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La stagione 06-07 - Conservatorio della Svizzera Italiana

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N o v e c e n t o<br />

e p r e s e n t e<br />

Perché il pubblico non ama<br />

la musica contemporanea?<br />

Nadir Vassena<br />

20<strong>06</strong> 20<strong>07</strong><br />

Non è forse la domanda più appropriata da porre al pubblico dei concerti di Novecento<br />

e presente che, con la sua presenza e assiduità, smentisce almeno in parte<br />

questo luogo comune.<br />

Chiariamolo subito, quella di «musica contemporanea» è un’etichetta, così come<br />

altre, che vuol dire poco o nulla e che nuoce alla musica stessa. L’utilizzo di una<br />

connotazione temporale per descrivere quello che sembra piuttosto essere un<br />

genere di musica dovrebbe però già renderci attenti. Senza dimenticare quanto<br />

ciò sia problematico, accontentiamoci per ora di questa approssimazione: come<br />

vedrete ci muoviamo su di un terreno estremamente scivoloso.<br />

Ma è possibile amare (ed uso esplicitamente questo verbo) la musica contemporanea<br />

allo stesso modo, ad esempio, <strong>della</strong> «musica classica»?<br />

Si tratta di una nuova/altra forma d’arte? Si tratta <strong>della</strong> stessa cosa, dell’evoluzione<br />

– secondo alcuni riuscita, secondo altri meno – di un percorso che ha le sue<br />

«origini» nella musica classica? Oppure, percorrendo una terza via più generosa<br />

di sfumature, come quella sostenuta dal compositore e teorico francese François<br />

Nicolas, musica classica e musica contemporanea sono una cosa unica per la<br />

natura comune delle domande che si pongono, ma si distinguono radicalmente<br />

dal punto di vista delle risposte che danno a queste domande comuni?<br />

Probabilmente non tutte le musiche si pongono la stessa domanda, e di sicuro ve<br />

ne sono che di domande non se ne pongono (e non ve ne pongono) affatto. Cominciamo<br />

da qui, anche se non avete forse mai pensato che la musica potesse por-


e delle domande. Per definire sommariamente un concetto come quello di musica<br />

non ci vuole molto. Un minimo di organizzazione sembra essere la discriminante<br />

sufficiente; converrete infatti che il suono di un’auto che passa per strada<br />

non è musica, ma gli effetti (scratches) di un deejay su un disco di vinile sono da<br />

considerare a tutti gli effetti musica. È necessario però restringere il campo: c’è<br />

«la musica» e c’è «la musica come arte». Corriamo pure il rischio di essere accusati<br />

di snobismo: non tutta la musica è arte e la ragione di questa discriminazione<br />

non ha nulla a che vedere con la sua qualità. (Allo stesso modo nessuno metterebbe<br />

in dubbio che le foto delle mie vacanze a Parigi non sono artisticamente paragonabili<br />

a quelle di Henri Cartier-Bresson). Il confine tra «musica» e «musica come<br />

arte» non è certo netto, né sempre facile da tracciare.<br />

Se siete d’accordo con me su queste argomentazioni, allora concorderete anche<br />

che stiamo parlando, a proposito <strong>della</strong> musica classica, <strong>della</strong> musica contemporanea<br />

e di altre forme inadeguatamente definite come colte (e il jazz?), di «musica<br />

come arte»: e a questo punto non è più necessario usare il plurale. Un plurale ingannevole<br />

che ipocritamente usiamo per essere politically correct, parlando di<br />

musiche per evitare discriminazioni e, così facendo, apriamo la strada alla banalità<br />

mettendo tutto sullo stesso piano: la canzonetta di un’estate accanto alla<br />

Matthäuspassion di Johann Sebastian Bach. Gli esempi di questa confusione (che<br />

ha delle ripercussioni devastanti sulla politica culturale a tutti i livelli) sono innumerevoli<br />

e non solo in casa nostra: dal politico italiano che qualche anno fa parlava<br />

di «musica popolare contemporanea» alla star <strong>della</strong> musica pop tedesca più<br />

becera che sventola su tutti i media affermazioni del tipo «Bach e Beethoven scriverebbero<br />

oggi la stessa musica che faccio io e lo stesso vale ovviamente anche<br />

all’inverso per me». Quante volte abbiamo sentito questa idiozia!<br />

Quante volte abbiamo sentito sostenere che la musica pop sia la vera espressio-


ne del nostro tempo. Ciò è certamente vero se alla musica chiediamo di intrattenerci<br />

piacevolmente, mentre stiriamo le camicie – attività noiosissima, tollerabile<br />

solo se distratti da qualcos’altro – oppure se la usiamo per tenere alto il ritmo durante<br />

gli esercizi di spinning in palestra – attività faticosissima (e inutile?) per la<br />

quale pure abbiamo bisogno di distrazione. Ma l’arte non è né distrazione, né<br />

espressione dei nostri sentimenti quotidiani: semmai il contrario, essa ci spinge<br />

verso ciò che manca alla nostra quotidianità; usando le parole di Giovanni Vattimo,<br />

«… ci fa riflettere sul fatto che non siamo fatti soltanto per procedere nel nascere<br />

e morire, ma per qualche cos’altro. Questo qualche cos’altro è un enigma. E un’opera<br />

d’arte lo rappresenta come enigma, senza risolverlo mai pienamente».<br />

<strong>La</strong> musica contemporanea non può essere utilizzata come musica di sottofondo.<br />

<strong>La</strong> cosa è tanto più curiosa, e sintomatica, se si pensa a come i rumori (di fondo)<br />

siano spesso integrati e diventino parte costituente di molti lavori. Non si può<br />

ascoltare Stockhausen mentre si cucina; Rossini, al contrario, funziona benissimo<br />

e non solo perché il compositore di Pesaro era famoso per le sue ricette.<br />

Ci avviciniamo a quello che mi sembra essere il cuore del problema. C’è una musica<br />

che rifiuta qualsiasi de- o ri-funzionalizzazione (come invece capita per gran<br />

parte del repertorio classico), una musica che è solo musica da ascolto e non<br />

musica da discoteca, musica da salotto, musica da ballo, musica da intrattenimento,<br />

musica da film, ecc. Ovviamente anche tutti questi altri generi si ascoltano<br />

(o si possono ascoltare), ma l’esperienza dell’ascolto non è l’aspetto centrale<br />

<strong>della</strong> pratica a cui sono correlati. Non urlate! Non si tratta di trincerarsi dietro ad<br />

un art pour l’art quale ultima spiaggia degli incompresi, ma semplicemente (quanto<br />

scandalosamente) di rivendicare il diritto ad un art pour les oreilles.<br />

Non è un ascolto tecnico quello richiesto all’ascoltatore, non si deve, come spesso<br />

capita di sentir dire, «capire» la musica, o almeno non sempre o non più.


<strong>La</strong> musica contemporanea, in particolare – diversamente da altre forme di musica<br />

che si muovevano dialetticamente all’interno di codici stilistici ben precisi – non<br />

richiede e non si rivolge ad un pubblico con delle conoscenze tecniche specifiche.<br />

Reinventandosi ogni volta da capo, chiede a squarciagola solo di essere<br />

ascoltata (e non per nulla questo urlo è spesso al limite del silenzio, per distinguersi,<br />

distanziarsi dal caos acustico del quotidiano).<br />

Questa pratica dell’ascolto, di cui curiosamente non si parla quasi mai, è un’arte<br />

tra le più trascurate nella nostra società. Non è la musica ad essere faticosa, è<br />

ascoltare che è faticoso se non si è avvezzi e pronti, un allenamento questo che,<br />

ripetiamolo, non è cerebrale e nemmeno da confondere con l’assuefazione, ma<br />

comporta un’apertura dei (e ai) sensi.<br />

<strong>La</strong> musica di cinquant’anni fa continua ad essere «contemporanea» perché si rifà<br />

ad un’idea di tempo (psicologico, sociale, politico, ecc.) da abitare al momento<br />

dell’ascolto che si distanzia da quella banale imperante nella nostra società. Qui<br />

sta la dimensione politica <strong>della</strong> «musica <strong>della</strong> contemporaneità» che, aprendo la<br />

via ad una raffronto profondo con se stessi, come ogni tecnologia del sé, è anche<br />

pericolosa e quindi sgradita.<br />

L’avanguardia del secondo dopoguerra ha potuto approfittare di una certa tolleranza<br />

nei confronti del nuovo e <strong>della</strong> sperimentazione. Oggi, in un periodo in cui<br />

si parla solo di fissare delle priorità e di razionalizzare, non si è più disposti a far<br />

credito ad un’arte incerta. L’assenza di senso e di scopo che permea la musica<br />

contemporanea è una condizione che condivide con il pensiero occidentale a partire<br />

dagli inizi del secolo scorso. Questa sensazione d’impotenza ha avuto come<br />

reazioni estreme, anche in musica, da una parte il tentativo di recuperare nostalgicamente<br />

il passato (tutti i vari neo- e -ismi, neoclassicismo, neoromanticismo,<br />

ecc.) e dall’altra la derisione e il sarcasmo dei disfattisti. Tutti atteggiamenti che,


come si è visto sono destinati al fallimento e, in ogni caso, non si mostrano molto<br />

fruttuosi perché evitano di affrontare il problema alla radice.<br />

Invece di fare del catastrofismo si dovrebbe accettare di percorrere fino in fondo<br />

questo labirinto e affrontare il Minotauro che ci dice che il senso <strong>della</strong> musica di<br />

oggi è quello di metterci di fronte alla mancanza di senso, e ci invita ad abbandonarci<br />

senza riserve al qui ed ora di un’esistenza (contemporanea) ormai senza più<br />

fini ma non per questo meno vera. In questo senso (mi perdonerete il gioco di parole)<br />

la musica contemporanea incarna al meglio le angosce del nostro tempo. Angosce<br />

che restano tali fino a quando non si affrontano attraverso questo sentirsi-sentire<br />

che la musica favorisce e offre. Allora, almeno nei casi più riusciti, l’angoscia<br />

si trasforma in amore e l’apertura all’ascolto in godimento dei sensi.


Giorgio Bernasconi<br />

Nato a Lugano, si è diplomato in corno al <strong>Conservatorio</strong> G. Verdi di Milano. Ha<br />

proseguito gli studi presso la Hochschule für Musik di Friburgo in Germania dove<br />

ha studiato composizione con Klaus Huber e direzione d’orchestra con Francis<br />

Travis, diplomandosi nel 1976.<br />

È stato per anni animatore e direttore del Gruppo Musica Insieme di Cremona, con<br />

il quale ha svolto un’intensa attività concertistica. Ha collaborato con la cantante<br />

Cathy Berberian con la quale ha effettuato numerosi concerti in Italia e all’estero.<br />

Dal 1982 è regolarmente invitato a dirigere l’Ensemble Contrechamps di Ginevra<br />

con il quale, oltre ad essere costantemente presente nelle più importanti sedi<br />

concertistiche europee, ha effettuato tournées in Sudamerica, India, Giappone,<br />

Russia.<br />

Parallelamente a questa attività è spesso ospite di diverse orchestre italiane e<br />

straniere quali l’Orchestra <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana, l’Orchestra Sinfonica dell’Emilia<br />

Romagna «Arturo Toscanini», l’Orchestra Nazionale Belga, la Tokyo Symphony Orchestra,<br />

l’Orchestra Filarmonica di Radio France.<br />

Dal 1999 si occupa dei concerti di musica da camera dedicati al repertorio novecentesco<br />

presso il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana, dove è titolare dell’insegnamento<br />

<strong>della</strong> direzione d’orchestra per il repertorio contemporaneo.


