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Rassegna trimestrale
Supplemento al n. 10/2016
di Orizzonte Magazine
di Studi Tradizionali
Anno 5 n. 3
Ottobre 2016
Una pubblicazione
1
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3
LIBRERIA
ROMA
Specializzata in filosofia, esoterismo, magia,
yoga, medicina e alimentazione naturale,
simbolismo, alchimia, massoneria,
templarismo, filosofie orientali, antroposofia,
teosofia, astrologia.
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tel.: 080 5211274
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Rassegna trimestrale
di Studi Tradizionali
ANNO 5 n. 3
Ottobre 2016
Supplemento al n. 10/2016 di
Orizzonte Magazine
Reg. trib. di Bari n° 19/2014
Direttore Responsabile
Franco Ardito
Redazione
via G. Colucci, 2
70019 Triggiano (BA)
OUROBOROS è sfogliabile
gratuitamente on-line al link
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non inferiore a 300 ppi
IN QUESTO NUMERO PARLIAMO DI:
7
Al
8
Il
26
La
30
I
36
Medicina
42
La
50
I
di là del Bene e del Male
Editoriale
femminile nelle fiabe
di Stella D'Oronzo
Morte
di Aldo Tavolaro
Beati Paoli
di Gandolfo Dominici
e ritualità
di Paolo Maggi
Sezione Aurea
di Franco Ardito
Catari
di Rino Guadagnino
Tutti i diritti sono riservati.
Nessuna parte della pubblicazione
può essere riprodotta,
rielaborata o diffusa
senza espressa autorizzazione.
della Direzione.
La collaborazione
avviene dietro invito.
Articoli e materiali non si
restituiscono. La Direzione
si riserva di adattare testi e
illustrazioni alle esigenze
della pubblicazione.
Le opinioni espresse
negli articoli impegnano
solo gli autori e non
coinvolgono né rappresentano
il pensiero della
Direzione
In copertina:
"Il Rebis, chiamato anche Androgino", tratto
da "The Vessels of Hermes – an Alchemical
Album", 1700 circa. Raccolta Manly
Palmer Hall.
5
Franco Ardito - Simona Ardito
Castel del Monte: Il Grembo della Vergine
Castel del Monte è un concentrato di applicazioni astronomiche, geografiche, matematiche e geometriche,
un inspiegabile condensato di simboli, di segni, di formule. Si dà per scontato che lo abbia fatto costruire
Federico II ma è quasi certo che l’Imperatore non vi soggiornò mai. E’ assolutamente inadatto ad essere
abitato e non è ancora chiaro per quali motivi sia stato costruito né chi abbia inteso impegnare per la sua
costruzione tanto denaro, energie e sapienza. E poi l’acqua: nella vasca monolitica che era nel cortile, nelle
cisterne sulle torri, nel pozzo sotto il castello, quasi a proteggere il visitatore come in un grembo...
6
E' possibile acquistare il libro Castel del Monte il grembo della vergine al link:
http://www.orizzontemagazine.it/shopping/categoria-prodotto/libri-e-riviste-nuovo/
O t t o b r e
S
AL
DI LA' DEL BENE E DEL MALE
pesso si sente dire che Bene e Male sono due facce della
medesima medaglia, ma non è esatto: si tratta di una
concezione approssimativa che non rende ragione della realtà.
Dare uno schiaffo a chi mi ha insultato, per me sarà bene
ma per chi lo riceve sarà male; il gesto è lo stesso ma cambia
valenza a seconda del punto di vista, non parliamo più di
facce diverse di una stessa medaglia, quindi, ma di diversi
modi d'interpretare la medaglia medesima.
Del resto nel Libro della Genesi si legge: Dio il Signore ordinò
all’uomo: ‘Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dell’albero
della conoscenza del bene e del male non ne mangiare’ (Gn 2:16,17).
Il Bene e il Male sono racchiusi in un solo albero, che non
ha due facce ma corrisponde ad un'unica entità; e allora che
senso ha chiedersi come mai il Dio degli ebrei consenta il
Male? Non può fare diversamente, poiché Male e Bene sono
un unicum inscindibile, legati l'uno all'altro per poter esistere;
chi nutre intenzionalmente il Bene, nutre inconsapevolmente
anche il Male.
Ne deriva dunque che Dio - Essere perfettissimo, infinito
ed eterno - è buono e cattivo a un tempo; considerarlo come
presidio del Sommo Bene, in contrapposizione a Satana,
inteso come Signore del Male, è un non senso: significherebbe
ledere la sua Infinità. Due Esseri contrapposti non sono
infiniti, e inoltre Satana diventerebbe un'entità con le medesime
prerogative di Dio.
Così non può essere. Il Bene e il Male hanno entrambi sede
in Dio; e poiché Egli creò l'uomo a sua immagine e somilianza,
hanno ugualmente sede nell'uomo. Il problema, quindi,
non è che il Bene prevalga sul Male, ma che queste due
entità siano in equilibrio, in quanto nessuna delle due può
esistere senza l'altra. E' questo il motivo per il quale è necessario
costruire oscure e profonde prigioni al vizio ma non bisogna
eliminarlo; una bilancia funziona solo se ha due piatti, che
possono raggiungere quell'equilibrio che con un piatto solo
sarebbe impossibile.
7
Il femminile
nelle fiabe
di Stella D'Oronzo
8
O
gnuno di noi ha fatto
esperienza, direttamente
come affascinato uditore e, crescendo,
come narratore, del mondo
fiabesco. Avere ascoltato, incantati
dalla voce di un adulto, i fantastici
intrecci della fiaba è un vissuto che
accomuna quasi tutti i bambini. Così
come spesso accade che quegli stessi
bambini, crescendo, si ritrovino ad
essere degli adulti che, come voce
narrante, accompagnano
i propri figli o nipoti nel
mondo della fantasia, riproponendo
a loro volta le fiabe
che da piccoli più li avevano
affascinati, ritrovando in esse e
negli occhi di chi ascolta la stessa
tensione, lo stesso sguardo stupito e
le stesse emozioni.
Le fiabe sono una forma di narrazione
presente in tutte le culture, hanno
fondato le comunità di ogni paese e
di ogni tempo, esistono infatti in ogni
cultura, fiabe che contengono temi e
storie molto simili, che fanno pensare
all’impossibilità che ci sia stata una
comunicazione di qualsivoglia tipo tra
i narratori. “Già nelle opere di Platone
leggiamo che le vecchie raccontavano ai
bambini storie simboliche, dette Mythoi.
Fin da allora dunque le fiabe erano connesse
con l’educazione dei bambini” (Maria
Luisa von Franz, Le fiabe interpretate,
pg. 3). A cosa deve la fiaba questa sua
universale diffusione?
9
Nella foto:
Burne Jones,
La bella addormentata,
1880.
10
E’ sempre la Von Franz a fornire
una risposta a questo interrogativo,
affermando che “Le fiabe sono l’espressione
più pura e semplice dei processi
psichici dell’inconscio collettivo. Per l’indagine
scientifica dell’inconscio esse valgono
perciò più di ogni altro materiale. Le fiabe
rappresentano gli archetipi nella forma più
semplice, genuina e concisa… ci offrono i
migliori indizi per comprendere i processi
che si svolgono nella psiche collettiva” (M.
L. Von Franz,
Le fiabe interpretate).
“L’inconscio
collettivo consta
di contenuti che
rappresentano il
deposito dei tipici
modelli di reagire
dell’umanità fin dai
suoi primi inizi –
indipendentemente
da differenziazioni
storiche, etniche o
di altro genere – in
situazioni di natura
genericamente umana,
quali la paura,
il pericolo, la lotta
contro le forza superiori,
le relazioni
fra i sessi o fra figli e
genitori, le figure del
padre e della madre,
il comportamento
di fronte all’odio e
all’amore, alla nascita
e alla morte, la
potenza dei principi
dell’oscurità e della luce" (J. Jacobi, La
Psicologia di Jung, pgg. 22-23).
Il motivo della loro diffusione
universale è quindi nella capacità di
raccontare quello che non può essere
narrato se non attraverso simboli e
allegorie, in un linguaggio atemporale
e collocato in un altrove.
La fiaba sulla quale desidero soffermarmi,
è una fiaba tedesca raccolta
dai fratelli Grimm: Rosaspina, o la
bella addormentata nel bosco.
«C’erano una volta un Re e una Regina
che non avevano figli e ogni giorno dicevano:
“Ah, se avessimo un bambino!”. Ma
il bambino non veniva mai. Un giorno,
mentre la Regina faceva il bagno, vide
saltar fuori dall’acqua una rana, che le
disse: "Il tuo desiderio si compirà, prima
che sia trascorso un anno, darai alla luce
una figlia".
La profezia della rana si avverò e, passato
il tempo previsto, la Regina partorì
una bimba, tanto bella che il Re non stava
in sé dalla gioia. Indisse una gran festa,
alla quale invitò parenti, amici, conoscenti
e anche le fate, affinché fossero propizie e
benevole verso la neonata, a cui era stato
dato il nome di Rosaspina. Nel regno ce
n’erano tredici ma la reggia disponeva solo
di dodici piatti d’oro per il pranzo, per cui
una delle fate non fu invitata e dovette
restarsene a casa.
La festa fu celebrata con gran pompa;
quando stava per terminare le fate
offrirono alla bimba i loro doni: la prima
le donò la virtù, la seconda la bellezza,
la terza la ricchezza, e così via, porgendo
alla piccola principessa tutto quel che si
può desiderare al mondo.
Undici fate avevano già formulato il loro
augurio, quando improvvisamente giunse
la tredicesima. Irritata per non essere
stata invitata entrò nella sala dove si stava
svolgendo il ricevimento e, senza salutare
né guardare nessuno, disse ad alta voce: "A
quindici anni la principessa si pungerà con
un fuso e cadrà a terra morta". Quindi, senza
aggiungere altro, voltò le spalle e lasciò la
sala. Fra la gente atterrita, si fece avanti la
dodicesima fata, che doveva ancora formulare
il suo voto; non poteva annullare il
crudele decreto, ma poteva mitigarlo e disse:
“La principessa non morirà ma cadrà in
un sonno profondo che durerà cent’anni”.
La profezia si avverò: la ragazza si punse
con un fuso e cadde in un sonno profondo
che coinvolse tutta la corte.
La notizia si sparse rapidamente; la
bellezza di Rosaspina era ben nota per cui
negli anni seguenti molti principi tentarono
di attraversare la barriera di rovi che si
era creata intorno al castello, per cercare
di svegliarla; tuttavia nessuno vi riuscì: i
rami erano troppo intricati perché qualcuno
potesse vincerli.
I cento anni di
sonno stavano per
compiersi quando
un ennesimo
principe arrivò nel
paese; aveva sentito
raccontare la storia
della principessa e
della corte addormentata
insieme a
lei, e aveva deciso
di salvarla. Giunto
al roveto che circondava
il castello,
anziché incontrare
una barriera di
spine trovò soltanto
una siepe fiorita,
che spontaneamente
si separò per lasciarlo
passare, congiungendosi
poi alle sue
spalle. Nel cortile
del castello egli vide
cavalli e cani che
dormivano sdraiati
al suolo quindi, proseguendo,
raggiunse
il salone delle feste, dove il Re e la Regina
giacevano addormentati, e con loro tutta
la corte.
Il principe andò oltre, il silenzio era
tale che udiva solo il proprio respiro;
finalmente giunse alla torre e aprì la porta
della stanzetta in cui giaceva Rosaspina.
Era così bella che il giovane non riusciva a
distoglierne lo sguardo; le si accostò e, chinandosi,
non potè fare a meno di baciarla.
A quel bacio Rosaspina aprì gli occhi e si
11
12
svegliò, guardandolo sorridente.
La fiaba si conclude con le nozze del
principe e di Rosaspina, che da quel momento
vissero insieme felici e contenti.»
Nel suo saggio la Von Franz sostiene
che il motivo centrale di Rosaspina
risale ad un'epoca molto antica
ed ha avuto notevole diffusione e
pochissime varianti. La fiaba è stata
quindi tramandata sostanzialmente
inalterata fino al film di animazione
di Walt Disney, che nel 1959 fece conoscere
al mon- do uno dei suoi
più grandi successi: La Bella
addormentata nel bosco.
Il car-
tone riporta
fedelmente
quanto narrato nella fiaba: la
fata esclusa, con una cattiveria che
agli occhi di tutti sarà certo sembrata
fuori misura e sproporzionata rispetto
all’offesa, punisce il Re attraverso
la sua bambina, condannandola ad
un sonno simile alla morte. In questa
fiaba quindi si riscontrano tanti topoi:
una nascita miracolosa annunciata
da una rana, una presenza femminile
(Aurora) che non ha ombre e lati
oscuri, ma che anzi, appare sostanzial-
mente appiattita e priva
di contrasti, e l’esclusione di
una Dea. La Von Franz asserisce
che il motivo della Dea
dimenticata è anch’esso archetipico,
e a questo proposito tale
frangente della fiaba ricalca
moltissimo, a mio parere, l’episodio
della Dea della vendetta
Ate, che, infuriata per non essere
stata invitata al banchetto di nozze
di Peleo e Teti, compare solo per donare
una
mela
d’oro
recante la
scritta “Tei Kallistei”
(Alla più
bella). L’episodio,
come sappiamo,
giungerà a provocare,
nel mito, la
guerra di Troia.
