il contrario di tutto. Ormai l'argomento non si sofferma più in testa, entra da un orecchio ed

esce dall'altro. Accendo il portatile e inizio a cercare qualche film da scaricate sulla chiavetta

USB e caricare sullo schermo.

Giorno 12

«Stasera aperitivo con gli amici!» esclama Mario con il cellulare in mano. Lo guardo in tralice

come fosse un marziano. Lo vedo affaccendarsi in frigo e richiuderlo sollevato: due birre ci

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 32


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sono. Poi spiega: «Tuo cugino ci collegherà tramite WhatsApp con gli amici del gruppo di Harleysti.

Faremo l'happy hour in video chiamata!»

«Ah.» È tutto quello che riesco a dire perplessa.

Nel pomeriggio ci permettiamo una bella passeggiata al sole. Siamo fortunati, dietro il nostro

appartamento ci sono campi sterminati, per i viottoli di campagna deserti possiamo sgranchirci

le gambe.

All'ora stabilita ci colleghiamo. Non credevo, la video chiamata funziona. Il piccolo schermo del

telefono si divide in quattro e in una cacofonia di brindisi e risate forzate, ci aggiorniamo sulle

rispettive situazioni.

Una coppia se l'è vista brutta: hanno ricoverato il suocero per una polmonite con febbre alta. I

sanitari hanno fatto il tampone a tutta la famiglia. Negativo.

Al termine, l'evento mi lascia l'amaro in bocca. A questo ci siamo ridotti.

Giorni 13-14-15-16-17

Al lavoro si corre ancora. Mi chiedo il perché. Gli operai mi guardano male, tante aziende

hanno già chiuso, anche loro vorrebbero starsene a casa.

Il cliente principale chiama al telefono e mi urla nelle orecchie: «Come sarebbe a dire che il materiale

non è pronto? Datevi una mossa! Perché dalla prossima settimana saremo tutti a grattarci!»

«Siamo in tre, non siamo fenomeni, abbiamo due mani e possiamo fare solo una cosa per volta.

Il possibile lo facciamo per il resto ti dovrai arrangiare» ribatto stressata. Non posso più neppure

sfogarmi con le gomme da masticare.

Giorno 18

Un nuovo decreto del presidente del consiglio interrompe l'ameno programma di Fiorello. E te

pareva? Per una volta che trasmettono qualcosa di decente. In sostanza saranno chiuse tutte le

attività non necessarie e ci sarà un'altra stretta sugli spostamenti.

«Un nuovo modulo per l'auto certificazione? A quale siamo? È il terzo o il quarto?» Uffa, lunedì

dovrò ristamparlo.

Giorno 19

Mario scarica la lista dei codici Ateco che possono lavorare. Lui può, la sua azienda produce

scatole per alimenti. Io non potrei, però ho una commessa per un'azienda che vende apparecchi

medicali, con una comunicazione alla prefettura la posso produrre e consegnare.

Giorno 20

La chiusura è prorogata di tre giorni, per permettere alle aziende di organizzarsi e terminare

gli ordini. Ho la conferma che posso lavorare. Sono fortunata, almeno per questa settimana mi

passerà il tempo. Gli operai continuano a guardarmi male, vorrebbero restare a casa.

Io non so cosa sia meglio: il contagio di sicuro si fermerebbe ma chi fornirebbe i servizi essenziali?

Supermercati, farmacie, edicole, tabacchi, in caso di blocco totale ci sarebbe la rivolta e

allora sì che ci vorrebbe l'esercito per le strade.

E poi chi pagherebbe le tasse? I contributi? Tutto quello che permetterà allo stato di erogare

cassa integrazione e aiuti? Facile fare proclami, ma in pratica come la mettiamo?

Chiamo il commercialista, ho anche un sacco di obblighi e scadenze da rispettare, tre giorni

non mi bastano.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 33


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«La tua situazione rientra nello stato di necessità. Sei sola e devi poter accedere all’ufficio per

espletare le pratiche. Portati dietro l'autocertificazione e spigati bene, se ti fermeranno le autorità.»

Giorno 24

Mi rendo conto che la situazione è grave. Non devo solo far fronte agli obblighi e alle scadenze.

Potrei trovarmi anche a corto di liquidità. Un grosso cliente mi ha già mandato un insoluto,

quanti ancora non mi pagheranno alla fine del mese? A marzo tutti abbiamo lavorato e fatturato

però, con la scusa del covid19, i soliti furbetti se ne approfittano.

Chiamo il commercialista, che mi metta subito in lizza per il contributo di seicento euro alle partite

IVA: sono una miseria ma tutto fa.

In TV hanno strombazzato aiuti alla liquidità delle imprese a tasso agevolato, garantiti in toto

dallo stato. Il commercialista mi consiglia d'informarmi in banca.

Telefono a tre istituti: c’è un modulo da riempire, il tasso non è poi così agevolato e, pur se garantito,

occorre una discreta documentazione da allegare alla domanda. Mi pare di essere una

spiantata che chiede un mutuo stratosferico per la casa.

Chissà cos’altro succederà.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 34


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Maria Mastrogiovanni

State cercando di mandarmi via a tutti i costi, ma io sono nato da voi.

Quante volte, nei discorsi con un familiare, un amico, un collega, c’era qualcosa di non detto,

che poi andava misteriosamente a coagularsi in allontanamenti, separazioni, disgregazioni di

ogni genere. Quante volte, nell’esercitare il vostro ruolo nella vita, avete preteso diritti che non

vi appartenevano. Quante volte, guardando persone con tratti somatici diversi dai vostri, avete

avuto paura che le certezze crollassero per colpa di impostori di una non civiltà, a scapito della

vostra perfetta armonia solidale. Io ero lì, mentre invidia, rabbia, arrivismo, scalfivano progresso

e civiltà conquistati in millenni. Avete agito contro voi stessi. Io ho preso vigore, fino al

momento in cui mi sono sentito libero di girare per il mondo a seminare morte e paura. Adesso,

pur di sconfiggermi, scoprite di appartenere ad un’unica categoria umana. Avete me come nemico,

quindi dichiarate di essere “onde di uno stesso mare”. Una volta intuito che sono la personificazione

di quanto di peggio c’è in voi, state cercando l’antidoto per eliminarmi. Con quale

ansia di guadagno, di potere avete trattato la natura! Ora si è ribellata, nel modo e nel tempo

in cui mai vi sareste aspettati. Avete pensato che niente e nessuno avrebbero scalfito i vostri ritmi

frenetici, i calcoli nei quali tutto diventava un numero da sommare all’infinito . Vi siete convinti

che il migliore di voi è chi più di tutti riesce a sedersi su un trono fatto di sconfitte, ovviamente

altrui, di mortificazioni fino alla perdita di qualsiasi sentimento umano, di privazioni fino alla

negazione di se stessi. State riscoprendo che dalla terra viene il pane, che sui lavori umili, fin

ora svolti da chi non era considerato un essere umano, prende fondamento la vostra vita. Gli

“impostori di una non civiltà” sono quelli sul cui sfruttamento avete costruito una società di piaceri

fine a se stessi. I consumi, dopo averci regalato un attimo di finta soddisfazione, fuggono

via lasciando i loro rifiuti, in plastica e in dignità umana, schiacciata e negata per sempre. Un

po’ alla volta si capirà che la vita viene dalla terra, che siete terra. Dopo un attimo di vuoto,

questa nuova consapevolezza regalerà la solida serenità che solo l’essenziale sa dare. State

vedendo delfini nel golfo di Napoli, cerbiatti nei centri abitati, anatre con la nidiata percorrere

strade nelle quali, fino a ieri, eravate alla guida della vostra auto con l’orologio che correva più

del dovuto e voi, fermi a un semaforo, che avevate fretta, dovevate fare subito, altrimenti sareste

arrivati tardi. Vi fa sorridere tutto ciò, nonostante l’orrore che vi circonda. Vi scoprite felici

nel tinteggiare il tinello, attività considerata l’ultima frontiera del fitness. E’ strano che oggi, per

salvare le vostre vite, dobbiate rinchiudervi in casa, limitare i contatti. Siete stati sempre convinti

che avrebbe vinto in eterno chi correva più velocemente, chi più di tutti elargiva sapientemente

falsi sorrisi. Danno una tenerezza mista ad un senso di sconfitta gli alberi in fiore nella loro bellezza

sfacciata, che niente sanno di quello che sta succedendo. Allora, non riuscite a pensare

che, nonostante in questi giorni state rinunciando a vivere, sono proprio loro, gli esseri che non

avete considerato tali, a darvi attimi di serenità, che la bellezza della natura conquisterà le vostre

anime disorientate dalla paura. Sono le persone in seria difficoltà a ricordarvi che la società

è malata anche se solo una sua parte lo è. Sperate che tutto ritorni in un equilibrio per il quale

siete disposti a dare un’identità anche a chi non l’ha mai avuta. Questo significherà rallentare

la corsa verso il successo, più tempo per guardarvi negli occhi, stringere la mano ad un

ammalato, dare un abbraccio di auguri a chi intraprende un nuovo cammino nella vita, guardare

un fiore sbocciare in un anonimo condominio. Non dovrei dirlo, vado contro i miei interessi,

ma siete sulla buona strada Riuscirete a sconfiggermi. Come sarà il giorno successivo alla mia

scomparsa? Apprezzerete la bellezza dello stare insieme, la gioia di vivere a contatto con la

natura, che finalmente sarà tutelata e rispettata. Avrete consapevolezza che ogni passo nella

vita, anche nelle difficoltà, ha qualcosa di magico, che va apprezzato, regalato.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 35


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Capirete che quello che di bello saprete costruire si accresce nella condivisione, ma muore

quando si pensa di trattenerlo per sempre. Darete più valore alle persone che, nel silenzio delle

loro case, degli ospedali, delle scuole, delle fabbriche, dei laboratori di ricerca, costruiscono

qualcosa per tutti. Forse non sentirete più la necessità di sentire urlare, di considerare più forte

chi riesce a imporsi. D’accordo , ce l’avete fatta. A furia di legarvi tra voi e con la natura io dovrò

andare via. Scusate però, se sono petulante, ma io sarò lì ad osservarvi . Attenti.

Covid-19

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 36


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Irene Speziale

“Ritmo lento”

- Pronto?

- Fede, ciao, come te la passi?

- Eh, dai, per la mia situazione personale non mi posso lamentare, alla fine sto in casa...tu?

- Si, si anche io... anzi ti dirò, facendo finta di essere una specie di eremita devo dire che non

sono mai stata meglio.

- Addirittura!

- Eh si, lo so che può sembrare assurdo.

- Più che altro non uscire mai non è proprio “normale”.

- Ah, certo, però pure la vita che facevamo prima adesso mi sembra un’assurdità.

- Più di questa?

- Eh, forse dipende anche dalla persona... per me sta risultando più naturale questa lentezza

solo che non avevo mai avuto l’opportunità di viverla.

- Nel senso che stavi sempre di fretta?

- Esatto. E credo che tutta quell’ansia che avevo fosse dovuta al fatto che non vivessi al ritmo

giusto.

- Beh, si, visto che dobbiamo stare a casa, riposarsi può essere un bene.

- No, ma che riposarsi! Non sono mai stata tanto attiva!

- Ah, non avevo capito. In che senso attiva?

- Eh, sai, riesco finalmente a concentrarmi sulle cose senza dovermi distrarre sempre, senza interrompermi

per i vari impegni che mi spezzettavano la giornata.

- E cosa fai quindi?

- Tutte le cose che richiedevano una cura che non potevo avere. Mi sono sentita sbagliata tante

di quelle volte, lo sai.

- Eh si, lo so. E adesso?

- Adesso mi sento ... non so come dire... al mio posto.

- Mi sembra una cosa molto bella.

- Si, credo che lo sia. Sto anche lavorando e senza l’interruzione del pubblico riesco a gestire

tutto meglio.

- Come ti sei organizzata?

- Mi scrivono via messaggio e intanto rispondo con avviso automatico.

- E poi li richiami?

- Si, ma magari lo faccio quando mi sono stancata di stare al computer e ho bisogno di una

pausa. Faccio una mezz’ora di risposte e poi torno a lavoro.

- Ho capito, quindi diciamo che hai organizzato il tempo in maniera diversa.

- Si, sembra una cosa irrilevante ma non lo è. Poi, per dire, se vedo che c’è il sole, dato che poi

i palazzi mi faranno ombra, passo un’oretta fuori e mi faccio anche qualche esercizio di posturale.

- Ah, con quei video di cui avevamo parlato?

- Si, si, le video-lezioni.

- Menomale che qualcuno le fa.

- Si, sono stati generosi a condividere il loro lavoro in un momento di difficoltà.

- Infatti, è bello vedere che c’è stata la voglia di sostenersi a vicenda con piccoli gesti.

- Si, mi ha dato anche speranza. Vedere che alcune persone hanno provato a riorganizzarsi

senza perdersi d’animo e a dare energia anche a chi era più impaurito è stato come una carezza.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 37


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- Anche io lo penso, in mezzo a tanto spavento e con l’angoscia per la pandemia molti hanno

reagito non con rabbia ma con vitalità.

- Si, e sono stati contagiosi.

- Effettivamente almeno non ci si lascia andare al senso di impotenza.

- Già. Poi io ho scoperto di essermi giudicata male. Mi credevo incapace di essere costante invece

adesso che vivo in una lentezza ho preso alcune abitudini senza difficoltà... e sto meglio.

Tipo la ginnastica appunto.

- Ma lo sai che pure io la sto facendo e non mi fa male più il collo?

- È normale, stare troppo al computer blocca la schiena. Pure a me è successo. Adesso è assurdo

rendermi conto che magari ci passo più tempo di prima ma sto bene.

- Effettivamente alla fine tutti i giorni ti fai gli esercizi e ti rilassi. Certo fa riflettere questa cosa.

- Mica solo questa. Ti ricordi quando ti dicevo che non è possibile fare il pane a casa perché

come fai a stargli dietro?

- Si, si.

- Eh, adesso ovviamente non ho problemi. Impasto e, quando è ora, inforno. Quello di solina è

fenomenale. Mentre lievita io comunque lavoro oppure pulisco casa.

- Vedi! Io mi sono dedicata a fare i biscotti. Era da una vita che li volevo fare!

- Ah, buoni! Quali hai fatto?

- Ne ho fatti di vari tipi. Frollini per la colazione, cantucci, poi anche crostatine, maritozzi.

- Cavolo Fede! Ti sei lanciata!

- Eh si, ma come dici tu, avevo tempo ed era da tanto che volevo provare le ricette di mia nonna.

Poi cavolo, si risparmia tantissimo a fare i biscotti in casa.

- Si si, i biscotti costano parecchio.

- Ma poi questi di nonna sono uno spettacolo e mi ricordano tante cose della mia infanzia.

- Si, lo so cosa vuoi dire. Sono sensazioni che erano diventate sempre più rare invece in questo

tempo lento si ritrovano.

- Si, non erano perse. Io ho ripensato a cose che mi sembravano dimenticate.

- Già. Certo mi viene la tristezza a pensare che ci siamo concesse questa vita come reazione a

un’emergenza planetaria.

- Si, ho capito cosa vuoi dire, ha un retrogusto molto amaro.

- E se penso agli ospedali, alle persone che non avevano soldi da parte, a chi aveva appena

aperto un’attività... ma pure a pensare che non so quanto potremo reggere mi fa paura.

- Lo so, però ormai questa cosa è arrivata e la stiamo vivendo per forza. Allora cerchiamo di

osservare le cose per fare delle scelte future, no?

- Non è che possiamo fare altro. Però mi rammarico: certe cose non erano già chiare? Perché

abbiamo vissuto come pazze prima? Mica “serviva” una pandemia.

- Certo che no, non ci si può augurare che arrivi una catastrofe per vivere meglio dopo.

- Appunto. Non potevamo vivere una vita più lenta, più a misura fin da prima?

- Siamo nate che il mondo già correva e non ce ne siamo accorte.

- Possibile che non se ne sia accorto nessuno?

- Ma se tu stessa mi hai raccontato di gente che si è scocciata del nostro modo di vivere e ha

abbandonato la città e la frenesia.

- Si ma quelle sono persone che hanno attuato una rottura, hanno dovuto prendere decisioni

nette, scegliere tra due opzioni opposte.

- Appunto, si vede che loro se ne erano accorti.

- Si, ma io non volevo rinnegare la città.

- Ah nemmeno io, non potrei mai vivere in campagna, isolata,

poi ci sono pure i cinghiali, che sei matta!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 38


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- Eh, noi non siamo abituate. Ma io sono sempre stata combattuta. Sono nata in città e ho sempre

vissuto le sue comodità. Però avevo come una nostalgia di un maggiore contatto con la terra.

- E quindi cosa pensi adesso?

- Beh, penso a una città diversa. Che può accogliere anche un po’ di natura.

- Una specie di mix tra città e campagna?

- Beh, vedi, in questo periodo abbiamo sperimentato un nuovo tipo di vita cittadina, dove le

auto si guidano solo per necessità, si fa la spesa a piedi a due passi da casa, gli uccelli volano

e si posano cinguettando sui rami di quei pochi alberi rimasti.

- Lo sai che qua dai balconi di fronte si sentono le voci di bambini che giocano? Io non sapevo

emmeno che ci abitassero dei bimbi nel palazzo!

- Vedi? E l’hai visti i fiori che sbocciano lungo le strade? Qui sotto è successo.

- Da me no, ma ho visto delle foto su Facebook.

- Eh, cioè questo è un mondo sconosciuto in cui le case sono

abitate e diventano vive. Le persone si mettono a prendere il

sole sui balconi, curano le fioriere, si affacciano e parlano con i vicini...

- Si si, io per esempio adesso sto parlando con te dal balcone.

Non c’è tutto il rumore del traffico. Mi si riposano le orecchie!

- Infatti è bello stare con le finestre aperte e sapere che intorno a te ci sono altre persone che

vivono le loro case e trovano tempo per la cura.

- Si però adesso stiamo un po’ esagerando io e te. Nel senso che si deve pure uscire, si deve

lavorare, mica tutti possono stare a casa ventiquattro ore al giorno!

- Ma ci mancherebbe! Non è che dobbiamo passare da un eccesso all’altro.

- Eh, appunto.

- Si, però io spero che conserveremo qualcosa di questa esperienza. Sai, ripensare un po’ tutto

in termini di spostamenti.

- Che intendi?

- Recuperare un po’ la dimensione, vivere più a misura d’uomo. Un po’ come nei paesi.

- Ma i paesi si stanno svuotando, la gente va a vivere in città.

- Lo so, ma anche nelle città adesso ci siamo rimodulati un po’ su una dimensione di quartiere,

no?

- Ah, si, io per esempio era da anni che non andavo a piedi a fare la spesa vicino casa e devo

dire che sarebbe comodo, se non fosse per l’ansia del virus mi piacerebbe.

- Appunto, vedi. Quello intendo. Spostarsi di poco.

- Eh ma poi diventa stretto però.

- Ma io parlo solo del recuperare una quotidianità che si svolge non troppo distante dalla propria

casa.

- Ah, in quel senso parlavi di paesi.

- Si, non è che se abiti in un paese non ti puoi spostare. Però hai tutto a portata di mano nel

quotidiano.

- Ma oggi chi vive in paese magari lavora lontano e la macchina la deve prendere per forza.

- Dipende pure da che lavoro fai, vedi adesso con lo smart working molte persone potrebbero

lavorare da casa.

- Magari non tutti i giorni della settimana, però si...

- E allora possiamo pensare anche di non svuotare più i paesi. Anche per gli acquisti, alla fine

adesso con internet se hai bisogno di qualcosa in particolare puoi fartelo arrivare a casa.

- Ma pure per vendere effettivamente le cose stanno cambiando. Ci sono aziende che hanno

cominciato a consegnare a domicilio.

- Se ne parlava da anni ma in quanti avevano provato? Soprattutto gli artigiani erano pochi.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 39


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- Vero, infatti sai che una mia amica sta comprando i formaggi di un caseificio artigianale che a

causa dell’emergenza si è messo online e consegna a casa?

- E prima non lo faceva?

- No. Infatti lei aveva difficoltà a comprare i loro prodotti, non è che uno può andare in giro per

negozi sparsi qua e là. Vai all’ipermercato e fai la spesa.

- Invece adesso con questo sistema rimani a casa e compri da chi vuoi. La ditta si organizza per

le consegne, magari produce le quantità giuste e si spreca pure di meno.

- Eh, forse si. Effettivamente comunque lei mi diceva che il ragazzo delle consegne, anche se

spaventato dal rischio contagio, è felice dal punto di vista delle vendite.

- Per quello dico, magari lui vive in un paese, lavora in una bottega di famiglia, porta avanti

una tradizione, sostiene una filiera corta...

- Queste attività sembravano destinate a scomparire qualche mese fa, invece è vero, adesso potrebbero

rappresentare una soluzione per tante cose.

- E quello che aiuta è anche la tecnologia, internet. Qualcuno forse non ci aveva pensato e invece

adesso si saranno resi conto.

- Cavoli, alla fine non sembra poi così lontano quel mondo “diverso”.

- Sarò ottimista ma mi sembra che in qualche modo sia già qui, se solo ci credessimo un po’ di

più...

- Però dovrebbero cambiare varie cose su vari fronti. Non so.

- Sicuro. Ma penso che molto dipenda da ciò che sente ciascuno di noi. Se questo periodo ha

innescato qualcosa.

- Dici un po’ come sta succedendo a me e a te?

- Si, che abbiamo sperimentato una vita diversa e capiamo che certe cose potranno diventare

buone abitudini in futuro.

- Ma sai, io credo di si. Chi un un modo, chi in un altro.

- Lo spero.

- Io sicuramente proverò a non farmi trascinare di nuovo. Tu?

- Anch’io. Per esempio vorrei poter mantenere questa modalità di lavoro per almeno 3 giorni a

settimana. Magari apro lo studio al pubblico 2 giorni su 5. Poi vabbè il sabato continuerei

a ricevere su appuntamento.

- Ah, quello si, non sarebbe male.

- Oppure invece che ripartire sparati come se niente fosse accaduto, magari cominciare a usare

meno la macchina e più la bici.

- Queste strade libere ti fanno venire voglia di prendere la bici!

Io non lo facevo per la paura di essere investita.

- Si, ma è logico. Pure io ho sempre avuto paura.

- Ma se adesso riaprono devo fare le piste ciclabili oppure siamo punto e a capo.

- Certo servono però spero che il traffico veicolare diminuisca anche grazie alle scelte individuali.

Per quelle non dobbiamo aspettare... questo momento ci ha dimostrato quanto sia importante

il comportamento del singolo.

- Si, se in tanti lavorassimo più da casa e per spostarci scegliessimo di più la bici, le strade sarebbero

già diverse.

- E potremmo fare un elenco molto lungo ma vabbè, ci siamo capite!

- Si, ci siamo capite! Beh già che ci siamo, visto che non possiamo ancora rivederci, che dici, mi

dai la ricetta del pane di solina?

- Come no! E tu mi dai quella dei cantucci di tua nonna?

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 40


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Guido Noemi

“Un cartoccio di sorrisi”

Io, ogni giorno, immagino il mare.

Mi siedo sulle pietre e scelgo le più lisce da far rimbalzare sulle onde del mare, chiudo gli occhi

e mi lascio guidare da quel venticello che mi passa tra i capelli sempre disordinati, mi spoglio

della mia lunga camicia bianca e mi tuffo.

L’acqua è tiepida, ci sono dei piccolissimi pesci che mordicchiano i miei piedi e mi immergo

completamente, bagno anche i capelli e non sento più quei trentacinque gradi bruciarmi sulla

pelle.

Riempio quel mare vuoto con lunghe nuotate a braccia aperte e con le gambe faccio quasi una

danza e in maniera del tutto scoordinata mi porto a largo condotta da quello strato di corrente

ghiacciata che improvvisamente diventa di nuovo tiepida.

Mi stendo sull’acqua come fosse il mio letto e provo a guardare in faccia il sole, ci provo da

sempre, da piccola facevo addirittura a gara con i miei amici ma nessuno resisteva per più di

cinque secondi.

Facevamo anche i tornei intitolati “chi rimane di più sott’acqua vince il ghiacciolo alla menta”,

si lo so era un titolo un po’ lungo ma ci serviva qualcosa che rendesse chiaro il concetto a tutti i

bambini della spiaggia.

Dopo aver portato la mia mente al 1995 mi sposto di nuovo su quel cielo azzurro senza dare

molta confidenza al sole che inizia a bruciare la mia faccia, non c’è nemmeno una piccola nuvola,

ci sono solo i gabbiani che volano vicini e si raccontano di quanto vuoto sia il mare, se

non fosse per me.

Io vorrei rimanere nella posizione cosiddetta “del morto” per tutta l’estate ma inizio a bruciarmi

e già sento la voce di mia madre che da ventisei anni mi dice “ogni tanto bagnati la testa”, così

mi spingo sott’acqua ad occhi chiusi e mi lascio bagnare da quel mare vuoto.

Faccio qualche altra acrobazia ed esco dall’acqua, mi asciugo, rimetto la mia camicia bianca e

vado verso quel chiosco di legno che mi ha sempre regalato grandi cartocci di sorrisi e granite.

“Per me una granita al cocco, grazie”, mi piace questo gusto perché alla fine del bicchiere c’è

sempre qualche pezzo di cocco pronto ad essere morso.

Nel frattempo inizia a farsi sera e i miei capelli ancora bagnati decidono che è il caso di ritirarsi

ma non prima di aver gustato ogni sfumatura del tramonto: rosso, viola, giallo, arancione; ha la

sfumatura d’ogni tipo di emozione ed io le provo una ad una, in silenzio.