Domenica 26 novembre 20<strong>06</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30<br />

MMaauurriiccee JJaauubbeerrtt 1900-1940<br />

Musiche per il film:<br />

Die wunderbare Lüge der Nina Petrowna<br />

Sublime menzogna<br />

1929<br />

Nina Petrowna Brigitte Helm<br />

L’aspirante ufficiale Franz Lederer<br />

Il colonnello Warwoch Ward<br />

regia di Hans Schwarz


Domenica 17 dicembre 20<strong>06</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30<br />

OOssccaarr BBiiaanncchhii *1975<br />

Zaffiro<br />

per 4 strumenti<br />

HHaannssppeetteerr KKyybbuurrzz *1960<br />

Danse aveugle<br />

per 5 strumenti<br />

NNaaddiirr VVaasssseennaa *1970<br />

Macchine da guerra, fanti e cavalieri<br />

per ensemble e suoni sintetizzati<br />

prima esecuzione


RRoobbeerrtt SSaaxxttoonn *1953<br />

Sonata for Solo Cello<br />

violoncello Anthony Woollard<br />

GGiioovvaannnnii VVeerrraannddoo *1965<br />

Il ruvido dettaglio celebrato da Aby Warburg<br />

per 5 strumenti<br />

GGiioorrggiioo CCoolloommbboo TTaaccccaannii *1961<br />

Les feuilles douces<br />

per 8 strumenti


Domenica 14 gennaio 20<strong>07</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30<br />

AAnnttoonn WWeebbeerrnn 1883-1945<br />

Sechs Stücke op. 6<br />

per orchestra<br />

trascrizione per orchestra da camera<br />

di Anton Webern<br />

AAllbbaann BBeerrgg 1885-1935<br />

Sieben frühe Lieder<br />

per voce e orchestra<br />

trascrizione per orchestra da camera<br />

di Reinbert de Leeuw<br />

soprano Silvana Torto


GGuussttaavv MMaahhlleerr 1860-1911<br />

Kindertotenlieder<br />

per voce e orchestra<br />

trascrizione per orchestra da camera<br />

di Reiner Riehn<br />

baritono Robert P. Koller<br />

AArrnnoolldd SScchhöönnbbeerrgg 1874-1951<br />

Fünf Orchesterstücke op.16<br />

per orchestra<br />

trascrizione per orchestra da camera<br />

di Felix Greissle


AAllffrreeddoo CCaasseellllaa 1883-1947<br />

Pupazzetti op. 27 ter<br />

per 9 strumenti<br />

Domenica 18 febbraio 20<strong>07</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30<br />

GGooffffrreeddoo PPeettrraasssii 1904-2003<br />

Sonata da camera<br />

per clavicembalo e 10 strumenti<br />

clavicembalo Stefano Molardi<br />

OOttttoorriinnoo RReessppiigghhii 1879-1936<br />

Il tramonto<br />

per soprano e quartetto d’archi<br />

soprano Luisa Castellani<br />

FFrraanncciiss PPoouulleenncc 1899-1963<br />

Aubade<br />

concerto coreografico per pianoforte e 18 strumenti<br />

pianoforte Matteo Schürch


PPhhiilliipp GGllaassss *1937<br />

Einstein on the Beach<br />

testi propri, di C. Knowles, L. Child e Samuel Johnson<br />

per soprano, violino, 3 voci recitanti<br />

piccolo coro e strumenti<br />

soprano Barbara Zanichelli<br />

violino Mariarosaria D’Aprile<br />

voci recitanti Matteo Ghilardi, Signe Holtsmark e Sabine Zahn<br />

voci bianche Coro Clairière del <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana<br />

direzione coro Brunella Clerici<br />

regista del suono e coordinatore Fabrizio Rosso<br />

collaboratore tecnico Luca Congedo<br />

Domenica 11 marzo 20<strong>07</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30<br />

Progetto in coproduzione con SUPSI -<strong>La</strong>boratorio Cultura Visiva


KKuurrtt WWeeiilll 1900-1950<br />

Happy End<br />

commedia con musica di Dorothy <strong>La</strong>ne<br />

testi poetici di Bertolt Brecht<br />

adattamento di Italo Alighiero Chiusano<br />

per voce, attori e strumenti<br />

soprano Cristina Zavalloni<br />

attori Claudio Moneta, Antonio Ballerio, Augusto Di Bono,<br />

Davide Garbolino, Elda Olivieri<br />

Progetto in coproduzione con SUPSI -<strong>La</strong>boratorio Cultura Visiva<br />

Domenica 1. aprile 20<strong>07</strong><br />

Lugano, Auditorio Stelio Molo RSI, 17.30


<strong>Conservatorio</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana<br />

Il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana (CSI), è l’unica istituzione in <strong>Svizzera</strong> che<br />

offra una formazione musicale professionale in lingua italiana in grado di richiamare<br />

studenti provenienti da tutto il mondo: Nord e Sud America, Russia, Giappone,<br />

Corea, Australia, e naturalmente Europa e <strong>Svizzera</strong>. Oltre al Bachelor triennale, la<br />

Scuola Universitaria del CSI offre quattro corsi di studio (Master) per il conseguimento<br />

del Diploma di Pedagogia Musicale, Diploma di Perfezionamento, Diploma<br />

di Solista, Diploma di Educazione Musicale Elementare, Diploma di Direzione<br />

d’Orchestra di Fiati, Diploma di Direzione per il Repertorio Contemporaneo. Particolare<br />

rilievo è stato dato allo studio <strong>della</strong> «nuova musica», alla sua esecuzione ed<br />

alla sua interpretazione. Ciò si realizza attraverso importanti collaborazioni con<br />

compositori attivi a livello internazionale, e la recente istituzione di un Centro di<br />

Competenza per lo studio <strong>della</strong> Musica Contemporanea «Spazio21».<br />

Il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo (DRS), ha l’obiettivo di implementare la ricerca<br />

e verificarne le possibili applicazioni. A questo scopo, particolare importanza è<br />

stata data agli studi legati alla Psicologia, alla Fisiologia e alla Pedagogia <strong>della</strong><br />

musica, grazie anche alla collaborazione con istituzioni prestigiose, come il Royal<br />

College of Music (Londra), e la New York University (USA) insieme agli studi sulla<br />

ricezione musicale.<br />

<strong>La</strong> stretta continuità tra il lavoro del DRS e quello del Dipartimento Servizi ha permesso<br />

la realizzazione d’occasioni d’aggiornamento professionale di rilievo internazionale<br />

(Zoning In, Aaron Williamon – Royal College of Music, String instruments<br />

Group teaching and orchestra, Robert Culver – University of Michigan School of<br />

Music, Manfredo Zimmermann). Queste si collocano accanto ad un programma<br />

di post-formazione ampiamente articolato, che spazia dalla Pedagogia Musicale,<br />

all’Educazione Musicale Elementare, al Perfezionamento Strumentale, e che mira<br />

alla costante riqualificazione dei docenti di musica.


Attraverso il lavoro del DRS il <strong>Conservatorio</strong> si è anche profilato per la sua funzione<br />

culturale a livello regionale, con la realizzazione del Dizionario dei Musicisti <strong>della</strong><br />

<strong>Svizzera</strong> italiana, l’approfondimento sulla <strong>stagione</strong> del Festspiel nella <strong>Svizzera</strong> italiana<br />

(ottobre 2005), e l’avvio di un progetto di ricerca sull’opera vocale di Carlo<br />

Donato Cossoni (2005-20<strong>06</strong>).<br />

Il 2005 ha visto la conclusione delle ultime formalità per il conseguimento definitivo<br />

del riconoscimento federale di Scuola Universitaria di Musica e l’affiliazione<br />

alla Scuola Universitaria Professionale <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana (SUPSI).


26 novembre MMaauurriiccee JJaauubbeerrtt, Musiche per il film Die wunderbare Lüge der Nina Petrowna<br />

Maurice Jaubert (1900-1940) è la personalità che, nonostante la breve carriera, impresse la cifra musicale più profonda nel cinema<br />

francese. Il suo nome compare nei film di Jean Vigo, di René Clair, di Marcel Carné, di Julien Duvivier. Come compositore crebbe all’ombra<br />

delle figure illustri del Gruppo dei Sei e fu impegnato in avventure artistiche avanzate con Delannoy, Tansman, Ferroud, ecc.<br />

<strong>La</strong> differenza rispetto ai colleghi che si applicavano alla musica cinematografica fu per lui quella di capire che, nel rapporto con le immagini,<br />

la musica non poteva agire solo come espressione soggettiva, ma diventava essa stessa immagine sonora. Nelle sue partiture<br />

per il film, entrano i suoni <strong>della</strong> strada (spesso la fisarmonica o un pianoforte scordato), mentre i suoni strumentali si presentano<br />

non come timbri di un’orchestra, ma come vibrazioni <strong>della</strong> memoria (del ricordo). Nei film francesi di quegli anni – dove la città non è<br />

quella del lusso, delle insegne luminose, delle vetrine magnificenti ma quella <strong>della</strong> periferia trasandata, delle case scrostate, delle strade<br />

polverose – la sua musica semplice e rarefatta, mai passionale e travolgente, è umile e solidale con gli umili, con un’umanità di cui<br />

sa cogliere la tragica condizione non nella forma dell’espressione disperata, bensì nell’angoscia che emana indirettamente dal paesaggio<br />

sonoro configurato dai diradati temi <strong>della</strong> sua ispirazione, ridotta ad essenzialità rarefatta (come uno Schubert dei tempi moderni).<br />

È una musica emanata dalle cose stesse (da una radio, da una campana, da un organetto interrotto), che non conosce l’enfasi e<br />

la ridondanza e che ha contribuito in modo determinante, nel suo radicamento negli oggetti sonori, a quel realismo poetico e spesso<br />

magicamente straniato dei film a cui ha legato il suo nome (L’Atalante, 14 Juillet, Un carnet de bal, Le quai des brumes, Le jour se<br />

lève).<br />

Se Jaubert fu un pioniere del film sonoro, fece in tempo anche a cimentarsi come compositore nel cinema muto, con la collaborazione<br />

alla distribuzione francese di un film tedesco nel 1929: Die wunderbare Lüge der Nina Petrowna di Hans Schwarz (diventato Le<br />

mensonge de Nina Petrovna). Non si tratta di un’occasionale prova giovanile, ma di un confronto significativo per lo sviluppo <strong>della</strong><br />

sua estetica cinematografica. Non per niente la casa Sam-Fox che aveva commissionato la musica, cosciente del passaggio ormai<br />

inarrestabile verso il film sonoro, con quella operazione tentava di imporsi esemplarmente in un mercato che già guardava alla nuova<br />

fase del cinema come a un’opportunità in cui la musica poteva uscirne ancor più esaltata. Eccola quindi vantare una scuderia di musicisti<br />

che, oltre a Jaubert, allineava Marcel Delannoy, Jacques Brillouin, Tibor Harsanyi, Edmond <strong>La</strong>vagne, Léo Pouget, Georges van<br />

Parys, personaggi i quali effettivamente, dopo la breve pratica del muto, si sarebbero affermati nella nuova <strong>stagione</strong> del film sonoro.<br />