Unica differenza nel
film d’animazione rispetto alla
fiaba classica è che per la prima
volta la fata cattiva ha un nome:
Malefica. Ella si configura quindi
come la Madrina cattiva,
rintracciabile in altre storie.
Ma perché esiste tale figura?
E da dove sorge la rabbia
incomprensibile della fata
cattiva? La madrina cattiva
rappresenta un tipo di
femminile avverso e ostile
al femminile. Secondo la
Von Franz “nella nostra
civiltà ebraico-cristiana, cioè in una tradizione
rigidamente patriarcale, l’immagine
della donna non trova una rappresentanza
adeguata, nemmeno nel culto mariano.
Come diceva Jung scherzosamente, ella
non ha rappresentanti nella Camera Alta.
E’ come dire che è trascurata l’Anima
dell’uomo e la donna reale è incerta sulla
propria essenza, su ciò che è o che potrebbe
essere. Così per la donna si prospettano
due vie: o regredire al modello primitivo
ed istintivo e aderirvi strettamente, per
proteggersi dalla pressione esercitata su di
lei dalla civiltà, oppure cadere in un atteggiamento
di Animus, identificarsi con esso
totalmente e cercare di costruire un’immagine
maschile di se stessa, per compensare
l’insicurezza che sente dentro di sé sulla
sua natura." (M. L. Von Franz, Il femminile
nella fiaba, pg 10).
Non è un caso, a mio parere,
che ad oggi le dinamiche non siano
cambiate di molto. Assistiamo infatti
sempre più di frequente ad un’inversione
di tendenza: le donne che, dalla
maggior parte dell’opinione pubblica
e del sentire comune, vengono considerate
“vincenti” e “ispiratrici” sono
quelle più integrate nel tessuto sociale
ma soprattutto lavorativo, quelle che
hanno costruito un immagine maschile,
che sposa in toto l’idea che ad
oggi abbiamo di “successo”.
A questo punto è bene precisare
cosa Jung intenda per gli archetipi di
Animus e Anima. “Ciascuna di queste
figure archetipiche dell’immagine dell’anima
rappresenta la parte della psiche che
ha attinenza col sesso opposto e indica
sia la conformazione del nostro rapporto
con esso, sia il deposito dell’esperienza
collettiva umana al riguardo. E’ dunque
l’immagine dell’altro sesso che portiamo
in noi, come esseri singoli e come appartenenti
alla nostra specie. Secondo la legge
endopsichica, tutto ciò che nella psiche vi
è di latente, di non vissuto, di indifferenziato,
tutto ciò che si trova ancora nell’inconscio,
e quindi anche l’Eva dell’uomo
come l’Adamo della donna, è proiettato.
Per conseguenza si sperimenta il proprio
fondamento eterossessuale primigenio in
un altro, si sceglie un altro, ci si lega ad
un altro, che rappresenta le proprietà della
nostra anima." (J. Jacobi, pg 143).
E poi ancora: “La prima portatrice
dell’immagine dell’anima è sempre la
madre, più tardi sono quelle donne che
eccitano il sentimento dell’uomo, non
importa se in senso positivo o negativo. Il
distacco dalla madre è uno dei principali
e più delicati problemi della formazione
della personalità, soprattutto dell’uomo.
I primitivi posseggono tutta una serie di
cerimonie ed iniziazioni maschili (…).
L’europeo deve invece fare la conoscenza
13
della parte femminile, o maschile, della
sua anima acquistandone consapevolezza
(…). In conseguenza dell’orientamento
patriarcale della nostra civiltà occidentale,
anche la donna è più incline a dare
maggior valore all’elemento maschile che a
quello femminile, e ciò contribuisce molto
a rafforzare il potere dell’Animus. Tanto
l’Animus quanto l’Anima, rivestono due
forme fondamentali, la figura luminosa
e l’oscura, la superiore e l’inferiore, con
segno ora positivo ora negativo. Esseno
mediatore tra il conscio e l’inconscio, l’Animus,
secondo la natura del Logos, pone
l’accento sul conoscere e specialmente sul
capire." (J. Jacobi, pg 148).
Ritornando quindi alla figura
della fata cattiva, essa rappresenta
la dea-madre, è la personificazione
dei sentimenti feriti e inaciditi, il
latte che diventa acido. Ciò illumina
un problema tipico della psicologia
femminile: in moltissimi casi le
sofferenze della donna derivano da
una reazione archetipica che consiste
nel non sapere superare una ferita, un
rancore o un cattivo umore dinanzi
ad una delusione nella sfera dei sentimenti.
Questa reazione la sommerge
e spalanca le porte a quanto vi è in
lei di aspro, agli attacchi cioè del suo
Animus. Le donne con un complesso
materno negativo sono più inclini
delle altre a questo genere di reazione,
perché hanno un grandissimo bisogno
del calore e dell’attenzione che
non hanno trovato a sufficienza nella
madre. Una donna con un complesso
materno negativo è continuamente
minacciata da questa amarezza (M.
Luise Von Franz, Il femminile nelle
fiabe pg 37).
Ma qual è la ferita nel caso di Malefica?
La fiaba, abbiamo detto, trova
nel mancato invito alla festa il motivo
che spingerà la fata a perpetrare
14
la sua vendetta. Nel 2014 la fiaba
di Rosaspina è stata oggetto di una
riuscitissim rinarrazione ad opera di
Stronberg e Woolverton, che hanno
dato vita al film Maleficent.
«Lasciate che di nuovo vi narri una
vecchia storia. E si vedrà quanto bene la
conosciate - è l’incipit del film - C’erano
una volta due regni vicini ed uno era il
peggior nemico dell’altro. Si diceva che
la discordia tra loro fosse così profonda
che solo un grande eroe o un vero cattivo
avrebbe potuto farli riavvicinare. In uno
dei due regni vivevano persone come voi
e come me, governate da un Re vanesio e
avido. Esse erano sempre scontente e invidiose
della ricchezza e della bellezza del
regno vicino. Perché nell’altro regno, nella
Brughiera, vivevano innumerevoli, strane
e prodigiose creature a cui non servivano
né Re né Regine, perché si fidavano l’uno
dell’altro. Dentro un grande albero, su un
imponente rupe, nella Brughiera, viveva
uno di questi spiriti. Si potrebbe scambiare
per una ragazza, ma lei non era solo una
ragazza. Lei era una fata».
Compare quindi Malefica come
mai nessuno se la aspetterebbe. E’
una ragazzina particolarmente bella,
sorridente, ha ali maestose e corna.
Vola sulla Brughiera facendo scherzi
e curando, con il solo tocco, la natura
circostante.
Il suo primo contatto col mondo
degli uomini avviene a causa di
Stefano, il primo che osa entrare nella
Brughiera; è un ragazzino orfano che
valica il limite imposto tra i due mondi
solo per rubare una gemma. Malefica
non desidera punirlo, lo invita a
lasciare quanto preso e ad andar via
senza fare ritorno.
Si salutano, ma nel farlo l’anello
di ferro di Stefano brucia Malefica
la quale, in quanto fata, non può
toccare il ferro, perché è simbolo del
15
16
maschile, delle armi, del potere. Il
ragazzino non esita a buttare l’anello,
nonostante fosse una delle poche cose
in suo possesso. E fu così che «Stefano
e Malefica divennero i più improbabili degli
amici, e per un periodo sembrò che, almeno
per loro, l’antica ostilità tra gli umani e le
fate fosse ormai dimenticata. Come spesso
succede, l’amicizia lentamente si trasformò
in qualcos’altro. E nel giorno del sedicesimo
compleanno di Malefica, Stefano le fece
un dono: le disse che era il bacio del vero
amore, ma non sarebbe stato così».
Se infatti da parte di Malefica c’è
la disponibilità e la voglia di lanciarsi
nell’ignoto, e quindi di diventare
“preda” del vero amore, per Stefano
le cose sono diverse. Per lui quel bacio
non è un’epifania, non lo dispone
al contatto con la sua “anima” e con
un mondo naturale a lui ignoto. Egli
è troppo preda del mondo e delle
ambizioni terrene degli umani per
permettere che questo avvenimento
faccia da ponte tra i loro mondi, tra il
mondo materiale e il mondo dell’immateriale,
tra il mondo del ferro e
quello della natura. Egli ormai è cresciuto
e troppo forti ed insistenti sono
i richiami alla ricchezza, al possesso
e alla vanagloria. Così i due ragazzi
crescono in due modi diversi: Stefano
sempre più legato alle vicende del suo
Regno e a un Re avido e desideroso
di imporre il suo dominio anche sul
mondo fatato; Malefica sempre più
compenetrata nel suo mondo e nel
suo ruolo di guardiana della Brughiera.
Lei è Artemide, e per questo
è sola per natura (M. Gancitano,
Malefica, pg. 37).
Il gesto di Stefano ormai ha aperto
una breccia che non è più possibile
richiudere e sarà proprio lui
ad aiutare il re nel suo desiderio di
conquista. Pur di essere designato
come successore al trono si offre di
sconfiggere Malefica, e lo fa ritornan-
do alla Brughiera, addormentandola
con un sonnifero e tagliandole le ali.
Quando ella si sveglierà e scoprirà
l’accaduto urlerà; “è un urlo che riporta
a galla tutto il dolore accumulato nella
storia a causa del tradimento, non solo
dell’uomo nei confronti della donna, ma
dell’uomo nei confronti della propria parte
spirituale (femminile)” (M. Gancitano)
ma anche, a mio parere, dell’uomo
nei confronti della propria Anima.
In seguito Malefica si rialza, il
dolore è fortissimo ma ella accetta
la sua nuova condizione e ritrova la
dignità. E' cambiata, e con lei tutta
la Brughiera, che all’improvviso è
diventata un territorio grigio, ostile
e freddo. In lei è morto qualcosa, la
ferita è troppo grande e troppo profonda,
è ormai preda dell’Animus.
La fata cattiva, secondo la von
Franz, incarna un aspetto della deamadre
che esisteva in molte civiltà
antiche e primitive, ma è stato largamente
dimenticato nella nostra civiltà:
quello del principio femminile di
severità e vendetta, che non coincide
con il corrispettivo atteggiamento
maschile. “Quando pensiamo ad una
punizione – la vendetta è una forma
primitiva di castigo – siamo abituati a
pensare a leggi stabilite, alla loro violazione
e alle pene comminate. Fare leggi e
decidere in quali pene incorrono coloro che
non le osservano è un modo maschile di
affrontare il problema della giustizia. Le
nostre leggi sono basate sul codice romano
e sulla mentalità patriarcale, al punto che
noi consideriamo generalmente la punizione
come qualcosa che riguarda il mondo
maschile, mentre la carità e la tendenza
ad ammettere eccezioni sarebbero legate al
principio femminile (…). Si potrebbe dire
che la legge, come noi la concepiamo da un
punto di vista maschile, è legata al principio
del Logos; essa corrisponde all’idea
fondamentale che un ordine debba regnare
nella famiglia e nella società. A questo
17
scopo vengono stabilite regole e coloro che
non vi si attengono vengono puniti. Ma vi
è un altro principio femminile di giustizia,
di vendetta e di castigo, che avvicinerei
al carattere vendicativo della natura. La
natura è rigida, severa e crudelmente vendicatrice.
In natura non esiste né giudizio
né regola, ma semplicemente, esprimendoci
in termini mitologici, la vendetta del
lato oscuro della Dea. Le donne tendono
a non dare molta importanza ai principi
della giustizia e della legge, ma a reagire
istintivamente a quanto loro dispiace: una
reazione questa, simile a quella della natura.”
(M. Gancitano, cit.)
La sua occasione di vendetta, Malefica
la troverà quando Fosco, il suo
messaggero, la informerà della nascita
di una bambina a corte. Ormai da tempo
Malefica ha deciso di utilizzare
i suoi poteri non più per
essere guardiana
del monbene
qual è il motivo del suo arrivo.
“Stefano ha rifiutato la propria vocazione
per avere un posto nel mondo, la carica
più alta del suo regno. A livello psicologico,
l’unico modo per poter ottenere questo
era uccidere la parte più autentica di sé,
quella creatura ribelle e selvaggia, profonda
e protettiva che si chiama Malefica.
Ella rappresenta il suo fallimento, la sua
possibilità mancata, il suo desiderio di
potere che ha vinto sul desiderio di ricerca
della verità” (M. Gancitano, pg 47-48).
Appare evidente che quello che
Stefano fa individualmente è stato da
secoli fatto a livello collettivo; è come
se l’ontogenesi riproponesse la filogenesi.
Il patriarcato e le grandi religioni
monoteiste hanno spazzato via il
culto della Dea Madre, e se, secondo
la Von Franz, “nel mito il maschile è
riuscito a incarnarsi pienamente in un
figlio umano, la Dea Madre antica non
è riuscita a farlo. Anche nell’ambito della
religione cristiana Dio si incarna nel Cristo,
ma la vergine Maria non ha
alcun collegamento
con una
do
magico
e buona madre
delle creature della foresta,
ma per soddisfare il suo grande,
smisurato desiderio di vendetta.
Quando compare a corte, tutti i
presenti sono scossi da un brivido.
