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Relazione don Erio Castellucci - Diocesi di Treviso

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Cavallino (VE)<br />

INCONTRO VESCOVI ED ESPERTI TRIVENETO<br />

1<br />

giovedì 7 gennaio 2010<br />

“Il ministero presbiterale da Presbyterorum or<strong>di</strong>nis a oggi”<br />

1. Pochi aspetti della teologia e della pastorale sono stati così sollecitati e rivisitati dopo il<br />

Vaticano II, come il ministero or<strong>di</strong>nato e in special modo il presbiterato. Leggere la vicenda<br />

recente del presbiterato comporta l’inevitabile incrocio con tutti i no<strong>di</strong> teorico-pratici che<br />

hanno visto impegnata l’ecclesiologia negli ultimi decenni: dalle relazioni tra pastori e laici al<br />

rapporto tra Chiesa e mondo, dal ruolo dei sacramenti alla rilevanza della parola <strong>di</strong> Dio, dalla<br />

<strong>di</strong>mensione istituzionale a quella carismatica della Chiesa, dalla nozione <strong>di</strong> spiritualità a<br />

quelle <strong>di</strong> comunione e missione, e così via.<br />

Il fatto è che il ministero or<strong>di</strong>nato, e in particolare il presbiterato, è talmente intrecciato<br />

alle pratiche ecclesiali da non potervi essere facilmente isolato. Certo, ogni buona teologia<br />

cerca la migliore armonia possibile tra il dato rivelato e l’esperienza vissuta: la fatica e la<br />

bellezza della teologia consistono nel percorrere questa tensione feconda tra i dati rivelati e le<br />

prassi vissute, nella convinzione che entrambi – sebbene in misura <strong>di</strong>versa – siano “luoghi<br />

teologici”. Interrogando il Vangelo a partire dall’esperienza e l’esperienza a partire dal<br />

Vangelo, in una sorta <strong>di</strong> “circolo virtuoso”, la teologia si mostra davvero un servizio<br />

ecclesiale. Se questo intreccio è vero per ogni <strong>di</strong>scorso teologico, lo è ancora <strong>di</strong> più per un<br />

<strong>di</strong>scorso sul presbitero, la cui figura concreta non si costruisce in astratto, ma sempre dentro<br />

ad una comunità ecclesiale, dalla quale prende forma e per la quale si pone al servizio. Di<br />

fatto, tutte le problematiche, le tensioni, le risorse e le opportunità vissute nella Chiesa postconciliare<br />

hanno avuto un contraccolpo sui presbiteri e talvolta li hanno visti protagonisti e<br />

iniziatori.<br />

Per non perdere e far perdere il filo del <strong>di</strong>scorso, pur correndo il rischio <strong>di</strong> semplificare<br />

troppo la realtà, ho scelto un taglio narrativo: proverò a raccontare, come riesco e come<br />

posso, gli sno<strong>di</strong> principali della vicenda del presbiterato negli ultimi decenni. È evidente che<br />

dovrò sacrificare molte questioni anche rilevanti – come il celibato, il sacerdozio alle <strong>don</strong>ne, i<br />

tre gra<strong>di</strong> e i loro rapporti, il sacerdozio dei religiosi, e simili – ma cercherò comunque <strong>di</strong><br />

segnalare i principali problemi aperti ed alcune opportunità, accompagnando la narrazione<br />

con qualche riflessione critica.<br />

2. Pren<strong>di</strong>amo avvio dal vissuto del presbitero. Non sono in grado <strong>di</strong> offrire analisi<br />

sociologiche, psicologiche o pastorali; propongo piuttosto una lettura della situazione ricavata<br />

dall’esperienza <strong>di</strong>retta, dai documenti del Magistero e da stu<strong>di</strong> <strong>di</strong> specialisti. Il vissuto, come<br />

generalmente accade, è attraversato da luci e ombre, opportunità e fatiche. Lo si potrebbe<br />

esprimere con una sola parola? Oggi forse no, ma quarant’anni fa sì: era d’obbligo usare la<br />

parola “crisi” e parlare <strong>di</strong> “crisi <strong>di</strong> identità del prete”.<br />

L’espressione, assente nei testi del Vaticano II e nei primi anni imme<strong>di</strong>atamente postconciliari,<br />

venne coniata alla fine degli anni Sessanta e caratterizzò il Sinodo dei vescovi del<br />

1971. Per un ventennio si <strong>di</strong>scusse a fondo su questa “crisi”, cercando <strong>di</strong> capirne i motivi e <strong>di</strong><br />

uscirne. Se gli aspetti che colpivano <strong>di</strong> più l’opinione pubblica erano quelli scandalistici – non<br />

pochi preti contestavano e lasciavano rumorosamente il ministero, alcune comunità si<br />

opponevano ai loro vescovi, era estesa la richiesta <strong>di</strong> abolizione del celibato e <strong>di</strong> estensione


del sacerdozio alle <strong>don</strong>ne – i motivi reali e più profon<strong>di</strong> erano <strong>di</strong> natura propriamente<br />

teologica e riguardavano una domanda ra<strong>di</strong>cale: qual è la ragion d’essere del ministero<br />

or<strong>di</strong>nato nella Chiesa? È proprio necessario un sacramento dell’Or<strong>di</strong>ne che dà il carattere o è<br />

ipotizzabile che ogni comunità elegga un suo presidente per un certo tempo? Al <strong>di</strong> sotto<br />

quin<strong>di</strong> delle riven<strong>di</strong>cazioni ecclesiali, delle crisi psico-affettive, degli atteggiamenti pastorali<br />

<strong>di</strong> <strong>di</strong>ssenso e contestazione, vi erano domande teologiche <strong>di</strong> tutto rispetto, riguardanti niente<br />

meno che la legittimità e la natura stessa del ministero or<strong>di</strong>nato.<br />

3. Era dunque una “crisi” del sacerdozio paragonabile solo a quella che quattro secoli<br />

prima aveva contrapposto Lutero e il Concilio <strong>di</strong> Trento; in fondo, pur in un contesto<br />

<strong>di</strong>versissimo, si trattava del medesimo problema: Lutero, rifacendosi alla sola Scrittura, aveva<br />

negato la legittimità del sacramento dell’Or<strong>di</strong>ne, sostituendo i sacerdoti con dei ministri eletti<br />

dalle comunità per la pre<strong>di</strong>cazione della parola; e Trento, leggendo la Scrittura attraverso la<br />

Tra<strong>di</strong>zione, aveva reagito riaffermando l’esistenza <strong>di</strong> un sacerdozio ministeriale fondato<br />

sull’Or<strong>di</strong>ne e abilitato all’offerta del sacrificio eucaristico e all’assoluzione sacramentale. Se<br />

Lutero aveva interpretato teologicamente il ministero in chiave profetica e funzionale, Trento<br />

lo imposta in chiave decisamente cultuale e ontologica. Per la verità Trento presenta anche<br />

un’altra chiave, quella pastorale: i vescovi e i presbiteri devono plasmarsi sull’immagine del<br />

Buon Pastore che offre la vita per il gregge, e su questa base stabilisce l’obbligo <strong>di</strong> residenza<br />

per i vescovi e i parroci; purtroppo però questa visione non compare nei decreti dogmatici,<br />

dominati da quella cultuale, ma solo nei decreti giuri<strong>di</strong>ci.<br />

