Wadi Adrar: la storia

Wadi Adrar
La storia
Di Claudio Bencini. M.M., F.I.C.S.
Co-Fondatore e C.E.O. di Wadi Adrar Fondazione o.n.l.u.s.
Prologo
“Pronto? Sono Stefano, ti voglio far incontrare Fuad, un nostro vecchio compagno di
corso libico che torna ogni anno a passare le ferie estiva in Italia, che ne dici di andare
insieme a Volterra con le famiglie per una gita? Te lo ricordi? Ora è Primario di
Ginecologia ed Ostetricia a Tripoli, potremmo combinare qualcosa di interessante…”.
Così inizia, nell’agosto del 2002, la storia di Wadi Adrar Fondazione ONLUS, una
Fondazione particolare, del tipo cosiddetto “Community Foundation”, diverso dalle
solite Fondazioni nate da un lascito milionario da parte di qualche riccone, quindi
senza un ricco plafond finanziario da far fruttare, bensì un Ente che si sostenta
ottenendo donazioni dalla Comunità alla quale è destinata la propria azione benefica
sottoforma di servizi. Nel caso di Wadi Adrar, la Fondazione si occupa di facilitare la
reciproca conoscenza e comprensione delle popolazioni che formano Comunità dei
Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, da sempre crogiolo di razze, culture e
religioni.
Ma torniamo a Stefano e Fuad, entrambi ginecologi, però uno, Stefano, pisano,
biondo, occhi azzurri, atletico, aperto e gioviale, tombeur des femmes come ero
anch’io da studente, una vera forza della natura, l’altro, Fuad, libico, moro di carnato,
timido, serio, studioso e riservato. Con il primo, durante il Corso di Laurea in Medicina,
avevo subito legato soprattutto per via della vela che anche lui praticava, ma anche
perché si era messo sulla mia scia durante il tirocinio pre-laurea che scelse di svolgere
nel Reparto Ospedaliero dove io ero già ben introdotto. L’altro, Fuad, lo ricordavo a
malapena, sempre in Università, mai una bevuta tra amici, sempre in pari con gli
esami, fidanzatissimo al suo paese. Bèh, mi sono detto, vediamo cosa ne viene fuori.
“Ok Stefano, veniamo anche noi, e sentiamo cosa vuole Fuad”. Fuad non voleva un
bel nulla, era Stefano che si era messo in testa di aprire una Clinica Privata in Libia,
dove avrebbe portato le ultime tecniche di supporto alla fertilità di coppia che
sarebbero state apprezzate in un paese con il culto della famiglia numerosa. Saputo
della cessazione dell’Embargo alla Libia, aveva intravisto un’occasione di entrare per
primo in un potenziale mercato inesplorato utilizzando le entrature di Fuad. Ma perché
voleva coinvolgere anche me? Gli interessava la mia esperienza tecnica di Consulente
in tema di “Autorizzazione ed Accreditamento di Strutture di Ricovero e Cura”, il fatto
che allora ero Consulente Chirurgo di un paio di Cliniche Private italiane, chiedeva il
mio eventuale supporto come chirurgo relativamente esperto anche in ginecologia e,
non ultimo, lo rassicurava il fatto che io me la sbrigassi bene con più di una lingua
straniera. Ok, dico io, andiamo a Volterra. Arrivati là con le tre famiglie, bimbi, mogli e
tutto il resto, ci troviamo immersi in una festosa atmosfera medioevale, tra bancarelle
di legno e stracci, dame e nobildonne avvolte in sontuose vesti medioevali, mendicanti
con fasce da lebbroso accasciati molto realisticamente negli angoli bui con la mano
protesa a pietire un misero obolo, macchine da tortura sospese tra la folla con
all’interno turisti giapponesi in posa per improbabili foto ricordo. Trovata finalmente una
osteria la occupiamo praticamente tutta con le rispettive famiglie e, con un bel piatto di

spaghetti davanti, iniziamo a riesumare i vecchi ricordi di università ed a discutere le
idee di Stefano. Nei giorni seguenti la vecchia complicità di compagni di corso si ricrea
e si rafforza ancora di più, tanto che si decide che io e Stefano avremmo compiuto un
viaggio in Libia al più presto, ospiti di Fuad.
Figura 1: da sinistra Fuad, Io e Stefano nell’estate 2002 al momento della storica decisione di partire per
la prima volta per la Libia.
La Libia
Dopo più di un anno di gestazione finalmente il primo viaggio in Libia si concretizzò e,
nel novembre 2003, arrivammo finalmente alla nostra meta: l’ “Ospedale Nuovo di
Nalut” dove Fuad lavorava come “Consultant Gynaeocologist”.
Figura 2: l'ingresso del Pronto Soccorso dell’Ospedale Nuovo di Nalut