Lei rappresenta tutto quello che
Stefano e gli uomini si sono sforzati
di dimenticare, tutto quello che il
mondo maschile teme e che per questo
vorrebbe far sparire. Il re quindi
non si è dimenticato di invitarla, e sa
18
qualche divinità femminile”.
L’unica figura femminile riconosciuta
nella storia del Cristianesimo
è la Madonna, che d’altronde, risulta
“epurata” da qualsiasi tratto o caratteristica
ostile; non ha più nulla della
ferocia delle divinità femminili della
storia, non ha alcuna ombra, nessuna
oscura attribuzione. Privata di qualsiasi
istintualità e di qualsiasi ombra,
ella è “sottomessa” alla divinità maschile,
e le viene riconosciuta, come
madre misericordiosa, la possibilità
di mediare con la divinità.
Scrive Clarissa Pinkola Estes: “La
fauna selvaggia e la donna selvaggia sono
specie a rischio. Nel tempo abbiamo visto
saccheggiare, respingere, sovraccaricare la
natura istintiva della donna. Per lunghi
periodi è stata devastata, come la fauna e
i territori selvaggi. Per alcune migliaia di
anni, e basta guardarsi indietro perché la
visione si ripresenti, resta relegata nel più
misero territorio della psiche. I territori
spirituali della Donna Selvaggia,
nel corso della storia,
sono stati
spogliati o bruciati, le caverne distrutte,
i cicli naturali costretti a diventare ritmi
innaturali per compiacere gli altri. Non
a caso le antiche lande del nostro pianeta
scompaiono a mano a mano che svanisce
la comprensione della nostra intima natura
selvaggia. Non è poi tanto difficile da
comprendere come mai le foreste antiche e
le donne anziane sono considerate risorse
di scarsa importanza. Non è un mistero
insondabile. Non è mera coincidenza se
i lupi e i coyote, gli orsi e le donne un po’
selvagge godono di una reputazione simile.
Tutti si rifanno ad archetipi istintuali fra
loro connessi, e pertanto sono erroneamente
considerati privi di grazia e gentilezza,
totalmente e istintivamente pericolosi e
rapaci”. (Clarissa Pinkola Estès, Donne
che corrono coi lupi).
Stefano ripercorre lo stesso processo:
priva Malefica dei
suoi attributi magici
(il taglio
delle
ali è estremamente
simbolico), priva la fata
quindi del suo “divino”, della sua
natura selvaggia e della sua potenza,
e la dimentica. È convinto che una
volta resa inoffensiva essa non nuocerà
più, non avrà più alcuna influenza
sul mondo del materiale, sul mondo
dell’uomo. Ma si sbaglia.
Malefica infatti decide di fare un
dono ad Aurora, nell’esprimere il
quale è ammantata da una luce verde
19
20
che ben rappresenta il suo stato d’animo:
al compimento del suo sedicesimo
anno la principessa si pungerà
con un fuso e cadrà in un sonno simile
alla morte, dal quale verrà destata
solo dal bacio del vero amore.
E' a questo punto che Malefica finisce
con l'incarnare il materno cattivo,
il femminile avverso al femminile.
In preda all’Animus
ella finisce per
compiere un gesto
patriarcale, diventa
essa stessa maschile,
rendendosi capace
di un gesto che altro
non è che lo specchio
della ferita subita.
Ma perché il
fuso? Quale significato
riveste? Anche
in questo caso è la
Von Franz ad illuminarci,
affermando
infatti che anch’esso
è un simbolo femminile:
«Nella Germania
medioevale si parlava
della parentela del fuso
per designare la famiglia
materna. Esso era
anche l’emblema di
Santa Gertrude, cui si
ascrivevano le qualità
delle dee madri precristiane:
Freia, Hulda,
Perchta e altre. Inoltre
il fuso è simbolo della
vecchia saggia e della
strega. Anche la semina,
la filatura e la tessitura del lino sono
legate all’essenza della vita femminile, con
le sue implicazioni di sessualità e fertilità.»
Nella nostra storia il fuso è l’analogo
della spina o dell’ago di molti racconti
popolari; psicologicamente una
parola pungente può effettivamente
uccidere. l’osservazione tagliente è
la forma abituale dell’aggressività
femminile e dell’Anima. Generalmente
le donne non sbattono la porta,
non imprecano, ma lanciano qualche
osservazione sottile; è la ferita della
strega che colpisce precisamente
il punto debole dell’altro. La fiaba
denuncia un complesso materno,
più esattamente l’Animus negativo
materno, poiché la vecchia filatrice è
una specie di madre o nonna e il fuso
rappresenta l’Animus della madre.
Re Stefano reagisce come nella
fiaba classica, sequestrando e distruggendo
tutti gli arcolai del regno
e bandendone il possesso. Allontana
Aurora dalla reggia e, per farla vivere
in un posto sicuro e al riparo, egli
ritiene, da pericoli la affida a tre fate,
alle quali dona sembianze umane.
All’inizio Malefica sorveglia la
imba da lontano, quasi incuriosita,
ma le fate scelte dal re sono sbadate
e senza la presenza di Malefica e del
suo messaggero Fosco la bambina
non sopravvivrebbe. Mentre il Re si
rintana nel castello, preda dei suoi
desideri di vendetta e di distruzione,
Malefica continua ad osservare da
lontano Aurora che cresce, e questo
non può non cambiarla. Riprende a
guarire alberi e abitanti della Brughiera,
e quando la bimba le si avvicinerà
e le chiederà di essere presa in braccio,
indugiando sulle sue corna e sul
suo viso, Malefica sarà disorientata.
Questo gesto sarà l'inizio di una
relazione profonda e bizzarra tra la ragazza
e la fata, che qualche anno prima
l’aveva condannata. Quando Aurora
comincerà a chiedersi cosa possa nascondersi
oltre il limite della Brughiera,
sempre presidiato dai soldati del re,
la strega l’addormenterà e la porterà
nel suo regno, dove scoprirà quanto la
ragazza incarni un perfetto ponte tra i
due mondi. Aurora si accorgerà della
presenza della fata e la inviterà a farsi
avanti e a mostrarsi, chiamandola Fata
Madrina; la conosce
già, perché l’ombra
di Malefica l’ha
seguita passo passo
per tutti quegli anni.
Il tempo passa in
fretta, ormai Aurora
si muove nella Brughiera
e stabilisce
senza difficoltà un
contatto con tutte le
forme di vita che la
abitano. Nonostante
le resistenze iniziali
il legame è saldo e
Malefica decide di
revocare la maledizione;
mentre la ragazza
dorme prova
a spezzare l’incantesimo,
ma si accorge
che non è nei suoi
poteri annullare
quanto decretato. Invita
allora la ragazza
a vivere con lei nella
Brughiera, illudendosi,
come già era
successo al re, che
questo basti ad evitarle
il suo destino.
Così accade che gli eventi prendano
il loro corso: Aurora corre a casa
delle zie (le tre fate) per comunicare
loro la sua decisione di vivere nella
brughiera, sulla strada incontra Filippo
e fra i due nasce un'immediata
simpatia. Tutto accade così come doveva
essere; le zie per sbaglio mettono
a conoscenza Aurora della maledizione
e la ragazza corre al castello
21
per riabbracciare il padre. E' proprio
il giorno del suo sedicesimo compleanno
e Aurora per caso si punge
con un fuso, piombando in un sonno
profondo, simile alla morte. Il bacio
che la desterà, però, non sarà di Filippo,
portato al castello da Malefica
e Fosco nella speranza che egli possa
essere il vero amore, ma quello datole
da Malefica, piangente accanto a lei.
Dopo varie peripezie, anche nel
film si giunge al lieto fine: Aurora
aiuterà Malefica a riconquistare
le sue ali, conservate in una teca a
palazzo, il Re alla fine di una strenua
battaglia crollerà sconfitto e Aurora
diventerà l’artefice dell’unificazione
dei due regni, sui quali governerà
senza desiderio di potere.
Di questa versione cinematografica
di Rosaspina ci sono diversi aspetti
degni di nota. Il fatto stesso che
qualcuno abbia pensato alla rinarrazione
di una fiaba così classica e così
antica, riscontrando notevole successo
da parte del pubblico, credo che
possa indicare che forse i tempi per
una riflessione più matura e consapevole
del ruolo del femminile nella
società possano essere maturi.
Penso inoltre che molti avvertissero
un senso di incompiutezza di
fronte ad una favola in cui esiste una
cattiva paradossalmente cattiva, e un
eroe che, come impresa, non deve far
altro che attraversare una siepe fiorita.
E che Malefica salvi Aurora, la
donna salvi la donna, è anche estre-
22
mamente significativo.
Nell’analisi della Von Franz, e in
una prospettiva individuale, la storia
di Rosaspina è quella di un complesso
materno negativo della donna, e dal
punto di vista maschile, dell’uomo nel
quale l’Anima si è addormentata. La
conclusione alla quale giunge la versione
cinematografica è invece diametralmente
opposta: è una donna che
salva la donna, suggerendo che solo
l’incontro, lo scontro e la successiva
integrazione delle parti in “ombra”, in
questo caso dell’Animus e dell’Anima,
a seconda che si sia uomo o donna,
possa portare alla vera armonia psichica
che consente di comportarsi in
accordo con le proprie leggi interne.
Viviamo in una società che della
donna propugna due modelli agli
antipodi. Da una parte la donna
“mascolinizzata” e integrata, che
ha rinunciato a parte della sua vera
natura pur di poter essere riconosciuta,
e che spesso imita, quasi scimmiotta
il maschile. Dall’altro lato c'è
una donna sempre più “oggetto” e
“specchio” dell’immagine che di lei
ha l’uomo; oggetto nelle pubblicità,
oggetto nell’immaginario collettivo,
oggetto purtroppo di tanti, troppi
episodi di cronaca nera.
Forse è giunto il momento di dare
voce a quel femminile del quale tutti
abbiamo cercato di dimenticarci, e che
rappresenta una parte autentica di noi,
che è possibile e necessario integrare,
per noi e per le prossime generazioni.
23
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25
la morte
di Aldo Tavolaro
L'
uomo ha sempre avuto paura
della morte e non gli si può
dare torto: è un salto nell'ignoto, ancor
più pauroso per la trasformazione
fisica che comporta. Di conseguenza,
in ogni tempo e in ogni luogo l'uomo
ha cercato di esorcizzare questa
paura ponendo, al di là del trapasso,
nuove e diverse residenze.
Cos', mettendo in moto la fantasia,
i Caldei hanno individuato Pardes, gli
Indù Meru, gli Iperborei Uttarakura, i
Teutonici il Walhalla, il tempio celeste
dove le Valkirie accompagnavano i
guerrieri morti in battaglia affinché
vi pranzassero con Odino, bevendo
birra e idromele.
Per i Musulmani questo posto è
Qâf, luogo di delizie popolato dalle Urì,
splendide fanciulle destinate al sollazzo
26
dei trapassati merirtevoli. I Cristiani
sono più pignoli: i buoni vanno in
Paradiso, i cattivi all'Inferno e quelli
così così fanno un corso di riparazione
in Purgatorio. L'importante è inventarsi
qualcosa che plachi la pauta.
Comunque non tutti hanno paura
della morte. Socrate la considerò
una liberazione, e chiese a Critone di
offrire un gallo a Esculapio in segno
di ringraziamento.
Secondo Baudelaire neanche i
poveri hanno paura della morte, anzi
per loro "è la Morte che consola, ahimé, e
che fa vivere; è lo scopo della vita, è la sola
speranza che, come un elisir, ci trasporta e
c'inebria, e ci dona il coraggio di arrivare
alla sera; attraverso la tempesta, e la neve,
e la brina, è il lume palpitante sull'orizzonte
nero; è la locanda famosa, segnata
27
Nell'immagine:
Eugène Delacroix,
La morte di Sardanapalo.
28
sulla guida, dove si potrà mangiare, e sedere,
e dormire..."
La disperazione per la morte è
maggione nei ricchi che, per la loro
avidità, rimpiangono i beni che
lasciano. Emblematica è la leggenda
di Sardanapalo (Re Assurbanipal di
Assiria) il quale, quando si rese conto
che Ninive era sul punto di cadere
nelle mani dei ribelli comandati
da Arbace, prima che giungesse
la sua ora fece uccidere tutti i
suoi cavalli e le sue concubine,
nella egoistica follia di portare
tutto con sé.
Per non parlare della recente
vicenda di un ricco possidente
che, senza discendenti, ha lasciato
tutti i suoi averi alla Chiesa,
con l'impegno di celebrare ogni
giorno messe funebri per lui, per
i suoi genitori, per le sorelle e i
fratelli. In sostanza, un sistema
per continuare a far rendere i suoi
beni dopo la morte, non potendoli
portare con sé. Una mentalità
mercantile che continua anche
dopo la morte: pagare i preti che
celebrano messe in suffragio proprio
e dei propri defunti, in modo
da ridurre la permanenza in Purgatorio.
In tal modo tutti possono
accedere al Paradiso, dopo aver
pagato con denaro contante il
biglietto d'ingresso.
Sin qui la morte fisica.
Ma c'è anche chi vede la morte
come una necessità verso la
rinascita, in quanto, si sostiene,
non può esservi vita se non preceduta
da una morte. L'esempio
classico è quello del chicco di grano,
che sotto terra muore e marcisce per
dar vita alla nuova pianta.
