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Carillon - Zona Editrice

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Alle casse e ai rullanti tagliati e importati in digitale<br />

provammo ad affiancare la sintesi, a tastiere, e la cosa si faceva<br />

via via più interessante.<br />

L’inverno finì, e sancì il passaggio dalle cantine strapiene<br />

di strumenti classici (avevamo una cover band, suonavamo<br />

pezzi di gruppi che ai proprietari dei locali non piacevano,<br />

ma che centinaia di studenti durante le occupazioni mostravano<br />

di apprezzare) alle piccole stanze di casa e alle nostre<br />

machines. Però, in silenzio, ci dicevamo che mancava<br />

qualcosa, mancava la corrente. L’anima.<br />

Passò un altro anno, molti live, molte lotte, tornò<br />

l’inverno e ci riaccucciammo, provando brani fatti con/per<br />

chitarra (e che tali sarebbero dovuti rimanere) ma sui quali<br />

per un periodo – follemente – invece del metronomo che ci<br />

aiutasse a essere in sync, premiamo play dal pc. Dal clic al<br />

beat.<br />

Magia: suonavano all’unisono. Fusi.<br />

1998, “Rocksession”. Un tape deck a fare da sampler<br />

per i beat registrati col pc, cassetta a nastro vergine per<br />

l’occasione e chitarre con delay che sembravano toccare le<br />

parti piu intime – il primo impatto t’emoziona, ma le ripetizioni<br />

via via ti entrano dentro, e più lungo è il ritardo più a fondo<br />

scava.<br />

Inizia la serata: 21.30. Play. Tre pezzi.<br />

Vinciamo il premio della critica.<br />

Seguono “Noi uomini (di) oltre il Muro”, “Stato di<br />

Guerra”, “Dub Flowers”, tre manifestazioni di protesta, e noi<br />

che spingiamo ancora più a fondo, con delay accompagnati –

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