In mezzo a quel mare vuoto, rimetto la felpa, chiudo la tenda e torno a cucinare con la speranza

di poter sentire davvero la mia pelle bruciare sotto quel sole che mai riuscirò a guardare in

faccia, immaginando ogni giorno quel mare vuoto riempirsi con i battiti del mio cuore.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 41


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Riccarlo Martellini

“Come un fiume”

Una piccola sala d’aspetto. Sedie scomode e luce accecante, nonostante fuori fosse notte fonda.

Si sentì sfinito. Lo stress e l’adrenalina accumulata si sciolse come cera di una candela la cui

fiamma aveva bruciato troppo intensamente. Si prese la testa tra le mani, inerme.

L’unica cosa possibile era aspettare.

Un anziano se ne stava seduto in un angolo e lo guardava con occhi di mare. Due pozze ancestrali

in mezzo alle montagne solcate da rughe lo scandagliavano. Fervidi in quella stanza asettica,

alle tre di mattina. Un vecchio solo. Un uomo che forse, un tempo, per qualcuno era stato

importante.

-Anche lei sta aspettando notizie?-

L’uomo annuì.

-Mi hanno chiamato ma credo di essere arrivato troppo tardi-

Lo sguardo, per un istante, trasfigurò, riprendendo subito il suo gelido calore.

-O forse troppo presto-

-Mi dispiace-

-Aspettavo un trapianto di polmone. Sono mesi che sono in attesa. Non è una bella situazione.

Senza un polmone non si vive tanto a lungo e se desideri un organo nuovo devi sperare che

qualcun’altro muoia. Capisce? La tua vita dipende dalla morte di un altro essere umano. Mors

tua vita mea-

Un silenzio implose nella piccola saletta come un buco nero dalla massa infinita.

Il vecchio guardava lontano.

-Siamo come un fiume in cui non scorre mai la stessa acqua, la vita è un ciclo, c’è chi entra e chi

esce, chi incomincia il suo viaggio e chi lo sta per concludere, ma in fondo in fondo, siamo sempre

noi-

-Io ho la mia ragazza la dentro, sa…la amo tantissimo e…-

Il vecchio guardò lontano.

-Ah, l’amore, così forte, così ingiusto. Amare qualcuno significa non amare tutti gli altri. E’ una

grande prova di coraggio, e di fede-

-Lei è la mia anima gemella-

Il vecchio si alzò in piedi.

-Non esiste la persona giusta, esiste quella che arriva nel momento giusto-

Una porta si aprì, una voce lo chiamò.

Il vecchio allungò una mano. La stratta energica, familiare. Quasi un passaggio di testimone.

-Buona fortuna e ricordati, tu sei esattamente dove vuoi essere altrimenti stai sbagliando tutto-

Entrò in un corridoio e correndo arrivò nella stanza dove la sua compagna era in piena agonia.

Urlava e piangeva. Respirava forte. Sudava. Lui la stinse a se pensando al vecchio e alle sue

parole.

Diverse ore dopo un neonato strillante entrò nella corrente del fiume della vita. Il loro piccolino.

Quando lo prese in braccio il bimbo si tranquillizzò e lo guardò, gli occhi come oceani, il sorriso

familiare.

Nello stesso momento, poco distante, una barella trasportava un corpo coperto da un lenzuolo.

Per lui il fiume era sfociato nel mare dell’eterno. Un anziano con grandi occhi che un tempo era

stati azzurri sorrideva. Un sorriso familiare.

La natura vince sempre.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 42


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Maria Luisa Farolfi

“La signora Amelia”

La signora Amelia vive da sola in un appartamento di cento metri quadrati. È rimasta vedova

da qualche anno. “Vedova” di marito e di figlio. Entrambi sono morti in un incidente d’auto.

Guidava il figlio. Il padre era addormentato nel sedile accanto. Stavano tornando da un concerto

degli Iron Maiden. La signora Amelia non ha mai apprezzato i gruppi rock. Lei ama la

musica classica. Soprattutto i valzer di Strauss. Di tutti gli Strauss.

La signora Amelia non ha animali. Non sopporta di dover pulire peli o piume e tanto meno di

dover buttare lettiere sporche. La signora Amelia era insegnante di italiano, prima di andare in

pensione. Legge moltissimi classici e le piace vedere i film da cui sono tratti questi classici per

confrontarli con il testo originale. Guarda i film in streaming, dal pc del figlio, perché non le

piace andare al cinema e soprattutto non vuole uscire la sera. Ora, poi, che è costretta a restare

in casa a causa di uno strano virus che sta mietendo vittime, fuori, per strada... L’ultimo film

che ha visto è Martin Eden, con Luca Marinelli come protagonista. E trova che quel bell’attore

con il vestito elegante in occasione della notte degli Oscar sia molto simile a suo figlio.

Una mattina la signora Amelia, mentre sta spolverando la libreria della sala, avverte una presenza

dietro di sé. Si gira di scatto e vede un uomo sui quarant’anni seduto sulla sua poltrona

preferita. Trasale, ma si fa coraggio e si avvicina all’uomo. Lui è immobile, con gli occhi spalancati

sul vuoto, bellissimo ed elegantissimo. La signora Amelia non è spaventata, ma solo incuriosita.

Si guarda intorno per cercare di capire da dove sia entrato. Gli posa una mano sopra il

ginocchio, ma lui resta immobile. Dopo qualche minuto, la signora Amelia si allontana per nascondersi

in cucina e poter osservare lo sconosciuto, che continua a non muoversi.

Dopo un’ora lui non ha cambiato posizione. La signora Amelia prepara il pranzo, ma tiene

sempre d’occhio l’intruso. Prepara due piatti e ne mette uno pieno di pasta sulle ginocchia dell’uomo,

ma lui non si muove.

La giornata scorre come le altre. L’uomo resta immobile. Alle sei in punto l’orologio a pendolo

della sala rintocca e l’uomo si risente dal torpore, si stiracchia e si stropiccia gli occhi. Si guarda

intorno in silenzio. La signora Amelia è elettrizzata. Si siede di corsa su una sedia davanti all’uomo

e lo guarda negli occhi verdi. Lui abbozza un sorriso, inizia a parlare, le chiede chi sia

lei, in che città si trovano, ma non fa accenno né al proprio nome, né a come sia entrato in

casa. Dopo mezz’ora, improvvisamente, ricade nello stato catatonico in cui era all’inizio. La

signora Amelia è sconcertata. Alla fine della giornata si prepara per dormire, ma continua a

tenere d’occhio il ragazzo, che resta immobile.

A metà della notte la signora Amelia sente un rumore. Si alza, e in punta di piedi si avvicina

alla sala. Il ragazzo è sempre immobile e catatonico e nella stessa posizione, ma di fronte a lui

è accovacciato una specie di diavolo rosso che lo accarezza sul viso. Il ragazzo muove solo

una mano per allontanare l’essere, ma non parla, né tenta di alzarsi. La signora Amelia si avvicina

e il diavolo scompare, all’improvviso. Nel frattempo il ragazzo non si muove. La signora

Amelia prende una sedia e si siede di fronte a lui. Ma per tutta la notte il ragazzo non cambia

posizione.

La mattina seguente la signora Amelia si sveglia sulla sedia con un forte mal di schiena e una

cefalea terribile. Ha trascorso la notte senza potersi stendere e la spalliera della sedia, di legno,

è tremendamente scomoda. Guarda l’uomo, che resta immobile e catatonico. La signora

Amelia si alza, va in bagno, prende un analgesico, si lava, si veste e va in cucina a prepararsi

la colazione. La giornata scorre senza novità per la signora Amelia, tranne il fatto di avere una

presenza costante nella propria casa.

Alle sei in punto, ai rintocchi della pendola, il ragazzo si risente, stropiccia gli occhi, si stiracchia

e si siede composto. Quando la signora Amelia gli si siede davanti, lui ricomincia a farle

domande.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 43


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Sembra un magnifico smemorato, ansioso di ascoltare le vicende della vita di Amelia. E alle sei

e mezza di sera, senza preavviso, l’ uomo si spegne. Si spegne è il termine giusto, perché lui si

comporta proprio come se qualcuno azionasse un interruttore.

E questa storia continua per giorni e giorni, e sempre con la stessa successione di eventi. Lui si

sveglia alle sei di sera, fa domande, ma non racconta nulla di sé. Non chiede cibo o acqua,

non si alza dalla poltrona. Alle sei e mezza ripiomba nel solito stato catatonico. E la notte viene

visitato dal diavolo che lo accarezza in viso.

La signora Amelia comincia ad affezionarsi a questo bel ragazzo che assomiglia a un attore. Si

sente sicura, anche se lui non interagisce con lei, se non per farle domande in quella solita

mezz’ora di tramonto del sole. Una sera, alle sei, la pendola suona per sei volte. Ma l’uomo

non si muove. Spaventata, la signora Amelia lo scuote più volte, ma lui rimane catatonico. La

signora Amelia allora corre in cucina a prendere dell’acqua per inumidirgli il viso e provare così

a svegliarlo. Mentre sta riempiendo un bicchiere di acqua, vede riflesso nel vetro della credenza

il vestito dell’uomo. Atterrita, la signora Amelia si gira di scatto e vede l’uomo in piedi davanti

a lei, in tutta la sua bellezza, ma con uno sguardo malvagio. La signora Amelia vorrebbe

colpirlo con il bicchiere, ma rispondendo a uno strano moto dell’anima lo abbraccia fortissimo.

Gli butta letteralmente le braccia al collo e si scioglie in un pianto silenzioso. Nello stesso tempo

l’uomo scoppia a piangere come lei. Le lacrime gli rigano il viso e la signora Amelia si scosta

per guardarlo. Lui apre gli occhi e le dice: «Mamma, sono io!». Incredula, la signora Amelia

sgrana gli occhi. Allora il ragazzo le racconta di come il diavolo, dopo la propria morte, avesse

tentato di trascinarlo giù con sé, di come lui stesso abbia lottato tanto per resistere e di come

infine il diavolo abbia patteggiato con lui perché tornasse sulla terra e portasse sua madre agli

inferi con sé.

Se l’uomo fosse riuscito a convincere la madre a scendere agli inferi si sarebbero salvati. Se,

viceversa, la madre avesse opposto resistenza, sarebbero stati dannati entrambi. Ecco il motivo

per cui il diavolo ogni notte visitava il ragazzo. Come per incanto, ora dal pc proviene un valzer

di Strauss. In quel momento al giovane viene in mente che la madre non aveva mai ballato

con lui. O lui non aveva mai ballato con la madre. Fa un inchino, e invita la madre a danzare.

Quello che succederà dopo, non ci è dato di saperlo. Ma la signora Amelia, ora, è davvero

felice.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 44


Italia Poetica

Margherita Talia

“Tre Secondi”

L’alba del giorno dopo aveva illuminato una città calata nel silenzio, vuota, spopolata da ogni

prova del passaggio umano.

Ferma al semaforo, nel punto esatto in cui le vie si incontrano, in quei tre secondi in cui tutto

pare arrestarsi, la strada non le era mai sembrata così larga.

Le mura di archi rossi, un tempo cinta inespugnabile, erano ormai quasi completamente sovrastate

dal brulicare di case e palazzi; come in un cantiere incessantemente aperto questi non facevano

che alzarsi, allargarsi, soffocando viali e tronchi, nascondendo un cielo mai così limpido,

mai così vuoto.

Sotto uno di quegli archi di mattoni stava sempre un uomo dalla carnagione trasparente, le

spalle larghe e ossute e gli occhi glaciali che guardavano fissi davanti a sé trascinandolo più in

là, fin sotto al sole; l’uomo aveva due gambe, una schiena, un viso ed un solo braccio: l’altro,

nella sua invisibilità, sembrava implorare qualche spicciolo dai passanti.

Antonia percorreva quella stessa strada da anni, sotto l’arco alzava lo sguardo e attraversava

la piazza lasciandosi la bianca facciata della chiesa dietro le spalle.

Prima di voltarsi e incamminarsi verso destra si gustava sempre quei tre, lunghi secondi.

Tutti i semafori rossi, nessuno che osasse muovere un passo; tre secondi in cui l’uomo e suoi rumori

lasciavano posto al silenzio; tre secondi, quella calma resisteva appena nello spazio di

quei tre secondi. Ma quella mattina non un’auto, non una bicicletta, non un uomo.

Quella mattina il vento spirava con forza, sopito dai raggi del sole che riflettevano sull’asfalto;

Antonia distolse lo sguardo per proteggersi insieme dalla luce e dai pollini.

Le servì un secondo in più, il quarto, per pensare al fatto di non aver incontrato l’uomo seduto

sotto l’arco e di non aver schivato nessun passante frettoloso, nessuno in ritardo o in piedi alla

fermata dell’autobus.

Dopo qualche istante, aveva contato fino a dieci, fantasticò di essere rimasta la sola anima sulla

terra; un’idea che da piccola la accarezzava spesso, quando vedeva nello specchio un buco

nero che non la lasciava dormire e che temeva potesse inghiottirla da un momento all’altro insieme

a tutto il resto.

Era così, quel buco nero che una volta si sentiva nello stomaco si era allargato tanto da assorbire

tutto? Il verde dei semafori, le parole, i clacson; le persone più familiari, i visi appena conosciuti,

quelli ancora muti; era davvero tutto scomparso risparmiando lei, proprio lei, antica origine

di quel vortice cieco?

Si chiese come sarebbe apparso il mondo se fosse stato vero, se quel giorno esso si fosse liberato

dall’invadenza umana; chiuse gli occhi per undici, dodici, tredici secondi.

Gli alberi, giganti verdi, avrebbero chinato le chiome tessendo reti invisibili per le rondini; il

mare avrebbe invaso il gelo dei vetri e dei palazzi; spento il sole, senza fiato sotto la polvere

lunare, dune grigie di silenzi soffocati.

Si preoccupò di chi avrebbe spento le luci dei lampioni, le ombre che si stagliano nel centro in

città e chi avrebbe custodito l'amore, chi le parole che ci parlano di tutte quelle cose che non ci

aspettano, quelle che ci perdono.

La musica, il jazz... Dio, si chiedeva quale fine avrebbe fatto il jazz.

Ora canticchiava “Makes me stop before I begin, ‘cause I’ve got you under my skin”, era ancora

lì, ogni cosa era al suo posto: gli alberi dritti, il mare lontano e ancora illuminato dal sole.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 45


Italia Poetica

Antonia si godette quel silenzio ancora per qualche secondo, poi si perse con gli occhi nel parco

vuoto, nella nostalgia per i giochi e le voci passate; era cresciuta in quel parco di fronte alla

basilica, tra le altalene piene di ruggine e gli alberi che cambiano colore ad ogni stagione.

Si ritrovava fra quei giochi ogni volta che poteva, ogni volta che la malinconia le mordeva il

petto; come allora, raccoglieva petali e foglie cadute, le lasciava a mezz’aria e poi soffiava forte,

fino a che questi non si impigliavano in qualche ramo o fra i capelli di qualche passante.

Da bambina credeva che così avrebbe lasciato un po’ di sé nell’aria, insieme alle grida e alle

risate; e sorrideva, sorrideva fortissimo, abbassando lo sguardo se qualcuno la guardava un

po’ più a lungo, vergognandosi di tanto sfacciata felicità.

Di nuovo, ripiombò in quel silenzio assordante, non ci badò.

Per imbrogliarsi il cuore prese una manciata di petali dal mandorlo e li lanciò con forza in aria,

superando il vento e la paura, guardandoli cadere sul prato come se potessero dar vita ad un

altro tronco, come se potesse crescere un nuovo albero da quei petali e dal suo fiato.

Della primavera rimanevano solo rimasugli: petali bianchi che giacevano al suolo, polline che

pareva seccarsi al sole come fosse miele; il vento fresco si era rintanato fra le siepi per far posto

a quello caldo d’estate, quello che sa di mare e di lunghi temporali.

Quella mattina non ci sarebbero state urla di bambini, capelli in cui potessero impigliarsi le foglie,

quel silenzio si portava dietro un vuoto che somigliava per davvero ad un buco nero.

Le strade vuote, la vita ferma, l’umanità tutta tentava una ribellione contro un male senza volto

e senza ragione.

Erano pochi i rumori e i suoni che si accavallavano durante le giornate, l’una così simile all’altra.

Un bambino che piange mentre il cielo si fa arancione, il picchiettio dell’accendino di Anita sulla

ringhiera mentre consuma la prima sigaretta del mattino, Rosa che ancora stende le camicie

usurate di Umberto, un pallone che rimbalza su un muro e torna indietro.

Il sassofono di Giuseppe che ogni sera, alle sei, sullo sfondo di una luce che sembra non voler

calare mai, suona per dieci, venti minuti; mentre suona una lacrima gli scivola sulla guancia e

cade precisa nelle ortensie di Anita, al quinto piano, una lacrima che fa un piccolo solco nel

terriccio asciutto.

Dopo il breve concerto, con la precisa solennità di una ronda di prigionieri, i vicini aprono la

finestra per cantare; ogni sera cantano per dieci, venti minuti, per interrompere il silenzio e

creare un boato che ricordi al mondo che l’uomo non si è affatto estinto.

L’invadenza umana era ancora lì, solo chiusa nelle proprie case.

Antonia conosceva tutti nel suo quartiere, avrebbe potuto disegnare ogni volto, ricordava ogni

nome; amava il sorriso che i vicini le riservavano ogni volta che le aprivano la porta di casa.

Quando prese il primo pacchetto di lettere da consegnare aveva già contato fino a milleduecento,

era in ritardo, ma quella mattina nessuno sembrava metterle fretta.

Ormai non aveva più bisogno di controllare i nomi delle strade sulla mappa, camminò svelta sul

lato dei numeri dispari; il numero 27 era un alto palazzo arancione, gli angoli gialli per l’usura

del tempo, un grande cancello verde con accanto una lunga lista di nomi, la cassetta era all’interno,

appartamento 3; citofonò, le rispose un uomo dalla voce nuova e roca.

- Sì? Chi è?

- ...

- Chi è?

- Mi scusi, la posta.

- La posi pure nel cancello, buona giornata!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 46


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- Sì, buona giornata!

La grata era calda, il calore del sole conservato nel metallo le attraversò i guanti in lattice facendole

arrossare le dita pallide, ci vollero appena pochi secondi per portare al termine il primo

incarico della giornata.

Un uomo sulla sessantina le sorrise dalla finestra, la ragazza ricambiò il sorriso che rimase nascosto

dietro alla stoffa bianca; milletrecentoventisei.

Antonia si rese conto che quell’uomo poteva essere lo stesso al quale, poco prima, aveva

consegnato la posta, probabilmente non ne avrebbe mai avuto la certezza; si chiese se vivesse

da solo, se fosse pensionato o forzato a casa, se avesse i soldi necessari per la bolletta che gli

aveva appena lasciato, se avesse dei nipoti e se sentisse la loro mancanza.

Faceva sempre così, aveva sempre cercato di immaginare le storie che si nascondevano oltre

quelle porte, quei cancelli, dietro quei nomi impressi sulle cassette delle lettere; in fondo amava

il suo lavoro, per quanto fosse considerato ripetitivo e noioso dai più: le sembrava di essere

parte di quelle vite, di tenerne fra le mani frammenti e stralci ogni volta che ne toccava e consegnava

la posta.

Ogni volta che suonava ad un citofono portava loro pezzettini di sé che avevano lasciato indietro,

o che li aspettavano più avanti.

Da quando c’era stato il blocco totale il suo lavoro le sembrava essenziale, notava che oltre

alle solite bollette c’erano più lettere, più cartoline; qualcuno la aspettava da dietro alla finestra,

trepidante per una consegna come le famiglie che aspettano telegrammi dai soldati, come i

racconti della nonna, quando aspettava notizie del nonno trasferitosi lontano.

Quella mattina, tuttavia, erano poche le consegne da fare; Antonia ne approfittò per gustarsi

ogni metro, per fare qualche passo, per perdersi fra i suoi pensieri e le sue fantasticherie; i secondi

passavano, duemilatrecentoquaranta.

Lunedì, tre giorni prima, aveva portato una cartolina a Rosa, una signora che vedeva tutte le

mattine dalla sua finestra; la vedeva svegliarsi, fare colazione lentamente, lavare, stirare e stendere

le vecchie camicie del marito. Umberto era un uomo molto riservato, Antonia non gli aveva

mai parlato ma lo ricordava elegante nelle sue camicie tutte colorate con i colletti ricamati,

sempre stese con cura sulle corde del balcone bianco; quelle camicie erano una nota vivace che

ancora rallegrava la facciata del palazzo alto di fronte.

Quando Rosa l’aveva trovata nella cassetta aveva aspettato che la postina tornasse per andarle

incontro e mostrargliela, per condividere con la vicina quella quasi insignificante gioia e magari

lasciarle un po’ delle fave che aveva comprato quella mattina; in fondo era stata lei a consegnarle

la cartolina, aveva avuto per un po’ quel singhiozzo di vita nella sua sacca, fra le mani.

Scese le poche scale sistemandosi la camicetta nella gonna, portava lunghi gamberetti di nylon

neri in un paio di mocassini di pelle blu: aveva in mano la foto di un soleggiato paesaggio calabrese

con poche righe scritte sul dorso; fin da piccolo, il figlio non era mai stato un ragazzo

loquace e, anche se lo sentiva ogni giorno con il telefono comprato per l’occasione, ricevere

qualcosa di scritto di suo pugno l’aveva emozionata molto.

“Va tutto bene mamma, sorridi. Ho smesso di lavorare ma per adesso non posso tornare. Ogni

giorno mi sveglio e mi godo il sole, il paesaggio. Mangio bene. Sai che tornerò presto, non appena

potrò. Ti voglio bene mamma, sorridi”.

Tremilacentoventi; Antonia si risentì il cuore in gola proprio come tre giorni prima, quando aveva

dovuto fermare l’anziana vicina, non permettendole di avvicinarsi.

- Prendi almeno la busta di fave, sono troppe per me, sono sola!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 47


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- Va bene Rosa, lasciale qui e sali a casa, le prendo subito... grazie.

- Mangiale però, sono fresche.

Le sorrise.

- Va tutto bene? Se ti serve qualcosa chiamami, hai il mio numero!

La giovane postina accettava sempre tutto ciò che i vicini condividevano con lei; all’inizio quasi

se ne risentiva, come se quei piccoli gesti altro non fossero che dimostrazioni di pena per la sua

solitudine.

Con gli anni aveva imparato a riconoscere l’affetto dietro ad ogni busta di verdure, ogni vassoio

di biscotti, era come avere una strana famiglia che la riempiva di attenzioni ogni volta che lei

portava loro la posta, sembravano ringraziarla persino per le bollette; Antonia aspettava trepidante

il venerdì, quando Anita faceva i biscotti al burro per i nipoti e ne conservava sempre un

pacchetto anche per lei.

Alla fine della mattinata, consegnate le ultime lettere, pensò di citofonare a Rosa, per chiederle

se le servisse qualcosa.

Le rispose con la voce squillante, aveva giusto un favore da chiederle.

- Ho scritto una lettera per Luigi, ho scritto anche l’indirizzo sulla busta ma non ho il

francobollo... te la lancio dal balcone, puoi spedirla? Quanto costano adesso i francobolli?

- Certo Rosa! Lascia stare per il francobollo, costa come una busta di fave.

- Grazie Antonia, sei una brava ragazza.

Salita a casa si buttò sulla poltrona senza neppure togliersi le scarpe, non resistette, aprì la busta

arancione.

“Ciao Luigi, mi hai dato tanta gioia con la tua cartolina, ti chiedevo sempre di mandarmene

una. Mamma ti vuole bene e ti aspetta a casa, devo farti la parmigiana. La mattina mi sveglio

da sola, mi vesto e mi metto la collana di perle rosse, quella che mi hai regalato tu al compleanno

dell’anno scorso insieme a papà. Faccio quello che mi dici tu, mi pettino i capelli ma

c’è la ricrescita, se non torni devo chiedere a qualcuno di comprarmi una tinta, i capelli bianchi

sono tristi.

Tuo padre aveva i capelli bianchi, ma i suoi erano belli, erano capelli saggi. Io sembro la tua

maestra delle elementari, quella che aveva i capelli tutti grigi che a te piacevano tanto, a me

però non mi stanno bene.

Mi annoio, per passare il tempo stiro le camicie di tuo padre da mettere nelle scatole, guardo la

televisione ma Luisa dice che non devo guardare tanto telegiornale, che le cose le posso chiedere

a lei col telefono. È facile usare il telefono.

Spero che potrai tornare presto, la lampadina nella sala si sta scaricando, va cambiata, ma io

sulla scala da sola non ci salgo, tranquillo.

Mamma ti vuole bene, ti aspetto a casa, sono fiera di te, Luigi”.

La casa era piena di francobolli, imbucò la busta il giorno stesso.

Il vento era caldo e Antonia aveva perso il conto.

Uno, due, tre.

Ferma al semaforo, al quinto secondo Antonia alza lo sguardo e attraversa la strada, ora corre.

È stanca, oggi ha dovuto prendere la macchina per poter consegnare tutta la posta, i colleghi

dei quartieri vicini sono in ferie e lei deve coprire anche le loro zone.

Una settimana di ferie ciascuno, lei non ha ancora deciso se accettarle.

Passando per il parco, raccoglie una manciata di foglie da terra e soffia forte; un bambino la

guarda

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 48


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con disappunto, gli sorride.

Salita a casa, lancia uno sguardo attraverso la finestra: Rosa ha sistemato un tavolo sul balcone,

la tovaglia di un arancione acceso, la tenda bianca abbassata per ripararsi dal sole.

Lei sta seduta su una sedia con i capelli scuri e pettinati, al collo ha una collana di perle rosse,

ride di un ragazzo che abbassa la testa per uscire sul balcone, è alto, ha una teglia in mano.