In verità, in quanto a musica cinematografica, Maurice Jaubert aveva idee chiare avendo partecipato nel 1928 alla composizione <strong>della</strong><br />

musica per Maldone di Jean Grémillon, dividendo il compito con un collettivo formato da Delannoy, Brillouin e dallo stesso Grémillon<br />

e riutilizzando composizioni di Debussy, Honegger, Milhaud e soprattutto Cinéma che Erik Satie aveva concepito come accompagnamento<br />

alle immagini di René Clair (come entr’acte fra una parte e l’altra del balletto Relâche), perseguendo il progetto di una musica<br />

impassibile, intesa come espressione dell’istante e non più del divenire. Ciò denota il suo impegno in un ambito radicale interessato<br />

ad eliminare dall’espressione il pathos, attraverso una drammaturgia fondata sull’oggettività degli accadimenti a cui si consegna<br />

per evitare ogni coinvolgimento soggettivo. Può allora parere strano il fatto che tale scelta estetica si applichi a un prodotto cinematografico<br />

che può definirsi un melodramma e che, in una circostanza normale, sarebbe stato dotato di un commento musicale tradizionalistico,<br />

preferibilmente una compilazione di autori russi dell’800 in ossequio alla ricerca del colore locale. <strong>La</strong> vicenda è infatti


imperniata intorno alla figura di una giovane, frivola e capricciosa amante di un colonnello dei cosacchi, la quale si innamora sconsideratamente<br />

di un ingenuo aspirante ufficiale (Mikhail Andreievic Rostov). Rotta la relazione con il ricco amante, abbandona la lussuosa<br />

residenza che questi le aveva destinato per iniziare una vita che le sue proprie forze non le permettono di reggere. Mikhail,<br />

impossibilitato ad aiutarla con mezzi propri e disperatamente alla ricerca di denaro, è tentato dal gioco d’azzardo. In una movimentata<br />

partita a carte nel casino degli ufficiali, con poste alzate ad arte dall’intervento sfidante del colonnello rivale, l’aspirante finisce<br />

col perdere tutto, non senza essersi fatto sorprendere a barare. Messo alle strette dal superiore, è costretto a firmare una dichiarazione<br />

con l’ammissione <strong>della</strong> grave colpa. Senza alcun scrupolo il colonnello usa questa testimonianza come arma di ricatto verso la<br />

donna: o Nina accetta di ritornare con lui o la carriera del giovane sarà rovinata. Ormai completamente trasformata dall’amore, la<br />

ragazza decide di sacrificarsi. Fingendo di ingannare il giovane, a cui rinfaccia la sua incapacità di garantirle una vita decente, ritorna<br />

alla villa. Quando il colonnello si presenta raggiante con un vistoso omaggio floreale, la trova distesa senza vita fra i guanciali,<br />

indossante il paio di povere scarpe che Mikhail aveva comperato per lei in un negozio di San Pietroburgo, per 7 rubli e 50 copechi.<br />

Una simile vicenda poteva indurre a una musica arresa all’enfasi passionale, ma ciò non avvenne. A partire dal trattamento orchestrale<br />

è evidente l’intenzione di Jaubert di porre un filtro all’espressione, addirittura a mantenere la musica fuori dall’azione. Nell’organico<br />

per piccola orchestra prevale la nettezza oggettiva del suono cameristico: i timbri tenuti distinti nell’opposizione tra ottoni e<br />

legni ad esempio o con interventi taglienti di singoli strumenti (come è spesso usata la tromba), con effetto di divaricazione sonora,<br />

divisionistico, di scomposizione delle sonorità che priva la musica del potere di avvolgere effusivamente la rappresentazione. Tutta la<br />

«musique d’écran» di Nina Petrovna è condotta sul filo del coinvolgimento, più o meno compiuto, più o meno mancato, sufficiente a<br />

tradire la situazione di sfida all’ordine estetico dettato al cinema dalla consuetudine, che chiedeva alla musica di guidare lo spettatore<br />

nei meandri <strong>della</strong> vicenda. Jaubert, senza ovviamente negare del tutto la musica a questo compito, le toglie i mezzi per esplicarlo<br />

compiutamente, portandola spesso a tradurre in suono emozioni scarnificate, tendendo a spostare il punto d’osservazione dello spettatore<br />

all’esterno, in funzione di schermo alla tentazione dell’immedesimazione. Ne fa stato la struttura a numeri chiusi la quale, anziché<br />

ricavare dalle emozioni emanate dallo svolgimento filmico spunti per un flusso musicale travolgente, spezzetta l’arco drammatico<br />

in piccole unità finendo con l’esorcizzarlo, togliendo spazio al sentimento, impossibilitato ad espandersi.<br />

È il risultato dell’influenza estetica di Satie, che Jaubert addirittura chiama direttamente in causa annettendosi una delle sue «petites<br />

pièces montées» composta nel 1920 sul principio <strong>della</strong> «musique d’ameublement», destinata ad accompagnare azioni nella più rigorosa<br />

impassibilità. <strong>La</strong> musica in tal caso, anziché accondiscendere al pathos melodrammatico del film di Schwarz, diventa l’antidoto<br />

al sentimento traboccante. In un equilibrio variabile ma sempre garantito, tra assecondamento delle necessità narrative e la posizione<br />

distaccata di osservatore non coinvolto, in Nina Petrovna si attua una sorta di controlettura musicale in cui Jaubert si scopre moderno.<br />

(Carlo Piccardi)


17 dicembre OOssccaarr BBiiaanncchhii, Zaffiro<br />

«Questa rara combinazione (flauto basso, sax baritono, chitarra e viola) mi evocò l’immagine di un oggetto solido e cangiante, come<br />

lo Zaffiro. Questi quattro strumenti agiscono come quattro distinte voci, alternando fra rapide relazioni ritmiche e voluttuose, quasi<br />

statiche, coabitazioni armoniche.<br />

Nel primo caso, movimento ed attività vengono espresse attravero gesti e tensioni liriche. Il ritmo, come sorta di pulsazione interna,<br />

è regista <strong>della</strong> maggior quantità di strutture dialettiche. Inoltre, attraverso l’intera composizione, possiamo intuire che il ritmo polarizza<br />

il movimento; tutte le linee ed i gesti sono sottoposti ad una sorta di legge ritmica.<br />

Nel secondo caso (al principio del brano, per esempio) differenti identità sonore si fondono in una sorta di coabitazione armonica.<br />

Talvolta solo una di queste voci, di questi strumenti, accetta di esprimere ciò che tutto l’ensemble vuole esprimere; come la ‘struggente’<br />

linea (che appare alla viola verso la fine del brano), sostenuta dalla complicità del resto del gruppo». (O. Bianchi)<br />

HHaannssppeetteerr KKyybbuurrzz, Danse aveugle<br />

Nato a <strong>La</strong>gos (Nigeria), nel 1960, ma svizzero di origine e attualmente residente in Germania, Hanspeter Kyburz ha intrapreso gli studi<br />

di composizione a Graz e, dal 1982, a Berlino, dove studia anche musicologia, storia dell’arte e filosofia. Successivamente una borsa<br />

di studio lo porta alla Cité des Arts di Parigi.<br />

Vince il premio Boris Blacher nel 1990 e il premio Schneider-Schott nel 1994; si laurea all’Accademia di Belle Arti di Berlino nel 1996,<br />

e dal 1997 è professore di composizione presso la Hochschule für Musik «Hanns Eisler» di Berlino. Fra le sue opere più recenti ricordiamo:<br />

Marginalien 1 e 2 per 4 strumenti a corda (1990 e 1992), Studien per 3 strumenti a corda (1993), Cells per sassofono e ensemble<br />

(1993-94), Parts per ensemble (1994-95), The Voynich Cipher Manuscript per 24 voci e ensemble (1995), Danse aveugle per flauto,<br />

violino, violoncello e pianoforte (1997).<br />

Danse aveugle per flauto, clarinetto, pianoforte, violino, violoncello e pianoforte. Si tratta di una composizione secondo una forma<br />

«d’arco». Come nella danza, v’è un’intensificazione graduale con il carattere di un’ubriacatura quasi fisica. Questa intensificazione,<br />

portata agli estremi, si annuncia innanzitutto con piccole interruzioni e lacune. <strong>La</strong> forma d’arco è il risultato di una composizione che<br />

si orienta su procedimenti complessi. <strong>La</strong> composizione è vicina a quella del rondò con le sue ripetizioni, che sono tuttavia, contrariamente<br />

al rondò classico, forme variate.<br />

NNaaddiirr VVaasssseennaa, Macchine da guerra, fanti e cavalieri<br />

Nato a Balerna nel 1970, Nadir Vassena ha studiato composizione a Milano con Bruno Zanolini come pure con Johannes Schöllhorn<br />

a Friburgo in Brisgovia. Nel 1993 partecipa ai corsi di composizione di Royaumont tenuti da Brian Ferneyhough. È stato invitato da<br />

numerosi festival internazionali e premiato in varie occasioni; nel 1992 al Concorso <strong>della</strong> WDR di Colonia, nel 1994 dall’Institut für<br />

Neue Musik der Hochschule der Künste di Berlino (primo premio ex aequo), nel 1997 dal Mozart-Wettbewerb di Salisburgo. Nel 1999<br />

gli è stato attribuito il premio <strong>della</strong> fondazione Christoph Delz di Basilea, nel 2000 è stato borsista <strong>della</strong> fondazione Schloss-Solitude<br />

di Stoccarda e nel 2002 <strong>della</strong> residenza per artisti Denkmalschmiede Höfgen/Margarethenstiftung. È stato membro per l’anno acca-


demico 2002/2003 dell’Istituto Svizzero di Roma. Ha collaborato per diversi anni con l’associazione Oggimusica e a partire dal 2004<br />

ha assunto la direzione artistica dei Tage für neue Musik di Zurigo assieme al chitarrista Mats Scheidegger. Insegna composizione e<br />

analisi al <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana dove è pure Membro <strong>della</strong> Direzione.<br />

Macchine da guerra, fanti e cavalieri. «Il titolo e i suoni di questo pezzo mi si sono presentati improvvisamente e quasi da soli, durante<br />

una visita al Museo Poldi Pezzoli di Milano. Nella Sala d’Armi le antiche armature hanno cominciato a risuonare, da lontano, come<br />

l’eco di un passato mitico di eroi e cavalieri riemerso da un sonno polveroso e dimenticato.<br />

Luccicanti nella magnifica ambientazione ideata dallo scultore Arnaldo Pomodoro, un drappello di guerrieri occidentali e orientali avanza<br />

minaccioso dal fondo <strong>della</strong> sala. Come guardarli senza sentire il cozzar di lame e scudi, il ritmo metallico <strong>della</strong> marcia e il respiro<br />

affannoso all’interno di questi corpi ormai svuotati?» (N. Vassena)<br />

RRoobbeerrtt SSaaxxttoonn, Sonata for Solo Cello<br />

Robert Saxton è nato a Londra nel 1953, appartenente ad una famiglia di origini lituane, polacche, olandesi e russe, che emigrò in Inghilterra<br />

alla fine del XIX secolo. All’età di sei anni ha cominciato a comporre, sotto la guida di Benjamin Britten, iniziando allo stesso<br />

tempo lo studio del violino e del pianoforte. Ha completato la sua formazione con Elisabeth Lutyens (19<strong>06</strong>-1983), prima compositrice<br />

britannica a scrivere musica seriale, con Robin Holloway alla Cambridge University, dal 1972 al 1975, e successivamente, come postgraduate<br />

alla Oxford University, con Robert Sherlaw Johnson, prendendo allo stesso tempo lezioni da Luciano Berio. Nel 1975 ha<br />

ottenuto il primo premio alla Gaudeamus Music Week, in Olanda, e nel 1977 il suo «Reflections on Narziss and Goldmund», da Hermann<br />

Hesse, è stato eseguito in prima assoluta al Festival ISCM, nella Beethovenhalle di Bonn, da Hans Zender e l’Orchestra <strong>della</strong><br />

Radio di Saarbrucken; e nello stesso anno dall’Ensemble M di Hague con David Porcelijn al Royal Festival, in Francia. Grazie ad una<br />

borsa di studio Fulbright, nel 1985-86 ha insegnato alla Princeton University nell’ambito <strong>della</strong> Tanglewood Summer School, con Oliver<br />

Knussen, dopo essere stato assistente di Peter Maxwell Davies alla Dartingtton Summer School (Regno Unito) nel 1983 e nel 1984.<br />

Saxton ha scritto lavori per la BBC (radio e televisione), la London Symphony Orchestra, la English Chamber Orchestra, la London<br />

Sinfonietta, la St. Paul Chamber Orchestra, negli Stati Uniti, il Nash Ensemble, e numerose altre prestigiose istituzioni a livello internazionale,<br />

collaborando con musicisti ai massimi livelli, tra i quali il soprano Teresa Cahill, sua moglie, Leon Fleisher, Mstislav Rostropovich,<br />

ecc. I suoi lavori sono stati registrati da etichette quali la NMC, la EMI, la Sony Classical, la Metier, l’Hyperion e pubblicati da<br />

