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1 Introduzione Lorella Cedroni e Marina Calloni Le sfide della ... - sifp

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<strong>Introduzione</strong><br />

<strong>Lorella</strong> <strong>Cedroni</strong> e <strong>Marina</strong> <strong>Calloni</strong><br />

<strong>Le</strong> <strong>sfide</strong> <strong>della</strong> filosofia politica oggi<br />

Come si può oggi parlare, scrivere e ragionare di filosofia politica? Perché riflettere sui diversi<br />

significati che la filosofia politica ha assunto nel corso del tempo? E, più in generale cosa si intende<br />

con essa? La riflessione sulle “cose umane” e sugli “affari che riguardano la città” (tà politikà), fa<br />

dunque da spartiacque rispetto a un universo in cui gli individui hanno tentato di decifrare e di<br />

orientarsi nel mondo non solo per dominarlo, ma soprattutto per proteggere la propria<br />

sopravvivenza. L’organizzazione <strong>della</strong> polis – secondo il modello ateniese – fa da crinale rispetto<br />

all’esperienza delle colonie greche, dove al commercio si affiancava il tentativo di “razionalizzare”<br />

il mondo, mediante la definizione ontologica dell’essere e la ricerca delle radici irriducibili <strong>della</strong><br />

realtà. La filosofia politica trova dunque le sue origini nel IV sec. a.C., quando si viene a connotare<br />

come argomentazione razionale che richiede di motivare le proprie posizioni e azioni entro la sfera<br />

pubblica. Ne sono la prova i dialoghi platonici e i processi deliberativi promossi nell’agorà <strong>della</strong><br />

polis. In questa cornice storica, Platone e Aristotele rappresentano i primi esempi compiuti di una<br />

trattazione sistematica <strong>della</strong> politica, intesa come connessione sostanziale e naturale tra l’essere<br />

umano, i diversi gradi di convivenza, l’orientamento etico comune, l’idea/ realtà <strong>della</strong> polis e infine<br />

la ricerca del sommo bene. Ed è proprio sulle diverse rappresentazioni e sulle opposte modalità di<br />

intendere la città – ovvero come dovrebbe essere, oppure com’è – che nasce e si afferma la filosofia<br />

politica, intesa come riflessione concettuale sui fondamenti, le forme istituzionali e le pratiche del<br />

vivere associato che riguardano le dimensioni del governo e del potere.<br />

La riflessione sulla politica va pertanto di pari passo con i cambiamenti epocali che si<br />

avvicendano nel corso del tempo, secondo varianti geopolitiche. Mentre nell’antichità la politica era<br />

concepita come espressione di vita activa (che, secondo Arendt, si esplicava nello spazio pubblico,<br />

dove gli individui interagivano e agivano mediante il discorso), nel corso del Medioevo la politica<br />

(rappresentata come sapere e potere mondano) viene sussunta sotto il manto <strong>della</strong> fede e la priorità<br />

<strong>della</strong> teologia. Con la modernità, la politica assume invece un ruolo centrale nel processo di<br />

secolarizzazione, come dimostrano la definizione stessa dei concetti, concepiti e utilizzati proprio<br />

per differenziare la “ragione” di stato da altri poteri.<br />

Con l’epoca moderna la politica viene tematizzata entro limiti specifici. Nel processo di<br />

disincanto e di mutamento delle visioni del mondo, la prassi politica viene gradualmente a<br />

trasformarsi in un sistema – per usare le parole di Weber – funzionalmente autonomo rispetto ad<br />

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altre sfere di valore, quali il diritto, l’etica e l’economia. Tale differenziazione oggettuale ha inizio<br />

nel momento in cui la politica si trasforma in scienza e tecnica di governo, secondo l’impostazione<br />

datane da Machiavelli, perdendo il suo iniziale significato totalizzante e ritraendosi entro i confini<br />

territoriali degli Stati sovrani nascenti.<br />

La differenziazione epistemologica fra le scienze si accentua tanto più quanto la sfera politica<br />

si viene a distinguere, se non a contrapporsi, al dominio sociale. Uno degli elementi dirimenti <strong>della</strong><br />

modernità è, infatti, la definizione <strong>della</strong> società come ambito dei bisogni, dove al progressivo<br />

processo di individualizzazione del singolo si affianca la formazione delle masse e la<br />

trasformazione delle collettività, in cui i soggetti sono sussunti sotto la moltitudine. Il<br />

riconoscimento di identità individuali si unisce dunque alla formazione di identità collettive nella<br />

dialettica fra politica (luogo del potere e del governo) e società (spazio degli interessi e dei<br />

conflitti). Tale distinzione epistemologia porta da un lato, alla formazione di specifiche scienze<br />

sociali, mentre dall’altro, al necessario confronto <strong>della</strong> filosofia politica con categorie e concetti<br />

elaborati da discipline diverse.<br />

La filosofia politica contemporanea appare come un insieme mobile di costrutti che si sviluppa<br />

tanto al proprio interno, mediante forme di auto-correzione e auto-riflessione, quanto verso<br />

l’esterno, ampliandosi, grazie a processi inclusivi che accolgono prospettive inedite. Il lessico <strong>della</strong><br />

filosofia politica si è andato da una parte arricchendo grazie alla rielaborazione <strong>della</strong> storia del<br />

pensiero e all’influsso di “altri” tipi di approccio metodologico che hanno efficacemente indicato i<br />

limiti stessi del pensiero politico occidentale e i criteri di razionalità adottati.<br />

