Politica, regolazione e sicurezza energetica
Politica, regolazione e sicurezza energetica
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5.<br />
<strong>Politica</strong>, <strong>regolazione</strong> e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
L’esigenza di rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> in uno scenario<br />
globale cangiante e contraddittorio ha dunque a che vedere<br />
con una molteplicità di variabili, la maggior parte delle quali<br />
è al di fuori della portata dei paesi consumatori di risorse energetiche.<br />
Tre leve, però, sono a disposizione dei paesi consumatori<br />
ed è opportuno che siano mosse in maniera coerente ed efficace.<br />
5.1. La politica economica<br />
La prima leva riguarda la politica economica. Come si è visto,<br />
è ragionevole supporre – anche se l’evidenza empirica non<br />
è ancora in grado di mettere la parola fine a questo dibattito –<br />
che quanto più un mercato è ampio e integrato, tanto più esso è<br />
flessibile e in grado di parare shock derivanti da incidenti, compresi<br />
quelli politici. Questo punto è esplicitamente riconosciuto,<br />
ed enfatizzato, nel Libro verde della Commissione Europea<br />
sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>: “l’energia sostenibile, competitiva e<br />
sicura non sarà raggiunta senza mercati energetici competitivi e<br />
aperti, basati sulla concorrenza tra imprese nel tentativo di diventare<br />
player competitivi a livello europeo anziché soggetti dominanti<br />
a livello nazionale. L’apertura dei mercati, non il protezionismo,<br />
rafforzerà l’Europa e le consentirà di risolvere i problemi.<br />
Un mercato unico europeo autenticamente competitivo<br />
dell’elettricità e del gas ridurrà i prezzi, migliorerà la <strong>sicurezza</strong><br />
degli approvvigionamenti e accrescerà la competitività. Aiuterà<br />
143
anche l’ambiente, perché le imprese reagiscono alla competizione<br />
chiudendo gli impianti inefficienti” 1. Perché si possa parlare<br />
di un vero mercato interno, occorre anzitutto sviluppare politiche<br />
che consentano, o almeno non ostacolino, l’accesso di newcomers<br />
sui mercati nazionali, e quindi sappiano garantire i principi<br />
di terzietà e non discriminazione nella gestione delle reti nazionali<br />
preesistenti alla liberalizzazione. Al tempo stesso, è fondamentale<br />
la crescita delle arterie di interconnessione dei diversi<br />
sistemi elettrici, in maniera tale che essi non restino di fatto<br />
isole collegate da pochi, esili ponti. L’obiettivo di raggiungere<br />
un livello di interconnessione pari al 10 per cento degli scambi<br />
elettrici nel continente, fissato dal Consiglio europeo svoltosi a<br />
Barcellona nel 2002, è ancora lontano e “i progressi non sono<br />
soddisfacenti”. Quindi, “gli investimenti pubblici e privati nelle<br />
infrastrutture devono essere stimolati e le procedure accelerate.<br />
Maggiore è l’interconnesione tra le reti elettriche europee,<br />
minore sarà il bisogno di capacità in eccesso e, col tempo, minori<br />
i costi. Questo è importante in un momento in cui il precedente<br />
eccesso di capacità europeo sta diventando storia” 2.<br />
Se tutto questo è vero, allora è fondamentale anche l’istituzione<br />
di un principio di “solidarietà tra gli Stati”, un patto di<br />
mutuo soccorso insomma che impegni i contraenti al reciproco<br />
aiuto in caso di difficoltà. Sebbene tale patto possa essere di difficile<br />
interpretazione all’atto pratico, quanto meno esso rafforza<br />
l’esigenza di sviluppare sinergie e compatibilità, che nel medio<br />
e lungo periodo possono essere raggiunte solo se si consente alle<br />
imprese di crescere e operare in paesi diversi da quello originario<br />
anche attraverso fusioni cross border. Infatti, solo con la<br />
perdita della “nazionalità delle imprese”, solo con la creazione<br />
di un “melting pot economico”, le motivazioni protezionistiche<br />
possono effettivamente perdere terreno, credibilità e appeal. È<br />
vero che in questa evoluzione si nasconde il rischio, ancora una<br />
volta, dell’uso politico delle imprese di un paese operanti in un<br />
altro: c’è sempre, in ogni strategia, una quota di azzardo. È tut-<br />
1 COMMISSIONE EUROPEA, “A European Strategy for Sustainable, Competitive<br />
and Secure Energy”, p. 5.<br />
2 Ivi, p. 7.<br />
144
tavia ragionevole attendersi che, se i mercati sono aperti, contendibili<br />
e trasparenti, scelte di questo genere vengano evitate –<br />
nel senso che la loro probabilità sarà minimizzata – non tanto<br />
per ragioni morali, quanto perché, semplicemente, esse non<br />
convengono.<br />
L’integrazione dei mercati avrebbe due effetti fondamentali.<br />
Dal punto di vista del consumatore, porterebbe a una maggiore<br />
libertà di scelta e a una convergenza dei prezzi verso un<br />
prezzo unico europeo di elettricità e gas, facendo venire meno<br />
gli sbalzi tariffari che tipicamente si sperimentano varcando i<br />
confini (e che dipendono anche, ma non solo, da una diversità<br />
nel trattamento fiscale). Dal punto di vista dei produttori, si potrebbe<br />
raggiungere una più efficiente collocazione degli impianti<br />
e un maggiore bilanciamento del mix produttivo, anche, ma<br />
non solo, perché la possibilità di spostare i processi produttivi<br />
da un paese all’altro senza avere eccessivi contraccolpi sul mercato<br />
di riferimento potrebbe, entro certi limiti, consentire un superamento<br />
delle restrizioni alla scelta dei combustibili. Naturalmente<br />
questo implicherebbe pure un premio (in termini di capacità<br />
di attirare investimenti) per quei paesi che hanno una regolamentazione<br />
più tollerante e processi autorizzativi più certi e<br />
rapidi. Per di più, potrebbe paradossalmente emergere un “nazionalismo<br />
positivo”: mentre oggi per trattenere competenze<br />
nei settori ritenuti strategici si ricorre talvolta a provvedimenti<br />
protezionistici, il modo per impedire la dispersione di capitale<br />
umano potrebbe essere la semplificazione burocratica, con beneficio<br />
dell’intera economia nazionale e, trattandosi di un mercato<br />
integrato, europea.<br />
L’integrazione europea nasconde però un’insidia: che venga<br />
concepita come una licenza a trasferire a livello continentale<br />
quelle politiche di chiusura che vengono sacrificate a livello nazionale.<br />
La creazione di un mercato interno europeo, infatti,<br />
non cancella il fatto che l’Europa e i suoi Stati membri siano immersi<br />
in un contesto globalizzato, nel quale – seppure a un grado<br />
minore – esistono forme di interconnessione. Questo è sicuramente<br />
vero per i mercati petroliferi, e meno vero (ma lo è in<br />
misura crescente) per quelli del gas, per le ragioni che si sono<br />
già viste.<br />
145
Il caso Cnooc-Unocal<br />
Un’esperienza utile a comprendere i rischi a cui espone<br />
il protezionismo è il braccio di ferro, svoltosi tra la primavera<br />
e l’estate 2005, tra la compagnia pubblica cinese Cnooc e<br />
la multinazionale americana Chevron per l’acquisizione di<br />
Unocal, nona impresa petrolifera americana con importanti<br />
asset in Asia. In quell’occasione fu il Congresso a mettere di<br />
fatto i bastoni tra le ruote a Cnooc, la cui offerta era superiore<br />
a quella dei competitori (anche grazie ai prestiti a tasso<br />
zero garantiti dal governo di Pechino). La decisione di<br />
sbarrare la strada ai cinesi dipendeva essenzialmente dal timore<br />
che aprire la porta a un’impresa pubblica di un paese<br />
tanto delicato avrebbe potuto creare problemi strategici agli<br />
Stati Uniti, e dunque avrebbe cozzato contro l’interesse nazionale.<br />
In verità, gli assetti proprietari delle compagnie petrolifere<br />
– e di una relativamente minore come Unocal in<br />
particolare – non bastano a determinare cambiamenti sui<br />
mercati petroliferi mondiali, su cui si forma il prezzo dei<br />
greggi di riferimento (e di tutti gli altri). Quindi difficilmente<br />
si può sostenere che l’acquisizione avrebbe prodotto<br />
smottamenti del mercato.<br />
Se insomma l’ingresso di Cnooc in America non avrebbe<br />
avuto grandi conseguenze, quali risultati può aver determinato<br />
la decisione di impedirlo? In primo luogo, poiché il<br />
tentativo di Cnooc era anche figlio delle spinte modernizzatrici<br />
che stanno attraversando la Cina, queste ultime sono<br />
state indebolite, con potenziali conseguenze negative<br />
per il paese e per il resto del mondo. Secondariamente, gli<br />
Stati Uniti si sono messi in una posizione facilmente criticabile<br />
da Pechino, riducendo la propria credibilità nel tentativo<br />
di “influenzare la Cina anziché semplicemente difendersi<br />
da essa” (per usare le parole con cui Adam Segal commentava<br />
il senso della visita in Cina del vicesegretario di<br />
Stato Robert Zoellick, avvenuta più o meno negli stessi<br />
giorni in cui si consumava lo scontro su Cnooc) 3. Secondariamente,<br />
posto che la Cina deve in qualche modo soddisfa-<br />
146
e il suo bisogno di energia, lo sbarramento incontrato sulla<br />
via americana ai mercati globali ha costretto il paese a<br />
cercare una boccata d’ossigeno costruendo una relazione<br />
meno limpida (in quanto necessariamente più dipendente<br />
da trattative e scelte politiche) con quei paesi che vengono<br />
ritenuti inaffidabili: “l’unica certezza è che più le compagnie<br />
energetiche cinesi sono tenute fuori dalla partecipazione<br />
al mercato, più saranno forzate a cercare il petrolio presso<br />
Stati canaglia quali l’Iran e il Sudan per alimentare la crescita<br />
del paese”, ha scritto Mark Cristopher 4. In questa maniera,<br />
si rischia di imprimere alla globalizzazione un percorso<br />
a ostacoli che potrebbe produrre un risultato grandemente<br />
negativo: il formarsi di due blocchi, quello dei “buoni”<br />
e quello dei “cattivi”, con poche forme di comunicazione<br />
reciproca. Al contrario, sarebbe opportuno promuovere<br />
i commerci e le relazioni internazionali come fattori di<br />
stabilità e <strong>sicurezza</strong>. Se due paesi sono legati l’uno all’altro,<br />
i comportamenti opportunistici hanno un costo maggiore<br />
per chi li adotta.<br />
Proprio perché la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> può essere vista come<br />
un elemento di <strong>sicurezza</strong> nazionale (in quanto il mondo<br />
contemporaneo ha nell’energia l’input che lo tiene in vita), occorre<br />
una chiara comprensione di quel che c’è in gioco, del significato<br />
della <strong>sicurezza</strong> (che è un costo), e delle strategie più<br />
efficaci per garantirla. Nell’attuale scenario mondiale – con un<br />
mondo sviluppato energivoro e un mondo in via di sviluppo<br />
che mette assieme una rapida evoluzione istituzionale e una<br />
crescita economica a due cifre a un’altrettanto sostenuta domanda<br />
di energia – le scelte di politica <strong>energetica</strong> hanno un im-<br />
3 ADAM SEGAL, “Encouraging China to Choose a Peaceful Path”, The<br />
Wall Street Journal, 3 agosto 2005.<br />
4 MARK CRISTOPHER, “In Need of a China Energy Strategy”, The Wall<br />
Street Journal, 27 giugno 2005. A proposito dell’asse tra Iran e Venezuela, su<br />
cui converge una delle possibili linee strategiche della politica cinese, si veda<br />
MAURIZIO STEFANINI, “Iran-Venezuela, la strana coppia”.<br />
147
patto fondamentale su quelle di politica economica, e viceversa.<br />
Di conseguenza, esse non possono essere trattate come due<br />
capitoli estranei l’uno all’altro. In particolare, nota Daniel Yergin,<br />
“bisogna riconoscere nei mercati una fonte di <strong>sicurezza</strong>...<br />
Oggi, l’esistenza di mercati dell’energia vasti, flessibili e ben<br />
funzionanti produce <strong>sicurezza</strong> assorbendo gli shock e consentendo<br />
a domanda e offerta di rispondere più velocemente e con<br />
maggiore ingegno di quanto potrebbe fare un sistema controllato.<br />
Tali mercati garantiranno <strong>sicurezza</strong> per il crescente mercato<br />
del Gnl e quindi faranno crescere la fiducia nei paesi importatori.<br />
Di conseguenza, i governi devono resistere alla tentazione<br />
di esercitare pressioni politiche e impegnarsi nel micromanagement<br />
dei mercati. L’interventismo e i controlli, per quanto<br />
ben intenzionati, possono generare conseguenze opposte, rallentando<br />
o addirittura impedendo il movimento dell’offerta<br />
per rispondere ai problemi” 5. Se i mercati sono una delle variabili<br />
chiave nella ricerca di <strong>sicurezza</strong>, allora le imprese devono<br />
essere lasciate libere di agire e non devono essere ostacolate nel<br />
tentativo di creare valore per gli azionisti, perché l’interesse di<br />
questi ultimi, in un mercato energetico libero, integrato e globale,<br />
coincide con l’interesse generale. Ecco allora che “il clima<br />
degli investimenti deve diventare una preoccupazione cruciale<br />
nella <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>”. Per l’Agenzia internazionale dell’energia,<br />
nei prossimi 25 anni il sistema energetico richiederà investimenti<br />
per 17 mila miliardi di dollari: “questi flussi di capitali<br />
non si materializzeranno senza una cornice stabile e ragionevole<br />
per gli investimenti, un processo decisionale puntuale<br />
da parte dei governi, e l’esistenza di mercati aperti” 6. Quella degli<br />
investimenti è una sfida non solo dal punto di vista dell’integrazione<br />
dei mercati, ma anche alle scelte legislative e regolatorie<br />
dei paesi europei, che spesso hanno adottato politiche il<br />
cui risultato inintenzionale è stato di aumentare il rischio paese<br />
e, dunque, rallentare gli investimenti, con ciò indebolendo la<br />
<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
5 DANIEL YERGIN, “Ensuring Energy Security”, pp. 79-80.<br />
6 Ivi, p. 81.<br />
148
Del resto, come si è già detto, la <strong>sicurezza</strong> è un costo: che<br />
può divenire maggiormente accettabile – e desiderabile da pagare<br />
– quanto più le istituzioni che governano i mercati energetici<br />
spingono i prezzi verso il basso. L’ex governatore della<br />
Federal Reserve Alan Greenspan ha detto che “l’esperienza<br />
degli ultimi cinquant’anni afferma che le forze del mercato<br />
giocano un ruolo cruciale nella conservazione di risorse energetiche<br />
scarse, dirigendole verso gli usi che vengono maggiormente<br />
valutati... Le questioni energetiche presentano ai decisori<br />
politici e ai cittadini decisioni e trade off difficili, da compiere<br />
al di fuori del processo di mercato. Ma queste preoccupazioni,<br />
si spera, troveranno una risposta che, per quanto possibile,<br />
non distorca o danneggi il ragionevole funzionamento<br />
dei nostri mercati. Dobbiamo ricordare che quegli stessi segnali<br />
di prezzo così critici nel bilanciare domanda e offerta di<br />
energia nel breve termine, nel lungo termine segnalano opportunità<br />
di profitto per l’espansione dell’offerta. Per giunta, stimolano<br />
la ricerca e lo sviluppo che scopriranno nuovi approcci<br />
alla produzione e all’uso di energia” 7. La competizione tra<br />
fonti – e tra fonti vecchie e nuove – è essa stessa un ulteriore<br />
fattore di <strong>sicurezza</strong>: la questione della garanzia degli investimenti,<br />
sollevate da Yergin, si applica anche in questo senso.<br />
Come si può pretendere che le imprese investano in ricerca e<br />
sviluppo se i segnali che provengono dalle decisioni politiche<br />
creano un clima di incertezza e lasciano aperto il dubbio che il<br />
risultato degli sforzi troverà un’accoglienza fredda o addirittura<br />
ostile dall’ambiente regolatorio? E come si può pretendere<br />
che le imprese investano se gli standard che esse sono chiamate<br />
a rispettare sono confusi, cambiano velocemente, e tendono<br />
ad alzare l’asticella a livelli talvolta difficilmente sostenibili?<br />
Infine, come si può chiedere alle imprese di investire se le risorse<br />
che esse riescono a produrre vengono ridotte da meccanismi<br />
burocratici nel nome di obiettivi non sempre chiari o<br />
praticamente raggiungibili?<br />
7 ALAN GREENSPAN, “Remarks Before the National Petrochemical and<br />
Refiners Association Conference”.<br />
149
5.2. La politica del clima<br />
La risposta a questa domanda coincide largamente col ricorso<br />
alla seconda leva, quella della politica ambientale e in particolare<br />
della politica climatica. La preoccupazione per le possibili<br />
conseguenze del cambiamento climatico, che secondo alcuni è<br />
causato in tutto o in parte dall’accumulazione in atmosfera di anidride<br />
carbonica e altri gas a effetto serra emessi dalla combustione<br />
di fonti fossili nei processi umani, ha innescato un ampio dibattito<br />
politico attorno alle contromisure. Spesso, però, tale dibattito<br />
si è affermato in una dimensione parallela, avulsa dal più generale<br />
contesto delle altre scelte politiche. Così, si è talvolta omesso di<br />
considerare i riflessi delle politiche ambientali sulle politiche energetiche,<br />
e di inserirle sul complesso sfondo delle relazioni internazionali.<br />
In tal modo, si rischia però di dar vita a un dibattito incompleto,<br />
basato su informazioni parziali, e dunque potenzialmente<br />
fonte di contraddizioni o fraintendimenti. Per esempio, non sempre<br />
si è colta, nell’alveo della discussione sul global warming, la<br />
portata (economica e no) del ripensamento delle fonti energetiche<br />
che pure viene richiesto. Le proiezioni dell’Agenzia internazionale<br />
dell’energia e degli altri organismi specializzati dicono che le<br />
fonti fossili sono destinate ad alimentare gran parte della crescita<br />
(economica e dei consumi di energia) del mondo in generale, e di<br />
quello in via di sviluppo in particolare. Siamo pronti a sacrificare<br />
tutto o parte di questo sviluppo nel nome della lotta ai mutamenti<br />
climatici? Se davvero si ritiene che questi ultimi possano produrre<br />
le gravi conseguenze, umane e ambientali, che talvolta vengono<br />
loro attribuite, allora la risposta può essere affermativa, ma dovrebbe<br />
essere consapevole delle conseguenze. Se invece si ritiene<br />
che l’effetto serra sia un fenomeno più contenuto, o affrontabile in<br />
maniera più efficace con altri mezzi (come le politiche di adattamento<br />
e l’innovazione tecnologica), allora è consigliabile adottare<br />
un approccio diverso. In ogni caso, la questione del clima non può<br />
essere risolta – anzi: non dovrebbe essere affrontata – prescindendo<br />
dai suoi risvolti energetici e di politica internazionale 8.<br />
8 Si veda MARIO SECHI eCARLO STAGNARO, “Clima. Vogliamo far gli amerikani”.<br />
150
Gli scenari suggeriscono che i consumi energetici, e quindi<br />
le emissioni di gas a effetto serra, nei prossimi decenni si sposteranno<br />
dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo. Questo<br />
significa che la riduzione operata dai paesi industrializzati<br />
sotto gli auspici del protocollo di Kyoto verrà più che controbilanciata<br />
da una crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo.<br />
È vero che molti di essi hanno ratificato il protocollo (sono<br />
oltre centocinquanta le nazioni ad averlo fatto), ma non hanno<br />
alcun obbligo e, anzi, da esso possono ricavare aiuti allo sviluppo<br />
sotto forma di acquisto di quote di emissione o partnership<br />
tecnologiche. Dal loro punto di vista, dunque, Kyoto è una strategia<br />
win-win, a prescindere dal suo ridotto o inesistente impatto<br />
sul clima globale. Inoltre, un approccio “regionale” – quale è<br />
di fatto Kyoto – è nuovamente condannato dal nostro futuro<br />
energetico: se nel 1990 le economie mature producevano quasi<br />
la metà delle emissioni globali, quelle in transizione il 23 per cento<br />
e quelle emergenti il 28 per cento, nel 2002 queste ultime salivano<br />
al 38 per cento e, secondo le proiezioni, nel 2025 raggiungeranno<br />
il 50 per cento, contro il 39 per cento dei paesi sviluppati<br />
9. Quindi, focalizzarsi su di essi in prospettiva rischia di produrre<br />
risultati deludenti. Corrado Clini riassume così i termini<br />
della questione: “i paesi industrializzati che hanno ratificato il<br />
Protocollo raggiungeranno infatti entro il 2012 una riduzione<br />
delle emissioni globali inferiore al 2,5 per cento. E se gli stessi<br />
Paesi volessero proseguire nell’attuale ‘format’ del Protocollo di<br />
Kyoto dopo il 2012, entro il 2030 le emissioni dei Paesi industrializzati<br />
– Usa esclusi – potrebbero essere ridotte del 16 per<br />
cento rispetto ai livelli del 1990, corrispondenti a meno del 5 per<br />
cento delle emissioni globali; è necessaria una strategia più ampia<br />
a livello globale, oltre il Protocollo di Kyoto, per assicurare<br />
nello stesso tempo una risposta adeguata alla crescita della domanda<br />
di energia e la riduzione delle emissioni globali, avendo<br />
presente che non devono essere compromesse né la crescita delle<br />
economie emergenti che stanno faticosamente uscendo dal<br />
sottosviluppo, né la competitività delle economie sviluppate di<br />
Usa, Europa e Giappone; per affrontare con successo questa dif-<br />
9 http://www.eia.doe.gov/oiaf/ieo/emissions.html.<br />
151
ficile sfida è necessario immaginare e realizzare una strategia innovativa<br />
a livello globale” 10. E questo è il secondo limite di Kyoto.<br />
Se è vero che il riscaldamento globale – a prescindere dal reale<br />
impatto delle emissioni antropogeniche sulle dinamiche climatiche<br />
11 – rappresenta una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità<br />
e gli equilibri ecologici attuali, i suoi effetti si manifesteranno<br />
non dal giorno alla notte, ma nell’arco di un orizzonte<br />
temporale molto ampio: almeno un secolo. Le contromisure,<br />
per essere efficaci, devono tener conto di questo fatto e debbono<br />
esse stesse proiettarsi avanti nei decenni. Di conseguenza, il<br />
baricentro delle policies deve spostarsi su coloro che saranno i<br />
maggiori responsabili delle emissioni “nocive”, non su quanti lo<br />
sono stati quando la sensibilità ecologica, le conoscenza scientifiche,<br />
e gli effetti dell’innalzamento delle temperature non mettevano<br />
in discussione tali attività.<br />
5.2.1. Kyoto e le sue alternative<br />
A livello globale, i combustibili fossili resteranno la fonte di<br />
energia dominante fino al 2030, a meno che non intervengano<br />
netti cambi di consumo e forti avanzamenti tecnologici. È probabile<br />
che essi coprano l’83 per cento dell’aumento totale della<br />
domanda <strong>energetica</strong> tra il 2004 e il 2030. Conseguentemente il<br />
loro contributo alla domanda mondiale si sposterebbe dall’80<br />
all’81 per cento. La quota del petrolio diminuirebbe, sebbene il<br />
suo contributo al mix energetico globale resti, singolarmente,<br />
quello maggiore. La richiesta globale di petrolio raggiungerà i<br />
99 milioni di barili al giorno nel 2015 e i 116 milioni nel 2030 rispetto<br />
agli 84 milioni del 2005. Il carbone supporterà il più grosso<br />
incremento della domanda in termini assoluti – un aumento<br />
indotto dalla produzione di energia elettrica. La Cina e l’India<br />
conteranno per quasi i quattro quinti della domanda incrementale<br />
di carbone, che resterà la seconda più importante fonte di<br />
energia primaria con un lieve aumento della sua porzione nella<br />
10 CORRADO CLINI, “Cari europei, riconsideriamo il protocollo di Kyoto”.<br />
11 Si veda HANS LABOHM, SIMON ROZENDAAL e DICK THOENES, Man-<br />
Made Global Warming: Unravelling a Dogma.<br />
152
domanda globale di energia. Anche la quota del gas naturale aumenterà,<br />
assieme a quella dell’energia idroelettrica che salirà lievemente,<br />
mentre il contributo dell’energia nucleare scenderà.<br />
La porzione delle biomasse diminuirà marginalmente perché i<br />
paesi in via di sviluppo effettueranno un graduale spostamento<br />
verso fonti più moderne di energia, compensando l’incremento<br />
delle biomasse per la produzione di biocarburanti e per quella<br />
di elettricità e di calore. Forme di energia rinnovabile non idro,<br />
come l’eolico, il solare e il geotermico avranno la crescita più veloce,<br />
ma partendo da una base molto piccola.<br />
La crescente domanda di petrolio e di gas, se non tenuta<br />
sotto controllo, accentuerebbe la vulnerabilità dei paesi consumatori<br />
a gravi interruzioni della fornitura e a conseguenti forti e<br />
improvvisi cambi di prezzi. I paesi Ocse e i paesi asiatici in via<br />
di sviluppo sono diventati sempre più dipendenti dalle importazioni<br />
perché la loro produzione interna non riesce a tenere il<br />
passo con la domanda. La produzione non Opec di greggio convenzionale<br />
e di gas naturale liquefatto è destinata a raggiungere<br />
il suo vertice entro un decennio. Nello scenario base allestito<br />
dalla Iea, entro il 2030 l’Ocse nel suo insieme importerà due terzi<br />
del fabbisogno petrolifero, rispetto al 56 per cento attuale.<br />
Una gran parte dell’aumento delle importazioni sarà soddisfatto<br />
dal Medio Oriente e viaggerà su vulnerabili rotte marittime.<br />
La concentrazione della produzione di petrolio in un ridotto numero<br />
di paesi dotati di vaste riserve – i membri mediorientali<br />
dell’Opec e la Russia – aumenterà il dominio sul mercato e la loro<br />
capacità di imporre prezzi più alti. Ci si aspetta anche che una<br />
fetta sempre più grossa della domanda di gas sia soddisfatta da<br />
importazioni via gasdotto o tramite gas naturale liquefatto provenienti<br />
da fornitori sempre più distanti. Nel consumo globale<br />
di petrolio si proietta l’aumento della quota di energia richiesta<br />
dal settore dei trasporti – che è relativamente non elastica dal<br />
punto di vista del prezzo quando comparata ad altri servizi. Si<br />
stima che i sussidi attuali ai prodotti petroliferi nei paesi non<br />
Ocse siano pari a oltre 90 miliardi di dollari. I sussidi relativi a<br />
tutte le forme finali di energia nei paesi non Ocse ammontano a<br />
oltre 250 miliardi di dollari all’anno, pari a tutti gli investimenti<br />
necessari nel settore elettrico, ogni anno, in quei paesi.<br />
153
I prezzi del petrolio sono ancora importanti per la salute<br />
economica dell’economia globale. Sebbene la maggior parte delle<br />
economie dei paesi importatori abbiano continuato a crescere<br />
fortemente dal 2002, esse sarebbero cresciute ancora più rapidamente<br />
se il prezzo del petrolio e di altre forme di energia non fosse<br />
aumentato. La maggior parte dei paesi Ocse ha subito un peggioramento<br />
della bilancia dei pagamenti correnti, il caso più ovvio<br />
essendo quello degli Stati Uniti. Il rientro in circolo dei petrodollari<br />
può avere aiutato a mitigare l’incremento dei tassi di<br />
interesse a lungo termine ritardando l’impatto negativo dei maggiori<br />
prezzi energetici sui redditi reali e la produzione, ma uno<br />
shock petrolifero causato da un’improvvisa e grave interruzione<br />
della fornitura sarebbe particolarmente dannoso, specialmente<br />
per i paesi poveri che sono affetti da grandi debiti.<br />
Secondo il rapporto Iea, soddisfare le crescente fame di<br />
energia del mondo richiede grandi investimenti nelle infrastrutture<br />
energetiche. Secondo lo scenario base saranno necessari investimenti<br />
cumulativi leggermente superiori a 20 mila miliardi<br />
di dollari (in dollari del 2005) tra il 2005 e il 2030. Il settore elettrico<br />
conta per il 56 per cento dell’investimento totale – circa<br />
due terzi se includiamo nella filiera della fornitura l’investimento<br />
per sopperire ai bisogni di combustibili delle centrali elettriche.<br />
L’investimento totale sul petrolio – tre quarti del quale è a<br />
monte della filiera – ammonta a oltre 4 mila miliardi di dollari<br />
tra il 2005 e il 2030. Gli investimenti a monte della filiera sono<br />
più sensibili ai tassi di calo di produzione dei pozzi di quanto lo<br />
siano ai tassi di crescita della domanda di petrolio. Più della<br />
metà di tutti gli investimenti energetici sarà nei paesi in via di<br />
sviluppo, dove domanda e produzione aumentano più rapidamente.<br />
La sola Cina dovrà investire 3.700 miliardi, cioè il 18 per<br />
cento del totale mondiale. Non c’è garanzia che tutti gli investimenti<br />
necessari siano disponibili. Scelte politiche interne, fattori<br />
geopolitici, cambi inaspettati dei costi e prezzi, l’introduzione<br />
di nuove tecnologie, potrebbero avere effetti sulle opportunità<br />
e sugli incentivi alle compagnie pubbliche o private di investire<br />
nei diversi stadi della filiera dell’energia. Le decisioni concernenti<br />
gli investimenti dei maggiori paesi produttori di petrolio e<br />
gas sono di importanza cruciale perché avranno un’influenza<br />
154
sempre maggiore sui volumi e i costi di importazione dei paesi<br />
consumatori. Ci sono dubbi, per esempio, sul fatto che gli investimenti<br />
nell’industria del gas russa siano sufficienti a mantenere<br />
gli attuali livelli di esportazione verso l’Europa e cominciare<br />
a esportare verso l’Asia. La capacità e la volontà dei maggiori<br />
produttori di petrolio e di gas di incrementare gli investimenti<br />
allo scopo di soddisfare la domanda globale sono particolarmente<br />
incerte. La spesa capitale da parte delle più grandi imprese<br />
petrolifere è incrementata nettamente in termini nominali durante<br />
la prima metà di questo decennio e, secondo i piani di queste<br />
imprese, continuerà ad aumentare fino al 2010. Ma l’impatto<br />
sulla futura capacità di spesa è affievolito dall’incremento dei<br />
costi. In termini reali, nel 2005 gli investimenti sono stati appena<br />
del 5 per cento più alti che nel 2000. Ci si aspetta che gli investimenti<br />
previsti da qui al 2010 nell’upstream aumenteranno<br />
lievemente l’eccesso di capacità produttiva. Dopo la fine di questo<br />
decennio saranno necessari investimenti ancora maggiori, in<br />
termini reali, per mantenere la crescita della capacità a monte e<br />
a valle della filiera.<br />
Intanto, le emissioni di anidride carbonica (CO 2) relative<br />
alla produzione di energia incrementeranno del 55 per cento tra<br />
il 2004 e il 2030, vale a dire dell’1,7 per cento all’anno (nello scenario<br />
base della Iea). La generazione di elettricità contribuirà alla<br />
metà di tale aumento. Già nel 2003 il carbone ha superato il<br />
petrolio come principale responsabile delle emissioni dovute alla<br />
generazione elettrica, e questa posizione si consoliderà fino al<br />
2030. I paesi in via di sviluppo conteranno per oltre tre quarti<br />
dell’incremento globale delle emissioni di CO 2 tra il 2004 e il<br />
2030 e oltrepasseranno l’Ocse poco dopo il 2010. La loro quota<br />
di emissioni globali aumenterà dal 39 per cento del 2004 ad<br />
oltre la metà entro il 2030. Tale aumento sarà più veloce della<br />
crescita della domanda <strong>energetica</strong> perché la richiesta incrementale<br />
di energia dipenderà maggiormente dal carbone di quanto<br />
non accada nei paesi Ocse e nelle economie in transizione. In generale,<br />
i paesi in via di sviluppo usano proporzionalmente più<br />
carbone e meno gas. La sola Cina sarà responsabile di circa il 30<br />
per cento dell’aumento delle emissioni globali. Le sue emissioni<br />
più che raddoppieranno tra il 2004 e il 2030, spinte da una<br />
155
forte crescita dell’economia basata pesantemente sull’uso del<br />
carbone sia per l’industria che per la produzione di elettricità.<br />
La Cina supererà gli Stati Uniti come principale emettitore<br />
mondiale prima del 2010. Anche altri paesi asiatici, l’India in<br />
particolare, contribuiranno fortemente all’incremento delle<br />
emissioni globali.<br />
Sebbene lo scenario base della Iea preveda una costante<br />
espansione dell’uso domestico di moderni servizi energetici nei<br />
paesi in via di sviluppo, molta gente nel 2030 continuerà a impiegare<br />
biomasse. Oggi due miliardi e mezzo di persone usano<br />
legna, carbone, rifiuti agricoli e sterco animale per soddisfare i<br />
quotidiani fabbisogni energetici, come quello di cucinare cibi e<br />
riscaldare case. In diversi paesi queste risorse contano per il 90<br />
per cento del totale fabbisogno domestico. L’inefficiente e insostenibile<br />
uso di biomasse ha gravi conseguenze per la salute, per<br />
l’ambiente e per lo sviluppo economico. È impressionante che<br />
circa 1.300.000 persone – prevalentemente donne e bambini –<br />