Chester Music/Music Sales (1972-1998) e dalla University of York Music Press (dal 1998 ad oggi).<br />

Robert Saxton è stato Head of Composition alla Guildhall School of Music and Drama di Londra dal 1991al 1998, Head of Composition<br />

and Contemporary Music presso la Royal Academy of Music (Londra) dal 1998 al 1999 e, dal 1999 è lettore alla Oxford University,<br />

dove collabora pure con il Worcester College.<br />

Sonata for Solo Cello. «Questo lavoro si basa su un tema di Sir William Walton (1902-1983) che risale al 1970. Sul manoscritto originale<br />

Walton scrisse: “Tema per Variazioni” ma, per quanto ne sappiamo, non ha mai aggiunto alcuna variazione. Quando Steven<br />

Isserlis mi chiese di scrivere delle variazioni su questo tema decisi di comporre un pezzo che fosse un viaggio alla scoperta <strong>della</strong><br />

melodia di Walton. <strong>La</strong> musica è in quattro movimenti continui: Praeludium, Passacaglia, Dance and Song. I primi tre sono basati


su vari aspetti dell’originale che si rivelano a poco a poco, per risultare chiaramente all’ascolto nella ‘Song’ alla chiusa finale. Il lavoro<br />

è dedicato alla memoria <strong>della</strong> madre di Steven Isserlis, Cynthia Isserlis, scomparsa mentre ero al lavoro su questa partitura».<br />

(R. Saxton)<br />

GGiioovvaannnnii VVeerrrraannddoo, Il ruvido dettaglio celebrato da Aby Warburg<br />

Giovanni Verrando è nato a Sanremo nel 1965. Ha studiato in Francia, giovanissimo, pianoforte e chitarra classica presso il <strong>Conservatorio</strong><br />

di Menton. In seguito ha studiato composizione al <strong>Conservatorio</strong> «G. Verdi» di Milano con G. Manzoni, N. Castiglioni e G. Zosi,<br />

e parallelamente filosofia all’Università Statale di Milano. Ha quindi proseguito la propria formazione nella composizione all’Accademia<br />

Chigiana di Siena con F. Donatoni ricevendo nel 1990 il premio Siae e il Diploma di merito. Nel 1993 si è trasferito a Parigi dove<br />

ha frequentato il «Cursus annuel d’Informatique Musicale» dell’Ircam e i corsi di T. Murail. Qui ha vissuto fino al 1997, sviluppando la<br />

propria ricerca compositiva sull’informatica musicale. Parallelamente alla formazione accademica, ha svolto attività come autore ed<br />

esecutore nell’ambito <strong>della</strong> musica rock di ricerca. Ha vinto ed ottenuto premi in numerosi concorsi internazionali di composizione:<br />

Ircam/Ensemble Intercontemporain Comité de lecture, Vienna Modern Masters, C. Togni di Brescia, 11. Kompositionswettbewerb<br />

Boswil, Gaudeamus Music Week di Amsterdam, Cemat di Roma, Festival international d’art lyrique di Aix-en-Provence. Le sue opere<br />

sono state commissionate da festival ed istituzioni internazionali (Ircam di Parigi, Biennale di Venezia, Ministero <strong>della</strong> Cultura Francese,<br />

ecc.), eseguite da note orchestre e solisti (Ensemble Intercontemporain, Arditti Quartet, les Percussions de Strasbourg, ecc.) nei principali<br />

festival e stagioni internazionali («Wien Modern» di Vienna, Centre G. Pompidou di Parigi, «Musica» di Strasburgo, Opera-Bastille<br />

di Parigi, «Milano Musica», Berlino, Helsinki, New York, Roma, Tokyo, ecc.). Nell’aprile 2003 è andato in scena ‘Alex Brücke <strong>La</strong>nger’,<br />

ritratto commissionatogli dal Festival International d’Art Lyrique di Aix-en-Provence e dalla Fondazione Nuovo Teatro Comunale di<br />

Bolzano, con la regia di Yoshi Oida e i video di Tom Schenk. È co-fondatore di Sincronie, nucleo di musicisti nato a Milano nel 2003,<br />

con il quale progetta eventi/concerto e rappresenta una condivisa e personale prospettiva <strong>della</strong> musica d’oggi. Fra i suoi progetti, una<br />

commissione per grande orchestra dell’Orchestra Sinfonica Nazionale <strong>della</strong> Rai di Torino, per la <strong>stagione</strong> 2005-<strong>06</strong>. Dal 2000 tiene corsi<br />

di composizione presso l’Accademia Internazionale <strong>della</strong> Musica di Milano, e masterclass e seminari di composizione, analisi e orchestrazione<br />

in diversi paesi europei. <strong>La</strong> sua musica è pubblicata dalle Edizioni Suvini Zerboni, Milano.<br />

Aby Warburg è stato uno degli uomini che più hanno influenzato, nel XX secolo, la visione occidentale <strong>della</strong> storia dell’arte. Attraverso<br />

i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la sintesi di un’intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni<br />

psichiche. Lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera, a partire dal 1918 era periodicamente colpito da crisi nervose,<br />

che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica. Nel 1919 fu ricoverato a Kreuzlingen, e a lungo le sue condizioni parvero disperate.<br />

Ma nel 1923, per dimostrare la propria guarigione, egli chiese ai medici di poter preparare una conferenza e di tenerla ai pazienti<br />

<strong>della</strong> casa di cura. Il 23 aprile 1923, Warburg tenne la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul ‘Journal’<br />

del Warburg Institute con una nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto,<br />

quel discorso fu insieme una confessione e un testamento.<br />

«Il buon Dio sta nel dettaglio», Aby Warburg (1866-1929)


GGiioorrggiioo CCoolloommbboo TTaaccccaannii, Les feuilles douces<br />

Giorgio Colombo Taccani (1961) si è laureato in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano con una tesi in Storia <strong>della</strong> Musica<br />

dedicata all’Hyperion di Bruno Maderna. Parallelamente ha svolto studi musicali, diplomandosi in Pianoforte ed in Composizione sotto<br />

la guida dapprima di Pippo Molino e quindi di Azio Corghi, e conseguendo quindi il Diploma al corso di perfezionamento biennale in<br />

Composizione tenuto da Franco Donatoni all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in Roma, dove ha ottenuto una borsa di studio<br />

S.I.A.E. Ha inoltre seguito corsi di perfezionamento con Azio Corghi e György Ligeti ed è stato selezionato per partecipare al workshop<br />

estivo 1995 dedicato all’informatica musicale organizzato dall’Ircam. Sue composizioni sono state premiate o segnalate in numerosi<br />

concorsi nazionali ed internazionali nonché eseguite in varie sedi italiane ed estere, trasmesse da varie radio nazionali e pubblicate<br />

dalla casa editrice Suvini Zerboni di Milano. Dal 1991 si occupa di musica elettronica presso lo studio AGON - acustica informatica<br />

musica di Milano. Dal 1992 al 1999 ha insegnato Composizione alla Civica Scuola di Musica di Milano e, dal 1995 al 1997, ha collaborato<br />

con il corso di perfezionamento di Composizione tenuto da Azio Corghi all’Accademia «A. Toscanini» di Parma. Dal 1999 insegna<br />

Composizione al <strong>Conservatorio</strong> «G. Verdi» di Torino.<br />

Les feuilles douces per flauto in sol, clarinetto basso, vibrafono, chitarra, pianoforte, violino, viola e violoncello (2000) dedicato al Dedalo<br />

Ensemble, in ricordo di Camillo Togni. «In un clima rapsodico, ricco di risonanze e digressioni, e caratterizzato dal timbro tendenzialmente<br />

oscuro dell’ensemble, due situazioni si delinenano con precisione: una morbida linea melodica, a sospendere due volte il<br />

corso del brano, e il lungo, desolato episodio finale: dopo il climax espressivo e dinamico di Les feuilles douces tutto diventa improvvisamente<br />

statico, estinguendosi nelle regolari pulsazioni <strong>della</strong> chitarra e del violoncello: un ripetuto, quieto addio.» (G.C. Taccani)<br />

14 gennaio AAnnttoonn WWeebbeerrnn, Sei pezzi per orchestra<br />

Dopo la Passacaglia op. 1 (1908) che testimonia iI congedo di Webern dal mondo musicale dell’inizio del secolo, i Sei pezzi op. 6 nel<br />

1909 aprono già una nuova fase: quella <strong>della</strong> sospensione <strong>della</strong> tonalità e <strong>della</strong> ricerca di una riduzione e di una concentrazione portate<br />

all’estremo. Nelle composizioni scritte nel periodo 1909-1914 Webern carica ogni istante del massimo possibile di pregnanza<br />

espressiva, creando brevi immagini, folgoranti nella loro immediatezza e concisione. Una sinteticità nella quale tutto ha un peso decisivo,<br />

ogni nota, ogni pausa, ogni scelta timbrica, ogni dinamica. Con I’op. 6 Webern inoltre radicalizza il principio <strong>della</strong> Klangfarbenmelodie<br />

schoenberghiana, portandolo già chiaramente verso il puntillismo sonoro: una melodia di timbri nella quale la singola nota isolata<br />

ha la funzione di elemento tematico caratterizzato.<br />

È importante sapere però, a sfatare Ie mitologie a proposito del preteso astratto intellettualismo weberniano, che i Sei pezzi sono concepiti<br />

seguendo un disegno espressivo ben preciso (Weber lo rivelò a Schoenberg in una lettera nel 1913). Nel primo pezzo è iI presagio<br />

di una catastrofe: si tratta <strong>della</strong> morte <strong>della</strong> madre, evento che si compie nel secondo pezzo, con un crescendo lacerante.<br />

II terzo pezzo, delicatissimo, crea un «tenero contrasto» evocando un fiore deposto sulla bara. II quarto, il più lungo, una marcia funebre<br />

costruita sullo sfondo ossessivo di una percussione spettrale, si riferisce ai sentimenti provati da Weber al momento del funerale,<br />

mentre gli ultimi due concludono I’opera nel «ricordo e nella rassegnazione». I Sei pezzi esistono in due versioni: la prima orchestrale,<br />

la seconda (1928) per orchestra da camera.


