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COGITO ERGO DE CURTIS - Il pianeta Totò

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Introduzione<br />

A cura di Ornella Di Russo e Vincenzo Peluso.<br />

<strong>Totò</strong>: nascita di un canone di vita eterno<br />

Tanto, infinito è il materiale bibliografico e cinematografico che ha<br />

immortalato Antonio De Curtis. A ragione, si è cominciato a parlare di un vero e<br />

proprio mito popolare, sorto spontaneamente, e mai costruito dalle grandi<br />

fabbriche dell’immaginario contemporaneo.<br />

Tante sono le componenti che hanno preso parte alla nascita dell’attore comico<br />

<strong>Totò</strong>: all’origine vi furono gli insegnamenti di disarticolazioni del comico-clown<br />

Gustavo De Marco (meramente meccaniche) e le tante, impalpabili lezioni della<br />

humus scarpettiana: un autore, Scarpetta, da <strong>Totò</strong> ripreso in alcuni dei più celebri<br />

tra i suoi film. Sappiamo anche quanto abbia influito, sulla nascita del suo<br />

iniziale personaggio-maschera, l’omino con bombetta e uno squinternato abito di<br />

società, lo Charlot di Chaplin. In realtà <strong>Totò</strong> intuisce subito che Charlot è soltanto<br />

una delle componenti che deve entrare nel suo sistema. E perciò la minuziosa<br />

rievocazione dell’abbigliamento del suo personaggio non è una sua tarda<br />

pedanteria provinciale, ma al contrario è un’illuminante chiosa ermeneutica.<br />

Nel sistema <strong>Totò</strong> entrarono, seppur in maniera molto flessibile, anche il<br />

Futurismo, la paradossalità pirandelliana e il Crepuscolarismo. La prima<br />

componente, quella futurista, si lega al teatro di varietà con Francesco Cangiullo,<br />

Raffaele Viviani ed altri artisti. La seconda componente si avverte attraverso le<br />

opere di <strong>Totò</strong>. La terza componente, crepuscolare, è legata alla cultura napoletana<br />

1


con Rocco Galdieri il quale è la maggior voce del Crepuscolarismo e creatore del<br />

genere della rivista.<br />

Parlando dell’intero <strong>Totò</strong> lasciatoci dai suoi film, bisogna certamente<br />

prendere atto che la cronologia traccia da sé un confine oggettivo. Da un lato si<br />

trovano i sei film che vanno da Fermo con le mani (1937) a Animali pazzi<br />

(1939), San Giovanni Decollato (1940), L’allegro fantasma (1941), Due cuori<br />

fra le belve (1943), fino al Ratto delle Sabine (1945); dall’altro, i restanti<br />

ottantotto, susseguitisi, fino al 1967 che hanno evidenziato ed affermato il mito<br />

<strong>Totò</strong>, il nuovo canone di vita eterno.<br />

Lo scopo del seguente lavoro è quello di scoprire il vero <strong>Totò</strong>, di catturare<br />

l’essenza del personaggio, di scavare nei meandri della sua coscienza e del suo<br />

straordinario valore artistico, divenuto negli anni un canone, ossia un valore<br />

inestimabile che riusciamo a cogliere facilmente nella vita di tutti i giorni. Quella<br />

del Principe è una vera e propria rivoluzione artistica e sociale, avvenuta in un<br />

periodo storico fondamentale per il nostro paese.<br />

Nel momento in cui l’artista neorealista aveva il compito di trasmettere con<br />

assoluta veridicità gli orrori ma soprattutto le conseguenze del secondo conflitto<br />

mondiale, <strong>Totò</strong> ha saputo non solo trasmettere tutto ciò con carisma e irripetibile<br />

bravura ma anche promuovere uno stile di vista nuovo, a tratti innovativo,<br />

rispettoso e divertente, malleabile e fermo nello stesso tempo, spensierato e<br />

preoccupato nelle situazioni difficili, serio e comico negli eventi, protagonista o<br />

passivo delle forze sociali superiori.<br />

Questo è il <strong>Totò</strong> che ha rivoluzionato la nostra società e l’ha costretta ad<br />

adattarsi benevolmente al suo modus vivendi, ai suoi gesti, alle sue azioni, ai suoi<br />

2


pensieri e alle sue idee. Nella vita quotidiana non vi è cittadino che,<br />

consapevolmente o inconsapevolmente, trattando qualsiasi argomento o<br />

discutendo con qualcuno, non assuma atteggiamenti impartiti dal Principe o<br />

faccia usi di terminologie che provengono dal “vocabolario De Curtis” (Mi facci<br />

il piacere; è una ciofeca; parli come badi; a prescindere; alla faccia del<br />

bicarbonato di sodio, ecc.).<br />

<strong>Il</strong> lavoro per questo tratta il personaggio <strong>Totò</strong> connesso alla varie situazioni<br />

sociali e alle tante imposizioni spontanee che la vita di tutti i giorni ha<br />

obbligatoriamente raccolto da De Curtis e che continua infinitamente a<br />

preservare con minuziosa attenzione. Non è possibile controllare né spiegare<br />

questo sodalizio tra <strong>Totò</strong> e la realtà quotidiana; l’unica giustificazione si può<br />

trovare nella straordinaria abilità e del sovraumano talento di <strong>Totò</strong> che ha saputo<br />

imprimere a tutti: dai grandi ai piccoli, dai giovani agli anziani, dai buoni ai<br />

cattivi, dai comunisti ai capitalisti, dai ricchi ai poveri.<br />

Quanti uomini hanno segnato, nel bene o nel male, la storia del nostro mondo<br />

ma, senza ombra di dubbio, il Principe ha governato la nostra società in maniera<br />

impeccabile e sarà sempre ricordato “in aeternitate vitae”. L’uomo che ha<br />

sconvolto il cinema italiano, ha più volte provato che attraverso un televisore si<br />

possono trasmettere significati importanti della vita, necessari da raccogliere.<br />

Guardando diversi film di <strong>Totò</strong> ci viene in mente addirittura di annotare i vari<br />

messaggi che essi vogliono trasmettere, quasi fossero profezie, insegnamenti di<br />

vita: la modestia, quel senso di sottomissione forzata alle sfere politiche e sociali<br />

più forti, la volontà di far ridere anche in situazioni drammatiche dal punto di<br />

vista storico.<br />

3


Questo era <strong>Totò</strong>, il ragazzo sfortunato e cresciuto nel rione Sanità di Napoli, il<br />

quale, diventato dopo innumerevoli sacrifici famoso, continuava sempre a<br />

difendere le classi più povere, le persone più bisognose come se la sua<br />

condizione economica e sociale fosse rimasta ferma al periodo adolescenziale<br />

quando veniva scacciato da tutti i teatri della zona che rifiutavano la sua<br />

comicità, risultata successivamente emblematica.<br />

La società si evolve, il tempo trasforma i vari aspetti e le varie forme della<br />

vita, il sistema sociale e politico subisce continue metamorfosi ma i capolavori di<br />

<strong>Totò</strong> ancora oggi vengono ripetutamente trasmessi quasi servissero ancora a voler<br />

dimostrare come il suo insegnamento serva e ora più che mai soprattutto dal<br />

punto di vista del rispetto e dell’educazione, del valore etico racchiuso ed<br />

espresso nella tradizionale frase finale con la quale <strong>Totò</strong> spesso conclude i suoi<br />

film dando veridicità e certezza al significato inizialmente tratteggiato.<br />

E’ ormai palese che un personaggio come il Principe difficilmente verrà<br />

riproposto sui palcoscenici italiani e napoletani perché nessuno avrà mai quel<br />

senso di stabilità e disciplina comica tanto forte in <strong>Totò</strong>, così forte da far ridere<br />

senza far uso di un linguaggio volgare, tanto usato nei film comici<br />

contemporanei. Per questo motivo deve essere sottolineata il suo infinito valore<br />

artistico e umano.<br />

<strong>Il</strong> lavoro proposto tende ad analizzare <strong>Totò</strong> in rapporto ad alcuni concetti di<br />

fondamentale importanza nella nostra società e che si esprimono in base ad<br />

alcuni capolavori cinematografici dell’attore partenopeo, onnipresenti e legati<br />

alla società contemporanea.<br />

Trattando <strong>Totò</strong> in rapporto al concetto di sopravvivenza (capitolo primo), si<br />

4


analizzano alcune pellicole cinematografiche dove si evince soprattutto la<br />

reazione del Principe di fronte alle innumerevoli difficoltà della vita che<br />

spuntano continuamente, diventando parte integrante del suo percorso artistico.<br />

Sembra che <strong>Totò</strong> cammini di pari passo con le difficoltà e abbia un bisogno<br />

allarmante delle stesse per dare un senso alla sua arte, costruita sulla base delle<br />

peripezie del mondo e spesso contraddistinta da reazioni umoristico -<br />

didascaliche. La sopravvivenza aiuta l’uomo a fuggire da un mondo pieno di<br />

insidie e malvagità, creata ed affermata dai caporali, ma <strong>Totò</strong> sa anche trarre<br />

dalla sopravvivenza un senso comico che deride l’opposto, cioè il più forte, e<br />

agisce consciamente e inconsciamente a favore della gente comune, che nutre<br />

verso il comico malcapitato una doppia sensibilità e una maggiore anzi eccessiva<br />

stima e considerazione. <strong>Totò</strong> vuol fare capire che la sopravvivenza aiuta l’uomo a<br />

vivere meglio e a riflettere sul senso della vita in modo da apprezzarla<br />

maggiormente e mai ripudiarla.<br />

<strong>Il</strong> secondo capitolo affronta il tema dell’amore, sentimento a cui <strong>Totò</strong> non<br />

può in alcun modo rinunciare in quanto è parte integrante della sua forma artis, è<br />

l’essenza del suo essere artista ed uomo nello stesso tempo.<br />

Sarà importante valutare, attraverso l’analisi di alcuni lavori cinematografici<br />

del Principe, questo sentimento che, nei suoi film, spesso nasce in forma molto<br />

flebile, quasi non avesse testo nella trama, ma poi si sviluppa intensamente tanto<br />

da superare i vari ostacoli (costruiti sulla scena cinematografica) e spesso<br />

trionfare sugli stessi come se fosse una conseguenza naturale. È l’amore che<br />

vince, che trionfa sul male e sul cinismo.<br />

Ma la grande peculiarità di questo attore si riscontra nel momento in cui,<br />

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dinanzi a qualsiasi donna, pur corteggiandola, non cade mai nella banalità e<br />

convenzionalità dell’uomo che vuole possederla. Da parte di <strong>Totò</strong> c’è sempre e<br />

solo il desiderio accompagnato da una grande forma di rispetto e di stima per la<br />

stessa. Quindi anche il corteggiamento rientra in questi parametri perché viene<br />

accompagnato sempre da un’educazione esemplare dell’uomo De Curtis da cui<br />

poi scaturisce una comicità elargita spontaneamente. Ma l’amore, per l’attore<br />

<strong>Totò</strong>, non significa solo donne e relazioni. L’amore ha tante valenze nella<br />

variopinta e magniloquente arte cinematografica e teatrale dell’attore partenopeo:<br />

è l’affetto che si prova verso un’altra persona, uomo o donna che sia, il sostegno<br />

nei momenti di difficoltà e la voglia di superare i problemi sostenendosi<br />

reciprocamente. Antonio De Curtis amava e proteggeva i suoi attori ed era<br />

sempre pronto ad aiutarli.<br />

Diventa, quindi, interessante analizzare, nel terzo capitolo, l’uomo <strong>Totò</strong> in<br />

rapporto al valore dell’amicizia, intesa dal Principe come canone inscindibile,<br />

un insieme di cose divine e umane a cui l’uomo non potrà mai fare a meno.<br />

Quante amicizie hanno segnato la sua vita e hanno contribuito ad arricchire la sua<br />

esperienza e costruire, passo dopo passo, il grattacielo del successo e<br />

dell’immortalità: dai fratelli De Filippo ad Alberto Sordi, Nino Manfredi, e tanti<br />

altri sublimi artisti. Da non dimenticare la fraterna amicizia che era nata con<br />

Mario Castellano, divenuta successivamente l’insostituibile spalla, pronta a<br />

sollecitare la scena ed esaltare le doti comiche di <strong>Totò</strong>.<br />

Per il grande valore artistico e letterario che ha assunto nel corso degli anni<br />

ma soprattutto per la nascita di un nuovo <strong>Totò</strong>, è ora importante analizzare<br />

l’incontro tra il Principe e Pier Paolo Pasolini, avvenuto nel 1965 e considerato<br />

6


uno degli eventi più interessanti del cinema italiano del dopoguerra perché segna<br />

per entrambi un momento di grande vitalità creativa, frutto della reciproca<br />

influenza che i due riuscirono a trasmettersi. Da quell’incontro nacque un film<br />

(Uccellacci e uccellini, 1965) e due cortometraggi: La terra vista dalla luna<br />

(episodio del film Le streghe) e Che cosa sono le nuvole? (episodio del film<br />

Capriccio all’italiana), tutti e tre girati in rapida successione nel giro di pochi<br />

mesi, segno di un connubio forte e fecondo sul piano dell’intesa e della stima,<br />

che purtroppo si interruppe bruscamente il 15 aprile 1967, per l’improvvisa<br />

morte del grande attore napoletano. Molti progetti di film che Pasolini aveva in<br />

mente di girare con <strong>Totò</strong> protagonista (come un progetto sui Re Magi, pensato<br />

ancora una volta per la coppia clownesca <strong>Totò</strong>-Ninetto Davoli, una sorta di Don<br />

Chisciotte e Sancho Panza) rimasero nel cassetto, a dimostrazione del fatto che<br />

per quelle storie che Pasolini voleva raccontare, <strong>Totò</strong> era insostituibile e<br />

irrinunciabile.<br />

La reazione istintiva alla morte di <strong>Totò</strong>, che Pasolini apprese mentre si<br />

trovava in Marocco a fare i sopralluoghi per Edipo re, fu infatti subito quella di<br />

lamentare l’impossibilità di realizzare quei progetti. «<strong>Totò</strong> ci è stato sottratto<br />

come se ce l’avessero rubato» scriverà su “Paese Serra” il 16 aprile 1967.<br />

«Dovevamo ancora lavorare insieme, su quattro o cinque episodi che sarebbero<br />

dovuti diventare un film». Rimarrebbe semmai da capire se quelle storie vennero<br />

prima che Pasolini scoprisse <strong>Totò</strong> o se, al contrario, fu l’idea di scegliere <strong>Totò</strong> a<br />

produrre poi quelle storie.<br />

<strong>Il</strong> dubbio ha una sua fondatezza, ma credo che fosse proprio la scoperta di un<br />

<strong>Totò</strong> così inedito ad ispirare quelle storie tanto surreali e fantastiche. Bisogna<br />

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premettere che quando i due si incontrarono e cominciarono a collaborare,<br />

Pasolini aveva appena compiuto 40 anni, era nel pieno della sua carriera artistica,<br />

iniziata sei anni prima con Accattone, suo primo film come regista, aveva avuto<br />

già alcune denunce per oscenità, era dichiaratamente omosessuale ed era<br />

apprezzato solo dalla ristretta cerchia degli intellettuali di sinistra. <strong>Totò</strong> invece<br />

aveva quasi 70 anni, era un vecchio clown alla fine della sua lunghissima<br />

carriera, stanco, cieco, appesantito, intristito e universalmente amato quasi alla<br />

venerazione dalle platee popolari. Pasolini era autore di film difficili, ostici e<br />

coraggiosi, che non godevano le simpatie del grande pubblico, ma che, anche per<br />

la critica straniera, soprattutto francese, erano considerati dei capolavori.<br />

Pasolini, nel momento in cui si appresta a girare Uccellacci e uccellini, decide<br />

senza avere dubbi e lottando strenuamente, insieme ad Alfredo Bini, contro le<br />

società di noleggio, di scegliere <strong>Totò</strong> nel ruolo del protagonista, unitamente alla<br />

“spalla” Ninetto Davoli, con cui formerà una coppia anche per gli altri due film.<br />

Pasolini, nel momento in cui si appresta concretamente a girare Uccellacci e<br />

uccellini, decide senza avere dubbi e lottando strenuamente di scegliere <strong>Totò</strong> nel<br />

ruolo del protagonista, unitamente alla “spalla” Ninetto Davoli, con cui formerà<br />

una coppia anche per gli altri due film. <strong>Totò</strong> aveva tuttavia paura, nel confronto<br />

con un intellettuale colto e raffinato come Pasolini, di non essere all’altezza, non<br />

tanto sul piano recitativo, quanto nel rapporto umano e privato.<br />

La cosa forse più importante e da analizzare, che può valere come premessa<br />

generale, è che Pasolini, nel momento in cui sceglie <strong>Totò</strong> per Uccellacci e<br />

uccellini, non lo percepisce come attore comico. Lo dice lo stesso Pasolini:<br />

«Questo film che voleva essere concepito ed eseguito con leggerezza sotto il<br />

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segno dell’Aria del perdono del Flauto magico, è dovuto in realtà ad uno stato<br />

d’animo profondamente malinconico, per cui io non potevo credere al comico<br />

della realtà. Io ho scelto <strong>Totò</strong> per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una<br />

parte c’è il sottoproletariato napoletano, e dall’altra c’è il puro e semplice clown,<br />

il burattino snodato, l’uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche<br />

insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l’ho<br />

usato. Nel mio film <strong>Totò</strong> non si presenta come piccolo borghese, ma come<br />

proletario o sottoproletario, cioè come lavoratore» 1 . <strong>Il</strong> <strong>Totò</strong> di Pasolini è un <strong>Totò</strong><br />

originale, che nessuno, prima di Pasolini era riuscito a percepire e che aggiunge<br />

alle sue molteplici facce un aspetto insolito, lunare, metafisico, surreale, persino<br />

astratto.<br />

Pasolini intende inserire <strong>Totò</strong> in un tessuto narrativo fantastico e ancorato alla<br />

natura, con le stagioni e la pioggia, la luna e le nuvole, il freddo, il vento, la neve<br />

e gli alberi, dove <strong>Totò</strong> diventa un folletto proteiforme, spogliato dei tratti<br />

realistici che lo hanno sempre contraddistinto per diventare una sorta di sagoma<br />

bidimensionale fino a ridursi a una marionetta umanizzata. Risulta palese ed<br />

importante per il nostro discorso il fatto che Pasolini collochi <strong>Totò</strong> in uno spazio<br />

narrativo, al confine tra un mondo sognato o evocato attraverso allusioni del tutto<br />

libere da qualunque preoccupazione realistica: il <strong>Totò</strong> di Pasolini diventa una<br />

creatura nuova, quasi vergine. <strong>Il</strong> regista bolognese è riuscito ad estrapolare dal<br />

registro recitativo tipico di <strong>Totò</strong> soprattutto due aspetti fondamentali, che erano<br />

sempre rimasti nascosti: l’innocenza e l’ingenuità. L’operazione originale di<br />

Pasolini non è costituita tuttavia soltanto nell’aver eliminato quei tratti molto ben<br />

1 P. P. PASOLINI, Uccellacci e uccellini, Milano, Garzanti, 1966, pp. 53-54.<br />

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visibili e stratificati nel corso di molti decenni nella maschera di <strong>Totò</strong>, ma<br />

nell’averli ricomposti in una unità nuova e inedita, che, contenendoli tutti, li ha in<br />

qualche modo trascesi. In sostanza il <strong>Totò</strong> di Pasolini appare diverso da quello<br />

che evidenziava ora la marionetta, ora la maschera farsesca e pulcinellesca, ora la<br />

maschera realistica, malinconica e persino tragica. Con il film La terra vista<br />

dalla luna, l’allontanamento dalla realtà (la luna) fa capire meglio l’assurdità del<br />

mondo reale (la terra). Questo allontanamento della realtà si accentua e si dilata<br />

fino ad assumere, nel terzo film, connotati esplicitamente espressionistici, con i<br />

personaggi ridotti a marionette mosse da un burattinaio che dialoga con le sue<br />

creature.<br />

<strong>Il</strong> <strong>Totò</strong> di Pasolini, dunque, è una creature surreale, che non ha niente a che<br />

vedere con le sofferenze reali e concrete dell’umanità cui tuttavia appartiene.<br />

Nessun altro film di Pasolini del resto, oltre a quelli interpretati da <strong>Totò</strong>, presenta<br />

quei tratti di riferimento. È evidente dunque che Pasolini ha percepito quella<br />

qualità che giaceva più profonda nella “maschera” di <strong>Totò</strong>, grazie alla quale ha<br />

potuto realizzare storie che esaltavano, semplificandole in contesti narrativi privi<br />

di qualunque preoccupazione realistica, quell’aspetto surreale che pure era<br />

presente, ma anch’esso nascosto, nel suo universo poetico. Mentre Pasolini<br />

scopriva il surreale in <strong>Totò</strong>, lo scopriva anche in se stesso.<br />

Ultimo, non certo per ordine di importanza, è il tema trattante il rapporto tra<br />

<strong>Totò</strong> e il senso della morte (capitolo quarto). Questo concetto, per <strong>Totò</strong>,<br />

racchiude diversi significati, legati a tante motivazioni di carattere sociale,<br />

politico e spesso personale. La morte per il Principe ha un significato profondo<br />

che va oltre la normale concezione ma, per questo, è onnipresente nei suoi film<br />

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come elemento fondamentale per la risoluzione di disgrazie (<strong>Totò</strong> e i re di Roma)<br />

o per ironizzare su qualche individuo che, per la donazione, aspetta solo la morte<br />

degli stessi (<strong>Totò</strong> cerca pace). Profondo significato racchiude il pensiero che<br />

<strong>Totò</strong>, nelle vesti del maggiordomo Antonio, nel film <strong>Totò</strong> sceicco, rivolge al suo<br />

padrone, il Marchese Gastone, desideroso di cercare la morte per aver perso la<br />

sua amata Lulù: «Morire, morire, ma guardi che lei si annoia, sa. Tutto il santo<br />

giorno sempre sotto terra, sempre le stesse facce da vermiciattoli. Oddio, sì! Ci<br />

sono i fuochi fatui, ma soltanto la domenica. Gli altri giorni sempre tappato in<br />

cassa. Creda, signor Marchese, desista e non insista. Sarebbe una vita da morto<br />

che a lei non confà, non le confà».<br />

È questo il <strong>Totò</strong> che abbiamo conosciuto, scherzoso e sarcastico anche nei<br />

momenti più drammatici. Sdrammatizza sulla tragedia che ha colpito il suo<br />

padrone e scherza sulla morte considerandola una vita noiosa, statica e poco<br />

produttiva. Addirittura il Principe è sicuro che l’uomo, dopo la morte, possa<br />

accorgersi di quello che sta accadendo e continuare a vivere in cimitero, notando<br />

e analizzando le persone che entrano ed escono dalla terra santa. Questo non<br />

deve certo meravigliarci perché echi simili li abbiamo trovati nella sua famosa<br />

poesia ‘A livella che <strong>Totò</strong>, quindi, ha nuovamente riproposto come tematica in<br />

uno dei suoi innumerevoli film. Tanti sono gli echi presenti nei suoi film e il<br />

quarto capitolo affronta il tema della morte legato agli echi danteschi che <strong>Totò</strong> ha<br />

inserito in alcuni suoi film, segno del profondo legame che il Principe aveva<br />

stabilito con la letteratura e la filologia italiana, sposando appieno le nozioni e<br />

tematiche provenienti dal mondo dantesco.<br />

Per questo motivo <strong>Totò</strong> è in noi e con noi, è il quinto elemento fondamentale<br />

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del mondo, è la particella che Dio che si è mescolato tra la massa ma non si è<br />

confusa in essa perché ha subito dettato inconsciamente i canoni di vita da<br />

seguire senza mai imporli.<br />

<strong>Il</strong> XXI sec., nonostante la tecnologia avanzata e una situazione sociale in<br />

continua metamorfosi, non può fare a meno delle opere di Antonio De Curtis,<br />

cinematografiche o bibliografiche che siano, perché preservano continuamente la<br />

peculiarità e l’originalità che li ha sempre contraddistinto. L’arte di <strong>Totò</strong>, accanto<br />

alla vita, ci impartisce ogni giorno la ricerca del bene e la volontà di raggiungerlo<br />

con tutte le forze.<br />

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Foto 1. Documento fotografico inedito, custodito dalla Chiesa Santa Maria della Sanità di Napoli in<br />

cui <strong>Totò</strong>/Antonio de Curtis era stato battezzato, ritraente il Principe con accanto la compagna Franca<br />

Faldini seduti in piazza con altri partecipanti per la Festa del Monacone (ricorrenza annuale del rione<br />

Sanità in onore di San Vincenzo a cui <strong>Totò</strong> amava prendere parte).<br />

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Encomio del Principe<br />

di Vincenzo Peluso.<br />

<strong>Il</strong> tempo trascorre inevitabilmente offuscando il passato, ma non può<br />

cancellare i facta di personaggi unici, originali che hanno lasciato un segno nella<br />

storia. Anche se molti principi hanno dato un senso al nostro mondo, il nostro<br />

Principe della risata Antonio de Curtis, in arte <strong>Totò</strong>, ha dominato in modo<br />

equanime e sarà sempre ricordato in “aeternitate vitae”. L’uomo che ha trasmesso<br />

messaggi importanti tramite il teatro, il cinema e la televisione, annotazioni di<br />

vita quasi fossero profezie. Si è fatto portatore di insegnamenti di vita morali ed<br />

immortali in modo modesto ed elegantemente sottomesso alle sfere politiche<br />

sociali apparentemente più forti, ma la sua volontà di fare ridere in situazioni<br />

drammatiche ha distratto il popolo dalla situazione deprecabile.<br />

<strong>Totò</strong>, il ragazzo cresciuto nel rione Sanità di Napoli, il quale nonostante il<br />

successo ottenuto dopo sacrifici e dure prove, continuava a difendere le classi<br />

inferiori, povere, disadattate, anche quando veniva scacciato dai teatri non<br />

perdeva il suo entusiasmo e la comicità brillava di luce incandescente.<br />

La società muta, il tempo passa, il sistema sociale politico subisce<br />

continuamente metamorfosi, ma i capolavori di <strong>Totò</strong> vengono trasmessi<br />

indicando il suo insegnamento importante dal punto di vista del rispetto e<br />

dell’educazione. Ancor oggi egli è riuscito a riproporre sui palcoscenici italiani la<br />

stessa stabilità e disciplina comica tanto forte del Principe, dotato di una ricca<br />

mimica ed espressività, riuscita a far ridere con semplici, ma dirette battute.<br />

<strong>Il</strong> mio tentativo è stato quello di trasmettere il profondo affetto, la<br />

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straordinaria ammirazione che provo nei riguardi di <strong>Totò</strong>.<br />

Concludo con alcuni passi tratti dal clown interpretato da <strong>Totò</strong>, i quali<br />

esternano lo stile e il talento del principe attraverso lo strumento del cinema e del<br />

teatro: «Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa,<br />

io li perdono, un po’ perché essi non sanno, un po’ per amor tuo, un po’ perché<br />

hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene,<br />

rendi pure questa mia faccia ancor più ridicola ma aiutami a portarla in giro con<br />

disinvoltura. C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità. Noi<br />

dobbiamo soffrire per divertirla. Manda, se puoi, qualcuno su questo mondo<br />

capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri».<br />

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1. La sopravvivenza<br />

Per la rappresentazione della sopravvivenza, la nostra analisi verterà su due<br />

pellicole cinematografiche, Miseria e nobiltà e Siamo uomini e caporali.<br />

1.1 Miseria e nobiltà<br />

Miseria e nobiltà è una commedia a colori del 1954 diretta dal regista Mario<br />

Mattòli, tratta da una sceneggiatura sua e di Ruggero Maccari, fondatore, tra gli<br />

altri, della commedia all’italiana. Tratta da una farsa di Eduardo Scarpetta del 1887,<br />

insieme alle pellicole Un turco napoletano del 1953 e <strong>Il</strong> medico dei pazzi del 1954,<br />

sempre girate da Mario Mattòli, appartiene a una trilogia di opere teatrali di<br />

Scarpetta, tutte aventi come protagonista Felice Sciosciammocca, seppure in<br />

versioni differenti. Mentre infatti ne Un turco napoletano riveste il ruolo di un<br />

evaso dal carcere che, sotto mentite spoglie riabilita la sua condizione vivendo in un<br />

contesto borghese, e ne <strong>Il</strong> medico dei pazzi riveste quello di un sindaco, in Miseria e<br />

nobiltà siamo di fronte a un personaggio economicamente e socialmente di umile<br />

condizione. Si tratta di un elemento fondamentale per condurre la nostra analisi,<br />

poiché in esso si riflette la prima parte dell’esistenza di <strong>Totò</strong>, che, non essendo<br />

riconosciuto dal padre per molti anni, visse in condizioni disagiate, determinate<br />

anche dal suo desiderio di diventare attore, che gli fecero compiere un percorso<br />

difficile e pieno di stenti:<br />

Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere, se non si<br />

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conoscono bene il dolore, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe<br />

squallide camerette ammobiliate, alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei<br />

pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico<br />

senza educazione. Insomma non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita. 2<br />

In Miseria e nobiltà, <strong>Totò</strong> interpreta dunque la parte di Felice Sciosciammocca,<br />

scrivano, che coabita, con la sua famiglia, composta dalla sua convivente Luisella e<br />

dal figlio di primo letto Peppiniello, con il fotografo ambulante Pasquale e la sua<br />

famiglia, composta dalla moglie Concetta e dalla figlia Pupella. La loro vita, che si<br />

svolge in povertà, può almeno temporaneamente subire una svolta, quando, un<br />

giorno, il marchese Eugenio gli si presenta per chiedergli un favore. Egli,<br />

innamorato di Gemma (interpretata da Sophia Loren), figlia di Don Gaetano, cuoco<br />

arricchito, non ha possibilità di poterla sposare, se non facendo conoscere tra loro i<br />

rispettivi genitori, ma, dal momento che i suoi non accettano la ragazza in quanto<br />

non nobile, e invece Don Gaetano è molto ansioso di fare la loro conoscenza,<br />

poiché è desideroso di potersi imparentare con una famiglia nobile, si rivolge a<br />

Felice e Pasquale, proponendogli di impersonare i suoi familiari. Inizia così il gioco<br />

degli equivoci e degli scambi, che continua fino a che, Luisella, indispettita dalla<br />

situazione e dall’essere stata esclusa dalla farsa, interviene nella finzione e rivela la<br />

verità a Don Gaetano. Quest’ultimo, però, perdona l’impostura e acconsente alle<br />

nozze di sua figlia Gemma con il marchese Eugenio.<br />

La pellicola inizia con l’immagine di un teatro, il San Carlino di Napoli, il cui<br />

sipario si apre e dove, sulle balconate, notiamo due spettatori in attesa dell’inizio<br />

dello spettacolo, ovvero del film vero e proprio. Si tratta di un espediente scenico,<br />

2 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 111<br />

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atto volontariamente a dare l’impressione di assistere a una rappresentazione<br />

teatrale. Lo scopo non è quello di fare venire meno il punto di vista<br />

cinematografico, semmai di dare rilievo al teatro, come forma di intrattenimento<br />

tipica per le famiglie dell’epoca, utilizzando però la macchina da presa. Le scene,<br />

pur avendo degli esterni, non sono state realmente girate all’esterno. Si tratta<br />

sempre e solo di scenografie teatrali, le medesime e uguali per tutto l’arco della<br />

proiezione: l’abitazione di Felice Sciosciammocca, quella della modista piemontese,<br />

la piazza del San Carlino, che è anche dove osserviamo lavorare Felice e Pasquale,<br />

l’interno del teatro (sia durante le prove che durante l’esibizione di Gemma) e<br />

l’abitazione di Don Gaetano. Le scene, inoltre, non sono come nel cinema, l’una la<br />

prosecuzione diretta dell’altra, non si fondono in un tutt’uno. Ognuna è separata e a<br />

se stante rispetto alle altre. Si ha l’impressione che la cinepresa inizi e finisca di<br />

girare con lo stacco di ogni singola scena. Le ambientazioni non seguono il film e<br />

non gli appartengono, costituiscono invece la scansione di ogni proiezione.<br />

È mattina e gli inquilini dell’appartamento si svegliano e già hanno a che fare<br />

con i crampi della fame e le consuetudinarie problematiche della povertà. Pupilla fa<br />

colazione con una cipolla, che però le viene strappata da suo padre Pasquale,<br />

desideroso, evidentemente di riuscire a saziare anche se stesso. La ragazza sembra<br />

essersi svegliata con la fame, ma come constata Felice, in realtà è già andata a<br />

dormire la sera prima affamata. Come osserviamo dalle prime scene del film, la<br />

vera protagonista della vicenda è dunque la fame, personaggio di fatto invisibile, ma<br />

presente costantemente nelle vite dei singoli personaggi, e che si manifesta non<br />

gravemente come si potrebbe immaginare, ma sempre sotto forma di ironia, e come<br />

si vedrà alla fine, anche con accettazione. È, tra tutti i personaggi, Felice a<br />

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ironizzare più distaccatamente e più cinicamente, perché possiede un innato istinto<br />

pratico, maggiore prontezza di spirito e senso critico rispetto agli altri personaggi. È<br />

l’incarnazione di Pulcinella, perspicace, scaltro e legato al buon senso popolare.<br />

Mentre Pasquale, infatti dice che «si mangia pane e veleno», Felice ribadisce<br />

ripetutamente che invece «si mangia solo veleno», e, a casa della modista<br />

piemontese, che indelicatamente, gli parla di condimenti da cucina e li fa sostare<br />

davanti a un piatto con pane e marmellata, asserendo che la marmellata è solo per i<br />

bambini, egli afferma che nel caffelatte non mettono niente: «Né latte, né caffé». Le<br />

sue affermazioni sono disarmanti, perché, sebbene dettate dalla semplicità, sono<br />

lapidarie e trovano riscontro in una necessità immediata.<br />

All’interno di questo quadro, un personaggio sembra essere fuori dal contesto,<br />

pur facendo parte della famiglia di Felice: si tratta di Luisella, la sua compagna e<br />

convivente. La donna non intrattiene buoni rapporti con gli altri abitanti<br />

dell’appartamento, soprattutto con Concetta, moglie di Pasquale, con cui spesso<br />

litiga. La convivenza non è facile e anche in questo si cerca di sopravvivere. Ma qui<br />

viene rivelato un altro particolare della natura di Felice. Come uomo non dà<br />

garanzie di fedeltà, non trasmette sicurezza, e Luisella è infastidita da molti suoi<br />

comportamenti, soprattutto in presenza di altre donne, come per esempio la modista<br />

piemontese. Sposato e separato da sei anni da Bettina, madre di Peppiniello, e che<br />

poi si scoprirà lavorare a casa di Gemma, Felice è, non a caso, infedele e donnaiolo,<br />

come il suo creatore, Eugenio Scarpetta.<br />

Dopo una giornata di fallimenti lavorativi, in cui Felice ha servito un cliente che<br />

non poteva permettersi di pagarlo e Pasquale non ha scattato neanche una foto, i due<br />

discutono su come impegnare un cappotto, di presunta appartenenza di Napoleone,<br />

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fantasticando su spaghetti, sugo con salsiccia, mozzarelle di Aversa, frittate con<br />

dieci uova e vino di Gragnano. Su ogni cibo, Pasquale puntualizza come deve<br />

esserne la qualità, altrimenti, raccomanda a Felice di non acquistare alcunché,<br />

pronunciando sempre la stessa frase: «Desisti». L’eco di Felice: «Desisto» appare<br />

come una dissacrazione della serietà di Pasquale.<br />

Arriva il momento della grande opportunità. <strong>Il</strong> marchese Eugenio, che aveva<br />

avuto modo di conoscere Pasquale facendogli consegnare un biglietto a Gemma, la<br />

sua innamorata, decide di rivolgervisi nuovamente per trovare una soluzione alla<br />

sua situazione sentimentale. Propone a lui, Felice e le due rispettive famiglie di<br />

prendere i panni di alcuni suoi parenti, che dovranno presentarsi a casa di Don<br />

Gaetano per aiutarlo a ufficializzare la sua unione con Gemma. «Sono tanti anni che<br />

non mi faccio una bella pranzata», aveva esclamato Felice poco prima dell’arrivo<br />

del marchese, e, adesso, quest’ultimo gli fa consegnare da un suo cameriere in<br />

livrea un ricco pranzo. I commensali, increduli e attoniti nel vedere tutto quel cibo,<br />

inizialmente non osano avvicinarsi e osservano la tavola imbandita, aspettando di<br />

vedere chi ha il coraggio di avvicinarsi a essa per primo. Ma, improvvisamente,<br />

ognuno di loro, seduto su una sedia, un timido balzo dopo l’altro, finalmente<br />

piomba sulla tavola, afferrando a piene mani il cibo e dimenticandosi di qualsiasi<br />

regola di buona educazione. Vengono interrotti nel frattempo due volte dal<br />

cameriere che aveva effettuato loro la consegna. Alla seconda interruzione, i<br />

commensali, poveri ma pur sempre orgogliosi, non vogliono dare a intendere di<br />

essere così affamati da divorare tutte quelle portate in poco tempo e senza riguardo,<br />

quindi, si bloccano istantaneamente all’ingresso del cameriere e Felice, che aveva<br />

afferrato gli spaghetti con le mani, ingordamente, come per farne provvista, nel<br />

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timore che qualcuno glieli avesse potuti portare via, se li infila persino in tasca,<br />

quasi si trattasse di un magnifico tesoro, improvvisando una tarantella sul tavolo.<br />

Poi, tutti insieme si giustificano dicendo che non avevano tanta fame, e perciò<br />

preferivano ballare. Con tale scena, che diventerà emblematica di tutta la pellicola,<br />

si conclude il primo tempo del film. L’esibizione danzante di Felice sul tavolo non<br />

fu ben vista dalla critica, in quanto considerata come di cattivo gusto.<br />

Effettivamente, non rispondeva ai canoni estetici di quei tempi, tuttavia ha impresso<br />

maggiore energia ed espressività alla scena e ha sottolineato ancora una volta<br />

l’arguzia del personaggio di Felice e la sua capacità di improvvisare. Come dire che<br />

la creatività, la cosiddetta arte di arrangiarsi ha la meglio sulle difficoltà e sulla<br />

sfortuna. Qualità non solo appartenente a lui, ma anche al suo interprete. <strong>Totò</strong>, in<br />

effetti, secondo il copione, non avrebbe dovuto concludere la scena con una<br />

tarantella. Si trattò di una sua improvvisazione. Comportamento peculiare che,<br />

evidentemente, non fa che mettere ancor più in risalto la sua essenza di maschera.<br />

Ciò quindi che <strong>Totò</strong>, in quanto Antonio de Curtis, si affanna a negare,<br />

spontaneamente risorge.<br />

Con il secondo tempo del film, il gioco delle apparenze viene svelato. L’incontro<br />

con Don Gaetano, uomo arricchito, dalla cultura e dall’intelligenza dubbie, lascia<br />

intravedere in filigrana, come la vera nobiltà non stia nel lignaggio o nei costumi, e<br />

come, contrariamente a quanto pensi Don Gaetano stesso, non possa essere<br />

acquisita. Anche qualora, per via del matrimonio di sua figlia con il marchese<br />

Eugenio, possa legare il suo nome a quello di un nobile, come egli stesso si auspica,<br />

la sua reale condizione non cambierà, perché sarà sempre destinato a peccare di<br />

ignoranza e mancanza di buon gusto. Questi aspetti sono quelli che vengono presi in<br />