muoiano prematuramente ogni anno a causa dell’esposizione all’inquinamento<br />
indoor dovuto proprio alla combustione di tali<br />
sostanze. C’è evidenza che, in paesi dove i prezzi locali si sono<br />
adeguati agli alti prezzi internazionali dell’energia, lo spostamento<br />
verso modi più puliti ed efficienti di cucinare i cibi abbia<br />
rallentato se non addirittura si sia invertito. Secondo lo scenario<br />
base della Iea il numero delle persone che usano biomasse aumenterà<br />
a 2,6 miliardi nel 2015 e a 2,7 miliardi nel 2030, considerando<br />
l’aumento della popolazione. Ciò significa che un terzo<br />
della popolazione mondiale farà ancora uso di questi combustibili<br />
– una percentuale di poco inferiore a quella di oggi. Proprio<br />
in questo momento ci sono ancora 1,6 miliardi di persone<br />
nel mondo che sono senza elettricità. C’è un disperato bisogno<br />
di azioni per incoraggiare un uso più efficiente e sostenibile della<br />
biomassa e per aiutare la gente ad adottare combustibili e tecnologie<br />
moderne in cucina. L’approccio politico appropriato dipende<br />
da circostanze locali come il reddito pro-capite e la disponibilità<br />
di una fornitura sostenibile di biomasse. Tecnologie e<br />
combustibili alternativi sono già disponibili a costi ragionevoli.<br />
Dimezzare il numero di case che usano biomasse in cucina entro<br />
il 2015 – una delle raccomandazione del progetto per il mil-<br />
156
lennio delle Nazioni Unite – richiederebbe a 1,3 miliardi di persone<br />
di adottare gas, petrolio o altri combustibili commerciali.<br />
Ciò non avrebbe un impatto apprezzabile sulla domanda mondiale<br />
di petrolio e le dotazioni tecnologiche costerebbero, al più,<br />
un miliardo e mezzo di dollari l’anno. Ma azioni vigorose e coordinate<br />
dei governi – con il supporto dei paesi industrializzati –<br />
sono necessarie per ottenere lo scopo e richiedono finanziamenti<br />
pubblici e privati. Tali politiche dovrebbero essere mirate all’abbattimento<br />
delle barriere all’accesso, all’offerta e all’affluenza<br />
e dovrebbero anche costituire il cuore di una strategia di sviluppo<br />
più ampia.<br />
Nei paesi sviluppati, compresa l’Ue, la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
dipenderà da fattori come l’efficienza nell’uso dell’energia, gli<br />
sviluppi tecnologici sia per i combustibili fossili (cattura e stoccaggio<br />
del carbonio, per esempio) che per le fonti rinnovabili<br />
(energia eolica e solare in particolare) e, possibilmente, un maggior<br />
uso dell’energia nucleare per la produzione di elettricità.<br />
Però, allo scopo di ridurre il potenziale pericolo di cambio climatico<br />
globale, sarà soprattutto necessario incrementare l’efficienza<br />
<strong>energetica</strong> e ridurre la crescita delle emissioni di gas a effetto<br />
serra nei paesi in via di sviluppo, visto che è lì che si concentrerà<br />
la crescita delle emissioni.<br />
Uno studio di David Montgomery e Sugandha Tuladhar dimostra<br />
che accordi come la Asia & Pacific Partnership on Clean<br />
Development and Climate, firmato nel 2005 da India, Cina, Corea<br />
del Sud, Giappone, Australia e Stati Uniti presentino un approccio<br />
alla politica del cambio climatico che potrebbe riconciliare<br />
gli obiettivi della crescita economica e quelli dei miglioramenti<br />
ambientali per i paesi in via di sviluppo 12. Messi assieme,<br />
i firmatari costituiscono il 45 per cento della popolazione planetaria<br />
e generano il 50 per cento delle emissioni antropogeniche<br />
di anidride carbonica. La proiezione di una forte crescita di gas<br />
a effetto serra nei paesi in via di sviluppo durante i prossimi 20<br />
anni significa che c’è un enorme potenziale per la riduzione del-<br />
12 W. DAVID MONTGOMERY e SUGANDHA D. TULADHAR, “The Asia Pacific<br />
Partnership: Its Role in Promoting a Positive Climate for Investment,<br />
Economic Growth and Greenhouse Gas Reductions”.<br />
157
le emissioni tramite meccanismi di trasferimento tecnologico<br />
basati sul mercato.<br />
Montgomery e Tuladhar notano che esistono diversi fattori<br />
critici per assicurare il successo di un accordo internazionale<br />
fortemente basato su investimenti del settore privato. La loro ricerca<br />
dimostra che per la promozione di un clima favorevole agli<br />
investimenti la riforma delle istituzioni diventa un punto critico,<br />
in quanto la sua assenza è uno dei più grossi ostacoli alla riduzione<br />
delle emissioni di gas a effetto serra in Cina, India ed<br />
altre economie asiatiche. Sia Cina che India hanno iniziato a<br />
creare un sistema economico basato sul mercato, con chiari benefici<br />
sotto forma di una più rapida crescita economica. Ma il<br />
processo di riforma è stato lento ed esitante, e non ha rimosso<br />
solide barriere al cambio tecnologico, alla crescita della produttività<br />
e al miglioramento delle emissioni. La Banca Mondiale e<br />
altre istituzioni hanno condotto vaste indagini sul ruolo delle<br />
specifiche istituzioni nella creazione di un clima positivo per gli<br />
investimenti. I risultati indicano che tra i vari provvedimenti necessari<br />
devono essere incluse la minimizzazione della corruzione<br />
e del peso della regolamentazione, l’instaurazione di un’efficace<br />
rule of law, il riconoscimento dei diritti di proprietà intellettuale<br />
e la riduzione del ruolo dei governi nell’economia. Ciò<br />
porterebbe alla rimozione delle distorsioni dei prezzi dell’energia,<br />
consentendo la creazione di infrastrutture adeguate e di una<br />
forza lavoro istruita e motivata.<br />
Uno dei meccanismi chiave tramite i quali i paesi in via di<br />
sviluppo possono avere accesso alle risorse tecnologiche e ai capitali<br />
da investire allo scopo di sostenere la crescita della produttività<br />
è l’investimento diretto da parte di compagnie dei paesi industrializzati.<br />
Gli investimenti stranieri diretti possono procurare<br />
al paese ricevente diversi benefici: investimenti per l’espansione<br />
della produzione, opportunità per migliorare le tecnologie ed<br />
incrementare la produttività, esposizione a innovazioni manageriali,<br />
accesso a potenziali mercati di esportazione attraverso i canali<br />
delle reti di investimento straniere, oltre a vari benefici collaterali<br />
che incrementano la competitività dei mercati. Siccome<br />
la tecnologia produttiva è ampiamente incorporata nell’investimento<br />
capitale (che potrebbe andare dai computer ai processi<br />
158
chimici a strumentazione tecnologicamente sofisticata), il processo<br />
di trasferimento tecnologico richiede che le compagnie<br />
estere costruiscano impianti e macchinari con l’uso di tecnologia<br />
che non appartiene al paese in via di sviluppo. L’investitore estero<br />
trae profitto anche dall’aumento del suo potenziale bacino di<br />
capitale umano e di risorse naturali. Questi benefici sono gli ingredienti<br />
che danno impeto alla crescita economica.<br />
Gli stessi fattori istituzionali che sono i prerequisiti per lo<br />
sviluppo economico sostenibile – leggi che proteggono proprietà<br />
e contratti, giusta ed efficiente amministrazione della giustizia,<br />
riduzione del ruolo del governo nell’economia, minimizzazione<br />
degli oneri regolatori e della corruzione, nonché apertura<br />
agli investimenti stranieri – sono fortemente associati all’efficienza<br />
<strong>energetica</strong> e a basse emissioni di gas a effetto serra per<br />
unità di output. Due dei firmatari dell’Asia & Pacific Partnership<br />
– la Cina e l’India – si caratterizzano per un consumo energetico<br />
e una quantità di emissioni per dollaro di output di gran<br />
lunga superiori a tutti gli altri firmatari, e sono indietro con la<br />
tecnologia. Hanno anche una posizione relativamente bassa nella<br />
classifica dell’indice di libertà economica 13, che misura quanto<br />
le istituzioni di un paese sostengano un’economia di mercato<br />
aperta e libera (Figura 19). Una grande parte della differenza<br />
nell’intensità <strong>energetica</strong> tra Cina, India e gli altri firmatari è attribuibile<br />
ad una struttura istituzionale che crea distorsioni di<br />
prezzi e a un clima sfavorevole agli investimenti.<br />
L’analisi di Montgomery e Tuladhar dimostra che almeno il<br />
40 per cento della differenza nell’intensità <strong>energetica</strong> è spiegabile<br />
dalla posizione di un paese nella scala della libertà economica.<br />
Quindi un paese che si stia sviluppando finisce per usare sempre<br />
meno energia per produrre un dollaro di output, se ha un’economia<br />
di mercato e un clima favorevole agli investimenti.<br />
13 In questa analisi si fa riferimento all’indice della libertà economica elaborato<br />
da Fraser Institute e Cato Institute, coerentemente col paper di Montgomery<br />
e Tuladhar (si veda nota precedente). In altre parti di questo paper, invece,<br />
si impiega l’indice di Heritage Foundation e Wall Street Journal. Sebbene<br />
i valori possano talvolta differire, dal punto di vista qualitativo il risultato è<br />
il medesimo.<br />
159
Figura 19. Intensità <strong>energetica</strong> e libertà economica (1980-2003). Fonte: Montgomery<br />
e Tuladhar 2006.<br />
Anche la tecnologia è critica in quanto le emissioni per dollaro<br />
di reddito sono di gran lunga superiori nei paesi in via di<br />
sviluppo rispetto agli Stati Uniti o ad altri paesi industrializzati.<br />
Ciò rappresenta sia una sfida che un’opportunità. È una sfida<br />
perché l’alta intensità carbonica – e il suo relativamente basso (o<br />
inesistente) miglioramento – è la ragione dell’elevato tasso di<br />
crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo.<br />
L’opportunità consiste nel fatto che le tecnologie energetiche<br />
dei paesi in via di sviluppo determinano emissioni per dollaro<br />
di output assai maggiori a quelle prodotte dalle tecnologie<br />
in uso negli Stati Uniti; in paesi come la Cina e l’India ciò vale<br />
sia per i nuovi investimenti che per la base installata (Figura<br />
20). La tecnologia della base installata in Cina produce emissioni<br />
ad un tasso quattro volte più alto che quella degli Stati<br />
Uniti. L’intensità di emissioni cinese sta migliorando rapidamente,<br />
ma ciò nonostante anche per i nuovi investimenti è doppia<br />
rispetto agli Stati Uniti. L’india non ha avuto quasi nessun<br />
miglioramento della sua intensità di emissioni, con una base installata<br />
e nuovi investimenti che hanno un’intensità di emissioni<br />
molto simile. I nuovi investimenti indiani hanno una tecno-<br />
160
Figura 20. Emissioni di gas a effetto serra associate agli investimenti nuovi e<br />
quelli esistenti nel 2001 (milioni di tonnellate di carbonio per miliardo di dollari<br />
di Pil al tasso di cambio di mercato). Fonte: Montgomery e Tuladhar 2006.<br />
logia con il doppio dell’intensità di emissioni dei nuovi investimenti<br />
negli Usa.<br />
La riduzione delle emissioni può essere ottenuta accorciando<br />
il gap tecnologico. Il potenziale dell’allineamento dell’intensità<br />
delle emissioni dei nuovi investimenti nei paesi in via di sviluppo<br />
a quella americana è comparabile o superiore a ciò che<br />
potrebbe essere ottenuto col protocollo di Kyoto (Tabella 4).<br />
Ciò offre opportunità nel breve termine grazie al cambio della<br />
natura degli investimenti attuali e all’accelerazione del ricambio<br />
dello stock capitale esistente. Inoltre, se ottenuta attraverso il<br />
trasferimento di tecnologie economicamente efficienti, è probabile<br />
che la riduzione di emissioni sia accompagnata da benefici<br />
economici generali per i paesi coinvolti.<br />
Nel primo esempio della Tabella 4 lo studio Cra ipotizza<br />
che i nuovi investimenti in Cina e in India si spostino immediatamente<br />
al livello di tecnologia impiegato negli Stati Uniti e calcola<br />
la risultante riduzione delle emissioni cumulative di carbonio<br />
fino al 2012 e al 2017. Questo è ciò che accadrebbe col trasferimento<br />
tecnologico. Nel secondo caso l’analisi del Cra ipotizza<br />
che le politiche per stimolare investimenti esteri diretti ac-<br />
161
Tabella 4. Riduzione cumulativa delle emissioni di gas serra ottenibili tramite<br />
il trasferimento di tecnologia e aumento degli investimenti. Fonte: Montgomery<br />
e Tuladhar 2006.<br />
celerino la sostituzione delle tecnologie oggi in funzione, causando<br />
risparmi ancora più significativi. Nel terzo caso l’ipotesi<br />
è che la nuova tecnologia continui a migliorare col tempo, come<br />
succederà se saranno implementate politiche per stimolare ricerca<br />
e sviluppo nel campo di tecnologie con minore intensità<br />
di emissioni. Anche la meno aggressiva di queste politiche ha il<br />
potenziale per la riduzione delle emissioni comparabile a quello<br />
che sarebbe possibile se tutti i paesi (inclusi gli Usa) arrivassero<br />
esattamente alla riduzione di emissioni stabilita dagli obiettivi<br />
del protocollo di Kyoto.<br />
Sebbene sia chiaro che c’è una relazione tra le istituzioni esistenti,<br />
la crescita economica e i gas a effetto serra, non esiste una<br />
formula generale che possa essere usata per identificare gli specifici<br />
fallimenti istituzionali che sono responsabili delle alte emissioni<br />
per unità di output in uno specifico paese. Le risposte a quattro<br />
domande chiave potrebbero fornire una base da cui la Partnership<br />
potrebbe dedurre l’agenda delle riforme istituzionali:<br />
• Come si possono identificare opportunità economicamente<br />
efficaci per migliorare l’efficienza <strong>energetica</strong> e per ridurre<br />
le emissioni di carbonio?<br />
162<br />
2012<br />
(Milioni di<br />
tonnellate<br />
di carbonio<br />
equivalente)<br />
2017<br />
(Milioni di<br />
tonnellate<br />
di carbonio<br />
equivalente)<br />
Adozione della tecnologia americana per i<br />
nuovi investimenti in India e Cina<br />
2600 5200<br />
Adozione della tecnologia americana con un<br />
tasso di ricambio accelerato in India e Cina<br />
4200 7700<br />
Adozione di una tecnologia in continuo miglioramento<br />
in Cina e India<br />
5000 9800<br />
Ue secondo il protocollo di Kyoto (senza<br />
hot air)<br />
600 1400<br />
Tutti i paesi Annex B (inclusi Usa e hot air) 2800 7300
• Che tipi di riforma istituzionale sono più urgenti in ogni<br />
paese?<br />
• Come si può determinare un cambiamento istituzionale?<br />
• Quanto grandi possono essere le potenziali riduzioni delle<br />
emissioni, e quanto possono essere migliorate le prospettive<br />
per la crescita economica con l’adozione delle corrette<br />
riforme istituzionali?<br />
È particolarmente difficile individuare strategie tali da consentire<br />
ad Australia, Giappone e Stati Uniti di rendere più probabili<br />
le necessarie riforme in paesi come Cina e India, perché<br />
tali riforme sono chiaramente prerogative di paesi sovrani. Però<br />
la Cina e l’India hanno un chiaro interesse a incoraggiare gli investimenti,<br />
a ottenere accesso al sistema finanziario mondiale e<br />
ad acquisire nuova tecnologia che possa sostenere miglioramento<br />
e crescita della produttività. Se è probabile che si verifichino<br />
delle riforme incrementali dove ne viene percepito il bisogno in<br />
misura più chiara, una importante missione della Asia & Pacific<br />
Partnership è proprio quello di rendere evidenti i benefici dei<br />
cambiamenti istituzionali nel settore energetico. Un ruolo analogo<br />
può giocare la Carta dell’Energia, come si vedrà in seguito.<br />
Inoltre, gli esperti, il settore privato e i governi devono tutti<br />
giocare ruoli chiave nella Partnership, se si vuole che essa abbia<br />
successo nell’indurre riforme istituzionali. Però è probabile<br />
che il settore privato sia il fattore cruciale. Le compagnie private<br />
saranno capaci di identificare le più importanti opportunità<br />
di trasferimento tecnologico e le riforme istituzionali necessarie<br />
per renderlo possibile. Il settore privato sarà anche, naturalmente,<br />
la fonte degli investimenti e delle tecnologie desiderate da Cina<br />
e India. È probabile che l’aspettativa di un più sostenuto flusso<br />
di investimenti e tecnologia sia il fattore singolarmente più<br />
importante nel rendere le riforme delle istituzioni maggiormente<br />
attraenti in questi paesi. Le imprese che sono o sono state attive<br />
in Cina e in India hanno l’esperienza più diretta su quali<br />
pratiche istituzionali, legali o di altra natura scoraggino investimenti<br />
e trasferimenti di tecnologia. L’identificazione dei problemi<br />
e delle proposte su ciò che costituirebbe un migliore clima<br />
per investimenti deve originare proprio da esse. Ciò sembra ovvio;<br />
ma quando un’iniziativa intergovernativa si sviluppa e di-<br />
163
spone di personale c’è una tendenza naturale all’autoreferenzialità<br />
all’interno del settore pubblico. La Partnership offre un’opportunità<br />
di scavalcare il consueto campo minato di comitati e<br />
di studi e di coinvolgere la comunità finanziaria internazionale<br />
direttamente nella diagnosi dei bisogni di riforme istituzionali.<br />
Potrebbe essere che il mondo del business debba proporsi per<br />
questo ruolo piuttosto che aspettare che ciò gli venga richiesto<br />
– se vogliamo ricordarci la storia di avventure passate e trarne<br />
degli insegnamenti per il futuro.<br />
Se le riforme istituzionali sono desiderabili, quantomeno gli<br />
attori chiave e gli stakeholders – come le imprese, altri gruppi<br />
che abbiano un’influenza sull’opinione pubblica e le politiche<br />
cinesi e indiane (comprese le amministrazioni locali e regionali)<br />
e i governi – devono trovare un accordo sulla natura e sulla portata<br />
dei problemi e sulle riforme necessarie per risolverli. Ci sono<br />
quattro stadi essenziali per procedere: (1) Definire il clima di<br />
investimenti e di opportunità per ridurre le emissioni di gas serra<br />
attraverso riforme istituzionali che inducano la crescita; (2)<br />
Sviluppare proposte specifiche di riforme istituzionali, assieme<br />
a stime dei loro possibili effetti in termini di riduzione delle<br />
emissioni; (3) Comprendere quali ostacoli impediscono i cambiamenti,<br />
specialmente per quel che riguarda l’ostilità alle riforme;<br />
e infine (4) Identificare le azioni concrete che ogni governo<br />
potrà intraprendere per riformare le istituzioni.<br />
Il progresso di tali quattro stadi può essere accelerato se i<br />
governi australiano, giapponese e americano prenderanno sul<br />
serio l’esigenza di approfondire le ricerche su questioni come<br />
quale sia il clima più favorevole agli investimenti, il livello tecnologico<br />
nei nuovi investimenti, il ruolo degli investimenti stranieri<br />
diretti e i potenziali risparmi energetici ottenibili attraverso<br />
il trasferimento tecnologico, nonché la natura e gli impatti<br />
delle distorsioni dei prezzi su offerta e domanda di energia e sulle<br />
emissioni di gas serra in India e Cina.<br />
Per avere successo i negoziati dovranno partire dalla disponibilità<br />
delle varie parti a mettere sul piatto una serie di cambiamenti<br />
istituzionali tali da produrre effetti misurabili e significativi<br />
sulle emissioni. Tali concessioni dovrebbero entrare in un<br />
accordo quadro relativo alle azioni richieste a tutte le parti, e a<br />
164
una forma di coordinamento per valutare i progressi e stabilire<br />
eventuali passi successivi. Questo sarebbe anche il luogo in cui<br />
sarebbe massimamente utile la commissione della Partnership<br />
su energia fossile pulita, energie rinnovabili, generazione e trasmissione<br />
di elettricità, acciaio, alluminio, cemento, estrazione<br />
di carbone e individuazione delle tecnologie e gli investimenti<br />
con le migliori potenzialità. Questi investimenti si trasformerebbero<br />
in un modo per premiare Cina e India per i progressi fatti<br />
nelle riforme istituzionali. La natura volontaria delle azione del<br />
settore privato nella Partnership sottolinea il bisogno, sul fronte<br />
delle riforme istituzionali, di traguardare questi investimenti<br />
potenziali.<br />
Tutto ciò può funzionare se si accetta l’evidenza secondo<br />
cui, per avere successo, le negoziazioni sul clima dovrebbero seguire<br />
un modello di “pledge and review”, piuttosto che quello di<br />
“targets and timetables” adottato nel processo di Kyoto. In questa<br />
maniera si potrebbe affrontare in modo più efficace l’incapacità<br />
di implementare obiettivi futuri entro un accordo tra nazioni<br />
sovrane, e si creerebbero incentivi a mantenere gli impegni<br />
presi grazie alla previsione di conseguenze credibili in caso<br />
di fallimento. Le successive azioni da parte di Australia, Giappone<br />
e Stati Uniti, gradite alla Cina e all’India, dovrebbero essere<br />
vincolate al successo nell’implementazione a breve scadenza<br />
delle riforme concordate durante il processo.<br />
I biocarburanti 14<br />
I biocarburanti sono rapidamente diventati uno dei pilastri<br />
della politica ambientale europea. Essi rientrano a pieno<br />
titolo nell’obiettivo, assunto nel documento della Commissione<br />
sulla strategia <strong>energetica</strong> europea a gennaio, di<br />
soddisfare almeno il 20 per cento del fabbisogno energetico<br />
primario dell’Unione con fonti rinnovabili entro il 2020.<br />
14 Questo box si basa su Carlo Stagnaro, “Biocarburanti: energia pulita<br />
o inefficienza agricola?”.<br />
165
Nella comunicazione al Parlamento europeo del 10 gennaio<br />
2007 a proposito dello “stato dell’arte” nel settore dei biocarburanti,<br />
la Commissione propone l’adozione di un obiettivo<br />
vincolante del 10 per cento entro il 2020. Alcuni ritengono<br />
che, dal punto di vista ambientale, i biocarburanti siano<br />
meno benefici di quando ci si possa attendere: restano<br />
aperti i problemi dello smaltimento dei rifiuti (liquami e solidi)<br />
derivanti dalla produzione di biocarburanti, delle emissioni<br />
di sostanze nocive in seguito alla loro combustione,<br />
dell’effettiva quantità di terreno necessaria a produrre una<br />
quantità sufficiente di biocarburanti, e dell’impatto sul mercato<br />
alimentare (in Europa e all’estero). Nonostante il fallimento<br />
degli obiettivi nazionali non vincolanti assunti in seguito<br />
a una direttiva europea del 2003, la produzione europea<br />
di biocarburanti è cresciuta del 65,7 per cento nel 2005.<br />
Ciò è coerente con l’aumento della domanda, l’aspettativa<br />
di attenzioni politiche da parte dell’Unione europea e l’elevato<br />
livello delle quotazioni del petrolio. La direttiva del<br />
2003 ha posto un obiettivo non vincolante del 5,75 per cento<br />
entro il 2010, e un target intermedio del 2 per cento nel<br />
2005. A tale scopo, veniva richiesto agli Stati membri di definire<br />
target nazionali non vincolanti (in realtà, in alcuni casi<br />
si sono adottati obiettivi vincolanti). Da allora, la quota di<br />
mercato dei biocarburanti è cresciuta dallo 0,5 per cento del<br />
2003 allo 0,7 del 2004, fino all’1 per cento nel 2005. In tutto,<br />
l’Unione Europea ha prodotto, nel 2005, 3,9 milioni di<br />
tonnellate di biocarburanti, l’81,5 per cento dei quali biodiesel<br />
15. Anche se sono venti i paesi europei produttori di<br />
biocarburanti, oltre metà del biodiesel proviene dalla Germania,<br />
mentre per quel che riguarda l’etanolo tre soli paesi<br />
(Spagna, Svezia e Germania) producono quasi il 70 per cento<br />
dell’intero contingente europeo; se si aggiunge la Francia,<br />
si supera l’80 per cento. L’Italia ha un’importante produzione<br />
di biodiesel, mentre Polonia ed Estonia hanno una signi-<br />
15 “Biofuels Barometer”, http://www.energies-renouvelables.org/observ-er/stat_baro/observ/baro173b.pdf.<br />
166
ficativa presenza nell’etanolo. La leadership tedesca può essere<br />
spiegata, secondo la Commissione europea, “da una legislazione<br />
molto favorevole che consente una totale esenzione<br />
fiscale per i biocarburanti, sia puri sia miscelati ai combustibili<br />
fossili” 16. Dal punto di vista economico, per la<br />
Commissione, “con un prezzo del petrolio di 48 dollari al<br />
barile... i costi aggiuntivi diretti per raggiungere una quota<br />
di mercato del 14 per cento per i biocarburanti (rispetto ai<br />
costi dei carburanti tradizionali) sono stimati a 11,5-17,2 miliardi<br />
di euro nel 2020, Con un prezzo del petrolio di 70 dollari<br />
al barile, scenderebbero a 5,2-11,4 miliardi di euro” 17.<br />
In realtà, il break even di biodiesel e bioetanolo prodotti in<br />
Europa si colloca su prezzi del petrolio, rispettivamente, di<br />
60 e 90 dollari al barile. Il bioetanolo importato dal Brasile<br />
potrebbe rendere lo sforzo meno oneroso (e garantirebbe<br />
una superiore riduzione delle emissioni, attorno al 90 per<br />
cento). Purtroppo le importazioni di etanolo sono soggette<br />
a un dazio del 45 per cento. Questo dato proietta un’ombra<br />
sulla coerenza delle politiche europee, e sulla capacità dell’Ue<br />
di bilanciare l’efficienza economica con la forza politica<br />
della lobby agricola.<br />
5.2.2. Una prospettiva più ampia<br />
Per vincere la sfida del cambiamento climatico, quindi, è<br />
opportuno prendere in considerazione strumenti alternativi al<br />
protocollo di Kyoto. Quest’ultimo, infatti, ha il problema di non<br />
rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, escludere il mondo in via di<br />
sviluppo, e presentare costi notevoli. In merito all’aspetto dei<br />
costi, l’International Council for Capital Formation ha effettuato<br />
una stima dell’impatto economico di Kyoto sui alcuni grandi<br />
paesi europei, trovando risultanti allarmanti che sembrano confermare<br />
le previsioni più pessimistiche 18. Per quel che riguarda<br />
16 http://ec.europa.eu/energy/res/sectors/bioenergy_eno.htm<br />
17 COMMISSIONE EUROPEA, “Biofuels progress report”, p. 9.<br />
18 http://www.iccfglobal.org/pdf/Country-reports-overview.pdf.<br />
167
l’Italia, per esempio, raggiungere gli obiettivi del protocollo potrebbe<br />
significare, nel periodo 2008-12, una riduzione del Pil di<br />
oltre il 2 per cento, con la conseguente distruzione di più di duecentomila<br />
posti di lavoro e aumenti sensibili dei prezzi di gas,<br />
elettricità e combustibili per autotrazione 19. Ciò potrebbe generare<br />
effetti inintenzionali negativi. Il commissario europeo all’Industria<br />
Günther Verheugen ha riconosciuto che “la nostra<br />
leadership in campo ambientale potrebbe significativamente minare<br />
la competitività internazionale di una parte dei settori industriali<br />
energivori europei e peggiorare la performance ambientale<br />
globale attraverso la delocalizzazione della produzione in<br />
parti del globo con standard ambientali più bassi” 20. Anche<br />
Lord Lawson è convinto che, se si dovesse perseguire con maggior<br />
convinzione la via di Kyoto, “nel momento in cui i prezzi<br />
dell’energia in Europa iniziassero ad aumentare, con la prospettiva<br />
di ulteriori aumenti in seguito, le produzioni e i processi ad<br />
alta intensità d’energia chiuderebbero progressivamente in Europa<br />
e si sposterebbero in paesi come la Cina” 21, col risultato<br />
che le conseguenze ambientali del protocollo potrebbero essere<br />
addirittura negative. Questo non significa che sia sbagliato<br />
preoccuparsi dell’ambiente o che il conflitto tra le ragioni dell’ecologia<br />
e dell’economia sia insanabile: implica solo un’attenta<br />
valutazione degli effetti complessivi delle regolamentazioni<br />
che si intende adottare. Si potrebbe obiettare che nessuna spesa<br />
è troppo grande se sull’altro piatto della bilancia c’è nientemeno<br />
che la salvezza del mondo. Ma se, come abbiamo visto, il<br />
beneficio di Kyoto rischia di essere nullo, la logica si rovescia.<br />
Nessuna spesa è abbastanza piccola se l’altro piatto della bilancia<br />
è vuoto.<br />
Tale calcolo dei costi e dei benefici è particolarmente importante<br />
se si guarda, laicamente, alle prospettive dei paesi in via<br />
19 IBL-ICCF, “Il protocollo di Kyoto e oltre. I costi economici per l’Italia”.<br />
20 ANDREW BOUNDS, “Green laws may harm Europe’s economy”, Financial<br />
Times, 23 novembre 2006.<br />
21 NIGEL LAWSON, “L’economia e la politica del cambiamento climatico.<br />
Un appello alla ragione”, p. 7.<br />
168
di sviluppo. Per molti di essi, la lotta ai cambiamenti climatici<br />
può significare la condanna a restare in una condizione di povertà<br />
<strong>energetica</strong>. È dunque irresolubile il conflitto tra aumento<br />
della domanda di energia – cioè legittima aspirazione dei poveri<br />
del mondo a raggiungere il tenore di vita dei paesi industrializzati<br />
– ed efficace reazione al riscaldamento globale? Parte della<br />
risposta, che fortunatamente è negativa, sta in quello che si è<br />
già detto: poiché saranno proprio i paesi emergenti a produrre<br />
il grosso delle emissioni nei prossimi decenni, politiche di trasferimento<br />
tecnologico e stimoli allo sviluppo possono fare la<br />
differenza. La rimozione delle barriere agli investimenti stranieri,<br />
e quindi le liberalizzazioni e il rifiuto di strumenti protezionistici,<br />
fanno bene al clima tanto quanto alla competitività economica<br />
e alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
C’è anche un’altra ragione per cui sviluppo e integrazione<br />
economica possono costituire un importante passo avanti, anche<br />
dal punto di vista del rapporto tra l’uomo e l’ambiente.<br />
Una premessa è che i problemi collegati al mutamento del clima<br />
– dalla maggiore diffusione della malaria 22 a un aumento<br />
dell’incidenza di fame e sete – generalmente non sono causati,<br />
ma esacerbati dall’aumento delle temperature. Cioè, se la situazione<br />
attuale si prolungasse indefinitamente, i cambiamenti<br />
climatici non creerebbero problemi nuovi, ma aggraverebbero<br />
le conseguenze di problemi esistenti, soprattutto nei paesi<br />
in via di sviluppo. Indur Goklany ha valutato gli effetti, in questa<br />
prospettiva, di diversi scenari di mitigazione del cambiamento<br />
climatico, mostrando che sarebbero piuttosto limitati,<br />
anche se il costo della riduzione delle emissioni di gas a effetto<br />
serra potrebbe essere assai elevato: per esempio, se il protocollo<br />
di Kyoto venisse rispettato la popolazione globale a rischio<br />
di malaria, nel 2085, diminuirebbe di appena lo 0,2 per<br />
cento, mentre le riduzioni della fame e della sete nel mondo sarebbero,<br />
rispettivamente, dell’1,5 per cento e del 2,4 per cen-<br />
22 Il tema della malaria e delle malattie tropicali è particolarmente controverso.<br />
Si veda PAUL REITER, “Could global warming bring mosquito-borne<br />
disease to Europe?”, in KENDRA OKONSKI (a cura di), Adapt or Die. The science,<br />
politics and economics of climate change, pp. 19-38.<br />
169
to 23. Nel valutare le diverse opzioni, bisogna inoltre considerare<br />
che gli impatti del riscaldamento globale non sono non sarebbero<br />
uniformemente distribuiti sulla faccia del pianeta, ma<br />
addirittura in alcuni casi potrebbero essere positivi – aumentando<br />
la fertilità dei raccolti 24, rendendo più miti le temperature<br />
e dunque riducendo la mortalità per freddo 25, eccetera.<br />
Quindi gli sforzi di mitigazione potrebbero paradossalmente<br />
danneggiare alcune popolazioni.<br />
La strategia più efficiente, allora, parrebbe essere una in<br />
grado di catturare i benefici del riscaldamento globale riducendone<br />
i costi; in altri termini, l’obiettivo non dovrebbe essere la<br />
minimizzazione dei costi del global warming (a prescindere dai<br />
benefici che così vengono persi e dai costi delle misure di mitigazione)<br />
ma l’ottimizzazione degli impatti del, e delle reazioni al,<br />
riscaldamento globale stesso. Per Goklany, “vi sono svariate misure<br />
che possono aiutare le diverse società ad affrontare la scarsità<br />
attuale e futura di acqua, a prescindere da quale ne sia la<br />
causa. Tra di esse vanno menzionate quelle riforme istituzionali<br />
miranti a far sì che l’acqua venga considerata alla stregua di un<br />
qualsiasi altro bene economico, in modo da permettere una<br />
maggiore libertà di stabilirne il prezzo e garantire il rispetto dei<br />
diritti di proprietà trasferibili sulle risorse idriche. A ciò dovrebbe<br />
accompagnarsi un aumento delle attività di ricerca e sviluppo<br />
di colture nuove o migliorate e di tecniche agricole in grado<br />
di aumentare l’efficienza dell’uso dell’acqua. Se si considera che<br />