AAllbbaann BBeerrgg, Sieben frühe Lieder<br />

Alban Berg (1885-1935) è certamente, dei tre maestri <strong>della</strong> scuola «viennese» radicata nel clima morale dell’espressionismo, il più<br />

legato al mondo romantico. Si può cogliere in questo musicista il persistente filo rosso che collega il più genuino romanticismo tedesco<br />

(Schubert, Wolf, ma soprattutto Brahms e Mahler), individuabile principalmente nell’anelito al canto, al melos, con la volontà di<br />

esprimere le contraddizioni e i tormenti dell’uomo del nostro tempo. I contrastanti registri dell’elegia e del radicalismo rivoluzionario,<br />

del pieno sentimento e del gesto eversivo, l’insorgere improvviso di reminiscenze tonali e la contrastante indicazione di ipercromatismi<br />

atonali poi definiti in senso dodecafonico: questi i caratteri salienti di un musicista destinato a rimanere tra i massimi del nostro<br />

tempo. Fondamentale fu per Berg l’incontro con Arnold Schönberg, da cui trasse alimento per un’interpretazione personale <strong>della</strong> nuova<br />

tecnica, riuscendo a conciliare il rigore estremo, a partire dal 1926 (Kammerkonzert e Lyrische Suite), con l’immutato calore umano,<br />

con un’appassionata, struggente aspirazione a comunicare. Autore di stupende pagine sinfoniche e cameristiche, Alban Berg<br />

deve però la sua fama soprattutto alle opere di teatro, Wozzeck e Lulu, nelle quali la passione morale fa tutt’uno con la sensibile ricerca<br />

di nuovi moduli di comunicazione.<br />

Nei primi mesi del 1916, Alban Berg scelse sette Lieder, scritti negli anni 1905-08, li rivide e li strumentò. Era uno sguardo retrospettivo<br />

sugli anni di studio con Schoenberg e su un genere a cui si era dedicato in modo quasi esclusivo. Di questi Lieder giovanili l’orchestrazione<br />

traccia una sorta di affettuoso commento, senza trasformarne o mascherarne il clima stilistico: lontana dal gusto postwagneriano,<br />

si attiene ad una essenzialità di carattere funzionale, così che la frantumata varietà dei colori, il sottile cangiare delle<br />

mescolanze timbriche, chiarisce il senso di ogni evento sonoro con raffinata trasparenza.<br />

GGuussttaavv MMaahhlleerr, Kindertotenlieder<br />

Gustav Mahler (1860-1911) compose i Kindertotenlieder in parte durante l’estate del 1901, concludendoli nel 1904. Erano stati Arnold<br />

Schönberg e Alexander von Zemlinsky a richiedere un ciclo completo di Lieder nell’ambito <strong>della</strong> Vereinigung. I testi provengono<br />

da una raccolta di poesie di Friedrich Rückert, pubblicata per la prima volta nel 1872 (e successivamente, in forma più completa, nel<br />

1881), sei anni dopo la sua scomparsa. Rückert era rimasto colpito in maniera irreversibile dalla morte di due dei suoi bambini a pochi<br />

giorni l’un dall’altro a cavallo tra il 1833 e il ’34. Questa disgrazia diede origine a oltre 420 poesie. Perché dunque Mahler avrebbe<br />

scelto come base per il ciclo proprio questi testi? Nel 1904, dopotutto, egli era un uomo felicemente sposato, padre di due bambine…<br />

Che sia forse che questi versi evocano inconsciamente la propria infanzia con la morte dei suoi fratelli e il dolore dei genitori;<br />

oppure, che si tratti forse di una premonizione <strong>della</strong> perdita <strong>della</strong> figlia Maria nel 19<strong>07</strong>? Egli dichiarerà all’amico Guido Adler: «Mi sono<br />

calato nella situazione di uno che aveva perduto un figlio. Se a quell’epoca avessi veramente perduto mia figlia, non sarei più stato<br />

capace di scrivere questi Lieder.»<br />

Giunto a una felicità fino allora insperata, forse Mahler cercava di rendersi conto di quanto dolorosa gli sarebbe stata una simile perdita.<br />

Le ipotesi, nonostante l’intervento dei suoi biografi e di psicologi, rimangono aperte.<br />

Il ciclo dei Kindertotenlieder s’articola attorno a cinque poesie e forma una struttura assai coerente. Mahler vi esprime un succedersi<br />

di dolore estremo, una forma di rassegnazione, il dubbio, il segno <strong>della</strong> consolazione e, in conclusione, la disperazione espressa


con violenza prima che si affacci una certa speranza, uno spiraglio di pace. Composto all’origine per voce maschile, ma interpretato<br />

già ai tempi di Mahler anche da voci femminili (ricordiamo Anna von Mildenburg), questo ciclo liederistico è storicamente il primo che<br />

sia mai stato concepito per accompagnamento orchestrale.<br />

AArrnnoolldd SScchhöönnbbeerrgg, Fünf Orchesterstücke<br />

Composti dal maggio all’agosto del 1912 ed eseguiti nella loro forma originale per grande orchestra nello stesso anno a Londra, i Fünf<br />

Orchesterstücke op. 16, appartengono al periodo <strong>della</strong> «libera atonalità» di Schönberg e, per il loro violento espressionismo, sembrano<br />

una replica <strong>della</strong> pittura astratta di Kandinsky. Per la loro brevità, per la loro assenza di sviluppo tematico e per l’incredibile<br />

complessità <strong>della</strong> loro polifonia, questi Fünf Orchesterstücke costituirono una enorme novità (anche se nello stesso periodo Anton<br />

Webern, con i suoi Sechs Stücke op. 6, si impegnò ancora più radicalmente in un percorso simile). Della composizione esistono due<br />

versioni con un organico ridotto: una del 1925 per ensemble da camera, l’altra del 1949 per orchestra media. Ad ogni movimento,<br />

Schönberg diede un sottotitolo, poi eliminati nella versione definitiva. Tuttavia, questi sottotitoli chiariscono perfettamente il senso dei<br />

vari pezzi: 1. Presentimento (Molto allegro); 2. Il Passato (Andante); 3. Colori o Mattino d’estate su un lago (Moderato); 4. Peripezie<br />

(Molto allegro); 5. Recitativo obbligato (Allegretto).<br />

Il terzo pezzo (Colori), fulcro <strong>della</strong> composizione, completamente atematico, è essenzialmente costruito da un accordo di cinque suoni<br />

che i timbri dell’orchestra, secondo il principio <strong>della</strong> Klangfarbenmelodie (melodia di timbri) modificano in straordinari giochi armonici.<br />

È un nuovo modo di configurare il discorso musicale, un modo che prescinde da ogni esigenza tematica o ritmica per affidarsi<br />

solo a uno svolgimento timbrico: intuizione geniale, destinata a dare il via a tutta una concezione che fino ai nostri giorni ha svolto<br />

una funzione importantissima in seno alla musica contemporanea.<br />

18 febbraio AAllffrreeddoo CCaasseellllaa, Pupazzetti<br />

Casella (1883-1947) fu tra i primi ad avvertire in Italia l’esigenza di un rinnovamento <strong>della</strong> musica strumentale affrancandola dal provincialismo<br />

«verista» e tentando l’inserimento in un più vasto contesto, a contatto con quanto di nuovo si andava facendo in Europa<br />

nei primi decenni del secolo. Casella, inizialmente aperto a tutte le novità, scrisse nel 1913 Notte di maggio, lavoro di tendenza espressionistica<br />

che lo porta verso i confini atonali e dodecafonici, per poi proporre una «via italiana» al neoclassicismo strawinskiano, stemperato<br />

in un culto «novecentista» in cui la forma viene ricondotta all’essenza di una geometria ricavata dallo studio dei maestri prebarocchi<br />

e barocchi dell’antica musica italiana.<br />

Pupazzetti op. 27, composti nel 1916 per pianoforte a quattro mani, vennero successivamente trascritti prima per nove strumenti poi<br />

per orchestra, anche se la seconda versione rimane probabilmente la più felice delle tre. Singolarmente anticipatrice di Strawinski,in<br />

particolare dello Strawinski «cubista» <strong>della</strong> Histoire du soldat (scritta due anni dopo la versione originale dei Pupazzetti), questa partitura<br />

è caratterizzata da un discorso rapido e incisivo, ironico e arguto, strumentato con eleganza ed esattezza in un equilibrato gioco<br />

di timbri. <strong>La</strong> godibile partitura si compone di cinque brevi pezzi: Marcetta, Berceuse, Serenata, Notturnino e Polka.


GGooffffrreeddoo PPeettrraassssii, Sonata da camera<br />

<strong>La</strong> vicenda stilistica di questo importante compositore inizia nel clima del «novecentismo» e del «neomadrigalismo» tipico del periodo<br />

tra le due guerre. Successivamente Petrassi ha attraversato una fase creativa caratterizzata dall’interesse per ampie strutture sinfonico-corali,<br />

subendo non poco l’influenza stravinskiana. Il massimo saggio in questa direzione è il Salmo IX, per il quale venne coniato<br />

il termine di «barocco romano». Il passaggio ad una ancora nuova dimensione stilistica, con il Coro di morti, si trova a coincidere con<br />

la tragica realtà <strong>della</strong> guerra. Il suo pessimismo lo porta alla profonda intuizione <strong>della</strong> corrosione <strong>della</strong> cultura d’anteguerra, e a un successivo<br />

rinnovamento del linguaggio. Alieno – almeno inizialmente – da ogni influenza dodecafonica, il suo spirito lo portò ben presto<br />

a seguire con interesse gli sviluppi delle nuove tecniche seriali. Le acquisizioni definitesi a Darmstadt hanno trovato in Petrassi un osservatore<br />

attento, che ha adottato un linguaggio liberamente cromatico e atonale. Egli non ha mai ubbidito alla moda corrente, ma ha elaborato<br />

e maturato elementi di linguaggio già presenti nelle prime composizioni, vagliandoli al livello dell’attuale coscienza europea.<br />

Dedicata «a una giovane donna in memoria» la Sonata da camera fu composta da Petrassi fra luglio e l’agosto del 1948. <strong>La</strong> presenza<br />

del clavicembalo non ha nulla a che fare con le suggestioni destate, fra gli anni venti e trenta, dalla clavicembalista Wanda <strong>La</strong>ndowska<br />

che ispirarono una letteratura dello strumento e una serie di capolavori appositi di de Falla, Poulenc, Martinu e di altri. Così<br />

il titolo di sonata non allude alla forma detta classica, quanto alla pre-classica italiana, chiamata di solito barocca, anche se avvertita<br />

molto vagamente e molto liberamente come un archetipo giacente al fondo <strong>della</strong> coscienza culturale. Per l’impianto formale, per<br />

certe inflessioni di linguaggio e per l’adozione di uno strumento come il clavicembalo, essa richiama esplicitamente la propria volontà<br />

di rileggere il passato, ma può essere colta anche come interrogativo rivolto al futuro. <strong>La</strong> forma, così manifestamente allusiva nell’articolarsi<br />

dei tre movimenti (Mosso e scorrevole, Adagio, Vivace e grazioso) funge da griglia ordinatrice, immagine rassicurante la<br />

cui intrinseca necessità è però come svuotata dal conflitto provocato da procedimenti singolari sia sul piano armonico sia architettonico.<br />

Così la tonalità viene chiamata in causa per essere sistematicamente frantumata mentre una abilissima drammatizzazione di<br />

tipo concertante vede un progressivo accumularsi di tensioni interne alla scrittura.<br />

OOttttoorriinnoo RReessppiigghhii, Il tramonto<br />

Ottorino Respighi (1876-1936), appartenente ad una famiglia di musicisti, apprese dal padre i primi rudimenti del violino e del pianoforte.<br />

Nel 1891 incominciò lo studio del violino e <strong>della</strong> viola con F. Sarti e <strong>della</strong> composizione con L. Torchi e G. Martucci al Liceo Musicale<br />

di Bologna. Da quest’ultimo in particolare maturò l’interesse per le forme cameristiche e sinfoniche dei compositori romantici tedeschi,<br />

fino ad allora poco frequentate in Italia, dove il gusto musicale era monopolizzato dal melodramma.<br />

Completati gli studi a Bologna, Respighi si spostò a San Pietroburgo, dove fu attivo quale violista presso il teatro dell’opera e dove<br />

studiò composizione e orchestrazione sotto la guida di Rimskij-Korsakov. Dal 1903 al 1908 Respighi, tornato in Italia, fu membro del<br />

Quintetto Mugellini; tra il 1908 ed il 1909 fu a Berlino, per studiare sotto la guida di M. Bruch. Nel 1913 ottenne l’insegnamento presso<br />

il <strong>Conservatorio</strong> di Santa Cecilia a Roma, di cui fu direttore tra il 1923 ed il 1926.<br />

Il tramonto (1914) per mezzosoprano ed archi, risale al periodo giovanile e all’esperienza maturata collaborando con il Quintetto Mugellini.<br />

Si articola in quattro sezioni: allegro moderato, tema con variazioni, intermezzo e finale. Il tema <strong>della</strong> seconda sezione risulterà


familiare a coloro che conoscono le opere di Respighi di questo periodo; esso è pervaso dalla nostalgia. Le variazioni sono presentate<br />

a turno dai diversi strumenti, ed in particolare i violini e la viola accompagnati da una figurazione in staccato del violoncello danno<br />

voce ad una variazione dalla qualità funerea. Alcuni passaggi si richiamano ai Crisantemi di Puccini e nella terza sezione si articolano<br />

in forma di rondò. L’ultima sezione, che consiste di una serie di temi dal carattere allegro e conciso, che sembrano presagire la Sonata<br />

per violino del 1917, presenta una serie di soli del violino e <strong>della</strong> viola, dal carattere esuberante, che si concludono in un gesto dal<br />

sapore drammatico, il tramonto.<br />

FFrraanncciiss PPoouulleenncc, Aubade<br />

Francis Poulenc (1899-1963), soprannominato «il ragazzaccio» dalla critica coeva, fu forse la figura più eccentrica ed originale di quel<br />

cosiddetto «Gruppo dei Sei» propugnante una poetica che si opponeva da un lato al progressivo dissolversi delle forme classiche<br />

nelle sonorità ingiustamente definite impressionistiche, e dall’altro rifiutava la soggettività decadente del post-romanticismo e dell’espressionismo<br />