Figura 3: la sala operatoria dell’ “Ospedale Nuovo di Nalut”. Da sinistra, Stefano, Fuad ed io,
nell’ottobre 2003.
Fummo accolti benissimo dal Direttore Generale Ali e, per farla breve, iniziammo una
proficua cooperazione sanitaria internazionale che continua tuttora. Ma che c’entra
tutto questo con Wadi Adrar? C’entra perchè, uscito dall’Ospedale per visitare i
dintorni, fatti pochi passi fuori dall’Ospedale, mi imbattei nelle rovine del vecchio
villaggio di Nalut, in parte edificato in pietra grezza e gesso ed in parte troglodita,
abbandonato negli anni 60 del secolo scorso a seguito della rivoluzione che ha portato
all’indipendenza della Libia, il cui governo ha dotato la popolazione di moderne case in
muratura.
Figura 4: il suggestivo Granaio Fortificato di Nalut "Gasr Nalut"

Al centro del villaggio sorgeva una costruzione particolarissima, che non assomigliava
a nulla di ciò che conoscevo, estremamente suggestiva nella luce rosa del tramonto, e
della quale non riuscivo a capacitarmi. Sicuramente era molto antica, ma non aveva
niente in comune con le rovine romane o greche che siamo abituati a visitare, per farla
breve non assomigliava a nulla di ciò che conoscevo. Durante il primo breve
soggiorno, preso com’ero dagli impegni dell’ospedale, non ebbi il tempo di visitare la
strana struttura e mi accontentai della visione dall’esterno. Una volta nuovamente in
Italia iniziai a svolgere ricerche sempre più approfondite finchè riuscii a rendermi conto
che si trattava di un tipo di costruzione caratteristica del Maghreb adibita a deposito
fortificato di derrate alimentari, chiamata Gasr nella traslitterazione italiana, oppure
Qasr nella traslitterazione anglosassone. Però rimaneva da spiegare come mai tutti gli
altri Gasr del Maghreb fossero strutture di forma ovalare abbastanza regolare
somiglianti ad un circo romano, mentre quella di Nalut, l’unica che conoscevo
direttamente, fosse così strana, praticamente rettangolare, e completamente occupata
dalle celle di deposito, che, come riuscii a scoprire in seguito, venivano chiamate
Gurfa, Gorpha, secondo la traslitterazione anglosassone, cioè “stanze”. Scoprii con
molta difficoltà, data la carenza di informazioni sull’argomento, che Nalut aveva origini
antichissime, che era citata dagli Autori classici romani come Tabumati, ed ebbi la
sensazione che a poca distanza dalla mia patria potessero giacere le testimonianze di
una antica civiltà locale poco o per niente conosciuta. Dato che le popolazioni locali,
pur disponendo di uno degli alfabeti più antichi, non avevano lasciato testimonianze
scritte, i resti architettonici dei villaggi, dei Gasr e degli insediamenti trogloditi che li
attorniavano potevano rappresentare l’unica testimonianza di questa civiltà che
rischiava di essere dispersa a causa dell’abbandono. Pubblicai così questi miei primi
rilievi sia su Archnet, il portale di Architettura Islamica dell’M.I.T. sia su Archeologia
viva, e mi misi ad aspettare gli sviluppi. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo
su Archeologia Viva, un’altra telefonata cambiò la mia vita: “Pronto, sono Franco, ho
letto il suo articolo sul Gasr e gli insediamenti trogloditi di Nalut. Possiamo parlarne
insieme? L’argomento è interessante e mi piacerebbe accompagnarla in Libia la
prossima volta che ci andrà”. “Certamente, tra pochi mesi ho in programma un
ulteriore missione di Cooperazione Sanitaria Internazionale a Nalut, ma intendo anche
interessarmi dei resti architettonici della civiltà locale. Perché non viene ospite a casa
mia per qualche giorno e ci scambiamo le idee?”.
Wadi Adrar
Così conobbi Franco, che di lì a poco sarebbe diventato il Co-Fondatore di Wadi
Adrar. Già prima di incontrarlo, una rapida ricerca sul web mi rivelò che era un esperto
di insediamenti rupestri Autore di svariati trattati sull’argomento, con una grande
esperienza ampiamente riconosciuta dalla comunità scientifica. La collaborazione e
l’amicizia di Franco dettero un potente impulso alla mia curiosità, dato che mi fece
scoprire l’importanza ed il fascino degli insediamenti rupestri non solo di quel villaggio,
ma soprattutto delle migliaia di ulteriori insediamenti che in seguito ha rilevato sulla
cartografia militare italiana redatta durante l’occupazione militare della prima metà del
‘900 e documentato in seguito sul terreno. Franco aveva già lavorato con un giovane
Architetto Conservatore, Giuseppe, insieme al quale aveva pubblicato importanti rilievi
di insediamenti rupestri poco conosciuti delle Gravine Pugliesi, di Massafra, ed altri,