l’agricoltura assorbe l’85 per cento del consumo globale di risorse<br />
idriche, nel complesso tali misure potrebbero rendere disponibili<br />
ingenti quantità d’acqua da destinare al consumo dome-<br />
23 INDUR M. GOKLANY, “Clima: Stabilizzazione o adattamento?”, in particolare<br />
Tabella 1, p. 2.<br />
24 Si vedano per esempio LEANNE M. JABLONSKI, XIANZHONG WANG e<br />
PETER S. CURTIS, “Plant reproduction under elevated CO 2 conditions: a metaanalysis<br />
of reports on 79 crop and wild species”; WOLFRAM SCHLENKER, W.<br />
MICHAEL HANEMANN e ANTHONY C. FISHER, “The Impact of Global Warming<br />
on US Agriculture: An Econometric Analysis of Optimal Growing Conditions”.<br />
25 IPCC, Climate Change 2001: Impacts, Adaptation, and Vulnerability,<br />
§9.4.2.<br />
170
stico e industriale e da lasciare ‘a riposo’, permettendo la conservazione<br />
delle specie acquatiche e di destinare i corsi d’acqua<br />
ad attività ricreative. Si noti che, così come la trasformazione degli<br />
habitat terrestri rappresenta la principale minaccia alla biodiversità<br />
sulla terraferma, l’impiego delle risorse idriche per il<br />
consumo umano costituisce la minaccia primaria per la biodiversità<br />
delle specie d’acqua dolce. Le misure qui tratteggiate<br />
contribuirebbero inoltre ad eliminare quello che in futuro potrebbe<br />
risultare il maggiore ostacolo al soddisfacimento delle<br />
esigenze alimentari dell’umanità, vale a dire proprio la scarsità<br />
delle risorse idriche. Per finire, esiste un solo pericolo per il quale<br />
la riduzione delle emissioni potrebbe esibire un rapporto costo-efficacia<br />
migliore rispetto all’adattamento al mutare delle<br />
condizioni: l’allagamento delle regioni costiere. Per il 2085 un innalzamento<br />
non mitigato delle temperature globali (che innalzerebbe<br />
il livello del mare di 0,4 metri) contribuirebbe all’86 per<br />
cento della popolazione a rischio (Par) complessiva. La stabilizzazione<br />
delle emissioni a 550 ppm entro il 2085 ridurrebbe la<br />
Par complessiva ben dell’80 per cento, ad un costo complessivo<br />
di migliaia di miliardi di dollari. Tuttavia il costo complessivo di<br />
una protezione da un innalzamento del livello delle acqua di 0,5<br />
metri nel 2100 è stato stimato a circa 1 miliardo di dollari all’anno.<br />
Pertanto una riduzione significativa delle emissioni non solo<br />
costerebbe di più, ma di qui al 2085 offrirebbe una minore<br />
protezione rispetto all’adattamento” 26.<br />
La tesi di Goklany è, in breve, che l’adattamento sia preferibile<br />
alla mitigazione – come regola generale. Le ragioni sono<br />
molteplici:<br />
• C’è in primo luogo una questione di flessibilità. La mitigazione<br />
implica dei provvedimenti qui e ora, il cui costo è (per<br />
la maggior parte) immediato e pesa interamente sulla generazione<br />
presente e su quei paesi che sono in grado di fronteggiare<br />
un importante sforzo di razionamento delle emissioni.<br />
A priori, dunque, sulla mitigazione grava la doppia<br />
26 INDUR M. GOKLANY, “Clima: Stabilizzazione o adattamento?”, p. 5.<br />
Dello stesso autore si veda The Improving State of the World: Why We’re Living<br />
Longer, Healthier, More Comfortable Lives on a Cleaner Planet.<br />
171
spada di Damocle dell’incertezza sulle reali cause del riscaldamento<br />
globale (che potrebbe essere largamente o del tutto<br />
causato da ragioni naturali, e quindi al di là del controllo<br />
umano) e sugli effetti delle politiche di mitigazione (che<br />
potrebbero non essere quelle appropriate, o potrebbero generare<br />
un risultato deludente rispetto alla spesa e alle aspettative)<br />
27. Per contro, le misure di adattamento, quasi per definizione,<br />
sono maggiormente ritagliate sugli effetti concreti<br />
del riscaldamento globale, man mano che essi si manifestano;<br />
• C’è poi una questione di trasparenza. La mitigazione richiede<br />
l’instaurazione di complessi procedimenti burocratici e<br />
postula una governance globale che non tutti gli attori sembrano<br />
disposti ad accettare;<br />
• C’è infine una questione di reversibilità. L’adattamento non<br />
ha, ovviamente, questa esigenza (in generale): se il livello<br />
dei mari cresce meno di quanto ci si attendesse, per esempio,<br />
semplicemente non si procederà alla realizzazione di<br />
nuove opere difensive. Nella peggiore delle ipotesi ci si troverà<br />
con delle opere difensive sovradimensionate, che – si<br />
potrebbe affermare – sono di per sé una misura precauzionale.<br />
La mitigazione, viceversa, soprattutto quando prende<br />
la forma di strutture burocratiche complesse come il mercato<br />
delle quote di emissione, implica l’erezione di una<br />
complessa infrastruttura politica che potrebbe essere assai<br />
difficile riformare o rimuovere, anche se si rivelasse inefficace<br />
o inutile 28.<br />
27 Da questo punto di vista, una delle più paradossali caratteristiche del<br />
dibattito in corso è l’attenzione riservata quasi unicamente all’anidride carbonica,<br />
mentre gli altri gas a effetto serra sono spesso trascurati. Tuttavia, secondo<br />
alcuni studiosi potrebbe essere maggiormente efficace una strategia di<br />
controllo degli altri gas, se implementata a livello globale; tale strategia sarebbe<br />
anche forse politicamente più sostenibile perché le quantità dei gas non-CO2 sono inferiori e quindi più facilmente controllabili. Si veda JOHN REILLY, MAR-<br />
CUS SAROFIM, SERGEY PALTSEV e RONALD PRINN, “The Role of Non-CO2 GHGs in Climate Policy: Analysis Using the MIT IGSM”.<br />
28 Per un’analisi del complesso rapporto tra politica, scienza, economia e<br />
gruppi di pressione, si vedano BRUCE YANDLE e STUART BUCK, “Bootleggers,<br />
172
Restano due obiezioni. La prima riguarda i tempi: si potrebbe<br />
osservare che, se è vero che da qui al 2085 l’adattamento è<br />
più efficiente della mitigazione, prima o poi il riscaldamento<br />
globale (se non verrà fermato in tempo) genererà tanti e tali danni<br />
da costringerci a correre ai ripari. Quindi, è molto meglio agire<br />
subito che trovarsi a tamponare le falle lasciate aperte dalla<br />
nostra mancanza di attenzione con provvedimenti d’urgenza. Vi<br />
sono molti modi di rispondere. In primo luogo, per paradossale<br />
che ciò possa apparire, il protocollo di Kyoto e altre politiche<br />
simili hanno proprio le caratteristiche dei provvedimenti di<br />
emergenza, e quindi sarebbe forse opportuno riconsiderarli con<br />
maggiore attenzione e meno fretta. Secondariamente, il periodo<br />
di tempo che ci separa dal 2085 (ma anche dal 2050) è, tecnologicamente<br />
parlando, un’era geologica: noi non sappiamo quali<br />
tecnologie saranno allora disponibile, ma sappiamo con certezza<br />
che saranno incredibilmente più avanzate di quelle esistenti<br />
oggi. Agire subito, dunque, equivale a precludersi la possibilità<br />
di agire più incisivamente nel futuro. Terzo, quello che sarà il<br />
mondo tra 50 anni e più dipende da una quantità di fattori incredibilmente<br />
alta – dai tassi di crescita economica al ritmo a cui<br />
la popolazione mondiale aumenterà (o no) – e quindi può essere<br />
prematuro prendere oggi decisioni sulla base non già di proiezioni,<br />
ma di scenari che, per quanto accurati, sono fortemente<br />
dipendenti dalle ipotesi di partenza (né può essere altrimenti).<br />
Infine, assumendo che si debba perseguire una stabilizzazione<br />
delle concentrazioni atmosferiche di CO 2 entro il 2100, non è<br />
detto – o almeno dovrebbe essere dimostrato – che un percorso<br />
più graduale che inizi da subito, con le tecnologie e i capitali<br />
umani e finanziari di oggi, sia meno costoso di un percorso più<br />
Baptists and the global warming battle”, in KENDRA OKONSKI (a cura di), Adapt<br />
or Die, pp. 173-190; BRUCE YANDLE, “The precautionary principle as a force<br />
for global political centralization: a case-study of the Kyoto Protocol”, in JU-<br />
LIAN MORRIS (a cura di), Rethinking Risk and the Precautionary Principle; RO-<br />
GER A. PIELKE, JR., Scienza e politica. La lotta per il consenso; TODD J. ZYWICKI,<br />
“Industry and Environmental Lobbyists: Enemies or Allies?”, in ROGER E.<br />
MEINERS eANDREW P. MORRISS, The Common Law and the Environment.<br />
Rethinking the Statutory Basis for Modern Environmental Law, pp. 185-210.<br />
173
ipido da avviare tra due o più decenni, con le tecnologie e i capitali<br />
umani e finanziari del futuro.<br />
La seconda obiezione riguarda invece il rapporto tra adattamento<br />
e mitigazione. Qualcuno fa notare che non necessariamente<br />
l’uno esclude l’altra: quindi, sarebbe logicamente scorretto<br />
porli in alternativa, mentre le due strategie andrebbero perseguite<br />
simultaneamente. Si tratta di un’obiezione intelligente<br />
ma fragile. Le risorse, nel breve termine, sono scarse: ogni euro<br />
speso nelle attività di mitigazione è sottratto a tutte le altre attività,<br />
comprese quelle di adattamento (anche se si può discutere<br />
se, al margine, l’euro della mitigazione venga meno proprio all’adattamento)<br />
29. In ogni caso, è ovvio come le politiche del clima<br />
non possano stimolare la crescita economica, in quanto drenano<br />
risorse all’economia di mercato reindirizzandole verso usi<br />
non-economici (altrimenti sarebbero stati premiati dal mercato<br />
stesso). Riducendo la crescita economica rispetto al tendenziale<br />
– non importa in quale parte del mondo: a causa del relativo impoverimento<br />
di una regione, visto che ormai i mercati dei capitali<br />
sono globali, equivale all’impoverimento di tutto il pianeta<br />
– le misure di mitigazione finiscono per privare le generazioni<br />
future, oltre che quelle presenti, di risorse capitali, e quindi della<br />
capacità di affrontare i problemi e di possibilità di investire in<br />
innovazione.<br />
Se tutto ciò è vero, allora risulta rafforzata la tesi secondo<br />
cui gli sforzi di mitigazione, per come si sono delineati finora, rischiano<br />
di influire negativamente sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Un<br />
mondo più ricco è intrinsecamente un mondo più sicuro <strong>energetica</strong>mente.<br />
E sebbene una minore crescita economica possa<br />
implicare una minore domanda di energia, o un rallentamento<br />
della crescita della domanda, le tecniche produttive sono di peggiore<br />
qualità e in ultima analisi la grave questione della povertà<br />
<strong>energetica</strong> non sarebbe risolta, con ripercussioni negative sui<br />
rapporti che legano i diversi popoli, sulle prospettive di integra-<br />
29 Si veda INDUR M. GOKLANY, “Il cambiamento climatico: il più urgente<br />
problema ambientale del XXI secolo o la proverbiale goccia che fa traboccare<br />
il vaso?”, in KENDRA OKONSKI e CARLO STAGNARO (a cura di), Dall’effetto<br />
serra alla pianificazione economica, pp. 15-41.<br />
174
zione e – se si guarda ai paesi produttori e consumatori di risorse<br />
energetiche – la riduzione delle probabilità che la conflittualità<br />
e la chiusura reciproca dei mercati sfoci in una pienamente<br />
accettata interdipendenza.<br />
5.3. La politica estera<br />
La terza leva con cui i paesi consumatori di risorse possono<br />
aumentare o ridurre la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> ha a che fare con le<br />
scelte di politica estera, e quindi le alleanze internazionali ma<br />
anche il bilanciamento tra le tensioni – per così dire – idealistiche<br />
e l’attenta e cauta valutazione delle possibili conseguenze<br />
economiche, tanto nel paese consumatore quando in quello produttore,<br />
di prese di posizione troppo rigide o interpretabili come<br />
mosse di chiusura.<br />
Ciò ha un impatto diretto anche sulla politiche climatiche.<br />
Se infatti si incrocia la riflessione su Kyoto con uno sguardo alla<br />
carta geografica, allora si noteranno alcune questioni tutt’altro<br />
che secondarie. Sull’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, il<br />
principale divoratore di energia del mondo, sono impegnati in<br />
una campagna militare dispendiosa dal punto di vista politico,<br />
economico e umano, per esportare la democrazia in un paese<br />
del Medio Oriente, l’Iraq (terzo al mondo per quantità di riserve<br />
provate di petrolio (circa 115 miliardi di barili) 30. Contemporaneamente,<br />
gli Stati Uniti sono impegnati nel contenimento<br />
e nella distruzione (ove possibile) di Al Qaeda, mentre il<br />
network del terrore continua la sua guerra asimmetrica e ha preso<br />
di mira le infrastrutture dell’energia, oleodotti, gasdotti, pozzi<br />
di petrolio, piattaforme galleggianti. Gli episodi si stanno<br />
moltiplicando ed è ormai chiaro che l’oro nero non solo è caro<br />
ma è anche sempre più insicuro. È un target della jihad, è una<br />
risorsa localizzata in aree instabili, non democratiche, in Paesi<br />
che sono nel miglior caso regimi e nel peggiore dei veri e propri<br />
“Stati canaglia”.<br />
30 http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/Iraq/Oil.html<br />
175
Chi pensa che l’in<strong>sicurezza</strong> sia frutto solo del terrorismo e<br />
dell’instabilità Mediorientale si sbaglia. Le conseguenze dell’uragano<br />
Katrina nel Golfo del Messico, per gli Stati Uniti sono<br />
diventati una lezione da mandare a memoria: non per il legame<br />
degli uragani conl’effetto serra (che è semplicemente indimostrabile)<br />
31, ma per le ripercussioni sull’economia americana. Il<br />
Golfo del Messico infatti è uno dei principali punti di scambio<br />
e raffinazione di petrolio e molti lettori ricorderanno l’effetto<br />
domino nei mesi scorsi sul mercato del barile. A questo si aggiungono<br />
le tensioni in Sudamerica e in particolare il fenomeno<br />
Hugo Chàvez, il presidente del Venezuela che pratica una politica<br />
antiamericana ed è seduto su un mare di petrolio (e dollari)<br />
che gli consentonouna politica di riarmo e di pressione diplomatica<br />
su tutta l’area geopolitica. Chàvez persegue una strategia<br />
di nazionalizzazione delle risorse minerarie, del gas e del petrolio.<br />
“Via socialista” imitata prontamente dal nuovo presidente<br />
del Bolivia, Evo Morales, e destinata a diventare un problema<br />
regionale con effetti globali.<br />
Di fronte a questa serie di eventi, in cui il filo rosso è quello<br />
dell’instabilità e dell’in<strong>sicurezza</strong>, l’amministrazione Bush ha<br />
cercato una risposta in un nuovo piano energetico per il paese.<br />
L’8 agosto del 2005 il Presidente degli Stati Uniti ha firmato<br />
una nuova legge per l’energia che punta a migliorare l’efficienza<br />
<strong>energetica</strong> domestica (offrendo sgravi fiscali ai consumatori),<br />
ridurre il consumo energetico del governo federale,<br />
modernizzare l’infrastruttura <strong>energetica</strong> nazionale, diversificare<br />
l’approvvigionamento energetico nazionale con fonti alternative<br />
(in primis nucleare) e promuovere una nuova generazione<br />
di veicoli ad elevata efficienza <strong>energetica</strong>. Si tratta di una risposta<br />
pragmatica che punta all’efficienza e al risparmio, al<br />
quale si aggiunge il potenziamento del programma nucleare civile<br />
che mira a ridurre la dipendenza americana dalle importazioni<br />
di petrolio arabo nei prossimi anni. Il ragionamento che<br />
sta dietro queste scelte è il seguente: meno dipendenza più <strong>sicurezza</strong>.<br />
Gli Stati Uniti infatti non sono un “impero in decli-<br />
31 ROGER A. PIELKE, CHRIS LANDSEA, MAX MAYFIELD, JIM LAVER e<br />
RICHARD PASCH, “Hurricanes and Global Warming”.<br />
176
no”, ma continueranno a guidare la crescita mondiale insieme<br />
alla Cina 32.<br />
Evocando l’impero celeste, lo sguardo si posa sull’emisfero<br />
orientale della nostra carta geografica. Qui l’area è interessata da<br />
fenomeni che spingono verso Est, rimbalzano verso Ovest, si<br />
proiettano verso Sud-Est. La Cina sta vivendo la sua rivoluzione<br />
industriale ed è il più grande inquinatore della terra. Cina che<br />
non aderisce a Kyoto. I tassi di crescita cinesi sono elevatissimi,<br />
ancora per il 2006 il Fondo monetario internazionale prevede<br />
un +8,2 per cento e continua ad essere il più elevato della emerging<br />
Asia. Gli altri due giganti che nell’area continueranno a crescere<br />
sono il Giappone e l’India. Sono due eccezioni importanti,<br />
in cui il paese del Sol Levante conferma la sua ripresa (con<br />
l’aspettativa di un tasso di crescita del 2 per cento per quest’anno)<br />
e il subcontinente indiano emerge sempre più nel ruolo di<br />
global player con un tasso di crescita, secondo solo a quello cinese,<br />
del 6,3 per cento.<br />
Guardacaso, le economie che sostengono la crescita mondiale<br />
Cina, India e Giappone si sono ritrovate nel vertice della<br />
Asia & Pacific Partnership on Clean Development and Climate.<br />
Cina e India sono anche tra i più grandi divoratori di petrolio.<br />
I cinesi hanno stretto un importante accordo con l’Arabia<br />
Saudita, gli indiani si stanno muovendo anch’essi con accordi<br />
bilaterali. La globalizzazione del mercato dell’energia sembra<br />
essere completamente ignorata dal protocollo di Kyoto. La tabella<br />
di marcia per rispettare i parametri non tiene conto di un<br />
mondo in rapidissima evoluzione. La domanda di gas e petrolio<br />
di un gigante come la Cina, mette in moto un effetto domino di<br />
alleanze strategiche con al centro della scena il Medio Oriente,<br />
sotto molti aspetti “l’area del mondo più disconnessa dall’economia<br />
globale” 33.<br />
L’iniziativa è orientata agli stessi obiettivi fissati dal G8 – rimuovere<br />
le barriere allo sviluppo e all’adozione di tecnologie<br />
pulite, favorire una collaborazione tra paesi industrializzati e in<br />
via di sviluppo, elaborare una strategia di lungo termine per af-<br />
32 IMF, World Economic Outlook - Building Institutions.<br />
33 THOMAS P. M. BARNETT, The Pentagon’s New Map, p. 216.<br />
177
frontare i mutamenti climatici. Inoltre, a differenza di Kyoto<br />
(che impegna 34 nazioni, molte delle quali piccole, su un sentiero<br />
inefficace), la Partnership ha dalla sua la forza dei numeri. Gli<br />
Stati che ne fanno parte rappresentano quasi il 65 per cento del<br />
Pil mondiale, il 45 per cento della popolazione, il 51 per cento<br />
del consumo energetico e il 49 per cento delle emissioni di gas<br />
climalteranti.<br />
I critici hanno attaccato la Partnership sottolineandone in<br />
particolare il presunto carattere “anti-Kyoto” e le difficoltà di<br />
enforcement. Per esempio, il presidente di Legambiente Roberto<br />
Della Seta ha definito l’accordo di Sidney “un contenitore<br />
vuoto” il cui unico obiettivo “è lo sviluppo di nuove tecnologie<br />
per poter continuare a sfruttare l’energia delle fonti fossili senza<br />
far nessun taglio e nessuna riconversione e puntare anzi sul<br />
potenziamento del nucleare in quanto tecnologia pulita” 34.<br />
Greenpeace ha sfidato il “patto del carbone” (così lo ha definito<br />
Catherine Fitzpatrick, responsabile della campagna sulle<br />
energie pulite per l’organizzazione ecologista) a “provare come<br />
perseguirete le riduzioni di emissioni” 35.<br />
La natura delle accuse dimostra come da un lato viga una<br />
politica dei due pesi e due misure, dall’altro vi sia una profonda<br />
confusione riguardo a quella che dev’essere la ragione sociale<br />
delle politiche climatiche. Non si può, infatti, giudicare la Partnership<br />
dell’Asia e del Pacifico con un metro tarato sul pessimismo<br />
(condannando l’assenza di un meccanismo di enforcement)<br />
mentre dei meccanismi di enforcement di Kyoto si finge di non<br />
vedere l’inefficacia. L’iniziativa di Sidney non ha bisogno, per il<br />
modo in cui è concepita, di un vero e proprio sistema di sanzioni,<br />
in quanto non definisce obiettivi di breve termine: la scommessa<br />
sta nella creazione di incentivi virtuosi. Viceversa, il protocollo<br />
di Kyoto è un elenco di target e tabelle di marcia che, a<br />
dispetto dell’apparente inflessibilità della loro applicazione,<br />
vengono sistematicamente disattesi. D’altro canto, la via battu-<br />
34 “Legambiente contro l’anti-Kyoto”, Vita.it, 12 gennaio 2006,<br />
http://www.vita.it/articolo/index.php3?NEWSID=63809.<br />
35 “Greenpeace to ‘Coal Pact’: Prove how you’ll reduce”, Scoop, 12 gennaio<br />
2006, http://www.scoop. co.nz/stories/WO0601/S00113.htm.<br />
178
ta dagli ecologisti radicali non conduce molto lontano: non si<br />
cambia il paradigma energetico in un battito di ciglia. I miglioramenti<br />
in termini di efficienza nell’uso dei combustibili fossili<br />
o di abbattimento degli inquinanti non solo rappresentano la via<br />
più promettente per accompagnare lo sviluppo dei paesi poveri,<br />
ma sono l’unica incarnazione possibile di un principio spesso<br />
invocato dagli ambientalisti, quello del risparmio energetico.<br />
Il risparmio, d’altronde, ha senso se viene perseguito in termini<br />
di “cost-effectiveness” e a parità di output: al contrario, l’idea che<br />
sia doveroso consumare meno energia a prescindere dai costi e<br />
dalle dimensioni delle rinunce che vengono richieste rischia<br />
d’innescare una spirale suicida che sacrifica il tenore di vita di<br />
un’intera società nel nome di un inesistente eden climatico. Banalizzando,<br />
il risparmio merita attenzione se implica un risparmio,<br />
non una rinuncia.<br />
Da questo punto di vista le politiche americane si sono rivelate,<br />
semplicemente, più efficaci: tra il 1997 (anno in cui il protocollo<br />
venne concordato a Kyoto) e il 2003, l’intensità <strong>energetica</strong><br />
USA è diminuita del 12,20 per cento, quella dell’Ue15 di appena<br />
il 7,60 per cento. È il verdetto dei fatti a giocare a favore di un<br />
approccio volontaristico. Un’indagine condotta da David Montgomery<br />
e Roger Bate ha dimostrato una forte correlazione tra libertà<br />
economica e riduzione dei consumi energetici per unità di<br />
Pil: secondo gli autori, “le imperfezioni del mercato nei paesi in<br />
via di sviluppo spiegano perché usino tanta energia ed emettano<br />
tanto carbonio per dollaro di output. Se questo è vero, allora gli<br />
sforzi cooperativi per rimuovere queste imperfezioni del mercato<br />
e migliorare la libertà economica possono essere anche misure<br />
assai efficaci nella riduzione delle emissioni di gas serra” 36.<br />
Sfortunatamente, Kyoto – traducendosi di fatto in una complessa<br />
combinazione di inasprimenti fiscali, ipertrofia regolatoria e,<br />
36 W. DAVID MONTGOMERY e ROGER BATE, “Cutting Global Greenhouse<br />
Gas Emissions by Exporting Technological Solutions to Developing Countries”,<br />
in ANDREI ILLARIONOV e MARGO M. THORNING (a cura di), Climate<br />
Change Policy And Economic Growth: A Way Forward to Ensure Both, p. 137.<br />
Si veda anche, degli stessi autori, “A (mostly) Painless Path Forward: Reducing<br />
Greenhouse Gases Through Economic Freedom”, Ivi, pp. 140-151.<br />
179
in ultima analisi, pianificazione centrale di produzione e consumi<br />
energetici – rischia proprio di andare a detrimento della libertà<br />
economica e quindi, nel nome di una piccola e illusoria riduzione<br />
immediata delle emissioni, di cancellare le condizioni<br />
per uno sviluppo più radicale, profondo e duraturo. In fondo, un<br />
altro modo per guardare alla Partnership dell’Asia-Pacifico è vedervi<br />
ciò che avrebbe potuto essere perseguito, ma non è stato<br />
fatto, se a metà anni ’90 la comunità internazionale non si fosse<br />
incamminata sulla strada di Kyoto. Rispetto a questa evoluzione,<br />
esattamente come all’appuntamento con la politica <strong>energetica</strong><br />
comune, l’Europa rischia di trovarsi impreparata.<br />
Il senso del ritardo è particolarmente evidente se si considera<br />
che, da un lato, gli Stati Uniti guidano una coalizione di<br />
paesi impegnati in uno sforzo globale di rafforzamento della <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> che presti attenzione al tema della sostenibilità<br />
ambientale. Dall’altro, l’Europa ha scelto di affrontare la<br />
questione climatica in termini spesso ideologici, concentrandosi<br />
su soluzioni preconfezionate che rischiano, invece, di danneggiare<br />
la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Obiettivi come quello di produrre<br />
il 25 per cento dell’energia da fonti rinnovabili (in assenza di significativa<br />
balzi tecnologici) sono difficilmente realizzabili e forse<br />
neppure desiderabili: le fonti cosiddette alternative, allo stato<br />
attuale delle conoscenze tecnologiche e agli attuali prezzi del<br />
petrolio, sono economicamente poco competitive (e quindi rischiano<br />
di allargare lo svantaggio competitivo delle imprese europee)<br />
e difficilmente incasellabili in un’ottica di <strong>sicurezza</strong>. Fonti<br />
come l’eolica e la solare dipendono da vincoli esterni non controllabili<br />
né prevedibili dall’uomo, come la quantità di illuminazione<br />
solare o di vento, e variabili con elevata frequenza. Questo<br />
rende difficile un loro impiego a fronte di una domanda che<br />
presenta regolarità e ciclicità.<br />
Naturalmente, la politica internazionale ha un impatto più<br />
vasto, sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, della sua semplice interazione<br />
con le politiche ambientali.<br />
180
6.<br />
<strong>Politica</strong> estera e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
La dimensione internazionale della politica <strong>energetica</strong> dipende<br />
da almeno due fattori. Il primo riguarda la natura globale<br />
dei mercati dell’energia (in senso lato), che si manifesta<br />
anche quando essi hanno estensione regionale. La crescente<br />
interconnessione – economica, commerciale ed <strong>energetica</strong> –<br />
dei paesi rafforza questa caratteristica: due nazioni possono<br />
scambiare materie prime, prodotti raffinati o elettricità, e in<br />
molti casi questi mercati si sovrappongono o competono tra di<br />
loro. Un fenomeno attualmente in atto, per esempio, è quello<br />
che vede protagoniste le Nocs nel tentativo di migliorare la loro<br />
capacità di raffinazione, non solo per servire il loro mercato<br />
nazionale ma anche nel tentativo di cercare una proiezione<br />
globale.<br />
Infatti, le raffinerie occidentali – soggette come sono a<br />
standard ambientali sempre più stringenti – sono vincolate a<br />
utilizzare greggi di ottima qualità, e quindi contribuiscono a<br />
spingere in alto il prezzo dei benchmark. Ciò non accade per<br />
molti paesi produttori, che possono quindi scommettere sulla<br />
raffinazione dei greggi pesanti o ad alto tenore di zolfo (che<br />
avrebbero poco mercato nei paesi industrializzati) per poi<br />
esportare prodotti finiti. Per esempio, la compagnia di Stato<br />
saudita Aramco vende sui mercati internazionali circa 2 milioni<br />
di barili al giorno di prodotti raffinati contro 8 milioni di barili<br />
di greggio, a dimostrazione del fatto che quello della raffinazione<br />
sta divenendo un business molto importante. L’Iran ha<br />
previsto, tra il 2005 e il 2015, investimenti nel settore per oltre<br />
17 miliardi di dollari (di cui 12 di provenienza straniera) per<br />
181
portare la sua capacità di raffinazione da 1,47 a 2,5 milioni di<br />
barili al giorno 1.<br />
Il secondo fattore di intersezione tra politica estera e politica<br />
<strong>energetica</strong> deriva dall’impossibilità pratica dell’autosufficienza<br />
<strong>energetica</strong>. A prescindere dai costi di una politica di indipendenza<br />
(da cui, beninteso, non si può prescindere) è la natura stessa<br />
della domanda a imporre forme di apertura ai mercati globali.<br />
Forse uno fra i paesi produttori potrebbe perseguire tale obiettivo<br />
(ed è significativo che neppure essi, in genere, lo facciano). Un<br />
paese come l’Italia (e del resto l’Europa stessa), però, dispone di<br />
risorse modeste: puntare all’autosufficienza imporrebbe un radicale<br />
ripensamento degli attuali meccanismi produttivi nell’ottica<br />
di una drastica riduzione dei consumi. Se il paese ha un tasso di<br />
dipendenza dall’estero superiore all’80 per cento, è segno che se<br />
dovessimo produrre tutta l’energia che consumiamo (ammesso<br />
che ciò sia possibile), l’80 per cento di essa costerebbe di più.<br />
La sensibilità per questo aspetto è ormai evidente ai più, come<br />
dimostra la crescente attenzione che gli organismi e i meeting<br />
internazionali riservano all’energia o a questioni a essa collegate:<br />
per citare solo due esempi, delle ultime tre riunioni del G8, quella<br />
di Heiligendamm nel 2007 ha dedicato grande attenzione alle<br />
sfide <strong>energetica</strong> e climatica come richiesto dalla padrona di casa<br />
Angela Merkel, quella di Sanpietroburgo nel 2006 è stata consacrata<br />
da Vladimir Putin alla questione della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>,<br />
mentre quella di Gleneagles nel 2005 ha dedicato ampia attenzione<br />
al problema delle politiche climatiche, per volere di Tony Blair.<br />
D’altronde, la crescita della domanda di energia è un fatto globale,<br />
e l’aumento o la riduzione dei consumi in un paese impatta necessariamente<br />
tutto il sistema mondiale. In uno scenario sempre<br />
più globalizzato, l’energia mostra tutte le opportunità e tutti i rischi<br />
dell’integrazione economica: e riassume sotto un unico ombrello<br />
problematiche assai diverse come la contraddizione tra l’estensione<br />
di un mercato globale e il rafforzamento di imprese nazionali,<br />
la tensione tra apertura degli scambi e protezione dei<br />
campioni nazionali, il rapporto ambiguo tra produttori e consumatori<br />
di risorse e di prodotti finiti. Su questo aleggia la doman-<br />
1 VALÉRIE MARCEL, Oil Titans, pp. 186-187.<br />
182
da fondamentale: cos’è l’energia? O, meglio, cosa sono le risorse<br />
energetiche, petrolio e gas in primis? Sono commodities come le<br />
altre? Sono risorse strategiche? È ragionevole affidarle al mercato?<br />
Oppure occorrono forme di controllo e programmazione, ai<br />
vari livelli? Infine, quale rapporto sussiste tra i mercati energetici<br />
– mercati, come si è visto, ambigui e imprevedibili, globali ma<br />
ad alto tasso di interventismo pubblico, liberi a livello mondiale<br />
ma fortemente regolati nei cantucci nazionali – le linee guida della<br />
politica estera dei vari paesi o blocchi (su tutti, l’Unione Europea)<br />
e le negoziazioni per l’abbattimento delle barriere al commercio?<br />
Nel caso dell’energia, insomma, vale la pena battere una<br />
via multilaterale oppure forme di trattati bilaterali possono meglio<br />
garantire contro il rischio di shock o controshock?<br />
Questa dimensione impone una riflessione su almeno tre<br />
ordini di problemi: i rapporti con le compagnie di Stato dei paesi<br />
produttori, il rapporto coi paesi produttori stessi, e il carattere<br />
europeo della questione <strong>energetica</strong>. Su quest’ultimo punto si<br />
innesta la questione dei difficili rapporti dell’Ue con un fornitore<br />
strategico come la Russia.<br />
6.1. Rapporti con le compagnie di Stato<br />
L’affermazione più banale che si possa fare a proposito dei<br />
rapporti tra le compagnie occidentali e quelle dei paesi produttori<br />
è che dovrebbero essere i migliori possibili. Nonostante tutte<br />
le loro difficoltà a reperire capitali e raggiungere elevati standard<br />
di efficienza (dovute anche ai loro obblighi nei confronti<br />
dei rispettivi governi) le Nocs hanno in mano la larga maggioranza<br />
delle riserve note di petrolio e gas (Figura 21).<br />
Nella pratica, questo significa soprattutto che sarebbe opportuno,<br />
da parte dei paesi consumatori di risorse, non adottare<br />
politiche di chiusura nei confronti dei tentativi di internazionalizzazione<br />
delle compagnie di Stato. Come si è visto, queste<br />
dinamiche – figlie essenzialmente delle incredibili masse finanziarie<br />
che stanno affluendo nelle casse delle Nocs – rappresentano<br />
una sfida ma anche una grande opportunità. Se infatti da<br />
un lato esse possono oggettivamente rafforzare dei monopoli,<br />
183
Figura 21. Proprietà delle riserve mondiali di petrolio e gas (miliardi di barili<br />
di petrolio equivalenti, 1994). Fonte: PFC Energy.<br />
dall’altro la partita dei mercati internazionali impone l’adozione<br />
di criteri sempre più economici e sempre meno politici, così<br />
come richiede modelli di governance relativamente più trasparenti<br />
e comportamenti più leali. Una condotta sleale, che<br />