Nei quattro secoli successivi proce<strong>don</strong>o parallelamente le tre principali concezioni del<br />

ministero or<strong>di</strong>nato: profetica, sacerdotale e pastorale. Il mondo protestante è caratterizzato,<br />

con molte sfumature tra le varie confessioni, dal ministero inteso come pre<strong>di</strong>cazione della<br />

Scrittura; il mondo cattolico è invece connotato da due modelli che convivono nella stessa<br />

figura presbiterale: da una parte il sacerdote è configurato ontologicamente a Cristo Sacerdote<br />

ed esprime questo suo essere nella celebrazione del sacrificio eucaristico e dei sacramenti;<br />

dall’altra egli deve assumere lo stile <strong>di</strong> Cristo Pastore verso il gregge, spendendo la vita per la<br />

Chiesa. Avendo però solo il primo dei due modelli vera e propria <strong>di</strong>gnità dogmatica, il<br />

secondo rimaneva affidato alla de<strong>di</strong>zione generosa del presbitero ma non ne caratterizzava<br />

l’essere.<br />

4. Se ora torniamo alla “crisi <strong>di</strong> identità” del ventennio Settanta-Ottanta, riscontriamo lo<br />

stesso aspro confronto tra una visione funzionale e profetica da una parte ed una ontologica e<br />

cultuale dall’altra, con la concezione pastorale in sor<strong>di</strong>na. C’era stato però il Vaticano II, che<br />

aveva tracciato una dottrina equilibrata del ministero or<strong>di</strong>nato, coniugando le tre concezioni<br />

attraverso lo schema dei tria munera: il ministero or<strong>di</strong>nato dei vescovi (cf. LG 25-27) e dei<br />

presbiteri (cf. LG 28 e PO 4-6) comporta l’annuncio, la celebrazione e la guida pastorale e<br />

tutti e tre questi compiti – non solo quello cultuale come per Trento – derivano dal<br />

sacramento dell’Or<strong>di</strong>ne.<br />

Questo risultato era stato raggiunto dall’ultimo Concilio non come soluzione salomonica<br />

per accontentare tutti, ma come esito <strong>di</strong> una rilettura ampia della Scrittura e della Tra<strong>di</strong>zione a<br />

partire dalle istanze poste dalle prassi. Furono soprattutto vescovi africani e asiatici a chiedere<br />

insistentemente <strong>di</strong> allargare la visione cultuale tridentina tenendo conto dell’importanza che<br />

ha il ministero dell’annuncio, come primo passo per la <strong>di</strong>ffusione del Vangelo; ad essi si<br />

unirono presto alcuni vescovi della Francia, che già da un ventennio era cosciente <strong>di</strong> essere un<br />

“paese <strong>di</strong> missione”; altri vescovi, specie del Sud Europa, rammentavano però che la dottrina<br />

<strong>di</strong> Trento non si deve contrad<strong>di</strong>re o superare, ma al massimo integrare, e chiedevano che per<br />

2


nessun motivo si mettesse in <strong>di</strong>sparte la visione cultuale ma anzi se ne riaffermasse il primato;<br />

altri in varie parti del mondo, nel Nord Europa e specialmente in Germania, chiedevano che<br />

anche il modello finora trattato come una cenerentola, quello pastorale, venisse integrato<br />

negli elementi essenziali del ministero or<strong>di</strong>nato.<br />

Nessuna delle tre concezioni appariva del resto infondata o arbitraria. Fu facile ad alcuni<br />

padri conciliari mostrare che nel Nuovo Testamento il compito fondamentale dei ministri<br />

cristiani – dagli apostoli ai loro collaboratori e successori, fino agli altri ministri variamente<br />

denominati – è proprio quello <strong>di</strong> evangelizzare: del resto come avrebbe potuto essere<br />

<strong>di</strong>versamente, nella fase propulsiva della <strong>di</strong>ffusione del cristianesimo? Paolo, che ben presto<br />

<strong>di</strong>venta modello del ministero, si de<strong>di</strong>ca essenzialmente a pre<strong>di</strong>care il Vangelo e solo<br />

secondariamente a celebrare i sacramenti e guidare le comunità. Ma anche la concezione<br />

cultuale trovava punti <strong>di</strong> aggancio nel Nuovo Testamento: non tanto in Ebr – testo spesso<br />

richiamato nei lavori conciliari, ma <strong>di</strong> per sé riguardante solo il sacerdozio <strong>di</strong> Cristo e non<br />

quello dei ministri – quanto nella menzione <strong>di</strong> compiti “sacerdotali” tra i servizi in<strong>di</strong>cati da<br />

Gesù ai Do<strong>di</strong>ci e partecipati da questi ad altri soggetti: battezzare, ripetere il rito eucaristico,<br />

per<strong>don</strong>are i peccati; nelle lettere Pastorali, inoltre, si incontra il gesto <strong>di</strong> imporre le mani per<br />

trasmettere un ministero. La concezione cultuale aveva poi dalla sua quasi <strong>di</strong>ciassette secoli<br />

<strong>di</strong> storia: la sacerdotalizzazione dei ministeri data infatti a partire dal III secolo, con<br />

Tertulliano e Cipriano, e si intensifica fino a ricevere il suo sigillo con Tommaso e Trento.<br />

Ma anche la sfumatura “sacrale” godeva <strong>di</strong> una buona tra<strong>di</strong>zione, a partire dal Dialogo sul<br />

sacerdozio <strong>di</strong> Crisostomo, con l’esaltazione dei “tremen<strong>di</strong>” poteri sacerdotali che Dio non ha<br />

dato neppure agli angeli, e dalle opere <strong>di</strong> Pseudo<strong>di</strong>onigi, con la trasposizione sui ministeri<br />

cristiani del modello veterotestamentario della “me<strong>di</strong>azione sacerdotale”. Infine la concezione<br />

pastorale poteva a sua volta rifarsi al Nuovo Testamento, specialmente al testo para<strong>di</strong>gmatico<br />

<strong>di</strong> Gv 21 nel quale Gesù affida a Pietro il compito <strong>di</strong> pascere il suo gregge e ai passi nei quali<br />

i ministri cristiani sono chiamati “pastori”; e poteva inoltre vantare testi <strong>di</strong> Agostino e<br />

Gregorio Magno. Tutte e tre le concezioni, dunque, appaiono ra<strong>di</strong>cate nella Rivelazione: la<br />

grande opera del Vaticano II fu quella <strong>di</strong> mostrare che non si tratta <strong>di</strong> tre concezioni o tre<br />

modelli, ma <strong>di</strong> tre <strong>di</strong>mensioni dell’unico ministero or<strong>di</strong>nato.<br />

Le riflessioni dei padri conciliari aiutarono infatti i redattori <strong>di</strong> LG e PO a leggere con<br />

maggiore ampiezza i dati rivelati: anziché collocare, come per lo più si faceva prima,<br />

l’origine del sacerdozio ministeriale nel solo evento dell’Ultima Cena, l’hanno ricondotta<br />

all’intera missione affidata da Cristo agli apostoli: istruire, annunciare, battezzare, per<strong>don</strong>are i<br />

peccati, spezzare il pane; anziché fermarsi alla sola visione “sacerdotale” del ministero,<br />

rispondente ad un linguaggio praticamente assente nel Nuovo Testamento, hanno adottato la<br />

varietà linguistica ad esso più conforme, parlando più <strong>di</strong> “ministri” che <strong>di</strong> “sacerdoti” e<br />