I temi trattati in questo manuale rinviano tanto a consolidati sistemi di pensiero, quanto a nuovi<br />

paradigmi teorici, di tipo euristico e gnoseologico, adottati; essi si riferiscono tanto allo sviluppo<br />

<strong>della</strong> tradizione politica moderna, quanto alle <strong>sfide</strong> che la riflessione filosofica contemporanea ha<br />

dovuto affrontare nell’ultimo secolo.<br />

Pur nella consapevolezza di un’impossibile esaustività, il presente manuale nasce altresì dalla<br />

necessità di porre domande che riguardano anche l’impianto metodologico <strong>della</strong> filosofia politica<br />

contemporanea, non soltanto il suo oggetto di ricerca. È infatti da oltre quarant’anni, da quando<br />

Bobbio aveva tracciato nel 1970 la mappa “completa” <strong>della</strong> filosofia politica, che non si sono<br />

registrati dibattiti rilevanti sul tema. Nel momento in cui la filosofia <strong>della</strong> politica stava acquistando<br />

in Italia una propria fisionomia e autonomia accademica (distinta dalla filosofia del diritto), Bobbio<br />

aveva articolato la disciplina in quattro ambiti, indicativi dei diversi campi <strong>della</strong> filosofia politica:<br />

1) descrizione dell’ottimo Stato; 2) giustificazione dell’obbligo politico; 3) definizione <strong>della</strong><br />

categoria <strong>della</strong> “politica”; 4) teoria <strong>della</strong> scienza politica (Bobbio 1970). Tale mappa era stata<br />

successivamente emendata e integrata nel 1988 con la specificazione di due altri campi: uno<br />

relativo agli approcci metodologici (ossia ai diversi modi di affrontare la politica), l’altro connesso<br />

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alle aree (etica, politica, giuridica ed economica) <strong>della</strong> pratica politica (Bobbio 1990). Da allora non<br />

ci sono state ulteriori proposte innovative in Italia per quanto riguarda la definizione dell’impianto<br />

metodologico e dei campi di analisi <strong>della</strong> filosofia politica.<br />

Il presente volume intende dunque riprendere la questione metodologica proposta da Bobbio,<br />

all’interno di nuovi paradigmi di pensiero che si sono andati sviluppando negli ultimi cinquant’anni,<br />

sottolineando reciproci influssi, intersezioni e critiche. Gli approcci qui indicati hanno però in<br />

comune un tema, anche se talvolta trattato con argomenti opposti, riassumibile come tentativo di<br />

«proporre soluzioni, o per lo meno di dare indicazioni, per l’attuazione di una buona o migliore<br />

società» (Bobbio 2009).<br />

<strong>Le</strong> teorie liberali e democratiche proposte da Rawls e Habermas indicano, infatti, i limiti del<br />

contrattualismo classico, dell’utilitarismo e del repubblicanesimo, così come le diverse posizioni<br />

multiculturaliste, le riflessioni su potere e biopolitica, gli studi di genere e le analisi sul pensiero<br />

postcoloniale, pongono sotto critica consolidate tradizioni del pensiero occidentale. L’analisi del<br />

linguaggio politico sottolinea come tali cambiamenti semantici stiano ad indicare contraddizioni e<br />

potenzialità di una disciplina aperta a nuovi orizzonti linguistici e culturali. Rispetto alle mappe<br />

teorizzate da Bobbio, cambia dunque la magnitudo <strong>della</strong> filosofia politica ripensata alla luce delle<br />

“alterità”, dal momento che si estende a territori più vasti, fino a comprendere la cosiddetta società<br />

globale, nonostante sia così sfuggevole e difficilmente comprimibile in univoci costrutti.<br />

La presente raccolta si articola in dieci capitoli, ciascuno dei quali sviluppa un tema ben preciso<br />

(la sequenza in cui si snoda il manuale rispetta un ordine tematico alfabetico), e rimanda<br />

contemporaneamente ad altri temi contenuti nel volume. Ciascun capitolo presenta il medesimo<br />

impianto: al sommario e all’introduzione generale al tema specificamente trattato, seguono i diversi<br />

paragrafi in cui esso viene articolato, per giungere all’indicazione di questioni ancora aperte e di<br />

domande sulle quali è possibile avviare una riflessione critica.<br />

Offrendo un’ampia panoramica, critica e ricostruttiva, delle tematiche e delle tendenze che<br />

caratterizzano la filosofia politica contemporanea, il manuale è principalmente rivolto agli studenti<br />

universitari e a tutti gli studiosi interessati alla disciplina.<br />

Nel primo capitolo, <strong>Lorella</strong> <strong>Cedroni</strong> affronta la questione del rapporto tra analisi del linguaggio<br />

politico e filosofia politica. Come già sostenuto da Norberto Bobbio, l’analisi del linguaggio<br />

politico si configura come un “quarto modo di parlare di filosofia politica”, intesa come<br />

metascienza, ossia come «lo studio <strong>della</strong> politica a un secondo livello, che non è quello diretto <strong>della</strong><br />

ricerca scientifica intesa come studio empirico dei comportamenti politici, ma quello indiretto <strong>della</strong><br />

critica e legittimazione dei procedimenti con cui è condotta la ricerca al primo livello. Entra in<br />

questa accezione di filosofia politica, l’orientamento <strong>della</strong> filosofia analitica verso la risoluzione<br />