Nulla si crea, nulla si distrugge,
tutto si trasforma. L'uomo stesso, se
viene seppellito in aperta campagna,
trasformando la propria materia
organica concimerà la terra, contribuendo
alla crescita delle piante.
E' pertanto evidente che si tratta di
processi automatici già inseriti nella
dinamica evolutiva.
Cambia tutto quando si parla di
morte iniziatica.
Quel morire al peggio per rinascere
al meglio non prevede un processo
automatico, come accade per il
chicco di grano; qui interviene un
preciso atto di volontà dell'individuo,
che sceglie una propria via lungo la
quale si muove da solo, tappa dopo
tappa. Come il nocchiero di una nave
può imbattersi in un mare tranquillo
o tempestoso, e di volta in volta deve
decidere cosa fare.
Ne consegue che la morte iniziatica
non è una morte naturale ma un
assassinio: il soggetto che con ferma
volontà ha scelto la via iniziatica deve
ogni volta essere assassino della parte
peggiore di sé, di quella parte che, passata
al vaglio, egli rifiuta. È necessario
abbattere il complicato e preesistente
sistema delle proprie convinzioni,
raggiungere lo stato d'innocenza che
è necessario per comprendere una
dottrina che non può essere ricevuta
se non in estrema purezza.
D'altronde non deve sorprendere
uno strappo così sconcertante; anche
Gesù disse: "Sono venuto a dividere
il figlio da suo padre e la figlia da sua
madre... Chi ama padre e madre più di me
non è degno di me."
Nella saga del Graal Parsifal, per
seguire il suo nobile destino, abbandona
la madre che ne muore di dolore.
Non si segue Gesù o si conquista
il Santo Graal senza pagare un presso
altissimo per il cambio di dimensione.
Non s'intraprende la via iniziatica,
luminosa, ascensionale, lastricata
di fuoco, senza assassinare una parte
di sé, anche se in apparenza nobile,
come può essere amare il padre e la
madre.
Appare chiaro che l'iniziato
ha scelto una via difficile, più
di quanto si possa immaginare;
perché parlare di morte iniziatica è
una cosa, ma l'assassinio iniziatico
è qualcosa di molto più pesante.
Ecco dunque le diverse facce
della morte: quella fisica, che reca
paura e sgomento e induce ad
inventare nuove esistenze, e quella
iniziatica, che l'individuo si
procura volontariamente mentre
è in vita, per attingere alla vera
dignità di uomo.
Uccidere giorn per giorno
quello che abbiamo fatto di
sbagliato, non ripeterlo anzi
condannarlo, attraversare la folla
dell'umanità con amore, senza
invidia, con pazienza e benignità,
senza sospettare il male e
senza godere dell'ingiustizia, ma
gioire con la verità.
Vi è mai stato assassinio più
nobile e lodevole? Morte più
disinteressata, senza minaccia di
pene o promessa di ricompense
nell'aldilà? Senza prospettive
di seducenti Urì, di bellissime
Valkirie, di musiche paradisiache
ascoltate da un posto in prima fila
nella contemplazione dell'Onnipotente?
Fà su questa terra tutto il bene
che puoi, fallo con convinzione, senza
attendere ricompense né in vita
né in morte, lasciando ai mercanti e
ai bottegai la pratica dello scambio
delle merci con i denari, e la morte
così affrontata ti sorriderà e non ti
farà paura.
29
i beati paoli
di Gandolfo Dominici
Di misteri Palermo ne nasconde
parecchi, ma c’è ne uno che
dura da cinque secoli, il segreto di
una setta che ha attraversato vicoli e
sotterranei del centro storico, osannati
o maledetti erano i Beati Paoli.
Chi erano veramente questi “scellerati”,
come li definì il Marchese
di Villabianca che ne parlò nei suoi
diari palermitani, in uno degli ultimi
“Opuscoli” scritti nel 1790?
La loro vicenda, inquadrata in un
contesto settecentesco, si snoda lontano
dal mare, dai colori e dalla luce
dell’abbagliante sole palermitano, si
dipana nel cuore segreto di Palermo,
tra gli antri oscuri e le gallerie sotterranee
di uno dei quartieri più popola-
ri: “il Capo”.
Ancora oggi, ogni qualvolta a Palermo
si scopre una cavità sotterranea
tutti corrono mentalmente alla famosa
setta d’incappucciati.
Misteriosa e temuta, questa setta si
era posto il compito di contrastare lo
strapotere e i soprusi dei nobili, che
amministravano direttamente anche
la giustizia criminale e, molto spesso,
si servivano di bravacci per risolvere
alla svelta quei casi che ragioni di opportunità
o di prudenza consigliavano
di non far ufficialmente decidere
alle loro Corti.
Le origini di questi tremendi
giustizieri sono remote. Secondo il
marchese di Villabianca essi erano
30
31
32
sorti poco oltre la prima meta del
secolo XII, durante la dominazione
normanna, con l’appellativo di
“vendicosi”. Si ha notizia di una loro
tremenda azione (anche se a titolo di
leggenda) intorno al 1160, quando Palermo
era governata dall’arcivescovo
Stefan de la Perche (vedi Luigi Natoli,
“Storie e leggende di Sicilia”). Dopo vari
trascorsi, alternati a lunghi silenzi
e assopimenti, la setta scomparve
definitivamente poco dopo il primo
ventennio del XVIII secolo, anche se
non è da escludere qualche sporadica
attività fin dopo il 1750 circa.
L’origine di questa setta è oscura,
dato che non esistono fonti storiche
né tanto meno documenti che possano
attestarne l’esistenza; la sua storia
è stata trasmessa esclusivamente
per tradizione orale e tutti i letterati
hanno attinto dal citato “Opuscolo”
del marchese di Villabianca, l’erudito
palermitano che ne descrisse i luoghi
e il suo famigerato Tribunale. Anche
autori come il Linares hanno attinto
ad esso, fino al Natoli quando, all’inizio
del novecento, pubblicò “I Beati
Paoli”. Lo scrisse tra il 1909 e il 1910
come romanzo d’appendice che veniva
regalato dal Giornale di Sicilia ai
propri lettori, ma il successo enorme
che ne derivò compì un “miracolo retroattivo”,
dando concretezza ad una
leggenda. Quello che fino ad allora
era stato un racconto un po’ confuso
e con mille particolari discordanti,
acquistò dignità, diventò realtà
accettata da tutti, forse anche grazie
alle dettagliate descrizioni dei luoghi
della città, realmente esistenti, in
cui si svolgevano gli avvenimenti, e
all’inserimento di personaggi operanti
nella vita quotidiana palermitana
di quel periodo.
Travestiti da frati di giorno, giustizieri
di notte, sconosciuti tra loro
e guidati da un capo noto solo a
due adepti, questi personaggi erano
capaci di colpire anche nelle celle più
sorvegliate dell'inquisizione o nelle
stanze private dei palazzi aristocratici.
L’ ombra avvolgeva il mistero
dell’attività dei Beati Paoli, le tenebre
erano le sole testimoni della loro spietata
inappellabilità. Furono vindici
giustizieri dei torti e dei soprusi subiti
dai poveri, dai deboli, dagli umili;
se cosi non fosse stato, l’eco delle loro
gesta non sarebbe giunto fino a noi.
Nelle tremende sentenze dell’occulto
Tribunale il popolo trovava giustizia
per le angherie subite. I Beati
Paoli erano visti come esecutori di
necessaria giustizia che maturava nel
totale anonimato e, quindi, più gradita.
Essi non furono gli antesignani
della mafia, erano giustizieri non
mafiosi e con le loro azioni
non cercavano né lucro né
fama personale, coperti
com’erano dal totale
anonimato dei loro
cappucci.
Il presunto covo
dei Beati Paoli
è una cavità
sotterranea nel
rione Capo,
sede di uno
dei mercati
storici un
tempo più
fiorenti della
città, di recente
riportata
alla luce ad opera del geologo
Pietro Todaro su commissione del
comune di Palermo. Si tratta di un
ambiente circolare del diametro di
circa otto metri, a circa quattro metri
di dislivello dal suolo. La presenza
di un sedile ricavato lungo il bordo
avvalorerebbe la tesi secondo la quale
i Beati Paoli si erano costituiti in un
vero e proprio Tribunale, mentre il
pozzo di forma quadrata profondo
circa quattro metri farebbe supporre
che, una volta estintasi la setta, la
grotta sia stata utilizzata come camera
dello scirocco.
Sempre secondo il racconto del
Marchese di Villabianca, che a suo
tempo visitò il nascondiglio, vi si
accedeva attraverso la casa di un tal
Giovan Battista Baldi, nell’attuale
via Beati Paoli, nel cuore del mercato,
ma un altro ingresso è presente
nell’adiacente Vicolo degli Orfani.
Appare comunque certo che il rifugio
sia collegato ad altri locali sotterranei
da un reticolo di cunicoli, probabilmente
appartenenti a una necropoli
cristiana.
Durante i lavori di pulitura, sepolti
nel terriccio che ricolmava l’ingrottato
sono stati trovati diversi oggetti di
differenti epoche, ma la cosa
che ha suscitato scalpore
è il ritrovamento di
un puntale conico di
ferro che in realtà
è un portafiaccola
da parete, per il
quale bisogna
comunque
stabilire a
quale periodo
risale.
Quest’ultimo
ritrovamento
riporta
certamente
a
33
presupposti sull’esistenza dei sectari,
ma secondo il Villabianca alla fine
del settecento di quella "terribile"
organizzazione “si era già perduta la
semenza”.
Secondo un racconto popolare
raccolto da Salomone-Marino “a
questi uomini davano tale titolo in quanto
erano tutti uomini che si mostravano
devoti; il giorno per meglio apprendere i
fatti che succedevano, andavano vestiti
come monaci di San Francesco di Paola e
stavano nelle chiese fingendo di recitare il
rosario: la notte poi complottavano su ciò
che avevano visto e saputo ed ordinavano
le vendette”. Il nome della setta si deve
dunque al fatto che i suoi membri
usavano durante il giorno travestirsi
da monaci di San Francesco di Paola,
per aggirarsi liberamente nelle chiese
e qui origliare indisturbati le voci
di popolo, per poi mettere in atto la
propria vendetta.
Nei quasi 300 anni trascorsi dall’estinguersi
della setta, la storiografia
ufficiale non ha trattato con il dovuto
rigore le origini e l’azione dei Beati
Paoli. Le poche recenti trattazioni
hanno dato brevi e lapidarie versioni
del fenomeno, sottovalutando tradizioni
popolari che forse meriterebbero
più attenzione.
Ancora oggi in Sicilia, e in special
modo a Palermo, la pronuncia
dell’aggettivo “beato” riferito all’insigne
apostolo genera un senso di riverente
rispetto per quello che fu un pur
breve fenomeno di passata vita palermitana.
Anche se oggi appare in tutta
la sua essenza il carattere settario e
oscuro dei Beati Paoli, i palermitani
riconoscono in essi la spontanea
necessità di quei tempi, quando la
cosiddetta giustizia ufficiale era un
miraggio per gli umili e un paravento
per le ingiustizie dei potenti. La giustizia
“illegale” degli incappucciati
palermitani potrebbe apparire come
frutto del carattere di un popolo che
ancor oggi purtroppo viene, a torto,
indicato come violento ed insofferente
della legalità; ma prima di emettere
giudizi occorre considerare l'epoca
e il contesto in cui essi operarono.
Si è trattato di mito, leggenda o
realtà? Un po di tutto: pochissimo
mito, elaborata e affascinante leggenda,
molta e non smentita, o smentibile,
realtà. Quello che è certo è che la
misteriosa setta ha lasciato un ricordo
indelebile, vivo ancor oggi, dopo quasi
300 anni, anche se si tratta di un ricordo
trasmesso oralmente, a causa della
quasi totale mancanza di documenti.
34
Associazione Culturale “Bensalem”
Castel del Monte
Il Tempio della Rosa
a cura di Attilio Castronuovo
Castel del Monte è uno dei misteri più affascinanti che, dalle nebbie del passato, siano giunti fino a noi.
Adagiato su un poggio che domina la pianura, enigmatico per tutto ciò che attiene ai suoi scopi e alla sua
funzionalità, sembra sfidare il visitatore desideroso di comprenderne il segreto. Si potrebbero affastellare
all’infinito ipotesi su ipotesi nella speranza di giungere a qualche certezza, ma il castello sembra sottrarsi a
questa ricerca, mostrandosi sempre più sfuggente, evanescente, irraggiungibile.
di Daniela Gagliano
edizionigagliano@gmail.com
35
medicina
e ritualità
di Paolo Maggi
36
I
l paziente aspetta il suo
turno nella sala d’attesa.
L’arredamento della stanza è inconfondibile,
e non si presta ad equivoci:
è un luogo attrezzato solo per le
attese. Qualche rivista sul tavolino e
la presenza di altri pazienti possono
creare solo un passeggero momento
di distrazione. In realtà ogni paziente
è solo con i suoi pensieri.
Ora tocca a lui. Viene introdotto
nella stanza delle visite. Anche
questo non può essere un luogo
scelto a caso. Non si visita mai in un
corridoio, in un luogo di passaggio,
in un ambiente destinato ad altro.