<strong>di</strong>stinguendo, all’interno dell’Or<strong>di</strong>ne, i vescovi, i presbiteri e i <strong>di</strong>aconi.<br />

5. Sembrava che il Vaticano II avesse finalmente integrato in maniera ottimale i <strong>di</strong>versi<br />

dati rivelati sul ministero presbiterale, aven<strong>don</strong>e offerto una presentazione missionaria e non<br />

più solo cultuale e avendo inserito i riferimenti cristologici (l’azione “in persona Christi<br />

Capitis”) in un’ecclesiologia che faceva spazio al sacerdozio battesimale e alla comune<br />

missione <strong>di</strong> tutto il popolo <strong>di</strong> Dio. Il Concilio aveva potuto in effetti tratteggiare una figura<br />

“completa” del ministero presbiterale, perché non era partito da intenti polemici: non<br />

dovendo, come Trento, reagire ad una concezione ritenuta opposta a quella cattolica, potè<br />

formulare una dottrina piana e serena. Solo che, pochi anni dopo, quella dottrina sembrò<br />

insufficiente a fronteggiare la nuova situazione <strong>di</strong> “crisi”.<br />

3


Il vento <strong>di</strong> democratizzazione, che percorse il fenomeno del <strong>di</strong>ssenso, per molti fu infatti<br />

l’occasione per <strong>di</strong>chiarare sorpassata la stessa ecclesiologia conciliare. Il Vaticano II aveva<br />

raggiunto una felice sintesi fra i tre modelli che per secoli erano stati contrapposti o<br />

giustapposti, aveva articolato in maniera sod<strong>di</strong>sfacente i riferimenti cristologici ed<br />

ecclesiologici del presbiterato; eppure sei anni dopo la chiusura del Concilio, Paolo VI sentì il<br />

bisogno <strong>di</strong> aggiungere al tema previsto per il Sinodo dei vescovi, “la giustizia nel mondo”,<br />

anche un secondo tema, il “sacerdozio ministeriale” appunto. Il clima <strong>di</strong> contestazione<br />

costituì un nuovo scenario nel quale ancora una volta veniva interrogata la Rivelazione, e in<br />

maniera – come abbiamo visto – molto ra<strong>di</strong>cale.<br />

Al Sinodo del 1971 più che le teologie del ministero si confrontarono le ecclesiologie. Da<br />

una parte vi era chi domandava <strong>di</strong> portare a compimento la riforma iniziata dal Vaticano II,<br />

prospettando un’interpretazione democratica della Chiesa: H. Küng ad esempio, in un libretto<br />

del 1971 dal tiolo Preti: perché?, la definiva comunità <strong>di</strong> uguaglianza, libertà e fraternità e vi<br />

prospettava un ministero puramente funzionale e desacralizzato; sul versante opposto, chi<br />

aveva mal <strong>di</strong>gerito l’ecclesiologia conciliare del “popolo <strong>di</strong> Dio”, reagiva riaffermando quella<br />

visione <strong>di</strong> Chiesa come “corpo <strong>di</strong> Cristo” che il Concilio aveva accolto ma relativizzato, o<br />

ad<strong>di</strong>rittura quella post-tridentina <strong>di</strong> Chiesa come “società perfetta”, che il Vaticano II non<br />

aveva <strong>di</strong> fatto accolto, e vi collocava un sacerdozio inteso come me<strong>di</strong>azione tra il cielo e la<br />

terra (così ad es. Pons, Parente, per certi aspetti Galot, ecc.). Nella prima concezione<br />

ecclesiologica, il ministero non è altro che espressione della comunità ed ha la funzione <strong>di</strong><br />

leadership, coor<strong>di</strong>nando i carismi e presieden<strong>don</strong>e l’annuncio e le celebrazioni su delega dal<br />

basso; nella seconda concezione, al contrario, il ministero nasce dall’alto ed ha la funzione <strong>di</strong><br />

trasmettere la grazia che da Cristo scende verso la Chiesa; volentieri il sacerdote è qui<br />

definito, secondo l’uso preconciliare, “me<strong>di</strong>atore” e “alter Christus”: due espressioni che il<br />

Vaticano II aveva deliberatamente evitato.<br />

Il Sinodo del 1971 cerca una via me<strong>di</strong>a tra questi due estremi, e – sulle piste del Concilio –<br />

evita <strong>di</strong> cadere in una visione <strong>di</strong> Chiesa come democrazia o al contrario come monarchia<br />

assoluta, proponendo invece una concezione ecclesiologica che, pur tenendo conto delle<br />

istanze “dal basso”, riaffermasse la natura teandrica della Chiesa. La Chiesa <strong>di</strong>pende<br />

essenzialmente da Cristo, suo Capo – nel testo sinodale l’idea della Chiesa come corpo <strong>di</strong><br />

Cristo ha maggiore spazio che in LG – e la coscienza <strong>di</strong> questa ra<strong>di</strong>cale <strong>di</strong>pendenza è<br />

con<strong>di</strong>zione essenziale per la sua vita: se la Chiesa perdesse la consapevolezza <strong>di</strong> ricevere da<br />

Cristo tutto quanto le è necessario per vivere e operare – la parola, i sacramenti, i <strong>don</strong>i dello<br />

Spirito – perderebbe la sua stessa natura <strong>di</strong> “Chiesa”, cioè comunità radunata dall’alto, corpo<br />

<strong>di</strong> Cristo Capo. Il Sinodo, adottando questa visione ecclesiologica, colloca il sacerdozio<br />

ministeriale nel punto d’unione tra la Chiesa e Cristo: come ministero <strong>di</strong> Cristo Capo della<br />

Chiesa, è a servizio della sua e<strong>di</strong>ficazione, è uno degli strumenti che la mantiene nella<br />

consapevolezza <strong>di</strong> <strong>di</strong>pendere dal suo Signore. Ecco dunque, per il Sinodo, la risposta alla crisi<br />

d’identità teologica: il ministero or<strong>di</strong>nato ha come ragion d’essere la testimonianza efficace<br />

della priorità della grazia <strong>di</strong> Cristo, che continua ad e<strong>di</strong>ficare il suo corpo che è la Chiesa.<br />

Questa sottolineatura cristologica sarà la risposta costante del Magistero postconciliare alla<br />

domanda sulla natura teologica del ministero sacerdotale, come <strong>di</strong>mostra soprattutto Pastores<br />

dabo vobis ai nn. 15 e 16.<br />

Non possiamo seguire qui lo sviluppo del tema in campo ecumenico, che in quei decenni<br />

ha certamente influito anche sul contemporaneo <strong>di</strong>battito in casa cattolica. Basterà ricordare il<br />

documento BEM (“Battesimo, Eucaristia, Ministero”) approvato a Lima nel 1982, con il<br />

lungo lavoro <strong>di</strong> preparazione e il periodo <strong>di</strong> recezione. Esso rappresenta un significativo<br />

sforzo <strong>di</strong> far convergere le due <strong>di</strong>verse linee <strong>di</strong> cui ho fatto cenno. Né possiamo entrare nella<br />