21


giro e messi in ridicolo durante la farsa di Felice e Pasquale. E più Don Gaetano si<br />

sente onorato della presenza di tale simile famiglia nobile, «tanto lustra e lustrata»,<br />

più diventa egli stesso ancora più sciocco e credulone, facile all’inganno. Anzi, in<br />

questo, possiamo individuare una sorta di riscatto del proletariato, che si fa beffe sia<br />

della classe nobiliare, sia, e maggiormente, del mondo borghese, caratterizzato da<br />

persone come Don Gaetano, che benché ricco, non sa esprimersi, cade nelle gaffe e<br />

perde la sua dignità nel momento in cui crede di avere a che fare con dei nobili.<br />

Interpretazione nell’interpretazione. <strong>Totò</strong> interpreta Felice, che interpreta il<br />

principe di Casador, zio del marchese Eugenio. Molte volte è sul punto di tradirsi,<br />

non per difetto di recitazione, ma perché l’impulso della fame è così intenso e<br />

messo alla prova, che è molto facile dare retta solo alle tentazioni e lasciare perdere<br />

tutto il resto. Don Gaetano, così immerso nei suoi sogni di nobiltà, accecato<br />

dall’idea di entrare in parentela con dei nobili, non si rende conto degli strafalcioni<br />

di Felice: «[Seicentomila lire] Ma chi le ha viste mai! Dico: chi le ha viste mai… in<br />

contanti; perché noi adoperiamo gli chèque…» e quando gli offre il gelato, Felice<br />

constata: «Noi siamo abituati a mangiare i gelati!», ma lo spettacolo offerto da lui e<br />

dagli altri presenti mentre lo mangiano è di ben altro significato: esattamente come<br />

quando nel primo tempo si erano ingozzati violentemente di cibo e soprattutto<br />

spaghetti, in questa circostanza si verifica lo stesso, e Felice, imbrattandosi come un<br />

bambino il viso di gelato, affonda il suo cucchiaino nella coppa di Pasquale,<br />

giustificandosi goffamente: «A me piace spiluccare nei gelati degli altri!». L’apice<br />

dell’inganno dovuto alla fame viene raggiunto quando Felice riesce a strappare un<br />

accordo biennale di pranzi quotidiani a casa di Don Gaetano.<br />

Dopo sei anni di separazione, ecco che arriva la resa dei conti: Felice rincontra<br />

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sua moglie Bettina, e madre di Peppiniello, suo figlio. Vive presso Don Gaetano per<br />

prestare servizio a Gemma. La donna, riconosciuto il marito, lo accusa di essere uno<br />

svergognato e imbroglione, di averle tenuto lontano loro figlio e lo minaccia con un<br />

coltello. Felice è impaurito non solo per il gesto in sé, ma anche perché, dopo tutta<br />

la fatica fatta per mettere in scena tutta quella farsa, rischierebbe di perdere i due<br />

anni di contratto con Don Gaetano, e quindi le chiede di «Non strillare, non<br />

strillare![...]». La vicenda personale di Felice si conclude con la sua presentazione,<br />

dopo qualche equivoco, del figlio Peppiniello a Bettina e con i chiarimenti<br />

riguardanti la loro separazione.<br />

Teatro nel teatro, possiamo, durante il film, assistere anche, come alcuni<br />

personaggi della vicenda, allo spettacolo di danza di Gemma al San Carlino.<br />

Quando tutto sembra scorrere nella migliore delle maniere, l’arrivo a casa di Don<br />

Gaetano della finta “Principessa di Casador”, ovvero Luisella, la compagna di<br />

Felice, fa precipitare la situazione. Sentendosi tradita dal suo uomo e esclusa dalla<br />

partecipazione alla farsa, in quanto consapevole di non essere benvoluta e accettata,<br />

finisce col rivelare la verità a Don Gaetano. Nasce una zuffa, in seguito alla quale<br />

Luisella, dopo essere stata aggredita, se ne va, ma Felice, perde un baffo finto. <strong>Il</strong><br />

marchese Eugenio decide allora di raccontare la ragione di quella messinscena<br />

ottenendo finalmente il consenso a sposare la donna amata sia da parte di suo padre<br />

che del padre di Gemma.<br />

La vicenda termina con tre benedizioni di Don Gaetano agli amori riconosciuti o<br />

ritrovati: Eugenio-Gemma, suo figlio Luigino-Pupella, Felice-Bettina.<br />

L’artificio teatrale, cornice all’inizio del film, lo ridiventa alla conclusione della<br />

pellicola. Felice, commosso e sorridente, con accettazione della sua miseria e<br />

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umiltà, ma al tempo stesso rivelando una nobiltà che, evidentemente, non poteva<br />

che essere che quella d’animo, si rivolge direttamente al pubblico, cinematografico<br />

e teatrale contemporaneamente: «Torno nella miseria, però non mi lamento. Mi<br />

basta di sapere che il pubblico è contento». <strong>Il</strong> sipario si chiude. La finzione termina.<br />

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1.2 Siamo uomini o caporali<br />

Siamo uomini o caporali è una commedia in bianco e nero del 1955 diretta da<br />

Camillo Mastrocinque, tratta da una sceneggiatura sua e di <strong>Totò</strong>, Vittorio Metz,<br />

Mario Mangini, Francesco Nelli.<br />

<strong>Il</strong> titolo dell’opera nasce da un’ispirazione di <strong>Totò</strong> per esperienze realmente<br />

vissute. All’età di diciassette anni, venne arruolato nell’esercito, e la sua<br />

permanenza presso l’88° Reggimento a Livorno fu tutt’altro che felice. L’ambiente<br />

militare non gli si addiceva non solo per ragioni anagrafiche, ma anche perché<br />

possedeva la natura di uno spirito libero e anticonformista. <strong>Il</strong> soggiorno<br />

nell’ambiente venne reso ancora più sacrificante nel momento in cui l’attore fece la<br />

conoscenza di un caporale, il quale, abusando della sua posizione gerarchica,<br />

intimoriva i suoi sottoposti. <strong>Totò</strong>, sopravvivendo anche intimamente a queste<br />

vessazioni, riuscì a formarsi una sua propria idea sugli uomini e su ciò che li<br />

distingue. Memore di quando scimmiottava il caporale in caserma davanti agli altri<br />

soldati e terminava le sue esibizioni con la frase: «Siamo uomini o caporali?», iniziò<br />

a estendere il significato della sua esperienza di vita militare a ogni ambito e alla<br />

vita in generale, e classificò come “caporali” tutti coloro che «esprimono il male». 3<br />

Per avvalorare maggiormente la sua tesi, si servì poi del pensiero espresso da Dante<br />

Alighieri nella Divina Commedia al verso: «Uomini siate e non pecore matte»: «In<br />

base alla mia filosofia, potrebbe essere modificato in: uomini siate e non dei<br />

caporali». 4 Successivamente, il termine caporale venne attribuito dall’artista<br />

partenopeo non solo alle persone arroganti e di animo cattivo, ma anche agli stupidi.<br />

3 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 21<br />

4 Ibidem<br />

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Come possiamo osservare, il titolo del film non reca il punto interrogativo. Non<br />

si trattò di una scelta casuale, ma di un modo attraverso cui comunicare un concetto<br />

oggettivo, ovvero, come da <strong>Totò</strong> stesso chiarito anche nella sua seconda biografia<br />

che porta lo stesso titolo del film, 5 al mondo esistono due sole categorie di persone,<br />

e quindi non siamo che uomini o caporali. Non era dunque una domanda, ma una<br />

invettiva.<br />

La struttura del film si basa sul flashback e sulla voce narrante del protagonista<br />

<strong>Totò</strong> Esposito, interpretato da <strong>Totò</strong>. Egli, in qualità di attore, viene chiamato a<br />

interpretare il ruolo di una comparsa, ma in seguito a vari incidenti occorsi sul set di<br />

Cinecittà in Roma, suscita l’antipatia del capo-comparse, già per sua natura<br />

antipatico e dispotico, fino a che, dopo uno scontro fisico, viene arrestato e portato<br />

in un ospedale psichiatrico. Lì, il dottore che lo ascolta lo dichiara non solo sano di<br />

mente, ma anche saggio. In questo tratto del film, i racconti di <strong>Totò</strong> allo psichiatra<br />

altro non sono se non flashback, che si inseriscono nella storia principale come sub-<br />

storie, introdotte dalla voce narrante del protagonista stesso, il quale man mano<br />

scompare per lasciare posto agli eventi che, a questo punto, si auto-raccontano e<br />

diventano storie nella storia.<br />

Avendo il dottore dimesso <strong>Totò</strong> per comprovata sanità mentale, quest’ultimo<br />

all’uscita dell’ospedale incontra Sonia, la donna di cui segretamente è innamorato e<br />

che per tutto l’arco del film ha sempre cercato di proteggere. Ma un finale amaro lo<br />

attende. La sua amata si è sposata ed è pronta a trasferirsi, ferendo i suoi sentimenti<br />

e la sua dignità.<br />

5 Cfr. infra, cap. 1, p. 36<br />

La presentazione del film reca disegni e caricature di <strong>Totò</strong> utili a sdrammatizzare<br />

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la storia portata sugli schermi e a rassicurare il pubblico che, nonostante la vicenda<br />

tragica, il personaggio che vedranno è sempre lo stesso pagliaccio cui è affezionato.<br />

Anche la ricostruzione di Cinecittà ha un’impronta volutamente caricaturale.<br />

La pellicola si apre con l’ingresso di <strong>Totò</strong> Esposito alle prove di un film in<br />

qualità di comparsa per interpretare una guardia napoleonica. Ma, capitando sul set<br />

sbagliato, dove si stava girando un film sull’antica Roma, egli provoca la rabbia e il<br />

disappunto del capo-comparse, il primo caporale che appare nel film, che lo<br />

apostrofa come imbecille. Passando al set giusto, <strong>Totò</strong>, vestito goffamente da<br />

soldato napoleonico, a causa del cappello militare che pesantemente indossa e che<br />

gli cade fin sopra gli occhi, perde di vista ancora una volta il giusto luogo delle<br />

riprese e finisce nuovamente sul set sbagliato. Ciò fa infuriare definitivamente il<br />

capo-comparse, il quale riesce a farlo arrestare. <strong>Totò</strong> passa da uno stato di candore e<br />

tenerezza iniziale, che possiamo notare da frasi come «[…] Non c’è bisogno di<br />

arrabbiarsi tanto» e «Uhi, tutti possiamo sbagliare, perbacco!» a uno stato di rabbia,<br />

che al suo primo ingresso sul set sbagliato, si esprime rammentando ai presenti che<br />

egli è un grande attore, mentre alla seconda trova espressione nella frase «Abbasso i<br />

caporali!». Tale esclamazione ricorda evidentemente i trascorsi di <strong>Totò</strong>/Antonio de<br />

Curtis in caserma a Livorno.<br />

<strong>Il</strong> protagonista viene preso con la forza e portato in un ospedale psichiatrico,<br />

dove il dottore che lo ascolta, direttamente gli chiede se sia pazzo. Ma lo psichiatra<br />

ha già la risposta perché egli stesso ammette: «Io so benissimo che lei non è matto».<br />

<strong>Totò</strong>, notando che dimostra comprensione e disponibilità, inizia con coraggio a<br />

spiegargli la sua teoria sui caporali: «Deve sapere che da sempre il “caporale” mi<br />

perseguita».<br />

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<strong>Il</strong> dottore sembra avere in comune con il suo paziente la presenza di almeno un<br />

caporale nella sua vita: «Anche lei c’ha il suo caporale». E quindi, sentendosi<br />

incoraggiato e confortato, <strong>Totò</strong> comincia il suo racconto lontano nel tempo,<br />

chiarendo allo psichiatra un concetto palese e apparentemente banale, ma sui cui<br />

quest’ultimo non aveva mai riflettuto: «L’umanità io l’ho divisa in due categorie di<br />

persone, uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei<br />

caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a<br />

lavorare tutta la vita come bestie […]. I caporali sono appunto quelli che sfruttano,<br />

tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati li troviamo<br />

sempre a galla, sempre al posto di comando […], pronti a vessare il pover’uomo<br />

qualunque. […] caporali si nasce, non si diventa […] hanno tutti la stessa faccia, le<br />

stesse espressioni, gli stessi modi». Ed ecco che, improvvisamente, in età già<br />

matura, il dottore scopre, con l’aria di un bambino, l’esistenza di una verità nuova:<br />

«Perbacco […], non ci avevo mai pensato…». E <strong>Totò</strong> fa il verso a se stesso: la sua<br />

celebre frase «Signori si nasce, non si diventa» può evidentemente essere trasposta<br />

nel mondo dei caporali. E, inoltre, non a caso, tutti i caporali che si susseguiranno<br />

nell’arco della storia, realmente hanno sempre il medesimo volto, ovvero quello<br />

dell’attore Paolo Stoppa, che inizialmente avrebbe dovuto interpretare sempre lo<br />

stesso uomo, il quale durante il corso degli anni, dalla seconda guerra mondiali agli<br />

anni Cinquanta, era riuscito a cavalcare gli eventi, diventando un volgare arricchito.<br />

Tuttavia, l’opinione pubblica si sarebbe certamente resa conto in questo modo che<br />

la classe dirigente emergente altro non era che la stessa cerchia di persone di tempi<br />

passati, che, disonestamente e con opportunismo, aveva conquistato il potere e che<br />

il “nuovo” non era mai arrivato. Conseguentemente, si decise che uno stesso attore<br />

28


dovesse interpretare di volta in volta caporali diversi, aventi tutti, oltre che<br />

identiche abitudini comportamentali, anche lo stesso volto.<br />

Durante la guerra <strong>Totò</strong> si trova un giorno in fila per ricevere le provviste<br />

alimentari, ma stanco di aspettare il suo turno, distrae i tre uomini in attesa davanti a<br />

lui e riesce così ad accedere subito al banco di provvista. All’uscita, incontra una<br />

donna che decide di aiutare per farle avere due fiaschi di olio. Quindi rientra<br />

travestito da militare, ritira quanto gli serve e glielo consegna. Vedendo quanto<br />

fosse stato facile, decide di ritentare per ottenere altro cibo, ma stavolta viene<br />

sorpreso e riconosciuto dalle autorità. Nel tentativo di scappare, si traveste da cieco,<br />

indossando un ridicolo cartello “CIECO ANTEGUERRA”, che, come espediente<br />

cinematografico, doveva servire ad allentare la tensione nel pubblico e a ricordare<br />

che il protagonista era il solito <strong>Totò</strong> che la gente amava. Tale scritta compare infatti<br />

anche insieme ai disegni e ai fumetti nella sigla iniziale del film.<br />

Nonostante il cartello, però, <strong>Totò</strong> viene comunque catturato e portato in campo di<br />

concentramento. Anche in questa nuova realtà, egli ruba viveri e con l’ausilio di un<br />

pastore tedesco, da lui opportunamente addestrato, ne porta una parte a Sonia, la<br />

donna per cui nutre dei sentimenti d’amore e con la quale già ipotizza una vita<br />

insieme. Ella, tuttavia, pur se non restia, non sembra realmente convinta<br />

nell’accettare tutte le proposte del suo compagno di lager: «Se tu vuoi così…».<br />

Quello della donna sembra non un interessamento reale verso <strong>Totò</strong>, ma una forma di<br />

opportunismo.<br />

Sfortunatamente, i furti di provviste all’interno del campo di concentramento<br />

vengono scoperti e <strong>Totò</strong>, per evitare la fucilazione di cento persone innocenti,<br />

ordinata dal secondo modello di caporale, il Colonnello Hammler, parodia del<br />

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Reichtsführer delle SS Heinrich Himmler, decide di farsi avanti e rispondere di<br />

quanto commesso. Dopo due tentativi di esecuzione capitale interrotti, e durante i<br />

quali <strong>Totò</strong> stesso si spazientisce, perché incapace di reggere ulteriormente la<br />

tensione dell’attesa, la fucilazione è sospesa. L’uomo viene risparmiato per essere<br />

sottoposto a esperimenti. Bonariamente, ringrazia calorosamente e invita a casa sua<br />

a Roma i militari tedeschi, pensando che avessero davvero deciso di salvarlo e non<br />

sapendo ciò che realmente l’aspettava. Legato su una sorta di sedia elettrica e<br />

riempito di elettrodi per trasmettergli energia atomica, comicamente il viso di <strong>Totò</strong><br />

si contorce a causa delle scosse. Tale elemento ci distrae nuovamente dalla tragicità<br />

della situazione. Al termine dell’esperimento, il prigioniero avrebbe dovuto restare<br />

solo, non essere toccato da nessuno per evitare spiacevoli conseguenze. Ma nella<br />

sua candida inconsapevolezza, <strong>Totò</strong> tocca i due ufficiali accanto a lui, i quali<br />

impazziscono e a loro volta, fanno subire la stessa sorte ad altri militari appena<br />

toccati, provocando nel lager confusione. <strong>Il</strong> prigioniero ne approfitta per prendere<br />

Sonia e fuggire insieme, avendo come meta la sua casa a Roma. Qui <strong>Totò</strong> esce dal<br />

suo racconto e rientra nello studio psichiatrico. Possiamo notare, nell’arco della sua<br />

permanenza in campo di concentramento, che il suo comportamento, pur se sempre<br />

molto bonario e ingenuo, dimostra però anche, in antitesi, scaltrezza e presenza di<br />

spirito, dovuta, evidentemente, alla necessità di sopravvivere e di proteggere la sua<br />

amata.<br />

Riprende il flashback. <strong>Totò</strong> rientra a Roma al momento della sua liberazione. Si<br />

apre una brevissima parentesi di struggimento charlottiano: stabilitosi con Sonia<br />

nella sua vecchia abitazione e, offrendole il suo letto per dormire, le canta una sua<br />

30


canzone d’amore, Core analfabbeta, 6 accompagnandosi con la chitarra. Inoltre, per<br />

non farla restare male, le dice che sarebbe andato a dormire a casa di un suo amico,<br />

invece di dirle che il suo letto sarebbe stato la cuccia del cane fuori dalla soglia. La<br />

sua constatazione il mattino dopo, quando arriva un postino a consegnargli una<br />

chiamata di lavoro come attore, è che non è strano per lui dormire in quella cuccia,<br />

in quanto «Più conosco gli uomini, e più preferisco le bestie». Ecco allora <strong>Totò</strong> nella<br />

sua veste di sempre, cinico e lapidario.<br />

Insieme a Sonia, l’uomo si presenta ai provini per essere ingaggiato come attore.<br />

L’americano, Mr Black, il terzo caporale che appare nel film, impresario di dubbia<br />

fama, li ingaggia, ma il suo reale interesse è solo per Sonia, «beautiful girl», mentre<br />

più volte intima a <strong>Totò</strong> di stare zitto. Dopo l’esibizione a teatro di fronte a un nutrito<br />

pubblico di militari americani, in cui i due artisti cantano Cammesella, Mr Black, si<br />

lancia in esplicite avance su Sonia, ma <strong>Totò</strong> come sempre la difende e, portandola<br />

via, esclama: «Siamo povera gente, ma lei non deve mancarci di rispetto, porco!».<br />

In questo non v’è nulla di comico, né alcun elemento che rimandi alla malinconia<br />

chapliniana. Notiamo nella sua affermazione, invece, molta gravità e serietà, quasi<br />

come il nostro pagliaccio irriverente sia scomparso.<br />

Ritorna la voce di <strong>Totò</strong> come narratore fuori campo. Siamo negli anni della<br />

ricostruzione. Nuovo momento di drammaticità nel racconto, che introduce al<br />

quarto incontro con un caporale, il direttore del periodico “Ieri, oggi, domani”.<br />

<strong>Totò</strong>, raggirato, viene convinto a firmare un memoriale, dietro compenso, nel quale<br />

egli deve dare testimonianza di avere assistito a un omicidio, commesso sulle<br />

sponde del Tevere, sua zona di residenza. L’ennesimo caporale crea così l’esistenza<br />

6 Testo realmente composto da <strong>Totò</strong>/Antonio de Curtis.<br />

31


di un personaggio da rotocalco, il “figlio del secolo”. Chiara è l’allusione in questo<br />

episodio alla cronaca nera dell’epoca, invasa dalle notizie sul processo Montesi,<br />

riguardante la morte misteriosa, avvenuta nel 1953, di Wilma Montesi, il cui corpo<br />

era stato ritrovato sul litorale di Torvaianica.<br />

<strong>Totò</strong>, entusiasta della sua nuova condizione di personaggio celebre pur senza<br />

averne capito il perché, inizia persino a firmare autografi, ma la scottante verità gli<br />

appare sul giornale. Come da sua dichiarazione «Ma io non ho mai detto tutte<br />

queste cose», diventa necessario ritrattare. Si decide ad andare in Commissariato,<br />

ma controllato dall’entourage del direttore del giornale, viene sequestrato e<br />

spogliato per impedirgli di fuggire e raccontare la verità. <strong>Totò</strong> riesce tuttavia a<br />

scappare travestendosi da indossatrice per la sfilata che si stava svolgendo in sala,<br />

ma in tale tentativo maldestro, purtroppo viene arrestato perché scambiato per una<br />

donna di malaffare. La situazione diventa grottesca. <strong>Totò</strong> è ridicolizzato e preso in<br />

giro da tutti, persino dalle prostitute stesse catturate insieme a lui dalla Polizia.<br />

Nonostante i suoi sforzi per raccontare la verità, gli imbroglioni del giornale<br />

riescono a screditarlo definitivamente, e dopo la proclamazione dei reati, gli sono<br />

comminati tre mesi di carcere.<br />

<strong>Il</strong> racconto di <strong>Totò</strong> Esposito non rappresenta solo il reportage delle sue vicende<br />

personali, ma anche il percorso storico, sociale, evolutivo dell’Italia, dal secondo<br />

conflitto mondiale all’epoca contemporanea. Egli stesso, introducendo allo<br />

psichiatra una nuova parentesi della sua esistenza, afferma: «Giungiamo così<br />

nell’epoca degli scandali e dei memoriali», riferendosi allo scandalo Montesi.<br />

<strong>Il</strong> dottore si rende conto che una persona vittima di simili caporali non può che<br />

essere lasciata libera. Ma l’amarezza e la delusione tornano a colpire <strong>Totò</strong> Esposito.<br />

32


Sonia, dopo cinque mesi di separazione, lo attende all’uscita della clinica, e gli<br />

comunica una pessima notizia. Si era sposata giorni prima con un industriale<br />

milanese, che gli presenta nello stesso momento. <strong>Il</strong> protagonista si ritrova di nuovo<br />

alle prese con l’ennesimo caporale, il quinto della vicenda. <strong>Totò</strong> resta deluso però<br />

anche dal comportamento di Sonia, che aveva sempre aiutato e protetto, in virtù<br />

dell’amore che provava per lei, mentre ora si rende conto che non era stato altro che<br />

usato. <strong>Il</strong> caporale milanese lo invita ad andare a trovarli a casa loro, ma <strong>Totò</strong> rifiuta,<br />

senza spiegazioni. La ragione di tale diniego si potrebbe motivare ripercorrendo da<br />

capo tutte le vicissitudini del nostro protagonista, ma quest’ultimo non perde tempo<br />

nel farlo e gli risponde con un ermetico e semplice quanto ironico e significativo:<br />

«Mah…».<br />

La pellicola, passata sotto il diktat della censura dell’epoca, in realtà era stata<br />

sceneggiata diversamente. La censura, così come era intervenuta in merito ai<br />

caporali, taglia la pellicola nella sua parte finale. Diversamente, il pubblico avrebbe<br />

colto, a dispetto della rinascita culturale ed economica del Paese, del cosiddetto<br />

boom economico, che nella realtà nulla era veramente cambiato, e che il<br />

personaggio del tenore, offeso da Mr Black nel film, non aveva poi torto<br />

nell’asserire che «Si stava meglio quando si stava peggio». La pellicola si sarebbe<br />

dovuta quindi concludere mettendo in scena le difficoltà del protagonista nel venire<br />

faccia a faccia quotidianamente non solo con altri caporali, ma anche con le<br />

difficoltà di inserimento in una società apparentemente nuova, le cui problematiche<br />

tuttavia restavano le stesse: la lotta per la sopravvivenza e per la conquista del pane<br />

quotidiano.<br />

L’altro taglio imposto dalla censura concerne i rapporti di <strong>Totò</strong> con alcuni<br />

33


membri del Partito Comunista, un autentico azzardo per quei tempi. Ovviamente la<br />

censura non amava si ridicolizzasse un esponente politico, indipendentemente dalla<br />

frangia di appartenenza.<br />

Inoltre, per non appesantire la storia e mantenere l’equilibrio tra i diversi aspetti<br />

del film, che si presenta di volta in volta come farsa, parodia, commedia, denuncia<br />

sociale, dramma, viene eliminata la scena in cui <strong>Totò</strong>, uscito dalla clinica<br />

psichiatrica, viene rapito dagli extraterrestri e condotto su Marte, dove avrebbe<br />

incontrato un sesto caporale. <strong>Il</strong> significato era evidente: la società in cui viviamo,<br />

oltre a dettare le regole e imporci il suo modo di vivere, anestetizzando il senso<br />

critico dell’essere umano, è sempre la stessa, non cambia e non cambierà mai,<br />

nonostante avvengano «guerre, sovvertimenti, cataclismi», 7 e pur cercando una<br />

risposta altrove, ci si renderà conto che anche la fuga su un ipotetico <strong>pianeta</strong> non<br />

cambierà la situazione: l’uomo patirà sempre le medesime sofferenze, incontrerà<br />

sempre i medesimi ostacoli, e «ci sono e ci saranno sempre “uomini” e “caporali”». 8<br />

<strong>Totò</strong> appare in questo film sempre diversamente. Lungi dal sembrare come la<br />

tradizionale maschera buffa di molti altri suoi lavori, qui egli segue i suoi stati<br />

d’animo. Denota spesso innocenza, ingenuità e candore, d’altro canto rivela<br />

scaltrezza, ingegno e lucidità nel cercare di districarsi nei vari momenti di difficoltà.<br />

Assume un aspetto romantico e serioso quando scatta il sentimento. Esprime<br />

nostalgia, malinconia, solitudine. Sempre visto e ricordato come il Pulcinella<br />

napoletano, talvolta qui ricorda non solo il personaggio di Charlot, ma restando nel<br />

tema delle maschere, sembra un Pierrot dotato di irriverenza. Esprime naturalmente<br />

comicità, attraverso le sue battute, la sua ironia, il suo modo consueto di stravolgere<br />

7 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 250<br />

8 Ibidem<br />

34


le parole e di creare divertimento persino cimentandosi in un improbabile<br />

angloamericano di fronte a Mr Black. Nella sua fragilità di “uomo qualunque”<br />

dimostra forza, determinazione, capacità di sdrammatizzare qualsiasi evento<br />

negativo, non solo per se stesso, ma anche per la sua amata Sonia, quando lei gli<br />

confessa i suoi timori e lui le risponde: «Cominciamo col dire che sei in errore,<br />

perché la paura non fa ottanta ma fa novanta». Allorché si rende conto che il mondo<br />

è immutabile e che la lotta contro il caporalato è quasi come avere a che fare con i<br />

mulini a vento, assume un aspetto serio e grave, aprendo le porte alla rassegnazione.<br />

Anche in questo film, siamo quindi di fronte a una autobiografia di <strong>Totò</strong>, pur se<br />

differentemente rispetto a Miseria e nobiltà. Mentre infatti in quel caso, vita ed<br />

essenza dell’uomo/artista si rifletteva e trovava corrispondenza in un soggetto<br />

teatrale e poi cinematografico scritto già in precedenza da altri e che non aveva<br />

relazione con <strong>Totò</strong>, qui è il film a riflettere la condizione dell’uomo/artista, perché il<br />

soggetto cinematografico era stato creato appositamente sul calco delle vicende<br />

personali del protagonista e della filosofia di vita che ne era derivata. L’espressione<br />

“siamo uomini o caporali” non è riconducibile solo al titolo di un film, di una<br />

biografia o alla frase brevettata da <strong>Totò</strong>, ma è anche e soprattutto uno dei parametri<br />

attraverso cui ricostruire e comprendere la sua esistenza, il suo modo di affrontarla,<br />

di rapportarsi con il mondo esterno e la sua maniera di essere attore.<br />

35


1.3 L’analisi del concetto di sopravvivenza<br />

Alessandro Ferraù, scrittore, giornalista, sceneggiatore, nonché ideatore nel 1954<br />

del Premio “Medaglie d’Oro – Una vita per il cinema”, ebbe modo di condividere<br />

per 26 anni glorie e amarezze di <strong>Totò</strong>, per il quale, al nascere del loro rapporto di<br />

amicizia e collaborazione, nel 1941 scrisse una prima biografia, a cui ne seguì una<br />

seconda, pubblicata nel 1952, Siamo uomini o caporali?. In tale circostanza, egli<br />

ebbe modo di fargli notare una particolare similitudine con l’attore e regista inglese<br />

Charlie Chaplin, interprete del personaggio Charlot. 9 <strong>Totò</strong> gli rispose che questa<br />

somiglianza era stata causata dalla fame che tutti e due avevano dovuto sopportare<br />

prima di raggiungere il successo nel mondo dello spettacolo:<br />

Entrambi abbiamo cominciato nello stesso modo; è stata la fame a darci una disperata volontà di maturare<br />

e di riuscire in quello che ritenevamo l’unico scopo della nostra vita […] 10<br />

D’altro canto, a differenza del suo collega britannico, la critica cinematografica<br />

si rivelò spesso ingenerosa e incapace di apprezzare i suoi lavori, perché giudicati di<br />

scarso spessore intellettuale, adatti solo a intrattenere il pubblico, e mai diversi<br />

l’uno dall’altro. E benché <strong>Totò</strong> stesso si difese, affermando che «… alla fine di tutti<br />

questi discorsi, rimane la constatazione che io rispetto i critici, mentre loro non<br />

rispettano me», 11 paradossalmente, egli non fu meno severo con se stesso:<br />

Io non sono un artista, ma solo un venditore di chiacchiere, come Petrolini che, infatti, è stato dimenticato.<br />

9 Cfr. infra, Conclusione, pp. 122-135<br />

10 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 8<br />

11 Ibid., p. 126<br />

36


12 Ibidem<br />

13 Ibidem<br />

Un falegname vale più di noi due messi assieme, perché almeno fabbrica un armadio, una sedia che<br />

rimangono. Noi, al massimo, quando ci va bene, duriamo una generazione. Lo scritto rimane, un quadro<br />

rimane, anche un lavandino rimane. Ma le chiacchiere degli attori passano. 12<br />

E ancora:<br />

Chiudo in fallimento. Avrei potuto fare molto di più, moltissimo. <strong>Il</strong> palcoscenico offre infinite possibilità<br />

che non sono riuscito ad afferrare. Mi dispiace di non esserne stato all’altezza. 13<br />

In questi termini, possiamo quindi individuare quattro simboli della sopravvivenza<br />

nella vita di <strong>Totò</strong>, che l’hanno caratterizzato come uomo, come artista e come<br />

personaggio: la fame, dovuta alla sua condizione sociale, almeno fino a prima di<br />

essere riconosciuto dal suo vero padre, il marchese Giuseppe de Curtis, e alle<br />

ristrettezze causate dalla gavetta teatrale; il mondo della critica, che non gli<br />

riconobbe il giusto merito in qualità di attore; il mondo dei caporali, ovvero delle<br />

persone che, contrapposte agli uomini, rappresentano il male; infine, se stesso.<br />

Ovvero, in <strong>Totò</strong> uomo convissero due entità differenti, non separate dalla<br />

distinzione tra vita reale e finzione scenica, ma dall’esistenza di una vera e propria<br />

dicotomia presente nel suo animo, che lo indusse a uno sdoppiamento della<br />

personalità e a un non riconoscimento del personaggio <strong>Totò</strong>, come si trattasse di<br />

un’altra persona:<br />

<strong>Totò</strong> non mi piace […] Lo trovo antipatico […], non mi piace come attore, come recita. Mi divertono tanti<br />

altri, mi diverte Sordi, mi diverte Tognazzi, mi divertiva Charlot […]. Solo <strong>Totò</strong>, parola mia d’onore, non mi<br />

37


diverte per niente. 14<br />

Tale sdoppiamento si produsse nell’artista come un processo osmotico, dove le due<br />

personalità differenti, ossia l’Antonio de Curtis, elegante, schivo, insofferente alle<br />

barzellette, solitario, e il <strong>Totò</strong>, clown, buffone, impertinente, maschera, si<br />

attraversavano a vicenda, senza mai fondersi, per poi tornare alle rispettive<br />

posizioni di partenza, continuando a coesistere in un unico essere conservando la<br />

loro natura oppositiva, e, quindi, facendo scaturire un eterno conflitto. D’altra parte,<br />

è pur vero che, tale elemento di conflittualità era la condizione sine qua non per cui<br />

l’uomo Antonio de Curtis potesse esistere e appariva connaturato alla sua esistenza<br />

stessa:<br />

Tra me, come sono nella vita reale, e <strong>Totò</strong>, come appare in palcoscenico, c’è una differenza abissale. Io<br />

odio la mia maschera che uso solo per servire il pubblico. Però, nello sesso tempo, sento che è una parte della<br />

mia anima. Non ho mai pensato, nemmeno per un attimo, di fare a meno di <strong>Totò</strong>. Mi è antipatico, è vero, ma<br />

gli sono anche grato, non una, ma cento volte. Prima di tutto perché mi ha dato il successo e poi perché, pur<br />

essendo in antitesi con Antonio de Curtis mi aiuta a essere veramente me stesso […] 15<br />

L’eterno contrasto tra le due personalità era anche indice di come <strong>Totò</strong> non fosse<br />

mai riuscito a fare pace con il proprio passato miserabile e, quindi, per lui l’aspetto<br />

comico e irriverente del suo personaggio costituiva una modalità attraverso cui<br />

negare le proprie umili origini. La ritrovata nobiltà di lignaggio, invece,<br />

rappresentava l’occasione di sbarazzarsi della sua identità miserabile per non potere<br />

che essere considerato, finalmente, un aristocratico.<br />

14 R ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, pag. 33<br />

15 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi - A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 117<br />

38


Trasponendo l’arte della sopravvivenza nella finzione cinematografica, in<br />

Miseria e nobiltà, essa si configura come perenne battaglia contro la fame, non solo<br />

nel senso letterale del termine, ma anche nel suo senso metaforico: ristrettezze,<br />

fatica e ansia nell’arrivare, pensiero quotidiano di come potere rispondere a tutti i<br />

bisogni, adattamenti forzati, a volte anche ingiustizie nell’ambito familiare<br />

(Pasquale che toglie la cipolla a sua figlia; Peppiniello che mangia pane e<br />

marmellata a casa della modista piemontese sotto lo sguardo affamato di Felice e<br />

Pasquale; Felice che, pur avendo già la sua coppa di gelato, infila il cucchiaino in<br />

quella di Pasquale). Quasi come a significare che quando si tratta di sopravvivere<br />

alla fame, non si guarda più in faccia niente e nessuno. Tale lotta evidentemente<br />

premia solo i più forti, e non permette di pensare ai rapporti o ai sentimenti, pur<br />

desiderando farlo. La tensione e le preoccupazioni, il pensiero fisso di soddisfare<br />

ognuno la propria fame, allontanano le persone tra loro. Si sviluppa<br />

conseguentemente, secondo le teorie darwiniane sull’essere umano, una selezione<br />

naturale atta a fare sopravvivere solo chi ha certi caratteri prevalenti rispetto ad altri.<br />

E qui, possiamo affermare che <strong>Totò</strong>/Felice Sciosciammocca li possiede. La sua<br />

accettazione finale non è una sconfitta, è, anzi, essa stessa la vittoria, perché<br />

rappresenta la forza dell’istinto di sopravvivenza, l’essenza di un uomo che non<br />

cede mai e che riesce a vedere come positivo il ritorno alla sua miseria, perché in<br />

fondo, qualcosa ha ottenuto: il pubblico è, in fin dei conti, contento, e lo è per<br />

merito suo. <strong>Totò</strong>/Felice riesce a sopravvivere perché l’accettazione della sua<br />

condizione non è sinonimo di rassegnazione. Esprime serenità. E, inoltre, come egli<br />

stesso ha modo di constatare, «La vera miseria è la falsa nobiltà».<br />

In Siamo uomini o caporali, la sopravvivenza corrisponde a una forma di<br />

39


adattamento in negativo. È quindi l’antitesi, in tal senso, di Miseria e nobiltà.<br />

L’uomo è conscio della sua impotenza di fronte alle circostanze della vita, di fronte<br />

a chi rappresenta il potere, di fronte alle ingiustizie, e, nonostante tutti gli sforzi,<br />

non c’è nulla da fare. Sulla Terra o su Marte, in un lager o nel mondo della rivista,<br />

in guerra o durante la ricostruzione, l’uomo, a meno che non sia un caporale, è<br />

proprio, purtroppo, solo e soltanto “un uomo qualunque”, con chiaro riferimento al<br />

movimento “Fronte dell’Uomo Qualunque”, fondato nel 1944 dal napoletano<br />

Guglielmo Giannini 16 , scrittore, giornalista, regista, drammaturgo e successivamente<br />

anche politico, nel momento in cui, fondò anche il partito “Uomo Qualunque”. Le<br />

dinamiche che lo condussero a fondare movimento e partito avevano la stessa radice<br />

sociale e storica presente in Siamo uomini o caporali. Le obiezioni di Giannini,<br />

cioè, nacquero in seguito al periodo di guerra e dittatura degli anni Quaranta, stesso<br />

momento in cui nella pellicola <strong>Totò</strong> Esposito incontra uno dei caporali, mentre<br />

socialmente egli si era stancato dei soprusi compiuti dalla politica ai danni della<br />

gente comune. L’uomo qualunque <strong>Totò</strong> Esposito è vittima di soprusi e violenze da<br />

parte di un sistema, che, per interesse generale, deve restare così e dove solo i<br />

caporali sono destinati a «restare a galla», come egli stesso constata con lo<br />

psichiatra incredulo. 17<br />

Per <strong>Totò</strong>, dunque, visto di volta in volta come uomo, attore, gamma di personaggi<br />

interpretati, la sopravvivenza era il fondamento della sua vita, di cui era conscio, e<br />

che altrettanto consciamente, volle rappresentare attraverso i suoi lavori, anche<br />

quando, usando ironia e irriverenza, il suo appariva solo come un mero momento di<br />

comicità: «Io me la cavo, modestamente me la cavicchio, me la sono cavicchiata<br />

16 Cfr. infra, Conclusione, p. 133<br />

17 Cfr. supra pp. 27-28<br />

40


fino adesso e me la cavicchierò ancora». 18<br />

18 M. AMOROSI – L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> (a cura di), <strong>Totò</strong>, parli come badi, Roma, Rizzoli, 1994, p. 42<br />

41


2. L’amore<br />

Per la rappresentazione del tema dell’amore, la nostra analisi verterà su queste<br />

due pellicole cinematografiche, <strong>Totò</strong> e le donne e <strong>Totò</strong> e Carolina.<br />

2.1 <strong>Totò</strong> e le donne<br />

<strong>Totò</strong> e le donne è una commedia in bianco e nero del 1952 diretta da Mario<br />