<strong>della</strong> triade viennese. <strong>La</strong> suddetta etichetta fu in realtà appioppata nel 1920 da un giornalista ai sei musicisti legati da<br />

vincoli d’amicizia, ed a loro insaputa. Le caratteristiche <strong>della</strong> musica di questi «nuovi giovani» si manifestarono all’indomani <strong>della</strong> fine<br />

<strong>della</strong> Prima Guerra Mondiale e ribaltavano alcuni aspetti <strong>della</strong> sensibilità e del linguaggio artistico (anche la letteratura, la poesia e la<br />

pittura erano infatti coinvolte in tale cambiamento) del periodo precedente la Grande Guerra. <strong>La</strong> suprema gioia per la certezza di essere<br />

ritornati alla vita e una manifesta gaiezza accomunano questa generazione di giovani artisti, la maggior parte dei quali aveva partecipato<br />

al conflitto. Musicista raffinato ed elegante, Poulenc ebbe una duplice personalità, ironico e birichino da un lato, malinconico<br />

e sentimentale dall’altro. <strong>La</strong> sua estetica punta alla chiarezza strutturale e all’istintività. Il suo neoclassicismo coltiva la nitidezza delle<br />

forme preromantiche – talvolta strizzando l’occhio alla musica leggera – ma non rifiuta una certa tenerezza sentimentale. Nel 1929<br />

Poulenc ricevette una commissione dai Visconti de Noailles per la composizione di un brano per orchestra da camera da eseguirsi in<br />

occasione <strong>della</strong> festa mascherata che doveva tenersi il 18 giugno di quell’anno. <strong>La</strong> risposta fu il lavoro più serio fino ad allora composto<br />

da Poulenc, recante il titolo di Concerto coreografico per pianoforte e 18 strumenti, sul tema <strong>della</strong> perenne castità di Diana. Così<br />

ne descrive la genesi lo stesso autore: «Ho avuto l’idea di comporre un concerto coreografico,facendo esibire un coreografo e un pianista<br />

contemporaneamente. I miei amici mi hanno messo a disposizione 18 musicisti... e l’aggiunta di un pianoforte accresce le possibilità<br />

del colore. In tal modo è stato concepito questo lavoro anfibio».<br />

Dalle indicazioni presenti in partitura si ricava che il balletto è solidamente ambientato nel diciottesimo secolo, ciò in riferimento alla<br />

scuola pittorica di Fontainebleau ed al suo «stile galante». Per molti versi esso rimanda alle opéraballets di Rameau. Aubade e il Concerto<br />

campestre sono i due poli del periodo neoclassico di Poulenc fondato sulla raffinatezza e sulla chiarezza dello stile francese del<br />

Settecento. È presente comunque anche una certa grazia mozartiana ed in generale il lavoro possiede una somiglianza con le composizioni<br />

dello Stravinskij degli anni venti, in particolare con l’Apollon Musagète (1928). Scritto in uno stato di melanconia e angoscia,<br />

Aubade è nel complesso una composizione seria che cerca di nascondere la propria tristezza sotto un’apparente vena di gaiezza.<br />

In quanto musica da concerto Aubade può essere analizzato come composizione in forma di suite strutturata in otto brani distinti:<br />

Toccata, Recitativo, Rondeau, Presto, Recitativo, Andante, Allegro feroce, Conclusione.


11 marzo PPhhiilliipp GGllaassss, Einstein on the Beach<br />

Einstein on the Beach (1975) rappresenta un lavoro irripetibile, nato dalla collaborazione, dal sodalizio di alcuni tra i più radicali innovatori<br />

del linguaggio artistico (non solo strettamente musicale o teatrale) degli anni sessanta e settanta. È un’opera che inventa il proprio<br />

contesto, la propria forma, il proprio linguaggio (che nasce dalla sovrapposizione, dalla simultaneità di linguaggi diversi: la musica, la<br />

narrazione verbale, l’immagine, la danza, ecc.), in una sorta di ‘teatro musicale dell’avvenire’, in realtà profondamente radicato nella<br />

contemporaneità, e volutamente privo di pesanti ed effimere zavorre teoriche e/o ideologiche. L’Einstein apre una nuova strada, determinando<br />

un ‘grado zero’, un punto d’avvio imprescindibile per tutti quanti hanno in seguito esplorato le possibilità del teatro musicale<br />

(fino ad allora ritenuto quasi impraticabile dalle ‘avanguardie’ musicali europee che facevano riferimento a Darmstadt e al linguaggio<br />

seriale). Inoltre l’Einstein infrange, di fatto, tutte le regole, le consuetudini dell’opera, che si erano stratificate in secoli di storia: sia<br />

per quanto riguarda la scrittura e la drammaturgia, sia – soprattutto – per le modalità di ricezione e di fruizione da parte del pubblico.<br />

1. aprile KKuurrtt WWeeiillll, Happy End<br />

A suo modo, nel «sodalizio» che legò Kurt Weill a Bertolt Brecht, Happy End è un’opera chiave. Nella misura in cui, a fronte del tentativo<br />

di rinnovare il successo dell’Opera da tre soldi, vi si può verificare la scollatura tra la riuscita dei «song» che la compongono e<br />

l’esito piuttosto deludente <strong>della</strong> sceneggiatura, essa rivela la natura <strong>della</strong> collaborazione tra i due artisti. In verità, nonostante la saldezza<br />

apparente del binomio come ci è stato tramandato, la collaborazione tra i due ebbe una durata non superiore ai quattro anni<br />

(1927-1930). D’altra parte non possiamo limitarci oggi a giudicare Weill nei termini esclusivi <strong>della</strong> teoria brechtiana del teatro epico.<br />

Pur non avendo mai formulato un sistema estetico, il compositore non aveva infatti atteso Brecht per fornire una propria interpretazione<br />

<strong>della</strong> corrente oggettivistica in cui, accanto a Hindemith e a Krenek, fu tra i maggiori esponenti nel rinnovamento artistico <strong>della</strong><br />

Germania degli anni venti, sia in ambito strumentale sia in quello teatrale (in lavori quali Der Protagonist o Der Zar lässt sich photographieren)<br />

in cui emergevano tratti che non a caso indussero Herbert Fleischer a parlare del «Song-Stil» brechtiano come di una<br />

specificazione del «Weill-Stil», cogliendo il nucleo <strong>della</strong> sua estetica non tanto nei lampeggianti colori di un’esteriorità sonora ammiccante<br />

verso i turbolenti e sguaiati clamori <strong>della</strong> vita moderna, quanto nella sostanza di un linguaggio delineato dalle componenti<br />

gestuali, dove la tagliente energia ritmica, l’asprezza armonica e l’essenzialità melodica scolpiscono atteggiamenti espressivi di carica<br />

oggettiva tale da destinarli naturalmente all’impiego teatrale. Non fu dunque l’esilio imposto dall’ascesa al potere dei nazisti che<br />

determinò il «divorzio» tra di loro, bensì piuttosto la volontà di autonomia del musicista di fronte al drammaturgo, volontà rilevabile fin<br />

dall’inizio <strong>della</strong> loro collaborazione.<br />

Happy End ne è il momento <strong>della</strong> verità. Adottando una situazione che vede una banda di gangster opposta alla società (rappresentata<br />

dall’«esercito <strong>della</strong> salvezza») Brecht resta fedele al modello <strong>della</strong> Dreigroschenoper, non riuscendo tuttavia a superare lo stadio<br />

<strong>della</strong> parodia. Consapevole di questa debolezza egli ristrutturò in seguito la materia in un lavoro dalla dialettica più elaborata (Santa<br />

Giovanna dei macelli). Decidendo di non firmare il testo (attribuito alla fedele segretaria Elisabeth Hauptmann, che vi apparve con lo<br />

pseudonimo di Doroty <strong>La</strong>ne) ne nacque un conflitto con Weill, risolto con la decisione del poeta di riconoscere almeno la paternità<br />

dei testi dei «song», ricchi di articolazione lirico-drammatica.


In questo lavoro la musica di Weill, nella carica immaginifica che le consente di giungere allo spettatore (sospinta dalla memoria di<br />

acri odori esalati dalle bettole più equivoche, di sinistre luci di fanali che solcano i quartieri portuali, degli aspri sapori di minestre serviti<br />

nelle mense proletarie), risuona anche qui nella constatazione del crollo di tutte le metafisiche. L’integrazione delle canzoni nel<br />

testo è tuttavia dettata da opportunità esteriore più che da intrinseca esigenza drammatica, e scoraggia il paragone con l’Opera da<br />

tre soldi. Là non solo un rigoroso piano musicale ne innervava le fondamenta giustificando l’avvicendarsi di più voci nelle scene d’assieme<br />

rappresentate dai tre ampi finali, ma anche i numeri isolati costituivano spesso dei duetti. In Happy End tutto si riduce al «song»,<br />

chiamato a sostenere il ruolo di un singolo personaggio, spesso indotto a passare dalla recitazione al canto come risposta a semplici<br />

ed occasionali esortazioni le quali, se da una parte agiscono coerentemente con il principio <strong>della</strong> sottolineatura del «mutamento di<br />

funzione» richiesto alle parti degli attori, dall’altra si presentano a volte come pretesti scopertamente artificiosi. Un’articolazione vocale<br />

a livello di concertato è assente: tutt’al più, ma sempre nei termini del «song», l’intenzione di dar vita a scene musicali vere e proprie<br />

è attuata surrettiziamente attraverso l’inserimento dei cori <strong>della</strong> Heilsarmee in posizione di replica al singolo personaggio cantante<br />

«(«Il piccolo tenente del buon Dio», «<strong>La</strong> canzone del venditore di grappa»).<br />

In questi aspetti va evidentemente individuato il principale effetto <strong>della</strong> frettolosità dell’operazione promossa dall’impresario dell’Opera<br />

da tre soldi (Aufricht). Eppure ciò non impedì a Weill di conseguire uno dei suoi più significativi traguardi, per quanto riguarda<br />

l’intuizione di un tipo di «song» ancor più sfaccettato di quanto non apparisse nell’opera maggiore realizzata con Brecht. Là, proprio<br />

per il coerente inserimento <strong>della</strong> canzone nell’azione, le lasciava appena il tempo di adempiere il compito imponendole slancio e concisione;<br />

qui, in una situazione di indebolimento dei nessi drammatici, la canzone obbedisce a ritmi meno incalzanti, assicurandosi<br />

maggior spazio di svolgimento e lasciando conseguentemente emergere la portata di intenzionalità prettamente musicali. L’orchestra<br />

accompagnatrice, che esibisce il consueto organico collaudato nei precedenti lavori brechtiani (allineando sassofoni, banjo, bandoneon,<br />

armonium e quindi lo strumentale delle correnti espressioni musicali di consumo), sembra assicurarsi maggiormente mano libera<br />

ed agire con accresciuta responsabilità in direzione evocativa. Basterebbe il confronto tra la «Canzone di Jenny dei pirati» <strong>della</strong><br />

Dreigroschenoper, graffiante fino in fondo (fino al racconto <strong>della</strong> cruenta irruzione dei corsari nella città, dove l’inesorabilità del ritmo<br />

«come una lenta marcia» si fa semplicemente più attonita), e la «Canzone dei marinai» per comprendere la sottile mutazione di registro:<br />

anche qui abbiamo a che fare con un cupo episodio di burrasca, capace però di concedere alla mente di galoppare e di suscitare<br />

immaginificamente (in un suggestivo passaggio di «Melodram» riservato al suono di singhiozzanti accordi di pianoforte sfiorati<br />

dal fatale rimbombo <strong>della</strong> percussione) l’emozione dell’avventura. Indubbiamente le canzoni di Happy End, nell’allentata economia<br />

del lavoro, riescono ad assicurarsi a volte un respiro di grande ariosità («Surabaya-Johnny») che ne accentuano il profilo lirico a scapito<br />

di quello drammatico. In verità l’accorta logica brechtiana permette il ristabilimento del principio del distacco epico nella misura<br />

in cui, ad esempio, il «Matrosen-Song» è introdotto come effetto <strong>della</strong> bravata <strong>della</strong> protagonista (Lilian), impegnata a dimostrare ai<br />

gangster che l’esercito <strong>della</strong> salvezza può vantare un repertorio capace di dar soddisfazione a tutti i gusti, mentre la posizione di<br />

«Surabaya-Johnny», dichiaratamente assunta come canzone strappalacrime (ultima risorsa rimasta alla protagonista nel tentativo di<br />

far desistere il capo <strong>della</strong> banda, Bill Cracker, dal partecipare all’impresa criminosa), non può non indurre l’attrice ad adottare una<br />

chiave interpretativa conseguente, che difficilmente un’esecuzione estrapolata di concerto saprebbe stimolare.