<strong>della</strong> filosofia politica nell’analisi del linguaggio politico» (Bobbio 1999: 7). Lungi dal risolvere la<br />

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filosofia politica nell’analisi del linguaggio politico, questo capitolo affronta l’ampia e complessa<br />

problematica <strong>della</strong> definizione e operatività di un campo di analisi autonomo rispetto a quei settori<br />

di ricerca entro i quali viene generalmente ricompreso. Il capitolo parte da una prima definizione<br />

generale dei caratteri distintivi dell’analisi del linguaggio politico, per poi giungere a un’ulteriore<br />

specificazione, evidenziandone i caratteri di operatività nell’ambito <strong>della</strong> filosofia e <strong>della</strong> teoria<br />

politica. È a questo livello che si determina la più netta distinzione tra filosofia, intesa come<br />

metascienza e la scienza politica. Quest’ultima, per riprendere ancora la definizione di Bobbio, è «il<br />

discorso o l’insieme dei discorsi sul comportamento politico», mentre la filosofia politica è «il<br />

discorso sul discorso dello scienziato», per cui «la metascienza si propone rispetto alla ricerca<br />

scientifica si propone uno scopo [...] terapeutico, e quindi ha bisogno di mantenere un continuo<br />

contatto con la ricerca scientifica propriamente detta. D’altra parte la scienza si serve delle<br />

riflessioni riguardanti il metodo e il linguaggio per correggere ed eventualmente perfezionare il<br />

proprio lavoro e controllarne i risultati» (Bobbio, 1999: 9). In questo senso tra filosofia politica,<br />

intesa come analisi del linguaggio politico, e scienza politica si determina un rapporto di<br />

“integrazione reciproca”. Vi è però il rischio di un’interpretazione troppo limitativa di quella branca<br />

<strong>della</strong> filosofia politica, chiamata filosofia analitica, che tenderebbe a risolvere l’analisi concettuale<br />

nella pura e semplice analisi linguistica. Quest’ultima, infatti, è strettamente intrecciata con l’analisi<br />

fattuale, vale a dire «con l’analisi, da condurre con la metodologia consolidata delle scienze<br />

empiriche, di situazioni politicamente rilevanti, di cui si tratta di mettere in evidenza i tratti comuni,<br />

indipendentemente dall’aver avuto nei secoli lo stesso nome.» (Bobbio, 1999: 39) Attraverso<br />

l’analisi del linguaggio politico si possono chiarire questioni nodali, come le dinamiche attraverso<br />

le quali si acquisiscono e mantengono legittimità e consenso nelle diverse organizzazioni politiche<br />

o, più semplicemente, si esercita il potere e si attuano le decisioni politiche, analizzando i<br />

mutamenti di significato – anche in senso enantiosemico – attraverso la storia.<br />

Proprio sulla questione analitica e sulla teoria del linguaggio si apre il secondo capitolo di Stefano<br />

Petrucciani. L’autore cerca qui di ricostruire l’idea di etica del discorso in relazione alla teoria<br />

<strong>della</strong> democrazia, così com’è stata sviluppata all’interno di uno dei paradigmi filosofici più<br />

influenti <strong>della</strong> seconda metà del Novecento. Si tratta <strong>della</strong> teoria dell’agire comunicativo elaborata<br />

in modo sistematico da Jürgen Habermas fra gli anni Ottanta e Novanta, assieme all’etica del<br />

discorso e alla teoria <strong>della</strong> democrazia deliberativa. A tal fine, Petrucciani ricostruisce i tre filoni<br />

che hanno cadenzato l’opera habermasiana, a partire dall’eredità francofortese: a. la critica <strong>della</strong><br />

società tecnico-scientifica, capitalistica e consumistica;, b. la ricerca di uno statuto filosofico <strong>della</strong><br />

critica <strong>della</strong> società; 3. le prospettive <strong>della</strong> democrazia. Petrucciani viene dunque a considerare<br />

nello specifico la costruzione formale dell’etica del discorso (fondata su pretese di validità espresse<br />

mediante atti linguistici, il dialogo e il conseguimento dell’intesa fra soggetti coinvolti), assieme ai<br />

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suoi principi costitutivi: “D” (discorso) e “U” universalizzazione. Mentre nel discorso pratico<br />

(processo dialogico fra soggetti dialoganti), la norma etica deve essere fondata su soluzioni<br />

imparziali conseguite da tutti, nel discorso giuridico le norme devono basarsi sulla legittimità.<br />

Come afferma Habermas in Fatti e norme, la validità normativa delle leggi giuridiche è dunque da<br />

distinguere dal senso di giustezza proprio delle regole morali, commisurato a criteri di giustizia.<br />