4


complessa vicenda dei ministeri laicali, che esplodevano proprio nel corso degli anni<br />

Settanta, con alcuni contraccolpi sul presbiterato oltre che sul laicato. La <strong>di</strong>scussa espressione<br />

“una Chiesa tutta ministeriale” infatti, che dal 1973 in avanti <strong>di</strong>venne una sorta <strong>di</strong> slogan,<br />

sembrava rendere più ardua la collocazione specifica del presbiterato, in<strong>di</strong>cato dal Vaticano II<br />

proprio come “ministero”: se tutto è ministero, qual è l’originalità del “ministero”<br />

presbiterale? Ma da un altro punto <strong>di</strong> vista lo slogan rese un buon servizio ai tre gra<strong>di</strong><br />

dell’Or<strong>di</strong>ne, favorendo il passaggio dall’espressione “sacerdozio ministeriale” all’espressione<br />

“ministero sacerdotale”, recuperando così il sostantivo più aderente alla terminologia<br />

neotestamentaria. Non sembra invece che la “Chiesa tutta ministeriale” abbia giovato al<br />

laicato, poiché favorì l’impressione che non sia il battesimo a fondare la <strong>di</strong>gnità e la missione<br />

del laico, bensì un “ministero” che dovrebbe aggiungersi al battesimo.<br />

Negli anni Ottanta il <strong>di</strong>battito sulla “crisi <strong>di</strong> identità” teologica del presbitero fu comunque<br />

segnato più che altro dalle tesi <strong>di</strong> E. Schillebeeckx e dal <strong>di</strong>battito attorno al suo volume Per<br />

una Chiesa dal volto umano, pubblicato in prima e<strong>di</strong>zione olandese nel 1985 e tradotto l’anno<br />

dopo in italiano dalla Queriniana. In maniera ben documentata, il teologo domenicano prese<br />

posizione in favore <strong>di</strong> una concezione meno verticale-cristologica e più ecclesiale-orizzontale<br />

dei ministeri or<strong>di</strong>nati. Il ministero nel Nuovo Testamento è per lui essenzialmente una<br />

funzione <strong>di</strong> guida: “esso non si sviluppò attorno all’eucaristia o alla liturgia, ma attorno<br />

all’e<strong>di</strong>ficazione apostolica della comunità, me<strong>di</strong>ante la pre<strong>di</strong>cazione, l’esortazione e la<br />

<strong>di</strong>rezione. Per quante variazioni debbano subire, ministero e guida vanno <strong>di</strong> pari passo. I<br />

ministri sono delle guide, degli animatori e dei modelli <strong>di</strong> identificazione evangelica per la<br />

comunità” (p. 135). Questa connotazione, per Schillebeeckx, si conserva sostanzialmente –<br />

pur tra tante sfumature – nel primo millennio, mentre nel secondo si passa ad una deduzione<br />

cristologica <strong>di</strong>retta, relegando la comunità a mera recettrice della grazia che da Cristo le<br />

giunge attraverso i ministri. Convinto della superiorità dell’istanza ecclesiologica su quella<br />

cristologica, Schillebeckx prospetta per l’oggi la possibilità <strong>di</strong> una presidenza eucaristica da<br />

parte <strong>di</strong> non-or<strong>di</strong>nati, quando ciò sia richiesto da particolari necessità: l’eucaristia è infatti un<br />

<strong>di</strong>ritto delle comunità cristiane, mentre l’or<strong>di</strong>nazione non è altro che un servizio a questo<br />

<strong>di</strong>ritto; può perciò mancare l’or<strong>di</strong>nazione, ma non l’eucaristia nella comunità. Le tesi <strong>di</strong><br />

Schillebeeckx hanno provocato parecchie reazioni, sia sul versante teologico sia su quello<br />

magisteriale, ed hanno stimolato l‘approfon<strong>di</strong>mento delle fonti e la ricerca <strong>di</strong> quell’equilibrio<br />

tra le due <strong>di</strong>mensioni, cristologica ed ecclesiologica che caratterizza parecchi tentativi nella<br />

seconda metà degli anni Ottanta, periodo nel quale si incontrano sempre meno posizioni<br />

estreme e polemiche, come negli anni Settanta, e sempre maggiori sforzi <strong>di</strong> sintesi anche ben<br />

riusciti, come quelli <strong>di</strong> Dianich e Greshake.<br />

6. La Pastores dabo vobis, nel 1992 <strong>di</strong>chiara conclusa la crisi <strong>di</strong> identità teologica, e dopo<br />

quasi due decenni le si può dare sostanzialmente ragione. Un’occhiata alla bibliografia<br />

conferma che dopo l’esplosione <strong>di</strong> stu<strong>di</strong> degli anni Settanta e Ottanta, la teologia del<br />

ministero raggiunge negli anni Novanta e in quest’ultimo decennio un certo equilibrio. Non si<br />

incontrano normalmente posizioni teologiche estremiste e <strong>di</strong>scussioni aspre sulla natura del<br />

presbiterato; vi sono certo posizioni <strong>di</strong>fferenti, anche <strong>di</strong> parecchio: da chi ripropone, con<br />

qualche ritocco, il modello cultuale e ad<strong>di</strong>rittura sacrale (“prete uomo del sacro”, “sacerdos<br />

alter Christus”, ecc.) a chi al contrario prospetta una visione profetica e “<strong>di</strong> frontiera”, a chi<br />

riafferma una concezione pastorale; vi sono <strong>di</strong>battiti, riguardanti soprattutto la spiritualità<br />

<strong>di</strong>ocesana, i religiosi presbiteri, le relazioni presbiteri-laici e presbiteri-vescovi, ecc. Niente<br />

però <strong>di</strong> paragonabile alla ra<strong>di</strong>calità del <strong>di</strong>battito degli anni Settanta e Ottanta.<br />

5


Sembra tuttavia che senza la compagnia della “crisi” i presbiteri non possano vivere.<br />

Infatti si è aperto, negli ultimi vent’anni, un altro fronte della “crisi” – quasi un contraccolpo<br />

tar<strong>di</strong>vo <strong>di</strong> quella imme<strong>di</strong>atamente post-conciliare – che si potrebbe in<strong>di</strong>care come “crisi <strong>di</strong><br />

identità pastorale”. Questo nuovo fronte non riguarda più le domande ra<strong>di</strong>cali sulla ragion<br />

d’essere teologica del ministero, ma ruota attorno alla sua configurazione pastorale. Se la<br />

prima crisi si può paragonare a un’alta montagna che si staglia sul livello del mare, questa<br />

sembra piuttosto un iceberg, emergente dall’acqua solo per un decimo della sua massa: allora<br />

il numero elevato <strong>di</strong> coloro che lasciavano il ministero – unito ad un atteggiamento talvolta<br />

provocatorio – faceva notizia e creava un clima acceso, <strong>di</strong> rabbia da una parte e dolore<br />

dall’altra; ora invece il numero <strong>di</strong> coloro che lasciano il ministero è grazie a Dio più<br />

contenuto, la gestione della crisi è più riservata e spesso non sfocia nell’abban<strong>don</strong>o; rimane<br />

tuttavia un clima <strong>di</strong> sottofondo a volte pesante tra i preti, specialmente giovani, che poco<br />

tempo dopo l’or<strong>di</strong>nazione già sembrano in alcuni casi pastoralmente “rassegnati”. E se la<br />

grande maggioranza dei presbiteri continua con entusiasmo a vivere il ministero, fa tuttavia<br />

pensare il fatto che in questi decenni <strong>di</strong>verse <strong>di</strong>ocesi italiane siano state toccate dal fenomeno<br />