può essere opportunisticamente vantaggiosa per una compagnia<br />
che abbia come unico scopo quello di estrarre la massima<br />
rendita dalla sua posizione monopolistica, può al contrario essere<br />
dannosa per la sua libertà di movimento su altri mercati. È<br />
significativo, per esempio, che un paese come la Russia – che<br />
ha fatto, almeno a partire dal 2003, una precisa scelta di gestione<br />
nazionalistica delle risorse e ha adottato atteggiamenti talvolta<br />
ostili nei confronti delle imprese occidentali – al tempo<br />
stesso cerchi di guardare all’esempio della compagnia saudita<br />
Aramco, considerata relativamente efficiente nella produzione<br />
e sicuramente leale nei confronti dei partner. L’amministratore<br />
delegato di Gazprom, il monopolista russo del gas che sta perseguendo<br />
una strategia di integrazione nel petrolio anche attraverso<br />
la cooperazione col gruppo privato Lukoil, ha chiaramente<br />
espresso l’intenzione di voler imitare le grandi multinazionali<br />
straniere 2.<br />
2 FABRIZIO DRAGOSEI, “Alleanza Gazprom-Lukoil, Mosca pensa al modello<br />
Aramco”, Il Corriere della Sera, 19 novembre 2006.<br />
184
Molti sembrano ritenere che vi sia un sostanziale elemento<br />
di criticità nel concedere a compagnie come Gazprom l’accesso<br />
ai mercati occidentali, perché esse potrebbero perseguire politiche<br />
di integrazione verticale e sfruttare la loro copertura dell’intera<br />
filiera dell’energia. Tuttavia, il comportamento di Gazprom<br />
(e di altre aziende simili) va letto anche sotto un’altra prospettiva.<br />
Prima che i paesi europei intraprendessero la via delle liberalizzazioni,<br />
seppure in maniera talvolta ambigua e con non poche<br />
retromarce, l’esistenza di un monopolio a valle rappresentava,<br />
paradossalmente, una garanzia per i monopolisti a monte, che<br />
dovevano confrontarsi con entità a loro analoghe. Come ha rilevato<br />
Pippo Ranci, “Gazprom si affaccia sui mercati europei di<br />
consumo. Il vecchio regime vedeva Gazprom e gli altri produttori<br />
primari (come l’algerina Sonatrach) confinati al ruolo di fornitori<br />
dei monopolisti locali europei, garantiti nel prezzo e nella<br />
quantità. Ora la liberalizzazione fa scomparire le garanzie e apre<br />
i mercati alla penetrazione di nuovi operatori: i fornitori primari<br />
hanno tutto l’interesse a diventare anche operatori commerciali e<br />
appropriarsi di una parte del margine commerciale” 3. Il punto è<br />
che comunque una compagnia straniera, per quanto forte, non<br />
può operare in un paese diverso dal suo senza assimilarne le regole;<br />
e in ogni caso resterebbe soggetta alle pressioni del governo<br />
e delle autorità competenti. Paradossalmente, una maggiore<br />
penetrazione nei mercati di valle potrebbe favorire o accelerare<br />
l’evoluzione delle compagnie di Stato, ponendole nella direttrice<br />
di un ingresso a pieno titolo sui mercati internazionali e accrescendo<br />
il desiderio del management di sganciarsi dall’influenza<br />
politica del governo. In altri termini, maggiori sono i punti di contatto<br />
delle Nocs con le realtà globali, e maggiori sono anche le<br />
(benefiche) tensioni che all’interno di esse possono svilupparsi.<br />
Resta un problema serio, nel rapporto con le Nocs: esso non<br />
si riduce nella cooperazione e competizione tra imprese nazionali<br />
e compagnie internazionali; ha una diretta ricaduta politica.<br />
Per quanto una Noc possa essere indipendente, muoversi secondo<br />
linee economiche, eccetera, essa resterà sempre un’emanazio-<br />
3 PIPPO RANCI, “I gasdotti italiani in mani russe? Non solo rischi”, Il Sole<br />
24 Ore, 15 settembre 2005.<br />
185
ne del suo governo, o una realtà particolarmente sensibile agli input<br />
politici. Aprire la porta a un’entità di questo genere rappresenta<br />
un problema? Molti sembrano pensarla così, e qualcuno si<br />
è addirittura spinto a invocare forme di chiusura più o meno accentuate<br />
verso imprese pubbliche straniere. Del resto, in Italia fino<br />
a poco tempo fa una grande impresa elettrica straniera, pubblica,<br />
vedeva menomati i suoi diritti a godere di diritti di voto<br />
proporzionali alla sua partecipazione a una grande impresa elettrica<br />
italiana. Questa vicenda si è sanata, ma la domanda sottesa<br />
è: se abbiamo accettato un provvedimento del genere contro una<br />
compagnia europea, perché non dovremmo, a maggior ragione,<br />
porci il problema nel caso di aziende provenienti da paesi esterni<br />
all’Unione Europea, talvolta con scarsa credibilità democratica<br />
e con un rispetto della rule of law non sempre cristallino? È<br />
difficile, o impossibile, dare una risposta univoca. Si può però osservare<br />
una norma generale: chiedersi se l’ingresso della compagnia<br />
straniera danneggi o no la libertà di mercato nel paese ospite,<br />
e quali conseguenze potrebbe avere una luce rossa sul mercato<br />
del paese produttore. Nel primo caso, vale la pena sottolineare<br />
che le infrastrutture essenziali vengono gestite secondo regolamentazioni<br />
e norme che generalmente sono imposte dal governo<br />
e delle autorità di settore del paese consumatore, quindi la<br />
Noc è tenuta ad accettarle. Secondariamente, come si è visto nel<br />
caso di Cnooc / Unocal, un atteggiamento protezionistico potrebbe<br />
addirittura ridurre la tensione a internazionalizzarsi del<br />
paese straniero, inducendo indirettamente proprio quel problema<br />
che si voleva evitare – e cioè rafforzando l’asse tra governo e<br />
compagnia di Stato. Inoltre, come ha notato Enrico Colombatto,<br />
“la resistenza che un soggetto straniero può opporre alla liberalizzazione<br />
è inferiore, e quindi il suo arrivo può contribuire a<br />
creare condizioni favorevoli” nel paese consumatore 4. Parimenti,<br />
l’esperienza con un contesto liberalizzato può promuoverne le<br />
ragioni oltre la frontiera, attraverso il ruolo inevitabilmente politico<br />
del management della Noc. Il vero discrimine può collocarsi<br />
su un altro livello: quello delle relazioni tra i paesi.<br />
4 CARLO STAGNARO, “Quando l’opa è (para)statale, la mano invisibile del<br />
mercato non basta”, Il Foglio, 29 settembre 2005.<br />
186
6.2. Rapporti coi paesi produttori<br />
Il rapporto tra imprese – anche in quella dimensione del<br />
tutto particolare che riguarda l’ingresso di un’impresa nazionale<br />
di un paese produttore sul mercato di valle di un paese consumatore<br />
– si colloca su uno sfondo più generale che è quello<br />
delle relazioni internazionali. In quest’ottica, esattamente come<br />
si è detto all’inizio del paragrafo precedente, la condizione idealmente<br />
migliore è quella in cui vigono “buoni rapporti” tra i paesi<br />
produttori e consumatori. Cosa significa buoni rapporti? Anzitutto,<br />
evidentemente, rapporti pacifici: gli scambi tra paesi in<br />
guerra non sono impossibili ma sono difficili e costosi. Secondariamente,<br />
i rapporti tra paesi dovrebbero essere stabili: due<br />
paesi oggi alleati dovrebbero cercare di mantenere la loro alleanza<br />
e sforzarsi di superare eventuali, inevitabili difficoltà.<br />
Questo implica uno sforzo di reciproca comprensione da parte<br />
delle classi politiche dei due paesi, ma anche – all’interno del<br />
singolo paese – un analogo sforzo da parte dei diversi schieramenti<br />
che competono per ottenere la maggioranza parlamentare<br />
o il controllo del governo di concordare linee comuni che necessariamente<br />
si proiettano nel lungo termine. Tale esigenza dipende<br />
dalla natura ad alta intensità di capitale dell’industria dell’energia:<br />
costruire un gasdotto o firmare un contratto di lungo<br />
termine richiede la ragionevole aspettativa che i due (o più, considerando<br />
anche i diritti di transito) paesi interessati non ingaggeranno<br />
una guerra commerciale. A posteriori, una guerra commerciale<br />
riduce la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> perché fa venir meno la<br />
disponibilità di approvvigionamenti, o ne aumenta il costo per<br />
ragioni estranee alla dialettica economica. A priori, il rischio di<br />
guerre commerciali, o la poca fiducia nei confronti delle classi<br />
politiche, disincentiva gli investimenti, mantenendo stretta l’offerta<br />
di energia nel paese consumatore o riducendo l’apporto di<br />
capitali stranieri nell’upstream del paese produttore, e anche<br />
questo ha un effetto negativo sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> perché<br />
riduce i “cuscinetti” produttivi o di importazione.<br />
Al tempo stesso, è buona regola cercare “buoni rapporti”<br />
con tutti, in maniera da non trovarsi a dipendere eccessivamente<br />
da uno solo o pochi fornitori – un rischio che è intrinseco nella<br />
187
natura capital intensive delle forniture di gas, in maniera particolare,<br />
e che quindi sarebbe opportuno non esacerbare per ragioni<br />
meramente politiche. “Buoni rapporti”, nel campo delle relazioni<br />
internazionali, non significa solo pacche sulle spalle: implica<br />
anche la consapevole ricerca del comune interesse. Come scrive<br />
Sergio Garribba, “la <strong>sicurezza</strong> dell’approvvigionamento di petrolio<br />
e di gas naturale è favorita da un clima di rapporti tra paesi che<br />
consentano alle imprese, con il contributo delle istituzioni finanziarie,<br />
di realizzare i grandi progetti che sono necessari per rendere<br />
disponibili, a condizioni di costo accettabili, le risorse energetiche<br />
occorrenti. È sempre più chiara l’interdipendenza tra<br />
paesi produttori di materie prime energetiche e paesi consumatori.<br />
Anche i primi devono diversificare le proprie economie per<br />
non dipendere solo dalle loro esportazioni di petrolio o di materie<br />
prime energetiche. La diversificazione delle economie dei<br />
paesi produttori può avvenire con il contributo dei paesi consumatori”<br />
5. Da questo punto di vista, i paesi consumatori potrebbero<br />
puntare a ottenere il fine della <strong>sicurezza</strong> attraverso la promozione<br />
di politiche di mercato nel paese fornitore e attraverso<br />
la valorizzazione di accordi bi- o multi-laterali di libero scambio.<br />
In particolare, tali accordi dovrebbero riguardare tre punti.<br />
Il primo punto riguarda direttamente l’interesse del paese<br />
consumatore alla <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti e ha a che<br />
vedere con tutte quelle pressioni politiche che il governo può<br />
esercitare sull’esecutivo del paese produttore affinché i contratti<br />
e i patti con le imprese operanti a valle siano minuziosamente<br />
rispettati. Questo non implica una tutela delle imprese nazionali,<br />
quanto piuttosto la richiesta di garanzie a favore di tutte quelle<br />
imprese – nazionali o straniere – che concorrono al soddisfacimento<br />
dei fabbisogni energetici. Se, per esempio, una parte significativa<br />
della richiesta italiana di petrolio e gas viene soddisfatta<br />
da imprese multinazionali, è nell’interesse degli italiani<br />
che queste imprese possano operare in un regime di relativa<br />
tranquillità nei paesi produttori: se per qualunque ragione un<br />
contratto di fornitura dovesse interrompersi ingiustificatamen-<br />
5 SERGIO GARRIBBA, “Per una nuova politica <strong>energetica</strong> nazionale”, I<br />
Quaderni, no.8, agosto 2006, p. 97.<br />
188
te, a esserne danneggiata non sarebbero solo l’impresa vittima e<br />
i suoi azionisti, ma anche tutti coloro che ne acquistano i prodotti.<br />
Questo è particolarmente vero in un settore, come quello<br />
energetico, nel quale il cambiamento impone sempre una decisione<br />
assai complicata: per un fornitore è difficile e costoso cambiare<br />
clienti, perché un gasdotto non può essere facilmente deviato<br />
verso altri lidi. Proprio la rigidità implicita nel mercato del<br />
gas impone relazioni amichevoli tra i paesi che scambiano risorse<br />
naturali. Per stare a un caso spesso citato, l’Europa (e l’Italia<br />
in particolare) ha un forte grado di dipendenza dalla Russia (e<br />
dall’Algeria). Di per sé questa non è una situazione raccomandabile,<br />
ma si tratta pure di una realtà che non può essere ignorata.<br />
Coma ha rilevato Borut Grgic “la Russia resterà centrale rispetto<br />
alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> europea, specialmente in quanto<br />
le capacità produttive di petrolio e gas del continente stanno<br />
diminuendo. L’obiettivo quindi dovrebbe essere gestire meglio<br />
la dipendenza dal gas russo”, non sganciarsi da essa. Pertanto,<br />
“una delle priorità europee dovrebbe essere di convincere il<br />
presidente Putin a spendere di più sull’esplorazione e lo sviluppo<br />
dei giacimenti di gas in Russia. La condizione di sottoinvestimenti<br />
di Gazprom in questo settore rischia di trasformare la<br />
Russia in un fornitore inaffidabile, non solo per ragioni politiche<br />
ma anche tecniche” 6.<br />
Ciò conduce al secondo punto su cui la politica estera potrebbe<br />
essere funzionale alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Se molti paesi<br />
produttori soffrono di carenza di investimenti, mentre in molti<br />
paesi consumatori ci sono capitali e imprese pronti a investirli,<br />
è compito dei governi di questi ultimi spianare la strada alle<br />
imprese non firmando accordi in loro nome – il governo non è<br />
l’ufficio commerciale di una compagnia – ma cercando di ottenere<br />
rispetto della rule of law, dei contratti, eccetera. Guardando<br />
ancora più avanti, i paesi consumatori hanno tutto l’interesse<br />
di promuovere, nell’ambito degli accordi bi- e multi-laterali<br />
coi paesi produttori, politiche di maggiore apertura nell’upstream,<br />
e idealmente politiche di privatizzazione delle risorse<br />
6 BORUT GRGIC, “Addicted to Russian Gas”, The Wall Street Journal, 19<br />
ottobre 2006.<br />
189
naturali. In questa maniera si potrebbe incoraggiare un uso efficiente<br />
delle risorse, e fornire ai produttori un orizzonte temporale<br />
assai lungo nel quale pianificare i loro investimenti 7. La privatizzazione<br />
delle risorse è utile in due sensi: in primo luogo, garantendo<br />
allo scopritore diritti di uso esclusivo sui giacimenti che<br />
egli ha trovato, si crea un incentivo a sfruttare le risorse in maniera<br />
sostenibile, e a investire in modo tale da garantire i flussi futuri.<br />
Quindi, si tenderà ad adottare tecnologie tali da non rovinare<br />
il giacimento. In secondo luogo, l’incentivo a cercare giacimenti<br />
è più forte perché lo scopritore, anche casuale, sa di poterne<br />
trarre vantaggio. A questo scopo può essere utile confrontare<br />
la situazione di due paesi come gli Stati Uniti e l’Argentina: nel<br />
primo caso, chi scopra petrolio o gas su un suo terreno è felice;<br />
in Argentina, no. Perché? Perché negli Usa il proprietario del<br />
terreno potrà trarre vantaggio dalla ricchezza del sottosuolo, in<br />
Argentina molto probabilmente subirà una perdita di valore e<br />
dovrà accettare regolamentazioni ad hoc e l’ingresso di soggetti<br />
terzi, senza averne alcun beneficio. Come racconta Guillermo<br />
Yeatts, “la proprietà pubblica del sottosuolo genera un disincentivo<br />
per il proprietario del terreno in superficie”. Spesso la compensazione<br />
per i danni arrecati dalle attività estrattive non è neppure<br />
adeguata. Quindi i proprietari talvolta tendono a tenere segreti<br />
i loro eventuali sospetti sull’esistenza di riserve nel sottosuolo.<br />
Al contrario, se venisse loro riconosciuto qualche diritto sulle<br />
ricchezze sottostanti, “analizzerebbero la relativa profittabilità<br />
delle destinazioni d’uso (agricola o industriale) della superficie<br />
rispetto a quella dello sfruttamento minerario... Il ‘motivo del<br />
profitto’ li spingerà a scegliere l’alternativa più conveniente, generando<br />
maggiore benessere per la società attraverso dell’assegnazione<br />
delle risorse all’uso più efficiente” 8. Sebbene le proba-<br />
7 Si veda ROBERT L. BRADLEY JR., “Derechos privados sobre el subsuelo<br />
para el bien pùblico: experiencia de los Estados Unidos respecto del petròleo<br />
y el gas”, in AA.VV., Propiedad del subsuelo y privatizaciòn en América Latina.<br />
Il capitolo è disponibile online all’indirizzo http://instituteforenergyresearch.<br />
org/spanish_book.pdf.<br />
8 GUILLERMO YEATTS, Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization<br />
in Argentina, p. 71.<br />
190
ilità di una privatizzazione del sottosuolo non siano molto alte<br />
nella maggior parte dei paesi produttori, la prospettiva resta valida<br />
e resta ragionevole, dal punto di vista dei paesi consumatori,<br />
promuovere un’evoluzione in tale direzione, per esempio cercando<br />
di ottenere libertà di accesso per le compagnie internazionali<br />
nell’upstream dei paesi produttori.<br />
Perché le compagnie internazionali entrino sul mercato di<br />
monte non basta che i loro diritti a sfruttare i giacimenti che esse<br />
trovano siano protetti. Occorre una generale revisione del<br />
contesto istituzionale che garantisca la rule of law, la libertà di<br />
contratto e d’intrapresa, la possibilità di competere con altre imprese<br />
internazionali e, se esistenti, con le imprese nazionali<br />
(pubbliche e no). In altre parole, sarebbe opportuno che i paesi<br />
consumatori cercassero, anche attraverso iniziative congiunte<br />
e nelle sedi più opportune, di promuovere processi di liberalizzazione<br />
sui mercati a monte. Alla vigilia del G8 di San Pietroburgo,<br />
che era consacrato ai temi della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, il<br />
giornalista dell’Economist Vijay Vaitheeswaran ha scritto che, se<br />
la riunione doveva produrre fatti concreti, avrebbe dovuto<br />
“concentrarsi sulla liberalizzazione dei mercati. Le pie grida della<br />
Russia di essere un fornitore di gas affidabile sarebbero più<br />
credibili se Putin la smettesse di colpire gli investimenti privati<br />
nell’energia e aprisse la rete di pipelines del paese. La Commissione<br />
Europea deve prendere di petto quegli Stati membri che<br />
impediscono la liberalizzazione dell’energia (specialmente<br />
Francia e Spagna, che hanno avuto atteggiamenti recalcitranti di<br />
recente). E solo se l’America abbandona l’eccessiva burocratizzazione<br />
delle procedure per aprire un terminale Gnl al paese<br />
sarà garantita un’offerta crescente di questo combustibile pulito<br />
e abbondante” 9. Anche da questo punto di vista, una politica<br />
estera orientata a chiedere liberalizzazioni (che peraltro sarebbero<br />
nell’interesse degli stessi cittadini del paese produttore,<br />
perché garantirebbero una maggior facilità nell’agganciare il<br />
treno dello sviluppo) è tanto più credibile quanto più è coerente<br />
con politiche energetiche ed economiche adottate interna-<br />
9 VIJAY V. VAITHEESWARAN, “Abominable Gasman?”, The Wall Street<br />
Journal, 30 marzo 2006.<br />
191
mente al paese consumatore. Un paese protezionista non ha una<br />
grande forza contrattuale, politica o morale nel chiedere l’apertura<br />
dei mercati stranieri, perché dà la sensazione di puntare solo<br />
alla tutela dei suoi interessi particolari. Ancora peggio, dà la<br />
sensazione di non credere che un mercato liberalizzato sia intrinsecamente<br />
più efficiente o funzionale, e quindi si espone alla<br />
più scontata delle critiche: “se tu non lo fai nella convinzione<br />
che sia nocivo per la tua economia o perché la ragion politica è<br />
superiore agli eventuali guadagni in termini di efficienza economica,<br />
come puoi pretendere che lo faccia io che oltre tutto ho<br />
un sistema economico più fragile?”. La domanda è destinata a<br />
restare senza risposta. Quel che è peggio è che, idealmente, una<br />
liberalizzazione lungo tutta la filiera dei combustibili fossili<br />
avrebbe enormi vantaggi sul funzionamento dei mercati, sulla<br />
<strong>sicurezza</strong>, e sulla competizione tra le diverse fonti. Quindi la difesa<br />
protezionistica dei mercati di valle, pur non essendone la<br />
causa, contribuisce a rafforzare i sostenitori del protezionismo e<br />
della statalizzazione nei paesi produttori, e in questa maniera ha<br />
un effetto sui mercati globali.<br />
6.3. Il ruolo dell’Unione Europea<br />
Se questo è lo scenario, l’Unione Europea può giocare un<br />
duplice, fondamentale ruolo nella produzione di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
Tale ruolo è esplicitamente riconosciuto in un numero di<br />
atti o dichiarazioni ufficiali, compreso il Libro verde sulla <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Sono in particolare due i modi in cui l’Ue può<br />
essere un attore fondamentale nella ricerca di <strong>sicurezza</strong>: attraverso<br />
il coordinamento delle politiche nazionali e la promozione<br />
della loro integrazione; e attraverso la formazione di una<br />
“coalizione di consumatori” che sappia esercitare sui paesi produttori<br />
i generi di pressione descritti sopra, con la consapevolezza<br />
di parlare a nome di uno dei mercati più vasti del mondo<br />
(in termini di consumi).<br />
Intervistato dal Corriere della Sera in merito al più recente<br />
accordo tra Eni e Gazprom sul prolungamento dei contratti di<br />
lungo termine e altre forme di cooperazione, l’ex presidente<br />
192
dell’Autorità per l’energia Pippo Ranci ha evidenziato due linee<br />
di fondo che l’Unione Europea potrebbe seguire per rafforzare<br />
la <strong>sicurezza</strong> interna: “indipendenza delle reti e trasparenza<br />
delle transazioni commerciali”. Perché tali politiche – a cui<br />
si aggiunge, come corollario indispensabile, la spinta verso un<br />
maggior livello d’interconnessione tra i mercati energetici nazionali<br />
– siano perseguite non serve, secondo Ranci, un’autorità<br />
dell’energia unica a livello europeo: “il problema non è di figure,<br />
è di poteri... Sono convinto che si debba far sentire la forza<br />
dell’Europa, ma per questo non c’è bisogno di uno ‘zar dell’energia’.<br />
Il sistema c’è, si può potenziare, basta far lavorare di<br />
più le strutture che già ci sono” 10. Che questa debba essere la<br />
direzione sta scritto anche nel libro verde della Commissione<br />
Europea: “nel luglio 2007, con pochissime eccezioni, ogni consumatore<br />
europeo avrà il diritto di acquistare elettricità e gas<br />
da ogni fornitore europeo. Questo offre una grande opportunità<br />
all’Europa. Ma anche se molto è stato fatto per creare un<br />
mercato competitivo, il lavoro non è finito. Molti mercati restano<br />
largamente nazionali e dominati da poche compagnie. Restano<br />
molte differenze tra gli approcci degli Stati membri all’apertura<br />
del mercato, impedendo lo sviluppo di un mercato europeo<br />
autenticamente competitivo – compresi i poteri dei regolatori,<br />
i livelli di indipendenza dei gestori delle reti dalle attività<br />
competitive, le regole di rete, i regimi di bilancio e di stoccaggio<br />
del gas” 11. Se infatti il mercato è garanzia di <strong>sicurezza</strong> – nel<br />
senso che una cornice di mercato consente di dare un valore alla<br />
<strong>sicurezza</strong>, e garantisce la possibilità di effettuare in maniera<br />
decentralizzata la scelta nel trade off tra prezzo e <strong>sicurezza</strong> – allora<br />
gli effetti benefici sono tanto più visibili quanto più è esteso<br />
il mercato stesso. Idealmente, quindi, l’Europa dovrebbe<br />
perseguire un’integrazione non solo del mercato interno, ma<br />
anche coi mercati esterni, siano essi confinanti oppure no, sulla<br />
base che, stante una situazione di interdipendenza, il mag-<br />
10 GABRIELE DOSSENA, “Ranci: la Gazprom fuori dal controllo dei gasdotti”,<br />
Il Corriere della Sera, 18 novembre 2006.<br />
11 COMMISSIONE EUROPEA, “A European Strategy for Sustainable, Competitive<br />
and Secure Energy”, pp. 5-6.<br />
193
gior numero di legami economici rende meno probabile o più<br />
costosa (o più facilmente riparabile) l’emergere di minacce alla<br />
<strong>sicurezza</strong>. Quel che è essenziale, ancora una volta, è la regola<br />
della diversificazione: per riprendere la citazione di Winston<br />
Churchill riportata all’inizio di questo paper, la <strong>sicurezza</strong> sta<br />
nella varietà. La varietà stessa ha un costo, ma è probabile che<br />
un sistema di mercato sappia far emergere un numero di competitori<br />
sufficientemente ampio da garantire indirettamente la<br />
necessaria varietà.<br />
Sia a livello nazionale, sia europeo la politica <strong>energetica</strong> ed<br />
estera si intersecano pure su un altro piano: quello della <strong>sicurezza</strong><br />
nazionale. Poiché dalla disponibilità di energia affidabile<br />
dipende l’intero sistema economico di un paese, alcuni sostengono<br />
che la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> abbia i caratteri del bene pubblico<br />
e che quindi qualche forma di intervento pubblico – come<br />
regolamentazioni orientata a favorire la diversificazione delle<br />
fonti oppure forme di programmazione – sia necessaria. Tale<br />
tesi è spesso gettonata anche a livello europeo. Vale la pena,<br />
però, osservare che, per quel che riguarda le politiche pubbliche<br />
di diversificazione, esse per loro natura sono inefficienti in<br />
quanto inevitabilmente devono favorire alcune fonti di energia<br />
a scapito di altre. Ciò significa in primo luogo che fonti di energia<br />
relativamente non economiche o non efficienti – che quindi<br />
non avevano trovato grande spazio sul mercato – vengono<br />
automaticamente promosse. Significa anche che gli sforzi delle<br />
imprese saranno maggiormente orientati verso la compliance<br />
con gli standard individuati per via politica o burocratica e saranno<br />
meno attenti all’innovazione, sia perché dovranno comunque<br />
sacrificare risorse su fonti energetiche alternative e costose,<br />
sia perché il costo opportunità dell’innovazione sarebbe<br />
maggiore. Per quel che riguarda la programmazione, essa rischia<br />
di generare problemi su un altro versante ancora: centralizzando<br />
le scelte, si perdono informazioni rilevanti che, invece,<br />
in un sistema di mercato avrebbero potuto essere utili a far<br />
emergere nuove soluzioni. Questo non significa che la politica<br />
non debba avere un ruolo, semplicemente perché quella politica<br />
è, in maniera sostanziale, una dimensione della questione<br />
<strong>energetica</strong>. Il problema è semmai assegnare alla politica un ruo-<br />
194
lo di vasto respiro e non di micromanagement delle dinamiche<br />
interne ai mercati energetici. A sostegno della programmazione,<br />
Alberto Clô evidenzia come – se c’è una carenza di investimenti<br />
– due linee imprescindibili siano “accelerare lo sviluppo<br />
degli investimenti tesi ad accrescere la capacità produttiva e infrastrutturale,<br />
così da ricostruire margini di riserva e di flessibilità<br />
operativa nei dei flussi internazionali” e “introdurre aggiustamenti<br />
nel market design dei sistemi energetici nazionali,<br />
in modo da garantire agli agenti economici quei margini di certezza<br />
che ne favorirebbero le decisioni di investimento” 12. Clô<br />
ha sicuramente ragione nella diagnosi: le imprese, in Europa,<br />
hanno un drammatico problema di investimenti e questo deriva<br />
in misura significativa da una mancanza di certezza. Se, attraverso<br />
politiche pubbliche appropriate, fosse garantito loro<br />
un ritorno, investirebbero e la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> ne guadagnerebbe.<br />
Il problema è duplice, in questa prospettiva: da un<br />
lato, cosa garantisce che le politiche pubbliche possano individuare<br />
l’entità corretta degli investimenti, e sappiano scegliere<br />
quegli investimenti che effettivamente sono utili, distinguendoli<br />
da quelli che rappresentano un mero tentativo di rent<br />
seeking? Non è peregrino neppure il sospetto che le politiche<br />
pubbliche possano produrre un eccesso di investimenti, e quindi<br />
di capacità produttiva, con scarso beneficio per i consumatori.<br />
Secondariamente, e più fondamentale, non c’è alcuna garanzia<br />
che l’interventismo pubblico produca certezza, anzi:<br />
poiché le decisioni politiche sono soggette a mutazioni rapide,<br />
dovute ai cambiamenti di maggioranza o alla volatilità dell’opinione<br />
pubblica, il risultato potrebbe addirittura essere opposto<br />
a quello desiderato 13.<br />
Piuttosto, il compito che oggi spetta al ceto politico europeo<br />
è quello di immaginare una profonda revisione di quella che<br />
è stata finora la politica <strong>energetica</strong> degli Stati membri, nella convinzione<br />
che l’interventismo produca più costi che benefici, soprattutto<br />
se guardato con un’ottica di lungo termine. Questo<br />
compito richiede consapevolezza di quel che c’è in gioco e au-<br />
12 ALBERTO CLÔ, “L’energia come <strong>sicurezza</strong> nazionale”, p. 112.<br />
13 Sul tema si veda BRUNO LEONI, La libertà e la legge.<br />
195
tonomia, oltre che visione. Le resistenze sono fortissime, come<br />
dimostrano anche le innumerevoli difficoltà che il processo di<br />
liberalizzazione ha incontrato anche nella sua prima fase. Non<br />
tutte le obiezioni sono sbagliate: quando si tratta di gestire la<br />
transizione verso un regime liberalizzato si possono adottare<br />
percorsi diversi e più o meno graduali. Inoltre, il senso delle liberalizzazioni<br />
dovrebbe essere quello di rimuovere barriere all’ingresso,<br />
non indebolire i soggetti dominanti o gli ex monopolisti<br />
per il puro gusto di ridurne le dimensioni o per sadico accanimento,<br />
come talvolta sembra accadere. Il senso delle liberalizzazioni<br />
è un altro: “il modo più efficace per accrescere il potere<br />
del compratore – scrive Ranci – è quello di dotarlo di alternative.<br />
La costruzione delle infrastrutture (gasdotti, terminali) e<br />
il rafforzamento delle procedure di cooperazione europea vanno<br />
in questa direzione. Gli approvvigionamenti... andranno a riversarsi<br />
in un mercato europeo all’ingrosso che consentirà contrattazioni<br />
continue e intense, e quindi li metterà in condizione<br />
di competere tra di loro” 14.<br />
Al tempo stesso, una politica europea comune – che però<br />
oggi non è di fatto possibile perché il Trattato non concede alla<br />
Commissione poteri in tal senso – potrebbe essere utile nel<br />
rafforzare il peso delle pressioni politiche esercitate sui paesi<br />
produttori. “L’energia è una sfida per tutta l’Europa – ha scritto<br />
Fulvio Conti – I prezzi dell’elettricità e del gas sono cresciuti<br />
drammaticamente e ci sono stati fenomeni di scarsità in molti<br />
punti del sistema. Questa non è una sfida che possa essere vinta<br />
da 27 micro-mercati indipendenti. Deve essere affrontata da<br />
imprese europee abbastanza grandi da negoziare con grossi fornitori,<br />
ma deve anche essere affrontata con una sola voce... L’attuale<br />
normativa ha consentito a molti incumbents di mantenere<br />
posizioni dominanti, spesso giustificate appellandosi alla <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Questo è miope e va nella direzione sbagliata.<br />
La competizione e la <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti non si<br />
escludono a vicenda. In realtà, è solo una piena competizione su<br />
un mercato unico che produrrà le efficienze e gli investimenti<br />
14 PIPPO RANCI, “La <strong>sicurezza</strong> delle forniture di energia”, in CLAUDIO DE<br />
VINCENTI e ADRIANA VIGNERI (a cura di), Le virtù della concorrenza, p. 275.<br />
196
necessari a mantenere l’energia sicura, competitiva e sostenibile.<br />
Questa è la ragione per cui abbiamo bisogno di una nuova legislazione<br />
per l’Europa come un unico mercato, applicata da autorità<br />
nazionali davvero indipendenti” 15. È chiaro anche da questo<br />
intervento come la proiezione all’estero dell’unità europea<br />
dipenda dall’abilità di costruire un mercato interno capace di<br />
eliminare gli steccati nazionali: solo in questo modo sarà possibile<br />
perseguire il duplice obiettivo suggerito da Wolfgang Munchau,<br />
“nel breve termine formulare una posizione condivisa, nel<br />
lungo termine ridurre la sua dipendenza dal gas russo”, cioè<br />
perseguire strategie di diversificazione 16.<br />
Il problema è che gli Stati membri dell’Unione Europea<br />
concepiscono spesso l’energia non come una questione che investe<br />
anche la <strong>sicurezza</strong> nazionale, ma come una faccenda di mera<br />