Monicelli e Steno. In realtà, poiché Monicelli stava lavorando a un’altra produzione<br />

e aveva deciso di dedicarsi a produzioni drammatiche, il film fu girato<br />

effettivamente solo da Steno, ma i due registi, per loro convenienza, avevano<br />

stabilito di comparire comunque sempre in coppia a firmare i loro film, pena la<br />

perdita di fiducia da parte dei produttori.<br />

<strong>Totò</strong> interpreta il Cavaliere Filippo Scaparro, commesso in un negozio tessile e<br />

sposato con Giovanna (interpretata da Ave Ninchi), insoddisfatto della vita<br />

coniugale. Decide di isolarsi in soffitta per sfuggire alle prepotenze della moglie e<br />

dedicarsi in santa pace ai propri interessi, ma nel contempo l’isolamento si<br />

trasforma in uno sfogo personale della durata di quasi tutto il film che, oltre a<br />

ripercorrere la storia dei suoi rapporti con le donne (sua moglie, sua figlia, le sue<br />

amanti, la domestica, le clienti) ha un impronta misogina ed è volto a dimostrare<br />

quanto la sua intolleranza verso il genere femminile sia fondato. Gli si unisce Paolo<br />

Desideri (interpretato da Peppino De Filippo), suo futuro genero, che ricorda<br />

parimenti esperienze ed episodi negativi con le donne, in particolare con la sua<br />

fidanzata. Lo stesso Scaparro cerca di scoraggiarlo rispetto all’idea di sposarsi.<br />

42


Dopo avere avuto un altro scontro con la moglie, questa volta sarà lei a decidere<br />

di lasciare lui, rinfacciandogli però gli sforzi e i sacrifici compiuti in virtù della<br />

famiglia. Passato il momento della separazione, marito e moglie riescono a<br />

ritrovarsi il giorno delle nozze della loro figlia.<br />

<strong>Il</strong> film, al di là dell’essere costruito con l’utilizzo del flashback, utilizza la<br />

struttura, almeno inizialmente, dei film muti. Si apre infatti con una didascalia:<br />

«Questo film è dedicato a tutte le donne. Se esso contribuirà a togliere anche un<br />

solo difetto a una sola donna, la nostra fatica non sarà stata inutile». E a seguire,<br />

nell’arco del primo quarto d’ora di pellicola, ve ne saranno altre, più brevi e di<br />

gusto ironico, come: «La dolce compagna della sua vita ovvero: non sporcare il<br />

lucido del pavimento e non gettare cenere». La stessa conclusione del film è<br />

affidata, come vedremo, a una didascalia. Altri dettagli tipici del genere muto sono<br />

una colonna sonora musicale dal ritmo veloce suonata al pianoforte, e il fatto che<br />

alcun personaggio parli per tutta la durata degli interventi didascalici.<br />

In queste prime scene osserviamo uno Luigi Scaparro alle prese con una moglie<br />

bisbetica e prepotente, non solo a livello comportamentale, ma anche fisicamente.<br />

Infatti, l’uomo, rientrato a casa dalla sua giornata lavorativa, dopo avere percorso,<br />

con un’andatura ridicola, vari metri dell’abitazione con le pattine ai piedi per non<br />

rovinare la lucidatura dei pavimenti, si spoglia e indossa il pigiama, ma «l’ora della<br />

buonanotte», come avverte un’ennesima didascalia, non sarà segnata piacevolmente<br />

dall’ingresso in scena dalla moglie, figura sia dalle misure che dall’atteggiamento<br />

ingombranti e decisamente in contrasto con l’idea riposante e rilassante di un marito<br />

pronto ad andare a dormire dopo una stancante giornata di lavoro. Mentre la donna<br />

ha preso sonno, Luigi, furtivamente, quasi come stesse per commettere un’azione<br />

43


delittuosa, prende dal suo comodino un romanzo, La vendetta del cadavere, e con il<br />

volume va in soffitta per dedicarsi alla sua lettura. È da qui che il film acquista<br />

l’audio. <strong>Il</strong> Cavaliere, comodamente sdraiato e con il suo libro, si rivolge<br />

direttamente agli spettatori: «[…] Voi vorreste sapere il perché io non mi leggo il<br />

mio libro nel mio proprio letto […]». La spiegazione sta nel fatto che poterlo fare,<br />

con una moglie accanto che ci ordina di spegnere la luce e dormire invece di<br />

leggere, è impossibile. Ma scatena addirittura la rabbia nel momento in cui l’uomo<br />

si sente svelare dalla consorte il finale del romanzo giallo, con tanto di rivelazione<br />

del nome dell’assassino. Scaparro infila, l’uno dietro l’altro, concitatamente una<br />

lunga serie di aggettivi non lusinghieri sulle donne. Esse sono: «[…] inopportune,<br />

prepotenti, malinconiche, incoscienti, maligne, superficiali, egoiste, invidiose,<br />

noiose, esose…», elenco che scatena un coro di protesta femminile. Tuttavia, come<br />

il Cavalier Scaparro osserva, «La verità è che l’uomo fin dalla nascita è<br />

ossessionato dalle donne». E vediamo un universo maschile schiacciato e<br />

maltrattato dal genere femminile fin dalla prima infanzia, a partire da quando è<br />

neonato e riceve esagerate dimostrazioni di affetto e attenzioni dalle donne,<br />

passando per le rigide regole delle governanti, l’indifferenza di una compagna di<br />

classe e la compagnia delle zie petulanti in età scolare, fino all’età adulta, quando,<br />

ahimé, si ha la sfortuna di incappare in una centralinista che, invece che adempiere<br />

al suo lavoro, passa il suo tempo a leggere romanzi.<br />

<strong>Il</strong> Cavalier Scaparro entra nel vivo delle sue esperienze personali con le donne,<br />

con la descrizione di come una donna si comporta quando va a comperare. E chi,<br />

meglio di lui, commesso in un negozio di stoffe, può saperlo? <strong>Il</strong> poverino<br />

impazzisce nel tentativo inutile di capire quale possa essere il colore che la sua<br />

44


cliente desidera, e viene persino ripreso dal titolare del negozio. A quel punto, il<br />

Cavaliere inizia a tirare fuori ogni genere di tessuto, scaraventando molto abilmente<br />

e velocemente scampoli sul banco e ricorrendo persino a movimenti acrobatici<br />

nella realtà impossibili a compiersi. L’effetto cinematografico utilizzato per<br />

sottolineare la foga del protagonista nel compiere queste manovre ad alta velocità<br />

ricorda quello, di nuovo, dei film muti. Dopo tanta fatica, finalmente il tessuto che<br />

piace alla cliente è stato trovato. Entusiasticamente, la donna si tuffa sul commesso<br />

caduto esausto su una sedia, e taglia un lembo della presunta stoffa da portare alla<br />

sua sarta. Ma che delusione accorgersi, che, dopo avere profuso tanta energia e<br />

sforzi nel trovare così tanti tessuti, gli occhi della cliente sono in realtà caduti sulla<br />

giacca del Cavaliere, che si trova perciò con la parte inferiore sinistra<br />

dell’indumento tagliata e asportata! Non solo quindi il danno, ma anche la beffa.<br />

Fortunatamente, c’è chi capisce il pover’uomo. <strong>Il</strong> Ragionier Carlini, condomino<br />

nel suo stesso palazzo, capisce con lo sguardo e poche parole la disgrazia<br />

dell’essere accompagnato da una moglie; anch’egli, chiaramente, vive la stessa<br />

tragedia. I due si scambiano dei pareri di gusto apparentemente letterario, in realtà<br />

notiamo che sono la continuazione dei loro discorsi sulle donne e della frustrazione<br />

e del desiderio di violenza che suscitano. <strong>Il</strong> Ragioniere domanda al Cavaliere cosa<br />

stia leggendo ed egli risponde: «La donna impiccata. Che titolo meraviglioso. Lei<br />

capisce quanta voluttà c’è in questo titolo. E lei?». Carlini dice di leggere solo<br />

giornali, in particolare si interessa di cronaca nera: «Oggi specialmente c’è il<br />

processo a quel tale, sa quello di Londra, quello che ammazzava le donne con la<br />

scure…». Macabri scambi che rivelano la misoginia dei due uomini, solidali tra<br />

loro. Scaparro infatti dimostra comprensione e dispiacere per l’assassino londinese,<br />

45


non per le vittime: «Speriamo bene. Mi dispiacerebbe, povero figlio. Se lo<br />

condannassero sarebbe una vera ingiustizia». Questa scena, così come la<br />

venerazione del protagonista, con tanto di altarino dotato di candele e icona, per<br />

l’omicida seriale francese Henri Landru, 19 non è stata, stranamente censurata.<br />

Tuttavia, coerentemente con le idee dell’epoca, indipendentemente dal fatto che<br />

l’omicidio comunque fosse una violenza e un reato condannabili, l’attenzione<br />

veniva spostata sulle donne. Ovvero, è la donna che, colpevole di essere come è,<br />

può giustificare qualsiasi atto violento. Anche la giurisprudenza del tempo tutelava<br />

l’uomo con il diritto patriarcale e il codice Rocco, e puniva le donne.<br />

Chissà come sarebbe stata la vita del Cavalier Scaparro se, invece di essersi<br />

sposato con Giovanna, avesse sposato la sua bellissima precedente fidanzata?<br />

Apparentemente diversa, ma la bellezza di questa donna, avrebbe sicuramente finito<br />

per provocare disastri, non avendo quindi esiti molto differenti rispetto alla vita<br />

attuale. D’altro canto, una donna così avvenente sarebbe stata interessata<br />

unicamente a utilizzare la sua bellezza per puri scopi professionali, cominciando<br />

con un banale concorso di bellezza e arrivando a diventare una star cinematografica<br />

in Passione carnale, nel cui set, tutti, dall’attore co-protagonista al regista, si<br />

lanciano in generose dimostrazioni amorose di natura extra-lavorativa, scatenando<br />

la gelosia del marito. E mentre quest’ultimo, a letto, si aspetta di potere godere<br />

anche lui della bellezza della moglie, ella, invece, si corica indossando una mise<br />

affatto provocante, dando l’impressione di indossare una sorta di corazza sotto la<br />

camicia da notte. Come chiarisce lei, si tratta di «una cura olandese per non far<br />

19<br />

Henri Désiré Landru, soprannominato Barbablù (1869 – 1922), pluriomicida francese. Era stato accusato di avere<br />

ucciso dieci donne. Arrestato inizialmente per frode e appropriazione indebita, con il procedere delle indagini, si<br />

scoprirono gli orribili omicidi. Solito attirare donne sole e ricche, le ammaliava facendole poi firmare delle procure sui<br />

loro beni. Dopodichè le uccideva, bruciandone macabramente i cadaveri nel forno di casa.<br />

46


diradare la pelle»: foglie di lattuga. <strong>Il</strong> marito irritato la prende in giro chiamandola<br />

“dottor Balanzone”. Ciò che gli resta da fare è rivolgere le proprie attenzioni a una<br />

prostituta che scorge dal balcone o alla domestica. Ma, trattandosi anche in questi<br />

casi, pur sempre di donne, la propria speranza come uomo non può che essere<br />

tradita. La donna di servizio, lungi dall’essere attraente, scatena l’ira del Cavaliere,<br />

con tanto di inseguimenti per la casa e coltello da cucina in mano, quando, dopo<br />

avere ricevuto una telefonata, non ricorda il nome di chi avesse chiamato. L’uomo<br />

esordisce con un lunghissimo elenco di cognomi nel tentativo, inutile, di farle<br />

venire in mente la persona della telefonata, cominciando da Scelba, per poi<br />

proseguire con vari altri nomi, tra cui Salmatti, Togliatti, Garibaldi e Nenni. Chiari<br />

riferimenti al mondo politico che denotano lo stato confusionale in cui versa<br />

l’uomo, dopo avere perso la pazienza con la domestica. I personaggi storici e<br />

politici vengono infatti citati a guisa di elenco ma senza nessuna connessione logica<br />

tra loro. D’altro lato, invece, l’aver nominato Scelba, Capo del Governo e Ministro<br />

degli Interni nei primi anni Cinquanta, sembra criticare l’orientamento politico del<br />

tempo, giudicato evidentemente troppo reazionario e oscurantista.<br />

Cosa può fare un uomo allora per sopravvivere? <strong>Il</strong> Cavalier Scaparro consiglia a<br />

tutti di “soffittizzarsi”: «Questo è il punto: soffittizzarsi. Uomini di genere maschile,<br />

contro il logorio della donna moderna, soffittizzatevi!». <strong>Il</strong> protagonista dimostra non<br />

solo fantasia per avere inventato un neologismo, il verbo soffittizzarsi, ma è anche<br />

creativo nel suo intento di mescolare, con tale invito, sia il mondo pubblicitario – lo<br />

spot televisivo interpretato da Ernesto Calindri per l’amaro Cynar recitava «Contro<br />

il logorio della vita moderna scegliete l’amaro Cynar» – sia, di nuovo il mondo<br />

storico-politico. Infatti, la sua performance nell’invitare gli uomini a soffittizzarsi,<br />

47


assume il tono e il volume della voce tipici dei discorsi alla popolazione di Benito<br />

Mussolini.<br />

Mentre continua i suoi discorsi e ricordi legati all’universo femminile, riceve la<br />

visita del fidanzato di sua figlia, il dottor Paolo Desideri, il quale irrompe<br />

furtivamente in soffitta passando dalla finestra come fosse un ladro. Egli è entrato in<br />

casa in quel modo, spiega, perché innamorato di sua figlia. <strong>Il</strong> Cavaliere, deluso e<br />

dispiaciuto per lui, lo dissuade in ogni modo dall’idea di sposarla e lo spinge a<br />

trovarle dei difetti. Risultato ottenuto: il dottore si scatena in un elenco di magagne<br />

e mancanze tipiche non solo della sua futura moglie, ma di tutte le donne in<br />

generale, dai nomignoli affettuosi che sanno di ridicolo, scambiati anche per<br />

telefono, alle infinite e inutili conversazioni telefoniche anche sul luogo di lavoro,<br />

agli altrettanti infiniti ritardi agli appuntamenti.<br />

Ma del resto, si sa che le donne sono specializzate nel complicare le situazioni.<br />

Tant’è che persino le amanti risultano scomode in qualsiasi situazione. Come non<br />

ricordare quella volta in cui, al ristorante, seduti reciprocamente di spalle, il<br />

Cavaliere e la sua amante fanno finta di non conoscersi per rispettare il volere di lei,<br />

intimorita dal potere essere colta in flagrante nell’adulterio? O addirittura alla<br />

stazione durante la guerra, quando, sempre per desiderio di lei, che non vuole essere<br />

scoperta, fa salire il pover’uomo su un treno diretto in Germania facendo finta che<br />

si tratti di suo fratello, mandandolo così in un campo di concentramento?<br />

E persino le donne del disimpegno non sembrano rivelarsi migliori delle altre.<br />

Mandata la moglie in vacanza, quale occasione migliore per andare a divertirsi al<br />

“Mocambo”? Ma le speranze del Cavaliere verranno subito smentite, scoprendo che<br />

anche donne leggere e di facili costumi frequentatrici di locali notturni, non sono in<br />

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ealtà delle “donnine allegre”. A questo punto, « […] meglio passare una nottata al<br />

cimitero, almeno ti fai quattro chiacchiere con i morti, due risate coi defunti [...]»,<br />

commenta la voce fuori campo.<br />

Ecco che finalmente la moglie, notata la lunga assenza del marito durante la<br />

notte, sale in soffitta. Tra i due scoppia una forte lite e la donna decide di fare le<br />

valigie e trasferirsi da sua madre. <strong>Il</strong> Cavaliere inizia a festeggiare saltando come una<br />

marionetta, imitando il passo dell’oca, sbattendo i piatti. Iniziano i rinfacciamenti,<br />

le recriminazioni, e vengono svelati particolari inerenti rinunce e sacrifici affrontati<br />

durante la vita matrimoniale o comportamenti considerati fastidiosi ma accettati e<br />

mai criticati e fino allora tenuti segreti per rispetto dell’altro, dalle riviste osé,<br />

all’abitudine di girare per casa in mutande, dall’imbruttimento della moglie che non<br />

è bella come Ava Gardner, ma del resto anche il marito non è fascinoso come<br />

Gregory Peck, allo sciupio di soldi al bar, al consumo di carne di cavallo invece che<br />

di vitello, per chiudere con il braccialetto d’oro, in realtà scambiato con un uno in<br />

ottone dalla moglie per provvedere alle cure del marito quando aveva contratto il<br />

tifo. A questo punto, compare l’ultima didascalia del film: «E non si videro più fino<br />

al giorno in cui». Fino al giorno in cui, la loro figlia e il dott. Desideri si sposano. <strong>Il</strong><br />

Cavalier Scaparro e il futuro genero si scambiano sguardi complici, il primo di<br />

disperazione e incertezza, poiché non sa se ciò che sta facendo è bene o andrà in<br />

questo modo a cacciarsi in chissà quale guaio, il secondo di compassione e<br />

solidarietà. Ma nel giro di brevi istanti, il dottore si riprende subito, osservando la<br />

generosità e la bellezza della donna che sta sposando.<br />

Finita la cerimonia, l’azione di sposta all’incontro, tra il Cavaliere e sua moglie.<br />

Inizialmente distaccati, come in ogni separazione che si rispetti, la donna gli rende<br />

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pennello da barba e bretelle. L’uomo le rende il celeberrimo bracciale in ottone<br />

oggetto di discussione tempo addietro. Ma, sorprendentemente, lo spettatore<br />

apprenderà che il braccialetto è in oro e che il Cavaliere l’ha fatto ricostruire<br />

appositamente per sua moglie: «L’ho fatto rifare per te. Quello che non vale niente<br />

invece è qui. Ma fosse per me… vale più di quello lì». La pace tra i due coniugi è<br />

fatta e la donna abbraccia il Cavaliere.<br />

All’uscita dalla sala in cui si era svolto il matrimonio, la moglie, come sempre<br />

colpevole di negligenza e noncuranza verso il marito, gli lascia sbattere la porta in<br />

faccia. Scaparro, rivolgendosi direttamente di nuovo al pubblico, osserva: «Avete<br />

visto, noi uomini lottiamo, lottiamo, ma alla fine vincono sempre le donne! Che ci<br />

vuoi fare?» Come dire, le donne sono difettose, colpevoli di essere ciò che sono,<br />

ricadono sempre sugli stessi errori e inconsapevolmente; l’uomo è destinato a<br />

soccombere, perché se da un lato, le critica e desidera evitarle, dall’altro non ne può<br />

proprio fare a meno.<br />

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2.2 <strong>Totò</strong> e Carolina<br />

<strong>Totò</strong> e Carolina è una commedia in bianco e nero del 1953 diretta da Mario<br />

Monicelli, il quale in tale occasione si trova per la prima volta da solo a firmare la<br />

regia di un film senza la collaborazione di Steno, su un soggetto di Ennio Flaiano,<br />

sceneggiatore, critico, scrittore e giornalista, e sceneggiatura di Furio Scarpelli,<br />

Age, Rodolfo Sonego e lo stesso Monicelli.<br />

Siamo ai giardini di Villa Borghese, Roma. Improvvisamente, una notte, scatta la<br />

cattura a opera della Polizia di un gruppo di prostitute e, durante la retata, viene<br />

arrestata dall’agente Antonio Caccacavallo, interpretato da <strong>Totò</strong>, anche una ragazza,<br />

Carolina, che, come constatato in seguito, nulla ha a che fare con il mondo del<br />

malaffare in cui si era trovata coinvolta suo malgrado. Si tratta infatti di una giovane<br />

sola e abbandonata, incinta e fuggita da casa. Per ordine del Commissario,<br />

Caccacavallo deve ricondurla dai suoi familiari. Un compito apparentemente<br />

semplice, che in realtà si rivelerà più complicato e avventuroso del previsto.<br />

Carolina, infatti, oltre a opporre resistenza cercando di scappare, più volte tenta il<br />

suicidio e crea situazioni di pericolo anche per il suo accompagnatore.<br />

Giunti finalmente e miracolosamente a destinazione, si scopre che la ragazza,<br />

vittima di ipocrisie e moralismo, al suo paese di provenienza non è ben vista né<br />

accettata. Tutti, dai suoi parenti al parroco, la rifiutano. Di ritorno al Commissariato,<br />

l’unica soluzione che si presenta all’agente Caccacavallo è di raccontare, mentendo,<br />

che la missione è andata in porto, facendosi carico personalmente di Carolina, che<br />

andrà a stare, quindi, a casa sua.<br />

A dispetto della sua apparente semplicità e comicità, la genesi della commedia è<br />

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stata laboriosa e difficoltosa, non solo all’atto della scrittura del soggetto, ma anche<br />

al momento delle riprese.<br />

La pellicola si ispira a un episodio contenuto nella triade Giorno per giorno,<br />

sceneggiatura risalente agli anni Quaranta, il cui elemento utilizzato ai fini del film,<br />

ovvero un uomo che scolpisce i nasi delle statue, è contenuto nella prima vicenda<br />

raccontata. <strong>Il</strong> passo successivo venne affidato al soggetto di Ennio Flaiano Addio<br />

Carolina! del 1952 e dove si apprende che “Carolina” in realtà è il camioncino<br />

rosso della Polizia su cui vengono fatte salire le prostitute arrestate, mentre la<br />

ragazza protagonista femminile della vicenda si chiama Adua. Sembra perciò che,<br />

nel passaggio dal soggetto originale alla stesura finale della sceneggiatura, vi sia<br />

una traslazione tra il mezzo di trasporto utilizzato per la cattura delle donne di<br />

malaffare e la protagonista della storia, che si chiama nello stesso modo, Carolina.<br />

Si compie in questo passaggio una metafora, tra il mondo della prostituzione e la<br />

storia di questa donna. Flaiano sottolinea, come appare dalla dicitura presente sul<br />

suo soggetto, che il titolo è provvisorio. Sussiste tuttavia tra la scrittura originale<br />

della storia e la sua stesura definitiva un divario notevole. Poiché, infatti, la vicenda,<br />

contrariamente a quanto desiderava Monicelli, non riprendeva le tracce di Guardie e<br />

ladri, film del 1951, diretto dalla coppia Steno/Monicelli, Flaiano la rielabora, e nel<br />

1953, sulla base di tale progetto, esce <strong>Totò</strong> e Carolina. <strong>Il</strong> periodo di lavorazione<br />

cinematografica è quindi la stessa di Siamo uomini o caporali, e in effetti, anche<br />

questa produzione, era stata soggetta analogamente a continue verifiche e tagli da<br />

parte della censura, sebbene non tali da ritardare la programmazione per così tanto<br />

tempo. Bloccato perché considerato un film irrispettoso e oltraggioso, saranno i<br />

suoi trentacinque punti critici censurati a dargli, almeno in parte, notorietà. Benché<br />

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ipresentata in versione riveduta, la pellicola non supera il vaglio della censura per<br />

ben altre due volte. Passeranno in totale ben tre anni prima che il film possa essere<br />

proiettato nelle sale. Siamo già, quindi, nel 1955 allorché la commedia viene<br />

distribuita, e solo nelle sale italiane, presentando più di m 573 di tagli e varie scene<br />

riscritte secondo i canoni della censura. Solo successivamente – ma passeranno altri<br />

tre anni, siamo nel 1958 – la commedia viene proiettata anche nelle sale<br />

cinematografiche estere. Ma a quell’epoca, nel frattempo, molti altri film di <strong>Totò</strong><br />

erano stati girati.<br />

Iniziate le riprese a Roma nel 1953, il film viene interrotto in seguito alla<br />

broncopolmonite contratta da <strong>Totò</strong> e dovuta al freddo che aveva preso lavorando<br />

nella scena in cui, colpito in testa da Carolina con un colpo di badile, cade in acqua<br />

tramortito. <strong>Il</strong> film viene finito di girare nel febbraio 1954 tra Torino e il Lazio,<br />

momento in cui <strong>Totò</strong> stava già girando Miseria e nobiltà.<br />

La pellicola si apre con una melodia di sottofondo triste e malinconica sulla<br />

ripresa notturna di Villa Borghese a Roma. Una donna bionda, non più molto<br />

giovane, appariscente ma non bella, dall’aspetto volgare, fuma una sigaretta<br />

appoggiata a un albero. Nell’attimo in cui viene avvicinata e molestata da un uomo,<br />

scatta una retata della Polizia. La donna, una prostituta, fugge e scompare dalle<br />

scene, per fare posto alla confusione creata dall’arrivo delle forze dell’ordine. Ecco<br />

che, dal fitto della boscaglia dei giardini, sbuca, in cima a una scalinata, <strong>Totò</strong>, in<br />

versione agente Antonio Caccacavallo. Viene immediatamente ripreso dal<br />

Commissario: «Ma dove sei andato? Lo sai che il regolamento vieta all’autista di<br />

muoversi dal proprio posto?». L’agente ha con sé una ragazza, giovane e graziosa,<br />

che ha appena arrestato. Portata in Commissariato, la donna, che si chiama<br />

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Carolina, perde i sensi. In realtà, ha appena tentato il suicidio ingerendo del veleno.<br />

Viene ricoverata in ospedale e curata, sempre sotto la custodia dell’agente<br />

Caccacavallo. Scoperto che non si tratta di una prostituta, la diagnosi medica non è<br />

delle più confortanti: «La ragazza è un tipo irriflessivo, di tipo ipocondriaco […]<br />

bisognerà sorvegliarla». Eppure altro non è se non una giovane donna spaventata e<br />

incinta, fuggita da casa.<br />

Carolina viene portata da Caccacavallo a casa sua ed è qui che per la prima volta<br />

la sentiamo parlare. A dispetto della sua apparente fragilità femminile, la si scopre,<br />

nella sua parlata romanesca, molto schietta e concreta. L’agente Caccacavallo le<br />

presenta una abitazione dai toni dimessi, i cui abitanti sono, oltre a lui, suo padre,<br />

molto anziano, e suo figlio, un bambino di una decina d’anni. Assente una figura<br />

femminile. La moglie dell’uomo è morta e da quel momento egli non si è rifatto, in<br />

questo senso, una nuova vita per suo stesso volere. <strong>Il</strong> padre gli rimprovera tale<br />

scelta, perché senza la presenza di una donna, anche attaccarsi un bottone sembra<br />

un’operazione impossibile. D’altro canto, una domestica non è economicamente<br />

alla loro portata, e Caccacavallo è perennemente preoccupato per le questioni<br />

finanziarie della famiglia. L’unica soluzione sarebbe continuare a ospitare Carolina,<br />

che si prenderebbe cura di loro. Ma Caccacavallo osserva che, a causa della sua<br />

divisa, non si può permettere di tenere in casa una persona colpevole di avere<br />

tentato il suicidio. Mentre ne stanno discutendo, Caccacavallo e suo padre credono<br />

di sorprenderla in un nuovo tentativo di suicidio. Tuttavia è l’idea ossessionante<br />

delle regole, dell’ordine prestabilito, delle convenzioni che il brigadiere ha a creare<br />

mentalmente l’immagine di questo evento. Carolina, infatti, sta solo stendendo dei<br />

panni. <strong>Il</strong> personaggio dell’agente Caccacavallo presenta delle spigolature<br />

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psicologiche e caratteriali, dovute al fatto che egli non distingue tra la vita privata e<br />

la vita professionale, conseguentemente, qualsiasi accadimento, è vissuto e<br />

percepito con rigidità, quella rigidità tipica del mondo della divisa e che vediamo<br />

riflettersi anche nei rapporti con le persone, a partire dai familiari. Non siamo mai,<br />

dunque, in presenza di Antonio, ma sempre e solo del brigadiere Caccacavallo. La<br />

rigidità e la ferrea osservanza delle regole che osserviamo nel suo personaggio non<br />

sono tuttavia sinonimi di un effettivo senso di autorità che dovrebbe derivare<br />

dall’indossare una divisa, perché inficiati dalla sua ignoranza, come osserviamo in<br />

questa sua risposta al figlio: «L’eroe dei due mondi chi era? Chi era… Chi era l’eroe<br />

dei due mondi? L’eroe dei due mondi… è coso, là, come si chiama? Ce l’ho proprio<br />

sulla punta della lingua… Lo so e non te lo voglio dire, non te lo voglio dire!» o<br />

quando, seccato da una richiesta di suo padre, esclama in un italiano maccheronico:<br />

«Lo stipendio si volatizza!». Esiste quindi un contrasto tra l’autorità della divisa e il<br />

personaggio interpretato da <strong>Totò</strong>, non creato casualmente, ma opportunamente per<br />

dare a intendere, nonostante la drammaticità della vicenda, che si trattava di una<br />

storia atta a far ridere, non in questo, quindi, diversa dalle altre pellicole recitate<br />

dall’attore napoletano. Ed era tanto più importante sottolineare questo dettaglio,<br />

proprio perché il film aveva già incontrato il rifiuto della censura, e riuscire ad<br />

apparire rispetto al pubblico come la solita commedia irriverente ma innocente di<br />

<strong>Totò</strong>, senza dare il sospetto di possedere, invece, una profondità e un significato<br />

storici e sociali visibili solo se letti in filigrana e lontani dal conformismo degli anni<br />

Cinquanta. Evento naturalmente allora impossibile a verificarsi e per il quale<br />

dobbiamo attendere fino al 2008, allorché, avendo recuperato tutto il materiale e<br />

ricostruita la pellicola riportandola, per quanto possibile, al suo stato originale, esce,<br />

55


questa volta non nelle sale ma nel moderno DVD, una nuova versione, non più<br />

epurata, di <strong>Totò</strong> e Carolina, a opera del regista Aurelio de Laurentiis.<br />

Altro elemento che fa da contraltare alla rigidità del brigadiere è il suo lato<br />

artistico. Caccacavallo, infatti, si diletta in opere di scultura. Questo aspetto,<br />

ridimensionato in tale versione, era invece la caratteristica principale del soggetto di<br />

Flaiano. Ma nella stesura definitiva, invece che costituire il fulcro dell’essenza del<br />

personaggio, ne è il lato leggero e comico. Le creazioni di Caccacavallo non sono<br />

sculture tradizionali, ma costruite con la lavorazione della mollica di pane,<br />

fornitagli dagli avanzi di colazioni altrui. L’ultima sua opera, ancora in fase di<br />

lavorazione, è custodita gelosamente in una credenza. Si tratta di un busto<br />

raffigurante il Commissario. Chiara quindi una forma di ossequio alla divisa, e<br />

perciò ritorniamo alla rigidità e al rispetto dell’ordine costituito, ma questa volta per<br />

un puro calcolo: la scultura ha uno scopo adulatorio al fine di ottenere un aumento<br />

di stipendio. Come già osservato, infatti, una delle preoccupazioni del brigadiere è<br />

sempre quella di carattere economico. Alla scultura in oggetto manca però ancora il<br />

naso, e, infatti, il brigadiere, nell’intento di percepire artisticamente e imprimere<br />

nella sua mente quello del Commissario per riprodurlo dal vivo, lo osserva in modo<br />

incessante. <strong>Il</strong> naso, rispetto alla scultura, assume poi un suo proprio significato.<br />

Nella storia tende a ripresentarsi svariate volte indipendentemente da essa e a vivere<br />

di una vita propria, come fosse quasi anch’esso un personaggio: «Ci ho naso, io…<br />

eh, ho capito subito che era un pesce grosso, amico mio. Questa è questione di fiuto.<br />

Nella vita ci vuole questo… il naso», e oppure: «<strong>Il</strong> mio naso ha molto fiuto, vale a<br />

dire è un fiutatoio», e infine: «Atturati il naso». Si tratta di un elemento metafora<br />

che di per sé testimonierebbe la scaltrezza e le capacità intuitive di Caccacavallo,<br />

56


nella realtà è un elemento volto a dissacrare le forze dell’ordine incapaci di<br />

conservare una propria identità rispetto al mondo del potere e pronte al<br />

compromesso e all’ossequio, per continuare a tenere alto il valore, almeno formale<br />

dell’uniforme. Caccacavallo sostiene infatti che, in quanto uomo di divisa, non può<br />

legare la sua vita a quella di una donna, come Carolina, dal vissuto evidentemente<br />

riprovevole. Tuttavia, vedremo successivamente l’uomo contraddirsi anche in tale<br />

aspetto e rivelare un’anima ben diversa da ciò che imponevano sia la divisa che il<br />

costume del tempo. Quando la ragazza gli chiede come mai sia così appassionato di<br />

scultura, egli le rivela che era solita andare a trovare il professor Ciccariello in<br />

carcere, colpevole dell’omicidio della madre, ma, nonostante ciò, un ottimo scultore<br />

della mollica. L’agente Caccacavallo dimostra perciò di andare, in realtà, ben oltre i<br />

pregiudizi e le convenzioni sociali dell’epoca a dispetto della sua divisa. Lo stesso<br />

comportamento è osservabile rispetto al rapporto che egli instaura con Carolina.<br />

Non solo la loro vicinanza forzata diventa conoscenza e rispetto e affetto reciproci,<br />

ma rifiuto dei dettami e delle regole imposte dalla società.<br />

Ricevuto l’incarico da parte del Commissario di riaccompagnare Carolina al suo<br />

paese, i due intraprendono un lungo e estenuante viaggio in jeep; tuttavia il percorso<br />

che intraprendono insieme forzatamente, si rivelerà non tanto uno spostamento<br />

geografico, quanto un “movimento di anime”, un viaggio nella conoscenza e nella<br />

comprensione reciproci: da un lato Caccacavallo riconsidererà la sua opinione sulla<br />

donna e ne capirà senza giudicare le scelte e il comportamento, dall’altro<br />

quest’ultima, invece che continuare a considerare un nemico l’uomo che l’ha in<br />

custodia, imparerà a rispettare la sua persona e il suo lavoro, comprendendo anche<br />

la difficoltà della sua posizione nello svolgimento del compito affidatogli.<br />

57


<strong>Il</strong> viaggio non scorre linearmente. Carolina durante il percorso perde il suo<br />

pettine. Caccacavallo non gli dà importanza, anzi, crede si tratti di uno stratagemma<br />

della ragazza per fuggire. Sopraggiunge un ragazzo in moto che recupera l’oggetto e<br />

glielo rende al volo. L’agente però ribadisce che «[…] questa è una camionetta<br />

onesta!», e intima alla donna di buttare via immediatamente il pettine, ma Carolina<br />

gli risponde che non può perché è un ricordo della madre morta.<br />

<strong>Il</strong> secondo evento che anima il loro viaggio è dato dall’incontro di un camion di<br />

operai, che intonano un «Di qua e di là del Piave». Questa scena, rivista per ordine<br />

della censura, in origine vedeva gli uomini cantare Evviva il comunismo e la libertà.<br />

L’unica traccia, contraddittoriamente non eliminata o comunque non rivista, è la<br />

presenza delle bandiere rosse sventolanti sul camion, ma è pur vero che la pellicola<br />

è in bianco e nero e, conseguentemente, distinguere il colore dei drappi non è<br />

possibile. Al momento del sorpasso, Caccacavallo intima agli uomini di andare a<br />

destra. Altro richiamo di natura politica non toccato dall’azione della censura? La<br />

jeep diverse volte si trova di fronte a un bivio: andare verso destra o sinistra? Ma in<br />

tale occasione il dubbio sulla direzione da prendere e la scelta che ne consegue<br />

mascherano il loro lato politico attraverso l’ingenuità di Caccacavallo e la scaltrezza<br />

della sua compagna di viaggio nel perenne tentativo di scappare o uccidersi.<br />

Alla prima sosta, i due, che ne approfittano per mangiare un panino, vengono<br />

distolti dal loro pranzo da un tamponamento. Richiamo alla fame di Miseria e<br />

nobiltà: anche qui potere mangiare sembra impossibile. Caccacavallo, infuriato,<br />

scende immediatamente dalla jeep, ma soffoca le sue imprecazioni perché il mezzo<br />

che li ha tamponati è il camioncino condotto da un gruppo di scout e da un prete. <strong>Il</strong><br />

brigadiere è, sempre secondo quanto stabilito dalle regole della società del tempo,<br />

58


obbligato a soccombere perché, oltre a dovere conservare la rispettabilità del suo<br />

contegno in quanto tutore dell’ordine, proprio per questo si trova anche in una<br />

posizione di sudditanza sociale rispetto a certe categorie, come quella, appunto dei<br />

religiosi.<br />

Dopo una successiva sosta obbligata causata dallo stimolo di Carolina a<br />

vomitare, la faticosa marcia riprende. L’agente non sembra convinto della direzione<br />

presa e fa marcia indietro per andarsene. Ingenuamente chiede alla ragazza di<br />

aiutarlo nella manovra, ed ella, desiderosa di trovare la morte, lo spinge a<br />

continuare ad andare indietro. La vettura precipita giù a valle, ma fortunatamente si<br />

ferma andando a sbattere contro un albero. I due sono illesi e Caccacavallo strattona<br />

Carolina, esasperato quanto disperato perché non sa più come comportarsi con lei.<br />

In quel momento interviene in loro soccorso un gruppo di uomini. Sono gli stessi<br />

uomini verso cui l’agente aveva inveito poco prima dicendogli di andare a destra.<br />

Grazie a loro la vettura viene recuperata, ma nel frattempo, Carolina, corrompendo<br />

l’anziano che temporaneamente l’aveva in custodia attraverso i suoi sentimenti di<br />

libertà, riesce finalmente a scappare. Tutti la inseguono e, giunta a un pozzo, vi si<br />

butta dentro, ma esso è chiuso e perciò il suo ennesimo tentativo di suicidio non<br />

funziona. Riprende la fuga, ma Caccacavallo la ritrova e la riprende con sé.<br />

L’affannoso viaggio ricomincia e i due si fermano in seguito presso un’osteria.<br />

Carolina chiede al brigadiere di non ammanettarla almeno in quell’occasione, per<br />

essere considerata una persona normale e non additata dalla gente, con la promessa<br />

che non tenterà di scappare di nuovo. Dopo essersi accomodati nel locale e avere<br />

intavolato una breve conversazione legata all’arte scultoria dell’agente, scoppia la<br />

confusione. Un contadino veneto aggredisce il proprietario della trattoria perché,<br />

59


secondo lui, gli ha venduto della coppa avvelenata che ha provocato la morte del<br />

suo gatto. Caccacavallo improvvisamente rivolge il suo pensiero a Carolina, la<br />

quale ha appena mangiato lo stesso cibo, ma la ragazza sembra godere di buona<br />

salute, perché è intenta a ballare con un uomo. L’agente però la porta via e ascolta il<br />

consiglio di una cliente secondo cui, in simili occasioni, bisogna bere molto latte.<br />

Quindi vanno insieme in una fattoria e l’uomo comicamente riesce a procurarselo<br />

stordendo una capra e portandosi via il recipiente che lo contiene. Purtroppo<br />

Carolina non vuole bere il latte, assumendo a pretesto che le piace solo quello<br />

bollito. In realtà è la solita scusa per cercare di morire. A questo punto una sua<br />

domanda coglie di sorpresa il brigadiere: «Ma ragioni un po’, che ci sto a fare io a<br />

questo mondo?» Caccacavallo la invita a osservare la bellezza del mondo e della<br />

natura che circonda l’essere umano e conclude la sua “arringa” in difesa della vita<br />

canticchiando che «la vita è bella e la voglio vivere sempre più!»<br />

Improvvisamente si sente uno sparo. Caccacavallo ne approfitta per obbligare,<br />

minacciandola con il fucile del cacciatore che aveva colpito poco prima un volatile,<br />

la sua compagna di viaggio a bere il latte. <strong>Il</strong> cacciatore interviene sostenendo che<br />

sarebbe stato inutile; in quei casi l’unica cosa da farsi è vomitare. Inizia allora una<br />

folle e sobbalzante corsa in macchina, proprio con lo scopo di provocare lo stimolo<br />

del vomito. Tuttavia, il risultato comico e assurdo che ne consegue è che a vomitare<br />

non è Carolina ma Caccacavallo. E ancora più assurdamente, in lontananza, il<br />

contadino veneto e l’oste lo informano che la coppa non era avvelenata e che il<br />

gatto era morto a causa di un calabrone.<br />

Ricominciando la marcia, finalmente Caccacavallo e Carolina arrivano a<br />

destinazione. <strong>Il</strong> primo incontro all’ingresso del paese avviene con il parroco.<br />