Proprio la scarsa consistenza dell’azione teatrale lascia talmente aperto il ventaglio delle possibilità interpretative che, qui più che<br />

altrove, il «song» di Weill appare destinato ad amplificare maggiormente l’alone di ambiguità che sempre lo circonda. <strong>La</strong> sua capacità<br />

di smontare la canzone fino a metterne a nudo il meccanismo adescante, consegnatoci come relitto tra orpelli di decadimento che<br />

ribaltano in negativo lo splendore del suo effimero scopo, in questo caso non esita ad adottare un atteggiamento più compiacente,<br />

capace di tracciare più sottili rapporti di equivocità con la sostanza musicale che vi interagisce, dalla prosaica sonorità di ballabile<br />

sgangherato al disadorno e battagliero candore dei cori <strong>della</strong> Heilsarmee. E qui è possibile cogliere quell’elemento che tendeva ad<br />

indirizzare Weill verso un teatro musicale in piena regola dove, attraverso ampia articolazione drammatico-musicale, fosse possibile<br />

assicurare libero campo di sviluppo a una dialettica in grado di oltrepassare il livello di pura presa di coscienza confinato nei limiti del<br />

«song». Poiché, se (da un certo punto di vista) il passaggio dallo stadio <strong>della</strong> commedia con canzoni all’opera sarebbe stato attuabile<br />

come mero ripensamento strutturale sviluppando il «song» oltre il compito funzionale assegnatogli dalla teoria brechtiana, la vera<br />

premessa per un salto di qualità andava al contrario riconosciuta nella capacità di mettere in campo una complessa realtà drammaturgica<br />

evidenziata in tutti i suoi contrastanti e sfuggenti risvolti, irriducibili ad ogni possibilità di schematizzazione.<br />

Alla luce di tale constatazione acquista quindi un più preciso senso l’asserzione del musicista, il quale non solo considerò il «songspiel»<br />

Mahagonny come studio stilistico in vista <strong>della</strong> più elaborata Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny, ma giudicò Happy End,<br />

Das Berliner Requiem e persino l’Opera da tre soldi semplici tappe nello sviluppo verso il concepimento di quell’opera. In questo senso,<br />

nel suo tormentato destino, Happy End, è l’indizio palese del processo di emancipazione di Weill da Brecht. (Carlo Piccardi)


Interpreti<br />

17 dicembre Anthony Woollard<br />

È nato a Londra e ha studiato alla Guildhall School of Music and Drama sotto la guida di David Smith e Raphael Wallfisch. Ha vinto il<br />

primo premio ai concorsi John Lill Awards e South East Music Awards ed è stato finalista nel European Beethoven Competition, che<br />

gli ha permesso di esordire in qualità di solista in un recital a Londra. È stato il primo violoncello <strong>della</strong> European Union Chamber Orchestra<br />

e <strong>della</strong> English Touring Opera. Woollard suona nel quartetto d’archi Alba String Quartet, che è il quartetto stabile al Trinity College<br />

of Music a Greenwich, Londra. Ha inciso alcuni movimenti delle Suites di Bach per la BBC radio 3 e si è esibito come solista con<br />

un brano di Lutoslawski al Barbican Centre di Londra.<br />

14 gennaio Silvana Torto<br />

Nata a Chieti, si diploma in canto al <strong>Conservatorio</strong> «B. Marcello» di Venezia e si laurea con lode all’Università Ca’ Foscari <strong>della</strong> stessa<br />

città con una tesi sull’opera vocale di György Kurtág.<br />

Momento fondamentale per la sua formazione è l’incontro con Luisa Castellani, con la quale studia dal 2003 al <strong>Conservatorio</strong> di Musica<br />

di Lugano, concentrandosi sul repertorio vocale del ’900 e contemporaneo.<br />

Nel 2000 è ospite <strong>della</strong> Biennale di Musica di Venezia come interprete protagonista nelle opere di L. Mosca e M. <strong>La</strong>nza, in prima esecuzione<br />

assoluta. Ha collaborato con diverse formazioni cameristiche, tra le altre, l’Echo Ensemble di Berlino e il <strong>La</strong>boratorio Novamusica<br />

di Venezia, tenendo concerti come solista a Monaco, Berlino, Milano, Roma. Da diversi anni canta in duo con il percussionista<br />

classico Luigi Gaggero.<br />

Robert Koller<br />

Robert Koller ha studiato con László Polgár alla Musikhochschule Zürich/Winterthur dove ha ottenuto il Konzertdiplom «con lode» e<br />

il Solistendiplom. Nel 2001 e 2002 ha vinto i prestigiosi Studienpreis Sologesang des Migros-Genossenschafts-Bundes e l’Ernst Göhner<br />

Stiftung ai quali ha fatto seguire nel 2003 il Förderpreis ORPHEUS-Konzerte 2003.<br />

Come solista in concerto ha cantato di Bach la Kreuzstabkantate e Avodath Hakodesh di Ernest Bloch nello Stadtcasino Basel sotto<br />

la direzione di Joachim Krause (Aprile 2005). Nella Tonhalle di Zurigo ha sostenuto il ruolo di Jesus nella Matthäus-Passion di Bach.<br />

Al Pergamon Museum di Berlino ha eseguito la prima mondiale di Balz Trümpy «Eis Erota». Al KKL di Lucerna si è prodotto come basso<br />

solista nel Requiem di Mozart diretto da Alois Koch. Ha cantato altresì «Ensemble Buch» di Rudolf Kelterborn con l’ensemble stru-


mentale «Opera Nova» dell’orchestra dell’Opera di Zurigo. Fra i ruoli d’opera interpretati si segnala quello del Re nel «Siroe, re di Persia»<br />

nella Musikhalle di Amburgo e nella Zellerbach Hall di Berkeley, San Francisco (2004) con la Venice Baroque Orchestra diretta da<br />

Andrea Marcon. Con la Capella Reial de Catalunya diretta da Savall ha eseguito nella tournée del 2004 musiche di Charpentier allo<br />

Styriarte a Graz e in Francia (fra cui nella cattedrale di Vézelay e al festival d’Ambronay).<br />

Sempre nel 2004 ha interpretato il ruolo titolare di «El Cimarron» di H.-W. Henze nel Teatro Colon a Buenos Aires, in Cile e nel «International<br />

Cervantino Festival» in Messico.<br />

È stato nel settembre 20<strong>06</strong> basso solista nel «Zerberus» di H.U. Lehmanns al Festival di Lucerna, in prima mondiale con il violoncellista<br />

Walter Grimmer e il Lucerne Festival Strings.<br />

18 febbraio Stefano Molardi<br />

Nato a Cremona nel 1970, diplomato in organo e in clavicembalo, laureato in Musicologia con una tesi sulla Nativité du Seigneur di O.<br />

Messiaen, si è perfezionato con importanti maestri (Kooiman, Stembridge, Vogel, Tagliavini); dal 1996 al 1999, ha frequentato la Hochschule<br />

für Musik di Vienna, nella classe di M. Radulescu, con cui ha collaborato, in qualità di basso continuo, all’Académie Bach di Porrentruy<br />

(CH). In seguito ha proseguito la sua formazione nell’ambito <strong>della</strong> musica d’insieme e <strong>della</strong> direzione con P. Gelmini e A. Marcon.<br />

Ha conseguito il primo premio al concorso internazionale d’organo di Pasian di Prato (UD) nel 1998 e al concorso nazionale di Viterbo<br />

(edizione del 1996). È stato premiato, inoltre, in altri concorsi nazionali ed internazionali, tra cui quello di Brugge ed il prestigioso<br />

Paul Hofhaimer di Innsbruck.<br />

Svolge un’intensa attività concertistica come solista e come continuista in importanti rassegne in Italia, in Europa, Brasile, USA, collaborando<br />

con D. Fasolis, A. Marcon, G. Carmignola, suonando nelle sale più prestigiose del mondo, tra cui la Walt Disney Concert<br />

Hall di Los Angeles e la Sala São Paulo in Brasile, il Musikverein di Vienna, la Carnegie Hall di New York, la Jordan Hall di Boston il<br />

Concertgebouw di Amsterdam, il teatro <strong>La</strong> Fenice di Venezia, ecc.<br />

È attivo anche nell’ambito operistico internazionale, partecipando a produzioni quali: Flavio di Partenio (Orchestra barocca “Tiepolo”<br />

- S. Daniele del Friuli), Idomeneo di Mozart (dir. C. De Martini – teatri lombardi, Massy e Vichy), Andromeda di Vivaldi (Venice baroque<br />

Orchestra, A. Marcon – Deutsche Grammophon), <strong>La</strong> Fida Ninfa di Vivaldi (I Musici di Parma).<br />

Come organista si è esibito in prestigiose rassegne italiane ed europee, quali, Musica e Poesia a S. Maurizio a Milano, Festival organistico<br />

internazionale di Treviso, Festival di Valvasone (PN), Festival internazionale di Maastricht (NE), Wiener Orgelkonzerte, Rassegna


organi storici <strong>della</strong> Turingia (Arnstadt), Rassegna organistica di Nürnberg. È docente di Organo complementare e dei Trienni accademici<br />

superiori di Organo presso il <strong>Conservatorio</strong> “G. Verdi” di Como, tiene corsi d’organo alla Scuola Diocesana “Dante Caifa” di Cremona.<br />

Dal 20<strong>06</strong> collabora con il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana di Lugano e tiene masterclasses e conferenze sulla prassi esecutiva<br />

barocca in Italia e all’estero.<br />

Ha registrato per Tactus, Christophorus e Deutsche Grammophon. Dal 2003 registra in esclusiva per la casa discografia svizzera<br />

Divox, sia come solista (4 CD dedicati alla musica organistica di Claudio Merulo), sia come direttore dell’orchestra barocca I Virtuosi<br />

delle Muse, da lui fondata e specializzata nel repertorio vocale e strumentale italiano dei secoli XVII e XVIII.<br />

Per le recenti incisioni ha ottenuto numerosi successi di critica (Amadeus, Early Music, Crescendo) e importanti riconoscimenti internazionali<br />

(5 Diapason assegnati dall’omonima rivista francese, 5 stelle di Goldberg).<br />

Luisa Castellani<br />

Luisa Castellani è un’interprete particolarmente apprezzata per l’estrema duttilità <strong>della</strong> tecnica vocale, affinata con insegnanti come<br />