<strong>di</strong> preti giovani, anche giovanissimi per or<strong>di</strong>nazione – talvolta persino un anno o due – che<br />

vanno in crisi e magari deci<strong>don</strong>o <strong>di</strong> lasciare il ministero.<br />

Non mi avventuro nell’in<strong>di</strong>viduazione delle cause <strong>di</strong> questa “crisi <strong>di</strong> identità pastorale”;<br />

bisognerebbe senza dubbio cercarle in <strong>di</strong>rezioni <strong>di</strong>verse, come: la tanto proclamata fragilità<br />

psicologica e affettiva del mondo giovanile, più capace forse <strong>di</strong> slanci generosi e meno <strong>di</strong><br />

<strong>don</strong>azione costante; la complessità e frammentarietà della nostra cultura, nella quale è così<br />

<strong>di</strong>fficile orientarsi, <strong>di</strong>scernere il bene dal male e mantenersi fedeli al Vangelo; la fatica <strong>di</strong><br />

alcuni Seminari ad impostare percorsi <strong>di</strong> formazione che da una parte evitino il ritorno a<br />

modelli cultuali e sacrali e dall’altra evitino l’accomodarsi “borghese” ai venti culturali alla<br />

moda... Ma a queste tre gran<strong>di</strong> cause, <strong>di</strong> tipo rispettivamente psicologico, culturale e<br />

pedagogico, penso dobbiamo aggiungerne almeno una quarta, che forse permette <strong>di</strong> trovare il<br />

perno attorno a cui ruota il malessere attuale: ed è una causa precisamente “pastorale”.<br />

7. Sta <strong>di</strong>ventando uno slogan, ma non è infondata, l’affermazione spesso ripetuta che oggi<br />

ci troviamo “al guado” nella nostra pastorale: la sponda che stiamo faticosamente e (alcuni)<br />

nostalgicamente lasciando era quella della pastorale <strong>di</strong> conservazione, adeguata forse un<br />

tempo a situazioni <strong>di</strong> sostanziale tenuta dei valori cristiani, ancora presenti nelle varie culture<br />

della nostra nazione, anche in quelle più lontane dalla sensibilità ecclesiale. Mentre in<br />

Francia, come ricordavo, già durante la seconda guerra mon<strong>di</strong>ale l’opinione pubblica cattolica<br />

prese coscienza <strong>di</strong> essere “in stato <strong>di</strong> missione”, in Italia questa consapevolezza matura solo<br />

negli anni Settanta e si concretizza nel primo progetto decennale della CEI, Evangelizzazione<br />

e sacramenti. Non c’è bisogno solo <strong>di</strong> catechesi, c’è bisogno <strong>di</strong> ri-annunciare il Vangelo:<br />

questa è la doccia fredda che investe negli anni Settanta il cattolicesimo italiano, e lo risveglia<br />

dalla dolce illusione <strong>di</strong> una sostanziale “tenuta” dei valori cristiani.<br />

L’insistenza <strong>di</strong> Giovanni Paolo II sulla “nuova evangelizzazione” è poi <strong>di</strong>venuta,<br />

dall’inizio degli anni Ottanta, motivo conduttore anche delle scelte pastorali italiane. Ma la<br />

sponda della “conservazione” evidentemente è <strong>di</strong>fficile da lasciare, perché l’altra, quella che<br />

si intravede oltre il guado, è tutt’altro che sicura: appare instabile, malferma, inesplorata, ad<br />

alcuni perfino pericolosa. Il timore (giustificato?) <strong>di</strong> perdere una fascia <strong>di</strong> fedeli ancorati a<br />

certe tra<strong>di</strong>zioni (<strong>di</strong> tipo ad es. devozionale o popolare), o legati a prestazioni ecclesiastiche<br />

(certificati, bene<strong>di</strong>zioni, ecc.), comprese le Messe negli orari più como<strong>di</strong> per il fedeli e nei<br />

luoghi più impensati e meno frequentati, rende molto <strong>di</strong>fficile l’abban<strong>don</strong>o della sponda<br />

“conservatrice”. L’inevitabile carico <strong>di</strong> impegni sui presbiteri, spesso concentrati per forza <strong>di</strong><br />

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cose più su problemi amministrativi, logistici e burocratrici, o sulla cosiddetta<br />

“sacramentalizzazione”, che sulle attività legate all’annuncio del Vangelo, porta alcuni a<br />

spendere le loro migliori energie per la conservazione e la ristrutturazione non solo <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici<br />

e chiese ma anche <strong>di</strong> tra<strong>di</strong>zioni e usanze. A volte resta poco tempo, troppo poco, per stu<strong>di</strong>are,<br />

pregare e de<strong>di</strong>carsi alla formazione delle persone. Esiste il concreto rischio <strong>di</strong> un ritorno<br />

pratico alla visione tridentina del presbitero come “uomo del culto”; con questo paradosso:<br />

Trento aveva delineato un sacerdozio teologicamente cultuale ma aveva dato origine, anche<br />

per l’esempio <strong>di</strong> gran<strong>di</strong> pastori come Carlo Borromeo che plasmò l’ideale sacerdotale per<br />

secoli, ad un sacerdozio praticamente pastorale; il Vaticano II delinea un presbiterato<br />

missionario ma, a causa della mutata situazione pastorale, specialmente del calo <strong>di</strong> presbiteri,<br />

rischia <strong>di</strong> dare origine ad un presbiterato praticamente cultuale. È un caso emblematico <strong>di</strong><br />

interazione tra teologia e prassi. Dopo Trento la pratica era più ampia della dogmatica, mentre<br />

oggi sembra accada l’inverso: la dogmatica è ampia e missionaria, la pratica sembra essere<br />

ristretta e forzatamente cultuale.<br />

Tutto questo per parecchi giovani preti, e anche per alcuni non più giovani, è molto<br />

pesante. Sembra proprio che alla base <strong>di</strong> questo nuovo tornante della crisi presbiterale vi sia<br />

per lo più una demotivazione pastorale. Come nella crisi teologica, il problema è <strong>di</strong> nuovo<br />

quello dell’identità della Chiesa: là era l’identità teologica appunto, che venne precisata nei<br />

termini già accennati; qui è l’identità pastorale, sulla quale si sta tanto <strong>di</strong>scutendo. I presbiteri<br />

hanno bisogno non solo <strong>di</strong> sapere qual è la natura teologica del loro ministero – il che resta<br />

sempre fondamentale – ma <strong>di</strong> sperimentare una Chiesa più agile e missionaria.<br />

D’altra parte alcune pubblicazioni teologico-spirituali, come il volume <strong>di</strong> Marcel Macial<br />

La formazione integrale del sacerdote, del 1990, tornano a ragionare sul sacerdozio come<br />