Rosa si volta, fa un cenno verso la finestra di fronte a lei, dice qualcosa; Antonia le sorride,

prende una bottiglia di vino e scende per raggiungerli.

Tre secondi, il silenzio oggi dura solo tre secondi.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 49


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Lisa Bortolini

“Fili”

Il bisnonno Gigi era un partigiano, uno di quei montanari che il Carso lo conosceva in ogni suo

anfratto. Alle richieste di mio padre di raccontargli qualcosa della guerra, glissava e si versava

un bicchiere di vino rosso. Non ha mai voluto raccogliere le sue memorie, nemmeno quando ha

capito che il cancro stava per mangiarselo. Mio padre è rimasto senza ricordi da fermare su

carta; a me è rimasta in eredità la sua reticenza. Quando mia madre è esasperata dal mio mutismo,

mio padre le ripete che "è un bene che sia ermetico e imperscrutabile". Lui, che per mestiere

cura il linguaggio dei ragazzi, mi ha trasmesso un modo di esprimermi lontano da quello

dei miei coetanei. E' fiero che non sia banale, che mi distingua. Peccato che il risultato sia la

loro indifferenza nei miei confronti, e la mia estraneità alle loro dinamiche relazionali. Perché

mi avrà pure insegnato a leggere e scrivere precocemente, a usare congiuntivi e figure retoriche,

a conoscere termini desueti, ma non ha messo lo stesso zelo nello spiegarmi come farmi

degli amici. Se c'è una nota positiva di questo isolamento, è che non mi manca nessuno. Detto

così sembra che sia asociale; la verità è che so stare benissimo da solo. I miei cugini mi scrivono

ogni tanto in chat, i miei compagni di nuoto non li sentivo neanche prima, e quelli di classe li

vedo tutte le mattine per la didattica a distanza. Stamattina ci sono stati i soliti problemi di connessione,

e ho seguito per metà la videolezione di latino. Poco male, la riprenderò più tardi con

papà. Con la scusa di prendere un po' di sole, osservo dalla porta finestra che dà sul balcone

le persone che abitano nel condominio di fronte. La signora del quarto piano è fuori a fumare,

tanto per cambiare, appoggiata alla ringhiera. Quella sotto di lei sta stendendo il bucato sui fili,

muove le dita agili con un paio di mollette pronte in bocca; ha un bimbetto sui due anni attaccato

alla gamba. A fianco di questa, un uomo sulla quarantina vestito da operaio finge di leggere

qualcosa al cellulare, ma sta palesemente sbirciando le gambe della mamma. Sotto di lui, la

porta finestra aperta lascia intravedere un'anziana che si muove ai fornelli. Al primo piano, sotto

la vecchia, un uomo in ciabatte legge il giornale sulla sedia, mentre due fratellini corrono

dentro e fuori scalmanati. Una signora in carne sta spazzando il balcone a fianco; muove le

labbra a ritmo di musica. Immagino suoni e odori che ci saranno lì, in quel condominio vivo ed

affollato. Come l'odore del pomodoro che sfrigola in padella con la cipolla affettata e l'olio,

nella mia cucina. E' ora di spegnere e aggiungere tonno e capperi. L'acqua bolle, così butto gli

spaghetti e vado ad avvertire papà che è quasi pronto. "Ancora un'e-mail e arrivo" è la sua

classica risposta. Dopo due minuti sento che va in bagno a lavarsi le mani e, subito dopo, viene

ad annusare il mio sugo. "Stai diventando sempre più bravo" commenta, scompigliandomi i capelli.

Scolo la pasta, la rimetto sul fuoco con il sugo e mescolo bene. Papà mi passa piatti e forchette,

sporziono e andiamo insieme a sederci. Le prime forchettate sono veloci, siamo entrambi

affamati. Poi mi chiede com'è andata la mattinata, e gli confesso di aver avuto problemi al pc.

"Anch'io ho spesso problemi con le mie videolezioni. Troppa gente connessa alla stessa ora.

Online un'ora mi sembra molto più lunga, eppure passa così veloce. Solo per l'appello perdo un

sacco di tempo, tra verificare che ci siano tutti e che mi sentano e mi vedano bene. Dopo tre ore

sono stremato, e mi rimangono tantissime e-mail con temi da correggere" protesta, infilzando gli

ultimi spaghetti. "Grazie del pranzo, Fili, se hai bisogno più tardi vediamo insieme latino" promette.

Sparecchia e si arrotola le maniche della camicia per lavare i piatti. Intanto gli preparo

la moka per il caffè, ed esco con la tovaglia in terrazzo a buttare le briciole. La mia vicina sta

facendo la stessa cosa, e mi fa un saluto con un cenno della testa. Avrà la mia età, ma non so

nemmeno come si chiama o che scuola fa. Ricambio e rientro, prima che attacchi bottone. Sono

proprio un orso. E' quasi ora di cena, quando sento le chiavi girare nella toppa. Mamma apre

la porta, ma resta sullo zerbino mentre si toglie giacca e scarpe. "Ciao famiglia" esordisce, ancora

con la mascherina. Appoggia la giacca sulla scarpiera, e ci butta dentro le scarpe. Chiude

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 50


Italia Poetica

la porta con il tallone, e va diretta in doccia. Ne riemerge dopo una mezz'oretta, con l'asciugamano

ancora sulla testa a mo' di turbante. Papà le fa trovare una bruschetta al pomodoro sul

tavolo, appena cosparsa di olio. "Sei uscito un po' in terrazzo, Fili? Sei bianco come un lenzuolo"

mi squadra, prima di abbracciarmi e baciarmi la testa. Poi si accascia sulla sedia, e divora

la bruschetta in due bocconi. "Sì mamma, la vitamina D, lo so" biascico, e mi trattengo dal farle

notare le sue occhiaie. In ospedale non ha tempo di sedersi, e i suoi turni sono sempre più lunghi.

Quando srotola l'asciugamano, un forte profumo di cocco pervade la cucina. I suoi lunghi

capelli le ricadono sulle spalle, ancora umidi. Mi sorride, e all'improvviso sembra più giovane di

dieci anni. "Con la scuola come procede?" "Chiedi a me o a papà?" cerco di sviare. "A te Fili,

ma in effetti potrei fare la stessa domanda a papà". "Tutto bene a parte le difficoltà tecniche, e

la mole di compiti da correggere. Ma questo aspetto non è cambiato molto rispetto alla didattica

in presenza. Fili invece ha perso mezza lezione stamani". "Lascialo dire a lui, Ettore" lo rimbrotta

mia madre. "Niente di che mamma, mi ha aiutato papà a recuperare. Posso andare a

studiare finché è pronto?" Mi fa un cenno d'assenso, e mi dileguo in camera mia. So che passeranno

la prossima mezz'ora ad aggiornarsi su numeri di decessi, guariti, contagiati, nuovi decreti

e relative disposizioni, interventi della Protezione Civile, sorvolando invece sul turno infernale

di mia madre in reparto. Pensano che non mi accorga di quanto sono preoccupati per la

situazione, sussurrano per non farsi sentire. Ma non ho più due anni, ne sto per fare quindici. E

ho letto almeno il doppio dei libri di qualsiasi altro mio coetaneo che conosca. Mi rendo conto

da solo che non torneremo più sui banchi quest'anno scolastico. E ho sentito mio padre al telefono

dire ad un amico che la crisi economica che seguirà sarà devastante, che aumenteranno i

casi di depressione, di suicidi, di violenza domestica dovuta alla convivenza forzata. Pur evitando

di leggere notizie online, capto segnali più o meno espliciti da parte dei miei genitori.

Che mi nascondono la realtà per proteggermi, o almeno così credono. Prendo le cuffie, attacco

i Queen, e mi metto a studiare inglese. Dalla cucina arriva già un profumino delizioso di uova

fritte col provolone piccante, il must di papà. Bussano alla porta. Mamma è in ospedale, papà

sta facendo una videolezione, quindi tocca a me. Sbuffo, e vado a vedere chi mi interrompe

mentre leggo Tolkien. È la vicina di casa mia coetanea, che non appena sente lo spioncino spostarsi

si allontana dalla mia porta. "Chi è?" "Lo sai chi sono". Non fa una piega, in effetti. "Ok,

cosa vuoi?" ribatto, mentre apro la porta, con la stessa nota seccata nella voce. "Hai lievito per

dolci da prestarmi?" "Lievito per dolci?" "Sì, hai presente quella cosa che serve per fare le torte?

Non si trova più al supermercato". Non ho idea se ne abbiamo o meno, mamma non è esattamente

il prototipo della casalinga perfetta che prepara manicaretti. "Boh, onestamente non

saprei neanche dove cercarlo e mia madre adesso non c'è. Facciamo che se lo trovo te lo metto

sullo zerbino e ti suono il campanello, ok?" "Va bene, grazie, ma non suonare per favore. Bussa

piano, che Mei potrebbe dormire." Mi trattengo dal chiedere chi sia Mei, ma la domanda dev'essere

scritta sulla mia faccia, perché mi dice che è la sua sorellina. Entra in casa silenziosa,

così come ne era uscita, e rientro anch'io facendo attenzione a non sbattere la porta. Mi ritufferei

volentieri nel mondo di Lo Hobbit, ma so che non mi concentrerei. Quindi vado in cucina a

cercare il lievito, tra cassetti pieni di aggeggi che non usiamo mai e ante zeppe di pentolame e

stoviglie varie. Fortuna che qui non vivono bambini che dormono, perché sto facendo un baccano

terribile. Provo in dispensa, e finalmente ecco comparire come per magia una bustina

schiacciata di lievito Bertolini. Miracolosamente non scaduta. Seguo le disposizioni della mamma,

e mi infilo guanti e mascherina. Apro la porta, recupero le Vans nella scarpiera, e piazzo

la bustina sullo zerbino dei vicini. Poi busso piano, ritorno sul mio uscio, rimetto le scarpe dov'erano

ed entro. Sollevo lo spioncino per vedere se mi ha sentito, e vedo la ragazza aprire la

porta quel tanto che basta per afferrare la bustina. Sorride verso di me e mormora un grazie,

sa che la sto guardando. Missione compiuta, Bilbo Baggins. Ho il sonno interrotto, da quando

non pratico più sport regolarmente. Faccio fatica ad addormentarmi e ho qualche risveglio notturno.

In genere basta girarmi dall'altro lato per riprendere sonno, ma stanotte avevo anche

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 51


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sete. La pizza tonno e cipolla per cena non è stata un'ottima idea, mi sa. Mi sono trascinato in

cucina per prendere un bicchiere d'acqua, e quando sono tornato indietro ho notato una sagoma

sul divano. Era papà, coperto parzialmente da un plaid. Non era momento di fare domande,

a notte fonda; ci provo adesso a colazione. "Papà, avete litigato tu e mamma?" Diretto,

senza preamboli. Non amo sprecare parole. "Cosa te lo fa pensare?" mi squadra, mentre inzuppa

un biscotto nel caffè. "Il fatto che dormi sul divano, ad esempio" ribatto, mettendo un

cucchiaio di latte e cereali in bocca. Lascia il biscotto lì a macerare, cade pure il cucchiaino.

Non tenta di negare l'evidenza, ma si passa le mani sulla faccia e chiude gli occhi. Se lo conosco

almeno un po', non promette nulla di buono. "Fili, è a scopo precauzionale. Un paziente

della mamma si è aggravato, problemi polmonari. Non gli hanno ancora fatto un tampone, ma

nell'attesa è meglio essere prudenti" spara tutto d'un fiato. "Ma avevano assicurato che non ci

sarebbero stati positivi dove lavora lei!" mi infervoro. "Hai ragione, è così. Ma sai benissimo

che il personale sanitario del suo reparto non ha tutti i dispositivi necessari, come in terapia intensiva.

Le mascherine che hanno servono più a proteggere i pazienti che loro stessi, purtroppo.

Perciò, mamma mi ha consigliato di starle lontani. Vale anche per te, Fili, niente baci o abbracci.

Potrebbe già essere infetta e non saperlo ancora. Al momento non ha sintomi, è andata

a lavorare stamattina. Ma io intanto dormo sul divano." Non ho più fame, spingo via la scodella

e mi alzo in fretta. "Vado, tra poco inizia scuola" e mi fiondo in camera mia. Dove sfoglio per

qualche minuto vecchi album di foto di famiglia, per ricordare tempi più sereni. Siedo per terra,

a gambe incrociate, sulla soglia della porta finestra della cucina. In una mano il libro di biologia,

nell'altra un evidenziatore. Sono a piedi scalzi e in pantaloncini corti, così prendo la dose

giornaliera di sole raccomandata dalla mamma. Cerco di concentrarmi, ma dal terrazzo accanto

al mio proviene un frastuono assurdo. Musica, risate, tonfi ripetuti sulla ringhiera. Sospiro e ci

riprovo, testa bassa sul libro. Sto per arrendermi, quando sento un urlo di dolore. E allora mi

alzo di colpo, chiudo il libro e butto la testa fuori. Un bimbo sta piangendo, toccandosi la testa.

La sorella, quella della mia età, lo sta consolando in una lingua a me sconosciuta. Presumo

mandarino. Si è acciucciata alla sua altezza, e gli mormora parole che suonano come tanti

campanellini. Decido di rientrare, prima che mi veda, ma ci ho pensato troppo tardi. "Ciao,

Fili." "Come sai il mio nome?" domando a metà tra il sorpreso e lo scocciato. "I muri sono

sottili." Il fratellino si è calmato e rientra in casa, lei resta a guardarmi. "Io non conosco il tuo"

ammetto. So solo che sul campanello c'è scritto Huang. "Lian" pronuncia lentamente, e anche

questo mi suona come una musica. "Fili sta per Filippo?" "Magari... è Filiberto" confesso. Stiamo

andando un pelino sul personale, qui. "Perché, non ti piace? E' un nome regale, sembra di una

persona importante. Preferivi Filippo, amante dei cavalli?" mi prende in contropiede, e sorride.

Questa ragazzina cinese che sa l'etimologia è una sorpresa. "Vista così, in effetti, Filiberto vince".

Annuisce, e poi mi ringrazia per il lievito dell'altro giorno. "Figurati, qui sarebbe

ammuffito". "Anche noi non cuciniamo spesso dolci. Ma sai... adesso che tocca stare a casa è

un modo per passare il tempo. Ming ha tanta energia da smaltire, come hai visto." Immagino

che Ming sia il fratello che ha sbattuto contro qualcosa correndo. "Quanti anni ha?" "Tre e

mezzo. E' dura per lui stare chiuso in appartamento, ci fosse un giardino almeno... prima era

spesso al ristorante con papà, dopo l'asilo." Vero, hanno un take-away con qualche tavolino

nella nostra via. Che molto probabilmente in questo periodo sarà deserto. Non ho il coraggio

di chiederle se dovrà chiudere e non riuscirà più a sfamare la sua famiglia, il che mi fa improvvisare

una scusa per rientrare. "Papà mi chiama, ci vediamo" e la lascio lì, con un punto interrogativo

sulla fronte. Penserà che sono razzista anch'io. Invece, sono solo un codardo. Anzi, un

codardo ermetico. "Non fasciarti la testa prima che sia rotta." "E tu non offendermi con i luoghi

comuni, per piacere. Sai benissimo i rischi a cui sono sottoposta ogni giorno, l'ansia con cui mi

vesto e mi spoglio, il terrore di contagiare te e Fili." Intercetto questo frammento di dialogo andando

in bagno, durante la visione di Cattivissimo me. Visto che il film lo conosco a memoria da

quando ero bambino, al ritorno dal bagno non resisto e mi accosto alla porta socchiusa per

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sentire come continua invece la conversazione tra i miei. "Prenderò la sua camera, è la soluzione

migliore per tutti. È la più vicina al bagno, la più piccola, col letto singolo. Voi potete dormire

insieme nel matrimoniale, o uno sul letto e uno sul divano. Vedetevela voi." "Hai già deciso

tutto. Ho forse qualche voce in capitolo?" Mio padre sembra affranto. "Sai che ho ragione, lo

faccio per il vostro bene. Anche se il tampone fosse negativo, è inevitabile che mi becchi il virus

prima o poi. Ho già diversi colleghi contagiati." Anche mia madre ha la voce più flebile, a questo

punto. "Meglio prevenire. Portiamo già fuori dalla camera di Fili libri e vestiti, e scambiamoli

con le mie cose in armadio." "Sarai contenta di non dover dormire più con me". Il tono di mio

padre si è fatto duro. "Non essere ridicolo, Ettore." "Ti viene bene sto Covid alla fine. Isolata da

me, più vicina al dottorino." Orpo, questa non me l'aspettavo. Di chi sta parlando? "Hai la magnifica

opportunità di poter strumentalizzare questa pandemia per tuo tornaconto personale."

"Non ti rispondo nemmeno perché ho sulla punta della lingua una bestemmia da osteria. Se volevo

stare con il dottore, ti lasciavo tempo fa." "Se avessi voluto, Carmen..." "È più forte di te

correggermi sempre, vero? Non sono una tua allieva." "È vero, sono solo un professore. A cospetto

del tuo medico ti sembrerò una nullità." "No, sembri solo un imbecille, quando tiri fuori il

complesso di inferiorità. Ricordi che io sono una semplice infermiera? Ora giudichi le persone

dal mestiere che fanno?" è inviperita. "Hai ragione, scusa. Sono arrabbiato. Ma non posso soffrire

il fatto che lavori a suo fianco." "Sono stanca di ripetere che non c'è più nulla tra noi. Stai

a vedere che questa distanza ci farà riflettere sul nostro matrimonio." Scioccato, torno sul divano

a fingere di guardare la fine del film. Neanche i Minions riescono a distrarmi, dannazione. E

così, ho scoperto il sospetto tradimento di mia madre e la possibile separazione dei miei, una

volta che si tornerà alla normalità. Ma soprattutto, il fatto che potrebbe avere il Covid e che

dovrò dormire con papà. Aveva ragione Lian, abbiamo i muri troppo sottili. Mia madre aveva

ragione, era inevitabile che si infettasse. Lo abbiamo capito da tosse e febbre alta, ancora prima

che dal responso del tampone. Quando hanno chiamato dall'ospedale per informarla che

era positiva, si era già volontariamente messa in isolamento nella mia camera. Efficiente come

una formica, si era portata dentro provviste alimentari, riviste, i suoi vestiti, e un paio di libri dalla

biblioteca di papà. Il tutto con mascherina e guanti. Io e papà non possiamo fare altro che

sentirla tossire dall'altro lato della porta, lasciarle cibo pronto davanti e allontanarci, e pregare

che non ci abbia contagiato precedentemente. Siamo anche noi in quarantena fiduciaria, senza

poter uscire per due settimane. Non che lo facessimo prima: la spesa la faceva mamma tornando

da lavoro. Ma adesso ci è proprio vietato. Suona il telefono di papà, è l'Ufficio Igiene. Devo

rispondere io, perché lui sta facendo videolezioni: la vita va avanti, per i docenti precari, quarantena

o meno. Sono connesso anch'io con la prof di matematica, e in questa materia papà

non mi può aiutare se perdo qualcosa, ma pazienza. La donna dell'ASL mi chiede come stiamo

io e papà, ed è felice di sentire che noi al momento non abbiamo sintomi. La saluto e torno a

seguire la lezione, mentre sento che squilla il cellulare della mamma; telefona anche a lei ogni

mattina. Quando ha finito la chiamata, la mamma tossisce forte. A parlare si stanca tanto, e

passa la giornata a dormire e leggere, quando il mal di testa per la febbre alta glielo permette.

Mi arriva un messaggio su WhatsApp per avvisarmi che deve andare in bagno; è il nostro

modo di comunicare. Vuol dire che non mi posso avvicinare, e che appena avrò finito di stare al

pc per scuola dovrò andare a pulire tutto con la candeggina. Prima che ci vada magari papà,

senza sapere che ci è stata lei. Le gioie di avere un solo bagno... Le rispondo velocemente "ok",

e alzo gli occhi dallo schermo per guardarla un attimo uscire dalla mia camera. I capelli sporchi,

il pigiama largo, gli occhi cerchiati di sonno e malattia. Barcolla ed è più pallida della mascherina

che indossa, ma trova la forza di alzare una mano per salutarmi e farmi un sorriso tirato.

Mi viene un nodo alla bocca dello stomaco, quando la vedo in questo stato. Ma mi impegno

per sorriderle anch'io e mandarle un bacio con la mano, come quando ero piccino. "Va bene,

te la saluto io. Ci sentiamo presto." E spero sia finita qui, ma come al solito mi illudo. "Ma perché

lei non si fa vedere? E' grave, vero? Dimmi la verità" mi tartassa. Sbuffo, e roteo gli occhi al

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cielo. Poi mi ricordo che sono in videochiamata, e mi riprendo: "Nonna, tossisce spesso e ha

male al petto. Non parla neanche con me o papà e non ha voglia di farsi vedere da nessuno

così. Tra qualche giorno ti chiamerà lei, vedrai. Abbi fiducia." "Ti chiamiamo sabato prossimo

per farti gli auguri. Mi raccomando, Fili. Forza e coraggio che sei l'uomo di casa" interviene il

nonno. Papà mi risulta essere di sesso maschile, ma non lo smentisco per chiudere la conversazione.

Ho bisogno di un momento di svago, quindi prendo un bicchiere di succo all'arancia, ci

butto un cubetto di ghiaccio, e vado in terrazza a prendere un po' d'aria fresca della sera. Osservo

il via vai del condominio di fronte, interessato soprattutto alla potenziale love story tra

l'operaio e la madre del terzo piano. Peccato, c'è solo lui fuori. Non mi accorgo che Lian sta

lavando la terrazza finché non mi chiama col mio nome completo. "Nessuno usa Filiberto" la

informo. "Peccato, è un così bel nome" commenta, senza smettere di sfregare il mocio. Sorseggio

il succo senza dire nulla. Mi domando se a casa faccia tutto lei, visto che sua madre non si

vede mai. "Ma tu, che scuola fai?" cambio discorso. "L'alberghiero. Ma aiuto anche mamma.

Quando deve lavorare al ristorante, tengo io Mei e Ming." Ecco spiegato l'arcano. "Tu che fai?"

"Il liceo scientifico. Volevo fare il classico a dire la verità, ma avrei avuto mio padre come prof."

"Capisco. Come sta tua madre?" Adesso è lei, a cambiare discorso. "Eh, insomma. In isolamento,

infortunio sul lavoro" rispondo in modo vago. "Ho visto che non lavora più, infatti. Si è beccata

il virus, vero?" Ripone il mocio, ha finito. Annuisco, e svuoto il bicchiere per rientrare. Ma

Lian non molla l'osso, è curiosa. "Voi state bene?" "Sì grazie, al momento non abbiamo sintomi."

"Come fate a stare nella stessa casa? Non avete paura di prenderlo anche voi?" "Non abbiamo

alternative. Comunque mia madre si è presa la mia camera e sta lì barricata. La mattina io seguo

le lezioni in salotto e mio padre si chiude in camera sua, e la notte dormiamo insieme nel

lettone. Insomma, una gioia per la mia privacy" sdrammatizzo. Le strappo un sorriso, che fa

assottigliare i suoi occhi per un momento. Poi torna seria: "Mi dispiace, non deve essere facile.

Spero che tua mamma si riprenda presto, è una brava persona. Se avete bisogno di aiuto, possiamo

fare qualche lavatrice o cucinare per voi" conclude. Resto spiazzato dalla proposta, e

ancora una volta me la immagino come Cenerentola in versione serva. "Ti ringrazio, ma io e

papà ce la caviamo abbastanza. Il difficile è ricordarsi di usare mascherinine e guanti o lavarsi

con gel antibatterico ogni volta che tocchiamo i piatti o stoviglie usate da mia madre, e lavare

asciugamani e vestiti ad alte temperature, o il bagno con candeggina." Sembro un servo anch'io,

vista così. "Una faticaccia insomma" esclama. "In bocca al lupo, bussa se hai bisogno." E

scompare, tuffandosi nel fracasso della sua cucina. Le giornate si susseguono lente, scandite

dalla didattica a distanza. Non lo avrei mai detto, ma mi manca andare fisicamente a scuola.

Preparare lo zaino la sera prima, prendere l'autobus, sedermi al mio banco vicino ad Alberto;

ho nostalgia persino delle sue battute oscene, che non potevo soffrire, del suono della campanella,

del fragore dei palloni da basket e pallavolo in palestra. Del quarto d'ora in giardino durante

l'intervallo, soprattutto, e delle pizzette prese al bar. Stare davanti al computer tutte le

mattine è pesante, non piace neanche a papà. Si lamenta con la mamma del mal di schiena e

del fatto che gli studenti si connettono ma fanno altro, non riesce a coinvolgerli come in classe.

Passa il suo tempo libero su una sedia fuori della camera, per intrattenere la mamma che lo

ascolta dall'altro lato della porta. Forse il mal di schiena gli viene anche per quello, anche se

non mi azzardo a farglielo notare. Ridono un sacco, quei due. Hanno accantonato statistiche e

pronostici, ora che il Plaquenil sta funzionando e alla mamma è rimasta solo la tosse. Ricordano

episodi buffi della mia infanzia, commentano vecchi film che hanno visto, ogni tanto si videochiamano.