Nella distinzione tra le sfere <strong>della</strong> morale, etica, diritto, economia e politica, Habermas viene a<br />

tracciare la teoria <strong>della</strong> democrazia discorsiva, andando a individuare proprio nella sfera pubblica<br />

ragionante, il nucleo da cui scaturiscono deliberazioni che portano successivamente a decisioni<br />

politiche nei moderni Paesi democratici. Sfere pubbliche radicali sarebbero dunque il principale<br />

motore di una democrazia concepita come emancipazione da ogni forma di potere arbitrario.<br />

Rimangono però problemi irrisolti, come ad esempio il fatto di come sia realisticamente praticabile,<br />

nelle società contemporanee, l’idea di una democrazia fondata principalmente sul potere<br />

comunicativo dei cittadini.<br />

Nel terzo capitolo, <strong>Marina</strong> <strong>Calloni</strong> prende in esame un dibattito che ha messo duramente alla<br />

prova potenti sistemi filosofici, assieme a consolidate visioni del mondo. Si tratta di quella che un<br />

tempo veniva definita la ”questione femminile” e che ha assunto una fisionomia ben specifica non<br />

soltanto come movimento politico, ma soprattutto come ambito determinato di riflessione<br />

epistemologica e filosofica. La teoria politica gioca qui un ruolo cruciale nel connettere la critica<br />

sociale con la prassi concreta, a partire da reali contesti di vita. Gli studi di genere e il<br />

femminismo teorico trovano la loro origine in una storia paradigmatica: la vita di Olympe de<br />

Gouges, sostenitrice <strong>della</strong> dignità e dei diritti delle donne, ghigliottinata durante gli anni del Terrore<br />

robespieriano. A partire da tale lascito, <strong>Calloni</strong> viene ad analizzare due dei concetti che sono stati<br />

alla base <strong>della</strong> costituzione del dibattito teorico femminista: la differenza fra sesso (inteso come<br />

determinazione biologica) e genere (concepito come costrutto sociale). A partire da tale distinzione,<br />

l’autrice analizza il significato politico che la differenza di genere ha assunto nella diverse ondate<br />

del movimento delle donne, soprattutto a livello rivendicativo. Accanto alle motivazioni delle<br />

mobilitazioni collettive, si affianca però un vero e proprio dibattito pubblico che porta a riflessioni<br />

critiche sui contenuti delle sfere di valore e sul significato di costrutti del sapere. Si tratta in<br />

particolare dei dibattiti riguardanti il rapporto fra relazioni di genere ed etica <strong>della</strong> cura da una parte,<br />

e la critica all’epistemologia oggettivista del razionalismo strumentale occidentale, a favore di una<br />

concezione <strong>della</strong> conoscenza come sempre relazionata al punto di vista dell’osservatore. La<br />

prospettiva del femminismo teorico nelle sue diverse e contrastanti posizioni sovverte pertanto ogni<br />

tipo di sapere consolidato, a partire dall’affermazione di un sé situato e sessuato, dai limiti <strong>della</strong><br />

giustizia distributiva e dall’idea del contratto sociale come fondato sul controllo e vendita <strong>della</strong><br />

sessualità femminile. La critica diventa tanto più radicale quanto più il femminismo viene messo in<br />

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discussione da donne escluse o non-occidentali che non si sentivano rappresentate da un discorso<br />

mono-culturale, così gli studi postcoloniali hanno sottolineato. La teoria <strong>della</strong> democrazia viene<br />

dunque esaminata alla luce <strong>della</strong> critica alla grande dicotomia di pubblico e privato, secondo la<br />

problematica delle insopprimibili diversità umane, in rapporto sull’uguaglianza intesa come insieme<br />

di differenze (a partire da quella di genere), dove però le differenze non devono tramutarsi in<br />

discriminazioni. Tale prospettiva ha portato nel corso del Novecento alla tematizzazione di specifici<br />

diritti di genere (come nel caso dei diritti riproduttivi) all’interno degli Stati nazionali, così come<br />

nella comunità internazionale, con la conseguente promozione di legislazioni ad hoc, azioni<br />

positive e politiche delle pari opportunità nell’ambito del lavoro, dell’educazione e <strong>della</strong> politica.<br />

Proprio per via delle innovative pratiche sociali e delle riflessioni teoriche sviluppate, la filosofia<br />

politica contemporanea non può certo sottovalutare il patrimonio culturale accumulato dai<br />

femminismi e dai movimenti delle donne in oltre due secoli. Il femminismo politico e teorico ha<br />

infatti trasformato radicalmente le visioni cognitive del mondo, il senso dell’orientamento<br />

biografico, l’azione collettiva e la stessa nozione di politica. Nato come riflessione critica sulla<br />

società e sul sapere, la vera sfida del femminismo consiste oggi nel non chiudersi nella propria<br />

ideologia o dogma.<br />

Proprio nella consapevolezza delle differenze e delle diversità, nel quarto capitolo Sebastiano<br />