<strong>sicurezza</strong> nazionale e, quindi, sono restii perfino all’idea di<br />
metterla in comune per trovare una linea condivisa. Riverberano,<br />
qui, le stesse divisioni che hanno finora impedito di completare<br />
il processo verso l’integrazione dei mercati: non è possibile<br />
immaginare un’unica strategia se gli attori interessati perseguono<br />
fini diversi con mezzi differenti o addirittura in conflitto.<br />
Particolarmente rilevante, a questo fine, è, secondo Dieter<br />
Helm, immaginare una cornice che faciliti lo scambio di informazioni<br />
tra i vari paesi: questo perché, in un regime liberalizzato<br />
e interconnesso, quel che accade in una nazione ha effetti su<br />
tutta l’Europa. Inoltre, anche in risposta all’inevitabile dipendenza<br />
da un numero ristretto di fornitori, un analogo scambio<br />
di informazioni su tutti i contratti di lungo termine che hanno<br />
come destinazione l’Europa. Analogamente, “è inevitabile, e desiderabile,<br />
che il transito del gas richieda lo sviluppo di una cornice<br />
di accordi politici, ed essa ha inevitabilmente una dimensione<br />
europea” 17.<br />
15 FULVIO CONTI, “Europe needs to act as one on energy supply”, Financial<br />
Times, 17 novembre 2006.<br />
16 WOLFGANG MUNCHAU, “Eu needs a joint response”, Financial Times,<br />
7 maggio 2006.<br />
17 DIETER HELM, “European Energy Policy: Securing supplies and meeting<br />
the challenges of climate change”, p. 5.<br />
197
Coerentemente con questo approccio, la Commissione Europea<br />
ha inviato una comunicazione al Consiglio d’Europa, nella<br />
quale si afferma che “l’Unione dovrebbe usare tutto il suo peso<br />
nelle attuali e future negoziazioni e accordi bilaterali, offrendo<br />
soluzioni bilanciate e basate sul mercato, prima di tutto coi<br />
suoi fornitori tradizionali, ma anche con altri grandi paesi produttori<br />
e consumatori. La Commissione dovrebbe essere un elemento<br />
fondamentale nella revisione degli accordi internazionali,<br />
inclusa l’estensione del quadro regolatorio europeo in materia<br />
di energia ai vicini (la Comunità <strong>energetica</strong>), lo sviluppo del<br />
trattato sulla Carta dell’energia, il regime post-Kyoto, un accordo<br />
quadro sull’efficienza <strong>energetica</strong>, l’estensione dello schema<br />
di emission trading ai partner globali, la promozione della ricerca<br />
e l’uso dell’energia rinnovabile. Il ruolo della Commissione<br />
nelle organizzazioni e nei fora internazionali deve essere ulteriormente<br />
sviluppato. Gli Stati membri e la Commissione dovrebbero<br />
coordinare le loro posizioni allo scopo di parlare con<br />
una sola voce in maniera efficace” 18. Tali affermazioni – condivisibili<br />
in linea di principio – offrono il fianco tre critiche.<br />
La prima è quella di essere un esercizio di wishful thinking:<br />
da anni discute attorno all’opportunità di potenziare le competenze<br />
della Commissione in materia di politica <strong>energetica</strong>, ma<br />
poco o nulla è stato fatto, tanto che gli interventi più sostanziali<br />
sono in verità incursioni che riguardano il profilo antitrust o<br />
la <strong>regolazione</strong> del mercato interno. La ragione è, semplicemente,<br />
che gli Stati membri – sopratutto quelli con una politica <strong>energetica</strong><br />
più strutturata – non hanno alcuna intenzione di abbandonare<br />
questa leva tanto importante.<br />
La seconda è che si ha la sensazione che la Commissione<br />
faccia fatica ad affrontare questo tema senza rendere il dovuto<br />
ma verboso omaggio a una serie di concetti che, a ben vedere,<br />
conducono su una strada opposta: dalla lotta ai cambiamenti climatici<br />
agli investimenti sulle energie rinnovabili (arrivando addirittura,<br />
in questo campo, a quasi ridisegnare uno dei capisaldi<br />
dell’azione della Commissione e ammettendo, anzi incorag-<br />
18 COMMISSIONE EUROPEA, “External energy policy – from principles to<br />
action”, p. 3.<br />
198
giando, gli aiuti di Stato) 19. Se davvero si vuole fare dei passi significativi,<br />
occorre individuare target precisi, specifici e realistici:<br />
se ogni volta si impegnano tempo e forze per ribadire atti di<br />
fede nei confronti di alcune politiche, che peraltro possono contrastare<br />
con l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, allora difficilmente<br />
si otterrà un cambiamento. Ugualmente grave è la tendenza<br />
– manifesta per esempio nella Energy strategy review pubblicata<br />
il 10 gennaio 2007 20 – a fissare target rotondi quando utopistici<br />
per la politica ambientale europea (20 per cento di energie<br />
rinnovabili entro il 2020, 20 per cento di risparmio energetico<br />
entro il 2020, 20 per cento di riduzione delle emissioni entro<br />
il 2020): Ad impossibilia nemo tenetur è un moto di cui anche<br />
i policy maker dovrebbero tener conto nell’assegnare obiettivi<br />
(più o meno desiderabili) ai loro paesi e all’industria.<br />
Anche alla luce di queste riflessioni, destano qualche perplessità<br />
le decisioni del Consiglio Europeo dell’8-9 marzo 2007,<br />
che ha posto le basi della nuova politica <strong>energetica</strong> europea<br />
adottando e rendendo vincolanti i target di riduzione delle emissioni<br />
del 20 per cento al di sotto dei livelli del 1990, ridurre del<br />
20 per cento rispetto al tendenziale la domanda di energia, e<br />
portare le rinnovabili a una quota del 20 per cento del consumo<br />
energetico complessivo (con un sotto-target del 10 per cento per<br />
la quota di mercato dei biocarburanti) entro il 2020 21. Tali obiettivi<br />
andrebbero raggiunti attraverso la definizione di target nazionali<br />
differenziati, che tengano conto delle specificità di ciascun<br />
paese (un punto particolarmente spinoso riguarda il modo<br />
in cui verrà trattato il nucleare: pur essendo una fonte non rinnovabile,<br />
ha un tasso di emissioni virtualmente nullo) 22. C’è, qui,<br />
un duplice problema.<br />
19 GEORGE PARKER, “EU to allow more state funding for innovation”, Financial<br />
Times, 22 novembre 2006.<br />
20 COMMISSIONE EUROPEA, “An energy policy for Europe”.<br />
21 Tali obiettivi sono fissati rispettivamente ai punti III.32 delle Conclusioni,<br />
e IV.6, e IV.7 dell’Action Plan del Consiglio Europeo dell’8-9 marzo 2007.<br />
22 La formulazione precisa, e volutamente ambigua, si trova al punto<br />
IV.7: “A partire dall’obiettivo generale sulle rinnovabili, dovranno essere ricavati<br />
obiettivi nazionali complessivi differenziati, col pieno coinvolgimento degli<br />
Stati membri e col dovuto riguardo a un’allocazione equa e adeguata che<br />
199
In primo luogo, molti osservatori ritengono l’obiettivo del<br />
20 per cento di energia rinnovabile – inizialmente si parlava del<br />
20 per cento del consumo primario, in seguito si è iniziato a far<br />
riferimento ai consumi finali, facendo aggio sull’ambiguità del<br />
relativo passaggio nelle conclusioni del Consiglio Europeo –<br />
semplicemente irraggiungibile. Dal punto di vista di mercati<br />
dell’energia, l’orizzonte temporale che ci separa dal 2020 è strettissimo,<br />
e probabilmente insufficiente a un riassetto complessivo<br />
del sistema energetico europeo. Inoltre, la creazione ope legis<br />
di un largo parco di energie rinnovabili, senza pari al mondo,<br />
avrà un costo difficile da calcolare ma senza dubbio rilevante,<br />
il quale a sua volta peserà sulla competitività delle imprese<br />
europee – in apparente contraddizione con gli obiettivi della<br />
strategia di Lisbona, peraltro esplicitamente richiamati nello<br />
stesso documento del Consiglio Europeo 23.<br />
Secondariamente, l’obiettivo del 20 per cento di rinnovabili<br />
rispetto al consumo totale di energia va “spacchettato” nelle<br />
sue componenti: posto il 10 per cento di biocarburanti, il resto<br />
dovrà dividersi tra il riscaldamento/condizionamento dell’aria e<br />
il settore elettrico: secondo le stime di Claude Turmes, portavoce<br />
del gruppo Verdi del Parlamento Europeo, la quota di rinnovabili<br />
dovrà essere rispettivamente del 25 e del 35 per cento 24 (è<br />
probabile che Turmes abbia sovrastimato il contributo che le<br />
rinnovabili potranno dare al riscaldamento/condizionamento, e<br />
conseguentemente sottostimato quello che dovranno dare alla<br />
generazione elettrica). Allo stato attuale, “rinnovabili” significa<br />
tenga conto dei diversi punti di partenza nazionali e dei potenziali, compresi<br />
gli attuali livelli di energia rinnovabile e il mix energetico e, fatto salvo l’obbligo<br />
di rispettare l’obiettivo minimo per i biocarburanti in ciascuno Stato membro,<br />
lasciando agli Stati membri la decisione sui target nazionali per ogni specifico<br />
settore delle energie rinnovabili (elettricità, riscaldamento e condizionamento,<br />
biocarburanti)”. Al momento in cui questo studio viene compilato, è<br />
ancora attesa una direttiva europea sulle energie rinnovabili, che secondo le<br />
previsioni dovrebbe essere elaborata entro il terzo quadrimestre 2007.<br />
23 Punti da I.1 a I.4 delle Conclusioni.<br />
24 “European Council’s Energy Action Plan”, Platts.com News, 16 marzo<br />
2007, http://www.platts.com/Electric%20Power/Resources/News%20Featu<br />
res/energyaction/index.xml.<br />
200
“sussidi” o altre forme di protezione regolatoria, perché le fonti<br />
rinnovabili non possono essere in alcun altro modo competitive.<br />
Viene dunque da chiedersi come ciò sia compatibile con l’idea<br />
di liberalizzazione del settore elettrico – con la parte di nonmercato<br />
davvero sostanziale – e quindi coi propositi di creazione<br />
del mercato interno ribaditi dal Consiglio Europeo 25. Analogamente,<br />
se questa preoccupazione è fondata, un obiettivo tanto<br />
ambizioso sulle rinnovabili rischia di entrare in rotta di collisione<br />
con lo sforzo di rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, che come<br />
si è visto si alimenta della presenza di mercati liberi, competitivi<br />
e diversificati. Pure la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> fa parte della<br />
strategia individuata dal Consiglio Europeo 26.<br />
A questo proposito giova ricordare la critica di Lovelock:<br />
“l’Europa ha seriamente danneggiato la sua campagna e al tempo<br />
stesso la sua competitività nel mondo grazie a quella miscela<br />
bizantina di sussidi, crediti e contrattazioni che è stata chiamata<br />
politica comunitaria agricola. Ora sembra determinata a perseguire<br />
un’ancora più folle politica comunitaria <strong>energetica</strong>. Ciò<br />
che è rimasto del paesaggio tedesco è stato degradato dall’installazione<br />
di diciassettemila enormi turbine a vento. L’Inghilterra<br />
sta seguendo rapidamente l’esempio tedesco, come ha già fatto<br />
la Danimarca” 27. Ancora una volta, Lovelock è forse eccessivo<br />
nel suo giudizio, ma pone un problema reale: quello non solo<br />
della fattibilità dell’obiettivo che l’Europa si è dato, ma anche<br />
della desiderabilità delle sue conseguenze. In altre parole, l’adozione<br />
di obiettivi estremi senza aver prima effettuato una valutazione,<br />
e una comparazione, dei costi e dei benefici rischia di<br />
rivelarsi una scommessa perdente.<br />
Oltre tutto, l’insistenza su target che a molti appaiono irragionevolmente<br />
alti rischia di danneggiare la stessa causa ecologista,<br />
nella misura in cui essa incarna una sincera preoccupazione<br />
per le sorti dell’ambiente e la potenziale minaccia costituita<br />
dall’uso eccessivo di certe tecnologie che, accanto a evidenti benefici,<br />
impongono costi all’ecosistema. Come ha notato Lawren-<br />
25 Ai punti I.7-I.12 delle Conclusioni e I.1-I.2 dell’Action Plan.<br />
26 Punto II.3 dell’Action Plan.<br />
27 JAMES LOVELOCK, La rivolta di Gaia, p. 112.<br />
201
ce Summers – un sostenitore delle politiche climatiche e dell’esigenza<br />
di combattere il riscaldamento globale attraverso la riduzione<br />
delle emissioni – “le visioni utopistiche e le ambizioni<br />
non temperate dalla realtà politica, economica e sociale possono<br />
essere controproducenti” 28.<br />
Infine, “politica <strong>energetica</strong> comune” non può e non deve significare<br />
programmazione a livello europeo, per le stesse ragioni,<br />
già ricordate, per cui è sensato dubitare della bontà della pianificazione<br />
centrale a livello nazionale. Per esempio, recentemente<br />
due grandi imprese europee sono state più o meno apertamente<br />
criticate per aver raggiunto accordi autonomi con Gazprom<br />
sulla fornitura di gas 29. In parte le critiche possono essere<br />
giustificate, perché riflettono un più generale problema di scarso<br />
coordinamento fra paesi (gli accordi commerciali intersecano<br />
negoziazioni politiche). Ma bisogna anche tener conto del<br />
fatto che, talvolta, per poter essere firmati i contratti devono essere<br />
discussi in maniera riservata, e non possono essere trattati<br />
su un piano diverso da quello meramente economico e industriale.<br />
<strong>Politica</strong> <strong>energetica</strong> europea, dunque, non può e non deve<br />
implicare il diritto della Commissione o di altri enti di sindacare<br />
le strategie aziendali delle imprese che operano nel campo<br />
dell’energia: deve semmai riguardare la costruzione di una cornice<br />
nella quale le imprese possano operare, e il tentativo di ottenere<br />
passi avanti nella stessa direzione anche sui mercati dei<br />
paesi produttori.<br />
6.4. Il rapporto con la Russia<br />
L’esigenza di sviluppare una politica <strong>energetica</strong> europea è<br />
particolarmente evidente nel confronto con la Russia. L’energia<br />
è, infatti, la nuova bomba globale che Mosca agita per imporsi<br />
sulla scena internazionale. Da dove deriva tale potenza? Dalla<br />
28 LAWRENCE SUMMERS, “We need to bring climate idealism down to<br />
Earth”, Financial Times, 30 aprile 2007.<br />
29 GIUSEPPE SARCINA, “Eni-Gazprom, missione di Scaroni a Bruxelles”,<br />
Il Corriere della Sera, 22 novembre 2006.<br />
202
natura: la Russia ha riserve provate di gas per 47 mila miliardi di<br />
metri cubi, le più grandi al mondo (seguono Iran e Qatar). Le<br />
riserve russe di petrolio, per quanto considerevoli, non sono tali<br />
da poter parlare di geopolitica del greggio verso l’Europa; anche<br />
in considerazione della presenza di supplier / concorrenti<br />
più importanti e meglio posizionati nel Golfo persico. Quindi il<br />
tema del petrolio di Mosca viene trattato solo lateralmente per<br />
concentrarsi sul gas, questo sì essenziale per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
della Ue e dell’Italia in particolare.<br />
Per quanto concerne la produzione russa di gas naturale, essa<br />
ha sfiorato i 600 miliardi di metri cubi nel 2005; nel 2006 sarebbe<br />
cresciuta fino a 640 miliardi di metri cubi 30. La parte del<br />
leone l’ha fatta naturalmente Gazprom; tuttavia si è assistito ad<br />
una progressiva, seppur parziale, diversificazione, grazie all’aumento<br />
della produzione da parte delle compagnie energetiche<br />
russe indipendenti. Questa è aumentata da 29 a quasi 45 miliardi<br />
di metri cubi negli ultimi cinque anni, e si è attestata a circa 47-48<br />
miliardi a fine 2005, con la prospettiva di crescere ancora fino a<br />
100 miliardi di metri cubi entro il 2008-2010. Invece la produzione<br />
di Gazprom aumenta a ritmi abbastanza bassi, nell’ordine<br />
dell’1,7 per cento nel 2004 e dello 0,8 per cento nel 2005, fermandosi<br />
a 547,2 miliardi di metri cubi, a fronte di una previsione iniziale<br />
di circa 580-590 miliardi di metri cubi (Figura 22).<br />
Se si esclude Gazprom, le più ingenti riserve di gas naturale<br />
in Russia sono attualmente possedute da Lukoil (quasi 700<br />
miliardi di metri cubi). Tra le società petrolifere la produzione<br />
maggiore nel 2004 è stata effettuata da Surgutneftgas (14,3 miliardi),<br />
seguita da Rosneft (9,4 miliardi), Tnk-Bp (8 miliardi) e<br />
Lukoil (5 miliardi di metri cubi). Come scrive Sergio Rossi, “le<br />
compagnie petrolifere sono attratte soprattutto dall’esportazione,<br />
assai più redditizia delle vendite sul mercato interno russo,<br />
dato il prezzo relativamente calmierato del gas per il consumo<br />
nazionale. Pertanto esse sono interessate alla graduale liberalizzazione<br />
del mercato del gas naturale, che dovrebbe progredire<br />
soprattutto a partire dal 2006. In effetti, le esportazioni di gas<br />
30 Stime su dati Rosstat e Ministero dell’Industria ed Energia della Federazione<br />
Russa.<br />
203
Figura 22. Produzione di gas naturale in Russia. Fonte: Elaborazione e stime<br />
D&E su dati Rosstat e Ministero dell’Industria ed Energia della Federazione<br />
Russa, gennaio 2006.<br />
naturale russo, aumentate del 6,3 per cento nel 2004, nel 2005<br />
hanno accresciuto la propria dinamica fino all’8 per cento” 31.<br />
Secondo lo stesso autore, i maggiori acquirenti europei di gas<br />
naturale russo nel recente passato sono stati la Germania (31,3<br />
miliardi di metri cubi), l’Italia (21,5 miliardi) e la Francia (13,3 miliardi)<br />
coprendo un terzo dell’export russo, mentre la Turchia ha<br />
acquistato altri 14,5 miliardi di metri cubi, attraverso il gasdotto<br />
del Mar Nero (“Blue Stream”). Tra i paesi Csi, i maggiori clienti<br />
sono stati l’Ucraina (32,3 miliardi di metri cubi), e la Bielorussia<br />
(17,8 miliardi); ma si tratta di forniture a prezzi agevolati che sono<br />
il casus belli della disputa tra Mosca e Kiev del dicembre 2005gennaio<br />
2006, e di quella con Minsk a cavallo tra 2006-07.<br />
Breve excursus storico: origini ed affermazione di Gazprom<br />
Gazprom è un colosso energetico emerso dalle ceneri<br />
dell’ex ministero del Petrolio sovietico ed oggi divenuto supermonopolio<br />
sia di riserve gas nazionali che di condotte.<br />
31 Sergio A. Rossi, “L’arma spuntata di Putin”.<br />
204
Dopo la disintegrazione dell’Urss (1991), Viktor Chernomyrdin<br />
– allora capo di Gazprom e poco dopo Primo Ministro<br />
– immagina un piano per conservare l’unità delle infrastrutture<br />
e della rete di trasporto del gas di Russia, Ucraina<br />
e Bielorussia, naturalmente sotto il controllo di Gazprom.<br />
Chernomyrdin segue il principio fondamentale della<br />
gas-geopolitics: per vincere occorre non solo l’accesso a<br />
grandi riserve, ma anche un sistema efficiente e sicuro per<br />
arrivare ai mercati internazionali. Non basta avere il gas, bisogna<br />
anche poterlo consegnare in maniera pratica ed economica<br />
(questo è il problema degli idrocarburi del Caspio:<br />
sono land-locked). Corollario del principio di cui sopra: chi<br />
controlla le pipeline, controlla l’acquirente – e in qualche misura<br />
il paese produttore del gas.<br />
Quello di Chernomyrdin era buon piano ma fallì perché<br />
Ucraina e Bielorussia si rifiutarono di cedere il lucroso<br />
business del transito di gas. Dopo l’indipendenza Kiev e<br />
Minsk scelsero di nazionalizzare le pipeline esistenti sul loro<br />
territorio. I principali componenti della rete sovietica furono<br />
così suddivisi tra i tre Stati successori dell’Urss. Sembrava<br />
la sconfitta definitiva per Gazprom, ma in realtà era solo<br />
una momentanea battuta d’arresto. La compagnia decise di<br />
puntare ancora più in alto: impadronirsi di tutta la rete di<br />
transito del gas, non solo nell’ex Unione sovietica ma anche<br />
in Europa centro-orientale. Obiettivo finale: controllare<br />
l’intero sistema di distribuzione regionale del gas in Europa.<br />
Ad oggi, Gazprom ha realizzato solo in parte il suo piano.<br />
In Bielorussia, per esempio, la rete di gas-pipeline costruita prima<br />
dell’indipendenza e poi passata a Minsk è stata a lungo sotto<br />
il controllo della compagnia di Stato Beltransgaz. Però in base<br />
ad un accordo firmato alla fine del 2007, Gazprom dovrebbe<br />
coprire il 50 per cento della compagnia bielorussa a titolo di pagamento<br />
di debiti arretrati, e dunque anche il controllo della relativa<br />
rete in prospettiva. Rete da non confondere con la postsovietica<br />
Jamal-Europe pipeline, costruita da Gazprom e di sua<br />
205
proprietà, che trasporta il gas russo via Bielorussia verso la Polonia<br />
e poi la Germania. È in costruzione un raddoppio della linea<br />
(Jamal II), sempre sotto il controllo di Mosca. In Ucraina,<br />
la Soyuz pipeline e quella doppia Urengoi-Uzhgorod sono sotto<br />
il controllo di Kiev, almeno finora. Nella prima decade di ottobre<br />
2007 è stato firmato un accordo tra il presidente di Gazprom<br />
Alexci Miller e il ministro dell’energia ucranio Jurij Boiko<br />
riguardo al rimborso del debito pari a circa 1,2 miliardi di dollari<br />
che le società ucranie responsabili dell’importazione di metano<br />
hanno con Gazprom. Ma è solo una tregua.<br />
Per quanto riguarda il costo del metano russo per l’Ucrania<br />
il prezzo finale è stato di 130 dollari nel 2007, mentre per il 2008<br />
si prevedono 143 dollari per mille metri cubi. Con la Georgia è<br />
in corso un perenne braccio di ferro a causa delle pessime relazioni<br />
politiche tra Tbilisi e Mosca: a partire dal 1° gennaio 2007,<br />
Tbilisi paga 235 dollari (prima erano 110) per mille metri cubi<br />
di metano russo, il prezzo più alto tra i paesi Csi.<br />
Inoltre Gazprom, dopo aver aumentato le tariffe del gas per<br />
il 2007 ad Azerbaigian (235 dollari, come la Georgia) e Moldavia<br />
(170 dollari), prevede un rialzo del prezzo medio del gas<br />
esportato in Europa nel 2007-2008: da 255-259 dollari a 263-<br />
265 dollari per mille metri cubi.<br />
L’Armenia, nel tentativo di diversificare le sue fonti di approvvigionamento,<br />
sta costruendo una pipeline per connettersi<br />
all’Iran. Ma Gazprom insiste affinché il diametro del nuovo tubo<br />
sia più piccolo di quello originariamente concepito al fine di<br />
impedire che l’Armenia possa sifonare il surplus di gas iraniano<br />
alla Georgia. Altrove Gazprom guadagna terreno. In Estonia<br />
(Paese non considerato amico) Gazprom possiede più azioni<br />
(30,64 per cento) rispetto al governo estone (27 per cento) della<br />
Compagnia nazionale del gas, AS Eesti Gaas. Da sottolineare<br />
che Eesti Gaas possiede la rete di distribuzione del gas presente<br />
nel Paese baltico.<br />
Il catalogo delle compagnie penetrate da Gazprom nell’ex<br />
spazio sovietico include Gazsnabtranzit in Moldova (Gazprom<br />
possiede il 50 per cento del capitale autorizzato); la lituana Stella<br />
Vitae (Gazprom detiene il 30 per cento). Gazprom inoltre<br />
possiede il 25 per cento della lettone Latvias Gaze. Non solo,<br />
206
Gazprom, ha pure una significativa presenza oltre i confini dell’ex-Urss.Per<br />
esempio in Polonia: la rete di condotte del gas che<br />
attraversa il Paese è stata costruita insieme alla Russia, e Gazprom<br />
possiede una quota pari al 50 per cento. Gazprom infine<br />
controlla il 46 per cento della compagnia polacca EvRoPol Gaz.<br />
Emmanuel Bergasse, responsabile per l’Europa centroorientale<br />
dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, afferma:<br />
“Gazprom oggi ha un potere di mercato tale da essere in grado<br />
di portare direttamente il gas al consumatore finale”. Insomma,<br />
in teoria Gazprom può controllare tutta la catena del gas dall’estrazione<br />
fino alla caldaia di casa. Bergasse aggiunge: “Obiettivo<br />
dichiarato di Gazprom è di estendere la sua posizione dominante,<br />
con ovvie conseguenze per la diversificazione delle fonti<br />
di approvvigionamento dell’Europa” 32.<br />
In sintesi si stima che Gazprom fino ad oggi abbia speso 2,6<br />
miliardi di dollari in partecipazioni in decine di compagnie del<br />
gas europee: in Italia, Francia, Austria, Serbia, Grecia, Finlandia,<br />
Turchia, ed altri paesi.<br />
Potenza di Gazprom<br />
Cos’è Gazprom oggi?<br />
• la più importante compagnia di gas esistente (16 per<br />
cento delle riserve mondiali, 20 per cento della produzione);<br />
• la più grande impresa in assoluto dei mercati emergenti<br />
con una capitalizzazione di 160 miliardi di dollari;<br />
• assicura un quarto delle entrate fiscali russe;<br />
• possiede l’intera rete dei gasdotti russi e la maggior parte<br />
dei depositi di metano nel Paese;<br />
• è l’unica società a cui la legge della Federazione russa permette<br />
di esportare il metano fuori dai confini della Csi;<br />
• gestisce tutta la commercializzazione del gas – sia russo<br />
che centro-asiatico fornito al mercato internazionale.<br />
32 Da intervista a Radio Free Europe, si veda www.rferl.org.<br />
207
Lo Stato russo è il maggior azionista della compagnia.<br />
Nel dicembre 2005 la Duma ha dato il via libera alla privatizzazione<br />
di Gazprom (per attirare gli indispensabili investimenti<br />
stranieri), ma in realtà lo Stato continuerà per legge<br />
a detenere la maggioranza assoluta del pacchetto azionario<br />
(51 per cento) e dunque il controllo della compagnia. Da<br />
qui il nomignolo che gira a Mosca: Gosprom, perché in russo<br />
Gos significa statale.<br />
Inoltre la compagnia – dopo l’acquisizione di Sibneft<br />
nel 2005, allora di proprietà dell’oligarca buono (amico del<br />
Cremlino) Roman Abramovich, e dei bocconi migliori di<br />
Yukos (affaire Kodorkhovski) – controlla notevoli riserve di<br />
petrolio e mira a divenire in futuro il leader del mercato globale<br />
dell’energia.<br />
Ma anche Gazprom non è priva di problemi: perché obbedisce<br />
alle logiche del Cremlino più che a quelle del mercato<br />
con ovvie conseguenze sul piano operativo (vedi ritardi<br />
negli investimenti e nelle infrastrutture), e soprattutto<br />
perché le sue dimensioni colossali lo rendono uno strumento<br />
molto potente, ma poco flessibile.<br />
Secondo le stime di Mosca, il Pil della Russia supererà presto<br />
(potrebbe già essere accaduto mentre si legge) i livelli pre-<br />
1991 (data che corrisponde al crollo dell’Urss e dell’economia<br />
sovietica), grazie soprattutto all’export di idrocarburi. Nella<br />
strategia di potenza di Mosca, il controllo delle risorse energetiche<br />
è fondamentale. Gazprom nel 2005 ha esportato 152 miliardi<br />
di metri cubi di gas, di cui 146 verso l’Unione Europea, per<br />
un valore di 26 miliardi di dollari. Nel 2006, i profitti delle<br />
esportazioni sono cresciuti del 43 per cento, raggiungendo il livello<br />
recordo di 37,2 miliardi di dollari 33.<br />
Nel frattempo, è iniziata la costruzione del gasdotto North<br />
Stream (già noto come North European Gas Pipeline), avveniristico<br />
gasdotto sottomarino posato nel Mar Baltico che permet-<br />
33 http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/6273065.stm.<br />
208
terà a Gazprom di portare il gas russo in Germania e nel resto<br />
dell’Europa nord-occidentale, forse persino in Gran Bretagna.<br />
Bypasserà dunque Polonia, Bielorussia ed Ucraina, creando una<br />
via alternativa che ridurrà la dipendenza di Mosca dalla tradizionale<br />
via di transito terrestre degli idrocarburi verso i ricchi<br />
mercati europei; e metterà molti paesi dell’Est in difficoltà, se<br />
nel frattempo non avranno diversificato le loro fonti di approvvigionamento<br />
energetico (difficile che ciò accada in tempi brevi).<br />
Qualche rischio però c’è anche per l’Italia, che vedrà il baricentro<br />
energetico spostarsi inesorabilmente verso il Nord Europa.<br />
L’accordo per il gasdotto sottomarino fu firmato nell’aprile<br />
2005 da Putin con il cancelliere tedesco Gerhard Schröder e<br />
suggella la nascita di un asse energetico-strategico tra i due paesi:<br />
attualmente Mosca soddisfa il 32 per cento circa del fabbisogno<br />
energetico di Berlino, ma in futuro la cifra è destinata a crescere<br />
notevolmente, insieme alla dipendenza europea dagli idrocarburi<br />
russi. Particolare illuminante: oggi il pensionato (politico)<br />
Schröder ha un ruolo di responsabilità nel consorzio tra<br />
Gazprom e le tedesche Basf ed E.On, creato per costruire materialmente<br />
il North European.<br />
Le criticità di Gazprom<br />
Se Gazprom è stata il principale strumento del presidente<br />
Vladimir Putin nella riaffermazione del controllo nazionale<br />
sulle risorse energetiche, la scommessa politica ed<br />
economica della rinazionalizzazione non è esente da rischi.<br />
Il principale è quello dell’insostenibilità della domanda: talvolta<br />
si è denunciata la “politica dei due forni” che la Russia<br />
potrebbe perseguire, scegliendo di volta in volta se privilegiare<br />
il cliente europeo o quello cinese. In realtà non è da<br />
lì che proviene la vera minaccia. Essa dipende da due altri<br />
fattori: da un lato la rapida crescita dei consumi interni di<br />
gas (alimentata da un prezzo sussidiato e del tutto slegato<br />
dai mercati internazionali di circa 15,90 dollari per mille me-<br />
209
tri cubi di gas per gli utenti residenziali, 24,20 dollari per gli<br />
utenti industriali. Si tratta di tariffe pari a un decimo di quelle<br />
finlandesi e addirittura tra le venti e le trenta volte inferiori<br />
a quelle in vigore in Danimarca. La seconda, e potenzialmente<br />
esplosiva, criticità sta nell’inefficienza di Gazprom –<br />
in parte dovuta alla voragine finanziaria determinata dal<br />
mercato interno – nella ricerca ed estrazione di gas, che è resa<br />
più vivida dall’ostilità nei confronti degli investimenti<br />
stranieri. Anche in questo caso, il limite non è fisico: il rapporto<br />
tra riserve e produzione russa è tra i più alti al mondo<br />
(circa 81,5, contro il 55,4 algerino e l’8,8 canadese). “Nonostante<br />
le notevoli riserve del paese – spiega una dettagliata<br />
indagine di Energy Tribune – la produzione di gas naturale<br />
è sostanzialmente la stessa da molti anni, con la previsione<br />
di un modesto aumento (1,3 per cento) nel 2008. Per contro,<br />
la produzione petrolifera è molto cresciuta, specie negli<br />
anni di Yukos” 34. Per questo, alcuni analisti temono che presto<br />
la produzione russa di gas si riveli insufficiente (Figura<br />
23). Attualmente, per quanto possa suonare paradossale, il<br />
mercato russo del gas si regge soprattutto grazie alle importazioni<br />
dal Turmenistan, che vende il gas a Mosca a un prezzo<br />
particolarmente vantaggioso e che quindi consente di<br />
tamponare le perdite dovute ai consumi interni. Non stupisce<br />
che i due paesi abbiano recentemente firmato un accordo<br />
della durata di 25 anni che impegna i turkmeni a moltiplicare<br />
la loro produzione di gas.<br />
“Sebbene la scarsità sia dietro l’angolo – notano Michael<br />
Economides, Robert Bryce e Pavel Romanov – Gazprom<br />
ha acconsentito a raddoppiare le sue esportazioni verso<br />
l’Europa e la Cina” 35. Per mantenere l’impegno, la Russia<br />
ha assoluto bisogno di sviluppare i campi esistenti e<br />
aprirne di nuovi (per esempio, l’isola siberiana di Sakhalin<br />
34 E.O. NDEFO, P. GENG, S. LASKAR, L. TAWOFAING E MICHAEL J.<br />
ECONOMIDES, “Russia: A Critical Evaluation of its Natural Gas Resources”.<br />
35 MICHAEL J. ECONOMIDES, ROBERT BRYCE e PAVEL ROMANOV, “Russia:<br />
The Energy State of the Nation”.<br />
210
Figura 23. Produzione russa di gas e proiezioni sui consumi interni e le<br />
esportazioni. Fonte: Energy Tribune, 2007.<br />
ospita cinque progetti esplorativi, ma solo due sono effettivamente<br />
in movimento). Ciò ha portato a una parziale revisione<br />
della politica nei confronti degli investimenti stranieri,<br />
con l’accettazione dell’ingresso di compagnie internazio-<br />
211
nali purché il controllo dei progetti resti in mani russe. Paradossalmente,<br />
quindi, la politica <strong>energetica</strong> muscolare di<br />
Putin ha messo in ginocchio l’industria nazionale, aprendo<br />
un ulteriore margine di incertezza rispetto alla futura capacità<br />
del paese di tenere il passo della domanda interna ed<br />
estera.<br />
La situazione non è resa più rosea dal crescente degrado<br />
delle infrastrutture russe. Il sistema integrato dei gasdotti<br />
russi – la maggior rete mondiale – è controllato da Gazprom<br />
e ha conosciuto uno sviluppo significativo lungo le direttrici<br />
esterne, ma nel suo complesso sta lavorando al limite<br />
della sua capacità di trasporto. L’intervento più recente<br />
riguarda la creazione del gasdotto Negc, il gasdotto sottomarino<br />
con la peculiarità di non attraversare alcun paese di<br />
transito e, quindi, di essere esposto a minori rischi. Tuttavia,<br />
non si è assistito all’esplosione di investimenti che sarebbe<br />