Non dormono insieme da due settimane e sono a minimo un metro di distanza l'uno

dall'altro, eppure non sono mai stati così vicini. Dopo le videolezioni, ci sono i compiti da fare

per me e da correggere per papà. E ovviamente la casa da pulire un minimo, il bucato da lavare,

e i pasti da cucinare. Abbiamo abolito lo stirare e lo spolverare già da tempo e ogni tanto ci

concediamo cibo pronto a domicilio, ma il grosso della spesa si ordina al telefono e ci viene

portato da dei volontari una volta a settimana. Questo pomeriggio tocca a me prenderla, lascio

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 54


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riposare papà sul divano. Quando mi suonano al citofono, chiedo l'importo esatto e avviso che

scendo subito. Mi metto guanti e mascherina, prendo i due sacchi della spazzatura, metto i soldi

in una busta, e apro la porta. Mi infilo al volo le solite Vans, richiudo la porta, e scendo le

scale di corsa. Mi manca anche correre, tra le altre cose, e mi sentirei un cretino a farlo dal salotto

alla cucina. Il condominio sembra più morto di come me lo ricordassi, non c'è anima viva

sulle scale e non si sentono suoni o profumi provenire dalle porte chiuse. In effetti vivono solo

anziani, ai piani bassi. All'entrata trovo il giovane volontario che mi aspetta, a debita distanza.

"Ciao, i soldi per la spesa sono nella busta. Avrei il secco e la plastica da buttare, se non ti dispiace.

Grazie mille." "Nessun problema, amico, ci vediamo venerdì prossimo" tuona da dietro

la mascherina, raccogliendo la busta e la spazzatura con i guanti e sparendo dalla mia vista in

meno di un minuto. Raccolgo la posta nella cassetta delle lettere, le due borse della spesa, e mi

accingo a salire. Ed è nella mia lentezza che noto quello che prima il mio sguardo aveva filtrato:

davanti ad ogni porta c'è una busta di plastica bianca di media grandezza. O meglio, su

quasi ogni zerbino, perché qualcuno se n'è accorto e l'ha già ritirata. Mi domando cosa sia e

continuo a salire, sbuffando per il peso. Diamine, non sono più abituato a fare più di due rampe

di scale. Quando arrivo a casa mia, scorgo lo stesso pacchetto sulla scarpiera. Lo prendo ed

entro, curioso. Sistemo la spesa tra frigo e dispensa e, prima di togliermi i guanti e lavarmi le

mani, apro anche la busta bianca. Con mia grande sorpresa, ci trovo un paio di mascherine sigillate

e tre confezioni in alluminio per alimenti, ancora tiepide. In una c'è del riso bollito, in

un'altra ravioli al vapore, e nell'ultima pollo con verdure. E in fondo a tutto, il biglietto da visita

degli Huang. "Abbiamo la cena pronta!" urlo felice. Forse è un modo per farsi apprezzare dai

vicini, o una genialata per ricordare che il ristorante fa consegne a domicilio. Di sicuro è un gesto

gentile, e molto gradito da papà, che sta esultando: sospettavo non avesse voglia di cucinare,

stasera. Mi stropiccio gli occhi, indeciso se alzarmi o meno. Non so che ore sono, ma non mi

pare di aver dormito granché stanotte. Dalle persiane abbassate filtra un po' di luce, e sento

rumori provenire dalla cucina. Il che significa che papà si è alzato. Allungo una mano sul comodino

per guardare l'ora sul cellulare, e oltre a scoprire che sono le 7.49 trovo i primi messaggi

di auguri. Li scorro uno ad uno velocemente per vedere chi si è ricordato del mio compleanno,

senza rispondere: qualche compagno di classe, un paio di amici di nuoto, e ovviamente

la mamma. Mi viene un moto di tristezza a pensare che lei non potrà baciarmi e arruffarmi i

capelli, ma lo ricaccio subito indietro. Mi alzo, e vado in cucina da papà. Che non appena mi

vede, si avvicina e mi abbraccia. "Auguri Fili mio, ti sto preparando dei pancakes con lo sciroppo

d'acero" bisbiglia, tornando ai fornelli sorridente. "Mamma è sveglia, se vuoi andare a salutarla"

aggiunge. Vado a bussare alla sua porta, e dopo dieci secondi mi videochiama. Sta molto

meglio, a breve potrà uscire per essere sottoposta a due tamponi; se entrambi saranno negativi,

l'isolamento sarà concluso. Questo è il più bel regalo che potesse farmi. "Auguri amore

mio, mi dispiace un sacco non poterti stringere a me. Mi rifarò quando esco di qui, ti strapazzerò

di baci" promette, con le lacrime agli occhi. Si è truccata e vestita bene, ha i capelli sciolti

come piacciono a me. Mi rallegra vederla così. Io invece sono di umore altalenante. Strano

come si riconsideri tutto sotto un'altra prospettiva, quando il mondo è capovolto e niente va

come te lo aspetti. Mi sorprendo a desiderare la consueta piccola festa in famiglia, che in genere

tolleravo solo perché giocavo con i miei cugini. Avrei voluto poi andare al cinema con loro e

con qualche amico, o a fare gli scemi in bici al parco. Se ci penso, mi viene voglia di tirare pugni

al muro. E allora mi metto a rispondere agli auguri, per distrarmi. Almeno è sabato, e non

ho videolezioni da seguire. Mi arriva però la videochiamata dei nonni, che come promesso vogliono

parlare con mamma; ricordo loro che non è con me, quindi dovranno chiamarla al suo

cellulare. Mi dicono di far controllare a papà se è arrivato sul conto il loro bonifico, e riattaccano.

Io avrò ereditato dal bisnonno la discrezione, ma ignoro da chi abbia preso la mamma la

sua vena affettuosa. Sto aiutando papà a preparare il menù speciale per la cena del mio compleanno:

per primo linguine con panna e salmone affumicato, e per secondo insalata di patate

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e polpo. All'improvviso, suona il citofono. Papà molla il polpo congelato e corre a rispondere;

avvisa che scende subito, recupera guanti in lattice e mascherina e si precipita fuori. Che sia

qualcosa per me è scontato, data la ricorrenza e il suo comportamento... Torna su con un paio

di pacchetti. Capisco che sta sorridendo dalle rughe di espressione intorno agli occhi. "Fili, sono

per te. Amazon non so, quello di Mediaworld è mio e di mamma. Ti metti i guanti per aprirli, o

lo faccio io?" La pigrizia ha il sopravvento, lo lascio fare. "Fammi un video mentre li apro però,

si sa mai che siano sbagliati o danneggiati. Appoggia il telefono sul tavolo così riprende entrambi,

la mamma vorrà vedere la tua reazione quando vedi il nostro regalo. E anche chi ti ha

preso l'altro" mi esorta. Ubbidisco, e aspetto che apra. "Comincio dall'altro ok? Vediamo di chi

è" esclama curioso. Quando spacchetta, trova un Kindle e un biglietto di auguri di zii e cugini.

"Wow!" saltello, "so già che libri scaricare. Dopo gli telefono per ringraziarli." "Hanno avuto

una bella idea sì, sanno che ti piace leggere. Io e mamma invece abbiamo pensato che, quando

potremo finalmente uscire, avrai voglia di esplorare il mondo e conservare i ricordi" mi annuncia

papà, scartando il loro regalo. Non riesco a trattenere un urlo quando vedo una fotocamera

digitale. Corro alla porta della mia camera a ringraziare mamma, poi d'istinto mi viene

da abbracciare papà. Che però è più lucido di me, e mi fa segno di no da lontano: "Dopo che

mi sarò lavato le mani e tolto la mascherina. Deduco che abbiamo fatto una buona scelta." "Ottima!

Le foto al cellulare sono schifose." "Vedrai che con questa verranno bene. È una Fujifilm,

impermeabile e resistente alle cadute. Puoi fare foto al mare e sulla neve, e poi trasferirle sul

cellulare con il WiFi o Bluetooth." "Sembri un venditore Mediaworld" rido. Sorride anche lui, si

va a cambiare e torna. Lo abbraccio fortissimo, per due, come se stessi abbracciando anche la

mamma. So che non posso toccare i regali fino a domani, anche se la tentazione è forte, ma sto

dannato virus resiste anche sugli oggetti. Siamo stati miracolati a non prenderlo da mia madre,

non vorremo mica infettarci con un pacchetto? Dulcis in fundo, bussano alla porta. Stavolta

guardo io dallo spioncino, e scorgo i capelli neri di Lian. Posa qualcosa sullo zerbino, con guanti

e mascherina, e torna davanti casa sua. Apro e trovo una splendida torta al cioccolato e un

sacchettino di stoffa rossa. La guardo, e i suoi occhi brillanti mi comunicano che è eccitata

quanto me. "Ti ho restituito il lievito, nella sua versione migliore. Buon compleanno!" Resto basito.

"E tu come lo sai?" "Muri sottili" scherza, "l'ho sentito al telefono." Mio nonno, vero. "E nel

sacchetto?" "C'è un braccialetto di fili intrecciati che ho fatto io, in onore al tuo soprannome.

Non temere, è nel sacchetto da tre giorni, ormai lo puoi toccare. E la torta l'ho fatta con guanti

e mascherina" si affretta ad aggiungere. "Puoi mangiarla." Sono commosso, e senza parole.

Ecco che mi rivedo di nuovo nel mio bisnonno Gigi; si doveva sentire un po' come me, durante

la guerra. Solo, eppure circondato da affetti. Con la felicità a portata di mano, ma così lontana.

Disperato e vivo allo stesso tempo, tra sacrifici e piccole gioie. Lui ha sperimentato la Resistenza,

io sto capendo cos'è la resilienza di cui tutti parlano. E resisto anch'io, in attesa di poter

uscire a ritrarre la bellezza che mi aspetta nel mondo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 56


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Lorenzo Magnani

“Scarpe strette”

W. tuffò la mano nella fila di camicie ordinatamente appese nell’armadio, ognuna abbracciata

alla propria gruccia da cui penzolava rilassata, e la estrasse trascinandosi dietro un esemplare

di colore nero, dal taglio sfiancato e non proprio ben stirata confidando che ci avrebbe pensato

la giacca a nascondere l’ignominia delle imperfezioni. La cosa positiva di presenziare ad un

funerale è che non bisogna mai perdere troppo tempo a decidere gli abbinamenti cromatici dei

vestiti, questo pensava facendo correre gli occhi dai pantaloni neri seduti sul letto alla giacca

del medesimo colore in trepidante attesa sullo schienale della sedia. Terminò la vestizione con

la dovuta attenzione, lasciandosi ben volentieri distrarre dalla musica che fluiva dalle casse dello

stereo [“I’ve been waiting for a guide to come and take me by the hand...”] e accompagnava

i suoi movimenti scandendone il ritmo.

Era arrivato al momento più importante della preparazione: la scelta delle scarpe!

Il pensiero comune suggerirebbe di non soffermarsi esageratamente su dettagli di scarsa importanza

come le calzature quando ci si reca ad un funerale, questo perché il pensiero degli

invitati (che hanno la fortuna di non essere il festeggiato) dovrebbe essere interamente indirizzato

verso chi occupa il posto d’onore in questa atavica celebrazione. Proprio qui stava il punto

della preoccupazione di W: in normali condizioni non apprezzava molto l’idea di partecipare

ad un funerale perché questo implicava la morte di una persona a lui cara o in qualche modo

vicina, ma in questo caso specifico il legame che lo univa al trapassato era talmente poco stretto

da non compromettere nemmeno il suo languorino mattutino. Da qui l’inusuale e ingrato compito

di cui sarebbero state investite le calzature designate... nessuno è gradito ad una cerimonia

funebre se non ha il buon senso di manifestare il proprio lutto con un’espressione contratta e

addolorata o, massima lode, versando qualche lacrima di onesto e sentito cordoglio; dunque la

scelta delle scarpe si rivelava chiaramente fondamentale. In assenza di un reale trasporto emotivo

e di un’innata abilità attoriale, dolore ed eventuali lacrime sarebbero state prodotte dalla

morsa spietata di un paio di elegantissime scarpe strette e scomode.

La scelta cadde dunque su un paio di scarpe nere laccate, di dubbio gusto, ricevute in dono da

qualche zia nel tentativo di nobilitare il guardaroba del nostro; il sopracitato capo giaceva inutilizzato

in fondo alla scarpiera di W. dal giorno in cui il malcapitato se le era viste recapitare a

casa avvolte in una carta da regali decorata da un motivo natalizio... aveva impiegato pochi

secondi per rendersi conto che l’attempata zia aveva sbagliato non di poco la misura delle calzature

che facevano sentire i suoi piedi come chiusi in una tagliola per orsi: le scarpe perfette

per l’occasione!

W. uscì di casa e salito in macchina impiegò non più di venti minuti per arrivare alla Chiesa

dove si svolgeva la cerimonia e già prima di fare il suo ingresso dalla navata principale

l’espressione sul suo viso era tra le più addolorate che mai si sarebbero potute chiedere ad un

funerale.

Si accomodò su una panchina assieme ad un gruppo di semi-ignoti conoscenti che salutò con un

piccolo cenno del capo pensando “non si sono neanche presi la briga di fingere”; in effetti gli

altri occupanti del seggio erano serenamente immersi in una discussione (seppur ad un volume

di voce sufficientemente basso) a proposito delle prossime elezioni comunali.

Fu una cerimonia veramente sobria e senza eccessi patetici, e W. si mimetizzava perfettamente

fra i modestamente affranti convenuti dal momento che stando seduto o fermo in piedi il dolore

che provava ai piedi era sopportabile ma indubbiamente si faceva sentire.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 57


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La cerimonia si concluse in capo a quaranta minuti e W., con una velata punta di orgoglio, pensò

di aver adempiuto perfettamente al proprio compito e che le scarpe si erano rivelate fondamentali

alleate... ma c’era un fattore che non aveva calcolato: la famiglia del defunto era sì votata

al concetto di cerimonie modeste e poco sfarzose, ma era allo stesso modo legata alla tradizione

de corteo funebre dalla Chiesa al luogo della tumulazione, e visto che il cimitero non si

trovava ad una distanza così proibitiva il corteo si sarebbe svolto a piedi! W. non aveva pensato

a una strategia per divincolarsi da questa seconda parte del rituale e già solo per uscire dalla

Chiesa i suoi piedi stavano arrivando al limite della sopportazione.

Era di circa un chilometro la distanza che separava la piccola chiesetta che aveva ospitato la

funzione dal cimitero del paese e per W. furono mille metri di calvario: ogni singolo passo gli

procurava un’indicibile sofferenza, i bordi rigidi delle scarpe laccate strisciavano senza pietà sui

suoi piedi creandogli piaghe e vesciche, le unghie degli alluci premevano contro la carne intorno

mentre i calcagni stavano ormai sanguinando. Il volto del malcapitato era lo specchio delle

sue sofferenze fisiche: i denti erano serrati, la mandibola contratta mentre le labbra vibravano e

sfiguravano il volto cercando di trattenere le imprecazioni non riuscendo però a contenere i

gemiti di dolore; le guance erano rigate dalle lacrime che cadevano dagli occhi arrossati e fissi.

Inutile sottolineare il successo che ebbe W. tra i presenti, tutti i parenti e gli amici più stretti del

caro estinto gli si avvicinavano cercando di rincuorarlo e di fargli coraggio ma era tutto inutile...

ogni minuto che passava, lui era sempre più inconsolabile, sempre più copiose le lacrime e più

frequenti i gemiti fino a che non ruppe in un ululato di disperazione alle porte del cimitero.

Ora anche il parroco cercava di dargli manforte prendendolo a braccetto e versando il miele

delle Sacre Scritture nelle sue orecchie, me risultò tutto inutile finché la macabra carovana non

si fermò dinanzi al loculo prescelto per l’estremo riposo della salma. Finalmente fermo, W. ebbe

un minimo di sollievo e asciugandosi le lacrime si preparava ad assistere alle manovre di tumulazione

del feretro e si accorse di trovarsi spalla a spalla con il padre del morto che lo guardava

con sguardo carico di grata comprensione e commiserazione:

“Come la capisco...” disse il vecchio a W. “anche a me mia moglie sbaglia sempre la taglia delle

scarpe!”

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 58


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Donatella Rabiti

“Furto”

IO

E' entrato. Non ho fatto in tempo a chiudere la porta. Ha portato via le bussole. Come faccio?

Erano le mie guide, con cui ho costruito la mia esistenza e che avrei continuato ad usare, senza

dover riprogrammare il mio agire. Nessuno mi aveva detto che poteva esserci un'interruzione.

Uno strappo tra il prima e il dopo. Da dove riparto? Forse, nel momento stesso in cui lui stava

violando l'intimità della mia casa, io ero girata verso la parte opposta, o pensavo a quel

particolare progetto... La mia mente stava viaggiando altrove.

Ora non ha più importanza. E' entrato, non posso ritornare

all'istante preciso in cui ha varcato la soglia del mio spazio personale e fermarlo con un urlo.

Le ore, i giorni, non c'è più distinzione di senso tra una porzione di tempo e l'altra. Di colpo

rimpiango la prosaica routine che ieri consideravo noiosa. Mi aggiro spaesata da una stanza

all'altra, lui è presente, ne percepisco la pervasività; ha lanciato la sua contagiosità nel mio

quotidiano. Ed è ingombrante, vorace, non è mai sazio.

LADRO

Non pensavo fosse così facile. Nessuno se n'è accorto. Sono riuscito ad entrare oltrepassando

la soglia di allerta istintiva, che ormai non esiste più.

Tanto tempo fa, le prime volte in cui riuscivo a varcare il davanzale di una finestra lasciata socchiusa

mi sentivo

soddisfatto, perché era stata un'impresa issarmi fino a quel piano, spalancare le persiane ed

entrare senza far rumore.

Ogni colpo era diverso e la mia destrezza poteva non essere sufficiente di fronte alle barriere

costruite per impedire il mio ingresso. Adesso non mi sento più stimolato, e non sogno più il colpo

della mia vita.

Non esiste un ruolo chiaro, che ciascuno segue a seconda di chi è: io devo scassare, loro devono

costruire le inferriate.

No, si sono mescolate le posizioni. Non è certo che la prospettiva da cui oggi guardo quella

casa sarà la stessa domani. Oggi sono sicuro che domani andrò a scassinare la serratura della

porta del retro, domani non so... può essere che la situazione si sia modificata.

Io rimango io, non voglio diventare come loro, che non sanno più tremare di fronte all'imprevisto

che può intromettersi nella loro quotidianità. Io voglio ancora provare l’ebbrezza del nuovo

che genera il diverso e scompiglia l’ordine prestabilito delle cose. Se sono diventato così bravo

a scassinare è grazie al continuo cambiamento delle situazioni e alla mia intelligenza nel trovare

ogni volta nuove soluzioni.

IO

Perché lo spazio e il tempo si intromettono nella vita? Perché non prosegue tutto come sempre,

all'infinito? Perché su questo pianeta gli esseri sono costretti ad evolversi? Non era più semplice

creare tutto in una volta, all'inizio, e così sia? Da dove incomincio per ristabilire l'ordine delle

priorità? Che ordine non è, sia chiaro, è equilibrio precario. Serve per impedire il crollo di quello

che è rimasto dopo la rapina. Potrei scoprire altre bussole? Potrei rovistare tra le cose

che il ladro ha sparpagliato in giro, nel salotto, in cucina, in camera, in mansarda. Forse non

ha avuto il tempo di portare via tutto ciò che serve per ripartire.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 59


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Ecco, è qui sotto, tra il comodino e il letto, c'è ancora. Il libro che ho riletto tante volte, non ricordo

quante. Dentro c'è il biglietto con la poesia che ho scritto in quel momento di fragilità.

Pensavo di essere al punto di non ritorno, c’era stato quello strappo, anche allora imprevisto e

senza un motivo. O forse c'era, ma io non lo avevo capito in tempo. E poi la ripartenza, dopo

lacerazioni e perdite, l'inizio di un altro cammino.

E' tempo di tirare una riga, iniziare una pagina nuova. Devo trovare un accordo che funzioni,

perché le note di oggi sono diverse.

Ora mi rendo conto del potenziale nascosto dentro di noi. Anima, interiorità, spirito, non ha

importanza come vogliamo chiamare questa energia che riesce a sostenerci quando fuori

il mondo va a rotoli. É quella forza che salta fuori nel momento in cui ci sentiamo fuori gioco.

E' arrivato, ha fatto man bassa tra le certezze che fino a ieri possedevo, e devo farmene una

ragione. Ha razziato, e non posso cancellare la scia delle sue distruzioni. Ma le ceneri

che ha lasciato dietro di sé sono feconde: è sorta una fenice, una nuova consapevolezza che mi

sta indicando verso dove posso dirigermi.

Altre scelte, altre idee, altre esistenze che iniziano.

C'è un prima e un dopo, ora lo so.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 60


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Vera Lazzaro

“Samuele”

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte.

L'idea della fine gli aveva sempre messo addosso un'inquietudine pazzesca, e non era una bugia,

né tanto meno era un'esagerazione. Quando era un bambino passava notti intere sveglio,

insieme a sua sorella maggiore Elena, a parlare di stelle – le vedeva così grandi e splendenti,

immortali, che quando sua sorella gli disse che anche le stelle morivano, esplodendo come fuochi

d'artificio o accartocciandosi su se stesse come fogli di carta, Samuele si rifiutò di dormire

per due giorni di seguito. Temeva che il cielo si accartocciasse su di lui, come un tovaiolo intorno

a qualche avanzo di cibo sul pavimento, temeva che il mondo attorno lo soffocasse. Temeva

di non svegliarsi più, una volta addormentato, come una stella. Si chiedeva se le stelle avessero

paura di chiudere gli occhi. Fu Elena a ritrovare il fratellino minore addormentato tra i cuscini

del divano, con il loro gatto di famiglia, Baffo dal musetto bicolore, acciambellato ai suoi piedi.

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte, e Samuele aveva paura di giocare.

Quando era bambino, Samuele passava le estati al mare con la sua famiglia. Al piano di sotto

viveva una bambina dai capelli biondi la cui frase preferita era: "Facciamo a chi ride per primo?",

frase sempre seguita da qualche smorfia che a Samuele ricordava le maschere grottesche

del teatro greco che piaceva tanto alla mamma. Anche a Samuele piaceva fare le smorfie – arricciava

il naso, tirava in dentro le labbra, metteva su un'espressione da pazzo, e Anna rideva e

rideva, "Che buffo, che sei!", e Samuele vinceva sempre a "Chi ride per primo". Poi un giorno

Anna non si era presentata in cortile, ed era tornata due giorni dopo, con il naso fasciato. "Che

ha fatto Anna?", aveva chiesto, allarmato quanto può esserlo un bambino che non capisce, a

Elena. Ed Elena non lo sapeva – come poteva? - ma come ogni sorella maggiore voleva dimostrare

di sapere tutto. "Faceva troppe smorfie, Samu, le si è rovinata la faccia". Samuele aveva

smesso di fare smorfie, e aveva smesso di giocare con Anna. E Anna aveva smesso di andare in

skateboard nonostante le piacesse, perché aveva paura di cadere e rompersi di nuovo il naso.

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte, e Samuele aveva paura di giocare, e Samuele

aveva le orecchie a sventola e i capelli lunghi.

Sin da quando aveva cominciato ad andare a scuola, a sei anni, Samuele aveva sentito risatine

e pernacchie. Poco poteva immaginare che fossero dirette a lui, alle sue orecchie un po' sporgenti,

"da elfo, ti piace Il Signore degli Anelli, no? Beh, hai le orecchie come Legolas!", diceva

Anna, ma i nuovi compagni erano meno gentili, lo chiamavano Dumbo, o elefantone, e no, le

sue orecchie non lo rendevano una creatura fantastica, ma una chiacchiera. E i capelli di Samuele

erano cresciuti, neri e folti, fino a nascondere quelle orecchie vergognose, ma ormai Samuele

era una chiacchiera, e aveva i capelli da ragazza, "Cosa ci nascondi, Samuele, che hai

nei pantaloni?". E Samuele non rispondeva, non capiva. Ma la sera si guardava allo specchio e

si chiedeva se, su quel viso incorniciato di ciocche mosse, sarebbero mai apparsi i baffi del

papà.

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte, e Samuele aveva paura di giocare, e Samuele

aveva le orecchie a sventola e i capelli lunghi, e Samuele stava seduto in primo banco.

Non che lo avesse scelto, ovviamente. Aveva visto i film, lui, non era stupido – chi arrivava ultimo

in classe andava a sedere in primo banco, ed era il secchione, ed era lo sfigato. Lui sapeva

già di essere Dumbo, di essere l'elefante, e non alzava la mano per rispondere, mai, nemmeno

se sapeva la risposta, "Suo figlio è intelligente ma non si applica", "Suo figlio è intelligente ma

deve proteggersi dalle palline di mollica che gli vengono lanciate contro a ricreazione". Samuele

sapeva la risposta, e masticava le parole, le teneva strette tra i denti, se avesse parlato troppo

nessuno gli avrebbe voluto bene, perché persino Anna, ogni tanto, gli diceva di tenere la

bocca chiusa, e se non lo sopportava Anna, quando parlava troppo, allora chi lo avrebbe fat-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 61


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to? Masticava le parole, ma le parole sono amare, quando si sentono costrette a restare taciute.

Samuele avrebbe, decisamente, preferito una gomma da masticare.

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte, e Samuele aveva paura di giocare, e Samuele

aveva le orecchie a sventola e i capelli lunghi, e Samuele stava seduto in primo banco, e

per la prima volta Samuele aveva ricevuto un cioccolatino a San Valentino.