Maffettone presenta una delle principali teorie attorno a cui è ruotata l’intera filosofia politica<br />

moderna e contemporanea, vale a dire il liberalismo, la cui ragion d’essere si fonda proprio sulla<br />

realtà del pluralismo. Tralasciando la questione prettamente socio-economica (intesa come rapporto<br />

tra modo di produzione e giustizia distributiva), l’autore viene a considerare la tematica del<br />

pluralismo alla luce delle presenti <strong>sfide</strong> multiculturali. Proprio per questo, Maffettone sostiene non<br />

tanto l’esistenza di un liberalismo statico e unitario, quanto la realtà di una molteplicità di<br />

liberalismi, spesso fra di loro in contrasto. Al fine di ricostruire la sua complessa e stratificata storia,<br />

Maffettone prende in esame uno dei maggiori filosofi del Novecento: John Rawls, assieme alla sua<br />

eredità filosofico-politica. Lasciando sullo sfondo l’opus magnum di Una Teoria <strong>della</strong> Giustizia<br />

(1971), Maffettone viene a concentrarsi soprattutto sulla successiva fase auto-correttiva di Rawls,<br />

vale a dire su Liberalismo Politico (1993), quando il filosofo era venuto da una parte ad affrontare<br />

le critiche mosse al suo precedente lavoro, mentre dall’altra ad aprirsi alla considerazione del<br />

funzionamento delle democrazie liberali al giorno d’oggi, sostenendo aspetti egualitari, quali<br />

l’istruzione pubblica gratuita, le cure mediche per tutti, il finanziamento pubblico delle campagne<br />

elettorali. Il modello redistributivo <strong>della</strong> giustizia sociale non risultava essere più sufficiente per<br />

spiegare la natura del disaccordo politico-culturale e le modalità per superalo. Quali sono le buone<br />

ragioni per sostenere la preferibilità del liberalismo politico? Rawls propone i concetti di “consenso<br />

per intersezione” e di “ragione pubblica”, venendo ad intendere il liberalismo non più come<br />

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giustificazione, ma come legittimazione. La priorità del giusto sul bene dipende dunque dai valori<br />

di giustizia politica, connessi ai principi di giustizia, così come da quei valori che derivano dal<br />

dibattito comune, fondato sulla discussione libera e pubblica. Proprio per questo, anche le attuali<br />

posizioni multiculturali non possono che essere intese all’interno di un’ottica <strong>della</strong> ragion pubblica<br />

e dell’egalitarismo liberale.<br />

Proprio a questa tematica è dedicato il quinto capitolo di Barbara Henry. Se il concetto di<br />

multiculturalismo ha cominciato ad essere utilizzato con una certa frequenza nel dibattito, sia<br />

pubblico sia accademico da soli pochi anni, tuttavia le sue radici affondano nelle tradizioni liberali<br />

dell’Occidente e nel dover fare i conti col pluralismo religioso, culturale, politico, proprio sulla base<br />

del rispetto delle libertà fondamentali verso gruppi minoritari. Partendo da tale sfondo tematico,<br />

Henry sviluppa una visione critico-ricostruttiva del concetto, cercando di individuare un possibile<br />

modello di coesistenza non-omologante all’interno di società liberali e democratiche. A tale<br />

proposito, l’autrice sottolinea la nozione di cultura come un costrutto polisemico che può essere<br />

detto solo nella sua pluralità, ovvero come culture. Diventa allora cruciale una riflessione sul<br />

rapporto tra identità individuale, di gruppo e collettiva, dove per identità, così come per cultura/e,<br />

sono intesi costrutti non statici o fissati una volta per tutti, bensì mutevoli, porosi e irriducibili. In<br />

tal senso, un approccio decostruttivista al multiculturalismo e per analogia agli studi di genere e<br />

all’approccio post-coloniale, indica la necessità di integrare la prospettiva utilizzata dalla tradizione<br />

politica moderna, dove le minoranze erano indicate come impegnate in lotte per il riconoscimento e<br />

in tensione con lo Stato nazionale. Fra le varie interpretazioni possibili, Henry si sofferma sulla<br />

questione delle minoranze morali, che da una parte si mobilitano per il pieno godimento dei propri<br />

diritti nel caso ne siano già titolari da un punto di vista formale, mentre dall’altra lottano per il<br />

rispetto delle libertà fondamentali a partire da sfere pubbliche nel caso ne fossero sprovvisti. Ciò<br />

che c’è in palio non sono tanto il successo o il fallimento di politiche di accomodamento, quanto la<br />

promozione di politiche di integrazione rivolte a minoranze, come ha dimostrato il caso di “nuovi<br />

arrivati”, quali i migranti, rifugiati, richiedenti asilo. La sfida del multiculturalismo consiste dunque<br />

nel permettere ai “nuovi venuti” di apprendere e appropriarsi gradualmente del senso e delle forme<br />

di norme che vigono su un particolare territorio, senza che tale processo perpetui diseguaglianze,<br />

forzi l’omogeneizzazione alla cultura dominante, mantenga la violenza simbolica, che è insita in<br />

tutte quelle culture che rappresentano se stesse come monolitiche e impervie.<br />

Rispetto al dibattito che pone il culturalismo in antitesi alla normatività, nel sesto capitolo<br />

