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ITALIANO - FILOSOFIA<br />
Il pessimismo: Leopardi e Schopenhauer<br />
“ E’ funesto a chi nasce il dì natale” (Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante<br />
dell’Asia)<br />
“Quando pensiamo con orrore alla morte, la consolazione più sicura ed efficace che ci è <strong>da</strong>ta è<br />
saper che essa ha almeno questo di buono, che è la fine della v<strong>it</strong>a (…); è dolce poter sperare di<br />
non vivere per sempre “ (Arthur Schopenhauer, Taccuino).<br />
Schopenhauer conosceva sicuramente le opere di Leopardi, di cui scrive più volte nelle<br />
lettere ad amici e discepoli come del “proprio fratello spir<strong>it</strong>uale <strong>it</strong>aliano”. “Mai nessuno<br />
ha trattato i dolori della v<strong>it</strong>a così a fondo come Leopardi – scrive Schopenhauer nei<br />
Supplementi al IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione – Egli ne è tutto<br />
pervaso e compenetrato. Il suo tema è sempre la beffa e la miseria di questa<br />
esistenza"<br />
Il primo ad accostare l’opera di Leopardi alla filosofia di Schopenhauer fu Francesco<br />
De Sanctis con il Dialogo fra A. e D. pubblicato nel 1858. “Leopardi e Schopenhauer –<br />
scriveva De Sanctis – sono una cosa. Quasi nello stesso tempo l’uno creava la<br />
metafisica e l’altro la poesia del dolore. Entrambi pongono a principio del mondo lo<br />
stesso potere cieco e maligno”.<br />
Il fon<strong>da</strong>mentale elemento di parentela tra il poeta e il filosofo è la metafisica del<br />
desiderio. Il cosmo leopardiano (illustrato soprattutto nello Zibaldone) sembra una<br />
grande macchina desiderante (“Gli esseri viventi desiderano sempre essenzialmente e<br />
mirano unicamente al piacere, alla felic<strong>it</strong>à, che considerandola bene è tutt’uno col<br />
piacere”).<br />
Questo “desiderio senza lim<strong>it</strong>e” , come la volontà di Schopenhauer, è la causa<br />
fon<strong>da</strong>mentale della illim<strong>it</strong>ata infelic<strong>it</strong>à dei viventi: “Qualunque piacere, ancorchè grande<br />
– scrive Leopardi nello Zibaldone – ha lim<strong>it</strong>i, quindi nessun piacere può soddisfare il<br />
vivente, perché questi desidera sempre di più”. Allo stesso modo in Schopenhauer è<br />
proprio questa consapevolezza il principio della noia e del dolore dell’esistenza: "Ogni<br />
volere proviene <strong>da</strong> un bisogno, cioè <strong>da</strong> una privazione, cioè <strong>da</strong> una sofferenza. La<br />
sofferenza vi mette un termine; ma per un desiderio che tiene soddisfatto, ce ne sono<br />
dieci almeno che debbono essere contrariati; per di più, ogni forma di desiderio sembra<br />
non aver mai fine, e le esigenze tendono all’infin<strong>it</strong>o, la soddisfazione è breve e<br />
amaramente misurata. Ma l’appagamento finale non è poi che apparente: ogni<br />
desiderio soddisfatto cede sub<strong>it</strong>o il posto ad un nuovo desiderio: il primo è una<br />
disillusione riconosciuta, il secondo una disillusione non ancora riconosciuta" (Il mondo<br />
come volontà e rappresentazione, 1818).<br />
L’infelic<strong>it</strong>à umana deriva quindi, per entrambi, <strong>da</strong>lla insuperabile distanza tra l’infin<strong>it</strong>à<br />
del desiderio e la fin<strong>it</strong>ezza della realtà e il piacere non è che una momentanea<br />
cessazione del dolore. Per Schopenhauer la soddisfazione di un desiderio o ne susc<strong>it</strong>a<br />
altri o fa precip<strong>it</strong>are l’uomo nella condizione negativa della noia. Anche per Leopardi la