Lo aveva scartato a ricreazione, le dita che tremavano per la felicità di un piccolo regalo, lo

aveva scartato e guardato come una gemma brillante, prima di morderlo, di sorridere al sapore

della cioccolata. Sapeva che anche Anna riceveva sempre dei cioccolatini a San Valentino, "Dal

bambino in terzo banco, gli piaccio ma non sa come dirmelo", e si chiedeva chi potesse essere

stato a lasciargli sul banco il cioccolatino, perché proprio non riusciva a immaginare, in terza

media, che qualcuno potesse sorridergli, tanto meno regalargli della cioccolata. Si chiedeva chi

mai potesse volergli bene, oltre a mamma e papà, oltre a Elena, oltre ad Anna. Pensando che

l'opzione più logica fosse un errore, comprò un cioccolatino uguale al bar della scuola, e lo lasciò

sulla cattedra. "Chiunque abbia sbagliato a mettermi il cioccolatino sul banco se lo riprenda,

mi dispiace di averlo mangiato". Samuele aveva paura di non essere giusto, mai, e in quella

sensazione di ingiustizia rifiutava l'idea dell'amore, del semplice affetto. Samuele non si aspettò

più cioccolatini, a San Valentino. Erano roba da ragazze, e i baffi cominciavano a spuntare sotto

al naso a punta di Samuele, cominciavano a pizzicare – no, non era una ragazza, lui, era

tale e quale al babbo, i cioccolatini non gli spettavano.

A Samuele non era mai piaciuta l'idea della morte, e Samuele aveva paura di giocare, e Samuele

aveva le orecchie a sventola e i capelli lunghi, e Samuele stava seduto in primo banco, e

per la prima (e ultime) volta Samuele aveva ricevuto un cioccolatino a San Valentino. Samuele,

a prima vista, sembrava un bambino sulle sue, un bambino dai pochi sorrisi, un ragazzino dalla

fronte aggrottata. Ma a Samuele piaceva il calore del sole sulla pelle, e ogni tanto faceva una

smorfia, quando era certo di non essere visto da Elena, quando era davanti allo specchio e vedeva

il suo corpo modificarsi di giorno in giorno, una smorfia non cambierà niente, una smorfia

sola e poi mai più, e ne faceva tre o quattro di seguito e scoppiava a ridere perché sì, erano

passati anni, ma era ancora il migliore a "Chi ride per primo". Samuele aveva ancora i capelli

lunghi, e le orecchie a sventola sembravano essersi un po' ridimensionate, o forse era la sua

testa ad essere cresciuta per andare d'amore e d'accordo con quelle orecchie da elefante, e

Samuele cominciava finalmente ad alzare la mano nonostante fosse ancora in primo banco. E

sì, arrivavano, le palline di mollica, ma Samuele aveva imparato a schivarle. Non pesavano

tanto, se le ignoravi. Non pesavano, le parole, se le sputavi invece di tenerle in bocca – "Smettetela,

o il prossimo compito in classe ve lo fate da soli!". Samuele non aveva più ricevuto cioccolatini

a San Valentino, ma aveva mandato una barretta di ciocciolata e un bigliettino ad

Anna, una volta, "Forse non sarà una proposta bella come quella che ti farà il bambino in terzo

banco, ma ti va di andare a fare smorfie insieme?"

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 62


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Andrea Bogoni

“Benvenuto nel nostro Hotel” Vuoto mantra, che recitavo decine di volte a lavoro.

Era la fine di Febbraio, nell’aria ancora i freddi coriandoli del Carnevale, quando tutto cambiò

negli occhi spaventati dei turisti.

Due giunoniche ragazze brasiliane, appoggiate al banco del ricevimento, mi chiedevano con

imbarazzo cos’era meglio fare. “Forse è meglio cambiare destinazione e andare in Svizzera?

In montagna è più difficile che arrivi il virus.”

Risposi con altrettanto imbarazzo. “Beh… Voi avete il volo di rientro dal Marco Polo, e poi

avrete l’occasione unica di vedere Venezia come nessuno l’ha mai vista, deserta”.

Col senno del poi rabbrividisco alle parole usate. Mi auguro solo che stiano bene.

“Bentornato nel nostro Hotel” Stavolta era un simpatico inglese di mezza età, ospite abituale.

A malincuore decise di partire in anticipo, per il peggiorare della situazione.

Pagato il conto mi propose scherzosamente di seguirlo in Inghilterra. “Siamo pur sempre un’isola.

Si sa che durante le epidemie, le isole se la cavano meglio!”

Vorrei fosse così semplice, ma in un mondo globale le isole non esistono più. Mi piacerebbe un

giorno rivedere il suo gioviale sorriso.

“Benvenuti in Hotel.” Fuori le giornate di allungavano e le mimose in fiore.

Un’elegante coppia sudoreana entrò all’improvviso, con la mascherina in volto. Colsi lo sguardo

di terrore del mio collega, che proprio in quel momento decise di andare in pausa.

Io restai ad accoglierli, scoprendo che erano da mesi in Europa per un viaggio di lavoro.

Per tutto il tempo tennero la mascherina alzata ed un’impacciata distanza, un comportamento

tanto alieno all’epoca quanto famliare adesso.

“Benvenuti da noi”. La Primavera invitava ad uscire, ma già non era più permesso.

Un gruppetto di ragazzi francesi invase rumorosamente la hall. Da solo e vagamente in panico,

feci del mio meglio per dargli delle camere e procacciare a domicilio una cena.

Rimasta a fumare pensosa una sigaretta, la ragazza che portava un’ingobrante telecamera si

fermò a scambiare due parole, prima di salire per ultima in camera.

Erano una troupe di giornalisti televisivi, inviati per un reportage sulla tragica situazione in nord

Italia. Rimasti bloccati, aspettavano un volo che li venisse a prendere…

“Sì, ma tu stai bene?” chiesi spontaneo. “Sì, sto bene, e tu?” Mi rispose con un dolce sorriso,

dietro il quale vidi nei suoi occhi azzurri la stessa angoscia che avevo nei miei.

Non mi sono mai sentito tanto europeo in vita mia.

“Benvenuti”. Il buio attonito per le strade, le luci accese sui balconi.

Una coppia di amanti ha trovato il coraggio di prendere furtivi un angolo tutto loro, almeno per

poche ore. Titubanti, circospetti in ogni passo, certi di star sbagliando.

Giungo alla conclusione che amare gli sbagli è la conseguenza di aver sbagliato gli amori.

“Sì?”. Dimenticati ormai i convenevoli, l’ultimo ospite è un giovane ragazzo dinoccolato.

Chiusa la fabbrica dove lavorava in Germania, era impegnato nella sua intima odissea per tornare

a casa dei suoi, nel sud Italia. Con un pizza d’asporto e la chiave della camera in mano,

mi rivolse il suo sguardo sorridente. “Grazie davvero, pensavo di dormire anche stanotte in stazione”.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 63


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Per la prima volta, mi rendo conto di cosa vuol dire davvero Accoglienza.

Infine, arrivarono la solitudine, le luci spente. Quell’amaro in bocca che non importa quanto

zucchero metti nel caffè.

Arrivarono la saracinesca, le catene, il lucchetto. Il tempo di chiudere tutto, tranne una cosa.

Il mio cuore tenterà di restare aperto per te, Speranza. So che sarà un viaggio lungo e difficile,

ma sappi che quando arriverai… Sarai sempre la benvenuta.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 64


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Paola Ravazzi

“All’inferno e ritorno”

La porta cigolò aprendosi e un rapido raggio di luce rimbalzò lesto sul pavimento, arrampicandosi

su per la scala di pietra dell’antico palazzo del centro. Vittoria uscì e fu investita da un sole

molto più che primaverile. Mentre, con un tonfo sordo, il portone si richiudeva alle sue spalle,

la donna vi si appoggiò in un attimo di incertezza: ebbe la sensazione che provava da ragazzina

quando usciva dopo una forte influenza.... abbagliata, col passo incerto e il respiro corto.

Erano molti giorni che non usciva: quella improvvisa pandemia in scala mondiale aveva ribaltato

il mondo. Si scostò dal muro e, lentamente, si incamminò.

Aveva un vestito blu di cotone con le maniche corte, stretto in vita e con un breve scollo da cui

spuntava la pelle diafana. Portava calze velate e un paio di sandali chiusi in punta col tacco

sottile molto alto; camminava con passi brevi e sensuali muovendosi con sicurezza sulle lunghe

gambe flessuose.

Mentre avanzava assorta, senza una meta precisa, al collo tintinnava la collana dell’angelo

che portava da molto tempo e che non toglieva mai. Si avviò lungo la strada principale: era

un’ampia zona pedonale, fino a qualche anno addietro regno delle vetrine del lusso e che, al

presente, risentiva della crisi economica internazionale e appariva un po’ appannata, come una

matrona antica ancora elegante ma un po’ agee.

Ricordò con un accenno di sorriso le tante persone che passeggiavano su e giù facendo come si

diceva da loro-le vasche, le resse accaldate e cariche di pacchetti nel caldo primo lunedì settembrino,

data della fiera patronale, le migliaia di persone che si accalcavano mangiando e

ascoltando musica nelle notti bianche estive o sciamavano coi boccali in mano in occasione della

kermesse della birra. Sorrise ancora e fu solo in quell’istante che si rese conto di tutto quel

che era stata quella malattia devastante che aveva paralizzato il mondo.

Si arrestò sui due piedi, proprio di fronte al monumento dello scrittore cittadino tanto amato,

punto di ritrovo della gente di ogni età….

-Ti aspetto da Silvio…

-Ci vediamo da Silvio….

-Sono da Silvio…

Non era un monumento: era parte di loro, era uno di loro, spettatore attento e insieme cittadino

partecipe del fluire delle loro vite... una generazione dopo l’altra... da decenni.

Tolse gli occhiali da sole e, così , ferma com’era, girò su se stessa per avere un quadro più

completo. Era sola, assolutamente sola. In lontananza, all’angolo della strada, il Sindaco rientrava

da una breve passeggiata col cane. La salutò alzando il braccio e lei ricambiò con un sorriso

e un cenno della mano.

Proseguì attenta al rimbombo dei suoi passi sulle pietre grigie, ne seguì le vie di fuga che, anno

dopo anno, si erano allargate diventando pericolose per chi, come lei, portava solo scarpe coi

tacchi. Alzò ancora gli occhi di fronte a se’: nessuno.

Quel vuoto le diede quasi una sensazione di paura.

Si intravide riflessa in una vetrina: gli occhi scintillavano accesi specchiandosi nei vetri e si notavano

prima di qualunque altra cosa. Erano sempre stati lo specchio dei suoi stati d’animo: chi la

conosceva bene vi leggeva felicità e tristezza, gioie e dolori, sogni e delusioni... una porta dritta

dritta verso il cuore, bastava avere la chiave giusta. Si spostò sotto i lunghi portici ombrosi e

da lì ebbe un panorama davvero sconsolante. Le vetrine dei negozi erano opache, sporche e

polverose; sui manichini restavano capi invernali e i cartelli ingialliti dei saldi della stagione or-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 65


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mai lontana, in un angolo di una vetrina murale resisteva un alberello di Natale di stoffa, con la

stella tutta storta e ingiallita.

Avrebbe dovuto vedersi in quell’istante: silenziosa, seria, una maschera di stupore... come quelle

di terracotta appese sul terrazzo a casa dei nonni, con gli occhi spalancati e la bocca aperta.

Fece due o tre passi fino al bar dove da quasi quarant’anni faceva colazione... era cresciuta

con loro, il proprietario suo coetaneo, era un amico speciale cui era legatissima e sua madre...

lei la chiamava ‘ seconda mamma’ e lo era veramente nel suo animo.

La serranda abbassata come tutte quelle della città, la polvere sopra, il cartello un po’ penzolante

che indicava come causa l’ingiunzione del ministero della salute. Guardo’ le piante lungo

il corso, i cespugli di bosso, e, a decorare i Dehor dei bar, le edere lunghe e verdi: tutto secco,

le piante penzolavano morte dai loro vasi e i colombi becchettavano qua e là indisturbati,

zompettando in mezzo alle sedie e ai tavolini impolverati e lasciati accatastati alla bell’e meglio.

Attraverso’ la strada e si sedette sui gradini della cattedrale: nel farlo, notò con stupore

che l’erba stava crescendo nelle crepe tra una pietra e l’altra: era come se la natura si riprendesse

i suoi spazi. Il portone laterale era spalancato perciò decise di entrare: da quasi due mesi

la messa era vietata, nessun assembramento era consentito e urgente senti dentro di se’ il bisogno

di entrare. Si alzò, riaccomodò il vestito che era salito un po’ troppo, prese la borsa tenendo

la tracolla con la mano destra e fece per oltrepassare la porta.

La investirono il freddo e il buio. Si fece il segno di croce senza acqua benedetta: le acquasantiere

erano chiuse per contenere il contagio; fece alcuni passi mentre lo sguardo si abituava alla

fitta penombra, arrivò all’altare della Deposizione e si inginocchiò.

Pregò con una intensità che non ricordava, ripetendo pensieri che aveva nella mente e nel cuore

ormai da troppo tempo, restò concentrata e non si accorse neppure che due lacrime le erano

cadute sulle mani e poi sul gradino di marmo. Si rialzò dopo un tempo indefinibile e si guardò

intorno ricordando le grandi celebrazioni, sfarzose, in cui la chiesa gremitissima era illuminata

a giorno e lei, leggendo dall’ambone, vedeva le signore eleganti e gli uomini distinti di quella

sua amata città così borghese…

Diede un’ultima occhiata intorno: sull’altare maggiore, fra due imponenti ceri accesi, luceva il

busto d’argento con la reliquia del patrono. Sorrise con una piega amara: il Vescovo aveva assunto

un’espressione ironica quando il Consiglio Pastorale, di cui faceva parte, aveva chiesto

l’esposizione della reliquia per proteggere la popolazione e aveva fatto passare alcuni giorni,

ma poi, con l’aggravarsi della situazione, si era affrettato a dare disposizioni in merito. Scosse

la testa e i ricci scomposti oscillarono rilucendo al bagliore delle candele.

Uscì. Piegò a sinistra iniziando a percorrere i portici che costeggiavano la chiesa, ma, quasi all’imbocco,

si fermò per una foto: una magnifica sequenza di arcate, un gioco di chiaroscuri perfetto

e neppure una persona. Adorava fare foto, aveva frequentato il suo primo corso a sedici

anni; le piacevano panorami, ambienti, angoli suggestivi, particolarmente in bianco e nero. Non

amava, invece, i ritratti e, comunque, fotografare le persone, men che meno se si trattava di parenti.

Detestava i selfie al punto da aver bloccato sui social due colleghe di lavoro che ne postavano

a decine, in tutte le pose.

La trovava una sciocca vanità.

La natura, invece, aveva mille spettacoli e sfumature da offrire, il tutto generosamente e senza

voler fare mostra di se’….

Giunta più o meno a metà attraversò la strada e si avvicinò alla imponente Fontana dei delfini:

era ancora vuota, come sempre d’inverno quando si voleva evitare che le gelate potessero

rompere le tubature...metteva tristezza vederla così, senza i bambini aggrappati sui bordi, senza

i ragazzi seduti mollemente sul gradino intorno.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 66


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Ricordò la polemica tra due fazioni della cittadinanza quando la Giunta ne aveva deciso lo

spostamento da un lato all’altro della piazza. La gente aveva discusso, litigato, raccolto firme,

poi, come sempre accadeva nella loro città e, assecondando il loro carattere, la fontana era

stata spostata, le polemiche si erano placate e ora tutti se la godevano nella sua nuova posizione

senza neppure ricordare il passato.

Il suo sguardo corse rapido agli ippocastani che circondavano la piazza: rigogliosi nel loro

splendore, con le foglie verdi chiaro ancora un po’ increspate; le panchine erano vuote e polverose,

i parcheggi liberi: ricordò che era la prima volta che le capitava di non guidare l’auto da

quasi due mesi, ma la scuola chiusa e i corsi di aggiornamento sospesi avevano potuto ciò che

nessuno poteva da quando, appena diciottenne, aveva preso la patente. Riprese a camminare

mollemente qua e là e si diresse verso la piazza attigua. I giochi dei bambini erano circondati

da nastro rosso per impedirne l’accesso; li guardò con tristezza: l’esigenza impellente di contenere

il contagio aveva imposto anche questo.

Quella giostra era stata oggetto della ennesima polemica tra chi la giudicava pericolosa e i

bambini che, invece, la adoravano. In tempi normali ora sarebbe stata piena di grida gioiose di

bimbi arrampicati ovunque e di richiami di genitori e nonni intenti a frenare quel pericoloso entusiasmo.

Spinse piano il sedile di un’altalena e restò ferma a vederlo oscillare finché fu di nuovo

fermo. Solo allora si allontanò. Si avvicinò alla piazza più oltre. L’edificio scolastico era

chiuso, sul portone un cartello citava la nota ordinanza.

Al terrazzo della Direzione la bandiera nazionale ciondolava un po’ sbiadita, alle finestre ancora

le decorazioni di stelle filanti e maschere di un carnevale che sembrava lontanissimo. Immaginò

banchi vuoti; libri e quaderni lasciati per essere ripresi dopo tre giorni e abbandonati;

piante verdi secche; cartelloni già un po’ staccati per il caldo che allentava lo scotch.

Nella sua scuola sicuramente era lo stesso... ricordò la disposizione dei banchi, le isole, come le

chiamavano loro.....le mancavano i colleghi e la chat su cui si confrontavano e si trovavano non

sostituiva la loro presenza. Pensò ai ragazzi... soprattutto quelli di terza... era come se una

mano improvvisa glieli avesse strappati via, consegnando il loro rapporto ad incontri virtuali

fugaci, durante i quali era difficilissimo trasmettere il calore dei sentimenti.

Il pensiero che non li avrebbe più riavuti di fronte perché concludevano il loro ciclo scolastico le

procurò un dolore profondo e adirato. Si riscosse come da un sogno e si rese conto di aver fatto

qualche passo in direzione del monumento ai deportati. Li’ avrebbe dovuto svolgersi a breve

la consueta commemorazione del 25 aprile.

Non mancava mai, dividendosi tra il paese dove lavorava, accompagnando le classi e la sua

città. Aveva iniziato suo padre a portarla fin da piccolissima per insegnarle il rispetto dovuto ai

partigiani e il dovere della memoria verso coloro che nei campi di sterminio avevano perso la

vita. Aveva assorbito anche, senza bisogno che il padre gliela spiegasse, la necessità di avere

sempre rispetto per le idee altrui, anche quando non si condividevano: un concetto illuminista

che ripeteva ossessivamente ai suoi allievi perché ne fossero totalmente permeati. Allungò una

mano verso uno spigolo bronzeo del monumento...fu insieme piccola e grande, nel passato e

nel presente; le furono accanto figure di cui credeva di aver perso la memoria e persone il cui

volto era inciso a fuoco nel suo animo... fu questione di un attimo, poi sbatte’ le palpebre, alzò

lo sguardo al cielo facendosi accarezzare da quell’azzurro intenso e seguendo il volo dei rondoni:

erano tornati senza che nessuno se ne accorgesse, la natura faceva il suo corso, indipendentemente

dagli esseri umani.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 67


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Continuando a camminare giunse nei pressi dell’oratorio cittadino: cortile vuoto, campi di calcio

deserti, bocciofila chiusa, teatro sbarrato.

Restavano i colori vivaci, quel rincorrersi di pilastri gialli, rossi, verdi, azzurri a ricordare che

quello era un piccolo angolo di felicità sempre, un angolo dove le disuguaglianze sociali sparivano,

dove tutti, grandi e piccoli, erano uguali. Ricordò le volte che aveva prestato la sua opera

come volontaria per le pulizie, per la vigilanza alle porte durante l’Estate Ragazzi...poi andò

indietro nel tempo e tornarono le feste religiose in compagnia dei genitori, gli amici del padre

che cantavano insieme, i suoi coetanei che giocavano a pallone, Claudio, il ragazzo che le piaceva

fin da quando erano usciti dall’infanzia: fu travolta da una ondata di sentimenti ed emozioni.

Distolse lo sguardo e lo volse al sole, che la abbagliò costringendola a chiudere gli occhi.

Sedette sul muretto di cinta, appoggiata alle sbarre di ferro della cancellata, gli occhi chiusi e il

respiro lento. Sarebbe passato tutto, avrebbe lasciato strascichi psicologici più o meno importanti

nelle persone, avrebbe cambiato le vite di molti. E la sua ? Si rese conto di aver camminato

per ore posando i pensieri ora qui ora la’.... era il momento di confrontarsi con se stessa.

Era sempre stata quello che lei definiva ‘una ribelle teorica’: grida, discussioni e liti per poi chinare

il capo ubbidiente, percorrendo diligentemente il sentiero che altri avevano tracciato per

lei o che le persone si aspettavano che lei percorresse. Chissà se questa esperienza le avrebbe

dato la forza di prendere in mano il suo destino e pilotarlo da sola... Sorrise tra se’.... Infilò la

chiave nel portone ed entrò. Sali le scale. Apri la porta di casa in silenzio. Claudio una volta le

aveva detto che era un arcobaleno. Ma la vita aveva appannato tutto, la nebbia aveva velato

quell’arcobaleno.... era ora di ravvivarlo e farlo tornare a splendere!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 68


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Arianna Marinelli

Il Tempo…

Parola che si è posata sulle nostre labbra, nei nostri pensieri, tantissime volte; che si è esibita ai

nostri occhi sfoggiando tutti i suoi costumi di scena dai mille colori. La musica per la nostra danza,

la matita per il nostro disegno.

L’entità in cui si ripone fiducia per avere sorprese o delusioni, risposte ai nostri dubbi o nuovi

dubbi a confondere le risposte, per andare avanti nel nostro viaggio.

Io non so cosa sia per me il Tempo ora. Non so se si sia improvvisamente esteso, diventando

troppo… o se siamo noi che ci stiamo accorgendo di quanto siamo piccoli in confronto a lui.

Siamo davvero ancora così convinti di essere scultori impeccabili del Tempo?

Il Maestro si è impossessato nuovamente di quel ruolo che è suo, e che noi tentiamo con presunzione

di usurpare: ha ripreso tra le mani quel marmo selvaggio e indomabile che è l’uomo,

per plasmarlo ed estrarne l’inimmaginabile.

Quanti, avendo sotto gli occhi comunissima pietra, grande o piccola, pensano che possa diventare

una stupenda scultura?

Quanti di noi, in gesti così semplici, pensavano di poter ritrovare sensazioni che sembravano

perdute per sempre?

Gli sguardi intensi di un attore in un film, il profumo delle pagine di un libro, il rumore della matita

su un foglio bianco…

Uno scultore trasforma la pietra in statua; il Tempo trasforma l’uomo in umanità.

Purtroppo però, come la maggior parte degli artisti, anche il Tempo ha una personalità fuori

dagli schemi, a volte indecifrabile. Quel tratto, quell’accordo dissonante che spezza l’armonia

del suo animo da artista, ora mi sembra di percepirlo chiaramente: è una nota di crudeltà. Ma

una crudeltà sottile, intelligente, studiata. Il resto della melodia sembra camuffarla ma, allo stesso

tempo, rappresenta un contrasto talmente forte da fare da sfondo a quella notina, per esaltarla,

proprio come fa un candido foglio con l’inchiostro nero di parole ciniche e dure.

Sullo sfondo di un ritorno ad un ritmo meno frenetico, della riscoperta di particolari istanti, si

nasconde furtiva e spicca prepotente un’ombra nera. Un senso di malinconia, di mancanza

sembra avvolgermi, stendendo una patina scura davanti ai miei occhi. Mi volto verso l’ombra,

la guardo attentamente… e la vedo man mano prendere le sembianze delle persone che amo.

Una dopo l’altra, sfilano davanti a me, vestite del “colore” che di ognuna mi sta più a cuore.

Ora capisco… La sento chiaramente quella nota, stona talmente tanto da riempirmi la testa col

suo rumore; lo vedo chiaramente quel disegno, così sottilmente crudele.

In un’atmosfera di riflessione spirituale su se stessi, cos’è che manca?

Ora penso di conoscere la risposta: il tatto, non inteso come sensibilità, ma come uno dei cinque

sensi.

Il tatto è già un’infinità di cose; il tatto di persone che ti mancano, lo è ancora di più.

E’ tutte le carezze che vorresti sentire sfiorarti il viso.

E’ l’abbraccio in cui vorresti perdere il respiro, in cui vorresti perderti.

E’ il sorriso e lo sguardo dai quali vorresti lasciarti abbagliare senza distogliere gli occhi.

Vorresti, vorrei, volere… e non potere. Perché quelle mani, quelle braccia, quel volto non sono

fisicamente vicini.

Eccolo il disegno del Tempo: sculture rimodellate che respirano arte e rarità, ma private del tatto

per trasmetterle a fondo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 69


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Io vorrei credere all’illusione che il Tempo abbia voluto fermarsi per un po’, vorrei poterla

chiamare generosità questa sua attesa di noi che ci riscopriamo nella semplicità.

Ma il Tempo è spietato. In questo suo gesto non esiste generosità, perché non esiste attesa. Esso

è capace di donare tanto: risposte, sorprese, lacrime, sorrisi… ma l’attesa, quella non la donerà

mai. L’attesa siamo noi a crearcela, quella sorta di sospensione NEL Tempo, e non DEL Tempo.

Forse sto ritrovando una ricchezza interiore, ma usufruirne da sola non mi basta.

A che scopo essere ricchi, se poi non si può condividere con chi si ama? Avere dentro il cuore le

parole “ti voglio bene” e non potersele dire occhi negli occhi? Bruciare di calore senza poterlo

donare in un abbraccio?

Sarò ricca forse, ma allo stesso tempo mi sento derubata.

Derubata dei giorni, dei minuti, dei secondi che sono costretta a vivere egoisticamente, e che

non posso donare. Giorni, minuti, secondi in cui non posso prendermi cura di chi amo, in cui

non si possono prendere cura di me, in cui non posso annaffiare dal vivo un rapporto.

Ebbene sì, sono povera, povera di tatto ma ricca di Amore dentro.