Le immagini alle pareti sono strane
ed enigmatiche, spesso indecifrabili
per il paziente. In genere sono corpi
dissezionati, apparati, organi... L’ambulatorio
è un ambiente misterioso,
un’area consacrata solo ad un atto:
quello della visita. E’ un’area sacra.
In un punto centrale della stanza
campeggia sempre il lettino delle visite.
Ricorda vagamente un altare.
Il medico indossa il suo camice
bianco. E’ un indumento inconfondibile,
una sorta di paramento sacerdotale.
Non è accettabile visitare in
giacca e cravatta o con altri tipi di
vestiario: il medico non sarebbe credibile.
Il paramento va sempre indossato
nel corso di questa ritualità.
E’ giunto il momento di un atto
rituale di fondamentale importanza:
quello della spoliazione. A volte è
solo parziale: “scopra il torace”, “scopra
la pancia”, “mi faccia vedere il ginocchio”.
A volte è totale. Capita di dover
indossare in questi casi, soprattutto
se le visite sono in ospedale, un apposito
indumento. In genere una tunica
bianca.
Finalmente inizia la visita. Le
mani del medico si spostano con
tocchi leggeri e veloci, percorrendo
tutto il corpo. Percuotono, palpano,
37
Nell'immagine:
Abbigliamento del
medico della peste,
da una stampa del
XVII secolo.
38
premono, secondo antichi e misteriosi
codici. Strani strumenti, a tratti,
accompagnano il rituale: martelletti,
luci, specchi, stetoscopi. A volte
devono essere pronunciate parole dal
senso incomprensibile: “dica trentatre”.
L’effetto catartico di questo rito
è concreto e immediato: il silenzio
regna. Il paziente cessa di narrare la
sua storia, cessano le sue domande. Il
medico cessa le sue spiegazioni. Non
c’è più bisogno di parole.
Ora quello che, almeno agli occhi
del paziente, è un misterioso rituale,
finalmente si conclude. Ma da questo
momento in poi tutto è
radicalmente cambiato
in quel luogo. Il contatto
fisico ha mutato definitivamente
il rapporto fra
i due protagonisti. Ha
creato una confidenza e
un legame che prima non
c’erano. E forse ancora di
più.
La presenza di così
forti elementi rituali
nella visita medica non ci
deve indurre in equivoci:
questo rito non è poi così
antico come si potrebbe
immaginare. Anzi,
paradossalmente, è nato
in pieno illuminismo, in
un’epoca in cui la componente
magico-ritualistica
presente nella scienza
pre-galileiana era stata
definitivamente bandita.
In tempi più antichi il
medico non visitava che
molto sommariamente il
suo paziente. In genere si
limitava ad osservare la
parte del corpo ritenuta
malata, o si attardava
nella meticolosa osservazione
delle sue deiezioni
e nella degustazione del
suo sudore e delle sue
urine. I contatti fisici erano per lo più
riservati agli interventi: qualche sutura,
un bel salasso, un’amputazione…
Durante le pestilenze, poi, il medico
visitava il malato da lontano, toccandolo
con una bacchetta, e con il volto
ben occultato dietro una maschera.
Certo, in tutto questo vi erano venerabili
eccezioni: Ippocrate diagnosticava
malattie di fegato osservando
la cute itterica o i segni di un coma
epatico. E riusciva a sentire con l’orecchio
i rumori liquidi dei versamenti
pleurici. Galeno poi era capace di
scrivere 16 volumi sull’osservazione,
interpretazione e prognosi del battito
del polso. Ma, si sa, non tutti i medici
dell’antichità sono stati al pari di
Ippocrate e Galeno.
E così bisognerà aspettare il XVIII
secolo per veder nascere l’esame
obiettivo come noi oggi lo intendiamo.
E la paternità spetta senza
dubbio al medico austriaco Joseph
Leopold Auerbrugger che, da bravo
figlio di un oste, aveva ben imparato
da suo padre a percuotere le botti con
il dito per capire qual era il livello di
liquido al loro interno. Applicando
questo metodo al corpo umano riusciva
a raccogliere un’enorme quantità
di informazioni sulle condizioni
dei polmoni, dell’addome, del cuore,
del fegato e della milza dei suoi pazienti.
Auerbrugger in vita non ebbe
tuttavia quel successo che si sarebbe
indubbiamente meritato e, con ogni
probabilità, la sua arte sarebbe morta
insieme al suo scopritore se non fosse
stata adottata e divulgata da un suo
collega assai più illustre e fortunato:
Jean Nicholas Corvisart, il medico
personale di Napoleone Bonaparte.
A perfezionare ulteriormente le
tecniche dell’esame obiettivo è poi
intervenuto Rene Theophile Laennec
che, agli inizi dell’800 inventò uno
strumento preziosissimo, lo stetoscopio,
che ha egregiamente sostituito
il contatto tra orecchio del medico
e torace del paziente. Era il 1816 e
il medico si trovava in visita presso
una sua giovane e prosperosa paziente.
Un po’ per le difficoltà dovute
al sovrappeso della signora, un po’
a causa della presenza del marito,
evidentemente geloso, Laennec era in
grande imbarazzo ad affrontare la fase
dell’auscultazione del cuore: avrebbe
dovuto, come allora si faceva,
appoggiare direttamente l’orecchio
sul petto della paziente. Si ricordò
allora di aver visto, attraversando
la corte del Louvre, dei ragazzi che,
poggiando l’orecchio all’estremità di
un lungo asse di legno, si divertivano
ad ascoltare il suono amplificato dello
sfregamento di un piccolo chiodo
posto all’estremità opposta dell’asse.
Fece allora un cilindro con un quadernetto
di appunti legato con un filo
e lo appoggiò al petto della signora.
Risolse il suo imbarazzo e si accorse
39
40
di riuscire a sentire i suoni del cuore
assai meglio del consueto. Successivamente
perfezionò egli stesso il modello,
facendolo costruire in legno.
Dunque, sebbene l’esame obiettivo
sia straordinariamente ricco di valenze
rituali, la cosa non è affatto intenzionale.
Possiamo invece dire che su
questo momento così critico nella vita
di ciascuno di noi si proietta, e si rivela,
il profondo bisogno inconscio di
ritualità insito nell’uomo. Insomma,
durante la visita inconsciamente si
mette in scena un rituale archetipo in
cui il medico e il suo paziente rivestono
dei ruoli ben precisi. E su questo
gli antropologi non hanno alcun
dubbio: la visita medica ha davvero in
sé tutte le caratteristiche canoniche di
un rituale. E soprattutto, come ogni
rituale importante, ha la funzione di
marcare un cambiamento.
Ogni rito è l’attraversamento di una
soglia, è il passaggio tra un prima e un
dopo. Lo sono i riti socialmente più
diffusi che scandiscono le nostre vite:
battesimi, matrimoni, funerali, transizioni
di poteri. E lo è anche l’esame
obiettivo a cui il medico sottopone
il paziente. Come ogni rito, anche la
visita consacra una trasformazione,
un passaggio da uno stato all’altro. E
questo vale per entrambi i protagonisti:
tanto il paziente quanto il medico
oltrepasseranno la soglia tra un prima
e un dopo. Ma quale cambiamento si
attende il malato, sia pur inconsciamente,
dalla visita? Quale soglia sta
attraversando, insieme al suo medico,
nel momento in cui questi percorre
con le mani il suo corpo?
Il paziente, offrendo il suo corpo
all’esame del medico, passa da uno
stato di solitaria sofferenza ad uno
stato di condivisone del suo male.
Il suo dolore, la sua malattia, il suo
stesso corpo, fuoriescono dalla sfera
individuale e vengono validati dal
suo medico. Il medico, a sua volta,
nel momento in cui il malato si offre
alla sua osservazione, viene validato
nel suo ruolo: egli ha ora il pieno
consenso per poter esplorare quel
corpo, quel dolore, quella malattia e
si assume ritualmente il difficile compito
di prendersene cura. Formula un
impegnativo, implicito giuramento:
“D’ora in poi tu non sarai più solo nella
tua sofferenza. E io, come medico, sarò
presente nella tua vita”.
Questo rito, peraltro, non è un
evento unico ed irripetibile anzi, per
sua stessa natura, è ciclico e deve
essere rinnovato, per poter confermare
ogni volta il patto e l’alleanza tra
medico e paziente, che saranno,
da esso, reciprocamente
consacrati.
Se qualcuno ha
pensato che i
rapporti tra
esame obiettivo
del
medico e
ritualità
siano
solo
un
futile
argomento
di
discussione
tra
appassionati
di
esoterismo si
è sbagliato di
grosso: la tematica
sta interessando
studiosi di prestigiose
scuole di medicina statunitensi,
come Abraham Verghese,
medico e professore di Teoria e pratica
della medicina alla Stanford University.
Egli è anche uno dei protagonisti di
un programma educativo facilmente
reperibile in rete, Stanford Medicine 25,
che vuole tornare a valorizzare la visita
al letto del paziente attraverso le 25
manovre semeiologiche fondamentali
per la pratica clinica. Verghese ha dedicato
al tema della ritualità in medicina
diverse lezioni e libri di successo.
Vi è un’altra caratteristica della
ritualità che riveste un ruolo fondamentale
in medicina: i comportamenti
ripetitivi, come ci suggeriscono le
neuroscienze, riducono l’ansia e aiutano
a vincere lo stress generato dagli
imprevisti e dalla difficoltà a controllare
gli eventi nuovi. I rituali, per definizione,
sono basati sulla ripetitività.
Le loro reiterazioni trasmettono
sicurezza. Per affrontare
ogni cambiamento
ciascuno di noi ha
necessità vitale
di serenità.
Quanto più
è radicale
il cambiamento,
tanto
più è
necessario
associarlo
ad un
rituale
che
trasmetta
sicurezza
e ci aiuti a
concentrare
tutte le nostre
energie mentali
sul cambiamento che
dobbiamo affrontare.
La malattia è un cambiamento
troppo profondo per non dover essere
associato ad un rituale. La visita
trasmette quella sicurezza di cui il
paziente, ma anche il suo medico, ha
necessità vitale.
La rinnovata attenzione all’esame
obiettivo del medico, al contatto fisico
tra medico e paziente, nasce dalla
triste constatazione che la maggior
parte dei giovani medici non è più in
grado di eseguire un esame obiettivo.
Ormai molto spesso la classica visita
al letto del malato è sostituita da un
briefing attorno al computer, nel quale
si esaminano lastre, referti, numeri.
Così il paziente, virtualizzato, per
usare le parole di Verghese, è diventato
una sorta di I-patient. La medicina
virtualizzata ha quasi completamente
espulso dalle sue procedure il contatto
fisico con il corpo del paziente, il suo
polso, la sua fronte. La prescrizione di
migliaia di esami ha tolto spazio all’ascolto
del suo vissuto, alla risposta alle
sue speranze di vita e di salute. Dice
il grande cardiologo Bernard Lown:
“I medici hanno imparato, credo a torto, a
considerare la tecnologia come un sostituto
costoso del tempo passato con i pazienti”.
Lo stesso paziente si è ormai convinto
che il suo corpo coincida con le
immagini che si ottengono dalle tecnologie
diagnostiche e dalle sfilze di
numeri che escono dagli apparecchi
usati per analizzare il nostro sangue.
Così pensa di tenere egregiamente
sotto controllo la propria salute
sottoponendosi a prelievi, ecografie,
TAC o risonanze magnetiche. Meglio
avere a disposizione una buona lastra
che un buon medico.
Ora che abbiamo trasformato il
paziente in un I-patient non abbiamo
più a che fare con un corpo, ma con le
sue immagini virtuali, che allontanano
sempre più il medico dal malato. E
così, perdendo la ritualità della visita,
abbiamo dimenticato l’immenso
potere della mano dell’uomo di toccare,
diagnosticare, confortare, curare.
Stiamo perdendo un rituale prezioso.
Un rituale che è il cuore del rapporto
medico-paziente. Con poteri, se non
magici, certamente capaci di generare
trasformazione e trascendenza.
41
la sezione
aurea
di Franco Ardito
42
Nella Bibbia è scritto: “Tu hai
disposto ogni cosa con misura,
numero e peso" (Sap. 11,20). Per porre
ordine nel Creato, traendolo dal
caos primordiale, Dio ha utilizzato
il numero nelle sue diverse espressioni:
come estensione dei corpi nello
spazio (misura), come consistenza
della materia (peso), come espressione
delle leggi che governano l’Universo.
Ecco perché l'antica saggezza
considerava i numeri sotto un triplice
aspetto: pratico, scientifico e mistico,
individuandoli come Numeri computabili,
Numeri scientifici e Numeri
divini, portatori delle Idee universali.
Il Numero puro, o Numero divino,
era l'archetipo, il modello ideale da
cui discendeva il numero scientifico,
così come i Numeri divini erano gli
archetipi di tutto l’esistente, i prototipi
d'ogni manifestazione nella mente
di Dio. Attraverso i Numeri le Idee
archetipiche creano la geometria delle
forme, reggendo l'ordine nel Cosmo,
il suo ritmo e il suo equilibrio.