“ponte tra il cielo e la terra”, riproponendo questa visione sacrale e cultuale che il Vaticano II<br />

aveva superato e integrato in un’ampia visione missionaria.<br />

8. Ma riproporre sic et simpliciter una concezione preconciliare del sacerdozio non sembra<br />

la strada giusta per affrontare la “crisi pastorale”, così come non lo fu per affrontare quella<br />

teologica. La tentazione è grande, perché a prima vista impostare la formazione seminaristica<br />

e permanente su un’identità teologica “verticale”, tornando alla visione del “sacerdos alter<br />

Christus”, al presbitero come “uomo del sacro”, alla visione cultuale e sacrale, sembrerebbe<br />

la risposta più solida alla crisi. Sarebbe una strada apparentemente sicura, ma in realtà <strong>di</strong><br />

corto respiro. È comprensibile che <strong>di</strong> fronte allo smarrimento generale per la complessità<br />

culturale <strong>di</strong> oggi alcuni perseguano semplicemente un “ricompattamento” delle fila,<br />

rispondendo ad una cultura frammentaria e debole con alcune idee che appaiono forti e<br />

massicce – e dunque che rispuntino anche nei Seminari spinte tra<strong>di</strong>zionaliste e ritualiste,<br />

chiuse al <strong>di</strong>alogo – ma non è giustificabile. La lezione della storia è lì a <strong>di</strong>rci che la Chiesa ha<br />

solo da perdere quando si chiude ermeticamente al mondo e – se non deve certo aprirsi in<br />

maniera sconsiderata – è davvero missionaria quando mantiene un <strong>di</strong>alogo critico, attento a<br />

rilevare tutti gli agganci positivi del Vangelo e a proclamarne in compimento in Cristo. Una<br />

sindrome dell’asse<strong>di</strong>o – la Chiesa cittadella insi<strong>di</strong>ata – farebbe perdere anche nei seminaristi e<br />

nei presbiteri la spinta missionaria.<br />

Di fronte alla “crisi pastorale” dei presbiteri, anziché questi sentieri <strong>di</strong> corto respiro, va<br />

imboccata – e grazie a Dio viene per lo più imboccata – la strada <strong>di</strong> una formazione ampia e<br />

capace <strong>di</strong> rapportarsi alle gran<strong>di</strong> sfide culturali. E occorre affrontare anche teologicamente i<br />

no<strong>di</strong> ecclesiali che causano la crisi. È necessario, in altre parole, rivolgersi oggi non tanto al<br />

polo cristologico del ministero, ma all’altro riferimento, il polo ecclesiologico.<br />

Concretamente infatti l’esperienza <strong>di</strong> Chiesa che sta alla base della “crisi pastorale” passa per<br />

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i presbiteri attraverso tre relazioni fondamentali, sulle quali dal Vaticano II in avanti si riflette<br />

a fondo, che costituiscono la trama ecclesiale del loro ministero: la relazione con la porzione<br />

del popolo <strong>di</strong> Dio a cui sono inviati (una parrocchia, un ambito pastorale, un’associazione o<br />

un movimento), con i confratelli nel presbiterio e, in esso, con il loro vescovo. Nell’attuale<br />

“crisi pastorale” è proprio sulla qualità <strong>di</strong> queste relazioni ecclesiali che si gioca gran parte<br />

del ministero. Oggi <strong>di</strong>fficilmente un prete si demotiva per cause teologiche, ossia perché non<br />

sa qual è la natura del suo ministero; e neppure si demotiva semplicemente per cause<br />

affettive: queste sono in genere, è vero, il detonatore che fa esplodere la crisi, ma non la<br />

ragione più profonda; normalmente è per il fatto che nelle relazioni ecclesiali si è aperta una<br />

“crepa”, che <strong>di</strong>venta spontaneo cercare compensazioni, sia sul versante affettivo che su quello<br />

dei beni o degli onori.<br />

Se la qualità delle relazioni con i laici, gli altri presbiteri e il vescovo è buona, è più<br />

<strong>di</strong>fficile che si apra uno spazio per una crisi profonda. Vi saranno sempre tensioni, delusioni,<br />

sconfitte – fanno parte della croce del <strong>di</strong>scepolo – ma il modo <strong>di</strong> affrontarle sarà <strong>di</strong>verso se<br />

invece <strong>di</strong> sentirsi soli si appartiene ad una comunità. L’appartenenza alla Chiesa <strong>di</strong>ocesana –<br />

per dare il nome proprio alla triplice relazione <strong>di</strong> cui stiamo parlando – <strong>di</strong>venta elemento<br />

irrinunciabile dell’identità non solo teologica ma anche pastorale del presbitero. Non un<br />

libero battitore, per quanto animato da generosità e carismi, ma uno consapevole <strong>di</strong><br />

appartenere alla famiglia che si chiama “<strong>di</strong>ocesi”: una comunità locale con un proprio<br />

“volto”, una sua storia, problemi e situazioni peculiari, scelte pastorali specifiche. Giovanni<br />

Paolo II nella Pastores dabo vobis n. 31 ha parlato della <strong>di</strong>ocesanità come valore spirituale<br />

per il presbitero, il cui ministero consiste nella de<strong>di</strong>cazione stabile alla Chiesa particolare.<br />

Questa è la sua identità pastorale: il prete è un battezzato che accoglie la chiamata a spendersi<br />

completamente nel nome <strong>di</strong> Cristo per la Chiesa locale e, in essa, per la Chiesa universale. Se<br />

tutti i presbiteri sono chiamati ad assumere la spiritualità <strong>di</strong>ocesana, servirla e farla crescere, i<br />

presbiteri <strong>di</strong>ocesani ne fanno ad<strong>di</strong>rittura il perno della loro spiritualità. Altri carismi,<br />

provenienti da congregazioni e or<strong>di</strong>ni religiosi, da movimenti e cammini, potranno certo<br />

arricchire la spiritualità <strong>di</strong> un presbitero <strong>di</strong>ocesano, ma non configurarla nella sua struttura,<br />

perché essa è già plasmata dall’appartenenza e de<strong>di</strong>cazione ad una Chiesa locale, nella quale<br />

spende le proprie energie per l’annuncio, la celebrazione e l’e<strong>di</strong>ficazione del popolo <strong>di</strong> Dio.<br />

9. Dal Vaticano II in avanti questa de<strong>di</strong>cazione, con tutte le esigenze che comporta, viene<br />

riassunta nell’espressione carità pastorale, contenuta in PO 14, riba<strong>di</strong>ta e sviluppata a fondo<br />

in Pastores dabo vobis 21-23 e rilanciata più volte dai vescovi italiani. In particolare questi<br />

ultimi, nei loro interventi sul ministero ma anche nella Ratio per la formazione nei seminari<br />

(2006), tracciano una figura <strong>di</strong> presbitero inserito in una trama ricca <strong>di</strong> relazioni con i laici, gli<br />

altri presbiteri e il vescovo. Un prete in grado <strong>di</strong> ascoltare la comunità per la quale si spende e<br />

<strong>di</strong> responsabilizzare i laici: non è più il tempo dei laici-esecutori e neppure solo dei laicicollaboratori:<br />

è il tempo dei laici-corresponsabili. Un prete inserito nel presbiterio, nel quale<br />

sia possibile e desiderabile vivere esperienze <strong>di</strong> comunicazione fraterna e magari anche <strong>di</strong> vita<br />

comunitaria; e in rapporto <strong>di</strong> collaborazione con i <strong>di</strong>aconi. Un presbitero in relazione cor<strong>di</strong>ale<br />

e sincera con il proprio vescovo, con il quale possa avere momenti <strong>di</strong> confronto ed al quale<br />

possa esprimere il proprio pensiero con schiettezza, anche quando <strong>di</strong>fferisce dal suo.<br />