stato ragionevole aspettarsi in presenza di una domanda<br />
tanto certa e sostenuta di gas russo. La principale ragione,<br />
riferisce Energy Tribune, sta “nell’assenza di una<br />
struttura organizzata e di una cornice legale che governi efficacemente<br />
il trasporto via tubo. Le questioni ad esso relative<br />
sono fortemente regolate e si basano sui cangianti capricci<br />
governativi” 36. Inoltre, molti gasdotti sono vecchi e<br />
richiedono manutenzione. Secondo Vladimir Katrenko,<br />
presidente della Commissione per le comunicazioni e il trasporto<br />
energetico della Duma, un quarto dei gasdotti hanno<br />
più di trent’anni, e un altro terzo è in funzione da oltre<br />
venti.<br />
Non solo l’età e lo stato della rete russa dei gasdotti è<br />
quindi causa di inefficienze: la prolungata condizione di carente<br />
manutenzione è all’origine di una serie di perdite che<br />
hanno un’incidenza significativa sul bilancio del gas russo.<br />
Il controllo dei prezzi sul mercato domestico, per giunta, ha<br />
due effetti negativi: da un lato mantiene la domanda artifi-<br />
36 E.O. NDEFO, P. GENG, S. LASKAR, L. TAWOFAING E MICHAEL J.<br />
ECONOMIDES, “Russia: A Critical Evaluation of its Natural Gas Resources”.<br />
212
cialmente alta, dall’altro crea una scarsità di liquidità per affrontare<br />
i necessari investimenti. “La Strategia <strong>energetica</strong><br />
russa – si legge in uno studio dell’Agenzia Internazionale<br />
dell’Energia – stima che la Russia potrebbe ridurre il consumo<br />
di energia per unità di prodotto del 40-50 per cento al<br />
di sotto dei livelli del 2000, ma sarà necessario un sistema di<br />
formazione dei prezzi che rifletta i costi affinché sorgano gli<br />
incentivi a stimolare le riduzioni dell’intensità <strong>energetica</strong>” 37.<br />
Il solo adeguamento tecnologico, anche in assenza di specifiche<br />
politiche di risparmio energetico, potrebbe determinare<br />
un cambiamento di proporzioni notevoli: se lo scenario di<br />
base prevede che i consumi interni nel 2020 saranno pari al<br />
334 per cento di quelli del 2000, l’adozione di cambiamenti<br />
tecnici e organizzativi potrebbe portare a un consumo del<br />
254 per cento, e i potenziali risparmi dovuti alla ristrutturazione<br />
del Pil farebbero calare la previsione addirittura al 140<br />
per cento del 2000 38.<br />
Gazprom, dunque, rappresenta la “cinghia di trasmissione”<br />
tra il Cremlino e la sua politica <strong>energetica</strong> globale, volta in<br />
primo luogo verso l’Europa, e poi Usa ed Asia. Tre sono le direttrici<br />
di flusso del grande progetto geo-politico-energetico di<br />
Putin:<br />
• Sud Europa: il gas arriverà dalla Russia occidentale (bacino<br />
Volga-Urali, storica fonte per l’Europa), insieme a nuove risorse<br />
presenti sia nel Caspio russo (regione Astrakhan) sia<br />
alla frontiera del Kazakistan; tale flusso sarà sostenuto a medio<br />
termine dal retrostante bacino della Siberia occidentale<br />
e da una quota crescente di gas non russo (giacimenti centroasiatici<br />
che corrispondono ad un ottavo delle riserve russe),<br />
trasportato grazie alle condotte potenziate del vecchio<br />
network ex-sovietico. Il Caucaso è destinato a divenire il<br />
grande collettore del gas verso il sud Europa via Mar Nero<br />
37 IEA, Optimizing Russian Natural Gas, p. 39.<br />
38 Ivi, p. 40.<br />
213
(Blue Stream e non solo); le condizioni tecnico economiche<br />
(know how, partnership e possibilità di investimenti per le<br />
compagnie occidentali) già esistono. Tutto ciò può coincidere<br />
con le aspirazioni geopolitiche russe, se il serbatoio<br />
centro-asiatico resterà disponibile.<br />
• Nord Europa / Usa: flussi da oltre il circolo polare artico,<br />
dove si trovano i nuovi forzieri dell’impero; si tratta di giacimenti<br />
solo marginalmente sfruttati sotto il permafrost artico<br />
– a Peãora e nella penisola di Jamal, Siberia nord-occidentale<br />
– e giacimenti offshore, molto ricchi, estesi tra il Mare<br />
Barents e il Mare di Kara. La perla è il giacimento offshore<br />
di ·tokmanov, uno tra i maggiori al mondo, già operativo.<br />
Norvegia e Russia, messi da parte gli annosi contenziosi di<br />
frontiera, sono ora associate in grandi progetti di esportazione<br />
di gas liquefatto (Gnl), da Murmansk verso le coste<br />
atlantiche degli Usa. Tuttavia il gas di Peãora, penisola di Jamal,<br />
Mare di Barents e di Kara servirà soprattutto per i<br />
grandi flussi verso il nord Europa, via gasdotto sottomarino<br />
baltico North Stream, destinati a garantire la <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> dell’Europa.<br />
• Estremo oriente, Cina, sud-est asiatico, Giappone, India,<br />
Usa: flussi dai giacimenti in Siberia centrale, orientale, isola<br />
di Sakhalin. Mosca vorrebbe acquisire il 10 per cento del<br />
mercato americano; far viaggiare flotte di supermetaniere,<br />
in una settimana, dal Mare di Barents agli impianti di rigassificazione<br />
sulla costa atlantica degli Usa; o dall’isola di<br />
Sakhalin verso gli impianti sulle coste giapponesi, coreane,<br />
cinesi ed ancora statunitensi sul Pacifico. Si tratta soltanto<br />
di progetti per ora: il potenziale energetico presente potrà<br />
trasformarsi in flusso commerciale solo grazie a partnership<br />
con le corporation occidentali e dei paesi emergenti. Ai russi<br />
manca il know how; ma sopratutto è la convenienza economica<br />
di tali flussi ad essere dubbia.<br />
A tale grande piano energetico di Putin giungerebbe un<br />
aiuto insperato dalla meteorologia. Il progressivo scioglimento<br />
del permafrost (ghiaccio perenne) potrebbe facilitare lo sfruttamento<br />
delle riserve, e renderà navigabili rotte artiche ora difficilmente<br />
praticabili per le navi metaniere. Questo per domani.<br />
214
Ma intanto oggi gli enormi costi (a causa delle attuali sfavorevoli<br />
condizioni climatiche e geografiche) rallentano lo sviluppo dei<br />
giacimenti siberiani. Inoltre, sorgono sempre più dissidi con i<br />
partner occidentali per il controllo dei pozzi: si veda per esempio<br />
la diatriba con Shell, operatore del consorzio per lo sfruttamento<br />
del giacimento di Sakhalin.<br />
Così prima tappa del progetto di Vladimir Putin è l’Europa,<br />
dove Mosca ha stabilito stretti e collaudati legami con alcuni<br />
governi (Germania in primis) e compagnie energetiche per<br />
organizzare una grande rete di <strong>sicurezza</strong> e business. La <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> è oggi il servizio più importante che Mosca può e<br />
vuole vendere all’Europa; è stato il tema centrale dell’agenda<br />
della presidenza russa del G8 nel 2006. E lo sarà anche negli anni<br />
a venire.<br />
La Russia è uno dei principali fornitori di metano per l’Europa<br />
(25 per cento) ed in particolare per l’Italia (30 per cento);<br />
Gazprom, colosso energetico russo e monopolista statale del gas,<br />
è divenuto oggi un’arma formidabile nelle mani del Cremlino al<br />
fine di perseguire la sua geo-politica <strong>energetica</strong>. Inoltre è recente<br />
l’istituzione di un asse strategico tra la Federazione Russa<br />
(Gazprom) e l’Algeria (Sonatrach) da cui l’Italia importa la quota<br />
maggiore di gas (35,4 per cento). Tale accordo secondo alcuni<br />
mirerebbe a creare un cartello mondiale del gas sul modello<br />
dell’Opec; questo è improbabile per ragioni strutturali connesse<br />
alla natura del mercato del gas. Inoltre, l’obiettivo dell’Opec era<br />
quello di mantenere alti i prezzi a fronte di un’offerta abbondante:<br />
nel caso del gas, questo scenario non vale. Tuttavia la forte dipendenza<br />
da due soli produttori rappresenta indubbiamente un<br />
rischio reale per l’Italia e l’Europa; a cui si aggiunge la probabile<br />
incapacità russa di coprire la prevista robusta crescita della domanda<br />
europea di energia negli anni a venire 39.<br />
Sicuramente, quindi, è ragionevole la strategia europea di<br />
investire sulla diversificazione delle fonti (grazie a una intensificazione<br />
dei rapporti coi paesi del Golfo persico, per esempio:<br />
39 ANGELANTONIO ROSATO, La Sicurezza Energetica nelle relazioni tra<br />
Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, cap. IV “Scenari”.<br />
215
l’Iran ha il 15 per cento delle riserve mondiali provate di gas; ma<br />
anche col Nordafrica, i Caraibi e il Sudest asiatico) 40. Analogamente<br />
è importante sviluppare un adeguato numero di impianti<br />
di liquefazione del gas a monte, e rigassificatori a valle (tema<br />
su cui l’Italia manifesta un significativo ritardo). Nel frattempo<br />
la Russia è destinata a rimanere il principale fornitore individuale<br />
per i paesi Ue negli anni a venire, anche se non l’unico. Ne<br />
consegue che l’Europa non può volgere le spalle alla Russia come<br />
fonte <strong>energetica</strong>, nel breve-medio periodo.<br />
Neanche Mosca ha molte alternative. La Ue rimane il mercato<br />
più redditizio al mondo per i produttori ed esportatori di<br />
gas ed è destinata a restarlo a lungo, almeno fino al 2030. La domanda<br />
europea, già molto forte, crescerà in maniera esponen-<br />
40 Anche il Mar Caspio potrebbe essere una fonte interessante di diversificazione<br />
(magari via pipeline come Nabucco), ma a patto di non cadere in<br />
una illusione degli idrocarburi caspici collegata al cosiddetto “Nuovo Grande<br />
Gioco in Asia centrale”. Spesso si sente dire, anche da fonti qualificate,<br />
che gli idrocarburi della regione potrebbero risolvere il problema della dipendenza<br />
dell’Europa dalla Russia (secondo alcuni addirittura dal Medio<br />
Oriente) se si costruissero delle pipeline in grado di portare tali riserve energetiche<br />
(descritte come pressoché illimitate) ai mercati mondiali, naturalmente<br />
bypassando la Russia. In realtà, si tratta di affermazioni non corrette,<br />
di strategie non praticabili. Prima di tutto perché le riserve energetiche presenti<br />
nel Caspio ed in Asia centrale sono meno consistenti di quanto si credeva,<br />
sicuramente non in grado di sostituire la Russia. In secondo luogo perché<br />
questa possiede tuttora un sostanziale monopolio delle vie di esportazione<br />
di tali idrocarburi, solo recentemente intaccato dall’oleodotto Btc, il quel<br />
però ha i suoi limiti e rischi. A tutto ciò va aggiunto che Mosca in questi anni<br />
ha sapientemente ricostituito la sua posizione geo-politica di dominus in<br />
Asia centrale, scalzando l’influenza americana dalla maggior parte delle locali<br />
repubbliche ex-sovietiche. Ne consegue che la Russia rappresenta – e verosimilmente<br />
lo resterà a lungo – la principale via per esportare le riserve<br />
energetiche della regione. E soprattutto che il Caspio, a meno di straordinarie<br />
scoperte di nuovi super-giacimenti, non può essere per l’Europa una fonte<br />
di approvvigionamento alternativa rispetto alla Russia; né è probabile che<br />
la Turchia possa diventare un ponte energetico sicuro ed affidabile per il<br />
transito degli idrocarburi caspici verso i paesi Ue, almeno nel prevedibile futuro.<br />
Si veda Angelantonio Rosato, La Sicurezza Energetica nelle relazioni tra<br />
Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, cap. VI “L’illusione degli idrocarburi<br />
caspici”.<br />
216
ziale nei prossimi anni; tanto che nel 2030 le importazioni europee<br />
di metano saranno più che doppie rispetto all’aggregato delle<br />
regioni del Nord America e India/Cina, secondo le più autorevoli<br />
proiezioni come quelle dell’International Energy Agency<br />
e dell’Ocse. Inoltre, esiste già un’efficiente, diversificata ed affidabile<br />
rete di pipeline per la consegna degli idrocarburi russi<br />
orientata rigidamente verso l’Europa, di una lunghezza complessiva<br />
compresa tra i 3.000 ed i 4.000 chilometri; i prezzi pagati<br />
dagli europei per l’energia sono sempre stati molto alti e<br />
continueranno ad esserlo nel futuro (per Mosca il mercato Usa<br />
è più attraente solo per il petrolio e il Gnl).<br />
A conferma di tutto ciò basti citare un dato: nel 2005 il volume<br />
delle forniture all’Europa di petrolio e gas russo ha raggiunto<br />
la cifra record di 400 milioni di tonnellate equivalenti di<br />
petrolio, pari a un terzo dei consumi complessivi di metano e petrolio<br />
nella Ue25. Invece per i russi, malgrado la loro stessa propaganda,<br />
la Cina e l’Asia in generale non presentano attrattive<br />
paragonabili all’Europa come mercato energetico, né oggi né<br />
domani 41.<br />
In verità Ue e Russia sono interdipendenti, anzi probabilmente<br />
è la Russia ad avere più bisogno di noi, dato che oggi ha<br />
solo un ruolo regionale come supplier di energia: Mosca esporta<br />
circa il 95 per cento del greggio e la totalità del gas naturale<br />
verso la Greater Europe (cioè inclusa la Turchia). La presenza<br />
russa sugli altri mercati mondiali dell’energia è trascurabile. Di<br />
conseguenza sarebbe ragionevole trovare un accordo, realizzare<br />
un grande patto energetico euro-russo, su una base di pari<br />
convenienza. Ma ciò che è razionale, non sempre è reale nelle<br />
relazioni internazionali: almeno se i trattati internazionali continueranno<br />
a restare lettera morta, come troppo spesso è accaduto<br />
finora. Difficilmente assisteremo nel prossimo futuro alla<br />
firma di un vero accordo strategico. Ciò per due motivi fondamentali<br />
e strettamente connessi: primo, in Europa predominano<br />
gli egoismi nazionali per cui gli Stati membri preferiscono<br />
agire in ordine sparso e perseguire il loro interesse particolare,<br />
che spesso è un mero interesse di politica interna; secondo, la<br />
41 Ivi, cap. III “Impraticabilità economica della via asiatica per Mosca”.<br />
217
Russia storicamente privilegia i rapporti e le intese bilaterali con<br />
i singoli paesi, anche per ovvie ragioni strategiche e di peso specifico.<br />
La questione si sposta necessariamente su un piano nazionale<br />
e, per quanto concerne l’Italia, se si guarda a una piena<br />
“Energobesopasnost” (<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>), non si può prescindere<br />
da una partnership <strong>energetica</strong> con la Russia. Tale partnership<br />
dovrà essere fondata su un semplice do ut des: accesso al<br />
nostro downstream in cambio di maggiori e più sicure forniture,<br />
soprattutto una vera ed articolata partecipazione all’upstream<br />
russo. I presupposti per un serio patto strategico ci sono<br />
e sono buoni: l’Italia ha un importante mercato energetico ed<br />
è disposta a sostenere prezzi relativamente alti, i russi hanno tanto<br />
gas e voglia di venderlo al miglior offerente; inoltre gli italiani<br />
sono in grado di provvedere gli investimenti e la tecnologia di<br />
cui i russi hanno bisogno per sviluppare i loro campi. I rapporti<br />
politici bilaterali sono discreti, ma vanno rinsaldati e migliorati:<br />
quel che serve è un sano realismo politico. L’accordo di novembre<br />
2006 tra Eni e Gazprom, malgrado i suoi limiti, può essere<br />
una buona base per sviluppare una vera intesa strategica in<br />
futuro; ma la base deve essere allargata e consolidata politicamente<br />
perché la Russia non si accontenta di accordi industriali<br />
settoriali ed è estremamente sospettosa nei confronti degli europei,<br />
da sempre. In particolare occorre ampliare la cooperazione<br />
tra la compagnia di Piazzale Mattei (ed eventuali altre, italiane<br />
o presenti in Italia, che abbiano un interesse in tal senso) e Gazprom.<br />
Se ciò richiederà una maggiore apertura del mercato italiano,<br />
certo non lo si potrebbe considerare un prezzo particolarmente<br />
grave, dato che, come si è visto, le liberalizzazioni sono in<br />
sé un fattore di <strong>sicurezza</strong>.<br />
Oltre la carota servirà anche il bastone: l’oleodotto Btc, i futuri<br />
gasdotti Nabucco e Igi per portare gli idrocarburi caspici in<br />
Italia via Turchia bypassando il territorio della Federazione russa<br />
sono utili in questo senso, ovvero come strumento di pressione,<br />
come garanzia nei confronti di Mosca, ma senza cadere nell’illusione<br />
che possano un giorno sostituirsi al tubo russo. Semmai<br />
possono aggiungersi a esso nella composizione di un “paniere<br />
di importazioni” più equilibrato e bilanciato. In questo senso,<br />
218
è positivo pure l’accordo tra l’Italia e l’Algeria per la costruzione<br />
del gasdotto Galsi.<br />
Nel prossimo futuro urge soprattutto trovare vie alternative<br />
all’Ucraina (per cui transita il 36,5 per cento del metano importato<br />
dall’Italia) ed alla Bielorussia per il transito del gas russo<br />
destinato all’Italia, come sta facendo la Germania per le sue<br />
forniture. Una via sarà il prolungamento del gasdotto Blue<br />
Stream (alla cui costruzione partecipa l’Eni). Occorrerebbe anche<br />
trovare un aggancio al Negp, il gasdotto sottomarino baltico<br />
tra Russia e Germania, realizzando una derivazione verso l’Italia.<br />
Anche l’altra grande pipeline terrestre Siberia–Europa è<br />
poco sicura perché attraversa la Bielorussia e poi la Polonia.<br />
Particolarmente insidioso il tratto sul territorio bielorusso dove<br />
passa il 20 per cento del gas destinato ai paesi europei e dove,<br />
non a caso, è in corso una nuova crisi politico-<strong>energetica</strong> mentre<br />
si scrive, all’inizio del gennaio del 2007. Probabilmente anche<br />
questa crisi si risolverà, come le precedenti, ma quel che<br />
conta è che tali episodi generano sistematici riflessi sugli approvvigionamenti<br />
europei (e italiani), contribuendo ad aggiungere<br />
incertezza, per così dire, locale a quella globale.<br />
In conclusione, trattare con i russi può apparire difficile, ma<br />
è necessario per l’Italia; richiede prudenza, costanza, polso fermo<br />
e chiarezza strategica di fini. Occorre anche lealtà, perché i<br />
russi sanno rispettare i patti se si fidano dell’altra parte (e soprattutto<br />
se conviene loro). Insomma nel trattare con Mosca occorre<br />
seguire il precetto evangelico: “candidi come colombe ed<br />
astuti come serpenti”. Inoltre bisogna agire nella consapevolezza<br />
che i russi faticano a orientarsi tra le troppe delegazioni che<br />
ricevono, ciascuna delle quali pretende di parlare a nome dell’Italia<br />
in quanto tale. Occorre, cioè, tenere ben distinto il piano<br />
politico-strategico da quello commerciale: bisogna far capire a<br />
Mosca che in un mercato liberalizzato, come il nostro, chiunque<br />
ha diritto di cittadinanza, e dunque tutti hanno diritto di cercare<br />
un accesso alle risorse. Al tempo stesso, il paese in quanto tale<br />
ha interesse a costruire un rapporto di reciproca apertura con<br />
la Russia, per ragioni economiche e commerciali prima che politiche<br />
– ma tale rapporto non può prescindere da una dimensione<br />
politica e diplomatica.<br />
219
Mosca sta cercando alleati in Europa: se l’Italia non partecipa<br />
al gioco, altri lo faranno in sua vece, e ciò esporrà il paese a<br />
crisi sempre più frequenti e imprevedibili. Infatti è naturale che<br />
queste crisi accadano periodicamente perché le pipeline tradizionali<br />
europee che portano il gas via Ucraina, Bielorussia, Polonia,<br />
eccetera attraversano un’area – la nuova frontiera orientale<br />
della Ue – estremamente instabile e pericolosa, un vero e<br />
proprio buco nero geopolitico in Europa. Ciò non significa abbandonare<br />
al loro destino i paesi dell’Europa orientale, ma neppure<br />
è sensato candidarsi al ruolo di consapevole vittima di ogni<br />
tensione geopolitica. Né pare una strategia efficace quella, peraltro<br />
utopistica, di bypassare Mosca. Sarebbe paradossale, dopo<br />
aver intrattenuto rapporti durante l’intera epoca della Guerra<br />
fredda, voler costruire una nuova cortina di ferro nell’epoca<br />
della globalizzazione, col risultato di isolare l’Europa da uno dei<br />
suoi principali fornitori di risorse energetiche.<br />
6.5. La regione del Caspio<br />
La regione del Caspio può svolgere una funzione di creazione<br />
di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> per l’Europa. Sono molte le ragioni.<br />
In primo luogo, le risorse del Caspio diverranno una fonte addizionale<br />
di energia per l’Ue. Il petrolio e il gas del Caspio non<br />
possono sostituire le attuali fonti, ma possono aiutare a diversificare<br />
l’offerta per l’Europa. Secondariamente, la regione del<br />
Caspio è una delle poche fonti di risorse energetiche ancora non<br />
sfruttate che possa soddisfare la crescente domanda dell’Ue riducendo,<br />
al tempo stesso, la sua dipendenza da fornitori monopolistici.<br />
Il costo del petrolio e gas caspici sarebbe inferiore a<br />
quello dei nuovi progetti nei giacimenti siberiani. Terzo, è utile<br />
allo sviluppo della regione verso un modello più stabili, prospero<br />
e liberale, grazie alla maggiore interazione politica ed economica<br />
con l’Europa e l’esposizione alle pratiche commerciali occidentali.<br />
Quarto, il coinvolgimento europeo nel petrolio e gas<br />
del Caspio e la realizzazione di nuove infrastrutture rende questi<br />
paesi più autosufficienti e indipendenti attraverso i profitti<br />
dei progetti energetici. Infine, ricostituisce rapporti economici<br />
220
tra gli Stati della regione prevenendo conflitti locali. Sebbene la<br />
regione del Caspio non possa essere la soluzione alla ricerca europea<br />
di <strong>sicurezza</strong>, certamente può esserne parte.<br />
Gli eventi recenti, come si è visto, hanno reso evidente che<br />
la Russia intende perseguire un gioco vincente nella regione. Ciò<br />
ha senso dal punto di vista russo: la strategia di base di Gazprom<br />
è di mantenere il suo dominio sulla regione, tramite il quale può<br />
acquistare il gas dell’Asia centrale a prezzi inferiori a quelli di<br />
mercato, distribuirlo ai suoi clienti russi che possono pagare di<br />
meno mentre vende le sue riserve domestiche all’Europa occidentale<br />
ad alti prezzi. Inoltre può proteggere il suo lucrativo<br />
mercato europeo congelando i fornitori indipendenti dell’Asia<br />
centrale. Mantenendo e rafforzando il suo potere di monopolio,<br />
Gazprom rafforzerà la leva che può esercitare sui consumatori<br />
di gas europei. A tal fine a Gazprom servono continue forniture<br />
di energia dall’Asia centrale per far fronte agli impegni presi<br />
42. Le riserve della regione sono significative.<br />
Azerbaijan. La produzione di gas e di petrolio dell’Azerbaijan<br />
non è enorme, ma è la sua locazione e la tempistica con<br />
cui tali risorse possono accedere al mercato ciò che conta. L’Azerbaijan<br />
è un paese produttore sia di gas che di petrolio. Questo,<br />
assieme al completamento del gasdotto Baku-Tblisi-Ceyhan<br />
(Btc), lo rende anche un paese di transito per i volumi, ancora<br />
più consistenti, di gas e petrolio che giungono dalla costa orientale<br />
del Caspio. Con l’integrazione infrastrutturale tra l’Azerbaijan<br />
e l’Europa diventa ora realistico pensare di liberare le risorse<br />
energetiche dell’Asia centrale tramite gasdotti sul Mar Caspio<br />
che, attraverso l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia sono<br />
collegati con l’Europa. Ciò potrebbe, per l’Europa, aprire le<br />
porte a risorse di gas più vaste addirittura di quelle di Gazprom.<br />
Infatti l’Azerbaijan, il Kazakistan e il Turkmenistan messi assieme<br />
potrebbero potenzialmente esportare più dei 140 miliardi di<br />
metri cubi di gas che Gazprom cede annualmente all’Europa.<br />
Inoltre, avendo popolazioni più piccole, i loro volumi di espor-<br />
p. 3.<br />
42 ZEYNO BARAN, “Assessing Energy and Security Issues in Central Asia”,<br />
221
tazione non saranno dipendenti dall’evoluzione dei loro mercati<br />
domestici e conseguentemente saranno più affidabili. La produzione<br />
azera di gas naturale già dal 2012 potrà essere immessa<br />
nel flusso produttivo europeo. Le sue risorse sono piccole rispetto<br />
a quelle dell’Asia centrale, specie quelle turmene e kazake.<br />
Tali riserve – nel caso del Turkmenistan si parla di uno tra<br />
i cinque più grandi depositi del mondo – sono cruciali per il futuro<br />
rifornimento energetico europeo 43. Il gasdotto Btc, dunque,<br />
è in sé un elemento di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> e per di più potrebbe<br />
fare da volano all’implementazione di altri progetti, come<br />
la South Caucasus Gas Pipeline (Scp) e il più lungo corridoio<br />
di trasporto e di comunicazione est-ovest. Il gasdotto Scp,<br />
che collegherebbe Baku a Erzurum in Turchia attraverso la<br />
Georgia, è stato progettato per fornire 6 miliardi di metri cubi<br />
di gas all’anno alla Turchia in virtù di un contratto già esistente.<br />
La capacità iniziale del gasdotto sarà di 8,4 miliardi di metri cubi<br />
all’anno, con la possibilità di essere incrementato fino a 30 miliardi<br />
di metri cubi all’anno e di essere collegato al Turkmenistan<br />
44. Un altro sviluppo ha avuto luogo il 24 Gennaio 2007 ad<br />
Astana, quando diverse compagnie internazionali hanno siglato<br />
un memorandum d’intesa per la creazione di un sistema di trasporto<br />
petrolifero attraverso il Caspio. Tale accordo prevede il<br />
trasporto via nave fino all’Azerbaijan del petrolio kazako, per<br />
poi immetterlo nell’oleodotto Btc. Si parla di una capacità iniziale<br />
di 25 milioni di tonnellate all’anno, per salire a 38 milioni<br />
di tonnellate in un secondo momento. Il costo è stimato in tre<br />
miliardi di dollari. I porti e le navi dovrebbero servire Tengiz e<br />
Kashagan, adiacenti ai rispettivi giacimenti.<br />
Kazakistan. Il Kazakistan è il più grande produttore della<br />
regione e il secondo più grande del Commonwealth degli stati<br />
43 SVANTE E. CORNELL, ANNA JONSSON, NIKLAS NILSSON e PER HÄG-<br />
GSTRÖM, The Wider Black Sea Region, p. 21.<br />
44 SVANTE E. CORNELL, MAMUKA TSERETELI e VLADIMIR SOCOR,<br />
“Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline”, in S. FRED-<br />
ERICK STARR E SVANTE E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan<br />
Pipeline: Oil Window to the West, p. 22.<br />
222
indipendenti (Cis) dopo la Russia. Coi suoi tre milioni di barili<br />
al giorno previsti per il 2015, è anche il secondo produttore non<br />
Opec di petrolio. Non solo il Kazakistan è, quindi, un importante<br />
paese produttore, ma è – aspetto forse più rilevante – un ancor<br />
più importante paese esportatore. Quanto si parla di petrolio,<br />
è la perla dell’Asia centrale 45. Tale primato vale anche nel<br />
campo del gas naturale. Il paese ha riserve note di circa 2000 miliardi<br />
di metri cubi, e riserve probabili (comprese quelle potenziali<br />
al largo del Caspio) di circa 8300 miliardi di metri cubi. Negli<br />
ultimi anni la produzione domestica annuale è stata attorno<br />
ai 12 miliardi di metri cubi, ma si prevede che entro il 2020 arriverà<br />
a 40 miliardi di metri cubi 46.<br />
Turkmenistan. Le riserve di gas naturale del Turkmenistan<br />
raggiungono i 2900 miliardi di metri cubi. La produzione di gas<br />
costituisce la più importante promessa del Turkmenistan, che<br />
secondo le stime si colloca al quarto o quinto posto al mondo e<br />
ha una capacità produttiva teoricamente estendibile a 100 miliardi<br />
di metri cubi all’anno, quasi interamente dedicata all’esportazione<br />
47. La collocazione dei giacimenti sottomarini tra<br />
l’Azerbaijan e il Turkmenistan suggerisce l’esigenza di una cooperazione<br />
per la realizzazione di un gasdotto sottomarino che<br />
colleghi le coste turkmene alla pipeline Tbc e al progettato gasdotto<br />
da Baku a Erzurum in Turchia. Questa soluzione diminuirebbe<br />
i costi dei progetti del Turkmenistan a monte della filiera<br />
e aprirebbe nuove rotte di esportazione 48. C’è una grande<br />
aspettativa che la politica <strong>energetica</strong> del Turkmenistan cambierà<br />
direzione a cause della scomparsa a dicembre 2006 del presidente<br />
Niyazov. Per molto tempo il Turkmenistan è stato vassallo<br />
energetico della Russia, ma vi sono indicazioni che i leader<br />
45 ZEYNO BARAN, “Assessing Energy and Security Issues in Central<br />
Asia”, p. 5.<br />
46 Ibidem.<br />
47 SVANTE E. CORNELL, ANNA JONSSON, NIKLAS NILSSON e PER HÄG-<br />
GSTRÖM, The Wider Black Sea Region, pp. 83-84.<br />
48 SVANTE E. CORNELL, MAMUKA TSERETELI e VLADIMIR SOCOR,<br />
“Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline”, p. 36.<br />
223
politici del paese non siano soddisfatti di tale situazione. Sebbene<br />
Niyazov abbia preso importanti iniziative per ridurre la dipendenza<br />
delle esportazione del Turkmenistan dalla Russia,<br />
molta strada deve ancora essere fatta. Ci si aspetta che con un<br />
nuovo presidente il paese avrà una nuova possibilità di partecipare<br />
alla costruzione del gasdotto transcaspico (Tpc) al quale la<br />
Russia si oppone con forza.<br />
Appare quindi evidente come la regione del Caspio e l’Europa<br />
abbiano l’interesse ad accrescere la dipendenza reciproca. L’Ue<br />
è il maggior importatore al mondo di energia (gas e petrolio) e il<br />
secondo più grande consumatore, mentre è circondata dalle più<br />
importanti riserve mondiali di petrolio e di gas naturale. L’Europa<br />
diventerà sempre più dipendente dalle importazioni. I paesi<br />
circostanti giocano un ruolo di vitale importanza per la sua <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Dal canto loro, molti paesi cercano di guadagnare<br />
o migliorare il loro accesso al mercato energetico europeo.<br />
Quelli caspici sono importanti anche da questo punto di vista 49. Il<br />
miglioramento della partnership strategica con essi è un elemento<br />
fondamentale della politica europea di vicinato (European Neighbourhood<br />
Policy, Enp). Essa include la <strong>sicurezza</strong> della fornitura<br />
<strong>energetica</strong> e la <strong>sicurezza</strong> e protezione dell’energia. Infatti, attraendo<br />
i paesi vicini verso il modello economica europeo, essi miglioreranno<br />
il clima per gli investimenti. Ciò creerà anche un ambiente<br />
più trasparente e stabile che condurrà a una crescita del settore<br />
privato 50. In tali termini l’Enp ha l’obiettivo di costruire un<br />
mutuo impegno a valori comuni entro i campi della legalità, buon<br />
governo, rispetto dei diritti umani, promozione di buona coesistenza,<br />
principi di economia di mercato e sviluppo sostenibile.<br />
Da questo punto di vista, è particolarmente interessante il<br />
memorandum d’intesa firmato il 7 novembre 2006 dal presidente<br />
della Commissione Europea José Manuel Barroso e il presidente<br />
azero Ilham Aliyev. Il memorandum include quattro priorità<br />
principali:<br />
49 COMMISSIONE EUROPEA, “European Neighbourhood Policy. Strategy<br />
Paper”, p. 17.<br />
50 Ivi, p. 14.<br />
224
• Armonizzazione graduale della legislazione azera con quella<br />
europea nel campo energetico, per favorire la convergenza<br />
dei mercati elettrici e del gas;<br />
• Aumento della <strong>sicurezza</strong> e della protezione delle forniture<br />
energetiche e dei sistemi di transito dall’Azerbaijan e il bacino<br />
del Caspio all’Ue;<br />
• Sviluppo di una politica complessiva di gestione della domanda<br />
dell’energia;<br />
• Cooperazione tecnica e scambio di expertise.<br />
In conclusione, la cooperazione e la <strong>sicurezza</strong> energetiche<br />
non possono svilupparsi in assenza di riforme democratiche, ma<br />
la democrazia non potrà svilupparsi senza la cooperazione e la<br />
<strong>sicurezza</strong> e nei campi di produzione <strong>energetica</strong>. Se l’Europa riuscirà<br />
a trovare una quadra politica, i paesi caspici continueranno<br />
a rispondere positivamente ai consigli sulle riforme politiche.<br />
L’Ue, nel promuovere buon governo e democrazia nella regione,<br />
dovrebbe adottare un approccio a lungo termine che si focalizzi<br />
sull’adozione di architetture istituzionali coerenti, non<br />
solo sulle libere elezioni.<br />
L’Unione Europea dovrebbe approfittare delle opportunità<br />
offerte dalla regione del Caspio per ridurre la sua dipendenza dalla<br />
Russia: ciò implica un deciso supporto allo sviluppo di oleodotti<br />
e gasdotti di collegamento. Per conseguire tale obiettivo anche<br />
la rete turca dovrebbe essere integrata, in modo da creare un vero<br />
e proprio ponte energetico; analogamente, la sponda occidentale<br />
del Caspio dovrebbe essere collegata a quella orientale, tramite<br />
pipelines transcaspiche. Il progetto inizierà con l’Azerbaijan<br />