Dio non ha creato il numero, però
lo ha utilizzato per ordinare l’Universo,
segno che il numero era parte
di Lui stesso. Del resto la sacralità
del numero era ben
nota presso le antiche
civiltà: nell’antica Mesopotamia
si attribuivano
numeri sacri agli dei, per Pitagora
essi erano realtà divina,
visione trascendente dei Numeri
ideali, e la stessa Sacra Tetraktis era
una divinità; è stata la “rivelazione
pitagorica” ad annunciare un Universo
governato dal Numero.
Dal suo canto la Qabbalah ebraica
afferma che le ventidue lettere dell'alfabeto
ebraico, e il loro relativo
significato numerico, sono
preesistenti alla stessa creazione
del mondo. Giungendo ai nostri
giorni, Jung considerava il numero
un’entità numinosa, sacra, e lo ha
definito come “un archetipo dell’ordine
fattosi cosciente”.
Accade così che talvolta si scorge
come i numeri, al di là della loro
43
Nella foto:
Spirale logaritmica
del Nautilus, in
funzione della Serie
di Fibonacci.
44
concezione matematica legata al
concetto di quantità, vivano un’esistenza
“metafisica” che segue logiche
e norme completamente diverse e, per
molti versi, ancora ignote. Gli esempi
sono intorno a noi: il più semplice è
la Tavola Pitagorica, con la particolare
disposizione delle cifre al suo
interno, ma ci sono anche i numerosi
quadrati magici, di cui è pieno il Medio
Evo, e i tanti giochi matematici,
divertenti agli occhi di un osservatore
superficiale ma che pongono diversi
interrogativi a chi
non s’accontenta
delle apparenze.
E poi la Serie di Fibonacci, da cui
ha origine la Sezione Aurea, quella che
Luca Pacioli chiamò la Divina Proporzione
e che in tanti hanno definito
la Firma di Dio, in quanto sottolinea
l’armonia in gran parte del mondo
vegetale e animale, uomo compreso.
Leonardo Fibonacci
Tutto ha avuto inizio da una
banale storia di conigli: «Un tale mise
una coppia di conigli in un luogo completamente
circondato da un muro. Quante
coppie di conigli si ottengono in un anno,
sapendo che ciascuna coppia genera ogni
mese un’altra coppia e che le coppie di conigli
cominciano a procreare a partire dal
secondo mese dalla nascita?» Il quesito
è ben più che una semplice storia
di allevatori e anzi è un problema
che investe le regole
della natura, l’armonia del
creato, le proporzioni
delle creature, la firma
di Dio. Sul piano
matematico risale
alla introduzione
dei numeri “arabi”
in occidente,
agli inizi della
numerazione
posizionale,
all’introduzione
dello Zero
nel sistema
di calcolo: in
pratica al 1200
e a Leonardo
Fibonacci.
Leonardo
era figlio di Guglielmo
dei Bonacci,
segretario
della Repubblica di
Pisa e responsabile
del commercio pisano
presso la colonia di
Al Bejia, in Algeria. Ben
presto Guglielmo iniziò a
45
46
portare suo figlio con sé, con l’intento
d’insegnargli il mestiere di mercante
e di renderlo istruito nelle tecniche
del calcolo; in seguito lo mandò in
Egitto, Siria e Grecia, affinché studiasse
le tecniche matematiche in uso
in quelle regioni. Il giovane Leonardo
figlio dei Bonacci (da cui l’appellativo
di Fibonacci) assimilò talmente questi
sistemi matematici, e fu talmente
entusiasta dei loro
vantaggi, che al suo
ritorno a Pisa li codificò
in un trattato
in 15 capitoli, il Liber
Abaci, il cui ruolo è
stato di fondamentale
importanza nella
matematica occidentale,
tanto da rivoluzionare
il metodo
di calcolo utilizzato
fino a quel momento.
Infatti, se prima
i problemi venivano
risolti singolarmente
attraverso l’uso dell’abaco
- una specie di
pallottoliere utilizzato
ancor oggi che consente
di rappresentare
i numeri naturali in
base dieci, lasciando
libero lo spazio nel
caso in cui si deve
rappresentare lo
Zero - ora i numeri
potevano essere scritti
e i calcoli potevano
effettuarsi per iscritto
e senza abaco, anche
per via dell’introduzione
dello Zero,
che ora poteva essere
rappresentato. Inoltre
i problemi potevano
essere risolti non più
con l’esecuzione di
singoli calcoli, considerati
di volta in
volta a seconda del quesito specifico,
ma attraverso algoritmi, e cioè procedimenti
normalizzati che portano alla
soluzione attraverso un numero finito
di passi elementari. Questo ne rendeva
la soluzione più facile e rapida.
Il conto dei conigli
Nacque così la disputa fra matematici
“abacisti” e “algoritmisti”, che
spesso dava origine ad accese tenzoni
matematiche intorno a quesiti sul
genere di quello dei conigli. Quest’ultimo
quesito in particolare ha però
espresso una sequenza numerica che
pone in evidenza quella esistenza
“metafisica” del Numero di cui abbiamo
detto poc’anzi.
La soluzione del quesito prevede
al dodicesimo mese 233 coppie di
conigli, secondo la seguente logica: la
coppia di conigli iniziale non è fertile
ma al 1° mese la stessa coppia diviene
prolifica, comportando al 2° mese
2 coppie, di cui una fertile. Al terzo
mese ci sono 3 coppie di cui due fertili,
quindi al quarto mese ce ne sono
5 di cui 3 fertili, al quinto mese ce ne
sono 8 di cui 5 fertili e così via. Posti
in fila questi numeri daranno origine
alla seguente serie numerica, che ha
preso il nome da Fibonacci, anche se
lo stesso matematico pisano non ne
comprese appieno l’importanza:
mesi coppie
0 1
1 1
2 2
3 3
4 5
5 8
6 13
7 21
8 34
9 55
10 89
11 144
12 233
Se esaminiamo la serie sul piano
matematico scopriamo che ogni suo
elemento è determinato dalla somma
dei due elementi che lo precedono,
ma la principale particolarità della
sequenza è nel fatto che ogni elemento
diviso per il precedente dà un risultato
che tende al numero 1,618; per altro
verso, se si divide ogni elemento della
serie per quello che lo segue il risultato
tende al reciproco 0,618. Sia l’uno che
l’altro sono numeri irrazionali, cioè
presentano dopo la virgola una serie
infinita di cifre decimali aperiodiche,
e il loro prodotto è uguale a 1.
Il numero 1,618 prende il nome di
Numero d’Oro o anche di Sezione aurea
e viene indicato con la lettera Φ. Per
la precisione la proprietà della serie
può essere matematicamente indicata
attraverso la formula:
Ma la sequenza di Fibonacci ha
numerose altre particolarità; ecco le
principali:
• Il massimo comune divisore di
due numeri di Fibonacci è ancora
un numero di Fibonacci.
• Il quadrato di ogni numero di
Fibonacci differisce di uno dal
prodotto dei due numeri fra cui
il numero si trova nella serie. La
differenza è, alternativamente,
più o meno 1, via via che la serie
continua.
• Sommando i primi n numeri di
Fibonacci ed aggiungendo 1, il risultato
è sempre uguale al numero
che nella serie si trova due volte
dopo l'ultimo addizionato.
• Se invece di sommare tutti i numeri
se ne somma uno sì ed uno
no, il risultato è sempre uguale
al numero successivo all'ultimo
addizionato.
• Se dividiamo qualsiasi numero
per il secondo che lo precede
nella sequenza otterremo sempre
2 come quoziente e come resto il
numero che precede immediatamente
il divisore.
Inoltre ogni numero della serie è
medio proporzionale fra il numero
che lo precede e quello che lo segue;
se si considera che la serie è infinita,
47
questa regola vale per un numero
infinito di terne di numeri.
La Sezione Aurea
In geometria la sezione aurea di
un segmento è quella parte del segmento
che è medio proporzionale fra
l’intero segmento e la parte di segmento
rimanente.
AB : AC' = AC' : C'B
48
Questo significa che se il segmento
AB è lungo 1,618 metri la sezione
aurea AC' sarà pari a 1 metro e la
parte di segmento rimanente C'B sarà
m 0,618, che corrisponde a 1/1,618.
Se consideriamo le figure piane, è
aureo un rettangolo che ha le dimensioni
basate sulla sezione aurea (il
rapporto fra dimensione lunga e dimensione
corta è 1,618); è in rapporto
aureo un triangolo isoscele con l’angolo
al vertice di 108°
- che spesso costituisce
il frontone
di templi anche
cristia-
ni - in quanto il rapporto fra base e
lato obliquo è 1,618. Ma la figura in
cui la sezione aurea risulta strettamente
connessa con la geometria è
il pentagono, in particolare il pentagono
stellato, in quanto corrisponde
al rapporto fra diagonale AB e lato
BC (vedi figura). Non a caso la scuola
pitagorica aveva assunto a suo emblema
proprio il pentagono stellato
attraverso il quale, fra l’altro, rappresentava
l’uomo realizzato in quanto
il 5, come somma del maschile 3 e
del femminile 2, definisce l’unione
e l’equilibrio degli opposti. E non è
un caso che il Numero d’Oro venga
indicato con la lettera Φ, che assume
il medesimo significato in quanto
abbina il segno verticale maschile a
quello circolare femminile.
L’aspetto più notevole del Numero
d’Oro consiste tuttavia nel fatto che lo si
incontra spesso in natura, nelle proporzioni
di numerose piante e animali,
uomo compreso. Per esempio diversi
tipi di conchiglie, ma anche le
corna e le zanne di alcune
specie animali, hanno
un accrescimento a
spirale che segue
la serie
di Fibonacci;
il
Numero
d'Oro è
presente
nella dinamica
di
accrescimento
di molte piante,
nella disposizione
delle brattee
delle pigne, delle
scaglie dell'ananas,
dei semi del girasole,
nella disposizione
dei petali delle margherite,
tanto per fare
alcuni esempi, ma anche in una serie
di rapporti relativi al corpo umano.
Dall'immagine leonardesca dell'uomo
vitruviano si ricava come il rapporto
fra la statura e la distanza dall'ombelico
al terreno sia pari a 1,618, ma quest’andamento
emerge in un'ampia serie di
rapporti dimensionali: fra altezza e
larghezza del viso, per esempio, o fra la
lunghezza e la larghezza del naso, o fra
le falangi del medio e dell'anulare; addirittura
recenti ricerche dimostrerebbero
che la pressione sanguigna ideale
corrisponde ad un rapporto tra pressione
massima e minima pari a 1,618.
Che cos'è il numero
Dopo aver scorto come tutto il creato
sia permeato dal numero e come
quest'ultimo, in particolari momenti,
sembri vivere di vita propria, dopo
averne rilevato coincidenze e bizzarrie,
un quesito si pone alla mente: se
l’uomo non fosse mai disceso dall’albero,
se non avesse conquistato la
posizione
eretta,
se fosse
rimasto
scimmia
insomma,
il numero
sarebbe esistito
ugualmente?
In
sostanza,
il numero
è solo
un parto
dell’immaginazione
umana,
un'invenzione
architettata
a scopi utilitaristici,
per misurare,
pesare,
calcolare,
oppure esiste indipendentemente
dall’uomo, dalla materia, dall’universo,
e rappresenta le leggi che sono alla
base di tutto ciò che esiste? Non possiamo
dirlo, come non possiamo dire
che genere di matematica avremmo
avuto se l'uomo non avesse avuto dieci
dita ma otto, o tredici, o diciotto; non
sappiamo se regole e leggi matematiche
sarebbero state le stesse e quale
sarebbe stato l'ipotetico Numero d'Oro,
ove mai ce ne fosse stato uno.
Ma forse nessuna di queste ipotesi
si sarebbe potuta realizzare, e l'essere
umano si sarebbe dovuto evolvere
così come in realtà si è evoluto; forse
il numero è proprio un'entità metafisica
connaturata con l'Universo, una
componente imprescindibile della
creazione divenuta di percezione
dell'uomo per cause fortuite; forse
è proprio una parte di Dio, o forse
è Dio stesso, rivelatosi all'uomo per
consentirgli di comprendere da dove
viene, che cos'è e magari dove va.
49
I CATARI
di Rino Guadagnino
50
“O tu ch’onori scienzia ed arte,
questi chi son c’han cotanta orranza,
che dal modo delli altri li diparte?”
E quelli a me: “L’onrata nominanza
Che di lor suona su nella tua vita,
grazia acquista in ciel che sì l’avanza”
(Inferno, IV)
Fra il XII e il XIII secolo i Catari
furono la grande alternativa
religiosa alla Chiesa Cattolica d'Occidente.
Nei loro confronti la reazione
della Chiesa fu fortissima e probabilmente
proporzionata alla paura che
questa setta potesse mettere in crisi
l'intera istituzione cristiana. Non si
trattava infatti di singoli eretici da
punire ma di un fenomeno di vasta
portata, a cui l'Europa occidentale
medioevale non era abituata, e che
ricordava i grandi movimenti religiosi
eterodossi che avevano afflitto
l'Impero Romano d'Oriente, come
ad esempio i Pauliciani. E' difficile
altrimenti spiegare la creazione di un
potentissimo mezzo di repressione
Nella foto:
Ingresso del
castello cataro di
Carcassonne.
51
Sopra:
La crociata contro
gli Albigesi in una
cronaca del XIII
secolo.