Amore che chiede di uscire, che chiede condivisione… E se questo Tempo ruba Tempo fisico,

pazienza… sarò capace di adattarmi con ciò che ho. Sfrutterò questo Tempo così esteso eppure

così ridotto: userò il mio Amore, per far sì che mi aiuti a capire chi davvero mi manca, chi davvero

è importante; rifletterò sull’Amore degli altri, lo intercetterò, per capire a chi davvero manco,

per chi sono davvero importante.

Quando un filo d’oro è consapevole di chi c’è ai due capi, quando due cuori sono connessi,

quando due teste viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda, mio caro Tempo, si può fare a meno

del tatto. E’ una connessione molto rara, perché entrambi i cuori devono avere con l’altro un

legame forte, vero; ma se ciò accade, sarà l’autentica libertà! Anche separate, le due anime si

scambieranno qualsiasi cosa, affetto, compagnia, conforto, racconti, attraverso il flusso che nasce

dal loro Amore.

Io ti ringrazio, mio caro Tempo, ti ringrazio per la complessa semplicità di questi giorni.

Ti ringrazio per avermi dato occasione di ritrovare un po’ di ricchezza interiore.

E sì… ti ringrazio anche per avermi rubato, preso in prestito, il tatto, perché sto imparando ad

utilizzare un altro mezzo di scambio: quel fluido che scorre tra due cuori realmente legati e ricchi;

quel torrente invisibile per il quale forse, improvvisamente, trovo la definizione giusta…

Quel vento d’Amore.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 70


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Maria Antoniazzi

“Duecento metri”

Le ombre lunghe della sera sanno disegnare sull’asfalto i pinnacoli di una cattedrale, e anche le

cime aguzze dei Quattromila.

Accade quando la giornata sta per finire, quando le tapparelle scendono sulle alte facciate dei

condomìni, oscurando le luci delle stanze in ordine sparso, come tessere di un puzzle gettate su

un tavolo. In quel momento anche i miei pensieri escono dalla scatola, per poi essere ricomposti

o semplicemente restare lì, a frammenti, in attesa dei giusti incastri.

«Ciao cara, quattro passi nei duecento metri?». Il vicino di casa si ritiene un bel tipo, ama salutare

strizzando l’occhio. Per sua fortuna lo conosco, perché con la mascherina quell’ammiccamento

sembra più che altro un tic nervoso.

Uscire nei pressi dell’abitazione, hanno detto. Cioè un marciapiede, un’aiuola spartitraffico, un

tratto di asfalto senza banchina, un parcheggio, un altro marciapiede, un sottopasso.

Intenso questo profumo di fiori, la primavera non si cura di ordinanze e decreti. Sul balcone dei

Rando si cucina la carne alla griglia come ogni venerdì, il tricolore che sventola dai Ferri inizia

a sbiadirsi per il sole. Puntuale e assordante il suono delle casse sul terrazzo degli Strazza, stasera

è il turno di Toto Cutugno.

“Devi camminare ogni giorno”, mi ha detto il medico. Nulla di più facile, ho pensato, non ho

fatto altro per tutta la vita. Il planisfero appeso in camera ne sa qualcosa, al ritorno da ogni

viaggio coloro uno spazio e ormai di Paesi bianchi ne sono rimasti pochi. Credo anche che disegnerò

un piccolo zaino su quelli che ho percorso a piedi.

Intanto, però, sto attraversando questo spartitraffico per la quarta volta.

Tra un po’ chiamerà Pietro da Stoccolma. È un'impresa combinare gli orari svedesi con quelli

dei miei genitori. Con mia madre incollata alla TV per la conferenza stampa e mio padre intento

a disinfettare porte e maniglie, non si cena prima delle nove. «Amore, ci sei tra mezz’ora?»,

puntuale il messaggio per la videochat.

Che voglia di correre, potrei provare almeno a affrettare il passo. Fagiolino, che dici, ce la facciamo?

Ma sì, so bene che non sei affatto preoccupato.

«Buonasera signora!». Sempre cordiale il figlio dei Boldo, il suo husky dagli occhi di ghiaccio è

molto conteso in questi giorni, stasera tocca a lui portarlo a spasso. Certo che sentirmi chiamare

“signora” dai ragazzini fa un certo effetto, solo ieri ero alle superiori. O forse l’altro ieri. Mah,

sarà questa piccola pancia. Piccola, però da stamani non riesco a vedere bene i miei piedi.

Il parcheggio del supermercato è deserto, c’è solo il ragazzino con lo skateboard che salta sullo

scivolo d’entrata. Attento a non farti male, giovanotto. Devi essere uno tosto però, è dal mio

primo giro che ti vedo provare, e provare ancora. Guarda, mi siedo un paio di minuti su questo

muricciolo, tu non far caso a me.

Che orrore questi palazzoni grigi. Dai, indoviniamo cos’è questo odore acre: senz’altro fritto e

salsa di soia, per cominciare. E poi spezie, tante spezie mediorientali. Se chiudo gli occhi, anche

solo per un attimo, sono già in un posto lontano, davvero lontano da qui.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 71


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È in arrivo Mario, il vicino del piano di sotto, abbigliamento tecnico e mascherina. Saluta con

un cenno della mano e prosegue la sua corsa senza perdere il ritmo. È gentile comunque, considerato

che è la terza volta stasera che lo incrocio.

Quelle finestre sono spalancate, chissà se si vede qualcosa all’interno. Invece dietro le tapparelle

chiuse ci saranno degli anziani, le avranno abbassate già a metà pomeriggio.

Perché mai, poi, dovrebbe interessarmi curiosare nelle stanze di questi palazzi. Sarà mica per

capire se quello che sento è fritto cinese o indiano?

I cinesi si sono sigillati in casa prima di noi, devono aver saputo del virus dai loro parenti in patria.

Hanno ritirato i figli da scuola e sprangato i ristoranti. Gli indiani invece hanno continuato

a consegnare volantini pubblicitari con le loro bici arrugginite. Sempre sorridenti, gli indiani. Mi

piace pensare che siano loro a cucinare in questo momento, per poi mettersi felici intorno a un

tavolo.

«Dove sei, amore?». Sì Pietro, la chat. Si era detto tra mezz’ora però, aspettami.

Forza Fagiolino, completiamo questo quarto giro e rientriamo in casa a salutare papà. Ehi, cos’è

questo calcio, mi è finito dritto nello stomaco. Lo so che ci sei, non serve farsi sentire così.

Chissà, se tu potessi parlarmi. Mi chiederesti come siamo finiti a girare più volte intorno a un

blocco di edifici anni Sessanta, contando le finestre e le antenne satellitari, fantasticando su chi

abita questi appartamenti dimenticati. È perché ho voglia di mondo, cerca di capirmi.

E il mondo ha i suoi casini, caro il mio Fagiolo. Ora ad esempio c’è questo virus a sfidarci e mi

pare perfino di vederlo, col suo sguardo sornione, mentre ascolta come parliamo di lui in tutte

le lingue. Parliamo e straparliamo, anche. Che ci vuoi fare, ci eravamo messi in testa di avere

tutto sotto controllo e siamo rimasti spiazzati.

E questi piedini che scalpitano dentro di me. Comincio a pensare che tu ne sappia qualcosa, di

questa faccenda della Terra e degli uomini. E che ti piaccia comunque l’idea di nascere, malgrado

noi.

«Eccomi, scusa amore, ho fatto tardi. No, tranquillo, non ero sola».

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 72


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Eliana Di Prima

"Il rito del Tè”

“Vieni a trovarmi quando vuoi, o meglio... appena puoi: prendiamo insieme un Tè!”

Sembra strano a sentirsi, perché la gente comune si invita invece per un caffè, come per dire:

“ci vediamo velocemente, in piedi, al bancone del bar, tra il frastuono di voci sconosciute miste

ad un tintinnio indefinito di porcellana, ti dedico lo spazio di una piccola tazzina di caffè, magari

amaro e anche ristretto!”

Mi sono sempre chiesta che razza di invito sia mai questo! Ho sempre diffidato da chi mi propone:

“Vieni, ti offro un caffè al volo!".

Sembra un invito “ad orologeria”, scandito in un tempo infinitamente piccolo che termina in un

sorso e in uno spazio che si può racchiudere tra indice e pollice, come il manico di una tazzina.

Perché mai dovrei accettare l’invito di qualcuno che del suo tempo ha da dedicarmi solo poche

gocce, che sporcano a mala pena una tazzina?

Sono più una “tipa da Tè", io!

Il Tè è tutta un'altra storia...il Tè ha una sua ritualità ed esige tempo, pazienza, cura, calore,

scelta, attesa, ascolto, sguardo, scoperta, tatto e... contatto.

Si, chi accetta un tuo invito per un Tè sa che gli sarà dedicato il tuo tempo migliore, sa che

prenderà parte ad una vera e propria cerimonia, come si usava negli antichi monasteri orientali,

un’esperienza mistica, un viaggio che porta a fondere la sua Anima con la tua...

Sotto la spinta di una fiamma vigorosa ma gentile, si consuma la prima attesa che richiede Tempo:

l’acqua con il suo bollore sublimerà in vapore, e scorrerà lenta con il suo inconfondibile

suono a riempire il coccio, il cui crepitio fa ricordare quello di un camino, in cui il legno si plasma

dominato dalla carezza delle fiamme.

Così, si passa pian piano, alla “cura" nella scelta della fragranza che più preferisce il tuo ospite,

tra quelle proposte da te che le hai già selezionate, pensando a cosa potrebbe intercettare il

suo piacere, in una sorta di indovinello silenzioso i cui giocatori sono i sensi contro la mente,

una partita tra il conosciuto e la scoperta, tra il senso di sicurezza e la curiosità tra il desiderio e

la conquista...vince chi cede e si abbandona all'altro per primo!

E poi la “pazienza", esercitata nell'attesa che l'infuso colori uniformemente la limpidezza della

sostanza primordiale, e che si sciolga via via ogni goccia di quel miele ambrato che dà quel

tocco in più ad un’estasi che è già piena di per sé…

Ma i sensi, non hanno pazienza, no! I sensi, non li puoi governare...e così con timida prepotenza

il corpo inizia ad assaporarne l'odore che inebria l'olfatto e a pregustarne l'essenza, quasi a

volerne indovinare anche il sapore...ma non basta! No l'odore non placa il desiderio di conoscenza...e

allora si continua col cingere con l'intero palmo delle mani la tazza e sentirne il calore,

quasi fino a non sopportarlo più, perché troppo intenso, e mollare la presa solo per un attimo

per poi... tornare lì, come attratti da una forza che va oltre la ragione e l'esperienza... Avvicinare

le labbra come per sfidare il destino, pur conoscendo bene il pericolo che si corre...e,

trattenendo il respiro, prenderne soltanto un piccolissimo sorso per sentirne appena la dolcezza,

salvo poi mettervi sù un piccolo fiato per spazzare via le nubi che si innalzano da quel pic-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 73


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colo Universo, racchiuso tra le mani...e continuare così, con lo sguardo perso chissà dove, chissà

su chi, finché ci sarà respiro, finché ci sarà da bere...

Certo, preso da soli, tutto si riduce soltanto ad una tazza di Tè...ma, con la persona giusta, il

“te”, come in un incantesimo può trasformarsi in un “noi", anche solo per un Tè!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 74


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Debora Nappi

“La voce degli altri”

È arrivato maggio. L’aria attorno a me, attorno agli alberi che si intravedono dalla finestra oltre

la patina lasciata dalle gocce di pioggia dei giorni scorsi, attorno ai cespugli in fiore piccoli

come coriandoli colorati, porta con sé la fragranza della primavera. Il calore del sole sfuma nel

cielo blu, sotto il quale la strada è avvolta da un morbido rosa.

Un colore dolce, emanato dai boccioli profumati scagliati sugli alberi in una casuale e magnifica

armonia, che regala uno spettacolo raramente ammirato dai visi stanchi oltre gli innumerevoli

vetri degli appartamenti.

Rimasi qualche istante con lo sguardo oltre le pareti, lasciando che una ciocca di capelli danzasse

sul viso e mi accarezzasse la guancia mossa dal vento, ripetendo le parole di Cristicchi

che risuonavano nella stanza fino a divenire elettricità tra le mie cellule nervose. In quei brevi

istanti un pensiero metteva le radici a una velocità inimmaginabile, senza che io potessi saperlo

e fermarlo. Si aggrappò allo stomaco e lo strinse.

Sarei riuscita a uscire ancora? Quanto era vicino quel limite, oltre il quale non c’è più possibilità

di soluzione? Perché le dipendenze sono miliardi, sono nascoste, sono insidiose, le dipendenze

sono entità variegate, più degli animali, più delle personalità degli uomini. Perché anche le pareti

di casa, per alcuni di noi, creano dipendenza, e come tutte le dipendenze diventano tossiche,

e più ci stai dentro più si restringono, si avvicinano a te fino a divenire un bozzolo, un involucro

protettivo personale, in cui ti accomodi, in cui crei la tua armonia, senza sapere che sei

rimasto intrappolato in una ragnatela, tra miliardi di fili così microscopici da essere invisibili, ma

che tutti insieme stringono forte, a tal punto da impedirti qualsiasi movimento al di fuori di essa.

Era già qualche mese che quel senso di angoscia si propagava in me ogni qualvolta formulavo

un pensiero che mi portasse fuori di casa.

Lo conoscevo da anni, in realtà, e dentro di me sapevo benissimo che cronico è solo un termine

elegante per sostituire permanente, inguaribile, irrecuperabile. Eppure, quando il lavoro lo aveva

spinto negli abissi del mio essere, rimaneva una presenza tra le tenebre, e mi convinsi di

averlo combattuto. Per questo, quando il suo peso iniziò a opprimermi di nuovo, provai a convincermi

fosse solo una giornata no, una di quelle giornate no che può avere chiunque; una

mamma, un papà, un postino, un avvocato, un medico, un attore, un essere umano

qualsiasi, in un mondo di esseri umani qualsiasi.

Ma se naufraghi in un oceano di infelicità opprimente e immotivata fin da bambina, quando

l’alta marea si abbassa e finalmente riesci a gettare l’ancora, la tua più grande paura sarà che

la corrente possa riprendere il sopravvento. Una, due, tre giornate no; un impegno

rimandato, un appuntamento cancellato, una visita medica che probabilmente non è così urgente;

poi la voce della paura inizia a sussurrarti nei timpani. E allora, allora è il momento di interpellare

Freud e farlo divenire maestro del tuo Super Io. Dovevo uscire.

Dovevo uscire anche se il sol pensiero aveva denti aguzzi, anche se aprire l’armadio era una

mutilazione allo stomaco, anche se una linea di eyeliner era una guerra contro la mano tremante.

È difficile all’inizio - mi raccontavo a bassa voce - devi solo farla diventare un’abitudine, è

questo il segreto. L’abitudine: una fortezza sulla vetta del monte più alto del tuo Io, raggiungibile

unicamente a piedi, attraverso una sola strada stretta e sterrata.

Cercai tutta la forza di volontà che potessi trovare in me per mettere in piedi qualche tentativo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 75


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Una passeggiata in più, un regalo nuovo per il mio amico a quattro zampe, un caffè con l’unica

amica che riesco a tener vicina.

E poi sei arrivato, ti sei introdotto nelle vite di tutti gli italiani e hai portato con te il motivo migliore

per arrendermi, senza sensi di colpa.

Hai tolto la fatica di ogni passo tra la gente, hai difeso la mia fobia sociale a spada tratta, ripulendomi

dallo sguardo critico della società, hai portato una boccata di ossigeno nella mia vita,

un ossigeno rubato dai polmoni di mamme, di papà, di avvocati, medici e attori, di esseri

umani come me.

Oggi stare in casa è buon senso, è altruismo, è responsabilità, e mentre rubi al mondo lavoro,

libertà, nonni, mariti, mogli, figli, mentre rubi la vita metti le sbarre alle porte. E io mi adagio tra

le pareti di casa, lontano dagli sguardi degli altri, e prima di accorgermene rimango intrappolata,

e sarà solo un attimo quel limite tra recuperabile e irrecuperabile, un attimo così breve da

non poter far nulla per evitarlo. Ti sconfiggeranno, diventerai solo storia, riinizieranno a vivere

senza aver più paura di te, e quando tutto sarà tornato alla normalità, io quanto sarò lontana

da quella normalità?

Caro virus, per la società dei sani sei stato portatore di ansia, depressione, attacchi di panico.

Sarai da combattere anche mentalmente, una lotta già iniziata.

Ma a noi, noi che sani non lo eravamo già prima, noi che combattiamo ogni giorno contro l’ansia,

la depressione, gli attacchi di panico; noi che nel cassetto al posto del sogno conserviamo

una cartella clinica, noi che quando parliamo con qualcuno non dimentichiamo mai che le righe

sotto il nostro cognome ci definiscono incapaci di mantenere rapporti interpersonali stabili; noi

che in quelle righe leggiamo la risposta al nostro dolore ripetendo che sarà raramente alleviato

da momenti di benessere e soddisfazione, noi che abbiamo trovato sollievo in quella

tormenta che hai portato con te senza sapere che ci stavi solo spingendo più affondo; noi che

non abbiamo paura di rimanere a casa giorni e giorni, ma di non riuscire più ad andare oltre

quelle quattro mura, a noi chi ci penserà?

Hai ferito e distrutto tanti, tanti dei quali più voci parlano e scrivono.

Noi rimaniamo in silenzio, e nel silenzio aspetteremo di capire quanto dolore hai inflitto alle

nostre vite già sgretolate, e forse, forse ritroveremo la forza di provarci ancora una volta.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 76


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Emma Giuliana Grillo

“Oriente occidente”

Niente e nessuna voce avrebbe potuto far cambiare idea alla madre che aveva scelto chi

doveva partire guardando le mani,gli occhi e la lingua.

Lei,che era la più piccola e aveva studiato l’algebra,sarebbe andata in occidente.

Probabilmente uscì di corsa quel giorno ,attraversò il campo e salì sul camion con le ruote

enormi sbattendo il di dietro.

La casa,se l’era messa nello zaino,sotto lo stomaco e sulle spalle.

Suo fratellino che si trascinava per terra l’avrebbe protetta nelle lunghe sere fredde e

affannate.

La casa si sarebbe allungata come la sua manina,come una pellicola trasparente ,un filo

lucente. Avrebbe preso i mattoni nel suo respiro ,andando verso l’alto e poi si sarebbe sparsa

nell’aria.

Per lei fu un viaggio nel futuro,un tonfo di stivali possenti nel fango.

Il suo progetto si realizzò,studià,lavorò e pensò sempre al suo fratellino sotto la copertina con

la neve alta fuori dalla piccola finestra.

I sei ragazzi partirono verso oriente.

Sicuramente presero il treno nero d’acciaio.

Erano tutti alti,forti e duri.

Spezzarono in fretta le catene e la casa prese il volo nel cielo plumbeo della loro solitudine.

Svendettero il pane,il letto e la luce della lampada all’ingresso.

Erano in sei ,presto rimasero in tre.

Le piazze,le strade della città erano troppo piatte,lunghe,immobili.

Loro rincorrevano la polvere ,perché,pensavano che almeno li avrebbe coperti,forse

avrebbero visto i brillantini che entravano dalla finestra come a casa.

Ma in quella città senza nome tutto era troppo pulito,senza odore,senza respiro.

Il vuoto orizzontale della città si depositava nelle stanze subaffittate e saliva nello stomaco.

Un ragazzo morì di tumore,uno di cirrosi e l’ultimo finì in prigione dove almeno i muri erano

alti.

Tre finirono nell’esercito e nella polizia ,abitarono sempre in case squadrate,metalliche e tinte di

giallo.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 77


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Martina Gerelli

“Memorie di una dispensa”

In questa casa mi sento fortunato. La dispensa è spaziosa e senza odori sgradevoli. Non c’è

umidità, il che è importante per il quieto vivere di tutti, ma soprattutto per garantire longevità ai

miei amici Aglio e Patate.

In questa dispensa stiamo tutti vicini e per questo è più facile diventare amici. La Padroncina

poi non è ordinata, ma metodica sì; e così mi mette sempre accanto alla Pasta e a Tonno in Scatola.

Patate e Aglio stanno al piano di sotto ma non è raro che a volte interloquiamo anche tra

piani differenti: siamo così vicini che è facile intercettare i discorsi e, per sfuggire la noia dell’attesa,

ogni scusa è buona per distrarsi un po’.

«Qual è stato il piatto migliore in cui ti hanno cucinato?» chiedo curiosa al Tonno in Scatola.

Dovete sapere che noi cibi, oggetti all’apparenza inanimati, godiamo in realtà di un potere

straordinario, che se lo sapessero gli umani, ci invidierebbero enormemente: ogni cibo di ciascuna

specie attinge tutto alla stessa memoria. Condividiamo le esperienze di tutti i nostri omologhi

ed è come se fossero nostre. Così il Tonno in Scatola che ora è qui con me, in attesa di

adempiere al suo destino, ha la memoria di tutti i Tonni in Scatola venuti prima di lui. Io ho la

memoria di tutti i Minestroni in Scatola venuti prima di me e i miei successori avranno la mia, e

così via.

«Senza dubbio, quel patè di tonno che hanno usato per accompagnare le aragoste in umido»

mi risponde Tonno in Scatola dopo averci pensato un po’ «mi sono sentito taaaaanto importante!».

«Accipicchia e ci credo! Questo sì che è essere cucinato coi fiocchi» asserisco.

«Uhuh, io mi sarei cotta dal piacere!» commenta Patata dal piano di sotto mentre noi altri

facciamo seguito con delle sonore risate.

«Credo di ricordare quella volta sai, Tonno» aggiunge Sacchetto di Grissini al Mais e prosegue

con aria sognante «Ero sul tavolo quella sera, accanto a quell’affascinante bottiglia di vino

pregiata del trentino, un Gewurtztraminer. Ah, i traminer che specie rara...».

«Ehi ehi, cosa sentono le mie orecchie» interviene Bottiglia di Gutturnio dal ripiano dei vini

«un po’ di contegno per chi ha origini di più basso lignaggio!»

«Oh, non intendevo certo denigrarti!» gli risponde Sacchetto di Grissini al Mais malcelando

un sorriso colpevole.

«Beh, se può consolarti, caro Gutturnio» intervengo io con fare diplomatico «credo anche tu

abbia memoria di quella volta in cui la Padroncina di questa stessa casa provò a berti insieme a

me, nel piatto. Posso assicurarti che non eri niente male!». Mi sporgo dal ripiano per fargli un

occhiolino malizioso e benevolo. Bottiglia di Gutturnio borbotta qualcosa nel suo dialetto piacentino

e ci volta le spalle mettendo fine alla conversazione.

I vini: una razza altera e malmostosa. Bisogna sempre prenderli con delicatezza e anche

quando ci si prova, non è detto che l’operazione riesca.

«Su, su non fare il permaloso» intervengono le Penne Lisce che non hanno certo peli sulla

lingua «cosa dovremmo dire noi, allora, che ci bistrattano tutti?! ». E sottolinea con tono sprezzante:

«Ci definiscono inutili, tse!»

«Ehm... se posso dire la mia, non siete inutili, quello no, ma forse difficili», questa volta è

Polpa di Pomodoro a parlare rimarcando la parola con accorta inflessione «le mie cugine Salse

qui presenti, potranno confermare la difficoltà che troviamo a unirci veramente a voi quando ci

cucinano insieme, ma non dipende dal fatto che siete lisce bensì dal fatto che siete più difficili

da cucinare se non siete abbastanza porose. Insomma, dipende un po’ tutto dalla vostra lavorazione,

da come vi hanno fabbricato».

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 78


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«Ecco, ecco, puoi dirlo forte, ma questo ci rende forse peggio?!» domanda retoricamente

Penne Lisce con un certo fervore «e aggiungo che che ci compra è fortunato: siamo la pasta più

morbida che esista e meno fastidiosa per il palato. Per non parlare della nostra Antichità, siamo

le prime ad essere state inventate!»

«A proposito di fortuna» intervengo io per stemperare i toni ma anche perchè ho una certa

impellenza a dire la mia «Io mi sento molto fortunato, in questa casa, sapete?»

«Per quale motivo nello specifico?» domanda Aglio con un afflato così potente che, per un

momento, fa vacillare la convizione di ciò che ho appena affermato.

«La Padroncina mi compra ogni settimana. Ormai ho capito che mi viene proprio a cercare»

spiego con grande serietà «l’altro giorno, pensate, mi ha anche fatto una foto e l’ha mandata a

qualche suo amico o a sua madre, non l’ho capito bene. E poi mi accorgo dello sguardo bramo

con cui mi cerca tra gli scaffali dei supermercati, l’occhio attento che legge e rilegge i miei contenuti

nutrizionali, la mano premurosa con cui apre il mio cartone prima di cuocermi...»

«Beh, se la metti così: sono d’accordo, anche io mi sento molto fortunato qui. Mi sceglie

sempre, quasi ogni settimana. Sì, con lei in effetti sono piuttosto sicuro di adempiere al mio lavoro

con regolarità» conferma Tonno in Scatola con tono pratico.

«Vedi, vedi! Non solo, sono abbastanza confidente che non mi abbandonerà mai» continuo,

abbassando la voce per dar enfasi alla rivelazione «l’altra sera l’ho sentita parlare con una sua

amica al telefono e le diceva che ora che è costretta a mangiare sempre a casa per via di una

terribile restrizione governativa dovuta alla diffusione di un virus letale per molti, è ancora più

felice che io e la mia famiglia di Zuppe esistiamo: siamo la sua salvezza per tutte quelle volte in

cui non ha voglia di cucinare!»