60


Caccacavallo gli propone di firmare un foglio come ricevuta in cambio della<br />

consegna della ragazza, ma il prete rifiuta, adducendo come scusa che deve prima<br />

confessare «quel bravo giovane» che l’ha messa incinta. La verità è che egli non<br />

vuole prendersi alcuna responsabilità nei confronti della ragazza, perché preferisce<br />

evidentemente restare al di fuori di simili questioni e non avere problemi. Per cui<br />

lancia una controproposta al brigadiere: chiamare gli unici parenti di Carolina, la<br />

famiglia Barozzoli. Tuttavia neanche essi sembrano volersi fare carico di lei, anzi,<br />

la apostrofano in malo modo dicendole che è una immorale e svergognata. Ma si<br />

scopre che l’immoralità è in realtà quella di questi parenti: lo zio ha cercato di<br />

abusare della ragazza. Caccacavallo, dopo essersi scontrato apertamente con lui a<br />

colpi di presunti quanto inventati articoli di legge, conclude la discussione<br />

esclamando con vigore: «Articolo 217: va’ morì ammazzato!». E quindi il<br />

personaggio del brigadiere fuoriesce ancora una volta dal rispetto delle regole e del<br />

decoro della forma che invece, in presenza di una famiglia di un certo spessore<br />

sociale e di un avvocato, ovvero lo zio, dovrebbe osservare.<br />

<strong>Il</strong> parroco a questo punto suggerisce di affidare Carolina a un certo zio<br />

Francesco, che sembra molto affettuoso nei confronti dell’orfanello che ha accolto.<br />

Ma andando a constatare di persona come il bambino venga trattato, l’immagine<br />

che si presenta è quella di una povera creatura indifesa cresciuta a suon di calci e<br />

violenza. Nessuna soluzione, quindi, sembra esserci e Caccacavallo è preoccupato<br />

di non potere risolvere la situazione, perché così non riceverà il suo aumento di<br />

stipendio: «Hai capito tu bambina quanto mi costi? 9.000 Lire al mese, più di<br />

100.000 Lire all’anno».<br />

Tornando verso il Commissariato, i due si imbattono in un ladro, che sta<br />

61


cercando di rubare il contenuto di un camioncino. Caccacavallo riesce a catturarlo e<br />

lo fa salire sulla jeep. Tra lui e Carolina nasce una complicità particolare, forse<br />

dovuta al disagio che entrambi, emarginati, vivono. Nella mente del brigadiere si<br />

profila allora l’idea di invitare in qualche modo il ladro e la donna a fuggire<br />

insieme. L’occasione gli viene fornita da una provvidenziale foratura di uno<br />

pneumatico. Ma i due giovani non si fidano di Caccacavallo e Carolina, spaventata,<br />

prende un badile e glielo scaglia in testa. Passo falso. La ragazza, ancora più<br />

spaventata scappa e il brigadiere cade in acqua. Resasi conto della gravità della<br />

situazione e, in fondo, dispiaciuta dell’accaduto, si lascia andare anche lei in acqua<br />

per salvare il suo sorvegliante. Sulla terraferma di fronte a un falò, il brigadiere,<br />

avvolto in una coperta e con un fazzoletto in testa, quasi a sdrammatizzare la<br />

drammaticità, invece di esprimere rabbia per quanto successo, torna a ricordare a<br />

Carolina la bellezza della vita che in ogni caso deve essere vissuta, soprattutto<br />

quando, al mondo, non si è soli e si ha la responsabilità di altre persone: come egli<br />

deve pensare e provvedere a suo padre e suo figlio, anche la donna, dal momento<br />

che è incinta, deve prendersi cura del bambino che aspetta e che conta su di lei.<br />

Arrivati in Commissariato, il brigadiere Caccacavallo si presenta a fare rapporto.<br />

Mente al Commissario dicendo che la missione è andata buon fine e che un vedovo<br />

si è preso carico di Carolina. <strong>Il</strong> superiore non capisce che il suo sottoposto sta<br />

alludendo a se stesso e, quindi, come stabilito gli assegna aumento e promozione:<br />

«[…] Per quella promozione stai tranquillo! […] Ma che t’avevo detto io, che prima<br />

o poi un fesso si trovava sempre?» Caccacavallo ironicamente risponde: «Aveva<br />

ragione, quel fesso si è trovato!». Nel frattempo, Carolina è appena fuori il<br />

Commissariato che lo aspetta e, vedendolo, gli domanda dove andrà. La risposta<br />

62


nuovamente ironica è: «A casa di un fesso!».<br />

63


2.3 L’analisi del concetto di amore<br />

<strong>Il</strong> talento espressivo di <strong>Totò</strong>, non solo come maschera della comicità, è<br />

osservabile anche nell’affrontare temi seri e importanti. È il caso, ad esempio, di<br />

<strong>Totò</strong> e Carolina, primo caso di commedia all’italiana ma con una forte connotazione<br />

sociale a causa dei temi trattati, innestati in un racconto comico. <strong>Il</strong> protagonista se<br />

infatti appare, per un verso come sempre ridicolo e pronto a provocare una risata,<br />

anche solo per il nome che porta (Caccacavallo), in particolare nella seconda parte<br />

del film è più serio e grave ed esterna vicinanza e sensibilità rispetto alle<br />

problematiche del mondo di allora e alla difficile condizione di Carolina, la<br />

protagonista femminile. In effetti, c’è un progressivo distaccarsi dalle<br />

consuetudinarie battute e nonsense tipiche dell’attore <strong>Totò</strong> del primo periodo, come<br />

«si aggirava con circo e ispezione», «Ambulanza! Ambulatorio! Croce Rossa!», «È<br />

un caso peripatetico. Che ne so io. Chiamiamo il babbo», per giungere al momento<br />

della profondità, della nobiltà d’animo. Connotazioni che si accentuano man mano<br />

che aumenta la conoscenza con la sua compagna di viaggio e di avventure,<br />

Carolina. L’incontro per i due personaggi diventerà rivelatore per entrambi. L’uomo<br />

scopre che, in fondo, esattamente come in <strong>Totò</strong> e le donne, non può fare a meno di<br />

una donna, come suo padre stesso gli rammenta all’inizio del film. La sua<br />

dimostrazione di autosufficienza e dell’essersi fatto da solo si dimostra quindi<br />

fallace e dubbiosa. Inoltre, scoprirà, a dispetto della sua rigidità e del suo cinismo,<br />

di essere pronto a capire e a giustificare eventi e situazioni, e di riuscire a provare<br />

dei sentimenti. Che non devono essere necessariamente di passione amorosa (nel<br />

film, ricorda al padre che ormai ha una certa età e non può quindi più riprendere<br />

64


moglie), ma sono da intendersi e manifestarsi come senso di protezione, di<br />

interessamento verso una persona senza nulla pretendere in cambio. Carolina, da<br />

parte sua, grazie al suo nuovo amico, riscopre la bellezza della vita anche nelle<br />

piccole cose, senza domandarsi perché si esiste, ma solo vivendo perché è giusto<br />

così, perché siamo tutte creature.<br />

In <strong>Totò</strong> è le donne il concetto di amore viene trattato quasi come malattia, come<br />

elemento di dipendenza. Lo stesso <strong>Totò</strong>, recita in chiusura del film, che «noi uomini<br />

lottiamo, lottiamo, ma alla fine vincono sempre le donne! Che ci vuoi fare?».<br />

L’aspetto sociale emerge andando a rovistare all’interno dei rapporti tra l’uomo e la<br />

donna. Punto fermo anche oggi, ma a differenza dei giorni nostri, con un impatto<br />

fortemente misogino e non aperto al vero confronto e al dialogo, dove in realtà non<br />

si discute effettivamente sulle problematiche all’interno di una coppia, ma si mette<br />

l’accento soltanto sui difetti femminili e sulle recriminazioni che possono esserci<br />

quando un rapporto matrimoniale va in crisi. <strong>Il</strong> film sembra avere una connotazione<br />

didascalica, pedagogica, perché vuole dare delle dritte, dei suggerimenti (ad<br />

esempio il “soffittizzarsi”, lo spiegare e il dimostrare con un’ampia casistica, quasi<br />

come in un laboratorio ed empiricamente, che le donne sono così, e che se sono<br />

così, necessariamente i risultati non possono che essere certi e non altri); tuttavia<br />

d’altro canto, osserviamo che in tale tentativo, troppo spesso si cade in luoghi<br />

comuni e stereotipi. Scaparro insegna in realtà, non come sono le donne, ma come<br />

sono le sue donne. Egli tenta di costruire attraverso le proprie esperienze un<br />

rapporto matematico, una proporzione algebrica, ma alla fine si renderà conto che,<br />

mentre in matematica il risultato è sempre lo stesso e, certo, nella vita reale, i<br />

sentimenti cambiano all’improvviso quando meno ce lo si aspetta i fattori<br />

65


matematici e la loro posizione. In questo, forse, siamo vicini, finalmente, al potere<br />

considerare le donne non solo più portatrici di guai e confusione, o “strane creature”<br />

inferiori rispetto all’uomo e da tenere rigorosamente sotto controllo, ma esseri<br />

indipendenti capaci di aprire un varco nel cinismo e nel disincanto apparenti<br />

dell’universo maschile.<br />

<strong>Totò</strong> è stato autore di varie canzoni e poesie dedicate all’amore e alla figura<br />

femminile, tra cui La donna:<br />

Chi l’ha criata è stato nu grand’ommo, / nun ‘o voglio sapè, chi è stato è stato, / è stato ‘o Padreterno? E<br />

quanno e comme? / Ch’avite ditto? ‘Ofatto d’ ‘a custata? / Ma ‘a femmina è ‘na cosa troppo bella, / nun ‘a<br />

puteva fa cu ‘a custatella! / Pe’ carità, nun dite fesserie! / Mo v’ ‘o ddich’io comm’è stata criata; / è stato nu’<br />

lavoro ‘e fantasia, / è stata ‘na magnifica trovata,/e su questo nun faccio discussione; / chi l’ha criata è<br />

gghiuto int’o pallone! 20<br />

Sia <strong>Totò</strong> che Antonio de Curtis vissero in modo inscindibile rispetto alle donne.<br />

Anzi, esse caratterizzarono interamente la vita personale e professionale dell’artista<br />

napoletano. La prima donna, e dunque il primo essere, verso cui <strong>Totò</strong> rivolse il suo<br />

amore fu sua madre, Anna/Nannina Clemente. <strong>Il</strong> rapporto tra di loro fu sempre<br />

controverso, nonostante il profondo affetto:<br />

Lei si compiaceva dell’attaccamento del figlio, ma rimaneva disorientata dalla sua personalità. 21<br />

La donna l’aveva partorito all’età di sedici anni, senza arte né parte. Per il figlio<br />

si aspettava un futuro sicuro, certo, tanto da obbligarlo a diventare chierichetto per<br />

20 L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> – M. AMOROSI, <strong>Totò</strong>. Ffemmene e malafemmene, Milano, Rizzoli, 2000, p. 7<br />

21 Ibid., p. 17<br />

66


portarlo alla vita ecclesiastica: «[…] meglio ‘nu figlio prevete che ‘nu figlio<br />

artista». 22 Tuttavia il suo Antonio era un ragazzino difficile e ribelle, che preferiva<br />

giocare con i suoi vestiti per giocare a impersonare ogni volta vari personaggi e non<br />

voleva sapere d’altro. Era proprio in quel modo, con quegli indumenti e quei<br />

travestimenti, che la sua carriera di attore era cominciata. Certamente, egli<br />

dimostrava sempre il suo affetto alla madre, ma al tempo stesso faceva esperienza<br />

del disadattamento della donna e dei suoi imprevedibili scatti di violenza, come<br />

quando, involontariamente lo colpì col tacco di una scarpa sulla schiena o con il<br />

lancio di una forchetta in un occhio. Le cicatrici di simili eventi non saranno solo<br />

fisiche, ma anche psicologiche. <strong>Il</strong> concepire che l’amore può portare anche al dolore<br />

provocò nel suo animo quella dicotomia nel suo animo, che per tutta la vita lo<br />

caratterizzò.<br />

<strong>Il</strong> secondo amore di <strong>Totò</strong> fu quello, travolgente e tragico, per Liliana Castagnola,<br />

donna di spettacolo. La donna si innamorò subito del Principe, e commise l’errore<br />

di confidargli apertamente di sognare con lui un futuro sereno e stabile, una vita<br />

matrimoniale. <strong>Totò</strong> non la contraccambiava, si sentiva incatenato e aveva altri<br />

progetti in mente che non un legame che non sentiva:<br />

L’ascoltavo con fastidio, chiedendomi perché avesse scelto proprio me per raggiungere un traguardo a<br />

cui io non l’avrei mai condotta. Mi piaceva moltissimo, ma l’idea della convivenza e, ancora peggio, del<br />

matrimonio, non mi sfiorò nemmeno per un attimo. 23<br />

La passione per <strong>Totò</strong> divorò a tal punto la donna che si suicidò. Questa fu una<br />

cicatrice fatale, che, seppur non fisica, segnò eternamente l’uomo, lo fece prendere<br />

22 TOTÒ, Siamo uomini o caporali, Roma, Newton Comtpon Editori, 1993, p. 65<br />

23 L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> – M. AMOROSI, <strong>Totò</strong>. Femmene e malafemmene, Milano, Rizzoli, 2000, p. 46<br />

67


24 Ibid., p. 58<br />

25 Ibidem<br />

dai sensi di colpa. Fu così che decise di<br />

[…] tumulare la salma di Liliana a Napoli, nella mia tomba di famiglia, a sancire il suo ruolo<br />

importantissimo nella mia vita, ma una traccia di rimorso rimase dentro di me. 24<br />

Per la medesima ragione, anche l’unica figlia di <strong>Totò</strong>, scrittrice e autrice di molti<br />

testi a lui dedicati, ebbe come nome di battesimo quello della Castagnola: Liliana.<br />

<strong>Il</strong> secondo amore del Principe fu la moglie, Diana Rogliani, a cui dedicò la sua<br />

canzone Malafemmena. <strong>Totò</strong> ne era rimasto colpito da molto prima di conoscerla<br />

personalmente, in quanto la ragazza, giovanissima, era il volto noto di un manifesto<br />

pubblicitario e, il giorno in cui egli la vide in carne e ossa, non riusciva a crederci.<br />

Tuttavia, Liliana Castagnola era onnipresente nei suoi pensieri e lo fu ancora di più<br />

quando si accorse che, a dispetto della sua non illibatezza, era probabilmente<br />

migliore della donna che sposò, da cui era stato attratto anche per la sua giovane età<br />

e per la sua purezza:<br />

Anche dopo decenni, infatti, mi capitava di rivedere il volto di Lilia così come l’avevo contemplato nei<br />

momenti d’amore, cancellando altre immagini dolorose. Pensai a lei anche quando la fanciulla pura come un<br />

giglio che avevo portato all’altare, la mia adorata Diana, mi deluse e tradì. A mia moglie avevo dato tutto per<br />

essere ripagato così male, a Lilia non avevo dato niente, ma lei mi aveva sacrificato la vita perché credessi<br />

alla profondità del suo amore. <strong>Il</strong> destino è veramente strano e l’apparenza è uno specchio deformante in cui è<br />

bene non specchiarsi mai. 25<br />

Dopo la separazione da Diana, la sua “ Mizuzzina”, come <strong>Totò</strong> affettuosamente<br />

la chiamava, si legò a Franca Faldini, attrice e scrittrice, che resterà accanto a lui<br />

68


fino alla fine, nel 1967. Quando i due diventarono una coppia, il Principe aveva già<br />

cinquant’anni, e sua figlia e la sua nuova compagna erano quasi coetanee, avevano<br />

circa vent’anni. <strong>Totò</strong> vivrà questo amore in modo libero e non ossessivo come in<br />

precedenza. Con esso inizierà un periodo sentimentalmente molto sereno e stabile.<br />

La Faldini sarà l’unica donna della vita del Principe ad aver saputo davvero tenergli<br />

testa, a non subire le sue gelosie e insicurezze.<br />

La fama di <strong>Totò</strong> era quella di sciupafemmene, razziatore di cuori femminili, un<br />

po’ forse per colmare le sue lacune affettive e le sue fragilità, un po’ perché sempre<br />

irresistibilmente attratto dal sesso. Egli stesso dichiarò apertamente che non era<br />

possibile per lui astenersene. E, al di là delle donne importanti della sua vita,<br />

Liliana, Diana e Franca, durante i periodi di solitudine, pur di soddisfare i suoi<br />

appetiti sessuali, si lanciava in avventure senza alcun valore sentimentale. Con le<br />

amanti era generoso quanto spietato, nel momento in cui decideva di allontanarsene,<br />

ma allo stesso tempo sapeva compensare questa sua durezza d’animo, con gesti<br />

profondamente umani e sinceri verso quelle che vedeva in difficoltà e con cui non<br />

v’era alcun legame. Era in definitiva un gentiluomo, nonostante tutto. Così Diana<br />

Rogliani lo dipinge:<br />

<strong>Totò</strong>, uno, nessuno e centomila, in un miscuglio di contraddizioni che fa perdere in un labirinto chi si<br />

sforza di decifrarlo. Meglio osservarlo vivere, come se assistessimo a un suo spettacolo, lasciandoci<br />

trasportare dalle emozioni, entrando nella sua sfera più intima di cui le donne, nel bene e nel male, sono le<br />

protagoniste. 26<br />

Gli altri due amori di <strong>Totò</strong>, furono la figlia, Liliana de Curtis, nata dalla sua<br />

26 Ibid., frontespizio di copertina<br />

69


unione con Diana Rogliani, e, naturalmente, quello di una vita intera: il teatro.<br />

<strong>Il</strong> rapporto con sua figlia fu caratterizzato da luci e ombre. Innanzitutto, il fatto<br />

che portasse il nome della donna suicida d’amore per lui in qualche modo già la<br />

rivestiva di un ruolo eccessivo. Rimediare a un errore passato dandole quel nome in<br />

realtà non aveva fatto altro che accentuare le problematiche familiari e personali. <strong>Il</strong><br />

risultato era un padre ancora e sempre ossessivo e geloso che non si rendeva conto<br />

di ciò che stava succedendo nella vita della sua bambina. <strong>Totò</strong> credeva di<br />

proteggerla dal mondo e di dimostrarle amore, quell’amore di cui in precedenza non<br />

era stato capace con le sue donne, ricoprendola di doni e costringendola in un<br />

castello dorato, reggia apparente, prigione nella realtà.<br />

L’adolescenza di Liliana scorse sempre sotto l’eccessiva sorveglianza di suo<br />

padre, attento anche ai suoi primi legami sentimentali. Tale senso di possesso e di<br />

esclusività portò la ragazza a legarsi con l’uomo sbagliato neanche ventenne e a<br />

sposarlo. Si trattava di Gianni Buffardi, produttore cinematografico, uomo infedele<br />

senza alcuno scrupolo. Ciò compromise lo stato di salute mentale della giovane<br />

donna, fino al punto da provocarle crisi autolesioniste e da farla ricoverare in una<br />

clinica. <strong>Totò</strong> fu sempre comunque accanto alla figlia, aiutandola moralmente,<br />

economicamente, riaccogliendola a casa propria e proponendole di intraprendere la<br />

carriera artistica. E ciò<br />

Le fu molto utile, ai fini di riacquistare l’autostima, quanto il padre le ripeteva e cioè che le offese del<br />

marito non dovevano ferirla, né farla sentire, come accadeva, sconfitta e inutile. Se c’era qualcuno di inutile,<br />

quello era Gianni Beffardi che non meritava una donna come lei. E per averla perduta, lui sì, che poteva<br />

considerarsi un vinta. Per una volta, insomma, <strong>Totò</strong> si comportò come un padre tradizionale e il suo rapporto<br />

con Liliana se ne avvantaggiò, nel senso che la tenerezza e la solidarietà prevalsero, finalmente, sulle<br />

70


incomprensioni. 27<br />

<strong>Il</strong> teatro fu quello che mai lasciò <strong>Totò</strong>. Fu forse il vero amore della sua vita.<br />

Sicuramente egli non poteva prescindere da quello femminile, ma in fondo si<br />

trattava di un sentimento contraddittorio, perché già segnato dalla contraddizione<br />

quello verso la madre, che era stato il primo della sua vita. Quello per le donne non<br />

era poi un modo d’amare incondizionato, in quanto sempre lacerato da mille dubbi,<br />

ossessioni, insicurezze, e rispondeva più a un suo bisogno di colmare delle lacune<br />

affettive, personali. Persino quando Diana Rogliani rimase incinta, egli dubitò della<br />

sua paternità, benché non ce ne fossero ragioni. 28<br />

Quando l’amore era legato alla sfera sessuale, si trasformava in egoismo, in<br />

cinismo, in desiderio di possedere, e al tempo stesso di allontanare, nonostante la<br />

generosità d’animo del Principe. Le donne, inoltre, si potevano anche dimostrare<br />

“imperfette”, perché disadattate, violente e condizionanti (Anna Clemente), insicure<br />

o gelose (Liliana Castagnola), libere e difficili da controllare (Diana Rogliani),<br />

fragili (Liliana de Curtis). Avrebbero dunque potuto costituire una delusione per<br />

l’uomo. Per <strong>Totò</strong>, dunque, la donna era una malafemmena, come recitava una sua<br />

canzone omonima, forse la più famosa tra tutte:<br />

[…] Femmena, / Tu sì na malafemmena… / Chist’uocchie he fato chiagnere… / Lacreme ‘e<br />

‘nfamità./Femmena, / Sì tu peggio ‘e na vipera, m’he ‘ntussecata l’anema, / nun pozzo cchiù<br />

campà./Femmina, / sì ddoce comme ‘o zucchero/però sta faccia d’angelo / te serve pe ‘ngannà… / Femmena,<br />

27 Ibid., p. 114<br />

28 L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> – M. AMOROSI, Malafemmena, il romanzo dell’unico, vero, grande amore di <strong>Totò</strong>, Milano,<br />

Mondadori, 2009, pp. 86-88.<br />

71


tu sì ‘a cchiù bella femmena, / te voglio bene e t’odio, nun te pozzo scurdà… 29<br />

L’amore che invece non l’avrebbe mai deluso, quello che non poneva condizioni,<br />

era e sarebbe stato per sempre il teatro, anche dopo averlo lasciato, raggiungendo la<br />

fama, per il cinema. 30 «Quant’è bello l’addore ‘e teatro». 31<br />

29 R. GUARINI (a cura di), Tuttototò, Roma, Gremese Editore, 1999, p. 132<br />

30 Cfr. infra, Conclusione, pp.128-131<br />

31 R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, p. 21<br />

72


3. Amicizia e complicità<br />

Per la rappresentazione del tema dell’amicizia e della complicità, la nostra analisi<br />

verterà su due pellicole cinematografiche, Guardie e ladri e <strong>Il</strong> comandante.<br />

3.1 Guardie e ladri<br />

Guardie e ladri è una commedia in bianco e nero del 1951 diretta da Mario<br />

Monicelli e Steno. La sceneggiatura, premiata nel 1952 a Cannes con la Palma<br />

d’Oro, era stata scritta oltre che da loro anche da Ruggero Maccari, Ennio Flaiano,<br />

Aldo Fabrizi (qui pure attore) e Vitaliano Brancati, su un soggetto di Piero Tellini.<br />

<strong>Totò</strong> interpreta il ladro, ovvero Ferdinando Esposito, truffatore di professione<br />

solito ingannare turisti in visita alla città di Roma. Durante una delle sue “missioni”,<br />

però, ha a che fare con un americano, il quale lo insegue con l’aiuto del brigadiere<br />

Lorenzo Bottoni, ovvero la guardia, interpretata da Aldo Fabrizi. Inizia un<br />

inseguimento avventuroso e divertente, in seguito al quale il poliziotto ha la peggio,<br />

e, purtroppo, se entro tre mesi non sarà in grado di catturare Esposito, perderà il<br />

lavoro. Bottoni riesce a rintracciare il ladro infiltrandosi nella sua famiglia e<br />

spacciandosi per amico e dispensatore di favori. <strong>Il</strong> finale tuttavia sarà a sorpresa e<br />

capovolgerà ogni aspettativa: la guardia ha finalmente il ladro tra le sue mani, ma<br />

entrati in confidenza e scoperto che in fondo le difficoltà della vita sono le stesse<br />

per entrambi indipendentemente dalle loro rispettive professioni, si rivela restia ad<br />

arrestarlo; d’altra parte, Esposito si consegna spontaneamente a Bottoni, avendo<br />

considerato che se l’uomo perderà il lavoro, un’intera famiglia finirà per la strada.<br />

73


Facendosi invece catturare, oltre a salvare lui e i suoi familiari, avrà modo di<br />

provvedere anche i suoi cari, affidandoli a Bottoni.<br />

<strong>Il</strong> film si apre con lo scorcio panoramico dei Fori Imperiali. Ferdinando<br />

Esposito, abile nell’arte di truffare turisti, fingendosi guida turistica, è intento a<br />

cercare di rifilare a un italo-americano, Locuzzo, una moneta falsa, spacciandola<br />

come reperto antichissimo e di valore. L’intervento dell’amico e complice Amilcare,<br />

nei panni di un professore di numismatica, lo aiuta nel certificare l’autenticità della<br />

moneta romana. L’inganno, tuttavia, viene svelato: un altro imbroglione che si<br />

aggira tra le antichità romane, si avvicina al gruppo di turisti cui appartiene<br />

l’americano e gli mostra un’altra moneta, identica al finto sesterzo che gli era stato<br />

venduto da Esposito. Intuito il raggiro, si lanciano all’inseguimento dei due<br />

complici, i quali, finiscono per trovarsi al Teatro Quirino, dove è in corso la<br />

consegna di pacchi dono per bambini di famiglie bisognose. Con l’aiuto di un<br />

gruppo di ragazzini che si fingono loro figli, riescono a entrare nel teatro.<br />

Ferdinando, all’atto di salire sul palco per ricevere il regalo, viene riconosciuto da<br />

Locuzzo, il quale, inaspettatamente ha il compito di effettuare le consegne.<br />

Riprende di nuovo la caccia al ladro. L’inseguimento inizia in macchina, ma quando<br />

il mezzo di Esposito si ferma, egli è costretto a scendere e scappare a piedi. Dopo<br />

avere corso entrambi per diverso tempo, ormai hanno perso troppo fiato per<br />

continuare e si ritrovano a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Iniziano a parlare<br />

amichevolmente di disturbi fisici. <strong>Il</strong> ladro gli racconta dei suoi disturbi al fegato.<br />

Tale sequenza viene in seguito ripresa in un altro film di Monicelli, L’armata<br />

Brancaleone del 1966, non interpretato da <strong>Totò</strong>, ma avente per protagonisti<br />

Brancaleone, impersonato da Vittorio Gassman, e Teofilatto, con il volto di Gian<br />

74


Maria Volonté. Quest’ultimo consiglia una cura per i disturbi al fegato al suo<br />

antagonista Brancaleone in un momento di tregua durante un duello, proprio come<br />

Bottoni/Fabrizi aveva fatto con Esposito/<strong>Totò</strong> in Guardie e ladri.<br />

All’arrivo degli altri uomini, Bottoni ammanetta la sua preda e vanno insieme in<br />

una locanda. Nello scambio di battute, la guardia rimprovera il ladro delle sue<br />

truffe, ma quest’ultimo riesce a giustificarsi dicendo che i suoi imbrogli vengono<br />

perpetrati solo ai danni di gente ricca e straniera, americana soprattutto: «Caro<br />

brigadiere, quella è gente piena di soldi. Quello lì è un americano […]. Perché, sarò<br />

truffatore come lei dice, però le posso garantire, e glielo garantisco, brigadiere mio,<br />

sul mio onore che, durante la mia vita, nei momenti più terribili della mia esistenza,<br />

glielo giuro, non ho mai truffato un italiano, mai, sempre stranieri, modestamente».<br />

La scena della locanda ricorda quella di <strong>Totò</strong> e Carolina, sempre per la regia di<br />

Monicelli e Steno, in cui tutore dell’ordine e reo ammanettato si sono recati insieme<br />

in un’osteria, e qui inizia uno scambio di battute rivelatrici di dettagli interessanti<br />

sulle due rispettive esistenze. Ciò che differenzia le scene dei due film è il<br />

capovolgimento dei ruoli. Nel caso di <strong>Totò</strong> e Carolina la guardia è <strong>Totò</strong> e il “ladro”,<br />

che qui è reo di avere tentato il suicidio e di essersi trovato nel posto sbagliato al<br />

momento sbagliato, è Carolina 32 . Qui vediamo invece <strong>Totò</strong> interpretare lo stereotipo<br />

napoletano dell’individuo abile nell’arte dell’arrangiarsi, nel truffare e imbrogliare,<br />

nel rubare, nel ricorrere a ogni stratagemma per venire a capo dei suoi scopi. La<br />

parte del tutore dell’ordine, ovvero la guardia, è affidata a Aldo Fabrizi. Era stato<br />

Carlo Ponti, produttore della pellicola, a sceglierli per impersonare le due figure, al<br />

fine di giocare con gli opposti: uno napoletano, magro, esile, imbroglione,<br />

32 Cfr. supra, cap. 2, p. 59<br />

75


disonesto; il suo antagonista, invece, romano, grasso, ingombrante, uomo dell’arma<br />

e quindi rispettoso delle regole, corretto e onesto.<br />

La scena della locanda è emblematica del particolare rapporto di amicizia e non<br />

solo professionale tra <strong>Totò</strong> e Fabrizi, perché è noto ormai secondo varie<br />

testimonianze e interviste, che, durante le riprese, mentre il secondo cerca invano di<br />

bere un caffé, il primo continua a interromperlo scherzando, fino a che nessuno dei<br />

due più riusciva a trattenersi dal ridere recitando la sequenza 33 .<br />

Con la scusa di soffrire di colite e giocando sulla sensibilità di Bottoni di fronte a<br />

certi argomenti inerenti disturbi e problemi di salute, lo convince a farsi lasciare<br />

andare in bagno. Nel frattempo, si forma la coda davanti alla porta della toilette, e<br />

quando uno degli uomini che aspetta il suo turno per entrarvi, fa notare al brigadiere<br />

che il suo sorvegliato potrebbe anche essere scappato, è ormai troppo tardi. Aprendo<br />

la porta del bagno, infatti Esposito non c’è più, è fuggito.<br />

Al ritorno in Commissariato, Bottoni è preoccupato nel raccontare che il ladro di<br />

cui aveva la custodia è riuscito a scappare. Ciò non solo gli costerà la promozione,<br />

ma persino il posto di lavoro, se entro tre mesi non catturerà Ferdinando Esposito. <strong>Il</strong><br />

brigadiere torna a casa sconsolato. La sua famiglia dipende da lui: ha una moglie<br />

(interpretata da Ave Ninchi) e due figli. Deve in ogni modo rimediare alla<br />

situazione.<br />

In Polizia controlla gli schedari e apprende dove Ferdinando Esposito abita. Si<br />

reca quindi all’indirizzo trovato e rivolge delle domande a un condomino dello<br />

stabile. Poi va da un barbiere sito davanti al condominio e si sistema, sotto gli occhi<br />

di un parrucchiere stranito dal comportamento bizzarro di quel nuovo cliente, in una<br />

33 Cfr. infra, cap. 3 p. 93<br />

76


posizione atta a fargli controllare il portone dello stabile in cui abita il ladro.<br />

Improvvisamente, nota un ragazzino davanti all’edificio. Esce di corsa dal negozio,<br />

ancora coperto di schiuma da barba, e avvicinando l’adolescente, molto somigliante<br />

a Esposito, lo invita a giocare con suo figlio. Si tratta di Libero (interpretato da<br />

Carlo Delle Piane), figlio del ladro. Portando quindi il ragazzo a casa, sotto lo<br />

sguardo interrogativo di sua moglie che gli chiede il senso di questa strana<br />

iniziativa, visto che non sono soliti frequentare “gente di basse borgate”, il<br />

brigadiere Bottoni inizia inconsapevolmente a innescare un meccanismo di amicizia<br />

e complicità sia tra due famiglie apparentemente diverse, che tra due uomini,<br />

ovvero egli stesso, guardia, e il suo rivale Esposito, ladro, rappresentanti degli<br />

opposti, ma in realtà simili rispetto alle difficoltà che la vita gli presenta. La<br />

pellicola infatti dipinge il ritratto di una società da pochi anni uscita dal secondo<br />

conflitto mondiale, dove emergono la lotta quotidiana della gente comune per la<br />

sopravvivenza e una ridicola guerra tra poveri, che, almeno in questo caso, si<br />

trasformerà in comprensione e riconoscimento reciproci delle problematiche l’uno<br />

dell’altro, senza quindi arrivare alla drammaticità di uno scontro definitivo.<br />

Un giorno, Bottoni, rientrando a casa, si ritrova tra le mura domestiche tutta la<br />

famiglia Esposito, venuta apposta per ringraziarlo della sua gentilezza e<br />

disponibilità. Purtroppo il capofamiglia Ferdinando è assente. <strong>Il</strong> brigadiere cerca di<br />

informarsi su dove sia ma invano. A un certo punto, la signora Esposito esclama:<br />

«Adesso dobbiamo proprio scappare!». Bottoni si lascia sfuggire che il loro è «…<br />

proprio un vizio di famiglia!», alludendo evidentemente al fatto che, essendo<br />

Ferdinando Esposito un ladro, scappa di continuo per non essere catturato.<br />

Entriamo in casa Esposito. Libero, che è già in confidenza con la famiglia<br />

77


Bottoni, oltre a somigliare a suo padre, possiede anche i medesimi valori e lo stesso<br />

stile di vita. Tuttavia, sembra non rendersi conto della stortura sociale in cui vive. <strong>Il</strong><br />

tema che ha come compito, in cui deve descrivere la sua figura paterna, non è<br />

lusinghiera nei confronti del padre, ma in modo ingenuo e bonario, perché<br />

affermando che: «<strong>Il</strong> lavoro di mio padre è stare sempre molto fuori di casa e può<br />

ritornare con stoffe, orologi, ombrelli e pure copertoni», parla della “professione” di<br />

Esposito in modo così libero e aperto, da pensare che si tratti di un lavoro<br />

qualunque, onesto e di tutto rispetto come qualsiasi altro. Ferdinando, che sa non<br />

essere così, gli prende il foglio del compito dalle mani e glielo strappa.<br />

Le abitazioni dei due coprotagonisti sono elementi significativi della loro<br />

condizione sociale e economica. Riflettono dunque le loro difficoltà finanziarie, le<br />

loro incertezze. Ciò che le differenzia sono lo stile ordinato e la luminosità della<br />

casa del brigadiere, mentre in quella del ladro regnano il disordine e l’oscurità<br />

determinata dalla povertà, dall’arretratezza, ma attraverso entrambe si possono<br />

intuire il senso di precarietà e le ristrettezze. Si tratta di una caratteristica tipica dei<br />

film di Monicelli, osservabile ad esempio anche in <strong>Totò</strong> e Carolina nel momento in<br />

cui la telecamera inquadra l’interno dell’abitazione dell’agente Caccacavallo, non<br />

peraltro molto diversa da quelle di Esposito e Bottoni.<br />

<strong>Il</strong> brigadiere si ritrova dal barbiere di fronte all’abitazione di Ferdinando. Ma non<br />

si è accorto che anch’egli si trova lì e seduto proprio accanto a lui, notando la sua<br />

presenza. Quest’ultimo quindi si alza e se ne va, ma uno dei barbieri lo chiama per<br />

nome e viene allora scoperto. Bottoni lo insegue perdendone però subito le tracce.<br />

Esposito si reca a casa della famiglia Bottoni, dove trova la moglie del<br />

brigadiere. Per ingraziarsela, le dona un mazzo di fiori appena rubati dall’altare di<br />

78


una statuetta di Sant’Antonio e poi le chiede di telefonare. Contatta casa e parla con<br />

il brigadiere, che nel frattempo si è recato lì per cercare di estorcere informazioni<br />

alla moglie. Non acconsentendo a un possibile affare che vorrebbe proporgli la<br />

guardia, si fa passare la moglie e si fa mandare il cognato Alfredo, infine se ne va.<br />

Bottoni, credendo di potere ancora parlare con il ladro, è invece preso in giro per<br />

l’ennesima volta e scappa a cercarlo. Segue di nascosto Alfredo e scopre, deluso,<br />

che esce con sua figlia. Rientrando a casa, la moglie gli annuncia che sono stati<br />

invitati a pranzo a casa Esposito, ma il brigadiere le risponde disperato che ormai<br />

per lui è «l’ultimo giorno», ovvero l’ultimo giorno utile per la cattura del ladro,<br />

dopodichè perderà il lavoro, ma la moglie ancora non lo sa. D’altro canto, la signora<br />

Esposito annuncia a suo marito che avranno ospiti a pranzo. Ferdinando esclama:<br />

«Sono stanco di questi Bottoni!», ma sua moglie protesta perché è la prima volta<br />

che ci sono persone che la aiutano e le dimostrano benevolenza essendo<br />

disinteressate, mentre suo marito è perennemente assente, sia fisicamente che<br />

spiritualmente. Esposito si sente umiliato e colpito nel profondo, perché sa che la<br />

sua assenza è invece, al contrario, motivata dal fatto di tenere alla famiglia e di<br />

desiderare di provvedere a essa in tutti i modi. Sconfitto, prende la porta e se ne va.<br />

In fondo alle scale, incrocia il brigadiere Bottoni ma non fugge. Si preannuncia un<br />

intenso scambio di battute veloci ma significative, in cui Esposito accusa la guardia<br />

di essere ladro non meno di lui: «Sì! Vedi io sono un ladro, ma pago di persona. Tu<br />

hai commesso un’azione che nessun codice ti condanna, però un’azione bassa, più<br />

bassa di un furto. Hai rubato in casa mia. Sì, hai rubato la stima, la fiducia che io<br />

godevo dei miei. Prima ero un padre riverito, rispettato. E adesso, dopo la tua<br />

comparsa, che cosa sono più?». Bottoni incredulo a ciò che sente, si giustifica<br />