52
come l'Inquisizione, la fondazione di
un ordine religioso preposto a confutare
le dottrine catare, come quello
dei Domenicani, e l'organizzazione
di una crociata di cristiani contro
altri cristiani, con relativa licenza di
massacro.
Tuttavia bisogna anche tener conto
che, in quel particolare momento
storico, lo stesso potere di uno stato
sovrano come la Francia, già dilaniata
dalla Guerra dei Cent'anni contro
l'Inghilterra, sarebbe potuto essere
messo in discussione da questa setta
(o meglio dal suo alleato laico, il potente
conte di Tolosa): per questo essa
fu schiacciata dall'azione combinata
di Stato e Chiesa.
La storia
A) I precedenti
I commentatori e gli storici si
orientano lungo due direzioni: coloro
che vedono nei Catari una continuità
col grande filone dualista che va
dagli Gnostici ai Novazianisti, ai
Manichei, ai Bogomili, e coloro che,
pur non negando qualche similitudine
con le sette dualiste, sono convinti
dell'originalità del pensiero cataro,
sviluppato come reazione alla corruzione
dilagante nella Chiesa. Del
resto all'inizio del XII secolo anche
l'attività di predicatori itineranti come
Pietro di Bruis, Enrico di Losanna,
Tanchelmo di Brabante, Eon de
l'Etoile, rappresentò il segno di quel
malessere diffuso, soprattutto a livello
delle classi più deboli della popolazione,
che creò il substrato ideale per
la diffusione del catarismo.
B) L'inizio e i precursori
Già dal 1018 i cronisti Ademaro di
Chabannes e Rodolfo il Glabro riferirono
di "manichei" diffusi nella Francia
meridionale, citando Liutardo, i
canonici di Santa Croce di Orléans,
gli eretici di Arras e quelli di Goslar.
Simili episodi si segnalarono anche
in altre nazioni, come ad esempio in
Italia con la vicenda di Gerardo di
Monforte.
Il frate Anselmo d'Alessandria
invece, nel suo
Tractatus de haerecticis,
sostenne che il
catarismo sarebbe
stato portato in
Francia da alcuni
reduci dalla seconda
crociata del 1147 (ma
il catarismo sembra
essere già presente
da tempo in Europa
occidentale), che
a Costantinopoli
avrebbero incontrato
alcuni bogomili
dell'Ordo Bulgariae
che li avrebbero
convertiti. Questo
sarebbe il motivo per
il quale i Catari venivano
anche denominati
"Bulgari".
Nel 1143 Evervino
di Steinfeld scrisse a San Bernardo
di Chiaravalle (1090-1153) per informarlo
sulla presenza nella Renania,
a Colonia, di eretici, anche donne,
organizzati in uditori ed eletti, che
accettavano come preghiera solo il
Padre Nostro e si rifiutavano di frequentare
le chiese e ricevere i sacramenti,
eccetto una particolare forma
di comunione. Gli eretici furono bruciati
e Evervino si stupì che salissero
serenamente, o addirittura con gioia,
sul rogo. Di simili fatti narrò anche
Ecberto di Schonau.
Pochi mesi dopo lo stesso Bernardo
accorse nella Francia meridionale,
su invito del cardinale Alberico di
Ostia, legato pontificio, con lo scopo
di intervenire contro le predicazioni
di Enrico di Losanna a Tolosa, salvo
poi rendersi conto dell'elevata diffusione
del catarismo nella zona.
Ogni tentativo di Bernardo di convertire
gli Albigesi (come li chiamò
dal nome della città di Albi) rimase
senza successo e tre anni dopo, nel
1148, il Concilio di Tours li condannò,
stabilendo che, se scoperti, essi dovessero
essere imprigionati e i loro beni
confiscati.
Tuttavia queste disposizioni non
sembra che avessero avuto particolare
effetto, anzi proprio nella Francia
meridionale, in Linguadoca e in Provenza,
i Catari si consolidarono maggiormente.
Questa regione a ridosso
dei Pirenei, nota anche come Occitania,
che durante l'alto Medioevo era
stata parte dell'ex regno dei Visigoti,
si era sviluppata come cuscinetto
tra il regno dei Franchi a Nord e gli
Arabi a sud ed era, dal punto di vista
politico, linguistico, culturale e della
tolleranza, profondamente diverso
dal resto dell'odierna Francia. Infatti
gli occitani parlavano la lingua d'oc, e
non quella d'oil come nel resto della
Francia, avevano sviluppato la lirica
dei trovatori (alcuni dei quali, come
Guglielmo Figueira, furono catari),
tolleravano gli ebrei e i pensatori eterodossi
cristiani.
Vent'anni dopo la missione di
San Bernardo, nel 1165 a Lombez fu
tenuto un pubblico contraddittorio tra
teologi cattolici e catari, questi ultimi
Sotto:
Rogo di eretici
Albigesi
53
Nell'immagine:
Sassetta, Rogo di un
eretico, 1425 circa.
54
con a capo un tale
Oliviero, che si
risolse in un nulla
di fatto. Fu in
quel periodo che
i cattolici iniziarono
a chiamarli
Catari, sulla cui
etimologia gli
autori dell'epoca
hanno concepito
due teorie: la
più probabile fa
derivare questo
termine dal greco
Kàtharoi cioè
puri, la più più
folcloristica la
riferisce al latino
medioevale catus,
gatto, un classico
travestimento di
Lucifero al quale
gli eretici, secondo
i loro detrattori,
baciavano
le terga durante
i loro riti. Ma
furono anche
definiti pubblicani
o pobliciani
o populiciani, in
rapporto ad un'altra eresia medioevale
dualista, il paulicianesimo, o anche
"bulgari", dal paese originario della
setta dei bogomili, o "manichei" in
rapporto con l'eresia di Mani o impropriamente
"ariani" (o arriani) per
una connessione con le tesi cristologiche
di Ario. Dal mestiere abitualmente
svolto da molti dei credenti furono
anche chiamati tixerand, dall'antico
francese per tessitori, mentre grande
confusione fanno ancora alcuni
autori anglosassoni, che si ostinano a
chiamarli patarini, confondendoli con
il noto movimento riformista, e non
certo dualista, della Pataria del XI
secolo. I Catari invece si definirono
sempre e semplicemente boni homini o
boni christiani.
Nel 1167 i Catari tennero il loro
Concilio a Saint-Félix de Caraman
(o de Lauragais), vicino a Tolosa; vi
parteciparono il vescovo bogomila
Niceta (impropriamente definito il
"Papa cataro"), e i vescovi della Chiesa
di Francia, Robert d'Espernon e di
Italia, Marco di Lombardia, oltre a
Siccardo Cellerier di Albi e Bernard
Cathala di Carcassonne, in rappresentanza
delle altre realtà catare francesi.
La presenza di Niceta servì ad
avvallare la tesi che il bogomilismo
di tipo assoluto, tipico della Chiesa di
Dragovitza, in Bosnia, aveva influenzato
in maniera decisiva la dottrina
catara, se non fin dall'inizio, almeno
da quel momento in avanti. Inoltre, il
movimento nella Francia meridionale
fu ristrutturato in quattro chiese:
Agen, Tolosa, Albi e Carcassonne
(una quinta, quella del Razès fu istituita
in piena crociata, nel 1226).
C) La reazione dei cattolici
Il periodo tra il 1178 ed il 1194 vide
il fallimento di diversi tentativi di
avvicinamento tra cattolici e Catari in
Linguadoca; nel 1194 divenne conte di
Tolosa Raimondo VI, che era favorevole
ai Catari e sul cui territorio poterono
svilupparsi indisturbate le diocesi
catare di Agen e Tolosa. Tuttavia anche
quelle di Albi e Carcassonne non
correvano particolari rischi in quanto
erano nel territorio
del visconte
Raimond-Roger
Trencavel, nipote
di Raimondo VI.
La svolta si
ebbe nel 1198,
con la salita al
trono pontificio
di Papa Innocenzo
III (1198-
1216), ideatore di
una vera e propria
campagna
contro i Catari.
Infatti dapprima
inviò nel 1207-
1208 famosi
predicatori come
Domenico di
Guzman e Diego
d'Azevedo, vescovo
di Osma,
per cercare di
convertire i Catari,
ma i dibattiti
pubblici non
approdarono ad
alcun risultato,
anzi i teologi
catari, come
Guilhabert de
Castres, ne uscirono a testa alta.
Allora Innocenzo passò alle vie di
fatto e bandì una crociata contro gli
Albigesi, prendendo come pretesto
l'assassinio (in realtà a sfondo politico
e non certo dogmatico), a Saint-Gilles
nel 1208, del legato papale e monaco
cistercense Pietro di Castelnau, al
quale forse non era estraneo lo stesso
Raimondo VI, che era stato scomunicato
dal legato nel 1207.
Alla Crociata parteciparono vari
nobili della Francia settentrionale,
come il Duca di Borgogna ed il Conte
di Nevers, oltre ad avventurieri di
pochi scrupoli, attratti sia dall'indulgenza
dai peccati che, molto
più materialmente, dalla possibilità
55
Nell'immagine:
Il castello cataro di
Montségur.
56
d'impadronirsi delle città della Linguadoca.
L'esercito crociato contava
un totale di 20.000 cavalieri e oltre
200.000 soldati e servi al seguito.
Il 22 luglio 1209 i crociati espugnarono
Béziers; fu in quella occasione
che il legato papale Arnaud
Amaury, abate di Citeaux, interrogato
su come fosse possibile distinguere
i cattolici dai catari, rispose:
"Uccideteli tutti, Dio saprà riconoscere i
suoi". Il consiglio fu efficace: furono
massacrate 20.000 persone e Amaury
ricevette le congratulazioni dal Papa
in persona.
Stessa sorte toccò a Carcassonne,
dove fu imprigionato e morì in
carcere il visconte Raimond-Roger
di Trencavel. Dal 1210 i crociati,
con a capo Simon IV de Montfort,
conquistarono una impressionante
serie di città o cittadine catare: Agen,
Albi, Birou, Bram, Cahusac, Cassés,
Castres, Fanjeaux, Gaillac, Lavaur,
Limoux, Lombez, Minerve (qui 140
Catari si gettarono spontaneamente
nelle fiamme), Mirepoix, Moissac,
Montégur, Montferrand, Montrèal,
Pamiers, Penne, Puivert, Saint Antonin,
Saint Marcel, Saverdun, Termes.
Queste città furono tutte espugnate
secondo un crudele copione ben collaudato
che comportava mutilazioni
di nasi, occhi, orecchie e ovviamente
l'onnipresente rogo dove gli eretici
venivano bruciati.
Un episodio per tutti fu la conquista
di Lavaur nel 1211, con il rogo di
ben 400 Catari e l'uccisione di Giraude
di Lavaur, una nobile catara sorella
del comandante della guarnigione,
molto timorata di Dio e amata da
tutti i suoi concittadini, anche cattolici.
Giraude fu lapidata a morte dai
crociati e quindi gettata in un pozzo.
Ogni signore di queste città lottò
per la sua sopravvivenza, anche se
questo significava passare per faydit,
eretico o protettore di eretici, e i suoi
terreni venivano dati in ricompensa
ai crociati.
Nel 1212 intervenne nella crociata,
prendendo le difese dei tolosani, anche
il re d'Aragona, Pietro I, cognato
di Raimondo, poiché molte delle terre
in questione almeno formalmente
facevano parte del suo regno. Fra
Aragonesi e crociati la lite degenerò
in guerra e Pietro fu ucciso dai crociati
all'assalto di Muret.
Il momento più difficile per i crociati
si rivelò l'assedio della capitale
Tolosa del 1217-1218, dove Simon de
Montfort venne ucciso da una pietra
lanciata da una donna. Prese allora il
comando della crociata l'inetto figlio
di Simon, Amaury VI de Montfort,
con scarso successo. Frattanto la
situazione politica stava cambiando in
favore del re di Francia, a partire dal
1215, quando il futuro re di Francia
Luigi VIII il Leone era intervenuto
personalmente nelle operazioni militari;
nel 1224, diventato sovrano, obbligò
Amaury a fare dono di tutte le terre
conquistate alla corona di Francia.
Inoltre l'incapacità di Amaury
permise ai Catari e ai conti di Tolosa di
serrare le fila, prima della parte finale
della guerra, voluta da Papa Onorio III
e condotta da Luigi VIII in persona, e,
per questo, denominata Crociata reale.
Alla fine nel 1229 Raimondo VII
di Tolosa, spossato da una guerra
che aveva totalmente
stravolto il
Mezzogiorno della
Francia, accettò
una pace mediata
da Bianca di
Castiglia, madre
del nuovo re minorenne
Luigi IX,
e ratificata con il
trattato di Meaux.
Raimondo conservò
parte delle sue
terre, cedendo il
resto alla Francia,
ma dovette dichiarare
la sua fedeltà
al re e negare ogni
appoggio ai boni
homini.
D) La fine
A questo punto
ai militari subentrarono
gli inquisitori domenicani e
francescani, la cui attività era stata
ufficializzata nel 1233 da Papa
Gregorio IX come Inquisitio heretice
pravitatis. Gli inquisitori, odiati dalla
popolazione locale, imperversarono
sul territorio per circa 100 anni (1233-
1325), in realtà facendo uccidere
meno persone di quanto si è portati
a credere (solitamente solo i Catari
"perfetti", che si rifiutavano di abiurare),
ma utilizzando metodi di tortura
e pressione psicologica di una sottile
efferatezza.