Gina Cigna e Dorothy Dorow, unita al gusto dell’approfondimento musicale, in particolare nel repertorio contemporaneo, per cui molti<br />

compositori ne hanno fatto un’interprete di elezione.<br />

Luciano Berio l’ha voluta per dar voce alla nuova edizione del suo Calmo, che Luisa Castellani ha portato nei principali teatri e festival<br />

insieme a Sequenza III e Folksongs, e per lei ha creato il ruolo di Ada in Outis, andato in scena alla Scala nell’autunno del 1996.<br />

Anche Giacinto Scelsi le aveva affidato l’interpretazione delle sue partiture.<br />

Ha eseguito e registrato con successo numerose opere, tra cui molte «prime assolute», di Berio, Cage, De Pablo, Donatoni, Ferneyhough,<br />

Francesconi, Gervasoni, Kurtag, Panni, Pennisi, approfondendole con gli stessi autori.<br />

Ha inoltre interpretato le opere dei più importanti compositori del ’900 storico, da Debussy a Bartók, da Schönberg a Dallapiccola,<br />

da Stravinskij a Webern, sotto la direzione di maestri come Berio, Eötvös, Ferro, Gelmetti,Robertson, Sinopoli, Tamayo.<br />

Ha interpretato molti e importanti ruoli come cantante d’opera, tra l’altro, in Esequie <strong>della</strong> Luna e Tristan di F. Pennisi, Anton di E. Scogna,<br />

The Turn of the Screw di B. Britten, Outis e <strong>La</strong> vera storia di L. Berio, <strong>La</strong> madre invita a comer di L. De Pablo, Il velo dissolto di<br />

F. Donatoni e ha ricevuto, nel 1991 il premio Gino Tani per la lirica. Solista con le più importanti orchestre (come la London Sinfonietta,<br />

la BBC, le orchestre di Radio France) e nei principali festival (Wien Modern, biennali di Helsinki, Berlino, Venezia). Ha registrato per<br />

radio e televisioni in molti paesi e numerosi.


Matteo Schürch<br />

Nato nel 1985 a Locarno, inizia gli studi musicali all’età di 15 anni con la pianista Cinzia Imburgia, proseguendo poi presso il <strong>Conservatorio</strong><br />

<strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana con il Prof. Alessandro D’Onofrio e successivamente sotto la guida <strong>della</strong> Prof.ssa Nora Doallo, con la<br />

quale studia tutt’ora, frequentando il corso di perfezionamento.<br />

Si è distinto ottenendo primi e secondi premi in diversi concorsi nazionali ed internazionali, tra i quali il Concorso Svizzero <strong>della</strong> Gioventù<br />

2001, ed il Concorso Internazionale di Cortemilia (Italia) 2002.<br />

Si è esibito sia come solista che in formazioni di musica da camera in <strong>Svizzera</strong>, Germania, Grecia, Italia, Kirghiztan e Ungheria.<br />

11 marzo Barbara Zanichelli<br />

Nata a Parma e diplomata in Violino nel <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> stessa città, si è in seguito dedicata al Canto, studiando tecnica vocale<br />

con l’insegnante russo Anatoli Goussev a Milano. Si è perfezionata nella prassi esecutiva <strong>della</strong> musica barocca con C.Miatello e R.Gini,<br />

nel repertorio belcantistico con Luciana Serra e Sergio Bertocchi e nella vocalità contemporanea con Luisa Castellani, sotto la cui<br />

guida consegue ‘con lode’ il «Konzertdiplom» presso il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> <strong>Italiana</strong> a Lugano.<br />

Dal 2005 sta seguendo a Cremona i corsi di semiologia e canto gregoriano tenuti da N.Albarosa, G.Conti, J.B.Göschl. Come soprano<br />

del quintetto vocale «Vox Altera», ha vinto il Primo Premio assoluto al Concorso internazionale «Luca Marenzio» dedicato a formazioni<br />

vocali madrigalistiche, tenutosi a Coccaglio (BS) nel settembre ’99, commissione presieduta da Claudio Gallico e Anthony Rooley.<br />

Svolge intensa attività concertistica sia come solista che in ensemble, come interprete del repertorio antico e contemporaneo in importanti<br />

sale e festival italiani ed esteri, cantando sotto la direzione di musicisti quali M.W.Chung, P.Memelsdorff, E.Gatti, O.Dantone,<br />

F.M.Bressan, G.Bernasconi, R.Platz, F.Hoch, V.Parisi, e collaborando con ensemble quali «Mala Punica», «Ensemble aurora», «Dèdalo<br />

Ensemble», «Midi ensemble», «I Madrigalisti Ambrosiani», «Accademia del Ricercare», «Cappella Artemisia», «Athestis Chorus».<br />

Dal 2005 collabora con K.Stockhausen di cui ha eseguito in prima esecuzione assoluta «Himmelfahrt - erste Stunde», per soprano,<br />

tenore e organo, con il compositore stesso alla regia del suono, nel Duomo di Milano. Il pezzo è stato anche eseguito nella rassegna<br />

di concerti degli Stockhausen-Kurse Kürten 20<strong>06</strong> e registrato e pubblicato su CD per la Stockhausen-Verlag. Ha registrato per varie<br />

case discografiche tra cui Erato, Arcana, Chandos, Virgin, Glossa. È docente di «Prassi esecutiva e repertorio-Canto» ai corsi del<br />

biennio sperimentale presso il <strong>Conservatorio</strong> «Carlo Gesualdo da Venosa» di Potenza.


Mariarosaria D’Aprile<br />

È nata in Italia nel 1982. Inizia a studiare violino all’età di nove anni. Nel 2001 si diploma con il massimo dei voti, lode e menzione d’onore<br />

presso il <strong>Conservatorio</strong> Statale di musica «E.R. Duni» di Matera. Nel 2000 ottiene il Diploma di Perfezionamento presso l’Accademia<br />

Internazionale «L. Perosi» di Biella, con il giudizio «Eccellente» e menzione speciale. Nel 2004 ottiene il Diploma di Pedagogia<br />

musicale e nel 2005 il Diploma di Perfezionamento presso il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana studiando con il m° Massimo Quarta.<br />

Attualmente prosegue gli studi sempre al <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana per il conseguimento del diploma di Solista.<br />

Vincitrice di diversi concorsi è anche primo violino dell’orchestra da Camera «Liviabella» nelle Marche e si esibisce in trio per l’Associazione<br />

«Arteria» di Matera, da solista con l’Ensemble Gabrieli e con la «Florence Symphonietta» a Firenze. Dal 2002 collabora con<br />

«I Filarmonici di Roma» con il m° Uto Ughi. Suona su un «Paolo Sorgentone» di Firenze del 1998.<br />

Il Coro di Voci Bianche «Clairière»<br />

Il Coro di Voci Bianche «Clairière» nasce all’interno <strong>della</strong> Scuola di Musica del <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana di Lugano ed è<br />

composto da ragazzi e ragazze dagli 8 ai 14 anni. Ha al suo attivo numerosi concerti nella <strong>Svizzera</strong> <strong>Italiana</strong> e all’estero. Nell’estate<br />

2000 ha partecipato, con 6 rappresentazioni, alla Carmen di Bizet messa in scena al Castelgrande di Bellinzona.<br />

È stato invitato più volte a cantare all’interno <strong>della</strong> rassegna Novecento passato e presente diretta da Giorgio Bernasconi presso la<br />

Radio <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana di Lugano.<br />

Sulla base di alcune registrazioni è stato selezionato quale rappresentante <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> italiana insieme ad alcuni prestigiosi cori<br />

europei per partecipare alla 39.ma edizione del Montreux Choral Festival, che si è svolto dal 4 al 7 aprile 2002, ottenendo una menzione<br />

e riscuotendo un notevole successo di pubblico e critica. Nel corso del 2003 ha registrato il suo primo CD … per voce e strumento…<br />

Nel maggio 2004 si è esibito nella Città del Vaticano in occasione <strong>della</strong> giornata del Giuramento delle Guardie Svizzere.<br />

Brunella Clerici<br />

Ha compiuto gli studi musicali presso il <strong>Conservatorio</strong> «G. Verdi» di Milano diplomandosi in Pianoforte, Composizione, Musica Corale<br />

e Direzione di Coro. Ha partecipato a numerosi corsi e Seminari di Direzione di Coro in Italia e presso l’Accademia Kodaly di Keckemet<br />

(Ungheria). <strong>La</strong> sua attività è prevalentemente rivolta alla coralità giovanile alla quale ha dedicato alcune sue composizioni che<br />

sono state eseguite nella rassegna Musica e Metrò, presso la Sala Carducci di Como e nel ciclo Novecento passato e presente.


Fabrizio Rosso<br />

Nato a Torino nel 1969, si è formato come pianista nella sua città e in seguito a Zurigo con H. Francesch e a Lugano con N. Doallo.<br />

Parallelamente ha studiato filosofia presso l’Università di Torino e si è dedicato alla composizione, studiando a Milano con B. Zanolini<br />

e frequentando i corsi presso la Musikhochschule di Zurigo. Dal 1998 frequenta ai seminari di K. Stockhausen a Kürten (Colonia)<br />

dove ha eseguito Mantra e Refrain. Dal 2001 è docente presso il <strong>Conservatorio</strong> <strong>della</strong> <strong>Svizzera</strong> <strong>Italiana</strong>.<br />

SUPSI – <strong>La</strong>boratorio Cultura Visiva<br />

L’ambito principale di attività di <strong>La</strong>boratorio Cultura Visiva – LCV è la comunicazione pubblica e territoriale. I suoi progetti sono volti a<br />

migliorare la percezione che gli abitanti di una regione hanno del territorio e delle istituzioni, a innescare quei processi comunicativi volti<br />

all’integrazione europea delle regioni e, più in generale, a promuovere il design come fattore d’innovazione e di sviluppo economico.<br />

1. aprile Cristina Zavalloni<br />

Nasce a Bologna. Di formazione jazzistica, intraprende a diciotto anni lo studio del belcanto e <strong>della</strong> composizione presso il <strong>Conservatorio</strong><br />

G.B. Martini (Bologna). Per molti anni si dedica alla pratica <strong>della</strong> danza classica e contemporanea.<br />

<strong>La</strong> sua attività concertistica la porta a esibirsi sia in festival jazz (Montreux Jazz Festival, North Sea Jazz Festival, Free Music Jazz<br />

Festival di Anversa, Moers Music, Bimhuis di Amsterdam, Umbria Jazz, Rumori Mediterranei di Roccella Jonica, London Jazz Festival,<br />

Suoni delle Dolomiti) che in stagioni classiche (Lincoln Center New York, Concertgebouw Amsterdam, Teatro alla Scala Milano,<br />

Palau de la Musica Barcellona, Barbican Center Londra, New Palace of Arts Budapest, Auditorium Parco <strong>della</strong> Musica Roma, Walt<br />

Disney Hall Los Angeles). Stabilisce una collaborazione stretta con il compositore olandese Louis Andriessen, che scrive per lei «Passeggiata<br />

in tram per l’America e ritorno», «<strong>La</strong> Passione», «Inanna», «Letter from Cathy», «Racconto dall’Inferno». Molta musica viene<br />

pensata per la sua voce: è dedicataria del brano «Acts of Beauty» di Michael Nyman, di «Le Toccha la mano» di Cornelis De Bondt,<br />

di «A Fair Mask» di Paolo Castaldi. È recente l’apertura verso il repertorio barocco: nel 2005 debutta all’Opera di Strasburgo nell’«Incoronazione<br />

di Poppea» di Monteverdi sotto la direzione di Rinaldo Alessandrini e con la regia di David McVicar. Si cimenta poi nel «Combattimento<br />

di Tancredi e Clorinda» per il Festival di Ravello, con la regia di Mario Martone e l’elaborazione musicale di Giorgio Battistelli.<br />

Sempre Monteverdi è alla base <strong>della</strong> produzione “VSPRS” di Alain Platel e Fabrizo Cassol, che la impegna in una lunga tournée<br />

a partire dall’inizio del 20<strong>06</strong> con la compagnia Les Ballets C de la B.

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