«Così ha detto!» aggiungo, emozionato, per rimarcare il concetto.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 79


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Eleonora Bellani

"Un nuovo inizio”

Lui la vide al tavolino del bar e ne rimase folgorato. C’era qualcosa in quella donna che lo attirava

come una calamita, ma restò all’ombra del portico a osservarla qualche istante. Lei indossava

una mascherina, come tutti, ma non portava i guanti, che erano invece riposti con cura accanto

al quaderno su cui, china, stava scarabocchiando chissà che. Ciocche dorate ribelli cercavano

un po’ di respiro da sotto il cappello nocciola, sembravano i tentacoli irrequieti di un

polpo a cui manca l’acqua. Sorrise al pensiero della faccia stupita di lei se si fosse avvicinato

per chiederle di vedere il polpo sotto il cappello, e cercò di trovare una scusa più plausibile per

avvicinarsi un po’ di più.

Erano passati mesi, ma ancora la paura del contagio incombeva come un’ombra nera sulla popolazione

che aveva lentamente ripreso il possesso delle strade, così ciascuno camminava da

solo, in silenzio e con lo sguardo basso, cercando solo di sfuggita i segni di quella piaga sui

volti degli altri passanti. Era stata una malattia misteriosa arrivata da un posto lontano a rendere

le persone così timorose, aveva iniziato a colpire gli anziani soli e abbandonati a se stessi,

ma ben presto aveva smesso di fare la schizzinosa e si era accontentata di chiunque. Gli scienziati

non erano riusciti a spiegarsi come fosse stato possibile un tale livello di contagio: inizialmente

avevano supposto che sfruttasse il contatto fisico, cosa plausibile per altro, ma l’isolamento

forzato che era stato immediatamente imposto alla popolazione non aveva dato i frutti sperati,

anzi. Con il passare delle settimane sempre più persone rimaste sole e tristi avevano iniziato

ad accusare un malessere generale, e con il sopraggiungere del prurito alla gola anche le macchie

squamose violacee avevano cominciato a diffondersi. Una volta manifestatasi la prima

escrescenza il processo di diffusione delle macchie era inarrestabile. Fortunatamente i bambini

sembravano essere immuni a questa malattia, che in breve tempo era stata soprannominata la

Serpe Viola, ma i numerosi esami di laboratorio non avevano dato una risposta chiara a questo

mistero. Ai bambini tutto questo ovviamente non importava, e continuavano a parlare e giocare

con i loro amichetti, veri o immaginari, come se niente fosse, ridendo sotto i baffi per le buffe

maschere che gli adulti indossavano: non era carnevale, e poi mettevano tutti lo stesso costume

viola! Ma si sa, gli adulti hanno poca fantasia.

C’erano stati anche dei morti, in seguito al contagio, qualche modella e un paio di attori, una

coincidenza forse, ma un silenzio carico di accuse avvolgeva quegli episodi, e nessuno osava

domandare. L’ignoranza a volte è una benedizione, e molti speravano che non sapendo sarebbero

stati più al sicuro. Non era servito. Quelli che si ammalavano si chiudevano in casa, non

vedevano e non parlavano con nessuno, più per la vergogna di mostrarsi come un viscido rettile

violaceo che non per impossibilità. Col tempo le misure restrittive erano state allentate e la gente

ancora sana aveva ricominciato ad avere una parvenza di vita, ma si parlava poco e si temeva

troppo l’altro, e i contagi, per quanto diminuiti, continuavano.

Il giovane ebbe la sensazione che una folata di vento lo spingesse verso la ragazza, e se ne

convinse ancora di più quando pochi secondi dopo vide i guanti di lei scivolare giù dal tavolino,

sospinti dalla stessa brezza. Era la sua occasione, non ne poteva più di parlare solo con gli

amici online, con la connessione scadente che si ritrovava era un travaglio ogni volta, voleva

chiacchierare con qualcuno guardandolo negli occhi e sentendone l’odore. Con quattro falcate

attraversò rapidamente la piazza e raggiunse i guanti: nel raccoglierli si accorse che su ogni

dito erano stati disegnati un paio di occhi e una bocca in smorfie sempre diverse.

“Mi scusi, le sono caduti questi”.

La ragazza non si scompose quando lui le si avvicinò, e gli sorrise con lo sguardo.

“Oh la ringrazio, non me ne sono nemmeno accorta.” Ma invece che allungare una mano per

riprenderseli, le tenne ben ferme sul quaderno dove, in una bella grafia tonda e piena, risaltavano

fiumi di parole.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 80


Italia Poetica

Lui guardò le sue mani, il quaderno, poi di nuovo le sue mani, e solo allora notò il dorso squamoso

della mano sinistra. Lei non disse niente, continuò a fissarlo con occhi da cerbiatta, ma

senza timore. Il giovane ebbe per un attimo l’impulso di allontanarsi, stringeva ancora i guanti

con i disegnini sulle dita, moriva dalla voglia di saperne di più su quella ragazza, ma il timore

del contagio gli stava annebbiando la mente. Lei riprese a scrivere, canticchiando un’allegra

melodia nella mascherina, quando lui finalmente prese coraggio. Di tempo ne aveva già sprecato

troppo, se anche fosse diventato una Serpe poco male, già non è che fosse una gran bellezza,

ma era la prima volta che una ragazza non si alzava infastidita dal suo approccio, sarebbe

stato un peccato sprecare un’occasione del genere.

Spostò la sedia e si sedette, stringendo ancora i guanti di lei in una mano, poi disse una di quelle

cose che non andrebbero dette se non al secondo o terzo appuntamento, almeno per non

risultare subito completamente pazzi.

“Posso vedere il polpo sotto il tuo cappello?”

Lei alzò lo sguardo, serio, sul giovane, ma senza indugio si tolse il cappello liberando i tentacoli

dorati, lui rimase un momento abbagliato poi si mise a ridere di gusto.

La giovane, probabilmente rassicurata da quel riso spontaneo, sorprendentemente levò anche

la mascherina, rivelando un paio di labbra morbide che lui, impulsivamente, desiderò assaggiare,

nonostante la pelle del viso e del collo mostrasse chiaramente i segni del contagio.

“Vuoi che disegni qualcosa anche sui tuoi guanti?” chiese, protendendosi per la prima volta

verso di lui. Il giovane, ancora incantato dalla serenità con cui lei mostrava la sua pelle violacea,

porse la mano guantata alla ragazza per lasciarle fare i suoi ghirigori sul lattice azzurrino.

Nell’istante esatto in cui le loro mani si toccarono, lui sentì in brivido lungo la schiena, e uno

strano movimento a livello dello stomaco, come fosse pieno di rane salterine. Tornò a concentrarsi

su di lei all’opera, e si ritrovò a pensare che gli sarebbe tanto piaciuto farsi coccolare da

quelle mani delicate, ora completamente lisce e olivastre.

Col cuore più leggero, si tolse la mascherina. Era un nuovo inizio.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 81


Italia Poetica

Elena M. Giudici

“P-team”

Quella mattina Pietro si era svegliato molto presto. Da giorni il lavoro, specie in accettazione,

era aumentato. Si aspettava una giornata impegnativa, certo, ma quando arrivò al suo ufficio e

vide fuori dal cancello quella moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, si mise le mani

nei capelli: com’era possibile? eppure lavoravano senza sosta! I suoi assistenti entrarono nell’ufficio

tutti insieme, avevano l’aria sgomenta: “Cosa facciamo?” chiesero “Erano anni che non ci

trovavamo in questa situazione”.

“Lo so” rispose Pietro “Voi continuate a lavorare con ordine e chiedete a tutti di avere pazienza,

tanto qui il tempo non manca. Io vado ai piani alti a chiedere lumi”.

Uscì dall’ufficio, salì in tutta fretta e si fece annunciare al Supremo Responsabile. La situazione

era urgente e Lui non poteva non saperlo!

“Benvenuto Pietro, mi aspettavo la tua visita!” gli disse infatti.

“Avete visto?” disse Pietro appena ebbe ripreso fiato “Una fila infinita! Cos’hanno combinato gli

uomini stavolta? Sembra che sia scoppiata l’ennesima guerra”

“Non esattamente” intervenne il Figlio del Supremo Responsabile, suo amico da millenni “Vedi,

Pietro, in verità quello che sta succedendo è simile a una guerra ma è quasi peggio perché è

impossibile vedere il nemico”. Mentre il Figlio parlava Pietro si guardava le mani: grandi mani

da pescatore, abituate a sollevare le reti e a spingere i remi. Erano mani forti che, volendo,

avrebbero potuto polverizzare qualunque nemico… ma non quel nemico.

“E quindi cosa facciamo?” chiese.

“Ci sono due cose da fare” spiegò il Padre “la prima è collocare tutti quelli che sono arrivati”.

“E già questa è un bella impresa” borbottò Pietro preoccupato “ma, giusto per curiosità… di

sotto… non ci avete mandato proprio nessuno?”

Il Padre scosse il capo: “Ho solo messo in attesa i casi più gravi, ma non potevo proprio fare

diversamente. Devi considerare che quasi nessuno ha avuto il tempo di prepararsi e, del resto,

sai bene che sono per natura incline alla misericordia”. Pietro annuì: “Va bene, casomai i miei

assistenti chiederanno rinforzi. E la seconda cosa?”

Gli rispose il Figlio: “Dobbiamo fare in modo che non ne arrivino più in così gran numero. Non

sarà un compito facile: gli uomini hanno bisogno di molto aiuto. Ricordi cosa vi dissi quando ero

con voi? Lo spirito è pronto ma la carne è debole”.

Pietro abbassò lo sguardo: quell’espressione gli ricordava una notte lontanissima nel tempo

(quando per lui ancora esisteva il tempo), una notte di paura in cui la sua carne era stata debole,

troppo debole. “Sì, è vero” mormorò “la carne è debole”.

Il suo caro Amico scosse la testa sorridendogli: “Pietro, Pietro, perché continui a ricordare ciò

che io ho dimenticato? Lo sai che ti ho perdonato, ti ho perdonato subito, altrimenti tutto avrebbe

perso significato. E poi, se fossi uno che serba rancore, ti pare che adesso saresti qui?”

Pietro annuì: “Lo sai come sono fatto”.

“Lo so, lo so” rispose il Figlio “Coraggio, mettiamoci al lavoro, bisogna fare presto”.

Mentre Pietro usciva il Padre e il Figlio si scambiarono uno sguardo d’intesa, insieme mossero la

mano e subito Pietro si sentì avvolto da una brezza leggera e rinvigorito dal fuoco dell’azione.

Quando rientrò nel suo ufficio la folla era ancora sterminata ma i suoi assistenti erano riusciti a

dividerli per gruppi di cinquanta e stavano raccogliendo le generalità. “Bel lavoro, ragazzi,

bravi”. Sedette alla scrivania, mandò a chiamare l’amico Paolo e lo ragguagliò sulla situazione.

“Certo è un lavoro imponente” commentò questi “Dobbiamo ragionare bene su come dividerci i

compiti. Ricordi cosa ho scritto ai fedeli di Corinto? In questo caso direi che dobbiamo capovol-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 82


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gere la frase: uno solo è lo Spirito ma vi sono diversità di carismi. Secondo me tutto sta nel mettere

ciascuno al posto giusto secondo il suo carisma”.

Si sentì bussare alla porta ed entrarono un uomo e una donna di età avanzata. “Salve Gioacchino,

benvenuta Anna” li accolse Pietro. Anna gli rivolse un sorriso gentile: “Maria ci ha detto

di venire a offrirti il nostro aiuto”. In quel momento una donna bellissima, vestita di sole, dal volto

eternamente giovane, incorniciato da una corona di dodici stelle, fece capolino sulla porta:

“Pietro, mi occupo io di accogliere i nuovi arrivati, so che hanno molto bisogno di conforto”.

Rincuorato dall’aiuto che tutti gli offrivano, Pietro si consultò con gli ultimi quattro dei suoi successori

che si erano uniti alla schiera: Angelo, Giovanni Battista, Albino e Karol (di fatto erano

Giovanni, Paolo, e i due Giovanni Paolo ma, dato che avevano scelto due nomi in quattro, a

volte Pietro usava i loro nomi di battesimo per non confondersi) e anche con Rita, dal momento

che le cause impossibili erano la sua specialità.

Predisporre l’organigramma non fu comunque facile: fosse esistito ancora il tempo ci sarebbe

voluta una mattinata intera. Quando alla fine tutto fu pronto riunì l’intera assemblea e prese la

parola.

“Certo non occorre che vi dica quanto la situazione sia delicata e urgente” cominciò “se avete

visto, come penso, la fila di anime che si affolla ai nostri cancelli vi sarà senz’altro chiaro che

gli uomini non possono affrontare questo pericolo senza il nostro aiuto. Ci organizzeremo così:

ciascuno si occuperà di una categoria secondo il proprio carisma mentre io, Paolo e Rita coordineremo

il lavoro di tutti. Ascoltatemi bene: per quanto riguarda i bambini ho pensato di raddoppiare

la custodia. In generale, poi, Anna e Gioacchino si occuperanno degli anziani, Giovanni

Bosco e Filippo Neri dei giovani, Agnese e Agata delle donne e Giuseppe degli uomini

quindi, in caso di difficoltà potete fare riferimento a loro”. Tutti annuirono.

“Bene” riprese Pietro “la prima categoria che ho preso in considerazione sono ovviamente i

malati e i sanitari. La squadra sarà composta quindi da Cosma, Damiano, Raffaele Arcangelo e

anche Luca, che ai suoi tempi era medico. Camillo si occuperà degli infermieri, Alberto dei ricercatori,

e poi Giovanni… sì, Leonardi, proprio tu” una figura seminascosta fece timidamente

capolino “I farmacisti li affido a te”.

“Ma tutta questa gente dovrà pur mangiare” osservò Paolo.

“Infatti, ci stavo giusto arrivando. Questa squadra, che proteggerà chi si occupa della cucina,

comprenderà Lorenzo, Francesco Caracciolo, Elisabetta d’Ungheria e Zita. Matteo, tu invece

sarai a capo della squadra dedicata ai finanzieri a ai governanti, direi che sei il più competente

in materia. Cristoforo si occuperà dei trasportatori, Michele dei commercianti e delle forze dell’ordine.

Tutto chiaro fin qui?”

Dalla platea si levarono mormorii d’assenso.

“Bene, in questo modo abbiamo coperto le categorie che devono continuare a lavorare. Adesso,

però, dobbiamo occuparci di quelli che rimangono a casa e intrattenerli per aiutarli a passare

il tempo, perché se danno di matto rischiamo di vanificare tutto il nostro lavoro. Chiara,

Cecilia e Genesio, voi vi occuperete degli artisti e dei mezzi di comunicazione, insieme a Giovanni

e Francesco di Sales, a cui spettano giornalisti e scrittori, perché questa storia qualcuno

dovrà pur raccontarla”.

Fece una pausa per raccogliere le idee.

“Cristoforo e Sebastiano” riprese “mi risulta che atleti e sportivi siano di vostra competenza

quindi, siccome qualcuno per tenersi occupato sicuramente deciderà di darsi allo sport, vi affido

il compito di evitare che si facciano male che in ospedale hanno già abbastanza da fare”.

Paolo, seduto accanto a lui, richiamò la sua attenzione e, con un gesto discreto, gli indicò un

piccolo sacerdote che stava nelle ultime file. Pietro lo ringraziò con un cenno del capo.

“Fin qui ci siamo occupati dei corpi” riprese “ma non dobbiamo assolutamente trascurare le

anime. Il problema è che adesso sarà praticamente impossibile, per loro, accostarsi ai Sacramenti,

riunirsi nelle loro comunità e spezzare insieme il pane… e sarà un momento molto delica-

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 83


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to per i nostri successori”. Il piccolo sacerdote ascoltava attento; Pietro si rivolse direttamente a

lui: “Caro Giovanni, considerato il tuo magnifico lavoro ad Ars, non vedo figura più adatta di te

a guidare la squadra dedicata ai sacerdoti”. Il piccolo curato annuì.

“Bene” concluse Pietro “avete qualche domanda?”

Rispetto alla folla oceanica che si era radunata il numero dei chiamati era decisamente esiguo,

sicché dall’assemblea si levò un mormorio: “E noi?”

Già, pensò Pietro, tutti volevano rendersi utili.

“Chi è patrono di qualche categoria di persone o di lavoratori, o di qualche città, se ne occupi

direttamente. Tutti gli altri si occupino di proteggere chi porta il loro nome”.

Ildefonso e Scolastica gli lanciarono un’occhiata eloquente.

“Beh, se non ce ne fossero unitevi alle altre squadre, scegliete quella per cui vi sentite più portati.

Adesso mettiamoci al lavoro, e se vi doveste trovare in difficoltà non esitate a ricorrere a Lui,

sapete che è sempre vicino”.

Mentre l’assemblea si scioglieva Pietro rimase un attimo a pensare: il finale di quella storia era

ben lungi dall’essere scritto. Loro erano tanti, la squadra era forte, ma il lavoro era imponente:

avevano bisogno dell’aiuto degli uomini così come agli uomini serviva il loro. Davvero sarebbe

andato tutto bene? Davvero ce l’avrebbero fatta? Sollevò lo sguardo verso i piani alti: il suo

vecchio Amico gli sorrideva, a ricordargli che non era solo, che nessuno era solo.

Pietro prese un lungo respiro e si avviò verso il suo ufficio: anche per lui era tempo di mettersi al

lavoro.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 84


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Giada Canzian

“L’insostenibile solitudine forzata”

“Queste vacanze di Carnevale non finiscono più”. Questo è stato il pensiero mio e dei miei

amici quando ci è stato detto che saremmo dovuti stare a casa da scuola un’altra settimana

dopo il ponte di Carnevale. Non ci dispiaceva affatto, però è sembrato strano, a tratti preoccupante.

Pochi giorni dopo, l’8 marzo, è stato dichiarato lo stato di emergenza sanitaria in Italia,

e dal giorno dopo tutti saremmo stati costretti all’isolamento.

Cosa stava accadendo? In poche parole, in Cina è stato scoperto questo nuovo virus che in pochissimo

tempo ha infettato migliaia di persone, causando anche la morte per molti di essi. È un

virus forte, mai studiato prima e per il quale un vaccino ancora non esiste. Quando il Coronavirus

(così si chiama questo piccolo mostro) è giunto nel nostro paese, è stato etichettato come

“una normale influenza”, etichetta tolta quando si sono creati i primi focolai in Lombardia e

quando la gente ha iniziato a morire. È da sapere che questo virus è davvero molto contagioso

ed è facile che qualcuno ti infetti.

Ecco che quindi sono state attuate le prime misure restrittive: mantenere la distanza di un metro,

starnutire sull’interno gomito e lavarsi spesso le mani, tanto che c’è stato un boom di vendite di

igienizzanti mani in gel e di mascherine!

Ma la misura più drastica e drammatica è stata questa: l’obbligo di mettersi in quarantena ed è

proprio questo di cui voglio parlare.

Da un giorno all’altro mi sono sentita privata delle mie libertà: non potevo più uscire a fare una

passeggiata, non potevo più vedere i miei amici e tantomeno i miei familiari. Una mattina mia

mamma è venuta a svegliarmi dicendo: “Giada, ora siamo ufficialmente in isolamento” ed è qui

che ho realizzato la gravità della situazione. Ammetto di esser stata una delle tante persone

che all’inizio pensavano che il Coronavirus fosse una semplice influenza, ma quando a quel

nome è stato affiancato il termine di pandemia mi son dovuta ricredere.

Così, da quella mattina, i giorni sono iniziati ad essere tutti uguali. Passavo il tempo nella mia

stanza da sola ed è questo ciò che più mi ha spaventata inizialmente: l’esser sola. Non vado

molto d’accordo con me stessa, cerco sempre di evitarmi e di evitare i pensieri che la mia mente

fa scaturire, ma quando ti ritrovi in una situazione del genere non puoi far altro che immergerti

in ciò che la tua mente suggerisce, ma se durante il giorno riuscivo a tenerla occupata leggendo,

dipingendo o giocando col gatto, durante la notte era lei a tener occupata me. Era in quel

momento che le preoccupazioni, le ansie e le paure venivano a galla.

Continuamente pensavo che a questo non ci potesse essere una fine, avevo una visione completamente

negativa di ciò che stava accadendo al di fuori delle mura di casa. Nonostante al mio

fianco ci fossero tante persone che cercavano di rassicurarmi, di farmi vedere una nota di bianco

in tutto il nero che consideravo, io quel bianco proprio non lo vedevo. Al massimo una tonalità

di grigio tanto scuro.

Per parecchi giorni ho continuato a far finta che questo male non esistesse, tanto che perdevo le

staffe ogni volta che sentivo nominare la parola “coronavirus” ai telegiornali.

Evitare le situazioni, però, non è mai un bene e l’ho imparato a mie spese. Questa mia “ossessione

evitante” mi ha fatta andare fuori di testa tanto da perdere il sonno e l’appetito e quelle

volte in cui cadevo in un sonno profondo, facevo incubi di ogni genere.

La potenza della mente è assurda in questi momenti, è sia in grado di farci ragionare che di

farci perdere la ragione. Ci è sia amica che nemica e, a proposito di amici, ciò che più mi faceva

male era proprio non poterli vedere.

In questi anni la tecnologia ha fatto passi da gigante, sono state inventate centinaia di piattaforme

in grado di farci tenere in contatto con le persone, ma una videochiamata non potrà mai

sostituire una conversazione fatta a quattrocchi ed un messaggio con scritto “ti voglio bene”

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 85


Italia Poetica

non sostituirà mai un abbraccio.

Di videochiamate ne ho fatte davvero poche, principalmente per il fatto che proprio non mi piace

farle, ma anche perché il solo pensiero di vedere qualcuno a cui tengo dietro ad uno schermo

mi faceva soffrire. Ho dovuto aspettare tanti giorni prima di trovare il coraggio di farne una,

forse dovevo semplicemente abituarmi all’idea di questo allontanamento forzato e accettarlo. E,

giusto per precisare, dopo aver finito quella prima chiamata sono scoppiata in lacrime perché

la lontananza da quella persona era diventata insostenibile.

Sono proprio belle le piccole cose che diamo continuamente per scontate: un caffè al bar, una

pizza in compagnia, un tramonto in spiaggia, un bacio, un abbraccio. Quanto è bello il contatto

con le persone, le passeggiate mano nella mano, farsi il solletico e stare vicini!

È proprio quando tutto questo ti viene tolto che ne capisci l’importanza.

In questo momento sono ancora in quarantena, spesso la mia mente mi è ancora nemica, il sole

fuori sta splendendo e io sono chiusa in casa, si spera ancora per un paio di settimane.

Non vedo l’ora di poter tornare a bere il caffè al bar, di abbracciare i miei amici, ci cenare coi

miei familiari e di dare un bacio al mio ragazzo.

È dura, è faticoso vivere in questa situazione che nessuno si sarebbe mai aspettato, pero andrà

tutto bene, lo prometto.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 86


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Giulia Detoni

Sono in giardino, Peter di fronte a me che studia, Daniele è appena rientrato in casa, Veronica

in call per smart working, Giovanni che sforna torte al cioccolato, Giulia al lavoro in clinica.

Io? Scrivo.

Vorrei essere sicura di ricordare, nel poi, come sto ora. Che le riflessioni di oggi possano fondersi

con i pensieri del domani, e portare cambiamento. Ancora non ho a fuoco cosa sta succedendo,

cosa sta cambiando dentro di noi tra di noi e al di fuori di noi, ma sento che è un momento

importante, che merita riflessione e un quotidiano ticchettare sulla tastiera.

Abbiamo altre tre settimane da vivere nella medesima condizione, cosa potrà combinare questo

lasso temporale? Sono incuriosita. Sono rimasta senza lavoro, ma al momento sto bene, non

voglio concentrarmi sul fuori, sulle possibilità e sulle incertezze, sulle domande.

Voglio concentrarmi sulle risposte, che sto vedendo, qui e ora. Si, credo di aver imparato a vivere

il qui e ora, molto spesso, abbastanza bene.

Non mi preoccupa il fare nulla, non mi preoccupa fare l’inutile, mi preoccupa fare cose belle e

vere. Come ad esempio, ora scrivere. Cucinare. Coltivare il proprio cibo. Badare e aiutare a

vivere i miei animali e le mie piante. Mantenere puliti e in ordine gli spazi di casa, dentro e fuori,

confortevoli alla vita in comune. Mi vesto, a mio piacere, senza per forza la tuta o il pigiama.

Mi metto gonne, orecchini, maglie colorate, scelgo gli abbinamenti, mi ricordo di voler vedermi

bella. Mi pettino mi lavo, respiro. Ascolto i canti degli uccellini. Tutto va più lento. Tutto

aspetta il suo tempo. Tutto ci insegna ad aspettare. I rintocchi lenti delle campane di Custoza, lo

sbocciare dei fiorellini azzurri a primavera, lo starnazzare dei fagiani intorno. Tutto ci ricorda

che siamo vivi, e lenti. Che la vita è anche lentezza. La lentezza non è la morte.

Giusto appena prima della quarantena, i miei genitori di ritorno dall’India mi hanno regalato

una collana con un pendaglio a forma di tartaruga. Subito ero perplessa, ho chiesto alle sorelle

di scambiarla con un altro pendaglio che era stato regalato loro, perché la tartaruga e la lentezza

sono ciò che più si può ritenere lontano da me, in cui fatico a trovare un rispecchio.

E invece la tartaruga è arrivata a farmi visita, a conoscermi, a mostrarsi, a insegnarmi cose che

ancora non sapevo, o piuttosto che avevo intravisto ma non ancora interiorizzato a pieno.