L'odio per gli inquisitori si concretizzò
ad Avignonnet nel 1242, dove
due di essi (Arnauad Guilhelm de
Montpellier e Étienne de Narbonne)
e il loro seguito furono massacrati.
Questo fu il pretesto per scatenare un
ultimo colpo di grazia ai Catari asserragliati
nella fortezza di Montségur,
il cui assedio nel 1243-1244 fu l'atto
finale della guerra contro di loro.
Montségur era infatti diventata, dal
1232, l'ultimo baluardo della resisten-
Sotto:
La battaglia di
Muret, miniatura dal
manoscritto francese
"Le grandi Cronache
di Francia".
57
Nell'immagine:
La città di Carcassonne.
58
za catara. Nel maggio del 1243 la fortezza,
difesa da Raimond de Péreille e
dal perfetto Bernard Marty, fu posta
sotto assedio da parte delle truppe del
siniscalco di Carcassonne, Hugues de
Arcis, ma solo nel marzo del 1244, gli
assedianti riuscirono ad espugnarla.
Immediatamente furono eretti i tristemente
noti roghi, sui quali Bernard
Marty e 225 Catari furono bruciati.
E) Il movimento in Italia
L'Italia settentrionale e centrale,
assieme alla Francia meridionale,
fu l'area geografica dove si sviluppò
maggiormente il catarismo: secondo
l'ex cataro Raniero Sacconi, alla metà
del XIII secolo i "perfetti" erano circa
2.500. Si suppone quindi che il movimento,
includendo credenti e simpatizzanti,
fosse molto diffuso.
Il primo vescovo di tutti i Catari
italiani fu Marco di Lombardia e il
suo successore fu Giovanni Giudeo,
ma in seguito il movimento si frazionò
in sei chiese locali:
• Chiesa di Desenzano (sul Lago
di Garda) l'unica che praticava un
dualismo di tipo assoluto e i cui
adepti si chiamavano albanensi,
dal nome del primo vescovo Albano.
Altri vescovi degni di nota
furono Belesinanza e soprattutto
il massimo teologo cataro Giovanni
di Lugio.
• Chiesa di Concorrezzo (vicino a
Monza), la maggiore in Italia, i
cui membri si chiamavano garattisti,
dal nome del loro primo
vescovo Garatto. Seguirono Nazario
e Desiderio, ma con l'abiura
dell'ultimo vescovo, Daniele da
Giussano, la chiesa si estinse.
• Chiesa di Bagnolo San Vito
(vicino a Mantova), i cui fedeli
venivano chiamati bagnolensi o coloianni,
dal nome in greco del loro
primo vescovo Giovanni il Bello.
Si estinse con l'abiura degli ultimi
due vescovi, Albertino e Lorenzo
da Brescia. A questa chiesa
appartenne segretamente anche
Armanno Pungilupo, morto nel
1269 e proposto per la canonizzazione
perché ritenuto in vita
persona di notevole rettitudine e
santità e fatto oggetto, dopo morto,
di venerazione e pellegrinaggi.
Purtroppo un'inchiesta voluta da
Papa Bonifacio VIII rivelò che
Pungilupo era un cataro e quindi
fu condannato postumo.
• Chiesa di Vicenza o della Marca
di Treviso, fondata dal primo
vescovo, Nicola da Vicenza,
seguito da Pietro Gallo, noto per
la confutazione delle sue dottrine
da parte di S. Pietro Martire da
Verona che, secondo una leggenda,
fu un cataro pentito, diventato
poi un inquisitore domenicano.
• Chiesa di Firenze, fondata da
Pietro di Firenze, alla quale apparteneva
il famoso condottiero
ghibellino Farinata degli Uberti,
posto da Dante nell'Inferno.
• Chiesa di Spoleto e Orvieto,
fondata da Girardo di San Marzano
e proseguita da due donne,
Milita di Marte Meato e Giuditta
di Firenze. La chiesa si estinse
con l'abiura dell'ultimo vescovo,
Geremia.
Le ultime cinque
chiese praticavano
un dualismo di
tipo moderato.
Il catarismo
in Italia seguì
un destino diverso
rispetto
a quello delle
chiese sorelle
in Francia; ciò
era dovuto all'appoggio
che spesso
le fazioni ghibelline
accordavano
loro, in chiave
antipapale. Il
tutto durò fino
alla battaglia di
Benevento del
1266, quando
la sconfitta del
partito ghibellino
e l'affermarsi
di quello
guelfo degli
Angioini, fece
mancare ai
Catari i potenti
appoggi
goduti fino a
quel momento.
Iniziò
il declino e anche in Italia venne il
momento della resa dei conti. Nel
1276 le truppe di Alberto I della
Scala espugnarono la rocca di Sirmione,
dove si erano asserragliati i
vescovi delle chiese di Desenzano
e Bagnolo San Vito oltre a numerosi
perfetti italiani e occitani. Tutti
furono arrestati e portati a Verona
dove, il 13 febbraio 1278, 174 perfetti
furono bruciati sul rogo allestito
nell'arena.
F) Il revival cataro
Verso la fine del XIII secolo si
ebbe in Francia un rifiorire delle
dottrine catare, portate dai
fratelli Guglielmo e Pietro
Authier, da Amelio
de Perles e da Pradas
Tavernier, che si erano
formati presso
i Catari lombardi
ed erano quindi
tornati a predicare
in Francia: Pietro fu
catturato e bruciato
nel 1310 per ordine
del famoso inquisitore
Bernardo Gui. Ufficialmente
l'ultimo cataro
fu Guglielmo Belibasta,
tradito dal cataro
rinnegato Arnaldo
Sicre e bruciato nel
1321 per ordine
dell'inquisitore Jacques
Fournier, che
sarebbe poi diventato
Papa Benedetto
XII (1334-1342).
Da quella data il
catarismo cessò di
esistere, almeno
esteriormente,
mentre probabilmente
proseguì
in forma segreta
e limitata a
pochi adepti.
Nell'immagine:
Stele eretta alla memoria
dei Catari arsi
vivi a Monségur
59
Sopra:
La rocca
di Sirmione.
60
La dottrina
I catari erano cristiani dualisti che
accettavano il Nuovo Testamento, e
in questo si distinsero dai manichei,
con i quali erano spesso accomunati
dai cattolici. Essi credevano nell'esistenza
di due principi contrapposti, il
Bene e il Male, individuati rispettivamente
nel Dio santo e giusto, descritto
nel Nuovo Testamento, e nel Dio
nemico o Satana.
Il catarismo si
divideva in due filoni:
quello assoluto e quello
moderato. Per i dualisti
assoluti i due Dei
erano sempre esistiti in
un'eterna lotta e avevano
creato i loro due
mondi, quello dello
spirito opposto a quello
imperfetto della materia,
al quale noi apparteniamo.
Per i dualisti moderati
Satana non era
un Dio ma un angelo
ribelle caduto, che aveva
comunque creato il
mondo materiale. Alcuni
degli angeli (circa un
terzo) furono convinti
con lusinghe ad unirsi
a Satana, che li intrappolò
successivamente in
corpi umani, impedendo
loro di tornare dal
Dio giusto.
L'anelito continuo
dello spirito, dalla sua
dolorosa prigionia nel
corpo dell'uomo, sarebbe
quindi quello di
riuscire a tornare un
giorno da Dio Padre,
cosa che i Catari cercavano
di fare attraverso
il Consolament, durante
la loro vita, perché altrimenti
sarebbero stati
costretti, con la morte, a subire una
continua trasmigrazione dello spirito
da un corpo all'altro, anche animale,
fino a quando non fosse riuscito a
riunirsi di nuovo con Dio.
La figura di Cristo solo apparentemente
coincideva con quella prevista
dalla dottrina cattolica; in realtà non
era affatto così: i Catari credevano che
Cristo fosse un angelo di Dio, chiamato
Giovanni secondo Belibasta, sceso
sulla terra sotto forma di puro spirito.
Quindi anche i Catari aderivano al
concetto docetista della mera apparenza
della nascita, sofferenza e morte di
Cristo sulla terra. In tal modo automaticamente
venivano a cadere due
simboli cristiani legati alla vita terrena
di Cristo: la croce, che i Catari negavano,
se non odiavano, e la transustanziazione,
la trasformazione, cioè,
del pane e vino in corpo e sangue di
Cristo durante l'eucaristia, che i Catari
respingevano con orrore.
I riti e la liturgia
I Catari rifiutarono la maggior
parte dei riti e delle liturgie cristiane
in favore dei propri; questi erano:
• Innanzitutto il Consolament, una
forma di rito complesso con imposizione
delle mani, fatto ad adulti,
che riuniva in sé il valore dei
sacramenti cristiani del battesimo,
della comunione, dell'ordinazione
e dell'estrema unzione. Con questa
cerimonia, il cataro da semplice
fedele diventava un "perfetto" o
"Amico di Dio", come i Catari
amavano dire. Molti credenti
aspettavano di essere in fin di
vita per chiedere il Consolament e
preferivano a quel punto lasciarsi
morire per digiuno, per non rischiare
di essere esposti alle possibilità
di peccato. Questa pratica si
chiamò Endura e diventò popolare
nel periodo del tardo catarismo,
quando la scarsità di "perfetti"
poteva rendere impossibile una seconda
cerimonia di Consolament,
se fosse stata necessaria.
• Il Melhorament, un'elaborata forma
di saluto tra Catari.
• L'Aparelhament, una confessione
pubblica dei propri peccati.
• La Caretas, un bacio rituale di pace.
• La recita del Padre Nostro, in
Nella foto:
Croce catara.
61
A destra:
Pedro Berruguete,
San Domenico e
gli Albigesi.
pratica l'unica preghiera (eccetto
alcune invocazioni minori)
accettata dal cataro, con alcune
significative correzioni del testo:
il riferimento al "pane soprasostanziale"
al posto del "pane quotidiano",
inteso non come cibo
materiale ma come insegnamenti
di Cristo, e l'aggiunta in fondo
alla preghiera della postilla
"perché Tuo è il regno, la potenza e
la gloria nei secoli dei secoli. Amen".
I perfetti avevano l'obbligo di
recitarlo più volte al giorno,
solitamente in serie da sei
(sezena), da otto (sembla)
o sedici (dobla).
62
Come vivevano
e come erano
organizzati
Dal punto
di vista
alimentare i
perfetti catari
erano vegetariani;
avevano
abolito dalla
loro dieta carne,
uova, latte
e derivati, ma
curiosamente
non il pesce e
i crostacei, e
praticavano
spessissimo
il digiuno a
pane e acqua,
nella Quaresima,
nell'Avvento,
dopo
la Pentecoste
e tre giorni la
settimana o
come penitenza
per peccati
di lieve entità.
Non potevano
mentire
ed erano
inoltre casti;
condannavano
il matrimonio
e l'unione
sessuale, che
portava alla
procreazione, come atto tipico del
mondo materiale creato da Satana e
che perpetuava la catena delle reincarnazioni
che i Catari cercavano
invece di spezzare.
Infine erano tenuti al precetto di
non uccidere, il che li mise spesso
in forte crisi quando si trattava di
difendersi durante la crociate e le
successive campagne di persecuzioni
dell'Inquisizione. Questi precetti, tuttavia,
non si applicarono ai semplici
fedeli e simpatizzanti, che potevano
invece brandire le armi per difendere
la propria causa.
Per quanto concerne l'organizzazione,
il capo della comunità o della
chiesa assumeva il titolo di vescovo,
secondo i cronisti cattolici dell'epoca;
il perfetto destinato a succedergli era
denominato "figlio maggiore" e quello
destinato a succedere a sua volta
"figlio minore". Pare invece improprio
il titolo di "Papa cataro", attribuito a
Niceta.
I testi
A parte il Nuovo Testamento, i
Catari avevano prodotto una copiosa
letteratura, per la maggior parte
andata distrutta durante le persecuzioni.
Le fonti originarie a noi giunte
comprendono:
• Il Liber de duobus principiis, scritto da
Giovanni di Lugio, vescovo della
chiesa di Desenzano e maggiore
teologo cataro, scoperto per caso
nel 1939 nell'Istituto Storico Domenicano
di Santa Sabina, a Roma.
• L'Interrogatio Iohannis, denominata
anche Cena Segreta, un apocrifo
bogomilo portato in Italia da Nazario,
vescovo della chiesa di Concorrezzo,
che s'ispirava alla Genesi
e agli apocrifi della Bibbia.
• Un altro apocrifo bogomilo, la
Visione di Isaia, tradotto in provenzale
da Pietro Authier.
• Il Liber contra Manicheos di Durand
de Huesca.
• Varie versioni dei rituali catari,
sia quello utilizzato dai francesi,
denominato occitano, che quello
usato dagli italiani, chiamato
latino.
• Gli Atti del Concilio di Saint Felix
de Caraman, trascritti in un testo,
denominato Carta di Niceta, scritto
tra il 1223 ed il 1226, di cui
ci sono giunte alcune copie del
XVII secolo.
Nella foto:
Catari al rogo in
una miniatura
medievale.
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