È facile indovinare la miriade <strong>di</strong> problemi pratici legati a questa triplice relazione, che<br />

interrogano e stimolano la riflessione teologica. Basti pensare alle <strong>di</strong>fficoltà da parte <strong>di</strong> alcuni<br />

presbiteri a formare laici responsabili superando la mentalità della delega e la <strong>di</strong>fficoltà da<br />

parte degli stessi laici, in alcuni casi, a collaborare come veri “responsabili”, cioè non solo in<br />

fase esecutiva ma prima ancora nella fase del <strong>di</strong>scernimento e del consiglio; e a questo<br />

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proposito ci si deve interrogare sulla <strong>di</strong>saffezione da tempo riscontrabile verso il “Consigli<br />

pastorali”, organismi nei quali dal Concilio in avanti si intendeva offrire uno strumento <strong>di</strong><br />

“<strong>di</strong>scernimento comunitario” e corresponsabilità, e che invece troppo spesso vengono<br />

incaricati <strong>di</strong> risolvere i problemi pastorali, quasi fossero non uno strumento la cui efficacia<br />

<strong>di</strong>pende dall’ecclesiologia sottostante, ma una bacchetta magica che agisce per virtù propria.<br />

Basti pensare, ancora, al rapporto oggi abbastanza pacifico ma non ancora del tutto chiarito<br />

tra parrocchie e <strong>di</strong>ocesi da una parte e associazioni e movimenti dall’altra.<br />

Passando al presbiterio, è agevole e incoraggiante riscontrare i tentativi (incontri, ritiri,<br />

settimane <strong>di</strong> fraternità...) che in tutte le Chiese locali vengono portati avanti per ridare corpo<br />

ad un istituto che aveva perso la sua pregnanza sacramentale – “presbiterio” per Ignazio <strong>di</strong><br />

Antiochia è una grandezza teologica, la “corona del vescovo”, mentre dal Me<strong>di</strong>oevo al<br />

Vaticano II è una grandezza architettonica, ossia la parte dell’e<strong>di</strong>ficio sacro delimitata dalla<br />

balaustra: ma non è facile, come sappiamo, passare da un presbiterato inteso in chiave<br />

prevalentemente in<strong>di</strong>viduale ad uno inteso in chiave comunitaria, da uno stile presbiterale a<br />

uno presbiteriale, dove nessuno si senta detentore del compito che gli è affidato (la mia<br />

parrocchia, il mio movimento, il mio centro <strong>di</strong>ocesano), ma si sappia inviato dal vescovo e dal<br />

presbiterio in quella realtà, che non è sua ma gli è temporaneamente affidata. La maturazione<br />

pratica del “presbiterio” va <strong>di</strong> pari passo con l’acquisizione <strong>di</strong> una spiritualità “<strong>di</strong>ocesana”,<br />

che faccia avvertire al presbitero l’appartenenza all’intera Chiesa locale e non ad una sola<br />

delle sue espressioni (parrocchia, movimento, ambito pastorale).<br />

Per citare infine almeno un aspetto connesso alla relazione con il vescovo: oggi, a parte i<br />

problemi legati alla <strong>di</strong>versità <strong>di</strong> carattere o <strong>di</strong> impostazione pastorale che un presbitero può<br />

avvertire verso il proprio vescovo, vi sono motivi oggettivi che richie<strong>don</strong>o un ripensamento –<br />

in molti casi avviato – <strong>di</strong> questa relazione; che cos’hanno in comune, ad esempio, l’esercizio<br />

della paternità episcopale in una piccola <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> poche decine <strong>di</strong> presbiteri, dove il contatto<br />

può essere informale e frequente, con una grande <strong>di</strong>ocesi <strong>di</strong> centinaia <strong>di</strong> presbiteri, dove<br />

invece inevitabilmente il contatto <strong>di</strong>venta raro e deve essere programmato? Come far sì che<br />

non si perda, nemmeno nelle gran<strong>di</strong> <strong>di</strong>ocesi, quella relazione umana e calda che è sempre la<br />

base per ridurre i pregiu<strong>di</strong>zi e favorire una convinta corresponsabilità? Tanto più che il<br />

sovraccarico burocratico che affligge i presbiteri colpisce i vescovi in misura enormemente<br />

maggiore.<br />

10. An<strong>di</strong>amo rapidamente verso la conclusione. La vicenda postconciliare del presbiterato,<br />

appena tratteggiata, ha lasciato emergere il fitto intreccio tra teologie e pratiche: un intreccio<br />

necessario e fecondo, se non vogliamo cadere in una sorta <strong>di</strong> platonismo ministeriale;<br />

dobbiamo infatti accettare che il presbiterato non sia dato una volta per tutte, non cada<br />

impacchettato dal cielo, ma “<strong>di</strong>venga” ed evolva nella storia, assuma accenti sempre nuovi,<br />

risenta dei contraccolpi delle mutate situazioni sociali e pastorali ed esso stesso le influenzi.<br />

Se infatti è Cristo Pastore il soggetto, l’origine e il costante punto <strong>di</strong> riferimento del<br />

ministero, è poi la Chiesa il suo ambito concreto, il suo luogo <strong>di</strong> crescita e <strong>di</strong> esercizio: anche<br />

la comunità quin<strong>di</strong>, con le sue relazioni e il suo volto concreto, fa parte dell’identità del<br />

ministero e non ne è solamente il vuoto recipiente; è invece il luogo nel quale cresce e prende<br />

corpo la “carità pastorale”.<br />

L’oscillazione tra la sponda cristologica e quella ecclesiale, come abbiamo notato, ha<br />

caratterizzato la teologia del ministero nell’ultimo mezzo secolo; l’immagine del pendolo, che<br />

all’inizio del Novecento Schweitzer utilizzò per la ricerca sul Gesù storico, vale anche per la<br />

teologia del ministero or<strong>di</strong>nato: a ridosso del Concilio il pendolo era totalmente spostato<br />

verso la sponda cristologica del “sacerdos alter Christus”, del sacerdote me<strong>di</strong>atore tra il cielo<br />

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e la terra, del presbitero “sopra” la comunità; il Vaticano II collocò il pendolo al centro,<br />

insistendo sulla <strong>di</strong>mensione ecclesiale del presbiterato, come servizio nella e per la comunità;<br />

la contestazione successiva portò il pendolo all’estremo opposto rispetto alla visione preconciliare,<br />

assolutizzando la relazione del ministro con la comunità e facen<strong>don</strong>e un semplice<br />

coor<strong>di</strong>natore <strong>di</strong> carismi senza alcuna consistenza “ontologica” e provocando oscillazioni<br />

cultuali e sacrali <strong>di</strong>ametralmente opposte; dal Sinodo del 1971 alla Pastores dabo vobis il<br />