e il Kazakistan, ma è anche importante che, nel lungo termine, si<br />
cerchi un maggior coinvolgimento del Turkmenistan.<br />
C’è di più: la cooperazione <strong>energetica</strong> può aiutare l’Europa a<br />
tessere un rapporto migliore col mondo islamico. Ugualmente<br />
importante è l’opportunità, per l’Europa, di far leva sulla cooperazione<br />
coi paesi del Caspio nel suo dialogo con la Russia. Le relazioni<br />
tra Mosca e le nazioni caspiche potrebbero essere utili a<br />
promuovere riforme in entrambe le aree, e al tempo stesso l’Europa<br />
può svolgere un ruolo di equilibrio nella regione. La diversificazione<br />
delle fonti di approvvigionamento energetico, e quindi<br />
un indebolimento della dipendenza dalla Russia (in particola-<br />
225
e per quel che riguarda il gas), potrebbe stimolare i necessari adeguamenti,<br />
specie in termini di trasparenza, che servono a dare all’intreccio<br />
di relazioni caratteristiche di stabilità e sostenibilità.<br />
6.6. La questione mediorientale<br />
Precedentemente è già stato sottolineato come il Medio<br />
Oriente soffra di sottoinvestimenti proprio nel settore di sua<br />
maggiore importanza, quello petrolifero. Un fatto, questo, che<br />
appare paradossale se si analizza il mercato globale del petrolio.<br />
I bassi costi di produzione in questa regione (che sono inferiori<br />
a quattro dollari al barile e sono i più bassi al mondo) e le sue<br />
immense riserve petrolifere (che sono pari a circa due terzi di<br />
quelle mondiali) dovrebbero infatti portare ad un grande afflusso<br />
di investimenti nel settore. Contrariamente a quanto ci si attenderebbe,<br />
invece, negli scorsi due decenni è stata osservata<br />
una situazione ben diversa: gli investimenti nell’industria petrolifera<br />
sono stati estremamente limitati e la capacità produttiva è<br />
stata accresciuta solo marginalmente. A tal proposito, è indicativo<br />
il fatto che dei nuovi 25.000 pozzi perforati nel periodo<br />
compreso tra il 1996 e il 2003, solo il 2 per cento si trovi in Medio<br />
Oriente 51. Malgrado le sue vaste riserve e i bassi costi di produzione,<br />
la regione ha infatti attirato solo una limitatissima parte<br />
degli investimenti mondiali nel settore in un periodo temporale<br />
durante il quale i prezzi del petrolio erano “bassi” (che<br />
quindi avrebbero dovuto favorire la perforazione laddove il costo<br />
di produzione è minore).<br />
Il “sottoinvestimento” è un problema di tutta l’industria<br />
petrolifera in generale, riscontrabile in molti paesi produttori.<br />
Secondo Fatih Birol, chief economist dell’Iea, nel 2004 gli investimenti<br />
sono stati inferiori “del 15-20 per cento a quanto necessario<br />
per soddisfare le stime effettuate dall’Iea [di consumo<br />
mondiale] per i prossimi venticinque anni” 52. (La Figura 24 mostra<br />
l’aumento della produzione necessario per soddisfare la do-<br />
51 JAVIER BLAS, JAMES BOXELL e KEVIN MORRISON, “Oil companies underinvesting<br />
by up to 20%”, Financial Times, 6 maggio 2005.<br />
52 Ibidem.<br />
226
manda globale). Relativamente al Medio Oriente, però, il problema<br />
è ben più grave 53, poiché tanto i suoi bassi costi di estrazione<br />
quanto la sua prossimità ad un’area prospera come l’Europa<br />
e ad una in via di rapido sviluppo quale l’Asia farebbero<br />
pensare altrimenti. Il fatto che durante gli anni ’90 i nuovi investimenti<br />
si siano concentrati in grande maggioranza in altre zone<br />
(Europa e Alaska), dove il costo di produzione è assai più elevato<br />
e le riserve conosciute assai più limitate, è dunque rivelatore<br />
del problema esistente.<br />
Figura 24. Crescita della capacità produttiva necessaria per soddisfare la domanda<br />
globale. Fonte: Iea, 2005.<br />
È possibile rintracciare le cause di questa situazione in due<br />
categorie di fattori, uno riguardante il settore in generale e uno<br />
il Medio Oriente in particolare. In primo luogo, i bassi prezzi<br />
del petrolio registrati durante gli ultimi due decenni hanno rappresentato<br />
un forte disincentivo a ulteriori investimenti e all’accrescimento<br />
della capacità produttiva. Appare infatti evidente il<br />
fatto che durante periodi di prezzi moderati non si abbia alcun<br />
53 Iea, Press Release: “World Energy Outlook 2005”, 7 Novembre 2005,<br />
http://www.iea.org/Textbase/press/pressdetail.asp?PRESS_REL_ID=163.<br />
227
incentivo tanto a ridurre i propri utili (per reinvestirli) quanto<br />
ad accrescere la propria capacità produttiva – in quanto ciò ridurrebbe<br />
ulteriormente il livello dei prezzi.<br />
In secondo luogo, sono subentrati altri fattori collegati ai regimi<br />
dei paesi mediorentali che hanno ostacolano gli investimenti<br />
nel settore. L’instabilità politica è il primo. Paesi come Iran,<br />
Iraq o Libia, per via della loro condotta in politica estera sono<br />
stati assoggettati a sanzioni internazionali che ne hanno intaccato<br />
fortemente le capacità di manovra per tutti gli anni Novanta,<br />
sia da un punto vi vista politico che, soprattutto, da un punto di<br />
vista economico. Con la guerra del 1991, l’Iraq è stato colpito da<br />
sanzioni commerciali multilaterali imposte dall’Onu che in vario<br />
modo ne hanno ostacolato la crescita economica e soprattutto la<br />
capacità di attrarre investimenti. Libia e Iran sono stati colpiti nel<br />
1995 da un pacchetto di sanzioni varate dal Congresso americano<br />
che, seppur non multilaterali, hanno rappresentato un duro<br />
colpo alle loro prospettive economico-commerciali 54. Altri paesi<br />
quali il Sudan o l’Arabia Saudita, ma anche l’Egitto, per via della<br />
loro complicata e conflittuale situazione politica interna, hanno<br />
invece rappresentato a lungo un enigma per le compagnie internazionali:<br />
mal volute e osteggiate da ampie fazioni interne, le<br />
aziende internazionali si sono viste spesso ostaggio della violenza<br />
di queste fazioni ovvero di norme discrezionali che i vari parlamenti<br />
nazionali hanno varato per sedare il rancore popolare<br />
che contraddistingueva la loro cornice di politica interna. Collegato<br />
a questo problema vi sono una serie di dinamiche regionali<br />
di natura extra-statuale quali il terrorismo, l’islamismo radicale,<br />
54 Per rendere più efficaci le loro sanzioni gli Stati Uniti, come d’altronde<br />
storicamente hanno fatto tutte le grandi potenze, le varano in maniera tale<br />
che i paesi terzi siano fortemente disincentivati ad entrare in accordi con il paese<br />
vittima delle loro azioni. In particolar modo, gli Stati Uniti sfruttano la loro<br />
forza di mercato rifiutandosi di entrare in contatto con qualunque azienda<br />
che abbia avuto dei rapporti con i paesi da loro sanzionati. Di fatto, le loro sanzioni,<br />
per quanto unilaterali, finiscono per divenire multilaterali, in quanto per<br />
le loro implicazioni non differiscono notevolmente da queste ultime. A proposito<br />
delle sanzioni commerciali si veda DANIEL DREDZNER, The Sanction Paradox.<br />
A proposito dell’uso della forza di mercato in termini politici si veda<br />
JOANNE GOWA, Allies, Trade and War.<br />
228
l’anti-americanismo 55 che hanno contribuito, e contribuiscono<br />
tutt’ora all’instabilità politica o all’incertezza del quadro politico<br />
e normativo – finendo dunque per rappresentare una variabile<br />
non gestibile dalle major petrolifere.<br />
Infine vi è un ultimo aspetto da considerare che è anche<br />
quello più importante nel limitare gli investimenti in Medio<br />
Oriente. Si tratta delle misure restrittive verso gli investimenti<br />
esteri che molti paesi della regione hanno adottato nel corso degli<br />
anni. Data la sua rilevanza, è proprio su quest’ultimo aspetto<br />
che ci si vuole concentrare. Conviene comunque definire ed<br />
inquadrare quale sia la relazione tra prezzi e investimenti prima<br />
di andare a considerare questo secondo elemento.<br />
6.6.1. L’era dei bassi prezzi e dei bassi investimenti<br />
Durante gli ultimi due decenni, i bassi prezzi del petrolio<br />
hanno disincentivato gli investimenti nel settore petrolifero. Conseguentemente,<br />
la capacità di raffinazione è rimasta a livelli inadeguati<br />
rispetto alla domanda globale e la disponibilità di petrolio<br />
sul mercato è rimasta limitata. Questa situazione ha iniziato ad<br />
apparire evidente in particolare dal 2003, cioè da quando è stata<br />
esacerbata dall’“inaspettato aumento del consumo globale di<br />
grezzo”, e dal conseguente drammatico aumento dei prezzi del<br />
petrolio 56. Come sottolinea Leonardo Maugeri, proprio quest’ultimo<br />
fenomeno potrebbe però non essere così negativo, in quanto<br />
potrebbe rappresentare un importante incentivo a nuovi investimenti,<br />
e quindi invertire il trend registrato in passato 57.<br />
Gli investimenti nel settore petrolifero dipendono da molti<br />
fattori, tra i quali ovviamente spicca il prezzo del petrolio. Come<br />
risulta evidente dalla Figura 25, il trend negativo dei prezzi registrato<br />
tra la metà degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 ha comportato<br />
una sensibile riduzione degli investimenti, il cui livello è<br />
sceso infatti di circa il 30 per cento tra il periodo 1979-1985 e il<br />
55 Si veda BARRY BUZAN eOLE WAEVER, Regions and Power: The Structure<br />
of International Security.<br />
56 LEONARDO MAUGERI, “Two Cheers for Expensive Oil”, p. 149.<br />
57 Ibidem.<br />
229
periodo 1990-2002. Oltre ad influire direttamente sul livello degli<br />
investimenti, i prezzi vi incidono anche indirettamente, in<br />
quanto la loro instabilità tende a creare elevati livelli di incertezza,<br />
che in ultima istanza influenza le scelte di investimento. Scrivono<br />
a proposito Kalpana Kochhar, Sam Ouliaris, e Hossein Samiei<br />
del Fondo Monetario Internazionale: “l’imprevedibilità e la<br />
volatilità dei prezzi del petrolio e della sua domanda hanno inoltre<br />
contribuito al basso livello di investimento, offuscando la differenza<br />
tra i movimenti temporanei e permanenti dei prezzi e<br />
quindi il cash flow strutturale [delle compangie petrolifere]. Dato<br />
l’alto livello degli investimenti fissi, i lunghi periodi di gestazione<br />
e la natura irreversibile dell’investimento nel settore petrolifero,<br />
l’incertezza dei cash flow tende [quindi] a ritardare l’allargamento<br />
della capacità produttiva” 58.<br />
Figura 25. Investimenti in esplorazione e produzione di petrolio e gas. Le<br />
colonne rosa sono espresse in termini correnti, quelle rosse in dollari reali (2002),<br />
la linea blu mostra il prezzo del petrolio (dollari 2002). Fonte: Appert 2004.<br />
58 KALPANA KOCHHAR, SAM OULIARIS e HOSSEIN SAMIE, “What Hinders<br />
What Hinders Investment in the Oil Sector?”.<br />
230
Ciò rappresenta in parte una conferma del trend a cui si è<br />
potuto assistere nel corso degli ultimi anni, che ha visto il rialzo<br />
dei prezzi accompagnato da un aumento degli investimenti 59. I<br />
prezzi del petrolio sono stati spinti al rialzo dalla “forte crescita<br />
della domanda globale [...] ed è assai improbabile che questo<br />
trend venga invertito nel breve termine, dato che riflette il miracolo<br />
economico della Cina e la forte performance economica<br />
globale” 60. Come appare immediato dalla Figura 26, la crescita<br />
economica cinese è infatti intervenuta massicciamente sul mercato<br />
mondiale, e l’aumento del consumo energetico di Pechino<br />
è stato negli anni 2002 e 2003 all’incirca uguale alla crescita del<br />
consumo energetico del resto del mondo (Cina esclusa). Il fatto<br />
che l’aumento del prezzo del petrolio sia dovuto a questa crescita<br />
della domanda globale e non ad una diminuzione dell’offerta<br />
Figura 26. Crescita annuale del consumo energetico mondiale. Fonte: Bp, 2005.<br />
59 MATT KOVAC, “Energy Investments to Rise by 52% Across the Region”,<br />
p. 18.<br />
60 “This Boom is Different”, Global Finance, vol. 21, no. 1, gennaio 2007,<br />
p. 7.<br />
231
ende quindi le prospettive relative al livello dei prezzi futuro<br />
maggiormente stabili, riducendo così l’incertezza per gli investitori<br />
internazionali.<br />
6.6.2. Gli ostacoli agli investimenti in Medio Oriente<br />
Un secondo fattore contribuisce a spiegare il sottoinvestimento<br />
nel settore petrolifero in Medio Oriente è costituito dalle<br />
restrizioni e dalle barriere imposte dai singoli Stati agli investimenti<br />
esteri. Mentre i prezzi del petrolio sono un fattore ciclico,<br />
queste limitazioni sono invece strutturali e spiegano dunque<br />
per quale motivo, nonostante la crescita registrata negli ultimi<br />
anni, l’industria petrolifera in Medio Oriente continui a soffrire<br />
di sottoinvestimenti. Anche in altre regioni esistono numerose<br />
barriere all’ingresso per gli operatori stranieri. Ma come è facile<br />
intuire, la situazione mediorientale è di particolare rilevanza.<br />
Per Fatih Birol, infatti, la mancanza di accesso per gli investimenti<br />
internazionali nella regione è “il più grande problema che<br />
il settore si trova a dover affrontare” 61.<br />
La limitata apertura agli investimenti esteri è un aspetto critico<br />
per il settore in quanto in molti paesi, a livello domestico,<br />
l’accesso ai capitali viene ostacolato, da un lato, dai criteri di distribuzione<br />
dei fondi pubblici tra le aziende statali e, dall’altro,<br />
dalla scarsa competitività del mercato interno del credito. Il primo<br />
è il caso dell’Arabia Saudita, i cui introiti dal petrolio sarebbero<br />
in grado di finanziare gli investimenti necessari, ma che per<br />
via delle esigenze di bilancio pubblico e di redistribuzione delle<br />
risorse tra le varie aziende statali possono risultare inadeguati. Il<br />
secondo è invece il caso dell’Iran, il cui settore petrolifero non riesce<br />
a garantire i capitali necessari a finanziare gli investimenti richiesti<br />
62, e il cui apparato creditizio e finanziario è stato letteralmente<br />
distrutto dall’applicazione di politiche scriteriate 63.<br />
61 JAVIER BLAS, JAMES BOXELL e KEVIN MORRISON, “Oil companies underinvesting<br />
by up to 20%”.<br />
62 VALERIE MARCEL, Oil Titans, p. 149.<br />
63 Si veda ANDREA GILLI, “Le politiche creditizie nell’Iran post-rivoluzionario,<br />
1979-2002”.<br />
232
Il paradosso iraniano<br />
La situazione iraniana rappresenta una sorta di caso limite<br />
nello scenario mediorientale: anche sorvolando su talune<br />
dichiarazioni particolarmente bellicose del presidente<br />
Mahmoud Ahmadinejad, il paese si presenta come una<br />
realtà quasi impermeabile agli investimenti stranieri, in forte<br />
difficoltà nella gestione efficiente delle enormi risorse di<br />
cui dispone, e isolato sul piano internazionale.<br />
La prima e più evidente criticità della nazione consiste<br />
nella sua natura di monocoltura petrolifera: dalla vendita di<br />
greggio dipendono l’80-90 per cento delle esportazioni e il<br />
40-50 per cento delle entrate statali 64. L’Iran dispone di riserve<br />
provate per 132,5 miliardi di barili, il 10 per cento del<br />
totale globale, generalmente non di ottima qualità. La produzione<br />
di greggio – 3,94 milioni di barili al giorno nel 2005,<br />
inferiore alla quota Opec di 4,110 milioni di barili al giorno<br />
– ne fa il secondo produttore mondiale. Secondo l’Eia, “i<br />
campi esistenti hanno un tasso di declino naturale stimato<br />
dell’8 per cento onshore e del 10 per cento offshore. I campi<br />
hanno bisogno di upgrading, modernizzazione e tecnologie<br />
di enhanced oil recovery come l’iniezione di gas. Attualmente<br />
i tassi di ricupero sono appena del 24-27 per cento,<br />
contro una media globale del 35 per cento. L’Iran ha anche<br />
bisogno di aumentare la ricerca di nuovo greggio: nel 2005<br />
sono stati aperti solo un pugno di pozzi esplorativi”. La produzione,<br />
pure in crescita, è ancora decisamente inferiore ai<br />
livelli raggiunti prima della rivoluzione del 1979 (Figura 27).<br />
Della produzione petrolifera iraniana, 2,5 milioni di barili<br />
al giorno sono detinati alle esportazioni, di cui circa il 60<br />
per cento verso paesi Ocse (l’Italia è il quarto importatore<br />
dall’Iran, e il primo in Europa, con circa 194 mila barili al<br />
giorno, seguita dalla Francia con 143 mila). La carenza di<br />
64 Ove non diversamente specificato, i dati sull’Iran sono tratti dal Country<br />
Brief della Eia, disponibile online all’indirizzo http://www.eia.doe.gov/<br />
emeu/cabs/Iran/Background.html.<br />
233
Figura 27. Produzione di petrolio in Iran, 1970-2006 (migliaia di barili al<br />
giorno). Fonte: Eia 2007.<br />
investimenti nel settore petrolifero non si limita all’upstream:<br />
infatti il paese paga un drammatico collo di bottiglia<br />
nella fase della raffinazione. La capacità è oggi di 1,64<br />
milioni di barili al giorno, ma la domanda di benzina sta crescendo<br />
al ritmo dell’11 per cento all’anno. Il paese ha approvato<br />
un piano di crescita che porterebbe a un raddoppio<br />
della capacità di raffinazione, ma non è ancora chiaro se riuscirà<br />
a tenere il passo. Così, paradossalmente, il secondo<br />
esportatore mondiale di greggio è, dal 1982, importatore di<br />
prodotti petroliferi – a livello globale, il secondo importatore<br />
di prodotti raffinati dopo gli Usa: l’Iran infatti importa<br />
circa un terzo del suo fabbisogno di benzina, anche a causa<br />
di una politica che fissa il prezzo a circa 40 centesimi di dollaro<br />
al gallone.<br />
La situazione è molto simile anche nel caso del gas naturale.<br />
Con 27 mila miliardi di metri cubi di riserve provate,<br />
l’Iran è il secondo paese dopo la Russia. Tuttavia, il 62<br />
per cento delle riserve si trovano in giacimenti non associati<br />
all’olio che devono ancora essere sviluppati. Quasi<br />
234
tutto il gas prodotto viene utilizzato nel paese – sia come<br />
fonte di energia, sia per essere reiniettato nei giacimenti<br />
petroliferi – e l’Iran, pur avendone le potenzialità, non ne<br />
esporta.<br />
La scarsità di capitali che affligge il settore deriva da<br />
molteplici ragioni. La principale è l’isolamento internazionale<br />
del paese. Ciò è dovuto in parte all’embargo americano,<br />
imposto dal presidente Bill Clinton nel 1995 e confermato<br />
da George W. Bush. Ma anche la cattiva regolamentazione<br />
interna contribuisce in misura importante a tenere le imprese<br />
straniere lontane, nonostante alcune importanti aperture<br />
(come quelle che riguardano l’italiana Eni e la francese<br />
Total). La Costituzione iraniana, infatti, proibisce l’assegnazione<br />
di diritti sul petrolio a soggetto stranieri. Tale provvedimento<br />
è stato in parte aggirato dalla Legge sul petrolio del<br />
1987, che consente la stipula di contratti fra il ministero del<br />
Petrolio, le compagnie di bandiera e “persone fisiche o giuridiche<br />
nazionali e straniere”. In base a questa norma e ad<br />
alcuni successivi sviluppi, per esempio, hanno trovato giustificazione<br />
i contratti di buyback.<br />
È in questo quadro che si colloca la contesa sul nucleare<br />
iraniano. Come scrive Marco Macciò, gli impianti atomici<br />
“sono stati concepiti per esportare più gas e petrolio e,<br />
quindi, consentire all’Iran di innalzare la sua rendita mineraria,<br />
visto che la storia economica post-rivoluzionaria del<br />
paese è quella di un fenomenale declino... Tuttavia, per<br />
esportare di più l’Iran deve aumentare le estrazioni e ridurre<br />
i consumi. Due obiettivi non facili da conseguire. Non<br />
perché il paese manchi di riserve, ma perché contro l’ampliamento<br />
della messa in produzione di molti campi gioca<br />
la Costituzione voluta da Khomeini, che esclude concessioni<br />
agli stranieri, e contro il nucleare gioca la diffidenza delle<br />
grandi potenze. Poiché nessuno ha abbastanza carisma<br />
per rimuovere l’ostacolo costituzionale, gli investimenti<br />
esteri in nuova capacità estrattiva non sono ampi quanto<br />
giustificherebbe il sottosuolo. Donde, la necessità di energia<br />
alternativa e la decisione del presidente della repubbli-<br />
235
ca Mahmoud Ahmadinejad di riprendere il programma nucleare”<br />
65.<br />
Naturalmente gli iraniani sono coscienti di questi problemi<br />
e, come è già stato accennato, hanno introdotto una<br />
serie di novità – se non riforme, almeno interpretazioni più<br />
elastiche della Costituzione – per rendere il clima più favorevole<br />
agli investimenti diretti. Così, notano Michael Economides<br />
e David Wood, “dal 1990 l’Iran ha conseguito un aumento<br />
di quasi quattro volte della produzione di gas... Ciò è<br />
impressionante, tranne che per il fatto che quasi tutto questo<br />
gas è destinato al consumo domestico”: o viene iniettato<br />
nei giacimenti petroliferi per creare le necessarie condizioni<br />
di pressione, oppure viene destinato alla generazione elettrica.<br />
Così, l’Iran importa circa 6 miliardi di metri cubi all’anno<br />
di gas dal Turkmenistan. I consumi elettrici sono un’importante<br />
causa della crescita della domanda interna di gas:<br />
dal 1990, il fabbisogno è quasi triplicato, assestandosi nel<br />
2005 a 169 terawattora, con un tasso di crescita dei consumi<br />
dell’8 per cento all’anno. Il mix energetico primario dell’Iran<br />
(Figura 28) è dunque difficilmente sostenibile sia dal<br />
punto di vista della scarsa diversificazione, sia per ragioni<br />
ambientali. Infatti, esso è sostanzialmente composto di sole<br />
due fonti: il gas per il 49 per cento, il petrolio per il 48 per<br />
cento 66.<br />
In queste condizioni, è comprensibile che l’intersezione<br />
tra il piano economico e quello politico cre confusione. Tuttavia,<br />
rilevano Wood ed Economides, “all’interno dell’Onu,<br />
la vera preoccupazione riguardo l’Iran e il nucleare militare<br />
non è la possibile proliferazione nucleare nel Medio Oriente<br />
o la possibilità di un confronto atomico tra gli Stati di<br />
quella regione. La preoccupazione è la possibilità che la tecnologia<br />
nucleare entri in possesso di altri Stati fondamentalisti<br />
musulmani, e infine arrivi in mano dei gruppi terroristi<br />
65 MARCO MACCIÒ, Islam e petrolio, pp. 148-149.<br />
66 DAVID WOOD e MICHAEL J. ECONOMIDES, “Iran Stuck in Neutral: Energy<br />
Geopolitics Hinder Iran’s Oil and Gas Industry’s Development”.<br />
236
Figura 28. Mix energetico primario iraniano (2005). Fonte: Wood ed Economides<br />
(2006).<br />
(come i ribelli ceceni e Al Qaeda), portando ad attacchi da<br />
parte di entità non statuali contro il mondo capitalista con<br />
bombe sporche. In questo contesto è scorretto ritrarre la<br />
questione nucleare come un mero confronto tra l’Iran e gli<br />
Stati Uniti; è una faccenda assai più ampia. Tuttavia, la nebbia<br />
politica oscura il fatto che l’Iran ha delle buone ragioni<br />
economiche e di sostenibilità per desiderare l’energia nucleare”<br />
67 (questo contribuisce anche a chiarire le ragioni dell’interesse<br />
russo per la questione). Con ciò, naturalmente,<br />
non si intende sminuire i rischi – per la pace e la stabilità politica<br />
nel mondo – della strategia nucleare iraniana, ma solo<br />
porla nella giusta luce. Solo così, infatti, si potranno identificare<br />
delle risposte, economiche e politiche, tali da spianare<br />
una via d’uscita dall’attuale escalation polemica, che sia<br />
67 Ivi.<br />
237
nell’interesse sia dell’Iran, sia del resto del mondo, e che aiuti<br />
a rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> – che in fondo è il convitato<br />
di pietra tanto delle rivendicazioni di Teheran quanto<br />
della posizione americana ed europea 68.<br />
Uno degli attori principali del mercato petrolifero globale<br />
sono le compagnie petrolifere nazionali (Nocs). Dopo la nazionalizzazione<br />
intervenuta a partire dagli anni Settanta, queste<br />
compagnie hanno assunto un ruolo centrale in Medio Oriente,<br />
andando a sostituire il ruolo precedentemente ricoperto dalla<br />
Sette Sorelle. Collegato alla natura pubblica di queste compagnie<br />
vi è il problema dell’allocazione centralizzata delle risorse<br />
finanziarie da parte del governo. Il processo politico interno ai<br />
singoli paesi influisce infatti in modo massiccio sulla distribuzione<br />
dei fondi tra le diverse aziende pubbliche, che quindi non<br />
ricevono dotazioni finanziarie in maniera commisurata alla loro<br />
redditività quanto piuttosto sulla base di una pura logica politica<br />
(il caso dell’Iran è nuovamente uno di quelli più emblematici<br />
a proposito) 69. Conseguentemente, le compagnie petrolifere<br />
nazionali (i principali attori economici dei paesi mediorientali)<br />
si trovano a competere con altre compagnie pubbliche per<br />
68 Per un confronto tra le diverse opzioni, militari e no, nei confronti dell’Iran<br />
si vedano TED GALEN CARPENTER, “Iran’s Nuclear Program: America’s<br />
Policy Options”; JUSTIN LOGAN, “The Bottom Line on Iran: The Costs and<br />
Benefits of Preventive War versus Deterrence”.<br />
69 Controllando le aziende creditizie, il governo fissava infatti dei target<br />
di allocazione settoriale dei crediti. Ciò significava che al settore petrolifero<br />
non poteva andare più di una certa percentuale del credito totale, mentre a<br />
quello commerciale più di un’altra data percentuale. In questa maniera, gli Ayatollah<br />
al potere hanno cercato in primo luogo di soddisfare altre logiche da<br />
quelle economiche, che in particolare consistevano nel garantire al regime la<br />
popolarità necessaria per la sua sopravvivenza. Oltre ad un’enorme corruzione,<br />
queste politiche hanno finito per distorcere il mercato interno senza<br />
riuscire a incentivare gli investimenti nei settori considerati prioritari dal Governo.<br />
Si veda ANDREA GILLI, “Le politiche creditizie nell’Iran post-rivoluzionario,<br />
1979-2002”. Si veda anche PARVIN ALIZADEH (a cura di), The Economy<br />
of Iran: The Dilemmas of an Islamic State; Hooahang Amirahmad, Revolution<br />
and Economic Transformation: The Iranian Experience.<br />
238
ottenere le risorse necessarie al loro sviluppo. In alcuni paesi<br />
(ad esempio l’Arabia Saudita), questa competizione tra fondi risulta<br />
particolarmente penalizzante per le compagnie petrolifere<br />
nazionali in quanto queste ultime hanno l’obbligo (diversamente<br />
dalle altre aziende pubbliche) di cedere tutti i propri introiti<br />
allo stato, senza che però vi sia alcun tipo di privilegio in<br />
sede di allocazione dei fondi. A ciò si aggiunge la scarsa apertura<br />
e concorrenza del mercato creditizio, che ostacola il tentativo<br />
delle compagnie petrolifere di trovare risorse alternative sul<br />
mercato domestico, con un risultato nettamente inferiore rispetto<br />
a quello che sarebbe prodotto da un mercato più aperto<br />
ed efficiente 70.<br />
Alla luce di quanto scritto, risulta quindi particolarmente<br />
evidente per quale motivo le restrizioni agli investimenti esteri<br />
rappresentino un aspetto tanto critico nel mercato energetico<br />
mondiale. Il Golfo Persico è infatti una regione ancora per molti<br />
versi inesplorata dal punto di vista energetico. È indicativo<br />
che negli ultimi vent’anni, il 70 per cento delle esplorazioni di<br />
petrolio sia avvenuta negli Stati Uniti e in Canada, e solo il 3 per<br />
cento in Medio Oriente – che detiene il 70 per cento delle riserve<br />
conosciute contro il 3 per cento del Nord America. Come risultato,<br />
“le vaste riserve dell’Arabia Saudita sono sottosfruttate.<br />
I 260 miliardi di barili di riserve saudite conosciute rappresentano<br />
solo un terzo del petrolio che giace sotto il suolo saudita” 71.<br />
È naturale chiedersi, dunque, come i paesi ostacolino gli investitori<br />
stranieri. In Arabia Saudita e Kuwait, ad esempio, il settore<br />
petrolifero è aperto solo marginalmente agli investimenti<br />
esteri. In altri paesi, come ad esempio l’Iran, questi, seppur non<br />
ostacolati direttamente, vengono scoraggiati da contratti non<br />
particolarmente favorevoli per le compagnie straniere (in Iran vi<br />
è il production-sharing e buyback. Quest’ultimo risulta poco gradito<br />
alle compagnie internazionali in quanto le esponendo ad alti<br />
livelli di rischio in caso in cui il prezzo del petrolio precipitas-<br />
70 Si vedano PAUL HORSELL, Energy Investments and Impediments;<br />
CLEMENT M. HENRY eRODNEY WILSON (a cura di), The Politics of Islamic Finance.<br />
71 LEONARDO MAUGERI, “Two Cheers for Expensive Oil”, pp. 152-153.<br />
239
se o i costi di produzione crescessero. Dal febbrario 2004, nessun<br />
nuovo contratto è stato firmato 72, ma il governo ha tentato<br />
di rendere questo contratto più conveniente per gli operatori<br />
esteri).<br />
Come si vede nella Tabella 1, vi sono anche dei paesi che<br />
si sono aperti investitori stranieri. Algeria, Libia e Abu Dhabi<br />
sono degli ottimi esempi, con risultati tra l’altro invidiabili. Le<br />
prime due sono riuscite ad attirare investimenti garantendo alle<br />
compagnie internazionali il diritto di “prenotare le riserve”.<br />
Abu Dhabi, grazie ad una politica attenta alle esigenze degli investitori<br />
stranieri, è riuscito a mantenere alti il loro impegno e<br />
il loro interesse verso il settore energetico nazionale, facendo<br />
concessioni particolarmente favorevoli per gli investimenti<br />
stranieri. Tali concessioni sono invece del tutto “fuori discussione”<br />
in altri paesi: come scrive Valerie Marcel, “per via della<br />
loro storia di concessioni e nazionalizzazione, Arabia Saudita,<br />
Iran, e Kuwait, che insieme detengono il 42 per cento delle riserve<br />
conosciute di petrolio e il 54 per cento delle riserve delle<br />
compagnie nazionali petrolifere, non offriranno alcuna partecipazione<br />
[ad operatori stranieri] nel settore petrolifero nel<br />
medio periodo” 73. Per via dell’importanza di questi tre paesi<br />
nella produzione petrolifera mondiale, il costo delle loro scelte<br />
è evidente: da una parte, essi continueranno ad avere un accesso<br />
solo marginale e ritardato ad un avanzato livello tecnologico<br />
nel settore estrattivo e di raffinazione. Dall’altra parte, per<br />
via dei bassi investimenti, la crescita della capacità produttiva<br />
continuerà ad essere limitata, con un conseguente effetto sui<br />
prezzi.<br />
6.6.3. La chimera dell’ìndipendenza economica. Il Medio Oriente,<br />
l’Europa e il futuro condiviso<br />
L’integrazione economica tra comunità politiche è un processo<br />
antico, databile forse con la stessa nascita delle prime ag-<br />
72 “Exploration and Production”, Petroleum Economist, agosto 2006,<br />
pp. 35-36.<br />
73 VALERIE MARCEL, Oil Titans, p. 40.<br />
240
Paese<br />
Partecipazione<br />
straniera<br />
legalmente possibile<br />
Iran Sì Buy-back.<br />
Iraq Sì<br />
Kuwait No<br />
Libia Sì<br />
Qatar Sì<br />
Arabia Saudita No Nessuno.<br />
Emirati degli<br />
Stati Arabi<br />
Si<br />
gregazioni tra individui 74. La ragione principale consiste nel fatto<br />
che l’integrazione economica non è solo conveniente ma è anche<br />
un processo naturale, mosso dalle normali interazioni che si<br />
istituiscono tra individui e gruppi di individui (“la naturale propensione<br />
a barattare, a truschinare e a scambiare un bene per un<br />
altro” di cui parlò Adam Smith). La storia ha dimostrato infatti<br />
l’insuccesso o per lo meno il breve respiro delle politiche volte a<br />
garantire “l’indipendenza da altri paesi”.<br />
Da un punto di vista puramente economico, esiste infatti un<br />
largo consenso tra gli studiosi sul fallimento delle politiche contrarie<br />
all’integrazione economica internazionale. La teoria economica<br />
postula sin dai tempi di Smith e Ricardo la convenienza<br />
dell’interdipendenza. Ciononostante, nel corso degli anni Cin-<br />
74 Si veda BARRY BUZAN e RICHARD LITTLE, International Systems in<br />
World History: Remaking the Study of International Relations.<br />
241<br />
Tipo di partecipazione<br />
Status non definito, ma i contratti di<br />
“production sharing” sono incoraggiati<br />
dalle autorità.<br />
Le autorità stanno considerando l’introduzione<br />
di schemi di “buy-back”.<br />
Contratti di “Exploration and Production<br />
Sharing Contract”.<br />
“Service Contract” e “Production<br />
Sharing Agreements”.<br />
Esistono diritti di concessione (fino al<br />
90% del petrolio prodotto proviene<br />
da joint venture con le compagnie<br />
nazionali del petrolio, NOCs).<br />
Tabella 5. Limiti agli investimenti internazionali in Medio Oriente. Fonte:<br />
Kalpana Kochhar et al. 2005.