Antonella Besussi cerca di far luce su un paradigma di pensiero cruciale per la filosofia politica,<br />

come già indicato nei capitoli precedenti. Si tratta di una rilettura del liberalismo classico e<br />

contemporaneo, a partire dall’immagine fondativa del contratto sociale e dal quesito-cardine su<br />

come sia possibile giustificare l’autorità politica, quando nel processo di secolarizzazione sono<br />

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venute a mancare le fonti <strong>della</strong> legittimazione provenienti o dall’intervento divino o dalle leggi di<br />

natura. Per tal motivo, l’autrice analizza innanzitutto il contrattarianismo e il contrattualismo<br />

moderno di tipo costruttivista, nelle versioni datene da Hobbes e da Kant che – pur essendo molto<br />

diverse – hanno tuttavia in comune un’analogia: l’idea di mutuo vantaggio. Da una parte il<br />

contrattarianismo - ispirato a Hobbes e fondato sull’individualismo metodologico, la scelta<br />

razionale e lo scambio volontario - cerca di ottenere mediante la massimizzazione delle preferenze<br />

la garanzia del vantaggio atteso. Dall’altra parte il contrattualismo kantiano si fonda su principi che<br />

non sono il risultato di una contrattazione fra pari, ma l’esito di una decisione razionale basata sulla<br />

garanzia normativa del rispetto degli interessi di tutti i soggetti interessati. Tale problematica viene<br />

notoriamente trattata da John Rawls in Una teoria <strong>della</strong> giustizia, dove – grazie all’impiego di un<br />

esperimento di pensiero – individui posti sotto il velo d’ignoranza e inconsapevoli <strong>della</strong> loro stessa<br />

identità vengono a interrogarsi su quali siano i principi di giustizia, su cui possa fondare una società<br />

equa e ben equilibrata. In tal modo, è assicurata eguale dignità a ciascun contraente. Ciò che diventa<br />

dunque rilevante per il conseguimento dell’intesa non sono più le ragioni o i limiti dell’autorità<br />

politica, bensì le norme che permettono di coordinare relazioni politiche e questioni morali tra gli<br />

individui, stabilendo come e quando tali regole sono giustificabili. Tuttavia, non sono poche le<br />

critiche rivolte all’impianto neocontrattualista, per via dell’ideologia che sarebbe insita nello stesso<br />

presupposto del contratto. Verrebbero, infatti, riconosciuti come contraenti solo coloro che hanno<br />

già lo status o la fisionomia per accedervi, mentre verrebbero escluse minoranze e tutti coloro che<br />

non sono simili ai soggetti già coinvolti nella tradizionale sfera <strong>della</strong> giustizia distributiva.<br />

Nel settimo capitolo, <strong>Marina</strong> <strong>Calloni</strong> e <strong>Lorella</strong> <strong>Cedroni</strong> analizzano una complessa corrente di<br />

pensiero che ha seriamente posto sotto critica l’intero impianto epistemologico, cognitivo, storico,<br />

politico, economico e rappresentativo dell’Occidente: il postcolonialismo. Nasce nella seconda<br />

metà del Novecento come opposizione politica e culturale a forme di soggiogamento messe in atto<br />

dal colonialismo moderno, in contrapposizione anche agli intenti monopolistici praticati<br />

dall’imperialismo contemporaneo. Tuttavia, nel corso degli anni tale critica si è trasformata in un<br />

vero e proprio ambito di studi che si intreccia e si sovrappone con altri campi di ricerca, di<br />

produzione artistica, di intervento sociale, tanto da diventare una corrente di pensiero e di azione<br />

molto influente nel discorso pubblico internazionale. La genesi degli studi postcoloniali – che si<br />

intersecano con gli studi culturali, le teorie di genere, il multiculturalismo, l’analisi biopolitica –<br />

viene fatta risalire al 1978, quando Edward Saïd – teorico <strong>della</strong> letteratura, di origine palestinese,<br />

ma naturalizzato come cittadino statunitense – pubblicò l’ormai celeberrimo Orientalism. Tale testo<br />

dette origine a enormi discussioni e nello stesso tempo contribuì ad aprire nuovi spazi di riflessione<br />

e di critica sul significato, i limiti e la violenza esercitata dal pensiero e dalle pratiche occidentali su<br />

popoli considerati “altri” e “diversi”. La critica postcoloniale ha dunque provocato una rivoluzione<br />

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epistemologica e culturale, ponendo al centro coloro che si trovavano ai bordi, o erano addirittura<br />

esclusi da quel “territorio” che l’Occidente aveva costruito con la sua egemonia culturale e con la<br />

costruzione di un ordine sociale che negava visioni differenti. Uno degli aspetti più interessanti<br />

dell’approccio postcoloniale riguarda, infatti, la questione degli “sguardi” da un punto di vista sia<br />

interno che esterno. Sono gli “altri” che ora ci guardano e ci giudicano, sia che abitino in Occidente,<br />

sia che siano residenti in altri luoghi. Concetti classici e fondativi <strong>della</strong> filosofia politica acquistano<br />

un diverso contenuto, proprio perché vengono dette in altre lingue e con diversi significati. <strong>Le</strong><br />

determinazioni di soggettività, identità, cultura, potere, oppressione, subalternità, oppressione,<br />