Buongiorno tartaruga. Buongiorno pazienza. Buongiorno tempo di lievitazione. Buongiorno

riflessione. Buongiorno silenzio. Buongiorno attesa. Buongiorno consapevolezza.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 87


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Serena Sabino

Sono sempre stata una bambina piuttosto timida. Quando discutevo con i miei genitori e non

riuscivo ad esprimermi, mi chiudevo in cameretta e cominciavo a scrivere. Ho sempre avuto un

diario segreto ed ho sempre avuto molto da dire. Nel tempo sono cambiata. Ho lasciato la timidezza

da parte, ma sono rimasta quella di prima. Ormai una donna di 23 anni, che ha sempre

da dire qualcosa. Amo la scrittura come mezzo di comunicazione. Amo le lettere scritte a

mano. In questo periodo di isolamento forzato causato dal Covid che ha inevitabilmente spiazzato

le nostre vite, mi ritrovo ad aver smarrito il filo logico. Inciampo in sensazioni contrastanti

che non so descrivere, ma, ci vorrei provare. Ormai, a graffi e morsi, vivo a Milano dal 2016.

Ho sempre cercato, sin dal post diploma, di crearmi una vita indipendente. Mi sono scontrata

con diversi lati del mio carattere che cozzavano appieno con il mondo odierno, frenetico, duro,

burrascoso, ove bisogna scalpitare per emergere. Ed io, beh, non sono proprio quel tipo di persona.

A Gennaio persi l'ennesimo lavoro per via del mio impellente senso di parità e lealtà fra il

team di qualsiasi società lavorativa. Iniziai a prendermi del tempo per pensare a cosa avrei voluto

davvero fare. Possibile che nessun lavoro fatto fino ad allora, mi rendeva felice di alzarmi

al mattino!? Intorno al 22 Febbraio, dopo un’ennesima giornata spesa fra speranze, attese di

telefonate, invio di curriculum vitae, frenesia, svago,mi arrivò la notizia che il virus era arrivato

in Lombardia, a Codogno. Beh, per quanto possa essere una persona ansiosa ed ipocondriaca,

decisi di non preoccuparmene. Ma, nessuno avrebbe mai immaginato che pochi giorni dopo, il

presidente del Consiglio, Conte, avrebbe dichiarato la Lombardia zona rossa. Per fortuna fui

una di quelle persone tanto odiate e criticate che decisero di tornare dalla propria famiglia, al

Sud. Ad oggi, dopo più di 50 giorni, sono ancora qui! Come sto!? Come vivo? Quali sono le

mie preoccupazioni? Cosa mi manca? Se dormo bene? Io non lo so come sto. Se mi guardo allo

specchio mi vedo curata, serena, col viso pulito di chi non è riuscito a corrugarlo di lacrime. Se

mi autoanalizzo però.. Vedo una ragazza che trema di paura. Vedo una ragazza che grazie ai

suoi sacrifici è riuscita a permettersi un monolocale in Piola,ed è riuscita sempre a metter qualcosa

da parte. Soldi che adesso sto vedendo andar via per pagare un affitto di cui non usufruisco.

Ho il mio cuore a Milano, e la sola idea di non poterci tornare presto, o di non riuscire a

trovare un nuovo lavoro, mi devasta. L'insonnia ha preso il sopravvento. Mi manca passeggiare

da sola sul Naviglio, o sedermi a bordo Darsena in piena estate, diventando pasto per le zanzare.

Mi manca il bar in Cadorna, in stile parigino. Mi manca il Nidaba in via Gola con la sua

musica dal vivo. Mi manca lo shopping in Buenos Aires. Mi mancano i tram con le sedute in legno

e il cigolio ad ogni fermata. Mi manca Portobello con le sue pennette alla boscaiola e un

tiramisù in due. Mi manca la colazione sa Fiordilatte. Mi manca tornare a casa e stare da sola.

Mi mancano le notti passate sveglia, senza l'abbraccio di nessuno. Mi manca semplicemente

respirare senza sentirmi soffocare. ( e non è solo colpa della mascherina).

Voglio essere positiva! Voglio pensare che presto tutto questo diverrà solo un ricordo che ci

avrà insegnato ad apprezzare di più tutto ciò che fino ad oggi, inevitabilmente, ci sembrava

scontato, come respirare!

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 88


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Rita Mariconda

“L’incontro al tempo del Coronavirus”

Dal diario di Diletta Dolce.

In una stanza c’erano un Trevigiano un Inglese e un Cinese… l’inizio di una barzelletta? No,

l’inizio del mio incubo. Ti racconterò la mia disavventura che comincia non proprio così…

Prima però mi presento, sono Diletta Dolce, Didì per amici e parenti; sono piccola di statura,

leggermente curvy, dai colori tipici mediterranei che vanno dal nero seppia, al nero antracite.

Sono uno chef, che di stellato ha solo il soffitto della sua camera, quindi più che altro sono una

buona forchetta, il che sarebbe irrilevante, invece no, citatemi uno chef filiforme, preferisco

mangiare nei ristoranti dove ci sono chef obesi.

Torniamo a noi. Per fortuna, o meglio per sfiga allo stato puro, sono stata contattata da un

gruppo che gestisce numerosi ristoranti nel trevigiano; dopo aver letto il mio curriculum mi hanno

subissata di complimenti, e a quelli non si resiste, fidati! Con allettanti promesse mi hanno

invitato nella loro sede di Treviso per conoscerci e cominciare un percorso insieme, partendo

magari da uno di quei ristoranti stellati che tanto fanno gola agli chef. Così il 21 febbraio con la

mia valigia piena di sogni e il mio beauty-case pieno di speranza, sono partita dalla soleggiata

Amalfi per il profondo Nord. Ad accogliermi all’aeroporto una fitta nebbia e un freddo polare,

a cui, non mi vergogno a dirlo, non sono abituata. Ho affittato tramite un sito web un appartamento

a breve permanenza, un posto dove stare per quella settimana di tour che già mi riempiva

di entusiasmo.

Il mio appartamento, no, non lo si può definire così, il posto preso in affitto è un monolocale

di trenta metri quadrati, quindi una stanza dove sono concentrati gli spazi di un vero appartamento,

grigio come il clima invernale di quella città dell’Italia nord orientale.

Non sono una persona triste, al contrario la mia allegra solarità, se la tira con la mia incapacità

di riflessione che il più delle volte sfocia nella sbadataggine. Sono una ragazza senza

filtri, un po’ ingenua forse, ma convinta che nella vita quando ti capitano cose brutte è una fortuna,

perché sei stata risparmiata da cose ancora più brutte. Capisci cosa intendo? Certo che

no! Il più delle volte non mi capisco nemmeno io!

Amo l’ordine sparso delle cose, quindi chi entra nei miei appartamenti la prima cosa a cui si

pensa, è all’uso improprio di petardi o magari di una vera bomba. Ora che hai un concetto più

chiaro della mia strampalata personalità, possiamo occuparci della storia.

Ho appena posato il trolley contro una parete, quando il cellulare mi distrae con il suo trillo,

un messaggio: Ti aspetto domani alle dieci alla fontana delle Tette. È lui! Ha firmato con un cespo

di insalata, un carciofo e tre faccine che ridono. NO! Non è possibile! Diletta, stai sbagliando,

hai veramente accettato di incontrare un maître manager che si firma con l’insalata?

Vogliamo parlare della location dove ti vuole incontrare? No, non ne voglio parlare! Esiste una

fontana delle Tette? Cosa esce dalle bocche, latte? No, va beh.

Come al solito invece di ascoltare la voce diligente del mio subconscio che urlava “scappa

Diletta”, ho ascoltato quella della curiosità. Io, 'sto tipo lo devo incontrare, per di più alla versione

porno di una fontana. Ai miei nipoti, un giorno, racconterò: “Sapete, tesori miei, la nonna

tanti e tanti anni fa, è andata ad un appuntamento e sotto una fontana da cui uscivano litri e litri

di latte, e lì c’era lui, il cavaliere errante che mi porse un mazzo di broccoli, e in quel preciso

istante il mio cuore si fermò, chiamarono l’ambulanza e mi defibrillarono”.

Mi siedo per pensare a una risposta intelligente e scrivo: ok. La risposta più intelligente che

potevo partorire.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 89


Italia Poetica

Dopo un breve tour della casa decido di andare a fare spesa altrimenti rischio di perdere il

mio fidato strato di sano grasso che tenta di proteggermi dal freddo polare che avverto da

quando sono scesa dall’aereo.

L’indomani mi infilo in un taxi, chiamato con l’app, e alla richiesta “Dove la porto?” mi vergogno

di pronunciare alla fontana delle tette, ma dopo lo sguardo assassino lanciatomi dall’autista

mi libero dall’angoscia e lo dico.

Nei pressi di quest’opera d’arte, che è veramente bella, ci sono molte persone e quasi tutti

uomini. Oddio e come lo riconosco? Cerco con lo sguardo se qualcuno ha qualche parentela o

somiglianza con la verdura in oggetto, ma rimango delusa, nessuno è verde.

Un tipo mi guarda e mi sorride non è male, mi rassereno, mentre la voce della coscienza sta

usando le bandiere per attirare la mia attenzione, la ignoro e sorrido dirigendomi verso di lui.

Ci salutiamo con un bacetto e mi abbraccia. Non ti allargare, radicchio! Mantieni la posizione

imposta dal patto di Varsavia, io a quello di Schengen per la pubblica circolazione delle mani,

non ho aderito. Intanto, il tipo, un bel ragazzo biondo dallo sguardo ceruleo, si presenta col

nome di Camillo Rossi e parla ininterrottamente di svariati argomenti che spaziano dall’accensione

del computer alla scissione dell’atomo, giusto per fare sfoggio della sua cultura. Alla fine

esordisce con la frase ad effetto: «Se accetti di lavorare con noi ti assicuriamo un successo strepitoso.

In pochi mesi da aiuto chef potresti dirigere una cucina tutta tua», e mi sorride sornione.

No, Diletta! Basta, passi il cespo, passino le tette, ma il sorriso malefico no.

In cuor mio avevo già declinato, ma lui non molla. Mi invita a cena dove ci sarà lo staff di

prova selezionato e a malincuore accetto, avevo deciso di prendere il primo aereo disponibile,

ma come al solito vince l’incoscienza.

Sono seduta al tavolo con tre bellissime ragazze, che sfoggiano piume e lustrini, da qui capisco

che la selezione dipende dalla lunghezza coscia e dalla taglia del reggiseno. Io non sono

male, ma di lungo e abbondante possiedo solo il cervello. Ci sono anche due ragazzi che da

dietro le loro barbe da hipster mi fissano come se fossi merce avariata. Non so con quali criteri

mi abbiano scelta, ma sto per esplodere; la voce del subconscio si è arresa, è distesa, sfinita e

provata dalla mia caparbietà, ma ne è uscita vittoriosa, gliene rendo merito.

Quel chiacchiericcio infinito non lo sto nemmeno ascoltando, mentre di nascosto, sotto il tavolo

cerco di chiamare un taxi con la mia fidata app per darmi alla fuga mentre sfoggio orgogliosa

il mio più bel sorriso, ma i crampi mandibolari stanno per tradirmi.

All’improvviso succede di tutto, carabinieri e operatori del 118 fanno irruzione nel locale, ci

trascinano al pronto soccorso. Fra il terrore generale e i gridolini del pollame orpellato, noto

con stupore che la mia coscienza mi fa il gesto dell’ombrello.

Ricapitoliamo, a due giorni dal mio arrivo, conosco gente che non avrei voluto mai conoscere

e scoppia veramente una bomba: epidemia virale, scuole chiuse, ristoratori contagiati che a

loro volta contagiano avventori, zona rossa, quarantena. Allora… è colpa mia? No. Quindi

sono solo sfigata? Può essere.

Riprendiamo il discorso dall’inizio della barzelletta. Sono in una stanza del pronto soccorso

insieme al gruppo eterogeneo di barboni e oche, al manager che fa la voce grossa con gli operatori

sanitari, ai clienti del ristorante e tutti gli chef della cucina.

Improvvisamente entrano tre medici della Nasa, bardati con tuta protettiva, cuffia, maschera

e guanti. Uno di loro con la voce ovattata urla: «Chi è Dolce?» Dal mio posto parete accanto

alla prima via di fuga non osavo rispondere e loro imperterriti, scrutavano con il loro super

sguardo laser, chi fra i presenti potesse rispondere al cognome urlato poc’anzi. Il cinese, abile

osservatore, dopo tutti gli anni passati a dover distinguere i suoi simili, mi punta, viene verso di

me con passo autoritario, e chiede severo: «Lei è Dolce?»

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 90


Italia Poetica

Sgrano i miei occhioni da Bambi su tutto quel bianco e rispondo: «Dipende dalle circostanze,

il più delle volte sono acida come un limone».

«Faccia poco la spiritosa e risponda», mi intima minaccioso. «Non ci faccia perdere tempo. È

Dolce, si o no?»

I miei occhi devono essersi sbarrati a dismisura perché il secondo astronauta arriva in mio

soccorso. «Chen, non la vedi che è impaurita? Signorina è lei Diletta Dolce?» La sua voce calda

e rassicurante mi spinge ad assentire con un cenno del capo. «Venga con noi, non è nulla di

grave».

Il bugiardo dalla voce profonda mi prende per un braccio e la platea dei presenti che fino a

qualche secondo prima faceva capannello intorno a noi, si separa come il Mar Rosso per lasciar

passare l’israelita, che sarei io.

Mi fanno sedere in una stanza che sembra un obitorio, tutta adorna di inox 18/10. Gli

astronauti parlano, con me e tra di loro, ma io non capisco. È come se il mio cervello si rifiutasse

di comprendere, continuavo ad ascoltare, senza assimilare.

«Lei è positiva. Ha capito?» La voce del dottor Chen era fredda e lontana come la Muraglia

Cinese, mentre il bugiardo seriale cercava di infondermi una finta tranquillità.

«Non è niente, starà bene, vedrà».

Il terzo astronauta, muto fino a quel momento, parlò con un lieve accento straniero. «Vada a

casa e non esca per nessun motivo. Ci chiami solo se i sintomi peggiorano».

Il mio QI cercava di elaborare i dati acquisiti, ma non riusciva a riconoscere i sintomi. Quali

sintomi? Mi diedero un sacchetto che conteneva dei guanti in lattice, una mascherina e una scatola

di antipiretici e mi fecero uscire da un’altra porta. Il mio pensiero volò da quelli dell’orto

botanico, chissà se erano positivi anche loro.

Durante il tragitto verso il bunker, lo avevo definito tale perché era fornito di una porta finestra

di dimensioni microscopiche che dava su un finto balcone largo dieci centimetri, che a sua

volta si affacciava in un cortile di cemento buio e vuoto dove crescevano colture di specie batteriche

non note all’umanità. Ho perso il filo del discorso, come al solito. Dunque, durante il ritorno,

pensavo alla parola “Positivo”. È una bella parola, ti ispira sicurezza, felicità, un aggettivo

piacevole come un complimento: sei una persona positiva, bello, no? Allora perché cazzo la

associano al contagio epidemico? Non potrebbero dire, sei stata contagiata, sei negativa, tiè!

Come dici caro Diario? Sono scurrile? Premesso che ho detto solo una piccola parolaccia,

uno studio effettuato da una rinomata università americana, asserisce che le persone che dicono

le parolacce sono più intelligenti. L’ho letto su Facebook. Sì, lo so, non è il National Geographic

Magazine, ho capito. Questo studio ha la stessa valenza scientifica del test “Che verdura

sei”. A proposito, io sono il pomodoro.

Ci sono arrivata, il ragionamento così fila: se in una epidemia virale ti danno della positiva,

pensano che in fondo, tu contagiata devi prenderla positivamente, tutto andrà bene, insomma!

Bugiarda seriale pure tu!

Entro nel bunker e mi stendo sul letto, la testa mi scoppia, non devo pensare troppo se no

avverto i sintomi e vado in panico. Diletta, pensa positivo! Oh no, sono positiva!

Schizzo dal letto in preda al panico, sudori freddi e tachicardia si impossessano della mia

persona; un tremore irrefrenabile mi scuote dalla testa ai piedi. Penserete che ho i sintomi del

virus coronato? No, peggio! Ho la dispensa vuota! In affanno apro tutti gli sportelli, due in totale,

e trovo una scatola di cereali. Ripongo tutte le mie speranze nel frigo. Apro lo sportello con

la stessa speranza di un naufrago alla vista di un canotto: un uovo e mezzo litro di latte scremato.

Sono morta. O meglio, sarò morta molto presto. Che ore sono? Vado al supermercato. No,

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 91


Italia Poetica

non posso uscire! Oddio, aiuto! Eccolo, l’attacco di panico tanto atteso è arrivato. Avete presente

la sindrome di Stendhal? Non me l’hanno diagnosticata… ancora.

Inspiro ed espiro come un mantice, non ho nemmeno un sacchetto di carta per regolare la

respirazione. Per forza, non ho fatto la spesa. Calma., Diletta. Come puoi morire di fame, se ti

fai venire un infarto? Inspira… Espira…

Il cellulare squilla, lo guardo e sul display lampeggia il nome “Camillo il savoiardo”. È lui.

Oddio, mi trovo a ringraziare il regale virus che me lo ha tolto di torno. Il simbolo della cornetta

rossa sul mio telefono mi infonde gioia e libertà. Mi sento felice e libera di mandarlo a… hai

capito.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 92


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Arianna Giannino

“Speranza”

Eppure, un piccolo spiraglio di luce, in tutto questo buio, riesco quasi a vederlo, a percepirlo.

Eravamo una società di egoisti, di gente che correva senza sosta, di apatici manichini. Eravamo

vittime del tempo e del denaro. Eravamo tutta sostanza e poca essenza. Eravamo vuoti, incapaci

di provare qualsivoglia emozione. Avevamo perso ogni principio: famiglia, amicizia, amore.

Dio. Anime assenti, vagavamo a stento nella penombra delle nostre misere vite, nutrendoci soltanto

di odio, di indifferenza e di invidia. Schiavi dei nostri stessi vizi e delle nostre stesse bramosie.

Poi è sopraggiunto il buio e non ha risparmiato nessuno. Gelido e privo di compassione

alcuna. Solo così siamo riusciti a fermarci. E abbiamo iniziato a riflettere, guardando dentro i

nostri cuori. E abbiamo compreso che, se solo avessimo continuato, imperterriti, a percorrere

questo cammino privo di luce, lui ci avrebbe inevitabilmente ingoiati. Ci siamo fermati, e abbiamo

riscoperto un mondo che era stato messo da parte da troppo tempo, ormai. Un mondo che

profuma di vita. Un mondo in cui la gente non cammina per strada a testa bassa, evitando ogni

sguardo. Un mondo in cui la gente sorride e non va mai di fretta. Un mondo in cui non c’è posto

per l’odio, ma soltanto per l’amore. Un mondo in cui un abbraccio e un bacio vengono fervidamente

bramati, quasi fossero i più grandi tesori mai esistiti. Un mondo in cui le famiglie si

ritrovano sedute alla stessa tavola, tutti i giorni. Un mondo in cui la gente non è schiava del

tempo, e nemmeno del denaro. Un mondo in cui ogni nuovo giorno è accolto con commozione,

quasi fosse l’ultimo. Un mondo in cui c’è Dio. Un mondo fatto di luce. Abituatevi a viverci, in

questo mondo. E’ vostro, vi è stato donato, come la vita che avete la fortuna di vivere giorno

dopo giorno. Dopo ogni notte, anche quella più buia e disperata, sorge sempre il Sole. Che il

buio di questa notte vi insegni ad apprezzare la luce di un’alba che non tarderà tanto ad arrivare.

E che questa luce riesca a riempirvi il cuore.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 93


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Francesca Marzano

“Piccola storia vera”

C'è stato un tempo, nella storia dell'umanità, in cui un'orribile e spaventosa minaccia incombeva

sui cuori e sui polmoni di tutti, nel mondo intero.

Si sentiva dire in giro che ci fosse un mostro, che circolava nelle strade, che si attaccava sotto le

scarpe e che volava di bacio in bacio, dalle bocche delle persone e che una volta che ti prendeva

non c'era più scampo.

Così i potenti governanti di tutto il mondo si riunirono in tutta fretta e grattandosi le lunghe barbe

sotto le mascherine che avevano appiccicate sulle bocche concordarono la fine di tutte le

cose.

Tutto si deve fermare!

E così chiusero i negozi di tutto il mondo e anche i bar e persino le chiese. Le persone non si

dovevano incontrare più, le piazze furono svuotate di tutte le panchine, sui gradini dove si sedevano

i giovani vennero sparsi dei cocci di vetro e dei bambini che giocavano al parco in breve

tempo non rimase neanche l'ombra, le giostre a volte si facevano dondolare dal vento e cercavano

di ricordare le loro risa, ma tutto ciò che riuscivano a emettere era un triste cigolio troppo

simile a un lamento.

La polizia e le forze armate giravano per le strade per controllare che tutti fossero ben rinchiusi

nelle loro case, come i secondini di un enorme carcere, si poteva uscire solo per necessità primarie,

dicevano, e gli affetti non erano una di queste, forse perché non costano caro, dico io, o

almeno non quanto le merendine!

Ben presto gli adulti del mondo si abituarono a questa condizione, cominciarono a lavorare da

casa e tutto quello a cui pensavano era che questo brutto mostro non doveva far perdere loro

troppi soldi dalle tasche e si guardavano negli schermi, suonavano le chitarre e ripetevano

sempre "andrà tutto bene".

Ma i bambini, che non sono abituati a pensare con il tempo futuro vedevano che le cose non

andavano affatto bene, avevano nostalgia delle cose piccole, dei sassolini per strada, dei biglietti

raccolti da terra per vedere i segreti delle persone, delle formiche, dei cani, dei gatti randagi

e del rumore dell'auto dei nonni che faceva sentire loro il cuore pieno e vuoto allo stesso

tempo.

Così crearono una rete invisibile, fatta di pensieri e di ricordi, delle ombre che si vedono di notte

e dell'attesa dei regali ancora da scartare.

Poi, tutti insieme, senza neanche comunicarselo, nello stesso momento, ognuno in ogni angolo

di mondo tirò in aria le braccia, i grandi che abitavano con loro interpetarono questo gesto

come una richiesta di essere abbracciati, così interruppero le loro videochat per dedicarsi ai

loro piccoli bambini e cominciarono a sorridere e sprigionarono nel mondo tutta la tenerezza

che solitamente tengono nascosta nei tempi passati.

Quello che non sapevano era che i bambini in realtà stavano solo tendendo la rete invisibile per

catturare la brutta minaccia del mondo...e a quanto pare il loro piano funzionò.

Deserta è la piazza del borgo, avvolta da un magico silenzio, rotto dal tubare

delle colombe, dal cinguettio delle rondini e dal latrare di un cane in lontananza.

Tutto è immobile, non tira un alito di vento e anche il galletto del campanile della

vecchia canonica è fermo, orientato verso occidente. Fa uno strano effetto vedere il

cuore pulsante del paese completamente vuoto, immerso in una solitudine quasi sacra;

parla la sua anima, quella antica, che ognuno di noi custodisce nel cuore.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 94


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Iana De Muro

“La danza delle rondini”

Svaniscono gli ultimi riflessi del giorno, comincia a imbrunire; il sole, ormai prossimo a scivolare

dietro l’orizzonte, lascia un’aura luminosa e, come un pittore, dipinge il cielo di giallo oro che,

mescolato al tenue lilla delle nuvole, suscita una velata malinconia.

Come pensieri in libertà sfrecciano, garrule, le rondini in un’allegra danza. Passano veloci

in due o in tre e poi, all’improvviso, stormi repentini fendono l’aria. Il loro garrito mi riporta

l’eco di passate stagioni quando la piazza era popolata. Chiudo gli occhi per rievocare nei

ricordi quel passato, si affacciano alla mente immagini indelebili, conservate nell’archivio della

memoria e la rivedo nelle varie stagioni , protagonista degli eventi che scandivano la vita paesana.

Nei pomeriggi d’inverno quando ad accompagnarci nelle passeggiate c’erano le caldarroste

fumanti che gustavamo dall’involucro a forma di cono. Durante la festa del santo patrono,

a settembre, la rivedo con le bancarelle dove, per i bambini era d’obbligo comprare il torrone

e lo zucchero filato e poi nelle baldorie dei carnevali e nelle sere d’estate allietate da concerti

e gruppi folkloristici. A Natale con la magica atmosfera dell’Avvento e a Pasqua, quando,

tra campane festanti, si svolgeva l’incontro tra la Madonna e Cristo Risorto. Tantissime sono le

emozioni perché dopo la casa, la piazza, è, per tutti il luogo dove si hanno più ricordi. Quanti

segreti custoditi dal lastricato in granito dove giovani e vecchi camminavano senza stancarsi da

un capo all’altro, in un andirivieni che, a pensarci ora, riempie il cuore di nostalgia. Quanti

sentimenti contrastanti hanno sentito quelle pietre e tutt’ora ne conservano la memoria: discorsi

animati tra amici, pensieri e fremiti d’amore di fanciulle innamorate che lì potevano incontrare il

loro amato.

E mi ritornano in mente le parole di Cesare Pavese del celebre romanzo “La luna e i falò”: “Un

paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di

tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Stasera, in questa piazza deserta, animata

soltanto dalla danza delle rondini, riecheggia un’atmosfera d’altri tempi, quando i vecchi,

seduti nelle panchine discutevano del tempo passato e i giovani, con il pensiero proteso verso

l’avvenire parlavano del domani, spensierati e ciarlieri , ammirando tramonti infuocati e nutrendo

di sogni e desideri ogni imbrunire, nell’attesa trepidante di nuovi giorni nei quali scrivere

la storia della loro vita. Ritorno a casa appagata dalla consapevolezza che a dispetto

del tempo che passa, niente si perde finché il cuore e la memoria custodiscono ricordi.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 95


Italia Poetica

Buona fortuna.

I Quaderni della Rinascita. Racconti. 96

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