Magistero riportò il pendolo verso il centro, spostato però rispetto al Concilio – per reazione<br />

al <strong>di</strong>ssenso e alla crisi – verso il versante cristologico, sottolineandolo come “primario” e<br />

fondante rispetto a quello ecclesiale; nell’ultimo ventennio, infine, buona parte della<br />

riflessione teologica sta cercando <strong>di</strong> integrare meglio le due <strong>di</strong>mensioni, evidenziando<br />

l’importanza delle relazioni ecclesiali. Il pendolo è però ancora oggi in movimento, perché si<br />

riscontrano nella teologia e nella pratica approcci ecclesiologici – e <strong>di</strong> conseguenza<br />

concezioni <strong>di</strong> ministero – molto <strong>di</strong>versi. Il problema del ministero, infatti, riguarda<br />

<strong>di</strong>rettamente l’ecclesiologia e solo in<strong>di</strong>rettamente la teologia sacramentaria: le <strong>di</strong>verse<br />

pratiche pastorali, ora più aperte al <strong>di</strong>alogo con il mondo ora più tese a ricompattare le fila dei<br />

cristiani – in fondo l’eterna rie<strong>di</strong>zione del <strong>di</strong>battito che trent’anni fa contrapponeva i cristiani<br />

della presenza a quelli del me<strong>di</strong>azione – e le <strong>di</strong>verse ecclesiologie che ne sono alla base,<br />

<strong>di</strong>ventano determinanti nella configurazione del ministero presbiterale.<br />

Non si giungerà mai a una figura unica e definitiva <strong>di</strong> presbitero, e non vi si dovrà mai<br />

giungere, se è vero che deve plasmarsi sulle esigenze mutevoli della missione ecclesiale nella<br />

storia e nella geografia. Se guar<strong>di</strong>amo anche solo alla Chiesa in Italia, sono oggi numerose le<br />

versioni concrete assunte dal ministero presbiterale: convivono legittimamente presbiteri che<br />

vivono il ministero in chiave prevalentemente liturgica e sacramentale, con altri che mettono<br />

al primo posto la testimonianza della carità nelle situazioni <strong>di</strong>sagiate; presbiteri che si<br />

de<strong>di</strong>cano essenzialmente all’animazione della comunità cristiana e alla pastorale cosiddetta<br />

or<strong>di</strong>naria, con altri che accolgono le sfide dei “nuovi areopaghi” della cultura e<br />

comunicazione, percorrendo le <strong>di</strong>verse possibilità offerte oggi dai mass me<strong>di</strong>a; presbiteri che<br />

puntano sulle relazioni interpersonali e si pongono come accompagnatori e guide spirituali,<br />

con altri che spen<strong>don</strong>o le loro migliori energie nell’insegnamento della religione, teologia e<br />

scienze umane o magari, almeno per certi perio<strong>di</strong> e in certe situazioni, assumono compiti <strong>di</strong><br />

supplenza nei campi dell’educazione, promozione umana e professionale o altro.<br />

Sono tutte variazioni legittime, <strong>di</strong>cevo; però alla luce del Vaticano II e degli sviluppi<br />

successivi possiamo <strong>di</strong>re che la <strong>di</strong>versità non può <strong>di</strong>ventare giustapposizione anarchica – ma<br />

deve corrispondere ad alcuni criteri, che fungono anche da linee operative teologico-pastorali<br />

per un presbiterato adeguato alle esigenze o<strong>di</strong>erne.<br />

Il Vaticano II aveva bene integrato le tre concezioni – cultuale, profetica e pastorale –<br />

fondendole in un’unica descrizione del ministero: un primo criterio è la tensione verso<br />

l’integrazione dei tre compiti, per cui non si dovrebbe favorire ad esempio un presbiterato<br />

unicamente cultuale che, come ho accennato, rappresenta un rischio favorito dal calo<br />

numerico dei presbiteri; ma costituisce un rischio anche là dove il presbitero è chiamato<br />

unicamente a presiedere l’eucaristia in una comunità, verso la quale non svolge alcun servizio<br />

<strong>di</strong> formazione. Non si dovrebbe neppure favorire, per fare un altro esempio, una scissione tra<br />

compito profetico e pastorale; la necessaria specializzazione, per cui non tutti devono fare<br />

tutto, non può comunque privare i pastori del tempo necessario per stu<strong>di</strong>are e i pre<strong>di</strong>catori e<br />

professori <strong>di</strong> una significativa immersione pastorale.<br />

Il secondo criterio, ispirato ancora ai testi conciliari ma integrato con le successive<br />

riflessioni sulla spiritualità <strong>di</strong>ocesana, riguarda le oggettive esigenze della Chiesa locale nella<br />

quale il presbitero svolge il suo servizio. La triplice relazione che costituisce l’ossatura della<br />

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spiritualità del presbitero <strong>di</strong>ocesano – con il popolo <strong>di</strong> Dio a cui è inviato, con il presbiterio e<br />

il vescovo – orienta la configurazione concreta che assume il suo servizio. Non si dà un<br />

presbiterato assoluto, “a-topico”, quasi che uno sia programmato “in provetta” per<br />

qualsivoglia situazione pastorale e possa configurare il suo ministero allo stesso modo a<br />

Brescia, a Bologna o a Pechino. Il ministero assumerà invece il volto della Chiesa locale che<br />

serve, respiran<strong>don</strong>e la storia e i problemi, accoglien<strong>don</strong>e le in<strong>di</strong>cazioni pastorali e le priorità<br />

missionarie, mettendosi a <strong>di</strong>sposizione del vescovo, inserendosi cor<strong>di</strong>almente nella trama <strong>di</strong><br />

relazioni laicali e presbiterali ivi presenti, coltivando specialmente il presbiterio. E tutto ciò<br />

vale anche per i presbiteri religiosi e per quelli che provengono da movimenti, cammini e<br />

associazioni.<br />

Un terzo e ultimo criterio, infine, riguarda i <strong>don</strong>i naturali e soprannaturali <strong>di</strong> ciascun<br />

presbitero. I due criteri oggettivi appena esposti non possono far <strong>di</strong>menticare che ogni<br />

presbitero è dotato <strong>di</strong> attitu<strong>di</strong>ni, capacità e carismi peculiari: l’interpretazione concreta del<br />

ministero, quin<strong>di</strong>, deriverà anche da queste singolarità, che – nell’ottica della<br />

complementarità delle membra – non può che arricchire l’esperienza ecclesiale. Chi ha<br />

particolari <strong>don</strong>i <strong>di</strong> parola li metterà a frutto in qualsiasi tipo <strong>di</strong> ministero, sia esso <strong>di</strong>rettamente<br />

pastorale oppure accademico o magari mass-me<strong>di</strong>atico. O chi ha una sensibilità spiccata per<br />

gli ultimi, la trasporterà all’interno <strong>di</strong> ogni compito gli venga affidato, <strong>di</strong>venti egli parroco<br />

oppure padre spirituale in Seminario. E così via.<br />

Quanto più si faranno interagire questi tre criteri, nell’attenzione alle necessità oggettive<br />

della Chiesa e ai <strong>don</strong>i soggettivi dei singoli, tanto più ci si attrezzerà a superare la “crisi<br />

pastorale” dei presbiteri e li si aiuterà ad essere nella Chiesa – ecco ciò che deve rimanere<br />

fermo, in mezzo a tutte le variazioni – segno della premura <strong>di</strong> Cristo per gli uomini e con gli<br />

uomini del loro tempo.<br />

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<strong>don</strong> <strong>Erio</strong> <strong>Castellucci</strong>

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