resistenza, violenza (politica, simbolica, di genere e strutturale), conoscenza e linguaggio vengono<br />

dunque rilette nel loro contenuto ideologico per affermare nuove interpretazioni rispetto ad una<br />

realtà socio-economica e politica che era stata manipolata e mistificata in nome di una pretesa<br />

superiorità culturale. Ma a differenza di molti post- che dagli anni Settanta in poi hanno costellato<br />

l’orizzonte del dibattito politico e intellettuale, radicalizzando il decostruttivismo senza più alla fine<br />

trovare il fondamento e l’oggetto stesso <strong>della</strong> loro critica, gli studi postcoloniali continuano a<br />

mantenere ben chiaro l’obiettivo: trasformare una cultura dominante (di cui la filosofia politica è<br />

stata spesso promotrice) e con essa i rapporti di potere a livello globale.<br />

Sullo sfondo <strong>della</strong> critica radicale mossa al pensiero occidentale, nell’ottavo capitolo, Laura<br />

Bazzicalupo indaga uno dei concetti costitutivi <strong>della</strong> politica, vale a dire l’idea di potere,<br />

riattualizzato alla luce del dibattito sulla biopolitica. Rispetto alla tradizionale interpretazione, il<br />

potere non viene più infatti riferito al solo contesto politico e agli ambiti sociali, bensì agli stessi<br />

spazi <strong>della</strong> vita psichica e biologica. Al fine di mostrare tale sviluppo tematico, l’autrice parte dal<br />

carattere intersoggettivo, relazionale, generativo, simbolico, comunicativo e sistemico del concetto,<br />

andando innanzitutto a ricostruire le tradizioni realiste (da Machiavelli, a Hobbes fino a Schmitt), le<br />

analisi sociologiche (Weber) e le teorie struttural-funzionaliste (Parsons e Luhmann) del potere.<br />

Successivamente, Bazzicalupo viene a indagare due diversi paradigmi nella definizione del potere:<br />

la prospettiva di Arendt e l’interpretazione di Foucault. Tali autori hanno infatti impresso una svolta<br />

radicale allo studio del potere, dal momento che hanno messo in rilievo il suo intrinseco carattere<br />

biopolitico e agonistico. In tal senso, se da una parte la svolta biopolitica viene a mutare il<br />

contenuto delle forme giuridiche tradizionali, dall’altra parte il bios assume forme inedite di<br />

soggettivazione e potere capaci di resistere e di influenzare a loro volta. Ovvero, le relazioni di<br />

potere attraversano i soggetti stessi che lo costituiscono. <strong>Le</strong> consuete nozioni di forza, coercizione,<br />

manipolazione, influenza, sono ormai eccedenti rispetto ai confini <strong>della</strong> politica, perché sono<br />

innervati nei corpi stessi degli individui. La concezione liberale del soggetto inteso come autonomo<br />

e detentore di diritti e poteri viene così sopraffatta dalla centralità del ‘vivente’. I diritti sarebbero<br />

dunque poteri che diventano parte <strong>della</strong> lotta politica contingente e vengono ridefiniti di volta in<br />

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volta per esprimere le voci delle parti in contesa (come affermano i postcolonial studies). La<br />

biopolitica diventa dunque l’elemento che contraddistingue la politica attuale, avente per oggetto<br />

del potere il vivente stesso. La vita sociale è dunque attraversata da poteri, in forma di reticoli e<br />

relazioni asimmetriche che influenzano ogni decisione. E su tale questione si aprono nuovi scenari<br />

per future interpretazioni <strong>della</strong> comunità umana.<br />

Proprio su tale quesito si apre il nono capitolo, dove Luca Baccelli ricostruisce un altro filone<br />

costitutivo <strong>della</strong> filosofia politica contemporanea, che si affianca al liberalismo e alla teoria<br />

dell’agire comunicativo, sopra indicati: il repubblicanesimo o neorepubblicanesimo. Se è vero<br />

che in anni recenti il repubblicanesimo è stata un’influente corrente di pensiero che è riuscita a<br />

ritagliarsi un proprio spazio nel dibattito teorico, è altrettanto vero che la sua presenza attraversa i<br />

tempi senza soluzione di continuità. <strong>Le</strong> sue radici affondano infatti nella filosofia antica sulla polis<br />

greca, così come nel pensiero romano sulla res publica. Tale concetto è stato poi ampiamente<br />

utilizzato dalla filosofia scolastica cristiana, così come dall’Umanesimo e dal Rinascimento nella<br />

nascente distinzione tra forme di governo repubblicane e quelle monarchiche. Ed è proprio con la<br />

modernità che le esperienze repubblicane di alcuni Stati italiani, dei Paesi Bassi, del Commonwealth<br />

inglese fanno da contrappunto all’affermazione dello Stato territoriale. La repubblica diventa quindi<br />

un topos per l’Illuminismo (Montesquieu, Rousseau, Kant), sostanziata dalle esperienze<br />

rivoluzionarie in America e Francia, dove il governo repubblicano si afferma entro lo Stato<br />

nazionale. Nel corso dell’Ottocento, il repubblicanesimo ispirerà anche autori impegnati nella lotta<br />

per l’indipendenza nazionale, come nel caso di Mazzini e Cattaneo. Tenendo conto delle diverse<br />

accezioni e retaggi, Baccelli viene a ricostruire il composito scenario che caratterizza il<br />

repubblicanesimo contemporaneo, distinguendolo dal comunitarismo, che è una corrente nata<br />

soprattutto in contrapposizione agli assunti individualistici del liberalismo. L’autore viene dunque a<br />

seguire in particolar modo la linea che si ispira ai lavori di Pocock, Skinner e Pettit, che riprendono<br />

aspetti <strong>della</strong> tradizione protomoderna per elaborare filosofie politiche e teorie giuridiche attuali.<br />