79


affermando che non fa altro se non il suo lavoro. Così come un ladro deve scappare<br />

perché fa parte del suo mestiere, così una guardia deve “acchiappa’”, perché «… se<br />

no che guardia sono?». A questo punto, il ladro domanda al suo inseguitore: «Ma si<br />

può sapere perché ce l’hai tanto con me? Nemmeno fossi un brigante di quelli che<br />

vanno ad assalta’ le banche! Ma non lo vedi che sono un poveraccio? Ma che t’ho<br />

fatto?» Ciò apre il dialogo alle rispettive difficoltà finanziarie nel tentativo di<br />

mantenere le proprie famiglie, uno rubando e l’altro arrestando, in entrambi i casi<br />

pur sempre tuttavia per necessità. L’accordo finale tra i due è di rientrare in casa per<br />

fare in modo che Esposito pranzi con la sua famiglia un’ultima volta prima di<br />

consegnarsi alla giustizia, in cambio però il brigadiere se ne prenderà cura durante<br />

la sua assenza. Nessuno dovrà infine venire a sapere la verità.<br />

<strong>Il</strong> film si chiude con il saluto dalla finestra dei famigliari di Esposito al loro<br />

capofamiglia, credendo che si stia allontanando, come di consueto, per motivi<br />

lavorativi, e che ci sia un accordo professionale tra lui e il brigadiere.<br />

La conclusione della storia segna metaforicamente un punto di rottura rispetto al<br />

filone tradizionale dei film di <strong>Totò</strong>. Quando Bottoni prende in consegna Esposito<br />

uscendo insieme dall’edificio, la colonna sonora in sottofondo ricorda quella<br />

dell’avanspettacolo e Esposito/<strong>Totò</strong> sembra si trattenga ad ascoltarla come dovesse<br />

darle un addio. Effettivamente, dal punto di vista stilistico siamo entrati nel periodo<br />

neorealista della commedia italiana, dove la comicità e la marionetta, che un tempo<br />

intrattenevano e divertivano il pubblico svaniscono e cedono il posto alla tristezza e<br />

all’amarezza di chi guarda il mondo con disincanto e quotidianamente ha a che fare<br />

con i problemi della sopravvivenza. 34<br />

34 Cfr. infra, Conclusione, p. 138<br />

80


<strong>Il</strong> periodo della ricostruzione, momento storico di ambientazione della<br />

maggioranza dei film interpretati da <strong>Totò</strong>, non pare garantire un reale benessere<br />

economico-sociale, almeno non per tutta la popolazione, e, quindi, si ha<br />

l’impressione, proprio come in Siamo uomini o caporali, che passano gli anni,<br />

passano le generazioni, ma nulla veramente sia cambiato e migliorato. I problemi<br />

per la gente comune restano gli stessi e si ritrovano come leitmotiv in varie pellicole<br />

interpretate dal Principe: non solo Guardie e ladri, dunque, ma anche, per esempio,<br />

I tre ladri, Questa è la vita, <strong>Totò</strong> e Carolina, <strong>Totò</strong> e i re di Roma.<br />

Proprio per tale impronta neorealista, che costituì una svolta non solo nel<br />

panorama della commedia italiana ma anche nello schema recitativo di <strong>Totò</strong>, l’attore<br />

venne premiato con il Nastro d’Argento e per la prima volta ricevette unicamente<br />

critiche positive. Di lui all’uscita del film si disse:<br />

Ci sono voluti quindici anni perché dal comico <strong>Totò</strong> nascesse l’attore <strong>Totò</strong>, perché la marionetta<br />

diventasse uomo. […] Ora in Guardi e ladri <strong>Totò</strong> come Pinocchio alla fine della sua avventura, lascia in un<br />

canto il suo corpo di legno, la sua mimica abituale, le sue espressioni ormai famose, non è più <strong>Totò</strong> soltanto,<br />

ma quel personaggio – un povero ladruncolo – interpretato dall’attore Antonio de Curtis […] 35<br />

E la pellicola ha così successo proprio per il suo taglio realistico e vicino ai<br />

problemi sociali, che ricevette riconoscimento anche all’estero in vari Paesi in cui<br />

venne esportata: Uruguay, Francia, Belgio, Egitto, Regno Unito, Turchia e Cina.<br />

Ma qual era l’opinione di <strong>Totò</strong> in merito? All’indomani di una nuova<br />

interpretazione neorealista in Dov’è la libertà, girato l’anno successivo per la regia<br />

di Roberto Rossellini, ecco il nuovo “<strong>Totò</strong>-pensiero”:<br />

35 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 159<br />

81


E me lo chiamano Neorealismo. Altro che Neo, è un’atmosfera vecchia quanto me, questa schifezza di<br />

odore è stato lo Chanel numero cinque di tutta la mia infanzia. Ci sono giorni che me lo sento ancora<br />

addosso, allora mi riprende una paura e la smania di arraffare, arraffare contratti buoni o cattivi, perché oggi<br />

mi vogliono, domani chi lo sa e io di un realismo così ne ho avuto a iosa. 36<br />

Nonostante quindi i riconoscimenti ottenuti interpretando film considerati più<br />

impegnati, <strong>Totò</strong> sembrava però legare le nuove atmosfere dei set cinematografici al<br />

proprio passato di povertà e dover cedere alla nuova moda realista gli appariva<br />

come abiurare una sua fede personale. <strong>Il</strong> personaggio maschera è connaturato<br />

all’esistenza stessa dell’attore e doversene separare per lui era impensabile quanto<br />

impossibile. <strong>Il</strong> mimo, la caricatura, il clown, sono ciò che avevano salvato dalla<br />

miseria l’attore e che proteggevano al contempo anche l’uomo Antonio de Curtis. 37<br />

36 S. PEDALINO, <strong>Totò</strong> e la maschera, Firenze, Firenze Atheneum, 2007, p. 69<br />

37 Cfr. supra, cap. 1 , p. 38<br />

82


3.2 <strong>Il</strong> comandante<br />

<strong>Il</strong> Comandante è una commedia in bianco e nero del 1964 diretta da Paolo<br />

Heusch, tratta da una sceneggiatura di Rodolfo Sonego, creatore anche del soggetto.<br />

<strong>Totò</strong> interpreta il Colonnello Antonio Cavalli, militare sulla mezza età al quale<br />

viene notificato, nel momento in cui riceve la promozione a Generale, di dovere<br />

andare in pensione. <strong>Il</strong> Colonnello mal si adatta alla nuova vita da pensionato. Da<br />

una parte si sente diventato inutile, dall’altro si sente non più rispettato e<br />

considerato, e con la moglie sembra esserci ormai soltanto un rapporto basato sulla<br />

tolleranza e l’abitudine. Rendendosi conto dello stato psicologico del marito, la<br />

donna, in realtà, che gli è ancora legata, a sua insaputa lo fa assumere presso<br />

un’impresa edile, pagandogli lei stessa lo stipendio. Purtroppo, la nuova vita<br />

lavorativa del Colonnello benché subito si riveli soddisfacente sia economicamente<br />

che sotto il profilo motivazionale, non tarderà a rivelare ciò che davvero nasconde:<br />

la società per cui l’uomo lavora è gestita da truffatori che lo porteranno alla rovina.<br />

Sconfitto nella dignità e colpito finanziariamente, decide di uccidersi, ma il<br />

tentativo fallisce. Sarà la moglie a intervenire nuovamente vendendo i suoi beni per<br />

aiutarlo. Finalmente il Colonnello si rassegna a condurre una normale vita da<br />

pensionato senza più cercare successi e glorie, vivendo quotidianamente come gli<br />

altri pensionati che fino ad allora aveva sempre snobbato.<br />

Celebrato come il centesimo film di <strong>Totò</strong>, pur se in realtà si trattasse<br />

dell’ottantaseiesimo, l’attore ricevette il premio “La Sirena d’oro” e venne più volte<br />

intervistato. La televisione l’aveva sempre ignorato, adesso si ritrovava ospite di<br />

trasmissioni televisive come “TV7”; venne intervistato per il giornale “L’Europeo”<br />

83


e reclamato da vari registi. Commosso e ironizzando pubblicamente sulla propria<br />

cecità all’occhio sinistro, sperava in cuor suo che questa nuova ondata di successo,<br />

derivante dal suo cambiamento professionale in direzione di un filone<br />

cinematografico “serio” e drammatico, sicuramente derivante dal genere Neorealista<br />

degli anni precedenti, possa essere il mezzo attraverso cui essere scelto e contattato<br />

da Federico Fellini. Tuttavia, la svolta artistica di <strong>Totò</strong> che stava svelando l’Antonio<br />

de Curtis non fu gradita dal pubblico, e, infatti, <strong>Il</strong> Comandante, si rivelò un fiasco.<br />

La vicenda si apre con la didascalia: «Tutti i nomi, personaggi e gli eventi di<br />

questo film sono immaginari, ogni riferimento a persone, cose o fatti realmente<br />

accaduti è da ritenersi puramente casuale». Se da un lato, quindi, si invitano gli<br />

spettatori a non fare alcun accostamento con la vita reale, d’altro canto questa stessa<br />

affermazione viene negata dalla medesima presenza della didascalia iniziale,<br />

volendo dunque significare che siamo di fronte a fatti reali, che la commedia ha<br />

un’impronta realista o neorealista.<br />

Sono le cinque del mattino, un campanile si staglia nel cielo ed è ora per il<br />

Colonnello Cavalli di alzarsi. La moglie gli porta la colazione a letto e<br />

contemporaneamente suona qualcuno alla porta: «Ma chi vuoi che sia,<br />

l’attendente!», replica la moglie. Alla radio si sente l’intervista dell’astronauta russo<br />

Yuri Gagarin. Tale intervento è un rimando all’attualità del tempo. Durante il corso<br />

della vicenda ve ne saranno altri, come i tre motivi musicali che fanno da colonna<br />

sonora (Alla mia età di Rita Pavone, Guarda come dondolo di Edoardo Vianello e<br />

Fatti mandare dalla mamma di Gianni Morandi, brano, quest’ultimo usato nella<br />

sequenza in cui il Generale vede intrattenersi sua moglie con un altro, utilizzato per<br />

dare voce alla gelosia del militare), e una riproduzione del quadro Guernica di<br />

84


Pablo Picasso, tela del 1937, ma che, in tale contesto, sta a rappresentare il mondo<br />

borghese anni ’60, che usa circondarsi di elementi e oggetti di valore o alla moda.<br />

<strong>Il</strong> Colonnello esce di casa e si reca in caserma. Seduto alla sua scrivania, riceve<br />

dei militari suoi sottoposti sui quali esercita la sua autorità in modo perentorio.<br />

Dimostra molta severità e rigidità. In ciò non è possibile certamente riconoscere la<br />

finta severità dell’agente Caccacavallo di <strong>Totò</strong> e Carolina, ad esempio. In tal caso<br />

siamo di fronte a un uomo rigoroso, sicuro della sua posizione e non propenso a<br />

compromessi.<br />

Una lettera improvvisa annuncia che nel momento in cui riceverà la sua<br />

promozione a Generale, il Colonnello dovrà lasciare il suo incarico, perché giunto al<br />

pensionamento.<br />

<strong>Il</strong> giorno del grande saluto ai colleghi, il Colonnello recita il suo discorso di<br />

addio e ringraziamento. E la sera a letto con la moglie, scopriamo che esso era stato<br />

scritto dalla donna. <strong>Il</strong> militare sembra sereno e contento della nuova vita che sta per<br />

iniziare, a partire da ciò che non sarà più obbligato a fare: «Che meraviglia potersi<br />

alzare senza l’assillo della sveglia delle cinque del mattino». Eppure, lo ritroviamo<br />

il giorno seguente svegliarsi sempre alla stessa ora, come se nulla sia cambiato e<br />

portare lui la colazione a letto, stavolta. Ma la moglie non appare felice di questa<br />

novità e non ne vuole sapere di andare a fare la passeggiata mattutina che egli le<br />

propone.<br />

Entra nella camera del figlio che sta dormendo con la moglie incinta Luisa.<br />

Propone anche a lui di andare a fare la passeggiata mattutina, ma riceve un altro<br />

rifiuto. A questo punto, esce da solo ma passeggiando qualcosa è cambiato. È come<br />

se tutto il mondo sapesse che ormai lui, il neo-Generale, esimio uomo dell’esercito,<br />

85


è andato in pensione e non ha più le stesse funzioni e soprattutto lo stesso valore di<br />

prima. Persino il camion che come di consueto ogni mattina passa a lavare le strade,<br />

questa volta non si ferma al passaggio dell’uomo, ma continua imperterrito nella<br />

sua attività di lavaggio, inzaccherando di acqua anche lui.<br />

Le novità che attendono il militare non finiscono qui. Stando a casa tutto il<br />

giorno, si rende conto per la prima volta che non è come immaginava. Non è libero<br />

di stare da nessuna parte, perché ovunque dà fastidio, ovunque non può fare ciò che<br />

desidera.<br />

Entra in una stanza e trova una situazione surreale. <strong>Il</strong> salotto sembra trasformato<br />

in una sala d’azzardo, con molte donne che fumano, giocano a carte e conversano<br />

sedute a tanti tavolini. La spiegazione fornita dalla moglie è che si tratta di<br />

conoscenti che sono lì per comperare dei quadri. <strong>Il</strong> tempo passa e il Generale<br />

Cavalli non sa più cosa fare e come comportarsi. Osserva con disgusto tutte quelle<br />

donne; per tentare di disturbare le attività dei presenti, l’uomo accende la radio e<br />

risuona un dirompente Guarda come dondolo di Edoardo Vianello. Stavolta è la<br />

moglie a sentirsi disgustata e a guardarlo con disappunto, soprattutto quando l’uomo<br />

interviene a sproposito su un quadro dicendo che non è davvero un Tintoretto, e la<br />

donna, che è dedita alla vendita illecita di dipinti, invece, per salvare la situazione,<br />

smentisce subito e ribadisce che la tela è proprio un Tintoretto.<br />

Se non c’è più alcun posto in casa dove stare tranquillamente, dove andare? Su<br />

in soffitta, ovvero in “torretta”. <strong>Totò</strong> qui inizia a scrivere il suo memoriale e la nuora<br />

le porta una cioccolata calda. Questa immagine rimanda alla pellicola <strong>Totò</strong> e le<br />

donne, in cui <strong>Totò</strong> si rifugia come ultima soluzione a un rapporto impossibile con la<br />

86


moglie in soffitta. 38 Ciò che differenzia i due film è che mentre in quest’ultima la<br />

crisi del protagonista avviene in virtù delle sue difficoltà con il sesso femminile, ne<br />

<strong>Il</strong> Comandante essa scaturisce dal pensionamento e dalla propria natura rigida e<br />

autoritaria, poco incline a trattare con le altre persone nel quotidiano.<br />

<strong>Il</strong> Generale Cavalli è colpito dalla frase che rilegge in una vecchia lettera della<br />

moglie a lui quando ancora erano fidanzati: «Ti amo perché ti stimo. Per cui cerca<br />

di essere sempre degno della mia stima, perché il giorno che la mia stima cadrà,<br />

cadrà anche l’amore». La relazione tra i due coniugi appare dunque costruita su<br />

stima, partecipazione, collaborazione, affetto, amicizia, ma non amore nel senso<br />

tradizionale del termine.<br />

<strong>Il</strong> Generale cerca di scoprire il nuovo mondo dei pensionati, ma il suo sforzo è<br />

inutile, perché non sente appartenergli. Tutti quegli uomini, come una colonia di<br />

uomini privi di identità al parco, intenti a fare navigare su un laghetto modellini di<br />

imbarcazioni costruiti da loro, gli paiono sciocchi e soprattutto non gli sembra<br />

abbiano risolto il problema del sentirsi inutili. Ciò in cui sembra, almeno per<br />

esperienza, siano riusciti a ottenere dei risultati è lo stare lontani dalle proprie<br />

consorti pur vivendo nella stessa abitazione. Se la casa è dotata di una torretta, non<br />

è impossibile crearsi un proprio spazio. E inoltre, una torretta può essere dotata di<br />

parafulmine. Perché non proporre di installarne uno anche sul proprio condominio?<br />

Indetta dunque una riunione condominiale a casa di una condomina, la Contessa, il<br />

Generale Cavalli propone di fissarne uno sulla sua torretta e, a votazione, la<br />

proposta diventa effettiva. Terminata la seduta, la Contessa lo invita a restare perché<br />

si dà una festa. Al suono della musica, i due ballano e l’uomo le confessa che l’idea<br />

38 Cfr. supra, cap. 2, p. 47<br />

87


del parafulmine non gli serve tanto o solo come fonte di arrotondamento, bensì<br />

perché per lui costituisce un modo per rendersi utile, sentirsi ancora attivo e<br />

partecipe della vita.<br />

Intento a scrivere nella sua torretta, torna con la mente alle immagini della<br />

guerra. Ma la moglie interrompe il flusso dei suoi pensieri per convincerlo a tornare<br />

sotto a dormire. A letto, l’uomo le legge un pezzo del suo manoscritto e la donna,<br />

disinteressata, si addormenta. Nel frattempo, il temporale infuria e un fulmine cade<br />

sulla torretta e la incendia, distruggendo poi tutta l’abitazione. L’edificio viene<br />

evacuato e tutti i condomini si arrabbiano con il Generale perché addossano la<br />

responsabilità dell’accaduto all’installazione del parafulmine. Anche il manoscritto<br />

viene distrutto nell’incendio e per il militare non sembra ci sia più alcuna possibilità<br />

di dare un senso e un equilibrio alla propria esistenza. Persino i vigili del fuoco non<br />

dimostrano considerazione nei suoi confronti e mettono il dito nella piaga<br />

esclamando: «La prego, ci lasci lavorare!». La delusione aumenta quando la moglie<br />

gli rinfaccia tutti i sacrifici fatti per lui, e viceversa tutti gli errori e i tradimenti che,<br />

secondo lei, egli è colpevole di avere commesso. Non pensando ci sia più alcuna<br />

soluzione, la donna fa separare i letti, mandando quello del marito in torretta.<br />

Quest’ultimo, dal canto suo, prepara le valigie e se ne va. La nuora, disperata,<br />

l’unica persona che sembra realmente preoccuparsi di lui, lo rincorre e lo convince a<br />

rientrare, ma l’uomo detta due condizioni: i letti devono essere riuniti e la moglie,<br />

sospettata di avere una relazione extra-coniugale, non deve vedere più quell’uomo<br />

con cui era stata vista in compagnia. Si sente molto offeso e rifiutato, deluso anche<br />

perché la consorte ha preferito salvare una stufa a gas al posto del suo manoscritto:<br />

«È questa la stima che ha di me!».<br />

88


A tavola tutta la famiglia, arriva una telefonata inaspettata. Si tratta di un’azienda<br />

che gli offre un posto come dirigente. La società si occupa di edilizia e immobili.<br />

Contento della buona nuova, il militare riprende la sua vita lavorativa. Tuttavia<br />

ancora non ha capito a che prezzo. I titolari della ditta sono degli imbroglioni e, se<br />

da una parte si servono del suo nome e della sua onorabilità per fargli firmare titoli<br />

e documenti atti a fare incassare alla società denaro illecitamente, d’altra parte, non<br />

sembra che la sua posizione abbia carattere dirigenziale: si ritrova nelle situazioni<br />

più ridicole, che lo vedono da un tabaccaio per acquistare delle cambiali e delle<br />

sigarette e invece, confuso, acquista del sale, oppure isolato e abbandonato in aperta<br />

campagna nel tentativo di fare una consegna di documenti ai titolari della ditta.<br />

Anche l’avvenente segretaria non lo tratta in modo rispettoso.<br />

Sull’orlo della bancarotta, il Generale chiede aiuto al figlio e si fa consegnare<br />

denaro in banconote e un assegno, con la promessa di non raccontare niente alla<br />

madre. Ma ormai il militare sembra avere perso qualsiasi possibilità di recupero,<br />

oltre che la propria dignità. Imbruttito, disperato, con la barba lunga, si sdraia sui<br />

binari di un treno, ma al passaggio del mezzo, esso effettua uno scambio e l’uomo<br />

miracolosamente si salva. L’immagine si stacca completamente e rivediamo il<br />

Generale sorridente, rifiorito, in compagnia proprio di quei pensionati che fino<br />

allora aveva rifiutato di frequentare, e dedito a giocare con i modellini delle<br />

imbarcazioni al laghetto del parco.<br />

Scopriamo in ultima battuta che la moglie, così come in precedenza aveva<br />

cercato di salvarlo dalla depressione e dall’insoddisfazione procurandogli il lavoro e<br />

pagandogli lo stipendio a sua insaputa, anche in tale occasione è intervenuta<br />

vendendo i propri possedimenti per pagare i suoi debiti.<br />

89


3.3 L’analisi del concetto di amicizia<br />

Guardie e ladri, nato già nel 1949 da una creazione di Piero Tellini, sceneggiatore<br />

e regista, su un’idea precedente di Federico Fellini, doveva in realtà essere diretto<br />

dal regista Luigi Zampa, scelto perché, in virtù del suo curriculum e considerata la<br />

serietà dell’argomento del film, sarebbe stato in grado di dirigere una storia<br />

mescolando ad arte la drammaticità della vicenda con punte di allegria e<br />

divertimento, così da avvicinare il tono della pellicola alla commedia. Ma Zampa<br />

stesso preferì rifiutare la proposta. La sua decisione era il frutto di una<br />

considerazione di carattere pratico: sdrammatizzando la storia, alcuni suoi tratti<br />

salienti avrebbero finito col diventare ridicoli e perso definitivamente il loro sapore<br />

tragico. La censura, dunque, non avrebbe mai accettato di fare trasmettere nelle sale<br />

una pellicola che prendeva in giro un pubblico ufficiale, né avrebbe tollerato il<br />

sorgere di un rapporto di amicizia tra un tutore dell’ordine e un delinquente. <strong>Il</strong> film<br />

venne pertanto affidato a Monicelli e Steno, i quali lo rividero nei suoi punti cruciali<br />

per il visto della censura e ne uscì, quindi, una storia tragica col sapore della<br />

commedia, che rispettava i ruoli dei personaggi, favorendone uno scambio, ma non<br />

una effettiva complicità. Ciò però non fece ottenere soltanto il benestare della<br />

censura, ma mantenne contemporaneamente anche l’identità primaria del film,<br />

determinata dall’ossimoro basato sui due protagonisti e già evidente nel titolo.<br />

Guardie e ladri è la rappresentazione di un rapporto di amicizia negata dalle<br />

circostanze, e dunque veramente mai nata, tra due uomini solo apparentemente<br />

diversi. <strong>Il</strong> gioco degli opposti è retto effettivamente solo dalle rispettive professioni<br />

e dalle regole; nella realtà si tratta di due individui entrambi vittime del<br />

90


conformismo sociale del tempo e delle problematiche del dopoguerra. Tuttavia<br />

proprio tale riconoscimento reciproco è ciò che porta i due antagonisti a un atto,<br />

altrettanto reciproco, di solidarietà. Infatti, dopo i numerosi inseguimenti e<br />

stratagemmi, uno per catturare e l’altro per sfuggire, la storia si conclude con il<br />

confronto finale, dove la guardia sembra perdere il suo ruolo istituzionale per cedere<br />

alla compassione e alla bontà, a dispetto delle regole: «[…] Tu me fai pena, ma io te<br />

devo arresta’ […]». <strong>Il</strong> ladro è addirittura pronto al sacrificio, perché già sapendo per<br />

propria esperienza come sia duro avere la responsabilità di una famiglia, decide di<br />

farsi arrestare per salvare quella del suo antagonista. Consapevoli entrambi dei loro<br />

ruoli sociali, i due uomini non possono tuttavia andare oltre con le parole.<br />

L’amicizia “interrotta” è però suggellata sia dal sacrificio di Esposito sia dalla<br />

promessa di Bottoni di prendersi cura della sua famiglia. <strong>Il</strong> resto è totalmente<br />

affidato alla vita, come il brigadiere stesso afferma: «[…] Vedi quei ragazzini là<br />

fuori, stanno a gioca’, e quel gioco è come la vita: chi vince e chi perde. Io non è<br />

che voglio vincere, ma… tu… hai perso».<br />

Se però nel film l’amicizia tra i due protagonisti non è direttamente manifestata<br />

per motivi di censura, ma solo accennata, essa trova tuttavia la sua espressione<br />

ideale nella vita reale di <strong>Totò</strong> e Aldo Fabrizi. Tra i due non si era infatti solo<br />

sviluppato un sodalizio artistico, testimoniato da vari film interpretati insieme (<strong>Totò</strong><br />

e i re di Roma, <strong>Totò</strong>, Fabrizi e i giovani d’oggi, I tartassati, Una di quelle, <strong>Il</strong> giorno<br />

più corto, <strong>Totò</strong> contro i quattro), ma un rapporto personale, di amicizia, iniziato<br />

sicuramente anni prima di girare Guardie e ladri e basato sulla correttezza e il<br />

rispetto reciproci, sulle risate e sul divertimento, sulla spontaneità e sull’essere<br />

diretti, anche nei loro piccoli diverbi, come testimonia l’attore Dante Maggio nel<br />

91


corso di un’intervista:<br />

Nel corso di un film Fabrizi finisce col litigare con tutti. Ebbe anche un diverbio con <strong>Totò</strong> quando lo<br />

diresse in Una di quelle perché - in una scena di pioggia artificiale scrosciante - una comparsa che doveva<br />

dare uno spintone a <strong>Totò</strong> dicendo una battuta continuava a sbagliare e <strong>Totò</strong>, stufo di infracicarsi, gli aveva<br />

detto che scritturasse per il ruolo qualcuno minimamente in grado di recitare invece di una schiappa. Lui, tra<br />

le altre frasi pittoresche, gli rispose che la smettesse di fare il burattino e accadde il finimondo. <strong>Totò</strong> lasciò il<br />

set e non vi rimise piede che dopo due giorni e solo quando Fabrizi gli aveva presentato le sue scuse. Tutto<br />

questo però lo fa solo per via del suo caratteraccio che si accende come un cerino. Altrimenti non c'è persona<br />

migliore di Aldo. E nessuno che abbia tenuto <strong>Totò</strong> in più considerazione di lui, come del resto lo teneva <strong>Totò</strong><br />

che di Fabrizi aveva una stima immensa come attore. Nella vita, poi, erano molto amici, Aldo era una delle<br />

poche persone dell'ambiente che <strong>Totò</strong> vedeva fuori scena. 39<br />

<strong>Il</strong> loro rapporto era dunque anche costruito sulla stima e sul piacere effettivo di<br />

ritrovarsi, particolare insolito data la natura schiva e riservata di <strong>Totò</strong> al di fuori del<br />

mondo dello spettacolo. Del resto, non era strano che la loro amicizia fosse nata e si<br />

fosse consolidata col tempo, perché, se da un lato, anche solo per connotati fisici,<br />

apparivano come due opposti destinati a scorrere sempre parallelamente senza mai<br />

incontrarsi, in realtà, possedevano diversi elementi in comune. Sia per Aldo Fabrizi<br />

che per <strong>Totò</strong> potrebbe essere valida l’asserzione di Ettore Petrolini «Io discendo<br />

dalle scale di casa mia», a indicare radici popolane. Entrambi erano poi maestri<br />

nell’improvvisare, quasi dimenticandosi del copione. <strong>Il</strong> loro modo di lavorare<br />

insieme li portava anche a condividere il divertimento, trasformandolo in<br />

complicità. Spesso accadeva che i due attori neanche riuscissero a concludere le<br />

scene, dovendole quindi ripetere svariate volte, perché improvvisamente<br />

scoppiavano a ridere, come Aldo Fabrizi stesso affermò:<br />

39 www.giuffrida.it/Bibliografia_file/Roma_esterno.giorno.pdf<br />

92


Lavorare con <strong>Totò</strong> era un piacere, una gioia, un godimento perché oltre ad essere quell’attore che tutti<br />

riconosciamo era anche un compagno corretto, un amico fedele e un’anima veramente nobile.<br />

Ogni giorno il nostro incontro in teatro […] avveniva sempre con un abbraccio sinceramente affettuoso e<br />

due bacetti, uno di qua, uno di là.<br />

[…] Arrivava davanti alla macchina da presa, cominciavamo l’allegro gioco della recitazione<br />

prevalentemente estemporanea che per noi era una cosa veramente dilettevole. C’era soltanto un<br />

inconveniente, che diventando spettatori di noi stesi ci capitava frequentemente di non poter andare più<br />

avanti per il troppo ridere.<br />

<strong>Il</strong> guaio, però era che la cosa non finiva lì, poiché bastava una battuta nuova, un gesto improvveduto, una<br />

reazione inaspettata per dover interrompere nuovamente il dialogo con disappunto di noi stessi, che, pur lieti<br />

e felici per il divertimento nostro e dei presenti, ci davamo complimentosamente la colpa l’uno con l’altro<br />

[…]» 40<br />

Infine, entrambi, prima ancora di essere attori di cinema, lo erano di teatro, e in<br />

particolare di rivista:<br />

In effetti, il 1940, forse anche per una sorta di compensazione all’angoscia della guerra, che faceva<br />

riempire i teatri e i cinema di tutta Italia, è per <strong>Totò</strong> un anno intensissimo di lavoro e di impegni.<br />

Lo spettacolo di varietà ha ripreso quota e i teatri italiani hanno in cartellone riviste, avasnpettacoli,<br />

musical e cabaret. <strong>Il</strong> trio Nava debutta al Puccini di Milano, Macario al Valle di Roma con Tutte donne,<br />

Fanfulla al Tritone in Polvere di stelle, Aldo Fabrizi pure al Tritone in Spettacolo del buonumore […] Anche<br />

<strong>Totò</strong>, nella stessa stagione, porta i suoi spettacoli in varie città italiane […] 41<br />

Steno, avendo diretto con Monicelli, <strong>Totò</strong> e Fabrizi ci offre una testimonianza<br />

diretta del loro rapporto di amicizia, conoscendo anche molto bene la natura dei due<br />

caratteri, tutt’altro che remissiva:<br />

40 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, pp. 271-272<br />

41 E. BISPURI, Vita di <strong>Totò</strong>, Roma, Gremese Editore, 2000, p. 150<br />

93


<strong>Il</strong> soggetto di Guardie e ladri era di Tellini su un’idea di Fellini. L’idea di farlo con <strong>Totò</strong> e Fabrizi fu di<br />

Ponti. Tra i due comici non ci furono scontri particolari, benché il carattere di Fabrizi sia tutt’altro che facile.<br />

Forse perché nella vita erano molto amici e anzi, la sera uscivano insieme per andare al night. Spesso Fabrizi<br />

tentava di mettere in bocca. <strong>Totò</strong> comunque non ci dava peso. Erano duetti di due leoni. Ogni tanto, quando<br />

uno si sentiva sopraffatto dall’altro, cavava fuori le sue astuzie di grande attore. Così <strong>Totò</strong> fregava Fabrizi<br />

con una battuta imprevista e Fabrizi fregava <strong>Totò</strong> mettendosi a ridere e interrompendogli la scena. 42<br />

Per l’uomo <strong>Totò</strong>, l’amicizia non era un valore, era un atto di condivisione e di<br />

complicità, era avere qualcuno con cui scambiarsi racconti di aneddoti e uscire ogni<br />

tanto dalla propria solitudine. Se questo era vero in merito al suo rapporto con Aldo<br />

Fabrizi, lo era altrettanto, in condizioni diverse, con altre persone che incontrò<br />

durante il suo percorso. <strong>Il</strong> quinto capitolo della sua autobiografia Siamo uomini o<br />

caporali è intitolato Storia di straordinaria amicizia tra un attore comico di<br />

insicuro avvenire e un barbiere tuttofare e racconta di questo rapporto nato agli<br />

albori della carriera di <strong>Totò</strong>, quando egli si dedicava ancora solo al teatro e andava a<br />

farsi acconciare i capelli dal barbiere Pasqualino, che serviva un celebre impresario<br />

romano:<br />

<strong>Il</strong> loro fu un rapporto basato sulla reciproca tolleranza: il barbiere rinunciò alla mancia e il cliente si<br />

rassegnò ad essere considerato con una punta di sospetto per il suo strano abbigliamento. Spesso, <strong>Totò</strong>, finito<br />

lo spettacolo, andava a prendere Pasqualino al negozio per percorrere con lui la strada del ritorno. Si<br />

fermavano a cenare insieme e facevano le ore piccole raccontandosi fatti e fattarielli. L’argomento principale<br />

delle loro conversazioni era il teatro, una passione comune che rendeva molto vivo il loro legame […] 43<br />

42 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, pp. 272<br />

43 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 59<br />

94


Ad Alessandro Ferraù 44 , <strong>Totò</strong> dedica un volume delle poesie ‘A livella: «Al mio<br />

carissimo amico e fraterno amico Alessandro Ferraù, affettuosamente». Lo<br />

sceneggiatore, nella prefazione del volume biografico di <strong>Totò</strong> Siamo uomini o<br />

caporali? scrive in merito:<br />

Nel leggerla, notai che la seconda dedica, nella sua costruzione, era rimasta identica alla prima vergata nel<br />

1941. L’unica differenza era che <strong>Totò</strong> aveva inserito, al posto di “carissimo Direttore”, la frase “al mio<br />

carissimo e fraterno amico” che suggellava un’amicizia profonda e disinteressata, nel corso della quale<br />

spesso ero stato “testimone oculare” di momenti di entusiasmo e di momenti tristi. 45<br />

Se discorrendo di amicizia, <strong>Totò</strong> non ne parla come valore, tuttavia le attribuisce<br />

la dicotomia uomini/caporali:<br />

Avevo un amico che faceva il giornalista, un amico vero e non un caporale. Mi chiese in prestito una<br />

macchina da scrivere ed io, per trarlo d’impaccio, gliene regalai una. Lui mi ringraziò con calore per poi<br />

correre a casa e inaugurare il mio dono scrivendo un articolo contro di me. <strong>Il</strong> peggiore che mi sia stato<br />

dedicato. Non ci piansi sopra, perché, se avesse scritto un panegirico, avrebbe mancato di dignità. E infatti il<br />

giorno seguente andammo a mangiare insieme come se niente fosse. 46<br />

Dichiarazione che certamente fa venire in mente il gioco dei ruoli Esposito/Bottoni<br />

di Guardie e ladri. Così come Bottoni non è meno amico di Esposito perché è una<br />

guardia e in quanto tale è obbligato a arrestarlo, allo stesso modo l’amico giornalista<br />

non è meno amico di <strong>Totò</strong> perché scrive un articolo a suo sfavore. Non deve che<br />

fare il proprio mestiere, ma l’amicizia resta indipendente e sincera.<br />

44 Cfr. supra, cap. I p. 33<br />

45 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, Newton Compton Libri, 1993, p. 7<br />

46 Ibid., p. 115<br />

95


Diverso è il caso de <strong>Il</strong> Comandante. Qui siamo di fronte a un rapporto di<br />

complicità e affetto di cui il protagonista, il Generale Cavalli, è inconsapevole. A<br />

causa della sua esistenza sempre trascorsa a lavorare, sempre scandita da orari e<br />

ritmi rigidi e severi imposti dalla disciplina dell’esercito ma anche dalla sua natura<br />

caratteriale, il militare mai si era reso conto di quanto e come la donna al suo fianco<br />

fosse partecipe della sua vita, solidale con lui e persino complice. L’amore che la<br />

consorte gli dimostra sicuramente non ha più a che fare con la passione, ma forse<br />

non l’aveva neanche prima, come lei stessa in una vecchia lettera di quando ancora<br />

erano fidanzati spiega. La moglie non l’ha mai considerato bello, attraente<br />

fisicamente, non l’ha mai guardato davvero con gli occhi dell’amore, ma solo con<br />

quelli della stima. Eppure, nonostante ciò, è sempre al suo fianco in ogni momento,<br />

pretende la sua presenza (è infatti lei che dalla torretta gli chiede di tornare giù) e lo<br />

sostiene. <strong>Il</strong> rapporto si modifica nel momento in cui – ma lei stessa l’aveva<br />

anticipato molti anni prima per iscritto 47 – la stima, elemento cardine del loro<br />

rapporto, decade. E viene a mancare perché iniziano i rinfacciamenti, le<br />

recriminazioni, e ciò che era stato sepolto per anni negli animi dei due coniugi,<br />

improvvisamente viene alla luce.<br />

L’uomo, già indebolito dalla sua condizione psicologica legata al fatto di sentirsi<br />

inutile e diverso rispetto a prima, amplifica il sentimento di delusione verso la<br />

moglie, finendo persino per credere e vedere fatti non rispondenti alla realtà: un<br />

amante che è solo frutto di immaginazione e fraintendimenti, un senso di rivincita<br />

nei confronti della consorte che poggia su basi sbagliate, perché è ella stessa che<br />

provvede a farlo lavorare e a pagarlo a sua insaputa, e perché non ha mai desiderato<br />

47 Cfr. supra, cap. 3, p. 87<br />

96


altro se non aiutarlo e vederlo sereno. Come il Generale esclama alla moglie: «La<br />

vita è fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale, e io, come vedi, sto salendo»,<br />

potrebbe trovare come risposta «Dietro ogni grande uomo, c’è sempre una donna».<br />

97


4. La morte<br />

Per la rappresentazione del tema della morte, la nostra analisi verterà su due<br />

pellicole cinematografiche, <strong>Totò</strong> all’inferno e <strong>Totò</strong> al giro d’Italia..<br />

4.1 <strong>Totò</strong> all’inferno<br />

<strong>Totò</strong> all’inferno è una commedia del 1955 diretta da Camillo Mastrocinque su<br />

soggetto dello stesso <strong>Totò</strong>, qui anche sceneggiatore insieme al regista romano<br />

medesimo e Vittorio Metz, Lucio Fulci, Francesco Nelli, Mario Mangini, Italo Di<br />

Tuddo.<br />

<strong>Totò</strong> all’Inferno racconta la storia di Antonio De Marchi, aspirante suicida, che<br />

si muove tra terra e inferno: cade tra i diavoli, poi evade e capita in un locale di<br />

esistenzialisti, infine è ricondotto giù a forza da Barbariccia, dove è processato e<br />

condannato allo squartamento. Ma è stato solo un brutto sogno.<br />

<strong>Il</strong> film è importante per almeno due particolari motivi. Innanzitutto esso<br />

conferma che l’evocazione parodistica dell’Inferno piace a <strong>Totò</strong>. Infatti non può<br />

sfuggire che egli – che com’è noto partecipava di solito attivamente<br />

all’elaborazione dei soggetti e dei dialoghi cinematografici senza però firmare – qui<br />

compaia nei titoli di testa non soltanto tra la piccola schiera di sceneggiatori<br />

(Vittorio Metz, Camillo Mastrocinque, Lucio Fulci e altri) ma anche come padrone<br />

del soggetto: «da un’idea di Antonio De Curtis», informa un’apposita scritta<br />

iniziale. La valorizzazione del testo dantesco peraltro si mantiene anche qui entro<br />

precisi limiti consueti della competenza scolastica e della rilettura goliardica.<br />

La vicenda si apre sulla scena di un uomo, Antonio Marchi, intento a scrivere<br />

una lettera. Dopo averla imbustata, se la attacca sulla giacca all’altezza del cuore<br />

98


con uno spillo. Si apprende che la lettera è indirizzata alle autorità. Si mette il suo<br />

cappello a bombetta e va a prendere un tubo di gomma. <strong>Il</strong> suo modo di camminare<br />

e comportarsi appare come quello di chi stia facendo ogni cosa per l’ultima volta.<br />