partecipando attivamente al processo di costituzione di un Parco Regionale istituito a
protezione di questi beni ambientali.
Figura 5: Franco e Giuseppe rilevano una rarissima Moschea Rupestre Ibadita nel Jebel Garbi Libico.
Rapidamente Giuseppe fu cooptato nella nostra avventura e, nel corso dei viaggi in
Libia oramai diventati periodici, le mie permanenze all’Ospedale di Nalut si fecero
sempre più evanescenti, e rapidamente arrivai delegare i compiti di Cooperazione
Sanitaria ad altri colleghi italiani che avevano scelto di cooperare, riservandomi
sempre più ampi spazi di tempo libero per dedicarmi alle ricerche sul territorio dei resti
di questa Civiltà locale che affascinava non solo me, ma sempre di più anche Franco e
Giuseppe. Già dalle prime missioni era emersa la necessità di una struttura
organizzativa ed operativa che potesse permetterci di far fronte alle crescenti
responsabilità che ci trovavamo ad affrontare nei confronti del crescente numero di
ricercatori che si aggregavano a noi spinti dall’interesse per i resti architettonici lasciati
dalla Civiltà locale. La migliore soluzione alle nostre esigenze la trovammo nella
costituzione di una Fondazione ma, dato che non disponevamo di un ingente capitale
da assegnare, decidemmo di adottare la formula della “Community Foundation”,
elaborata negli USA. Si tratta di una Fondazione che trae sostentamento da piccole
donazioni erogate con continuità dalla Comunità cui l’ente rivolge la propria azione
benefica, in cambio delle prestazioni stabilite dallo Statuto. La nostra filosofia era
quella di promuovere la conoscenza della Civiltà locale della montagna occidentale
libica, il “Jebel Garbi”, anticamente denominato “Jebel Nafusa”, basata su dati
scientifici, e di divulgarla all’estero, con l’intento di favorire la nascita di un turismo
sostenibile ed etico che non apportasse fattori di disturbo, ma, al contrario, favorisse lo
sviluppo economico dell’area. La folgorazione del nome mi venne in seguito ad una
serie di scambi di idee con Franco. Wadi, parola araba che significa valle, unita alla
parola del dialetto locale berbero Adrar, che significa Montagna, avrebbe reso
magnificamente l’essenza del nostro lavoro: smussare le differenze e le
incomprensioni tra la nostra civiltà, la civiltà arabo-islamica e la civiltà berbera della
montagna libica. Infatti, il nome che abbiamo scelto per la Fondazione “Wadi Adrar”
sottintende, con termini in lingua araba e berbera, la traslazione del significato
universale di un detto proprio del vernacolo di Livorno, città dalle molte anime nella

quale la Fondazione ha la sede: “Poggio e bua fa piano”. Una collinetta ed una buca
formano una pianura.