Tale prospettiva teorica è anche scaturita dalla crisi <strong>della</strong> democrazia rappresentativa,<br />

dall’indebolimento <strong>della</strong> sovranità statale, dall’affermazione dell’economia sulla politica. Di contro,<br />

riprendendo la tradizione protomoderna, il neorepubblicanesimo concepisce la libertà politica come<br />

non-dominio, vincolandola al valore dell’autogoverno e proponendo la “virtù civica” dei cittadini<br />

come la condizione necessaria per la formazione, lo sviluppo e la sopravvivenza di ordinamenti<br />

politico-giuridici democratici. E su questi temi si aprono spunti per affrontare i dilemmi delle attuali<br />

democrazie a livello globale.<br />

Nel decimo e ultimo capitolo, Eugenio <strong>Le</strong>caldano viene a trattare una delle maggiori correnti di<br />

pensiero <strong>della</strong> filosofia moderna e contemporanea: l’utilitarismo, che segue alle trattazioni del<br />

contrattualismo, del liberalismo, <strong>della</strong> teoria dell’agire comunicativo, degli studi di genere, delle<br />

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iflessioni post-coloniali, <strong>della</strong> biopolitica e del repubblicanesimo, come sopra esposte. L’autore<br />

offre innanzitutto una genealogia dell’utilitarismo, rinvenendo in alcuni autori del Sette-Ottocento<br />

le maggiori fonti di ispirazione: da David Hume, a Jeremy Bentham fino a John Stuart Mill, alla<br />

ricerca di una spiegazione plausibile di quelle pratiche umane che hanno a che fare con la proprietà,<br />

i patti, la giustizia, il governo e le relazioni internazionali. <strong>Le</strong>caldano procede dunque lungo due<br />

diverse direttive analitiche: da una parte sviluppa un approccio “esterno”, sottolineando lo specifico<br />

contributo dato dalla teoria utilitarista alla filosofia politica contemporanea, indicandone specificità<br />

e diversità rispetto a impostazioni concorrenti; mentre dall’altra affronta una riflessione “interna”,<br />

andando ad individuare la peculiarità e la trasformazione che la riflessione utilitaristica ha avuto<br />

nell’ultimo secolo, soprattutto nella considerazione <strong>della</strong> politica. Per quanto riguarda il primo<br />

aspetto, l’autore indica come la riflessione degli utilitaristi sulla politica si sia concentrata sulle<br />

risposte da dare a obiezioni avanzate soprattutto dal liberalismo neocontrattualista che, come nel<br />

caso di Rawls, gli imputava la mancanza di una concezione <strong>della</strong> giustizia distributiva. Per quanto<br />

concerne il secondo aspetto, <strong>Le</strong>caldano cerca di individuare i maggiori cambiamenti di prospettiva<br />

intercorsi nell’utilitarismo (anche se sarebbe il caso di parlare di utilitarismi, considerata la<br />

difficoltà di ridurlo ad unum) nel corso del XX secolo. Uno di questi riguarda lo spostamento<br />

dell’asse da una considerazione dei piaceri e dei dolori propri delle persone, all’individuazione delle<br />

preferenze e degli interessi, quale dimensione centrale per l’esame valutativo. L’approccio<br />

utilitarista alla politica non è infatti centrato sulle istituzioni, ma sul contesto storico-sociale, ovvero<br />

sul manifesto interesse nei confronti di scelte pubbliche, agite sulla base <strong>della</strong> massimizzazione<br />

<strong>della</strong> soddisfazione generale, qui intesa come utilità media e non totale. Pertanto, la recente<br />

posizione utilitarista, seppur molto differenziata al suo interno, ha ruotato attorno ad alcuni perni<br />

teorico-politici: la possibilità di estendere i metodi <strong>della</strong> democrazia anche sul piano delle relazioni<br />

internazionali; la necessità di ampliare in modo eticamente adeguato la questione <strong>della</strong> distribuzione<br />

delle risorse disponibili, anche alle generazioni future; il bisogno di fondare su base etica il limite<br />

all’uso <strong>della</strong> violenza e <strong>della</strong> guerra. <strong>Le</strong> problematiche di pertinenza <strong>della</strong> politica sono, infatti,<br />

legate all’individuazione di condotte, leggi e istituzioni che permettano ai soggetti coinvolti una<br />

convivenza pacifica, ordinata e in grado di migliorare le condizioni generali di vita. E constano<br />

proprio in ciò le problematiche che i teorici utilitaristi dovranno affrontare negli anni a venire.<br />

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