Attaccando il tubo al condotto del gas, lo fa scorrere fino in camera. Si inginocchia<br />

e prega. Prende un fazzoletto bianco e se lo annoda in testa. Si stende sul letto<br />

all’altezza del tubo di gomma. Tutte azioni, dunque, che fanno pensare a un<br />

suicidio. Ma la sua ora ancora non è arrivata. <strong>Il</strong> gas non esce e, infatti, neppure<br />

accendendo un fiammifero succede qualcosa. Antonio, arrabbiato, si alza e<br />

schiaffeggia il tubo, quasi si tratti di una persona. Sceso dal letto, prende a calci<br />

tutto ciò che gli viene a tiro. Apre dunque la finestra e, come ispirato, la sua<br />

espressione cambia. Nuova idea. Prega, si rimette il fazzoletto in testa<br />

annodandolo, sale sul davanzale e si getta. Ma il tentativo di suicidio non ha l’esito<br />

desiderato neanche questa volta. Antonio si salva perché per la strada un gruppo di<br />

persone sta reggendo aperto un telo affinché lo si possa battere con il battipanni, e<br />

quindi egli vi cade sopra. Si alza sconcertato e se ne va, fintamente indifferente,<br />

dando a intendere di avere fatto qualcosa di normale e consueto.<br />

Passando per la campagna, transita per un ponticello di legno, si rimette il<br />

fazzoletto in testa, prega e cerca di tuffarsi nel piccolo corso d’acqua che scorre<br />

sotto, tuttavia la sua coscienza gli vieta di infrangere le regole: un cartello di divieto<br />

proibisce di uccidersi in zona. Antonio si arrende, ma il ponte di legno cede e<br />

l’uomo cade in acqua. Finalmente il suo desiderio di passare a miglior vita è stato,<br />

pur se involontariamente, esaudito.<br />

Da questa ante-scena dell’inizio, già lo spettatore si rende conto che era<br />

nell’intento dei produttori di creare un film parodistico e farsesco, scegliendo come<br />

99


protagonista <strong>Totò</strong>, ideale a ricoprire un ruolo di questo tipo:<br />

In particolare, i due produttori intendevano dar luogo a una serie di “totoate” alla maniera di Chaplin, sulla<br />

scia dei precedenti <strong>Totò</strong> al giro d’Italia e Tototarzan, che avrebbero poi portato a <strong>Totò</strong> contro i quattro, <strong>Totò</strong><br />

e Cleopatra, <strong>Totò</strong> nella luna, <strong>Totò</strong> sexy, <strong>Totò</strong> di notte n.1, <strong>Totò</strong> terzo uomo, <strong>Totò</strong> Diabolicus e via<br />

enumerando, tutti e metà strada tra la farsa e la parodia, con il protagonista assoluto, appunto <strong>Totò</strong>,<br />

considerato a cominciare dall’abbigliamento come una maschera fissa del tipo Charlot, da inserire in una<br />

serie praticamente infinita di avventure centrate su situazioni di facile comprensione. 48<br />

Questo è il lungo e muto prologo al film vero e proprio, che ancora deve<br />

iniziare. Le riprese sono state fatte in bianco e nero. Non un bianco e nero<br />

tradizionale, come in altri film di <strong>Totò</strong>, ma un bianco e nero tendente al blu, dunque<br />

elaborato al fine di distinguersi dalle altre scene del film girate a colori e tendenti al<br />

rosso, perché, come vedremo, l’ambientazione sarà quella dell’Inferno.<br />

Un giornale radio avverte i diavoli che «A Parigi i soliti guai, a New York i soliti<br />

guai, a Milano i soliti guai, a Roma, oltre i soliti guai, oggi alle ore 15,00 Antonio<br />

Marchi, stanco della vita civile, campione mondiale dei disoccupati, si è tolto la<br />

vita». Satana chiede di controllare la posizione di tale Antonio Marchi, e scopre che<br />

è la reincarnazione di Marc’Antonio. Nel frattempo, una sorta di Caronte sta<br />

trasportando in barca Antonio all’Inferno. Qui l’uomo incontra un suo amico,<br />

Pacifico, morto vent’anni prima e viene a sapere che anche nell’aldilà le distinzioni<br />

avvengono sulla base della provenienza geografica: ai settentrionali è riservato il<br />

meglio, ai meridionali il peggio. <strong>Il</strong> diavolo Belfagor, mandato da Satana, è venuto a<br />

prenderlo. Camminano insieme per le varie regioni dell’Inferno, dove le persone<br />

subiscono le pene in base ai peccati commessi. Arrivati dinanzi a Satana, Belfagor<br />

48 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 105<br />

100


presenta Antonio con disappunto, specificando che è napoletano. Satana risponde<br />

dunque che «bisogna tenerselo buono», quasi come si tratti di un elemento<br />

pericoloso.<br />

Antonio viene condotto nei suoi “appartamenti” e gli viene annunciato che<br />

qualcuno, da tanto tempo, lo sta aspettando. Si tratta di Cleopatra, che gli si rivolge<br />

in un latino misto a italiano, mimando pose da antica Egizia. <strong>Totò</strong> le risponde in un<br />

latinorum maccheronico. Giunge nel frattempo la madre di Cleopatra che esclama<br />

in latino: «Fiat voluntas tua!». <strong>Totò</strong> risponde: «Fiat 1400!», con chiara allusione a<br />

una marca e modello di vettura. Questo è uno degli inserti presenti nel film e legati<br />

all’attualità, come anche la scena successiva in cui Cleopatra chiede ad Antonio<br />

come stia Cesare, riferendosi evidentemente a Giulio Cesare, ma l’uomo che non ne<br />

sa niente, le risponde parlando di un suo conoscente di tale nome. La donna,<br />

accortasi dell’equivoco, gli specifica che si tratta dell’Imperatore Cesare, e Antonio<br />

le risponde che «Da noi adesso l’imperatore non c’è più. C’è la Repubblica».<br />

Satana, geloso di Antonio a causa di Cleopatra, lo vuole catturare e confinare nel<br />

girone dei traditori e lo manda a cercare. L’uomo, intanto, capitato tra i lussuriosi,<br />

incontra Messalina che ribattezza come “Mezza Lira”, altro riferimento all’attualità<br />

del tempo. Rivede anche l’amico Pacifico, in compagnia di una donna, Elena di<br />

Troia, che, presentata ad Antonio, provoca da parte sua una risposta ironica non<br />

pensando al personaggio storico, semmai riferendosi all’antico toponimo di Troia,<br />

utilizzato come insulto rivolto al sesso femminile: «L’ho già sentito tante volte<br />

questo nome!».<br />

Pacifico aiuta il suo amico a scappare e lo fa tornare sulla terra. Le scene<br />

tornano in bianco e nero. Antonio si ritrova improvvisamente in uno strano locale di<br />

101


esistenzialisti, dove sono tutti muti e inespressivi. Viene accolto da Cri-Cri, il<br />

proprietario, il quale lo invita a fargli da aiutante e lo porta a suonare un curioso<br />

contrabbasso in una band musicale. Antonio inizia a suonare e per quattro volte si<br />

interrompe per uccidere una zanzara. Ogni volta che si blocca, uccide la zanzara e<br />

riprende a suonare esclamando «Excuse me!». Ritroviamo in questa ripetizione di<br />

azioni tutte uguali la stessa ripetitività della scena di apertura, quando il<br />

protagonista tenta, per tre volte consecutive, di togliersi la vita.<br />

Nel momento in cui Antonio assiste a una sensuale esibizione di danza<br />

contorsionista di Miss Angoscia, irrompono dei diavoli travestiti da poliziotti, che<br />

lo riportano all’Inferno, dove Satana è pronto a giudicarlo per tre reati che avrebbe<br />

commesso in vita: rapina a mano armata, inadempienza degli obblighi coniugali e<br />

suicidio. Legalmente viene rappresentato da Cicerone, la cui arringa è poco chiara e<br />

finisce col sovrapporsi alla voce di Antonio, che, alla fine, preferisce difendersi da<br />

solo. Le scene, tornate in rosso, ridiventano in bianco e nero nel momento in cui il<br />

protagonista, per difendersi dalle accuse di Satana, inizia un racconto in flash-back<br />

lontano nel tempo: «Dunque Vostro Onore, io ero disoccupato a carico della mia<br />

famiglia e un bel giorno venne un omino grassottello a offrirmi del lavoro e i fatti si<br />

svolsero così». Convinto infatti a rapinare in un sotterraneo buio e isolato tutti<br />

coloro che sarebbero passati da lì, la prima vittima scampa al suo agguato in quanto<br />

sordo. La seconda riesce a salvarsi perché fa leva sul suo senso di colpa e sul suo<br />

cuore in fondo tenero. Si tratta in effetti di una donna che gli racconta della sua<br />

storia di moglie sfortunata e povera perché vedova, che da sola deve provvedere ai<br />

suoi quattro figli. E l’improvvisato rapinatore la lascia allora andare restituendogli<br />

tutti i beni sottrattile. Rimettendosi di guardia in attesa di qualche altro malcapitato,<br />

102


fa l’incontro di uno strano personaggio dall’accento italo-americano, che gli ride in<br />

faccia ed estrae una pistola. Si tratta di Al Capone, il quale si allontana portando via<br />

ad Antonio la giacca. Ennesimo insuccesso che induce il pover’uomo a cambiare<br />

professione. Ed eccolo allora al circo, come buffone: «Antonio – l’uomo più fesso<br />

del mondo», per giocare con lui, il costo è 50 Lire.<br />

Nel mondo circense, il protagonista non ha un buon rapporto con un collega, il<br />

quale ambisce a prendere come moglie Maria, una delle figlie del proprietario del<br />

circo, Mustafà. Purtroppo, però, dal momento che la donna è in realtà gemella<br />

siamese di Lucia, il padre afferma che le sue figlie dovranno sposarsi<br />

contemporaneamente. Quindi se Maria si sposa, bisognerà trovare un marito anche<br />

a Lucia. <strong>Il</strong> collega di Antonio propone dunque a quest’ultimo di prendere in moglie<br />

Lucia Montella. Antonio rifiuta svariate volte, dicendo alla fine: «Questo<br />

matrimonio non si farà!». Chiaro riferimento, così come il cognome della promessa<br />

sposa siamese del protagonista, al romanzo de I Promessi Sposi di Alessandro<br />

Manzoni. Nonostante la resistenza opposta, i matrimoni avvengono e, dopo le<br />

nozze, l’inquadratura si sposta verso una significativa insegna di un albergo, ovvero<br />

ALB<strong>ERGO</strong> <strong>DE</strong>LLA SPERANZA, dove sono temporaneamente alloggiate le due<br />

coppie di sposi. La convivenza e l’accettazione di avere sposato una gemella<br />

siamese si rivelano piuttosto complicate e Antonio, raccontandolo a Satana cerca di<br />

giustificarsi: «Ditemi voi se potevo esimermi dal suicidio». <strong>Il</strong> diavolo inizia allora<br />

il suo racconto di un episodio della vita dell’uomo che sta giudicando,<br />

menzionando di quando Antonio spiava dalla finestra con il binocolo la sua<br />

dirimpettaia e poi osa persino andare a casa sua, nonostante la donna gli dica che è<br />

sposata. In quel frangente, proprio il marito suona alla porta di casa, e la donna<br />

103


spaventata fa nascondere Antonio in una stanza. Pochi attimi dopo risuona il<br />

campanello: è un medico psichiatra che sta cercando un malato scappato dal<br />

manicomio e che sa essersi rifugiato lì. Iniziano le perquisizioni e Antonio,<br />

scoperto, si finge pazzo obbligando, essendo armato, il padrone di casa a togliersi i<br />

pantaloni e rimetterseli ripetendo le azioni nell’arco di pochissimi minuti. In<br />

quell’attimo irrompono gli infermieri del manicomio che scambiano l’uomo per il<br />

loro pazzo e lo portano via. La moglie è disperata per quanto successo e Antonio si<br />

scusa dicendo che, purtroppo, questo è stato per lui l’unico modo di potere stare<br />

con lei. Qualche attimo dopo, esce dall’armadio il vero pazzo, che gli sbatte una<br />

padella in testa e Antonio perde i sensi, con tanto di stelline che gli girano sulla<br />

testa. E qui termina il racconto di Satana, che lo condanna alla pena di<br />

squartamento perpetuo.<br />

Improvvisamente, Antonio si sveglia e si rende conto che è davvero solo un<br />

sogno. Si trova su un letto d’ospedale, circondato da medici e infermieri.<br />

L’infermiera ha le sembianze della Cleopatra del sogno.<br />

Era importante per i produttori restare nell’ambito del surreale o dell’irreale, per<br />

tale ragione, fu scelto di considerare l’ennesimo episodio alla maniera di <strong>Totò</strong> solo<br />

un sogno. E, infatti, all’inizio del film compare una didascalia che espressamente<br />

avverte che la storia viene condotta tra realtà e surrealismo.<br />

<strong>Il</strong> film si conclude così, con l’ennesima battuta che rimanda all’attualità: rivolto<br />

ai dottori, <strong>Totò</strong> chiede con enfasi: «Che Bolgia è questa?». E il termine bolgia,<br />

come sospeso nell’aria, ritorna più oltre, quando ricorda che i milanesi – quasi che<br />

la Fiera fosse un concentrato del frastuono – fanno la Bolgia Campionaria ogni<br />

anno.<br />

104


Questo film risulta anche importante per una ragione che soltanto l’attuale<br />

fioritura di studi sul cinema muto permette di addurre. <strong>Il</strong> soggettivista <strong>Totò</strong> ha<br />

tenuto presente come modello complessivo il film muto Maciste all’Inferno di<br />

Guido Brignone: un film che con molta probabilità vide nel 1926 (data di uscita) e<br />

che rivide sonorizzato e rilanciato nel 1940. Questo può essere detto sulla base di<br />

alcune analogie riscontrate. La più palese si trova nei titoli. Molto simile appare la<br />

struttura narrativa, in quanto già Maciste si trova catapultato dalla sua casetta<br />

rustica in un Inferno che appare alquanto “dantesco” nell’ambientazione, nei<br />

personaggi, nei dialoghi.<br />

La pellicola è inoltre ricca di riferimenti ad altri film precedenti di <strong>Totò</strong>. Primo<br />

tra tutti, 47 morto che parla per le scene con Belfagor, Satana, Clemente e<br />

Cleopatra, e poi Napoli milionaria e <strong>Totò</strong> e i re di Roma per l’episodio ripetuto di<br />

<strong>Totò</strong>/Antonio che al momento del suicidio si annoda un fazzoletto bianco in testa.<br />

Infine il fatto che il protagonista sia un ladro non per scelta ma per obbligo, perché<br />

non ha altro modo per vivere se non rubando, ricorda Guardie e ladri nel suo<br />

personaggio principale di Ferdinando Esposito.<br />

105


4.2 <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia<br />

<strong>Totò</strong> al Giro d’Italia è una commedia del 1948 in bianco e nero diretta da Mario<br />

Mattòli su soggetto e sceneggiatura di Steno, Marcello Marchesi e Vittorio Metz.<br />

Protagonista della vicenda è il prof. Ugo Casamandrei, che, facendo parte della<br />

giuria del concorso di Miss Italia, si innamora di Doriana, giurata anche lei. La<br />

donna apparentemente non lo corrisponde e gli dice che potrà avere la sua mano<br />

solo qualora vincesse il Giro d’Italia. <strong>Il</strong> professore, digiuno di ciclismo, per potere<br />

avere la vittoria assicurata, vende la sua anima al diavolo. Quando si rende conto<br />

che il patto infernale non solo non gli garantisce l’amore della donna, ma comporta<br />

la morte, cerca in ogni modo di svincolarsi dalla morsa del diavolo e vi riesce,<br />

anche grazie all’aiuto di sua madre, con la quale vive, e di Doriana.<br />

<strong>Il</strong> film procede su due piani narrativi – quello della competizione e delle<br />

comparsate di tanti ciclisti e uomini dello sport del 1948 (Gino Bartali, Fausto<br />

Coppi, Louison Bobet, Giovanni Ortelli, Tazio Nuvolari, Ferdy Kubler, Fiorenzo<br />

Magni, Alberic Scotte, Amos Matteucci, Ulisse Lorenzetti, Camillo Achilli, Adolfo<br />

Consolini, Giordano Cottur, Jean-Pierre Wimille, Giuseppe Tosi, Aldo Spoldi) e<br />

quello del travaglio etico-amoroso del lunare protagonista – che gli sceneggiatori si<br />

adoperano a rabberciare e faticano a intrecciare.<br />

Al titolo d’apertura, <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia, segue l’inquadratura riservata<br />

all’epigrafe marmorea LASCIATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE,<br />

evidente richiamo alla Divina Commedia di Dante (Inferno, Canto III, verso IX) e<br />

forse inconsapevolmente presente in <strong>Totò</strong> all’Inferno nell’insegna del locale<br />

106


ALB<strong>ERGO</strong> <strong>DE</strong>LLA SPERANZA. 49 Poi un portone di proporzioni “ministeriali” si<br />

socchiude su un interno fumigante. Davanti a quell’ingresso, un fortuito incontro<br />

tra conoscenti: Dante, corona d’alloro in capo, proviene dal fondo e Nerone togato<br />

esce dal portone.<br />

Dopo una stretta di mano e un asciutto colloquio tra i due, Dante e Nerone<br />

appaiono sul fianco destro della colonna scorrevole dei titoli e la commentano.<br />

Nerone a un certo punto sbotta: «Come, solo uomini?», ma Dante lo rassicura,<br />

segnalandogli ammiccante la giurata Doriana (interpretata da Isa Barzizza) e altre<br />

ragazze. I due personaggi ultraterreni rimangono poi a lungo emarginati, per poi<br />

riemergere in primo piano soltanto dopo la prima tappa vinta da <strong>Totò</strong>, quando nel<br />

buio della notte passano in rassegna i corridoi dormienti e con alato linguaggio<br />

commentano con una voce fuori campo. Tornano infine in campo nell’ultimo<br />

siparietto infernale.<br />

Stresa, concorso di Miss Italia. <strong>Totò</strong> interpreta il prof. Ugo Casamandrei, viso da<br />

intellettuale e barba mefistofelica, quasi a preannunciare il suo futuro patto col<br />

diavolo. Membro giurato alla manifestazione, è seduto a fianco dei compagni di<br />

giuria Doriana e Bruno (interpretato da Walter Chiari), giornalista. Tra un<br />

commento e l’altro, il professore si interessa a Doriana, che scopre essere la sorella<br />

di una delle ragazze iscritte al concorso. Profondamente affascinato dalla donna, le<br />

fa la corte e le chiede di sposarlo, ma ella, che non lo prende sul serio e,<br />

contemporaneamente corteggiata anche da Bruno, gli risponde che lo sposerà solo<br />

qualora vincerà il prossimo Giro d’Italia. Per Casamandrei si tratta sicuramente di<br />

un’impresa ardua. Non è infatti un uomo atletico né esperto di ciclismo. L’unico<br />

49 Cfr. supra, cap. 4, p. 103<br />

107


modo per cercare di vincere alla competizione sportiva è quella, naturalmente, di<br />

iniziare gli allenamenti e prendere confidenza con l’ambiente dello sport. Eccolo<br />

dunque in compagnia di Fausto Coppi, Gino Bartali, Louison Bobet, Tazio<br />

Nuvolari, Fiorenzo Magni e molti altri e successivamente alle prese con il suo<br />

primo allenamento. Nessuno crede in lui, viene deriso e preso in giro. <strong>Il</strong> suo<br />

allenatore, avendolo visto prima salire sulla bicicletta al contrario e poi ruzzolare in<br />

discesa, ironicamente lo consiglia di vendere l’anima al diavolo. Da quel momento,<br />

il professore è perseguitato da echi di voci immaginarie che lo tormentano per<br />

spingerlo a vendere la sua anima al maligno come unica soluzione per vincere la<br />

competizione ciclistica.<br />

Rientrato a casa, non riesce a prendere sonno poiché le stesse voci continuano a<br />

perseguitarlo. Cedendo loro, esclama: «E va bene, venderò l’anima al diavolo pur<br />

di vincere questo Giro d’Italia!» e a quel punto il diavolo si fa vivo, nelle vesti di<br />

un uomo con i baffi che si presenta semplicemente bussando alla porta. E proprio a<br />

causa di tale presunta normalità, Casamandrei non crede si tratti del diavolo, a<br />

maggior ragione quando sente che si chiama Filippo Cosmedin e che parla con<br />

accento veneto. Sembra una creatura troppo terrena e umana per essere davvero il<br />

maligno. Per tale ragione, l’essere infernale gli dà prova di essere quello che<br />

sostiene che sia scomparendo e riapparendo improvvisamente in vari punti della<br />

camera e sotto forme diverse; inoltre gli dà notizie private sia sulla governante che<br />

sul cuoco in base a ciò che vede oltre le pareti della stanza in cui sono, e gli<br />

guarisce persino il piccolo reuma al braccio. A questo punto, dunque, come non<br />

credergli? <strong>Il</strong> professore firma con il sangue il contratto con il diavolo, senza però<br />

comprendere che la vittoria al Giro d’Italia gli costerà l’anima.<br />

108


Appena Casamandrei esce, vuole subito mettere alla prova l’azione del demonio<br />

e prova ad andare in bicicletta. Scopre di essere diventato un virtuoso dei pedali e<br />

annuncia quindi di volersi iscrivere al Giro d’Italia. Tutti continuano a deriderlo. <strong>Il</strong><br />

giorno stesso dell’inizio della gara si avverte scetticismo intorno a lui. Ma egli è<br />

ormai sicuro di sé e non solo si presenta come il prossimo vincitore della<br />

competizione, ma addirittura parte in ritardo rispetto agli altri corridori, tanto, «Con<br />

quattro pedalate…» li raggiungerà e supererà. E tale frase ricorrerà come un<br />

leitmotiv durante tutto il film, ogni qualvolta egli si fermerà durante le tappe del<br />

giro invece che continuare a correre in bicicletta. Questa è peraltro l’esclamazione<br />

che prende le mosse dalla famosa «Bazzeccole» di Vittorio De Sica in Tempo<br />

massimo, pellicola del 1934, diretta sempre da Mattòli e che è all’origine della<br />

trama, successiva e quasi del tutto simile, di <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia. Possiamo dunque<br />

affermare che quest’ultimo altro non sia che il remake del precedente Tempo<br />

massimo, avente come uniche varianti solo una società, quella della fine degli anni<br />

Quaranta, già molto cambiata rispetto a quella degli anni Trenta, e l’intervento del<br />

diavolo Filippo Cosmedin.<br />

Durante la gara, Bruno e Doriana lo seguono in macchina per dargli assistenza.<br />

<strong>Il</strong> professore si ferma per rimproverare l’uomo che in gara è addetto a rinfrescare i<br />

ciclisti con le secchiate d’acqua. Prende il lancio dell’acqua come uno scherzo o un<br />

dispetto perché, essendo profano di ciclismo, non conosce la funzione di questo<br />

compito. Aggredendo la persona addetta al lancio dell’acqua, perde di nuovo<br />

tempo, sapendo di poterselo permettere, sa che vincerà comunque. E infatti, eccolo<br />

sul podio a dichiarare: «C’è chi corre per la gloria, c’è chi corre per il denaro, io<br />

viceversa corro per amore. Come dice quel vecchio proverbio greco antico, tirano<br />

109


più due occhi belli che cento pariglie di buoi!»<br />

Di tappa in tappa, Casamandrei accumula vittorie e tutti si chiedono come faccia<br />

a vincere sempre. Ognuno vorrebbe sapere il segreto delle sue vittorie e,<br />

all’improvviso, appare il diavolo Filippo con una confezione di sigari, per dare a<br />

intendere che sia proprio quella l’arma vincente. Qualcuno esclama: «Ma se lo<br />

dicono tutti che fumare fa male!», eppure da quel momento ogni ciclista inizia a<br />

fumare il sigaro e molti sigari vengono distribuiti all’inizio delle gare. Nel<br />

frattempo, il professore continua a vincere, anche se si rende conto di non essere<br />

realmente felice. Inizia a domandarsi se la strada giusta per arrivare al cuore della<br />

donna che ama sia davvero quella. Su suggerimento della sorella di Doriana, si<br />

taglia la barba per conquistarla. E poi si lamenta col diavolo perché non ha ancora<br />

ottenuto l’amore della donna. La creatura infernale risponde che «il contratto parla<br />

chiaro»: non dice affatto che conquisterà Doriana, ma solo che vincerà il Giro<br />

d’Italia. Dopodichè gli ricorda che in cambio gli deve l’anima e che non deve<br />

commettere la stessa ipocrisia del Faust, che trascorre la vita intera a divertirsi con<br />

le donne e poi, anziano, improvvisamente si pente. Casamandrei, intuito l’inganno,<br />

lo manda all’Inferno e il diavolo gli risponde: «Andrò, ma con te!»<br />

<strong>Il</strong> professore si sente demoralizzato, ma Doriana lo rassicura dicendogli che<br />

senza barba sta bene, meglio di prima, e che ha molta simpatia per lui,<br />

indipendentemente dal fatto che riesca ad aggiudicarsi la vittoria al Giro d’Italia o<br />

meno. Udendo tali parole, l’uomo si deprime ancora di più, perché capisce che<br />

l’avere contratto un impegno scritto con il diavolo non solo è inutile, ma anche<br />

fatale. Perderà la sua anima in cambio di qualcosa che non gli serve e di cui non gli<br />

importa, mentre avrebbe potuto conquistare il cuore di Doriana con le sue sole<br />

110


forze. Perciò fugge e decide di farla finita, lasciando un biglietto d’addio ai suoi<br />

collaboratori.<br />

L’uomo si è rifugiato a Bologna, sulla Torre degli Asinelli. In procinto di<br />

lanciarsi nel vuoto, viene fermato da Doriana e dai suoi assistenti. La donna, che<br />

ormai sa tutto, lo tranquillizza e lo convince a fermare il diavolo perdendo al Giro<br />

d’Italia con la collaborazione di ognuno. Intanto, il demonio è lì a loro insaputa che<br />

vede e ascolta ogni parola: ha assunto le sembianze del guardiano della torre.<br />

Al fine di perdere la competizione, il professore in un ristorante imbratta con il<br />

cibo appena servito un signore seduto al tavolo, poi ne minaccia un altro con una<br />

pistola; tuttavia il suo intento fallisce. Non sarà lui a essere portato in manicomio,<br />

ma un altro commensale.<br />

Riprende la gara e Casamandrei, disperato, vince ancora. Alla prossima tappa in<br />

Alto Adige, l’uomo entra in una tipica osteria tirolese e scatena una rissa, con lo<br />

scopo di essere arrestato e venire escluso dal Giro d’Italia. Purtroppo, però, benché<br />

finisca in carcere, gli appare per l’ennesima volta il diavolo Filippo il quale gli dice<br />

che opporglisi non serve a niente, tanto, come da contratto, vincerà la gara, anche<br />

perché, essendo il demonio, può tutto. Infatti, il professore viene inaspettatamente<br />

liberato e si aggiudica la quindicesima tappa. Interviene allora Doriana, che insieme<br />

a lui, a pranzo con i ciclisti Coppi e Bartali, chiedono a questi ultimi di impegnarsi<br />

al massimo con gli altri corridori per vincere la competizione. Tuttavia questo<br />

sforzo si rivela inutile, perché ancora una volta il professore vince.<br />

Siamo all’ultima tappa. La scena si sposta a casa Casamandrei. La mamma del<br />

professore è intenta a ascoltare la radiocronaca della gara. All’improvviso appare il<br />

diavolo Filippo, e la donna, astutamente, cerca di farsi dire da lui come riesce a fare<br />

111


vincere suo figlio. La creatura infernale le dà un esempio pratico con delle statuette<br />

soprammobili, che rappresentano suo figlio e altri corridori e poi le dice che il<br />

segreto sta nel desiderare continuamente che sia il professore a vincere. La mamma<br />

di Casamandrei cerca dunque di distrarlo e lo fa addormentare. A questo punto è<br />

libera di intervenire e scaglia per terra la statuetta che rappresenta il figlio. <strong>Il</strong><br />

risultato è che nello stesso istante, come per magia, il professore cade e viene<br />

superato dagli altri ciclisti. <strong>Il</strong> diavolo si sveglia e si rende conto dell’accaduto,<br />

però, d’altra parte «Si sa che le donne ne sanno sempre una più del diavolo!». Ciò<br />

che gli resta da fare è rapire il professore e portarlo direttamente con sé all’Inferno.<br />

Ma l’accesso gli viene negato, poiché ha fallito. La sua vittima è finalmente libera e<br />

Dante la saluta raccomandandogli «La mi porti un bacione a Firenze».<br />

A casa del professore si dà il via ai festeggiamenti per la sua sconfitta. Tra gli<br />

invitati è presente anche il diavolo Filippo, che è stato licenziato per il suo<br />

insuccesso. Tutti cantano allegramente e Casamandrei abbraccia Doriana, il cui<br />

cuore ha conquistato da solo.<br />

<strong>Totò</strong> al Giro d’Italia è il primo film in cui il nome di <strong>Totò</strong> è presente anche nel<br />

titolo. Tutti gli altri che ve lo recano prendono spunto dunque da qui, secondo<br />

l’idea di creare un personaggio dai mille volti e dalle mille avventure, proprio come<br />

fosse una sorta di “Charlot italiano”. Si tratta anche della prima pellicola in cui <strong>Totò</strong><br />

non assume le tradizionali caratteristiche di figura comica con le quali si era fatto<br />

conoscere. I pantaloni a zampafuosso sembrano improvvisamente e<br />

miracolosamente scomparsi per lasciare il posto a un abbigliamento molto distinto<br />

e elegante, appartenenti a un uomo colto e serio, non più marionetta, clown o<br />

caricatura, ma semplicemente interprete di se stesso.<br />

112


<strong>Totò</strong> al Giro d’Italia è una interessante miscela di attualità sociale, sportiva,<br />

politica e di richiami letterari e culturali.<br />

<strong>Il</strong> primo elemento legato all’attualità del tempo è ravvisabile nel nome del<br />

protagonista, Ugo Casamandrei, versione camuffata di quello di Piero Calamandrei,<br />

giornalista e politico anti-fascista degli anni Quaranta, redattore con altri giuristi del<br />

Codice di Procedura Civile del 1942.<br />

Al momento del suo incontro con il diavolo, il prof. Casamandrei esclama: «Mi<br />

viene a parlare di tessere! Ma lei lo sa che io ci ho uno zio che di tessere ne ha<br />

dodici?!», chiara allusione alle tessere di partito (dodici in quanto dodici allora<br />

erano i partiti esistenti in Italia).<br />

Le riprese iniziali delle ragazze in passerella al concorso di Miss Italia sono un<br />

innesto all’interno del film di quelle effettuate realmente durante la manifestazione.<br />

Nel 1948 infatti, <strong>Totò</strong> era infatti parte della giuria per Miss Italia e la vincitrice,<br />

Fulvia Franco, ottenne la partecipazione all’opera cinematografica nel ruolo di se<br />

stessa e come sorella di Doriana (Isa Barzizza).<br />

Possiamo inoltre aggiungere che, indipendentemente dal fatto che il film fosse il<br />

remake di Tempo massimo, in ogni caso esso, in materia di sport, avrebbe trattato la<br />

tematica del ciclismo, che costituiva da solo all’epoca un autentico fenomeno<br />

culturale, un evento di costume e non esistevano altre discipline sportive così in<br />

voga in Italia come quello. E Coppi e Bartali erano gli sportivi per antonomasia.<br />

I riferimenti culturali sono dati dalla citazione durante il film dell’opera<br />

letteraria Faust di Goethe, del film La vita è meravigliosa, dei molteplici richiami<br />

alla Divina Commedia (la presenza di Dante, il IX verso dell’Inferno all’inizio e<br />

alla fine del film), il personaggio di Nerone.<br />

113


<strong>Totò</strong> al Giro d’Italia è dunque definibile come film-documentario dell’Italia<br />

della fine degli anni Quaranta.<br />

114


4.3 L’analisi del concetto di morte<br />

È inutile negare la costante presenza, nei vari film del Principe, della morte. Non<br />

si deve, certo, pensare a un <strong>Totò</strong> pessimista o macabro, desideroso di parlarne di<br />

affrontare il discorso con insolita tranquillità.<br />

<strong>Il</strong> poliedrico attore partenopeo affronta spesso questo tema per evitare che la<br />

morte possa, a un certo punto della nostra vita, crollare su di noi senza<br />

accorgercene o senza essere pronti ad essa. In effetti ciò che si evidenzia, nei suoi<br />

film, riguardo il rapporto con la morte, viene racchiuso in due componenti: la<br />

componente tragica e la componente sarcastico-ironica.<br />

La prima componente, quella tragica, reagisce al potere che la morte possiede<br />

nell’interrompere una vita, fatta semmai di desideri e sogni. Per <strong>Totò</strong>, quindi, è<br />

necessario sconfiggere questo potere ad ogni costo, servendosi delle persone più<br />

vicine a lui e contando sulla buona sorte affinché lo aiuti a risolvere una situazione<br />

drammatica e priva di uscite. Se ne L’imperatore di Capri <strong>Totò</strong> (Antonio De Fazio)<br />

cerca di scampare alla morte, presente nella casa della baronessa, confidando nella<br />

compagnia del suo fedele amico Mario Castellano, in <strong>Totò</strong> e i re di Roma<br />

l’archivista capo, travolto dalle vicissitudini personale e condannato a perdere il suo<br />

posto di lavoro, cerca spontaneamente la morte avviandosi da solo nel cimitero per<br />

porre fine alle sue disgrazie.<br />

La seconda componente, quella sarcastico-comica, reagisce diversamente dalla<br />

prima perché cerca di dissimulare la tragedia e il dolore della morte attraverso<br />

un’ironia di carattere umoristico che scherza con la stessa per evitare che possa<br />

avvicinarsi. La seconda componente diventa una sorta di apologia dell’uomo –<br />

attore nei riguardi della morte, un evento che segna la fine della vita terrena e la<br />

115


speranza che tutto continui in cielo. Questa speranza induce l’uomo a sopravvivere<br />

il più a lungo possibile e a scagionare il pericolo servendosi di tutti i mezzi<br />

possibili. <strong>Totò</strong> sa bene che qualunque uomo, anche il più potente del mondo, ha<br />

paura di fronte alla morte; per questo ci vuole comunicare che il miglior modo per<br />

combattere questa paura è quello di ironizzare sulla stessa, non per superficialità<br />

ma per sdrammatizzare il pericolo.<br />

Nell’introduzione, oltre ad aver analizzato l’aspetto umoristico della morte in<br />

<strong>Totò</strong>, abbiamo anche introdotto il discorso relativo agli echi danteschi presenti in<br />

alcuni film dell’attore partenopeo. La presenza di Dante nella filmografia di <strong>Totò</strong><br />

appare talvolta affidata a isolate riprese e allusioni verbali di scolastica memoria: il<br />

che non poteva non avvenire, se si considera quanto fosse diffusa, per lo meno in<br />

pieno Novecento, la conoscenza di alcuni versi del poema e come questi entrassero<br />

nel repertorio delle frasi fatte d’illustre provenienza, a cui l’attore i suoi compagni<br />

di scena attingevano per animare il parlato filmico. Un esempio può essere quello<br />

in Yvonne La Nuit di Giuseppe Amato (1949) dove l’attore partenopeo ammonisce<br />

la sconsolata ballerina Ivonne: «Se il senatore ti pianta / nel mezzo del cammin<br />

della tua vita, / come dice il poeta, / tu ti troverai in una selva oscura».<br />

E l’impiegato <strong>Totò</strong> del film Chi si ferma è perduto di Sergio Corbucci (1960),<br />

alla saccente signorina (interpretata da Lia Zoppelli) che lo sprona a «uscir dal<br />

pelago alla riva», ribatte: «Tu mi porterai dal pelago alla riva / a cercar il pelago<br />

nell’uovo» 50 .<br />

In due film, <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia di Mario Mattòli (1948) e <strong>Totò</strong> all’inferno di<br />

Camillo Mastrocinque (1955), questa presenza di Dante appare estesa a varie<br />

50 F. ROSSI, La lingua in gioco. Da <strong>Totò</strong> a lezione di retorica, Roma, Bulzoni, 2002<br />

116


sequenze, che hanno perciò uno spassoso colorito “infernale”. E la dimensione<br />

sotterranea – nella quale il tema del “doppio”, che ritorna come pochi altri nella<br />

filmografia di <strong>Totò</strong>, trova idoneo spazio di accoglienza e di sviluppo – in essi si<br />

differenzia da analoghe “immersioni”, che sono di vaga matrice espressionistica<br />

(così, fra le ultime, quelle in <strong>Totò</strong> contro Maciste e <strong>Totò</strong> e Cleopatra di Ferdinando<br />

Cerchio, 1962 e 1963), in quanto assume le parvenze dell’ultraterreno Inferno<br />

dantesco (di qui l’opportunità di designare questo loro particolare luogo<br />

cinematografico sempre, a cominciare dal titolo, con iniziale maiuscola).<br />

In <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia i riferimenti danteschi si legano con il tema faustiano del<br />

patto col diavolo. Qui infatti il professor Casamandrei, pizzo sgargiante e<br />

mefistofelico come si conviene a un intellettuale di metà Novecento, gli vende<br />

l’anima per ottenere in cambio di vincere, contro tutti i campioni europei del<br />

momento, il Giro d’Italia e di guadagnare così l’amore di Doriana. In questa trama<br />

a larghe maglie i momenti danteschi acquistano spazio ed evidenza, mettendo però<br />

a nudo il fallimento del loro compito di immergere vicende e personaggi in una<br />

dimensione grottescamente surreale. <strong>Il</strong> riferimento dantesco s’impone con la<br />

massima evidenza nella sequenza iniziale dei titoli di testa. Essa infatti si svolge<br />

all’ingresso dell’Inferno (un enorme salone stile Novecento, dalle pareti<br />

geometriche e biancastre, che si direbbero riutilizzate per un altro “viaggio” di <strong>Totò</strong><br />

all’Inferno, in 47 Morto che parla di Carlo Luigi Bragaglia, 1950).<br />

Infine è utile analizzare nei film <strong>Totò</strong> al giro d’Italia e <strong>Totò</strong> all’Inferno il legame<br />

con figure dell’antichità classica (legame da attribuirsi in generale semplicemente<br />

al fatto che i realizzatori si erano formati nell’anteguerra, in tempi di culto della<br />

latinità). In <strong>Totò</strong> al giro d’Italia a Dante si accompagna Nerone. Perché proprio<br />

117


Nerone (anziché Virgilio)? Forse perché fu imperatore di cattiva fama, un<br />

incendiario, che nell’Inferno è a casa propria oppure perché è personaggio ben noto<br />

nel cinema: taluni spettatori ricordano ancora bene quello interpretato da Ettore<br />

Petrolini, in Nerone di Alessandro Blasetti (1930), che dal balcone arringa la folla<br />

osannante nella Roma in fiamme; e fin dal 1947 la stampa che cura il lancio del<br />

colosso italo-americano Fabiola di Blasetti (1949) non smette di scrivere sui<br />

persecutori dei cristiani, basti dire che il protagonista si chiama Antonio Marchi e<br />

che nell’Inferno, in quanto reincarnazione di Marco Antonio, è amato da Cleopatra<br />

(e nel processo finale davanti a Satana si avvale della difesa di Cicerone).<br />

All’origine di queste scelte va posto sicuramente il grande successo anche popolare<br />

del film di soggetto scespiriano, Giulio Cesare di Joseph L. Mankiewicz (1954).<br />

118


Conclusione<br />

«Ah-ah, birichino… eh, bene, va bene, va buono, tanto già lo so, che ce vuo’<br />

fare… No, perché… io da bambino ho avuto la meningite, con la meningite o si<br />

muore o si rimane stupidi. Io non son morto». Questa è la prima apparizione<br />

cinematografica di <strong>Totò</strong>. Si tratta del suo primo provino, risalente al 1932, per la<br />

casa di produzione SASP di Stefano Pittalunga. La sua performance dura un minuto<br />

e dodici secondi e, confrontando questo tempo con quello complessivo, piuttosto<br />

esiguo, delle sue battute in tale apparizione, possiamo intuire che essa si sia basata<br />

non sull’arte del monologo, sull’intervento vocale, bensì sulla gestualità, sulla<br />

mimica facciale, sull’uso del corpo allo scopo di esprimere la comicità. Lo<br />

strumento artistico di lavoro di <strong>Totò</strong> era il suo fisico, la sua arte consisteva nel<br />

muoverlo in modo asimmetrico e snodato, e ciò da solo era sufficiente a fare<br />

spettacolo, a creare un personaggio, come il regista Federico Fellini affermò:<br />

Mi sarebbe piaciuto […] dedicargli […] un ritratto in movimento, che rendesse conto di come era, come<br />

era fatto dentro e fuori, quale era la sua struttura ossea, quali erano gli snodamenti più sensibili, le giunture<br />

più resistenti e mobili. 51<br />

Dopodichè, arrivava il suo volto, che sembra modellarsi come creta, ma in modo<br />

spontaneo e unico, come risultato sia di continuo allenamento che della sua naturale<br />

irregolarità dei lineamenti. Possiamo dunque affermare che <strong>Totò</strong> fosse la maschera<br />

di se stesso. Egli si presentava già come una maschera, non poteva e non aveva<br />

bisogno di interpretare un altro personaggio. Verrebbe da ribadire, a questo punto,<br />

51 R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, p. 57<br />

119


52 Ibid., p. 59<br />

che, invece, <strong>Totò</strong> fosse il nuovo Pulcinella. Tuttavia, nel momento in cui pensiamo<br />

al personaggio di Pulcinella come a un archetipo della maschera, ci accorgiamo che<br />

ciò non è possibile. Se così fosse, significherebbe che <strong>Totò</strong> avrebbe preso le mosse<br />

da Pulcinella, avrebbe tentato di imitarlo, di riprodurlo. Tutto ciò però non si è<br />

verificato. <strong>Totò</strong> non aveva mai calcato le scene nei panni dell’antica maschera<br />

napoletana, sebbene avesse vestito nei lontani anni Venti, ai suoi esordi, quelli di<br />

Mamo, la spalla di Pulcinella, avendo quindi modo di conoscerla e osservarla a<br />

fondo. Pulcinella costituisce dunque, come abbiamo visto non imitazione, ma parte<br />

del bagaglio dell’esperienza giovanile di <strong>Totò</strong>-maschera, l’essenza del suo essere<br />

napoletano e la quintessenza della fame, della “miseria e nobiltà” di ogni<br />

napoletano, come della sua lotta per l’esistenza. La prima “<strong>Totò</strong>-abilità” sta dunque<br />

nell’osservare. È da qui che scaturiscono le interpretazioni dei suoi personaggi.<br />

Ogni incontro con una persona è un coglierne i suoi tratti salienti, i suoi difetti.<br />

Lungi dal diventare il dipinto di stereotipi, le sue interpretazioni diventano la<br />

macchietta spiritosa e buffonesca di persone in carne ed ossa, prese dal suo<br />

personale osservatorio, e arricchite dalla sua mimica facciale, da quel suo modo,<br />

dipinto dal giornalista Sandro De Feo, di<br />

portare le braccia in su, piegando le mani verso gli omeri come una danzatrice sacra indiana, e poi<br />

cominciare a buttare il torso nella direzione opposta dell’addome e la testa in tutt’altra direzione rispetto al<br />

torso, e gli occhi storcersi nella direzione contraria a quella del capo, e la bazza per conto suo rispetto alla<br />

bocca, e il pomo d’Adamo correre in giro vertiginosamente facendo correre la farfallina nera della cravatta. 52<br />

<strong>Totò</strong> è dunque<br />

120


la più perfetta realizzazione della supermarionetta teorizzata da Gordon Craig 53 : non solo il corpo e il<br />

volto sono del tutto snodabili e si muovono come se le parti fossero indipendenti tra loro, ma in molti casi<br />

non sembra esservi connessione tra le forme sintattiche elementari del discorso, che spesso faticano a<br />

costruire un senso ordinato tra loro. 54<br />

<strong>Totò</strong>, infine, definiva il suo rapporto con la maschera di Pulcinella senza<br />

attribuirle alcuna responsabilità: «Cugino di Pulcinella, nipote di Arlecchino? Certo<br />

<strong>Totò</strong> è un buffone serissimo, il quale come tutti i buffoni che si rispettano maschera<br />

la ragione da follia e la follia da ragione». 55<br />

<strong>Il</strong> Principe certamente ammetteva di avere molto ammirato il comico napoletano<br />

Gustavo De Marco, noto soprattutto per la sua mimica corporea e per la figura<br />

dell’uomo-marionetta, riproposta da <strong>Totò</strong> stesso. Ma ciò non fa che continuare a<br />

rappresentare, esattamente come il Pulcinella o altre maschere tradizionali, parte del<br />

bagaglio e dell’esperienza dell’uomo-artista, senza intaccare la sua esclusività. In<br />

realtà, dunque,<br />

<strong>Totò</strong> è venuto al mondo originale, non mi ha ispirato nessuno. L’unico comico che ammirassi, ai miei<br />

tempi di ragazzo, si chiamava Gustavo De Marco, un macchiettista. <strong>Il</strong> frac di <strong>Totò</strong> era di mio nonno, i calzoni<br />

a mezz’asta erano di mio padre. Ero costretto a tirarli su per camminare. <strong>Il</strong> nome <strong>Totò</strong> è il diminutivo<br />

napoletano del mio nome, Antonio. Aggiunsi una bombetta e fu fatta. Non c’era alcun riferimento, alcuna<br />

ispirazione […]. Un personaggio aggressivo, bugiardo, cocciuto e ipocrita: questo è <strong>Totò</strong> […].<br />

53 Edward Henry Gordon Craig (1872 – 1966), attore e regista teatrale, scenografo e produttore inglese. Teorizzatore del<br />

concetto di “supermarionetta”, vista come corpo separato dalla sua mente, ai cui voleri essa è assoggettata. La scena<br />

teatrale era scenograficamente ridotta agli elementi davvero essenziali, l’attore doveva comparire con il volto<br />

coperto da una maschera e essere totalmente soggetto nelle azioni a quanto richiedeva il regista.<br />

54 G. P. BRUNETTA, <strong>Il</strong> cinema neorealista italiano da Roma città aperta a I soliti ignoti, Bari, Laterza, 2009<br />

55 R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, p. 2<br />

121


L’immaginario cinematografico di <strong>Totò</strong> traeva origine dal film muto, proprio<br />

perché la sua forza risiedeva, come abbiamo visto, nella mimica facciale e corporea<br />

e la sua idea era, infatti, che «il vero attore […] per esprimersi non ha bisogno di<br />

parole». 56 In questo senso, possiamo dunque raffrontare la figura di <strong>Totò</strong> con quella<br />

di Charlie Chaplin/Charlot, come il regista Mario Monicelli, che aveva diretto il<br />

Principe in vari film, dichiarò:<br />

<strong>Totò</strong> era una maschera ed è paragonabile solo ai grandi come Chaplin, Keaton e i fratelli Marx. Ma noi<br />

che l’abbiamo diretto gli affidavamo parti troppo “umane” e lui finiva così per perdere inevitabilmente quella<br />

comicità surreale e astratta che era riuscito a sprigionare al massimo quando faceva la rivista e<br />

l’avanspettacolo. 57<br />

Da una parte l’attore, perfettamente conscio della similitudine esistente tra<br />

Charlot e lui, aveva affermato: «Credetemi, […] mai nella vita ho avuto l’ardire di<br />

paragonarmi a quel geniale di Charlie Chaplin» 58 , sottintendendo forse<br />

all’impossibilità di raggiungere un simile successo mondiale o una forma di<br />

comicità universalmente riconosciuta o, più probabilmente, semmai fintamente<br />

schernendosi e riconoscendosi una tale grandezza. D’altro canto, infatti, risulta<br />

normale citare il personaggio di Charlot e avvicinarlo a se stesso senza esserci nulla<br />

di ardito, perché <strong>Totò</strong>, nella sua arte comica, possedeva una sua propria genialità,<br />

che si esprimeva attraverso i suoi film, le “totoate”, ma che per lui rappresentavano<br />

la vita, «che è un misto di comicità e di tragedia, e quindi non capisco perché dovrei<br />

convertirmi da un genere all’altro. La vita non si sceglie, si accetta» 59 . Rendere<br />

56<br />

TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, New Compton Libri, 1993, p. 119<br />

57<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/<strong>Totò</strong><br />

58<br />

R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, p. 13<br />

59<br />

TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, New Compton Libri, 1993, p 118<br />

122


universale e globalmente riconosciuto <strong>Totò</strong> avrebbe significato svincolarlo dalle sue<br />

“totoate” e, conseguentemente, privarlo della sua essenza. Sta dunque alla critica<br />

riconoscere in lui la grandezza trovandola in ciò che semplicemente <strong>Totò</strong> è. E in<br />

questo egli non risultava dunque essere così diverso da Charlie Chaplin/Charlot:<br />

La comicità si avvale spesso di accessori, indispensabili per creare un personaggio. Charlot aveva i<br />

baffetti, il bastoncino di bambù, i calzoni sformati. Per me è molto importante la bombetta. Perché ho scelto<br />

proprio questo tipo di cappello? Perché sotto la bombetta ci poteva stare solo la faccia di <strong>Totò</strong>. 60<br />

Inoltre, nel 1933 fu il Principe stesso a siglare una commedia teatrale, <strong>Totò</strong>,<br />

Charlot per amore. A questo punto entriamo allora nel vivo della similitudine tra<br />

<strong>Totò</strong> e Charlie Chaplin. E facendolo, scopriremo che molto di più di quanto si pensi<br />

accomuna i due personaggi-maschera. La storia dell’uomo per entrambi fu<br />

caratterizzata da un’infanzia vissuta in povertà e solitudine, una giovinezza già<br />

costellata di successi ma anche di difficoltà, passioni travolgenti con donne<br />

bellissime (<strong>Totò</strong> era considerato uno sciupafemmine, ebbe nell’arco della sua vita<br />

tre legami sentimentali importanti: una relazione breve ma intensa con Liliana<br />

Castagnola, un matrimonio con divorzio con Diana Rogliani, e, infine, l’unione che<br />

lo accompagnerà fino alla morte, quella con Franca Faldini, donna che non sposerà,<br />

ma che di fatto sarà per lui come una moglie; 61 Chaplin «quattro matrimoni, alcune<br />

amanti, molte avventure di una notte, come si conviene a un grande divo del<br />

cinema» 62 ), una famiglia di origine connotata dalla precarietà e dall’assenza (per<br />

<strong>Totò</strong> una madre sedicenne instabile che poco si prendeva cura di lui, ma che in<br />

60 Ibidem, p. 118<br />

61 Cfr. supra, cap. 4, pp. 68<br />

62 D. ROBINSON, Chaplin, un uomo chiamato Charlot, trad. it. di C. Montrésor, Universale Electa Gallimard, p. 125<br />

123


compenso lo condizionò per tutta la vita e un padre che non lo riconobbe se non in<br />

età adulta 63 ; per Chaplin una madre con problemi mentali e un padre alcolista che<br />

morì quando egli era ancora bambino; inoltre una adolescenza trascorsa tra case di<br />

carità, orfanotrofi e istituti d’accoglienza), poi un carattere in entrambi i casi<br />

affermato nel doppio, nella dualità del binomio attore/personaggio: un individuo<br />

schivo e affatto incline allo scherzo nella realtà, un essere comico e divertente sulla<br />

scena. Sia <strong>Totò</strong> che Chaplin erano definiti dalla loro fisicità minuta ma dinoccolata e<br />

ovunque riconoscibile, proprio “marchio di fabbrica”. Nel primo caso vi era la<br />

componente marionettistica unita alla gestualità napoletana: «Non sono un<br />

parlatore, io quando mi devo esprimere mi esprimo a mosse, da buon napoletano» 64 ,<br />

nel secondo tipici erano la camminata e il fare roteare il bastone di bambù,<br />

scatenando come risultato un’orda di imitatori entusiasti. L’attore inglese Lupino<br />

Lane aveva dedicato a Charlot la canzone That Charlie Chaplin Walk (Quella<br />

camminata di Charlot): «[…] Shuffling along, they’re acting like a rabbit, […] First<br />

they stumble over both their feet, swing their sticks then look up and down the<br />

street, […] Ev’rybody does that Charlie Chaplin Walk!», ovvero: «[…] Con<br />

quell’andatura dinoccolata, si muovono come tanti conigli, […] Prima inciampano<br />

incerti sui propri passi, fanno dondolare il bastone e guardano su e giù dalla strada,<br />

[…] Tutti camminano come Charlot!» 65 . Entrambi avevano impersonato Adolf<br />

Hiltler. <strong>Totò</strong> non era affatto interessato alle vicende politiche in quanto era convinto<br />

che «l’impegno ammazza la comicità. Se una battuta ha un doppio o triplo<br />

significato perde la spontaneità. <strong>Il</strong> pubblico per capirla è costretto a riflettere e<br />

63 Cfr. infra, Conclusione, p. 127<br />

64 S. PEDALINO, <strong>Totò</strong> e la maschera, Firenze, Firenze Atheneum, 2007, p. 19<br />

65 D. ROBINSON, Chaplin. La vita e l’arte (1985), trad. it. di D. Fink, Roma, Biblioteca La Repubblica su licenza di<br />

Marsilio Editori, 2006, p. 184-185<br />

124


così… non si diverte più» 66 . Nei suoi film era in realtà presente l’impegno,<br />

attraverso certi riferimenti all’attualità, le difficoltà, soprattutto di natura socio-<br />

economica dei singoli personaggi, ma ciò non sviliva mai, né andava contro la<br />

comicità e il puro intento di divertire. Inoltre, la censura non avrebbe comunque<br />

permesso di affrontare direttamente argomenti legati alla politica o ad aspetti<br />

sociali. Ma nel 1944, Roma liberata, egli, nella rivista di spettacolo Con un palmo di<br />

naso, interpretò liberamente Benito Mussolini e Adolf Hitler e a pochi anni dalla<br />

sua morte, recitò, divisa teutonica e baffetti hitleriani, nei panni del generale fascista<br />

Antonio Scipione in Diabolicus. <strong>Il</strong> medesimo intento satirico, sebbene di ben più<br />

ampia portata e rilevanza, ebbe Charlie Chaplin interpretando nel film The great<br />

dictator (<strong>Il</strong> grande dittatore) il ruolo di Adenoid Hynkel, dittatore della Tomania,<br />

evidente richiamo a Adolf Hitler e alla Germania nazista. Tuttavia, i riferimenti<br />

politici o legati all’attualità in tal caso erano decisamente più ostentati e<br />

provocatori, anche a causa delle presunte, ma non vere, origini semite dell’attore.<br />

Anzi, tale pellicola era in realtà una aperta dichiarazione di guerra<br />

all’antisemitismo: «Ho fatto questo film per tutti gli ebrei del mondo» 67 .<br />

Continuando la serie delle similitudini tra <strong>Totò</strong> e Charlie Chaplin, entrambi si<br />

accostarono a Henri Landru 68 . <strong>Totò</strong>, nel suo <strong>Totò</strong> e le donne, rivolgeva i suoi<br />

discorsi misogini e segreti in soffitta al pluriomicida di donne francese, Charlie<br />

Chaplin lo interpreta in una pellicola del 1947, Monsieur Verdoux, parodiando<br />

dunque il suo nome.<br />

Nel 1937, <strong>Totò</strong> si presentò al suo pubblico con il primo film, Fermo con le mani.<br />

66 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, New Compton Libri, 1993, p. 118<br />

67 D. ROBINSON, Chaplin. La vita e l’arte (1985), trad. it. di D. Fink, Roma, Biblioteca La Repubblica su licenza di<br />

Marsilio Editore, 2006, p. 187<br />

68 Cfr. supra, cap. 2 , p. 46<br />

125


L’idea era quella di dare vita a un personaggio simile a Charlot, proprio con il fine<br />

di crearne la versione italiana. Vennero valutati l’aspetto fisico e il modo di<br />

muoversi del Principe, che, pur in modo differente, caratterizzavano sia lui che<br />

l’attore inglese, e anche il nome d’arte dei due personaggi, costituiti in entrambi i<br />

casi da una parola tronca, bisillaba e terminante per -o: To-tò/Char-lot.<br />

L’esperimento era peraltro interessante anche in virtù del fatto che ormai il cinema<br />

muto stava scomparendo e Chaplin, incapace di usare la propria voce per recitare,<br />

stava diminuendo la propria buona sorte. D’altro canto, <strong>Totò</strong>, non provenendo dal<br />

cinema muto, ma direttamente dal teatro, era perfettamente a suo agio nel ruolo<br />

assegnatogli, e dimostrava abilità in ogni occasione, utilizzando di volta in volta<br />

voce, mimica facciale e gestualità corporea. Passando infine a osservare le<br />

rispettive date di nascita e di morte, troviamo altri interessanti punti in comune tra i<br />

due artisti. Tali elementi vengono analizzati sulla base di ciò che recenti studi sulla<br />

psicogenealogia hanno stabilito. È possibile infatti, sulla base di questa scienza,<br />

trovare connessioni e legami tra persone di una stessa famiglia a livello psicologico,<br />

con lo scopo di andare a eliminare nelle generazioni successive riparazioni di<br />

sofferenze del passato effettuate secondo principi sbagliati e inadeguati. Tra il<br />

Principe e Charlot non vi era alcun legame parentale, ma viste le evidenti<br />

similitudini tra i due personaggi, è possibile notare altre somiglianze anche in base<br />

ai dati anagrafici. <strong>Totò</strong> era nato nel 1898, Charlie Chaplin nel 1889: osserviamo<br />

dunque un “gioco ottico” di scambio di cifre tra l’otto e il nove, e quasi la stessa<br />

differenza di anni tra le loro date di morte: <strong>Totò</strong> morì nel 1967, Charlie Chaplin nel<br />

1977. Una decina d’anni tra i due eventi in entrambi i casi, dunque. E, inoltre, uno<br />

scambio di posizioni lungo l’asse del tempo, una sorta di “chiasmo cronologico”:<br />

126


<strong>Totò</strong> era nato dopo e morto prima rispetto a Charlie Chaplin, nato invece prima e<br />

morto dopo. Passando al giorno e al mese, <strong>Totò</strong> era morto il 15 aprile, Chaplin era<br />

morto il 16 aprile.<br />

Entrambi comici, <strong>Totò</strong> definiva la comicità come «rappresentazione, filtrata<br />

attraverso la propria sensibilità, degli uomini nei loro difetti, nelle loro<br />

manchevolezze, nelle loro vanaglorie» 69 . Per Charlie Chaplin essa era il risultato<br />

delle incoerenze dell’uomo, e, quindi, in quanto tali, riconducibili sia ai “difetti” che<br />

alle “manchevolezze” di <strong>Totò</strong>.<br />

Restando sul piano del confronto tra i due personaggi ma andando a analizzarne i<br />

invece i tratti distintivi, osserviamo che, pur entrambi avendo origini umili, Charlie<br />

Chaplin era, rispetto al Principe, già figlio d’arte. <strong>Il</strong> padre, Charles Chaplin Senior<br />

era un cantante e la madre, Hannah Hill, nome d’arte Lillie Harley, era attrice di<br />

music hall. L’ingresso nel mondo della recitazione avvenne, dunque, in tal caso in<br />

modo diretto e consequenziale. <strong>Totò</strong> era invece figlio d’arte di se stesso.<br />

Riconosciuto dal padre, il marchese Giuseppe de Curtis, all’età di trent’anni, a<br />

quell’epoca egli aveva già intrapreso la carriera di attore. Nel 1928, anno di<br />

riconoscimento paterno, il Principe aveva riscosso molti successi teatrali, era già un<br />

volto popolare e conosciuto e prossimo era il suo ingresso nel mondo della<br />

celluloide. La madre, Anna Clemente, era una donna che viveva di stenti e che<br />

sbarcava il lunario facendo la cambiavalute alle porte del Teatro dell’Opera di<br />

Napoli. Per questo motivo era infatti soprannominata “Nannina ‘a cagnacavalli”;<br />

talvolta si adattava a fare la domestica e la sciantosa. In una simile atmosfera <strong>Totò</strong><br />

aveva certamente appreso l’arte di arrangiarsi, e la sua arte recitativa si era quindi<br />

69 S. PEDALINO, <strong>Totò</strong> e la maschera, Firenze, Firenze Atheneum, 2007, p. 88<br />

127


facilmente sviluppata non solo per doti naturali, ma anche a causa del particolare<br />

contesto geografico, abitativo e familiare. La città di Napoli era già di per sé<br />

naturalmente adatta a una vita da artista, la sua tradizione e la sua creatività erano<br />

gli elementi fondamentali per il risveglio del talento artistico nell’animo dei suoi<br />

abitanti, e <strong>Totò</strong>, nato nel rione Sanità, certo non era escluso da ciò. Sotto il profilo<br />

familiare, l’assenza di un padre che l’aveva riconosciuto troppo in là nel tempo, e<br />

quella di una madre già vissuta ma anagraficamente ancora ragazzina, che l’aveva<br />

dato alla luce all’età di sedici anni, avevano favorito nell’animo di Antonio de<br />

Curtis la nascita di una sorta di “genitore surrogato”, attraverso il meccanismo<br />

chiamato “immedesimazione”. Egli, in giovanissima età, amava inventare dei<br />

personaggi travestendosi con gli indumenti e le calzature materni, quasi a voler<br />

riprodurre un adulto in se stesso, quell’adulto che ancora non era ma che era<br />

obbligato a essere a causa della condizione di disagio in cui viveva, o addirittura<br />

una figura genitoriale che a lui era sempre e da sempre mancata.<br />

Artisticamente, <strong>Totò</strong> e Charlot si distinguevano inoltre anche per il canale<br />

espressivo della loro arte recitativa. Sebbene entrambi avessero intrapreso la loro<br />

carriera con il teatro, il loro legame con questo mondo aveva connotazioni<br />

profondamente diverse. Dopo gli esordi, entrambi vennero catapultati nel mondo<br />

del cinema, indipendentemente dai loro rispettivi desideri. Ormai il mondo<br />

dell’avanspettacolo era destinato a una morte progressiva a favore della celluloide.<br />

Da un lato, però se per Charlie Chaplin il cinema rappresentava forse uno sbocco<br />

più naturale e più sintonico alla sua indole e per contro il teatro non sembrava<br />

mancargli, per <strong>Totò</strong> invece la grande avventura cinematografica appariva più una<br />

strategia commerciale dei grandi produttori e registi, a detrimento della sua vera e<br />

128


unica passione, il teatro:<br />

Ormai <strong>Totò</strong> era completamente risucchiato dal cinema e non era più in grado di dedicarsi al teatro<br />

nemmeno per breve tempo. Girava un film dopo l’altro, senza alcuna pausa, talora passando da un set<br />

all’altro nello stesso giorno. Nel 1950 uscirono otto film, con una media di uno ogni quarantacinque giorni e<br />

così avverrà, più o meno negli anni successivi. Pur rimanendogli fedele fino alla morte, l’attore, doveva<br />

dunque abbandonare l’amato palcoscenico, sia pure con rimpianto e dolore. 70<br />

Anche Mario Monicelli, che l’aveva diretto varie volte e che ben lo conosceva,<br />

sapeva ciò che il teatro rappresentasse per <strong>Totò</strong> e che il cinema non avrebbe mai<br />

potuto sostituirlo, nonostante tutti i film interpretati (in totale centoquattordici,<br />

secondo il biografo Vittorio Paliotti, tra produzioni cinematografiche, sia dirette che<br />

antologiche, e televisive):<br />

La grande passione, la grande nostalgia di <strong>Totò</strong> era il teatro, era il contatto con il pubblico, era recitare la<br />

sera su un palcoscenico. Verso il cinema aveva un atteggiamento non dico di disprezzo, questo no, ma<br />

comunque di disinteresse. Lo ha fatto per venti anni e ha fatto soltanto quello, ma lo ha fatto per ragioni<br />

economiche, però, il suo amore restava il teatro. 71<br />

E nel 1965, a due anni dalla morte, sul finire dunque della sua carriera, è l’artista<br />

napoletano stesso a rilasciare una dichiarazione molto critica e severa sui suoi film,<br />

decisamente senza pietà alcuna, durante una intervista al giornalista Maurizio<br />

Liverani per il settimanale “Tempo”: «Su centoquattro film interpretati, di buoni ne<br />

ho fatti quattro. Gli altri cento sono zavorra, ma hanno fatto tanti soldi. Perciò<br />

quando un film è una schifezza si chiama <strong>Totò</strong>, e quello deve, povero disgraziato,<br />

70 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 70<br />

71 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 275<br />

129


salvare la baracca». 72 Anche Franca Faldini, ultima compagna di vita del Principe,<br />

in merito dichiarò dopo la sua morte:<br />

<strong>Totò</strong> non credeva nel cinema, non gli dava peso, non si è mai battuto per avere qualcosa d meglio di<br />

quello che gli veniva offerto. Nel periodo in cui lavorò con Ponti e De Laurentiis faceva anche tre, quattro<br />

film all’anno, gli portavano alcuni soggettini abbastanza squallidi tra i quali sceglieva il meno peggio e poi si<br />

incontrava con gli sceneggiatori, faceva delle riunioni con loro. Ma in fase di sceneggiatura non dava un<br />

grande apporto, spesso restavano cose abbastanza piatte. Solo sul set gli si scatenava l’inventiva perché la<br />

presenza dei macchinisti, degli elettricisti, dei tecnici lo stimolava, gli sembrava già di avere davvero un<br />

pubblico, cominciava ad aggiungere, a inventare, lasciava perdere le battute previste nel copione per creare<br />

delle cose nuove, che qualche volta potevano anche essere le sole cose buone del film. 73<br />

<strong>Totò</strong>, dunque, tendeva a ricreare il teatro pur recitando per il cinema, poiché era<br />

davvero quella la sua unica e vera passione.<br />

Charlie Chaplin era un attore di music hall, caratterizzatosi inizialmente come<br />

mimo e sand dancer, e in seguito come attore di pantomima. <strong>Il</strong> suo rapporto con il<br />

teatro non era così viscerale come quello che aveva <strong>Totò</strong>. Probabilmente, ciò era<br />

dovuto a una sua personale incapacità o lacuna:<br />

In teatro, per certi aspetti, ero un ottimo comico, in spettacoli e cose del genere. Ma mi mancava la<br />

capacità di essere accattivante come dovrebbe essere un comico. Parlare con la gente, no, queste cose non le<br />

avrei mai sapute fare. Ero troppo artista per questo genere di concessioni. La mia arte è un po’ severa, è<br />

severa 74 .<br />

In tournée nel 1907, aveva fallito clamorosamente, «fra i fischi e i lanci di bucce<br />

72<br />

V. PATTAVINA, Non Principe, ma Imperatore. Storia di <strong>Totò</strong>, dalla polvere del palcoscenico alle luci del cinema,<br />

Torino, Einaudi, 2008, p. 3<br />

73<br />

O. CALDIRON, <strong>Totò</strong>, Roma, Gremese Editore, 2000, p. 55<br />

74<br />

D. ROBINSON, Chaplin. La vita e l’arte (1985), trad. it. di D. Fink, Roma, Biblioteca La Repubblica su licenza di<br />

Marsilio Editore, 2006, p. 94<br />

130


d’arancia. Quest’ esperienza da incubo contribuì indubbiamente a instillare in lui la<br />

decisione di non recitare mai più se possibile di fronte a un pubblico in carne e<br />

ossa» 75 . Alcuni sostenevano peraltro che essendo un mimo non gli erano congeniali<br />

ruoli parlati, e, infatti, anche debuttando nel mondo del cinema nel 1913 sotto<br />

l’egida della casa cinematografica Keystone Film, diventò una star del muto, e con<br />

l’avvento del sonoro il suo successo inevitabilmente iniziò a crollare.<br />

Per Antonio de Curtis il teatro era invece una vocazione. Era la sua arte di<br />

mimetismo, rappresentava l’emersione di <strong>Totò</strong>. In risposta alla madre che lo voleva<br />

seminarista suo malgrado, pur riconoscendo che «Manco ‘o prevete sape fà» 76 , egli<br />

rispose: «Di preti ce ne stanno già tanti e non è che la Chiesa fallisce per colpa mia.<br />

Io te l’aggio sempre detto ca me piace ‘o teatro» 77 . Ciò rispecchiava la profonda<br />

napoletanità di <strong>Totò</strong>, abituato a vivere per le strade, tra i vicoli e in mezzo alla<br />

gente, ossia nel teatro della vita di Napoli. Inevitabile, dunque, il sentire, il<br />

percepire il tipico addore ‘e teatro, ovvero l’odore del teatro. E proprio nel mondo<br />

del teatro, sarà l’essenza marionettistica del Principe a dargli successo e popolarità e<br />

a favorirlo. Ma, in fondo, era la natura che in ciò già lo favoriva: essendo egli<br />

maschera di se stesso, non aveva necessità di inventare un vero e proprio<br />

personaggio, perché essa già glielo aveva offerto, donandogli quella particolare<br />

fisionomia, quella capacità espressiva modellante, che, nella sua imperfezione, si<br />

esprimeva per conto proprio, senza l’intervento del trucco ritoccante o camuffante, a<br />

differenza di altri artisti votati alla comicità, quale appunto Charlie Chaplin, la cui<br />

forza espressiva risiedeva anche nel volto truccato.<br />

Al di là delle analogie e delle differenze tra i due artisti, sicuramente, però, il<br />

75 Ibidem<br />

76 TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma, New Compton Libri, 1993, p. 23<br />

77 Ibidem<br />

131


traino della loro attività artistica consisteva nel rappresentare la condizione<br />

economica, sociale, storica delle classi sociali disagiate in antitesi all’epoca di<br />

trasformazione e di progresso che la società occidentale viveva a quei tempi. La<br />

loro arte dava voce all’uomo emarginato, come il Felice Sciosciammocca di Miseria<br />

e nobiltà e il <strong>Totò</strong> Esposito di Siamo uomini o caporali per <strong>Totò</strong> o l’operaio di<br />

Modern Times (Tempi moderni) e il vagabondo di City Lights (Luci della città) per<br />

Charlie Chaplin.<br />

Lo scrittore e filosofo napoletano Luciano De Crescenzo, profondo conoscitore<br />

di <strong>Totò</strong>, a proposito del quale scrisse la prefazione alla prima raccolta di poesie<br />

scritte dal Principe e pubblicate nel 1992 dalla casa editrice Gremese, disse che,<br />

tuttavia, il confronto tra l’artista partenopeo e Charlie Chaplin è di fatto, invece,<br />

improponibile. Se apparentemente, da una parte, sussistono, come abbiamo visto,<br />

moltissime analogie, è anche pur vero, secondo De Crescenzo, il quale aveva<br />

ripreso in merito il pensiero del critico cinematografico Claudio Fava, che<br />

Chaplin amava il cinema muto. <strong>Il</strong> sonoro lo fece dopo molti tentennamenti e, anche quando lo fece, si<br />

affidò più alla comicità dell’immagine che non a quella della parola. <strong>Totò</strong>, invece, era un comico di<br />

linguaggio, e come tale non fu mai esportabile. 78<br />

In un’epoca, quale quella compresa tra gli anni Quaranta e Sessanta, in cui<br />

entrava prepotentemente nella cultura italiana il mondo della commedia<br />

cinematografica, l’attore-maschera <strong>Totò</strong> ne diventò perfetta espressione come sorta<br />

di uomo-laboratorio produci-personaggi, senza subire tuttavia l’alienazione dalla<br />

sua più autentica natura. Per Mario Monicelli, che l’aveva diretto varie volte, la sua<br />

78 TOTÒ, A livella e Poesie d’amore. Tutte le poesie napoletane del grande Antonio de Curtis, Roma, Newton<br />

Compton, 1995<br />

132


grandezza soprattutto in qualità di comico veniva tuttavia in realtà svilita<br />

interpretando commedie all’italiana:<br />

<strong>Totò</strong> era una maschera ed è paragonabile solo ai grandi come Chaplin, Keaton e i fratelli Marx. Ma noi<br />

che l’abbiamo diretto gli affidavamo parti troppo “umane” e lui finiva così per perdere inevitabilmente quella<br />

comicità surreale e astratta che era riuscita a sprigionare al massimo quando faceva la rivista e<br />

l’avanspettacolo. 79<br />

Egli stesso però affermò anche che «L’umorista è uno che vede nelle vicende<br />

quotidiane, nei grandi momenti storici e sociali, il lato buffo, il lato contrastante, e<br />

lo mette in evidenza» 80 . <strong>Totò</strong> era, in quanto comico, un umorista. Umorista anche di<br />

se stesso, perché già nato maschera. Dunque egli riusciva a recuperare se stesso pur<br />

interpretando di volta in volta ruoli differenti. Secondo le parole dell’attore teatrale<br />

e drammaturgo Dario Fo, «<strong>Totò</strong> è […] una Maschera nell’accezione piena del<br />

termine. <strong>Il</strong> travestimento non serve a nasconderlo ma ogni volta a svelarlo<br />

meglio» 81 .<br />

Come e in quale occasione <strong>Totò</strong> nacque essendo già nato, il Principe Antonio de<br />

Curtis si rese conto all’istante di possedere «[…] proprio la faccia che serviva a<br />

lui» 82 . Correva l’anno 1937 e, sul soggetto scritto dal giornalista e drammaturgo<br />

Guglielmo Giannini 83 , venne alla luce la pellicola Fermo con le mani. Si trattava di<br />

una commedia, primo film in assoluto interpretato da <strong>Totò</strong>. La casa cinematografica<br />

produttrice, la Titanus, era interessata a un nuovo volto caricaturale, che potesse dar<br />

vita a una sorta di Charlie Chaplin in versione italiana. Tale film costituiva, del<br />

79 www.cinemaepsicoanalisi.com/monicelli_mario_intervista.htlm<br />

80 http://it.wikiquote. org/wiki/Mario_Monicelli<br />

81 R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998, p. 25<br />

82 Ibid., p.26<br />

83 Cfr. supra, cap. 1 p. 44<br />

133


esto, un richiamo, se non altro per il tentativo di creare un’opera cinematografica<br />

ispirata alle produzioni americane, a quello interpretato nel 1921 dall’attore inglese,<br />

The Kid (<strong>Il</strong> monello). <strong>Il</strong> regista di Fermo con le mani proveniva inoltre dal cinema<br />

muto. Tuttavia, nonostante gli sforzi per produrre una pellicola che richiamasse la<br />

cinematografica statunitense, l’esperimento non riuscì fino in fondo. Se da un lato la<br />

trama era apprezzabile, essa presentava varie incoerenze e coincidenze di<br />

avvenimenti troppo frequenti per aderire perfettamente alla realtà. Rispetto<br />

all’universo chapliniano di The Kid , la vicenda si concludeva con un lieto fine, non<br />

vi era dunque una corrispondenza totale al modello d’origine. L’elemento che se ne<br />

discostava maggiormente era, però, con certezza, lo stile recitativo di <strong>Totò</strong>. Egli si<br />

presentava da subito nella sua napoletanità, impossibile dunque per questo imitare<br />

altri modelli o essere imitato, e, certamente, per la stessa ragione era molto lontano<br />

dal tipo americano: «[…]un tipo comico diverso dagli altri esistenti nella<br />

cinematografia internazionale» 84 . Era evidente inoltre l’origine teatrale del<br />

personaggio, il suo legame con la commedia dell’arte, e il modo di esprimere la<br />

comicità, i movimenti del corpo erano un evidente richiamo a Gustavo De Marco 85 .<br />

All’uscita del film la critica appariva divisa, e per i puristi, come la rivista<br />

cinematografica “Bianco e nero”, il tentativo di imitazione delle produzioni<br />

americane era mal visto:<br />

Questo film non è americano ciononostante è bruttissimo. Ne prendano atto coloro che ci accusano di<br />

faziosità. Noi siamo irrimediabilmente faziosi verso tutti i film che rappresentano un attentato alla società<br />

artistica e morale del cinematografo. 86<br />

84 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 79<br />

85 Cfr. supra Conclusione, p. 121<br />

86 http://it.wikipedia.org/wiki/Fermo_con_le_mani<br />

134


Per altri, come “L’illustrazione italiana”, l’attenzione si spostava sulle capacità<br />

artistiche del protagonista, che risaltava in primo piano anche rispetto agli altri<br />

personaggi:<br />

Non mancate a Fermo con le mani, dove riappare Erszi Paal e dove si rivela <strong>Totò</strong>. Pare a me che la<br />

ballerina di Budapest non manchi, oltre che di vaghezza e di estro, di fotogenia: ma, soprattutto, subisce<br />

l'attrazione di <strong>Totò</strong> nella magrezza fantomatica e nella snodatura marionettistica di certi suoi passi di danza,<br />

dove il pallore e l'automatismo concorrono, insieme con la bravura, a una specie di pauroso incantamento, di<br />

allucinazione irresistibile. 87<br />

Anche “<strong>Il</strong> Giornale d’Italia” riconosceva il talento artistico di <strong>Totò</strong>,<br />

apprezzandolo a tal punto da ritenerlo sprecato per il ruolo appena interpretato,<br />

benché si trattasse del solo primo film, e, dunque, il percorso di attore<br />

cinematografico per il Principe dovesse ancora compiersi e potesse subire delle<br />

evoluzioni:<br />

Antonio de Curtis, in arte <strong>Totò</strong>, è un fantasista ricco di schietta comicità. Con le sue “macchiette” e con le<br />

sue battute a finta improvvisazione e soprattutto con la sua originale maschera di sicuro attor comico ha fatto<br />

la fortuna di tutte le riviste nelle quali ha preso parte. Eccolo, con questo filmetto, al suo debutto sullo<br />

schermo. Purtroppo le sue qualità non hanno potuto troppo brillare ché i pretesti comici e le trovate in questo<br />

raccontino cinematografico sono più vicini alla ribalta che allo schermo. Tuttavia il bravo <strong>Totò</strong> ha dato prova<br />

di saper affrontare con sicura spigliatezza la macchina da presa e chissà che un giorno non possa farci<br />

un’improvvisata degna della buona volontà che stavolta gli abbiamo indovinato in un film nel quale la vis<br />

comica è più nelle intenzioni che negli effetti. 88<br />

87 Ibidem<br />

88 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 80<br />

135


<strong>Il</strong> personaggio cinematografico di <strong>Totò</strong> nacque dunque con la Titanus. La casa<br />

produttrice, nata per opera di Gustavo Lombardo con il nome di “Lombardo Film”<br />

nel 1904 a Napoli e perciò per tradizioni vicina ai riferimenti culturali del Principe,<br />

avendo riconosciuto in questo personaggio una profonda e concreta similitudine con<br />

Charlot, aveva dato inizio a un futuro business non solo proprio, ma che farà la<br />

fortuna anche di altre case di produzione o distributrici che collaborarono con <strong>Totò</strong>.<br />

Fu Lombardo personalmente a riconoscere il talento del Principe e a volerlo come<br />

protagonista di Fermo con le mani, a cui seguì due anni più tardi Animali pazzi. A<br />

quel tempo, dopo avere superato la crisi economica che aveva investito anche il<br />

cinema in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, la scoperta di un<br />

personaggio come <strong>Totò</strong> si era rivelata un ottimo colpo d’occhio. Nel 1928, la<br />

Lombardo Film diventò Titanus e ebbe come logo lo scudo dai vertici superiori<br />

arricciati. Nonostante la casa produsse moltissimi film anche con altri attori<br />

importanti, dal Gattopardo di Luchino Visconti a L’armata Brancaleone di Mario<br />

Monicelli, e quindi rappresentò la cinematografia italiana almeno fino alla sua crisi<br />

degli anni Sessanta, come non legare, d’ora in avanti, tale simbolo al Principe?<br />

Eppure, nonostante la scoperta di <strong>Totò</strong>, la Titanus non produsse effettivamente che<br />

sei film interpretati da lui (Fermo con le mani, Animali pazzi, <strong>Totò</strong> lascia o<br />

raddoppia, Chi si ferma è perduto, <strong>Totò</strong> contro i quattro, Un sorriso, uno schiaffo,<br />

un bacio in bocca, film antologico del 1976 che raccoglie tutte le pellicole prodotte<br />

dalla Titanus fino al 1962). Ma il rapporto con il Principe fu così importante, che<br />

nel 2011, su regia di Giuseppe Tornatore, Guido Lombardo, nipote di Gustavo<br />

Lombardo e figlio di Goffredo Lombardo, produsse in memoria di suo padre il film<br />

documentario L’ultimo Gattopardo, con vari spezzoni di film e interviste e<br />

136


interventi dei maggiori artisti del cinema italiano, tra cui, per l’appunto, anche <strong>Totò</strong>.<br />

La maschera cinematografica dell’artista napoletano nata con la Titanus a poco a<br />

poco si evolse assumendo sempre più toni neorealisti. La sua comicità surrealista e<br />

marionettistica lasciò il posto al suo volto umano, per trattare, sempre velatamente e<br />

comicamente, problematiche sociali, storie di vita quotidiana. <strong>Il</strong> lancio definitivo di<br />

<strong>Totò</strong> come interprete neorealista avvenne con <strong>Totò</strong> cerca casa, pellicola del 1949<br />

diretta da Steno e Mario Monicelli, in cui si affronta il problema abitativo.<br />

Monicelli fu il primo regista, infatti, che si rese conto che «la vena che fosse da<br />

tirare fuori da lui (<strong>Totò</strong>) fosse quella neorealista» 89 . Da questo punto di vista,<br />

dunque, egli fu il regista che meglio l’aveva compreso e utilizzato, togliendogli<br />

quella apparente vena di superficialità tipica della maschera surrealista e, in qualità<br />

di maestro che ha saputo maggiormente dare voce alla commedia italiana, si può<br />

considerare anche come colui che in misura maggiore di altri registi, l’ha saputo<br />

valorizzare. L’arte di Monicelli, del resto, non consisteva soltanto nel dirigere<br />

grandi attori in grandi commedie, ma anche e soprattutto nell’intuire le loro<br />

potenzialità, facendoli passare dalla loro comicità iniziale al genere drammatico,<br />

esattamente come era avvenuto non solo con <strong>Totò</strong>, ma anche, ad esempio, con<br />

Alberto Sordi, il quale, dagli esordi comici e da ruoli di romano pigro e<br />

opportunista, subì una metamorfosi verso ruoli drammatici, come nel film Un<br />

borghese piccolo piccolo appunto per la regia di Monicelli.<br />

I film diretti dal regista toscano interpretati da <strong>Totò</strong> sono sette (<strong>Totò</strong> cerca casa,<br />

Guardie e ladri, <strong>Totò</strong> e i re di Roma, <strong>Totò</strong> e le donne, <strong>Totò</strong> e Carolina, I soliti ignoti,<br />

Risate di gioia), ma egli dichiarò che avrebbe sicuramente voluto realizzarne altri.<br />

89 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 275<br />

137


La collaborazione con l’attore era capitata in modo fortuito e senza alcuna<br />

intenzione, in realtà, di trasformarlo. Eppure la metamorfosi avvenne<br />

automaticamente e spontaneamente, proprio quando, alla prima pellicola girata<br />

insieme, <strong>Totò</strong> cerca casa, nacque il <strong>Totò</strong> neorealista. L’esperimento si ripeté con lo<br />

stesso successo, proprio perché si trattava di una novità. Mai nessuno prima d’allora<br />

l’aveva impiegato per film che dipingessero la quotidianità. Monicelli, del resto,<br />

non avrebbe potuto utilizzarlo diversamente. Egli era dell’idea che «Senza questi<br />

elementi, fame, morte, malattia e miseria noi non potremmo far ridere in Italia». 90<br />

Guardie e ladri è la produzione che marca definitivamente l’addio di <strong>Totò</strong> alla<br />

rivista e al mondo surrealista ed è anche per questo il film preferito da Monicelli,<br />

insieme a Risate di gioia. 91<br />

Degli otto film che abbiamo preso in considerazione per affrontare le quattro<br />

tematiche scelte per l’analisi di Antonio de Curtis-<strong>Totò</strong>, tre sono stati diretti da<br />

Monicelli (con Steno): Guardie e ladri, <strong>Totò</strong> e le donne, <strong>Totò</strong> e Carolina. La nostra<br />

analisi è iniziata circa un mese prima della morte del maestro, avvenuta il 29<br />

novembre 2010 per suicidio. L’episodio e la coincidenza dell’avvenimento ci ha<br />

colpito fortemente, anche per l’analogia del pensiero sulla morte tra i due uomini.<br />

Entrambi non ne sembravano spaventati, non erano rassegnati ma semplicemente la<br />

consideravano come parte stessa della vita e, forse, anche come unica risposta e<br />

soluzione al fine di non perdere o compromettere la propria dignità. La morte<br />

diventava quindi, per entrambi, una scelta. Per <strong>Totò</strong> era anche «una livella», ovvero,<br />

ciò che rendeva tutti uguali, senza differenze di classe o di condizione. E come <strong>Totò</strong><br />

recitava in Animali pazzi : «Mi suicido per non morire di fame» e in <strong>Totò</strong> all’Inferno<br />

90 http://it.wikiquote.org/wiki/Mario_Monicelli<br />

91 A. SETTUARIO, L’espressione triste che fa ridere. <strong>Totò</strong> e Monicelli, Napoli, Graus Editore, 2007, p. 14<br />

138


«Sono stufìo, sono stufìo, piuttosto che vivere così mi suicido» e come Antonio de<br />

Curtis cantava in una canzone da lui stesso scritta, dedicandola alla “nera Signora”,<br />

come egli aveva ribattezzato la morte:<br />

Ormai pe’ me il trapasso è ‘na pazziella; / è ‘nu passaggio dal sonoro al muto. / E quanno s’è stutata ‘a<br />

lampetella / significa ca l’opera è fernuta / e ‘o primm’attore s’è ghiuto a cuccà. 92<br />

allo stesso modo, Monicelli, da tempo malato di cancro e degente in ospedale,<br />

aveva dichiarato: «Non aspetterò la morte in un letto d’ospedale, con i parenti che<br />

mi portano la minestrina». 93<br />

Con Monicelli dunque era morto il <strong>Totò</strong> surreale in virtù di quello neorealista.<br />

Ma non definitivamente. Passeranno diversi anni, Pier Paolo Pasolini, accortosi<br />

della sua valenza culturale, lo scelse per la sua trilogia: Uccellacci e uccellini, La<br />

terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole. Si trattava degli ultimi film<br />

interpretati da <strong>Totò</strong>, a pochissima distanza dalla sua morte. Monicelli aveva<br />

dichiarato in merito:<br />

Fu Pasolini a riprendere di nuovo il suo personaggio surreale, nei suoi ultimi film. Pasolini s’innamorò di<br />

<strong>Totò</strong>, e fu uno dei pochissimi registi importati e di valore a occuparsi di lui, perché nessuno se n’era mai<br />

occupato. Lo usò su uno sfondo di transizione neorealista, ma lo prese nelle sue caratteristiche più surreali, e<br />

ne fece una figura diversa e piena di grazia. 94<br />

Pasolini era già affascinato da tempo dall’artista napoletano e già nel 1964 l’aveva<br />

pensato come interprete di un suo lavoro cinematografico, La (ri)cotta, il cui<br />

92 E. BISPURI, Vita di <strong>Totò</strong>, Roma, Gremese Editore, 2000, p. 264<br />

93 http://mariomonicelliit/biografia.html<br />

94 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 275<br />

139


soggetto era apparso sul giornale “L’Unità”. Con tale pubblicazione, risultava<br />

evidente il suo interesse per <strong>Totò</strong>, in quanto il personaggio principale della vicenda<br />

si chiamava Principe de Curtis. Nella realtà il film non venne mai prodotto, ma<br />

gettò le basi per la futura trilogia.<br />

Ciò che aveva colpito Pasolini di <strong>Totò</strong> era la sua napoletanità, intesa come<br />

appartenenza al sottoproletariato napoletano più genuino e semplice. Tale elemento<br />

era anche quello che, a suo giudizio, fino allora era stato soffocato dalla produzione<br />

incessante di film per il pubblico medio. <strong>Totò</strong>, interpretando ruoli da borghese,<br />

aveva perso o nascosto la sua naturale dolcezza in favore della malignità, del<br />

cinismo, del disincanto. Invece qui riacquistava il suo candore, il suo abito da<br />

marionetta e la sua napoletanità più verace. Non era più, dunque, l’uomo che<br />

parlando infarciva le sue frasi di termini o frasi complesse legate alla politica, alla<br />

burocrazia, all’arma. Parlava un misto di italiano e napoletano, perché, se per un<br />

verso non aveva dimenticato certamente le sue origini, non era mai stato né mai<br />

avrebbe potuto essere in futuro, neanche per Pasolini, un attore dialettale. Inoltre,<br />

egli possedeva una comicità tutta sua, o meglio, possedeva l’arte della vera<br />

comicità. <strong>Il</strong> comico era infatti per Pasolini non chi fa ridere, ma chi riesce a farlo<br />

con umanità, con tenerezza, suscitando commozione.<br />

Lo scrittore e regista bolognese non aveva dunque nessuna considerazione del<br />

<strong>Totò</strong> attore così come apparso nei suoi precedenti film. Per lui era interessante<br />

invece spogliarlo di quella patina di volgarità e finta cultura proletaria per fare<br />

riemergere il vero artista partenopeo da un lato, e dall’altro l’antica marionetta, la<br />

sua aria da pagliaccio surreale:<br />

140


<strong>Il</strong> recupero che viene fatto oggi di <strong>Totò</strong> mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso<br />

che quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni Cinquanta. Sono convinto che i<br />

film che ha fatto <strong>Totò</strong> durante gli anni Cinquanta sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua,<br />

perché in questo caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa, drastica, tra autore<br />

del film e attore. […] In realtà non c’è stato un caso <strong>Totò</strong> negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta <strong>Totò</strong> è<br />

stato uno dei tanti prodotti, una delle tante merci che si sono consumate quasi senza accorgersene, non è stato<br />

un caso di cultura. 95<br />

<strong>Totò</strong> non aveva alcuna familiarità con Pasolini e il suo genere cinematografico.<br />

Apparentemente sembrava che nulla li potesse accomunare o avvicinare neanche<br />

professionalmente, invece, nell’immediato e in modo spontaneo, una conoscenza<br />

superficiale di Pasolini, quale era quella di <strong>Totò</strong>, basata solo su critiche negative<br />

legata a scandali e questioni giudiziarie, si trasformò in un profondo rapporto di<br />

amicizia e soprattutto stima, per poi consolidarsi lungo le strade del cinema. <strong>Il</strong><br />

risultato fu un successo straordinario di critica per Uccellacci e uccellini, lavoro<br />

premiato con vari premi, quali il Nastro d’Argento, il Riconoscimento Speciale<br />

della Giuria del Festival di Cannes e il Globo d’Oro, nonostante non si trattasse più<br />

del <strong>Totò</strong> cui tutti erano abituati. Anzi, quel <strong>Totò</strong> non esisteva più.<br />

A questo punto, i progetti di Pasolini erano ben più ampi e si prospettavano<br />

nuove collaborazioni. Benché egli fosse un artista e un personaggio anticonformista<br />

e contestato, il fatto che <strong>Totò</strong> avesse interpretato dei suoi film con successo, fecero<br />

sì che il Principe fosse ricercato anche da altri registi, di genere totalmente diverso<br />

rispetto a quelli per cui aveva sempre lavorato, meno legati alla produzione<br />

cinematografica di massa, dunque considerati di nicchia e surrealisti o<br />

esistenzialisti: Federico Fellini, Giuseppe Patroni Griffi, Mauro Bolognini, Ugo<br />

95 F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987, p. 295<br />

141


Gregoretti, Nanni Loy.<br />

<strong>Totò</strong> era chiamato anche il “Principe della risata”, ma è evidente che tale<br />

definizione è parziale e si riferisce solo alla sua “prima carriera cinematografica”. In<br />

realtà, il suo modo di fare umorismo doveva ancora attendere l’incontro con<br />

Pasolini per essere davvero compreso e considerato nella sua interezza. Possiamo<br />

anche affermare, a tal punto, che definirlo “Principe della risata” sia limitante e<br />

limitativo. Con il suo modo di sentire il teatro e di trasporlo nel cinema, si trattasse<br />

di farlo comicamente o drammaticamente, surrealisticamente o neorealisticamente,<br />

ma sempre e comunque con passione e autenticità, possiamo pensare a <strong>Totò</strong> anche<br />

come il “Principe della settima arte”, cioè del teatro e del cinema. Scorrendo inoltre<br />

tutte le altre espressioni artistiche, scopriremo con stupore e incredulità, che questo<br />

omino così piccolo e esile, in realtà ha attraversato tutti i generi performativi: la<br />

musica, grazie alla composizione e interpretazione di varie canzoni, quali,<br />

ricordando la più celebre, Malafemmena, ma anche, tra le altre, ad esempio,<br />

Abbracciato cu te, Baciami, Core analfabbeta, sommando un totale di<br />

quarantacinque motivi; la poesia, grazie all’averne scritte sessantadue, tra cui la più<br />

famosa, ‘A livella; la danza, grazie al fatto di essere un attore completo, di usare il<br />

suo corpo in modo così flessuoso e sinuoso, di saperlo torcere e girare proprio come<br />

un ballerino nonché un contorsionista; il fumetto, non perché fosse un professionista<br />

di carta e matita, ma perché aveva in sé il dono di disegnare se stesso senza alcuno<br />

strumento e in più, certo, quel suo volto da caricatura di molte locandine e manifesti<br />

ispirò nel 1953 l’uscita di un vero e proprio fumetto, composto di dodici albi, editi<br />

dalla casa editrice Diana (Roma), in cui <strong>Totò</strong> parla in rima e porta sempre con sé<br />

legata al polso una forma di formaggio provolone che usa come arma di difesa ed è<br />

142


inoltre accompagnato dalla scimmia Pasqualina e dal pappagallo Cunegondo:<br />

In queste straordinarie storie comico-avventurose […] ho un sistema tutto mi per cavamela dai pasticci e<br />

mettere nei guai i miei avversarsi: uso l’astuzia invece della forza. […] La mia arma preferita sarà dunque<br />

una forma di provolone: solido, ben stagionato e resistente. Con un colpo di cacio provolone io risolvo<br />

qualsiasi situazione! 96<br />

Inoltre la radio, perché, pur non essendo un personaggio radiofonico, faceva e<br />

sapeva fare spettacolo anche solo con un microfono e utilizzando solo la sua voce<br />

(interviste radiofoniche del 1952 e del 1967); la televisione, poiché, grazie alle sue<br />

arte e presenza scenica, era infine divenuto anche personaggio televisivo: immediati<br />

risorgono a tal proposito da lontani ricordi nella nostra memoria le sue celeberrime<br />

apparizioni accanto a Mina nel 1965 nella trasmissione “Studio Uno”, dove<br />

all’improvviso «irrigidisce le gambe, erge il busto, gonfia il petto, allunga il collo,<br />

sgrana gli occhi e rimane immobile» 97 o ancora «ripercorre col mento tutto il corpo<br />

della donna, dai piedi alla testa» 98 , ma anche una sua apparizione del 1958 al<br />

programma “<strong>Il</strong> Musichiere”, che gli costò l’esilio dal tubo catodico per diversi anni,<br />

a causa di una sua imprevista e imprevedibile battura di natura politica: «Viva<br />

Lauro!». 99 E poi ancora, le interviste televisive (quattro) rese all’uscita di alcuni<br />

film interpretati da lui (I due colonnelli, Uccellacci e uccellini) o come reportage<br />

sulla sua vita (in “Telecamere in vacanza” e in “TV7”), nove cortometraggi per la<br />

regia di Daniele D’Anza (<strong>Il</strong> latitante, <strong>Il</strong> tuttofare, <strong>Il</strong> grande maestro, Don<br />

96<br />

V. PATTAVINA, Non Principe, ma Imperatore. Storia di <strong>Totò</strong>, dalla polvere del palcoscenico alle luci del cinema,<br />

Torino, Einaudi, 2008, p. 140<br />

97<br />

A. ANILE, <strong>Totò</strong> proibito. Storia puntigliosa e grottesca sui rapporti tra il principe de Curtis e la censura, Torino,<br />

Lindau, 2005, p. 17<br />

98 Ibidem<br />

99 Ibid., p. 214<br />

143


Giovannino, La scommessa, <strong>Totò</strong> ciak, <strong>Totò</strong> a Napoli, <strong>Totò</strong> yé yé, Premio Nobel),<br />

girati tutti per la televisione e trasmessi nel 1967 e, infine, la partecipazione a nove<br />

spot pubblicitari nel “Carosello” per il dado Star, impersonando di volta in volta<br />

personaggi rappresentanti varie categorie professionali, che in qualche modo<br />

riprendevano la sequenza dei film contenenti nel titolo il nome di <strong>Totò</strong>, e in cui egli<br />

pronunciava la celebre frase «Mi faccio un brodo? Ma me lo faccio doppio!» 100 .<br />

Mancano ancora, tra le arti, la pittura, la scultura, l’architettura, la fotografia. <strong>Totò</strong><br />

non era certo né pittore, né scultore, né architetto, né fotografo. Tuttavia sapeva<br />

dipingere, scolpire, concepire progetti e fotografare, perché era profondamente<br />

osservatore e riproduceva ciò che vedeva in modo artistico e al tempo stesso<br />

artistico, come attraverso un dipinto, una scultura, un disegno o una fotografia. E<br />

come era osservatore del mondo, lo era anche di se stesso. La sua arte mimica del<br />

resto era iniziata proprio così, lunghe ore di allenamento davanti allo specchio per<br />

perfezionare la sua gestualità nel recitare. <strong>Il</strong> regista giapponese Akira Kurosawa<br />

disse: «<strong>Il</strong> cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche<br />

proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto<br />

filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica» 101 . Dunque<br />

così come il cinema, essendo la summa di tutte le altre arti, costituisce già da solo<br />

qualsiasi forma d’arte, <strong>Totò</strong> rappresenta egli stesso un intero e unico universo<br />

artistico, un microcosmo d’arte, che addirittura si spinge anche oltre: non tutti sono<br />

a conoscenza del fatto che egli abbia fatto anche il doppiatore nel ruolo di Gobbone<br />

per il film Slave Girl (La vergine di Napoli) di Charles Lamont e che vanti anche il<br />

primato di attore che per primo in Italia abbia girato una pellicola a colori, <strong>Totò</strong> a<br />

100 E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010, p. 508<br />

101 http://www.correnelverde.it/cinema/cinema<br />

144


colori, del 1952, prodotto da Ponti-De Laurentiis, per la regia di Steno. Infine,<br />

alcuni suoi film (Napoli milionaria, <strong>Totò</strong> terzo uomo, Guardie e ladri, <strong>Totò</strong> a colori,<br />

L’uomo, la bestia e la virtù, <strong>Totò</strong> e i re di Roma, <strong>Totò</strong> d’Arabia, <strong>Totò</strong> e Carolina,<br />

Siamo uomini o caporali?, La banda degli onesti, <strong>Totò</strong> lascia o raddoppia?, <strong>Totò</strong>,<br />

Peppino e i fuorilegge, <strong>Totò</strong>, Vittorio e la dottoressa, <strong>Totò</strong>, Fabrizi e i giovani<br />

d’oggi) diventarono anche cineromanzi, ossia loro trasposizioni su periodici di<br />

intrattenimento attraverso l’uso di fotografie.<br />

<strong>Il</strong> cantante Domenico Modugno lo saluta nei titoli di coda di Uccellacci e<br />

uccellini cantando «Assurdo, umano, matto, dolce <strong>Totò</strong>». Noi lo ricordiamo anche<br />

col nome che egli, per così tanto tempo, aveva lottato affinché gli venisse<br />

riconosciuto e con i titoli nobiliari che aveva man mano acquisito, quasi come a<br />

rafforzare e ribadire ulteriormente la sua appartenenza alla nobiltà: Antonio Griffo<br />

Foca Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio,<br />

altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di<br />

Ravenna, duca di Macedonia e d’<strong>Il</strong>liria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, di<br />

Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e<br />

d’Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.<br />

«Signori si nasce e io, modestamente, lo nacqui!»<br />

145


Bibliografia<br />

Opere su <strong>Totò</strong><br />

- A. SETTUARIO, L’espressione triste che fa ridere. <strong>Totò</strong> e Monicelli, Napoli,<br />

Graus Editore, 2007.<br />

- A. ANILE, I film di <strong>Totò</strong> (1946 – 1967). La maschera tradita, Genova, Le<br />

Mani,1997.<br />

- A. ANILE, <strong>Totò</strong> proibito. Storia puntigliosa e grottesca sui rapporti tra il<br />

principe de Curtis e la censura, Torino, Lindau, 2005.<br />

- C. CANESTRARI, <strong>Il</strong> dialogo filmico di <strong>Totò</strong> e l’analisi umoristica.<br />

Applicazione di un modello integrato, Macerata, Edizioni Simple, 2005.<br />

- D. ARONICA, G. FREZZA, R. PINTO (a cura di), <strong>Totò</strong>. Linguaggi e<br />

maschere del comico, Atti del Convegno Internazionale (Barcellona 24/26<br />

ottobre 2002), Roma, Carocci Editore, 2003.<br />

- D. CAMMAROTA, <strong>Il</strong> cinema di <strong>Totò</strong>, Roma, Fanucci Editore, 1985<br />

- E. BISPURI, <strong>Totò</strong> attore, Roma, Gremese Editore, 2010.<br />

- E. BISPURI, Vita di <strong>Totò</strong>, Roma, Gremese Editore, 2000.<br />

- F. FALDINI – G. FOFI, <strong>Totò</strong>, Napoli, Tullio Pironti Editore, 1987.<br />

- L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong>, <strong>Totò</strong> a prescindere, a cura di M. Amorosi, Milano, Mondadori,<br />

1992.<br />

- L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong>, <strong>Totò</strong>, mio padre, Milano, Mondatori, 1990.<br />

- L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> – M. AMOROSI, Malafemmena, il romanzo dell’unico, vero,<br />

grande amore di <strong>Totò</strong>, Milano, Mondadori, 2009.<br />

146


- L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> – M. AMOROSI, <strong>Totò</strong>. Femmene e malafemmene, Milano,<br />

Rizzoli, 2000.<br />

- M. AMOROSI – L. <strong>DE</strong> <strong>CURTIS</strong> (a cura di), <strong>Totò</strong>, parli come badi, Roma,<br />

Rizzoli, 1994.<br />

- O. CALDIRON, <strong>Totò</strong>, Roma, Gremese Editore, 2000.<br />

- P. P. PASOLINI, Uccellacci e uccellini, Milano, Garzanti, 1966.<br />

- R. ESCOBAR, <strong>Totò</strong>, Bologna, <strong>Il</strong> Mulino, 1998.<br />

- R. GUARINI (a cura di), Tuttototò, Roma, Gremese Editore, 1999<br />

- S. PEDALINO, <strong>Totò</strong> e la maschera, Firenze, Firenze Atheneum, 2007.<br />

- TOTÒ, ‘A livella e Poesia d’amore, Roma, New Compton Libri, 1995.<br />

- TOTÒ, Siamo uomini o caporali?, a cura di M. Amorosi – A. Ferraù, Roma,<br />

New Compton Libri, 1993.<br />

- V. PATTAVINA, Non Principe, ma Imperatore. Storia di <strong>Totò</strong>, dalla polvere<br />

del palcoscenico alle luci del cinema, Torino, Einaudi, 2008.<br />

Opere di carattere generale<br />

- AA.VV., <strong>Il</strong> cinema americano, 2 voll., a cura di G. P. Brunetta, trad. it. di TT.<br />

VV., Torino, Einaudi, 2006.<br />

- A. TASSONE, Akira Kurosawa, Firenze, La Nuova Italia, 1981.<br />

- A. MANZONI, I Promessi Sposi, Milano, Fabbri Editori, 1984.<br />

- A. MYSZCZYSZYN, <strong>Il</strong> potere delle radici, Milano, Urra, 2008.<br />

- C. COLLODI, Pinocchio, Ozzano Emilia, Bologna, Malipiero, 1972.<br />

- CH. DARWIN, L’origine delle specie, a cura di Giuliano Pancaldi, trad. it. di<br />

147


G. Pancaldi, Roma, Rizzoli BUR, 2009.<br />

- D. ROBINSON, Chaplin. La vita e l’arte (1985), trad. it. di D. Fink, Roma,<br />

Biblioteca La Repubblica su licenza di Marsilio Editore, 2006.<br />

- D. ROBINSON, Chaplin, un uomo chiamato Charlot (1995), trad. it. di C.<br />

Montrésor, Trieste, Universale Electa Gallimard, 1995.<br />

- D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, 3 voll., a cura di A. M. Chiaracci<br />

Leonardi, Milano, Mondadori, 1994.<br />

- D. EUSEBIETTI, Piccola storia dei burattini e delle maschere, Torino, SEI,<br />

1966.<br />

- E. GIACOVELLI, La commedia all’italiana, Roma, Gremese Editore, 1990.<br />

- F. MAROTTI, La scena di Gordon Craig, Bologna, Cappelli, 1961.<br />

- F. PITASSIO, Attore/Divo, Milano, Editrice <strong>Il</strong> Castoro, 2003.<br />

- G. FOFI, I grandi registi della storia del cinema. Dai Lumière a Cronenberg,<br />

da Chaplin a Cipri e Maresco, Roma, Donzelli Editore, 2008.<br />

- G. P. BRUNETTA, <strong>Il</strong> cinema italiano contemporaneo. Da La dolce vita a<br />

Cento chiodi, Bari, Laterza, 2007.<br />

- G. P. BRUNETTA, <strong>Il</strong> cinema muto italiano, Bari, Laterza, 2008.<br />

- G. P. BRUNETTA, <strong>Il</strong> cinema neorealista italiano da Roma città aperta a I<br />

soliti ignoti, Bari, Laterza, 2009.<br />

- L. TERMINE, Mangiare con gli occhi. A tavola nel cinema, Genova, Le Mani,<br />

Microart’s, 2009.<br />

- M. MONICELLI, <strong>Il</strong> mestiere del cinema, a cura di S. Della Casa e F. Ranieri<br />

Martinetti, Donzelli Editore, 2009.<br />

- P. MEREGHETTI, Dizionario dei film 2011, Milano, Baldini Castoldi Dalai<br />

148


Editore, 2010.<br />

- P. NOTO – F. PITASSIO, <strong>Il</strong> cinema neorealista, Bologna, Archeolibri, 2010.<br />

- S. <strong>DE</strong>LLA CASA, Storia e storie del cinema popolare italiano, Torino,<br />

Editrice La Stampa, 2001.<br />

- V. GALANTE GARRONE, Ch. Chaplin, l’uomo che fu Charlot, Milano,<br />

Mursia, 1972.<br />

Siti Internet<br />

http://www.correnelverde.it/cinema/cinema<br />

http://mariomonicelliit/biografia.html<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Monicelli<br />

http://it.wikiquote.org/wiki/Mario_Monicelli<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Un_sorriso,_uno_schiaffo,_un_bacio_in_bocca<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/settima_arte<br />

http://www.antoniodecurtis.com<br />

http://biografieonline.it<br />

http://www.titanus.it<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Calamandrei<br />

Opere cinematografiche di <strong>Totò</strong><br />

- Fermo con le mani, 1937, Gero Zambuto<br />

- Animali pazzi, 1939, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- San Giovanni decollato, 1940, Amleto Palermi<br />

149


- L’allegro fantasma, 1940, Amleto Palermi<br />

- Due cuori tra le belve, 1943, Giorgio Simonelli<br />

- <strong>Il</strong> ratto delle sabine, 1945, Mario Bonnard<br />

- I due orfanelli, 1947, Mario Mattòli<br />

- <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia, 1948, Mario Mattòli<br />

- Fifa e arena, 1948, Mario Mattòli<br />

- Yvonne la Nuit, 1949, Giuseppe Amato<br />

- L’imperatore di Capri,1949, Luigi Comencini<br />

- <strong>Totò</strong> cerca casa, 1949, Steno / Mario Monicelli<br />

- <strong>Totò</strong> le Mokò, 1949, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- I pompieri di Viggiù, 1949, Mario Mattòli<br />

- Napoli milionaria, 1949, Eduardo De Filippo<br />

- Figaro qua, Figaro là, 1950, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- <strong>Totò</strong> cerca moglie, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- <strong>Totò</strong>tarzan, 1950, Mario Mattòli<br />

- Le 6 mogli di Barbablù, 1950, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- 47 morto che parla, 1950, Carlo Ludovico Bragaglia<br />

- <strong>Totò</strong> sceicco, 1950 Mario Mattòli<br />

- <strong>Totò</strong> terzo uomo, 1951, Mario Mattòli<br />

- Guardie e ladri, 1951, Steno / Mario Monicelli<br />

- <strong>Totò</strong> e i re di Roma, 1951, Steno / Mario Monicelli<br />

- Sette ore di guai, 1951 Vittorio Metz / Marcello Marchesi<br />

- <strong>Totò</strong> a colori, 1952, Steno / Mario Monicelli<br />

- Dov’è la libertà, 1952 Roberto Rossellini<br />

150


- <strong>Totò</strong> e le donne, 1952 Steno / Mario Monicelli<br />

- Una di quelle 1952, Aldo Fabrizi<br />

- L’uomo, la bestia e la virtù, 1952 Steno<br />

- <strong>Il</strong> più comico spettacolo del mondo, 1953, Mario Mattòli<br />

- Un turco napoletano, 1953, Mario Mattòli<br />

- Miseria e nobiltà, 1954, Mario Mattòli<br />

- La patente, 1954, Luigi Zampa<br />

- La macchina fotografica, 1954, Alessandro Blasetti<br />

- <strong>Il</strong> guappo, 1954, Vittorio De Sica<br />

- <strong>Il</strong> medico dei pazzi, 1954, Mario Mattòli<br />

- <strong>Totò</strong> cerca pace, 1954, Mario Mattòli<br />

- <strong>Totò</strong> all’inferno, 1954, Camillo Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong> e Carolina, 1955, Mario Monicelli<br />

- I tre ladri, 1955, Lionello De Felice<br />

- Destinazione Piovarolo, 1955, Domenico Palella<br />

- Siamo uomini o caporali?, 1955, Camillio Mastrocinque<br />

- <strong>Il</strong> coraggio, 1955, Domenico Palella<br />

- Racconti romani, 1955, Gianni Francolini<br />

- La banda degli onesti, 1956, Camillio Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong> lascia o raddoppia?, 1956, Camillio Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong>, Peppino e… la malafemmena, 1956, Camillo Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong>, Peppino e i fuorilegge, 1956, Camillo Mastrocinque<br />

- La legge è legge, 1957, Christian Jaque<br />

- <strong>Totò</strong>, Vittorio e la dottoressa, 1957, Camillio Mastrocinque<br />

151


- Gambe d’oro, 1958, Turi Vasile<br />

- <strong>Totò</strong> e Marcellino, 1958, Antonio Musu<br />

- <strong>Totò</strong>, Peppino e le fanatiche, 1958, Mario Mattoli<br />

- <strong>Totò</strong> a Parigi, 1958, Camillo Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong> nella luna, 1958, Steno<br />

- I tartassati, 1959, Steno<br />

- La cambiale, 1959, Camillio Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong>, Eva e il pennello proibito, 1959, Steno<br />

- I ladri, 1959, Lucio Fulci<br />

- Arrangiatevi, 1959 Mauro Bolognini<br />

- Noi duri, 1959, Camillo Mastrocinque<br />

- Signori si nasce, 1960, Mario Mattòli<br />

- <strong>Totò</strong>, Fabrizi e i giovani d’oggi, 1960, Mario Mattòli<br />

- Letto a tre piazze, 1960, Steno<br />

- Risate di gioia, 1960, Mario Monicelli<br />

- Chi si ferma è perduto, 1961, Sergio Corrucci<br />

- <strong>Totò</strong>, Peppino e la dolce vita, 1961, Sergio Corrucci<br />

- Sua eccellenza si fermò a mangiare, 1961, Mario Mattòli<br />

- I due marescialli, 1961, Sergio Corbucci<br />

- <strong>Totò</strong>truffa ’62, 1961, Camillo Mastrocinque<br />

- <strong>Totò</strong> contro Maciste, 1962, Fernando Cerchio<br />

- <strong>Totò</strong> e Peppino divisi a Berlino, 1962, Steno<br />

- <strong>Totò</strong> di notte n. 1, 1962, Giorgio Bianchi<br />

- Lo smemorato di Collegno, 1962 Sergio Corbucci<br />

152


- I due colonnelli, 1962, Steno<br />

- <strong>Il</strong> giorno più corto, 1963, Sergio Corbucci<br />

- <strong>Il</strong> monaco di Monza, 1963, Sergio Corbucci<br />

- <strong>Totò</strong> contro i quattro, 1963, Steno<br />

- <strong>Totò</strong> e Cleopatra, 1963, Fernando Cerchio<br />

- <strong>Totò</strong> sexy, 1963, Mario Amendola<br />

- Vigile ignoto, 1963, Mario Girolami<br />

- Gli onorevoli, 1963, Paolo Heusch<br />

- <strong>Totò</strong> contro il pirata nero, 1964, Fernando Cerchio<br />

- Amare è un po’ morire, 1964, Ugo Gregoretti<br />

- Che fine ha fatto <strong>Totò</strong> Baby?, 1964, Ottavio Alessi<br />

- <strong>Totò</strong> d’Arabia, 1964, José Antonio Della Loma<br />

- Amore e morte, 1965, Mario Costa<br />

- La mandragola, 1965, Alberto Lattuada<br />

- Rita, la figlia americana, 1965, Piero Vivarelli<br />

- Uccellacci e uccellini, 1966, Pier Paolo Pasolini<br />

- Operazione S. Gennaro, 1966, Dino Risi<br />

- La terra vista dalla luna, 1967, Pier Paolo Pasolini<br />

- <strong>Il</strong> mostro della domenica, 1968, Steno<br />

- Che cosa sono le nuvole, 1968, Pier Paolo Pasolini<br />

Altre opere cinematografiche<br />

- The Kid (<strong>Il</strong> monello), 1921, Charlie Chaplin<br />

153


- The Circus (<strong>Il</strong> circo), 1928, Charlie Chaplin<br />

- City Lights (Luci della città), 1931, Charlie Chaplin<br />

- Modern Times (Tempi moderni), 1936, Charlie Chaplin<br />

- The Great Dictator (<strong>Il</strong> grande dittatore), 1940, Charlie Chaplin<br />

- Limelights (Luci della ribalta), 1952, Charlie Chaplin<br />

- Un borghese piccolo piccolo, 1977, Mario Monicelli<br />

Antologie cinematografiche su <strong>Totò</strong><br />

- <strong>Totò</strong> Story, 1968, AA.VV.<br />

- Un sorriso, uno schiaffo, un bacio in bocca, 1975, AA.VV.<br />

- <strong>Totò</strong>, une anthologie, 1977/1978, AA.VV.<br />

- I Magnifici Macisti, 1977, AA.VV.<br />

- Supertotò, 1979, AA.VV.<br />

Film televisivi di <strong>Totò</strong><br />

- <strong>Il</strong> latitante, 1967, Daniele D’Anza<br />

- <strong>Il</strong> tuttofare, 1967, Daniele D’Anza<br />

- <strong>Il</strong> grande maestro, 1967, Daniele D’Anza<br />

- Don Giovannino, 1967, Daniele D’Anza<br />

- La scommessa, 1967, Daniele D’Anza<br />

- <strong>Totò</strong> ciak, 1967, Daniele D’Anza<br />

- <strong>Totò</strong> a Napoli, 1967, Daniele D’Anza<br />

154


- <strong>Totò</strong> yé yé, 1967, Daniele D’Anza<br />

- Premio Nobel, 1967, Daniele D’Anza<br />

- Tutto <strong>Totò</strong>, 1967, Daniele D’Anza<br />

Trasmissioni televisive, interviste, spot pubblicitari con <strong>Totò</strong><br />

- “<strong>Il</strong> Musichiere”, 1958 (partecipazione in qualità di ospite)<br />

- “TV7”, 1963 (intervista)<br />

- “Studio Uno”, 1966 (partecipazione in qualità di ospite)<br />

- “Caroselli” per “Brodo Star” (spot pubblicitari)<br />

DVD e documentari televisivi<br />

- L’ultimo Gattopardo, 2011, Giuseppe Tornatore (documentario per la<br />

televisione prodotto dalla casa cinematografica Titanus).<br />

- <strong>Totò</strong> è sempre <strong>Totò</strong>, a cura di L. Arena, Torino, Einaudi, Produzione Videoline,<br />

2008.<br />

- Una storia da ridere. Breve storia biografica di Mario Monicelli, Roma,<br />

Lantana, 2011.<br />

- Primo provino di <strong>Totò</strong> (1932)<br />

155


Indice<br />

INTRODUZIONE<br />

<strong>Totò</strong>: nascita di un canone di vita eterno ………………………………… 1<br />

ENCOMIO <strong>DE</strong>L PRINCIPE ……………………………………………. 14<br />

1. LA SOPRAVVIVENZA<br />

1.1 Miseria e nobiltà …….………………………………………………… 16<br />

1.2 Siamo uomini o caporali ……………………………….. ……………. 25<br />

1.3 L’analisi del concetto di sopravvivenza ……………........................... 36<br />

2. L’AMORE<br />

2.1 <strong>Totò</strong> e le donne ……………………………………………................... 42<br />

2.2 <strong>Totò</strong> e Carolina……………………………………………… ….............. 51<br />

2.3 L’analisi del concetto di amore ……………............................................ 64<br />

3. L’AMICIZIA E LA COMPLICITÀ<br />

3.1 Guardie e ladri ……………………………………………................... 73<br />

3.2 <strong>Il</strong> comandante ……………………………………… ….......................... 83<br />

3.3 L’analisi del concetto di amicizia ……………...................................... 90<br />

4. LA MORTE<br />

4.1 <strong>Totò</strong> all’inferno ……………………………………………................... 98<br />

4.2 <strong>Totò</strong> al Giro d’Italia…………………………… ….................................. 106<br />

156


4.3 L’analisi del concetto di morte ................................................................ 115<br />

CONCLUSIONE ………………………………………………………… 119<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

Opere su <strong>Totò</strong> …………………………………………………………… 146<br />

Opere di carattere generale ……………………………………………… 147<br />

Siti Internet ……………………………………………………………. 148<br />

Opere cinematografiche di <strong>Totò</strong> ……………………………………….. 148<br />

Altre opere cinematografiche ………………………………………….. 153<br />

Antologie cinematografiche su <strong>Totò</strong> …………………………………… 154<br />

Film televisivi di <strong>Totò</strong> …………………………………………………... 154<br />

Trasmissioni televisive, interviste, spot pubblicitari con <strong>Totò</strong> ………. 155<br />

DVD e documentari televisivi ………………………………………….. 155<br />

157

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