quanta, alcuni economisti si convinsero dell’esistenza di strade<br />
alternative, e suggerirono ai paesi più poveri di proteggere il mercato<br />
interno, e aspettare prima di integrarsi nel mercato mondiale<br />
75. Il fallimento di queste soluzioni ha fatto sì che il consenso<br />
sui benefici del commercio internazionale si sia ben presto esteso<br />
anche ai suggerimenti per i paesi in via di sviluppo 76. Il successo<br />
del Sudest Asiatico ha screditato infatti le ultime “teorie”<br />
in supporto delle misure protezionistiche e della cautela verso<br />
l’apertura al commercio internazionale. Il successo di Singapore,<br />
Hong Kong, Taiwan, e Corea del Sud, e più recentemente di Malesia,<br />
Indonesia, Thailandia e soprattutto Cina si è infatti basato<br />
su investimenti diretti esteri ed esportazioni, smentendo così<br />
drammaticamente quanti sostenevano per questi Paesi la necessità<br />
di avviare un processo di integrazione economico domestico<br />
prima di integrarsi con l’economia globale 77.<br />
Tra gli studiosi di politica internazionale, invece, non è ancora<br />
stato trovato un consenso sufficientemente diffuso sull’argomento<br />
dell’integrazione economica. Da una parte alcuni autori<br />
hanno sottolineato come la natura hobbesiana del sistema<br />
internazionale spinga gli Stati a mostrare una certa cautela verso<br />
l’apertura economica nei confronti degli altri paesi. E ciò sarebbe<br />
spiegato dalla necessità dei singoli Stati di dover provvedere<br />
autonomamente alla propria <strong>sicurezza</strong>, necessità che richiede<br />
un limitato livello di dipendenza da altri Stati. Detto in<br />
altri termini, la teoria vorrebbe che gli Stati preferiscano non<br />
avere un guadagno assoluto derivante dalla cooperazione economica<br />
se esso è relativamente inferiore al guadagno assoluto<br />
degli altri Stati. La ragione si troverebbe appunto nel timore derivante<br />
da un (eccessivo) rafforzamento relativo degli altri attori<br />
78. Meglio, essere poveri, ma più ricchi del vicino, piuttosto che<br />
75 Si veda ad esempio RAUL PREBISCH, The Economic Development of<br />
Latin American and Its Principal Problems.<br />
76 Si veda ad esempio JEFFREY SACHS, The End of Poverty.<br />
77 GUNNAR MYRDAL, An International Economy: Problems and Prospects.<br />
78 Si veda JOSEPH. G. GRIECO, Cooperation Among Nations. Si vedano<br />
anche JOHN J. MEARSHEIMER, The Tragedy of Great Power Politics e Kenneth<br />
Waltz, Theory of International Politics.<br />
242
essere ricchi ma meno ricchi del proprio rivale – afferma questa<br />
visione. Assumendo che questa rappresentazione raffiguri realmente<br />
la realtà 79, si evince la complessità delle scelte di fronte alle<br />
quali si trovano gli Stati: se essi sono riluttanti ad integrarsi<br />
nell’economia mondiale perché in tal modo diventano dipendenti<br />
da altri Stati, allo stesso tempo sono anche scettici verso<br />
l’autonomia economica, in quanto essa non è in grado di fornire<br />
economie di scala e un mercato sufficientemente vasto da garantire<br />
crescita e benessere 80.<br />
Dall’altra parte, altri autori hanno invece abbracciato più<br />
direttamente la causa dell’interdipendenza economica, sottolineando<br />
come il commercio internazionale favorisca la cooperazione<br />
tra gli Stati e quindi riduca la loro propensione alla conflittualità<br />
81. Riprendendo in modo più o meno diretto gli argomenti<br />
di liberali classici quali Mill o Montesquieu, alcuni autori<br />
hanno sottolineato il ruolo pacifico dell’integrazione economica<br />
che, riducendo i vantaggi economici dei conflitti dovrebbe<br />
portare ad una loro sensibile riduzione, se non addirittura alla<br />
totale estinzione 82.<br />
79 Ciò non è necessariamente vero: è l’assunto di una teoria. Il dibattito<br />
su queste posizioni è molto ampio e complesso. Un ottimo riassunto si trova in<br />
DAVID A. BALDWIN, Neorealism and Neoliberalism: The Contemporary Debate.<br />
Alcuni saggi hanno rivelato come spesso gli Stati siano effettivamente più attenti<br />
ai guadagni relativi, e non a quelli assoluti, confermando quindi la visione<br />
più pessimista delle relazioni internazionali. Tra questi si veda MICHAEL MAS-<br />
TANDUNO, “Do Relative Gains Matter? America’s Response to Japanese Industrial<br />
Policy”. Per quanto riguarda invece la logica politica del settore economico,<br />
si vedano BARRY BUZAN, People, State and Fear: An Agenda for International<br />
Security Studies in the post-Cold War Era; MICHAEL SHEEHAN, International<br />
Security: An Analytical Survey; GIACOMO LUCIANI, “The Economic Content of<br />
Security”.<br />
80 Si veda a proposito BARRY BUZAN, People, State and Fear.<br />
81 Robert. O KEOHANE e JOSEPH S. NYE, jr., Power and Interdipendece:<br />
World Politics in Transitiono.<br />
82 Si vedano JOHN R. ONEAL e BRUCE RUSSETT, “The Classical Liberals<br />
Were Right: Democracy, Interdependence,and Conflict, 1950-1985”; SOLO-<br />
MON W. POLACHEK, “Why Democracies Cooperate More and Fight Less: The<br />
Relationship Between International Trade and Cooperation”; Rudolph J.<br />
Rummel, Stati Assassini.<br />
243
Figura 29. Flussi interregionali di petrolio: 2003 e 2030. Fonte: Iea 2004.<br />
La questione è certamente complessa – il fatto che gli studiosi<br />
non siano ancora giunti ad un punto di accordo ne è solo<br />
una piccola prova. Se si considera il settore energetico, appare<br />
ancora più complicata. L’energia è un fattore indispensabile<br />
per ogni economica nazionale. Per ogni Stato è dunque<br />
fondamentale garantire che le forniture di energia non vengano<br />
interrotte o non subiscano alcun ridimensionamento significativo.<br />
In generale si parla in questo caso di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
Data l’importanza che l’energia ricopre, è chiara la difficoltà<br />
che si incontra nel tentare di definire una politica <strong>energetica</strong><br />
ottimale.<br />
Essere autonomi significa molto verosimilmente ricorrere a<br />
prodotti più costosi – cosa che nel lungo termine può rappresentare<br />
una stessa fonte di in<strong>sicurezza</strong> 83. Inoltre, le risorse ener-<br />
83 Soprattutto se si ritiene che siano i vantaggi relativi a trainare le azioni<br />
degli Stati. Ciò che qui si vuole dire è che se per essere autonomi, si spendono<br />
più risorse di quanto si potrebbe fare in condizioni di mercato, allora si intacca<br />
il proprio potenziale di crescita di lungo termine, che a sua volta implica<br />
uno svantaggio relativo e quindi una possibile fonte di in<strong>sicurezza</strong>. Si vedano<br />
a proposito EDWARD H. Carr, The Twenty Years’ Crisis: An Introduction to the<br />
244
getiche sono difficilmente sostituibili nel breve termine. A fronte<br />
di quanto detto risulta evidente come possa essere assai più<br />
facile identificare una politica <strong>energetica</strong> non ottimale, piuttosto<br />
che una ottimale. Le politiche non ottimali sono numerose:<br />
tra di esse vi sono sicuramente quei provvedimenti che, intenzionalmente<br />
o no, potrebbero rallentare o bloccare la crescita<br />
economica. E tra le politiche non ottimali vi è l’illusione di potersi<br />
isolare da alcune regioni politicamente turbolente, ignorando<br />
quindi il loro ruolo economico. È questo il caso del Medio<br />
Oriente.<br />
6.6.4. Il dilemma energetico<br />
Tradizionalmente, per via della sua importanza, il settore<br />
energetico è considerato “strategico”. Per i paesi consumatori<br />
più piccoli così come per quelli più grandi, il concetto chiave in<br />
tema di politica <strong>energetica</strong> è la “<strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti,<br />
ossia, la disponibilità e la affidabilità dell’energia a prezzi<br />
ragionevoli” 84. La crisi dello Yom Kippur nel 1973, la rivoluzione<br />
Kohmeinista in Iran nel 1979, e più recentemente la politica<br />
del gas attuata della Russia contro Georgia e Ucraina (tra gli<br />
altri) esprimono chiaramente il potere di cui dispongono i paesi<br />
produttori, e quindi quanto gli approvvigionamenti di risorse<br />
siano soggetti a incertezza e volatilità, e dunque al rischio rappresentato<br />
da variabili esogene del tutto incontrollabili. La possibilità<br />
dei paesi produttori di tagliare (o limitare) le forniture di<br />
energia rappresenta infatti una seria minaccia per quelli consumatori,<br />
sia nel breve che nel lungo periodo.<br />
Da quanto detto verrebbe logicamente da concludere che<br />
una politica <strong>energetica</strong> ottimale debba mirare a garantire l’indipendenza<br />
dei paesi consumatori. La situazione, come si può immaginare,<br />
non è purtroppo di così facile soluzione. Le fonti<br />
energetiche sono difficilmente sostituibili nel breve-medio pe-<br />
Study of International Relations; ROBERT GILPIN, War and Change in World<br />
Politics; A.F.K. ORGANSKI e JACK KUGLER, The War Ledger.<br />
84 DANIEL YERGIN, “What Does ‘Energy Security’ Really Mean?”, The<br />
Wall Street Journal, 11 luglio 2006.<br />
245
iodo, e il costo di una tale politica nel lungo periodo non è contenuto<br />
(soprattutto per paesi come l’Italia che hanno abbandonato<br />
l’energia nucleare). Inoltre, il vantaggio di perseguire fonti<br />
alternative deriva dal loro costo di approvvigionamento. In ultima<br />
analisi, come i paesi europei hanno un interesse ad acquistare<br />
energia, così i paesi mediorientali hanno un interesse a venderla.<br />
Una politica che miri all’indipendenza <strong>energetica</strong> non<br />
può di conseguenza che scontrarsi con l’interesse dei paesi produttori<br />
a continuare a vendere le loro risorse energetiche. Detto<br />
in termini più semplici, abbassando il prezzo del petrolio, i<br />
paesi produttori possono facilmente “sabotare” qualsiasi strategia<br />
volta all’indipendenza <strong>energetica</strong> dei paesi europei – per i<br />
quali sarebbe particolarmente difficile sostenere costose politiche<br />
volte all’indipendenza <strong>energetica</strong> di fronte ai loro elettorati<br />
alla luce di prezzi più moderati – al di là del fatto che la manovra<br />
potrebbe anche non avere alcuna logica economica 85. A ciò<br />
si aggiungono poi problemi più pratici quali il rinnovamento di<br />
tutto l’apparato industriale (la produzione industriale di petrolio<br />
comincia alla fine dell’Ottocento, ma c’è voluto un secolo<br />
perché si imponesse sulle altre fonti) o il vantaggio derivante<br />
dalle strutture di trasporto già esistenti.<br />
Dopo la Federazione Russa, il Medio Oriente è il secondo<br />
fornitore di petrolio dell’Europa occidentale. Per quanto riguarda<br />
il futuro, secondo le proiezioni dell’Iea, il suo ruolo crescerà<br />
ancora, fino ad arrivare nei prossimi 25 anni ad essere il<br />
primo fornitore di petrolio dell’Europa. Da un punto di vista<br />
energetico, quello di Europa e Medio Oriente è dunque un futuro<br />
condiviso. L’Europa, infatti, non può pensare credibilmente<br />
di abbandonare una fonte di approvvigionamento energetico<br />
così importante. Certamente l’instabilità politica della regione<br />
potrebbe rivelarsi un fattore particolarmente problematico e negativo.<br />
Ma proprio per questo motivo, l’approccio da adottare<br />
85 Nel corso della Guerra Fredda, i paesi produttori hanno infatti sapientemente<br />
calibrato i prezzi petroliferi in modo da intervenire ogni qual volta<br />
i paesi consumatori hanno avuto l’incentivo a perseguire fonti alternative. Si<br />
veda a proposito PAUL R. KRUGMAN, Strategic Trade Policy and the New International<br />
Economics.<br />
246
dovrebbe cercare di essere pragmatico e realistico, cioè capace<br />
di reagire ad ogni eventuale crisi. Come scrive Daniel Yergin,<br />
“mercati ampi e flessibili sono lo strumento per assorbire gli<br />
shock che promuovono la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>... I mercati, con<br />
la loro decentralizzazione e la loro ingenuità, possono velocizzare<br />
gli aggiustamenti più rapidamente ed efficacemente di ogni<br />
altro approccio interventista” 86.<br />
La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, se esiste, può solo essere assicurata<br />
attraverso un aumento dell’offerta: pensare di abbandonare gli<br />
approvvigionamenti mediorientali per appoggiarsi su nuovi fornitori<br />
significa semplicemente trasferire ad un altro attore tale<br />
potere nei confronti dell’Europa. Che questo sia un passo avanti<br />
verso la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è ancora tutto da dimostrare.<br />
Per il Medio Oriente vale lo stesso ragionamento. La regione<br />
è ancora disconnessa dal resto dell’economia mondiale, e in<br />
più molti governi rendono l’integrazione con il resto del mondo<br />
ulteriormente più complicata per via del tentativo di applicare<br />
una concezione particolarmente restrittiva della religione islamica.<br />
Alla base di queste politiche vi è l’idea che il Medio Oriente,<br />
chiudendosi in se stesso, possa diventare un’oasi felice e prospera.<br />
Queste ricette sono fallite ogni volta che sono state tentate.<br />
Nonostante la ricchezza di petrolio, il Medio Oriente non<br />
sembra poter fare eccezione. D’altronde, i dati sull’analfabetismo,<br />
sulla povertà, sulla speranza e sulla qualità della vita vita<br />
non lasciano alcun margine di dubbio. La stessa Europa, che<br />
spesso a malo modo viene citata come poderoso esempio di<br />
chiusura verso l’esterno, ha potuto crescere e svilupparsi durante<br />
la Guerra Fredda grazie agli investimenti (degli) e soprattutto<br />
ai commerci con gli Stati Uniti.<br />
Proprio l’Europa, rispetto al Medio Oriente, potrebbe giocare<br />
un ruolo simile. Purtroppo, fino a questo momento, ha giocato<br />
invece un ruolo del tutto marginale, sia in termini politici<br />
che economici. In ragione della prossimità geografica, l’Europa<br />
dovrebbe dunque aumentare la sua presenza nella regione, promuovendo<br />
cooperazione economica e favorire lo sviluppo politico,<br />
economico e sociale dei singoli paesi. Allo stesso tempo<br />
86 DANIEL YERGIN, “What Does ‘Energy Security’ Really Mean?”.<br />
247
non si può negare come anche i paesi del Medio Oriente abbiano<br />
delle responsabilità. Essi dovrebbero infatti abbandonare le<br />
loro obsolete ricette economiche, ridurre gli ostacoli agli investimenti<br />
esteri e ai commerci così da creare un ambiente più prospero,<br />
seguendo l’esempio dell’Estremo Oriente.<br />
248
7.<br />
Le organizzazioni internazionali<br />
Instaurare “buoni rapporti tra le nazioni” è condizione necessaria<br />
(anche se non sufficiente) affinché si possano avere<br />
“buoni rapporti tra le imprese” e, di conseguenza, affinché si<br />
possa conseguire una ragionevole <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Per questo<br />
motivo una politica estera che abbia tra le propria finalità anche<br />
il perseguimento di una strategia <strong>energetica</strong> efficace non potrà<br />
ignorare il tema della pace e, più in generale, di un processo<br />
volto a rafforzare la concordia e a minimizzare le situazioni di<br />
crisi. Questo si applica a tutti i livelli. In altri termini, è importante<br />
che Italia ed Europa, e perfino – anche se in misura diversa<br />
– l’intero occidente (definendo in tal modo l’insieme dei paesi<br />
sviluppati, a economia capitalistica, e importatori di risorse<br />
energetiche), facciano il possibile per spegnere i focolai di tensione<br />
ed evitare i conflitti.<br />
Tuttavia, il fine dei “buoni rapporti” tra le nazioni trascende<br />
la questione della politica <strong>energetica</strong> e investe una dimensione<br />
superiore e più vasta: quella dell’ordine internazionale.<br />
7.1. Pace e libero commercio<br />
In effetti, non può esservi ordine e stabilità dei commerci al<br />
di fuori di un contesto pacifico, perché da un lato solo la pace<br />
rende possibili gli scambi, ma anche – in senso più forte – perché<br />
lo stesso diritto (quale ordine contraddistinto dalla pace) va<br />
pensato in larga misura come il risultato di un processo di negoziazione<br />
sociale e di interazioni reciprocamente vantaggiose.<br />
249
Per un acuto analista del fenomeno giuridico quale Bruno<br />
Leoni, in ogni società il diritto emerge proprio da uno scambio<br />
di pretese: in linea di massima, cioè, nel contatto con gli altri<br />
ognuno modera le proprie attese e si sforza di venire incontro<br />
alle esigenze altrui allo scopo di vedere soddisfatte le proprie<br />
esigenze primarie 1. Esiste quindi una relazione di reciproca implicazione<br />
tra commercio e pace (quest’ultima intesa anche come<br />
diritto), dato che il commercio esige la pace, ma a sua volta<br />
essa si costruisce quotidianamente attraverso l’infittirsi di relazioni<br />
e negozi 2.<br />
Durante tutto il Settecento, per gli autori di cultura illuminista<br />
il tema dell’eliminazione delle barriere doganali è tutt’uno<br />
con quello della costruzione di un mondo un po’ più pacifico.<br />
Già Montesquieu osservava che “l’effetto naturale del commercio<br />
è portare la pace. Due nazioni che negoziano tra di loro diventano<br />
reciprocamente dipendenti, se l’una ha un interesse nel<br />
comprare e l’altra nel vendere. E tutte le unioni sono basate sui<br />
bisogni reciproci” 3. Neppure si deve scordare che l’intera riflessione<br />
dello studioso francese poggiava sulla tesi che “dove vi è<br />
il commercio, là i costumi si addolciscono” 4, rilevando che l’intreccio<br />
di relazioni e interessi che si trova al cuore dell’universo<br />
degli scambi favorisce lo sviluppo di rapporti cooperativi.<br />
In Benjamin Constant questa idea attraversa l’intera opera<br />
e caratterizza specialmente De l’esprit de conquête et de l’usurpation,<br />
in cui sono anticipati taluni argomenti poi ricorrenti nella<br />
riflessione liberale, a partire dalla contrapposizione tra la moderna<br />
civiltà del commercio e l’antica barbarie della violenza:<br />
“la guerra e il commercio non sono che due mezzi diversi per ottenere<br />
il medesimo fine: possedere ciò che si desidera. Il commercio<br />
non è altro che un omaggio reso alla forza del possessore<br />
da parte di chi aspira al possesso. È un tentativo per ottenere<br />
1 Sul tema si veda BRUNO LEONI, Il diritto come pretesa.<br />
2 In ambito internazionale questo è del tutto evidente quando si pone<br />
mente alla natura e al ruolo del diritto internazionale privato elaborato attraverso<br />
gli scambi e i contratti. Un’utile lettura a tale proposito è: FRANCESCO<br />
GALGANO, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale.<br />
3 MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, libro XX, cap. 2.<br />
4 Ivi, cap. 1.<br />
250
per mutuo accordo ciò che non speriamo più di conquistare con<br />
la violenza. Un uomo che fosse sempre il più forte in ogni confronto<br />
non penserebbe mai di servirsi del commercio: è l’esperienza<br />
che – provandogli come la guerra, vale a dire l’uso della<br />
propria forza contro la forza altrui, sia esposta a varie resistenze<br />
e a vari insuccessi – lo induce a ricorrere al commercio, ossia<br />
ad un mezzo più mite e sicuro per impegnare l’interesse degli altri<br />
a consentire a ciò che conviene al suo proprio interesse. La<br />
guerra è dunque anteriore al commercio, selvaggio impulso<br />
quella, calcolo civile questo” 5.<br />
Ricollegandosi alla tradizione dei Lumi, Constant qui afferma<br />
che la pace e il commercio rendono gli uomini tra loro “compatrioti”.<br />
La sua idea è che mentre il potere tende a reificare ed<br />
irrigidire confini e barriere il più delle volte del tutto artificiali,<br />
nel libero spazio del commercio gli uomini si riconoscono come<br />
appartenenti alla medesima “famiglia umana”.<br />
Una concretizzazione storica significativa di tale ispirazione<br />
liberale, dopo Constant, si ha con l’esperienza civile di Richard<br />
Cobden, il più noto esponente del cosiddetto “liberalismo<br />
manchesteriano” 6. Il nome di questo autore è solitamente<br />
associato alla battaglia vittoriosa condotta in vista dell’abolizione<br />
dei dazi posti a protezione dei cereali prodotti in Inghilterra<br />
(una campagna politica e mediatica che, per la prima volta nella<br />
storia, coinvolse larghe masse), ma quando si esamina la produzione<br />
intellettuale di Cobden si deve constatare come la gran<br />
parte dei suoi scritti tratti in realtà temi di politica estera ed<br />
esprima una costante e documentata critica dell’imperialismo<br />
britannico. In Cobden come in larga parte del liberalismo ottocentesco,<br />
quindi, le due battaglie sono strettamente correlate: il<br />
protezionismo conduce al militarismo, e il militarismo alla guerra<br />
e alla pretesa di dominare il mondo. Viceversa, l’apertura del-<br />
5 BENJAMIN CONSTANT, De l’esprit de conquête et de l’usurpation, in Oeuvres,<br />
p. 959.<br />
6 Tale espressione, solitamente associata all’idea di un “fanatico” sostegno<br />
delle ragioni del libero scambio, si deve alla verve polemica di Karl Marx,<br />
che in varie occasioni ebbe ad attaccare “gli importuni trattatelli lanciati per il<br />
mondo dall’Anti-Corn-Law League, con in testa i fabbricanti Cobden e Bright”,<br />
KARL MARX, Il Capitale, vol. I, p. 81.<br />
251
le frontiere crea una reciproca “interdipendenza” la quale costringe<br />
a rigettare il ricorso alle armi quando chi si trova da un<br />
lato di una frontiera ha fatto enormi investimenti nell’altra nazione<br />
e quindi non ha alcuna voglia di vedere i bombardieri sorvolare<br />
i propri stabilimenti e constatare che i propri capitali rischiano<br />
di essere distrutti da un momento all’altro 7.<br />
Non molti decenni dopo, nel pieno dell’espansione coloniale<br />
britannica, contro la guerra e in difesa del libero scambio si<br />
alza la voce di Herbert Spencer, fautore della più ampia espansione<br />
delle libertà mercantili e fiero avversario del colonialismo.<br />
E posizioni analoghe assumono altri difensori del libero commercio<br />
internazionale: William G. Sumner (che avversò il conflitto<br />
tra Stati Uniti e Spagna), Vilfredo Pareto (che fu un membro<br />
attivo della Società internazionale per la pace) e Frédéric<br />
Passy (economista liberale che ottenne il premio Nobel per la<br />
pace proprio in virtù delle sue battaglie contro il militarismo).<br />
Nel corso dell’Ottocento, quindi, il liberalismo classico ha<br />
ripetutamente evidenziato che quando uno Stato si dilata e finisce<br />
per controllare in larga misura la vita economica, è fatale che<br />
si abbiano non soltanto esiti “colbertisti” e mercantilisti, ma anche<br />
che la classe politica finisca prima o poi per lanciarsi in politiche<br />
espansionistiche.<br />
Gli autori favorevoli ad evidenziare il rapporto tra pace e<br />
commercio hanno innumerevoli volte sottolineato che le stesse<br />
esperienze conosciute in Europa tra il diciannovesimo e il ventesimo<br />
secolo ci insegnano che se la vita di un paese finisce per<br />
convergere nella sola dimensione politica, lo Stato arriva a disporre<br />
di un micidiale potenziale aggressivo che, un giorno o<br />
l’altro, potrebbe essere utilizzato. La stessa vita economica finisce<br />
per essere raffigurata sempre più non come interazione tra<br />
individui, ma quale scontro tra blocchi e quella che un tempo<br />
era la libera concorrenza tra soggetti ed imprese, diventa solo un<br />
altro modo di combattersi.<br />
Per tutta la tradizione liberale esiste quindi uno stretto collegamento<br />
tra la libertà e la pace, tra la tutela dei diritti indivi-<br />
7 RICHARD COBDEN, Speeches on Questions of Public Policy by Richard<br />
Cobdeno.<br />
252
duali e il rigetto di ogni forma d’imperialismo. Non a caso,<br />
quando nel sedicesimo secolo i Paesi Bassi si sganciarono dall’impero<br />
asburgico e costruirono una società largamente basata<br />
sulla tolleranza e sul libero scambio, il loro motto era “Commercium<br />
et pax”. E qualcosa di simile si può dire per l’America delle<br />
origini, un paese nato ugualmente a seguito di una guerra<br />
d’indipendenza, la quale fu pure una lotta contro la fiscalità eccessiva,<br />
l’uso arbitrario del potere, l’erosione dei diritti individuali.<br />
Per giunta, l’esplosione delle grandi guerre novecentesche<br />
coincide con la crisi del liberalismo europeo e con il ritorno<br />
(si pensi al cancelliere Bismarck) a politiche dirigiste, determinate<br />
a nazionalizzare la vita produttiva e a fare dell’economia<br />
– parafrasando Clausewitz – soltanto un altro modo di combattersi<br />
8.<br />
L’autore che forse meglio di altri ha saputo tirare tutte le<br />
conseguenze da questa vicenda storica e intellettuale è Joseph<br />
Schumpeter, nei cui scritti è forte la sottolineatura del fatto che<br />
nei paesi capitalisti vige un’opposizione di principio alla guerra.<br />
Se per Lenin nelle logiche di mercato si annida una naturale predisposizione<br />
al dominio, e il capitalismo implicherebbe per sua<br />
natura l’imperialismo, all’indomani della Grande Guerra<br />
Schumpeter riflette sulla tragedia che ha distrutto definitivamente<br />
il vecchio mondo, e in tali pagine egli rovescia la tesi leninista<br />
evidenziando come il mondo degli affari abbia al contrario<br />
una naturale predisposizione (e un ovvio interesse) alla difesa<br />
di un ordine internazionale pacifico 9.<br />
Spesso si è detto che vi sono taluni imprenditori (quanti<br />
producono armi, in particolare) che vedono nei conflitti grandi<br />
occasioni di guadagno. Si tratta di un dato tanto inequivocabile<br />
8 Utili intuizioni sul tema si ritrovano anche in quell’acuto intellettuale<br />
che fu Guglielmo Ferrero, che a causa del suo antifascismo morirà nel 1944 in<br />
esilio a Ginevra. Quando alla fine del diciannovesimo secolo egli tiene una serie<br />
di conferenze sull’emergere in Europa del militarismo, la polemica contro<br />
il nuovo regime prussiano muove in lui anche dalla consapevolezza di quanto<br />
possa essere pericolosa la miscela tra interventismo economico e nazionalismo<br />
politico. Si veda GUGLIELMO FERRERO, Il militarismo.<br />
9 JOSEPH SCHUMPETER, Sociologia dell’imperialismo. Si veda anche LO-<br />
RENZO INFANTINO, Sociologia dell’imperialismo: interpretazioni liberali.<br />
253
quanto sostanzialmente marginale, che soltanto il trionfo epocale<br />
del materialismo dialettico, con la sua pretesa di leggere la<br />
realtà nei termini del rapporto struttura-sovrastruttura e di far<br />
derivare ogni cosa (e quindi anche la politica) dai rapporti economici,<br />
può aver condotto a sopravvalutare.<br />
Se si eccettuano taluni specifici settori, bisogna prendere<br />
consapevolezza che l’economia di mercato nel suo insieme considera<br />
le guerre semplicemente una minaccia, dato che in caso<br />
di conflitto non soltanto gli scambi internazionali si riducono,<br />
ma al tempo stesso crescono la tassazione, gli espropri, l’inflazione.<br />
Richiamando la rappresentazione duméziliana dei tipi<br />
fondamentali della società, è infatti evidente che il trionfo dei<br />
guerrieri è destinato a segnare il declino dei mercanti.<br />
Al contrario, allo scopo di espandersi l’economia di mercato<br />
esige un ordine pacifico che permetta la piena circolazione<br />
degli attori economici e l’instaurazione di relazioni d’affari tra<br />
chiunque sia interessato a ciò. Perché questo sia possibile è perciò<br />
necessario ridurre ogni ragione di tensione. Non vi è nulla di<br />
sorprendente, allora, se anche nel Novecento la sparuta pattuglia<br />
di economisti rimasti affezionati alle idee liberali abbia coniugato<br />
strettamente i mercati aperti e la pace.<br />
Secondo Wilhelm Röpke (maestro di Ludwig Erhard e<br />
quindi ispiratore del boom economico della Germania post-bellica),<br />
dato che “soltanto lo stato di guerra crea le premesse psicologiche<br />
nelle quali il collettivismo può imporsi” è facile comprendere<br />
come esista un “desiderio irresistibile del governo collettivista<br />
di facilitarsi il compito cercando di provocare lo stato<br />
di guerra tanto favorevole al collettivismo” 10. Nato dalla guerra,<br />
lo Stato totale e aggressivo ricerca i conflitti come straordinarie<br />
opportunità per espandersi e consolidarsi.<br />
Lo stesso argomento si ritrova in Ludwig von Mises: “non<br />
la guerra ma la pace è madre di tutte le cose. L’unica cosa che fa<br />
progredire l’umanità e la distingue dal mondo animale è la cooperazione<br />
sociale. Solo il lavoro costruisce, crea ricchezza e pone<br />
così le basi materiali del progresso spirituale dell’uomo... Il<br />
pieno sviluppo della divisione del lavoro è possibile solo se vi è<br />
10 WILHELM RÖPKE, Civitas Humana, pp. 25-26.<br />
254
la garanzia permanente di una convivenza pacifica” 11. La divisione,<br />
anche internazionale, del lavoro è alla base dello sviluppo,<br />
economico e non solo. Per contro, c’è un nesso molto forte<br />
tra protezionismo e guerra: se non altro, nel senso che per due<br />
paesi privi di legami economici, scendere in guerra è meno costoso,<br />
perché le rispettive economie patiscono solo i danni diretti<br />
della guerra, ma non quelli indiretti derivanti dalla perdita<br />
o dall’allentamento degli affari reciproci. “Per non distruggere<br />
la pace – prosegue Mises – occorre eliminare l’interesse a fare la<br />
guerra” 12. L’interdipendenza ha esattamente questo risultato: e<br />
in questo senso, ai suoi rischi corrispondono enormi opportunità.<br />
Se vista in tali termini, la richiesta di autosufficienza o indipendenza<br />
<strong>energetica</strong> non diventa solo una politica inefficiente<br />
dal punto di vista meramente economico: diventa anche una<br />
scelta pericolosa sul piano prettamente politico. Viceversa, l’integrazione<br />
economica produce diversi effetti. Il primo e più ovvio<br />
è lo spostamento delle attività laddove la produttività è maggiore.<br />
Tale movimento è tanto più efficace quanto minori sono<br />
le barriere legali che lo ostacolano. Esso non determina (solo)<br />
una potenziale riduzione dei posti di lavoro nel paese che “perde”<br />
l’attività in questione (peraltro potenzialmente compensato<br />
dal rafforzamento di altre industrie): determina anche un abbassamento<br />
dei costi dei prodotti la cui produzione è migrata, e<br />
quindi favorisce tutti. In particolare spinge gli abitanti del paese<br />
A ad acquistare beni e servizi prodotti nel paese B. Il secondo<br />
effetto di questo cambiamento è che concetti quali quello di<br />
mercato “interno” ed “esterno” perdono valore, o diventano meno<br />
importanti.<br />
Quando Mises rifletteva su questi temi, nel 1927, il mondo<br />
era diviso da steccati inamovibili che l’avrebbero presto<br />
precipitato nel turbine della guerra. L’Europa, in particolare,<br />
fu talmente ferita dal conflitto che, una volta uscitane, decise<br />
di porre le basi per una via del tutto diversa: “voltando le spalle<br />
alla guerra – ricorda Lord Harris – le sei nazioni fondatrici<br />
si costrinsero a creare la Cee come una singola comunità eco-<br />
11 LUDWIG VON MISES, Liberalismo, pp. 54-57.<br />
12 Ivi, p. 163.<br />
255
nomica senza barriere interne. Nazioni che per centinaia di<br />
anni avevano combattuto l’una contro l’altra con gli eserciti e<br />
che si erano scontrate in guerre commerciali all’insegna dell’<br />
‘impoverire-il-mio-vicino’, alla fine si garantivano reciprocamente<br />
una pacifica cooperazione economica. Il fine era politico,<br />
cioè la pace; il metodo era principalmente economico, cioè<br />
il libero mercato” 13. Il fine, per ora, è stato raggiunto. Il completamento<br />
del mercato interno è ancora lontano, eppure quel<br />
che è stato fatto ha determinato un’autentica rivoluzione nei<br />
rapporti tra i paesi europei: gli odi che una volta scatenavano<br />
guerre sono ormai ridotti a materiale per le barzellette, o poco<br />
più.<br />
Uno sforzo simile è ora necessario rispetto a una base più<br />
ampia: mentre l’Europa deve tagliare un traguardo che è in vista,<br />
anche se difficile da raggiungere, è opportuno che una strategia<br />
simile, di coraggiosa apertura, venga perseguita rispetto ad<br />
altri paesi, a partire da quelli che già hanno con l’Ue forti legami<br />
commerciali. Questa tensione verso la pace non dipende da<br />
un idealismo cieco o da un pacifismo acritico: deriva dalla constatazione<br />
che la pace conviene o, per dirla in altri termini, la pace<br />
è economicamente efficiente.<br />
Tale ragionamento generale non è privo di riflessi sul fronte<br />
della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Se le risorse energetiche sono commodities<br />
come le altre, allora non c’è ragione di assoggettarle a<br />
regole diverse da quelle del libero scambio che, pur tra molti<br />
contraddizioni, si stanno affermando, dentro e fuori l’Europa,<br />
su quasi tutti i fronti. Se invece l’energia è un capitolo a parte,<br />
un settore strategico, un input essenziale al funzionamento dell’economia<br />
dei paesi sviluppati e alla crescita di quelli in via di<br />
sviluppo, allora a maggior ragione va sottratta alla logica nazionalistica<br />
che, erigendo barriere, crea inefficienze economiche,<br />
aumenta i costi, introduce rigidità e, in ultima analisi, genera in<strong>sicurezza</strong>.<br />
13 RALPH HARRIS, “L’Unione Europea sopravviverà?”, in ENRICO CO-<br />
LOMBATTO e ALBERTO MINGARDI (a cura di), Il coraggio della libertà, p. 248.<br />
256
7.2. Il libero commercio può bastare?<br />
Le tesi liberali sul rapporto tra pace e commercio (e quindi<br />
anche tra pace e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>) sono state ampiamente criticate:<br />
e non solo da posizione marxiste. L’ottimismo del liberalismo<br />
di matrice illuminista di fronte alle virtù del commercio è stata<br />
molto contestato, in particolare, da quanti ritengono ingenuo<br />
illudersi che un mercato senza frontiere possa bastare a costruire<br />
un mondo più pacifico. Uno dei maestri della cosiddetta “scuola<br />
realista” nell’ambito delle relazioni internazionali, Hans J. Morgenthau,<br />
ha criticato duramente il pacifismo liberale sostenendo<br />
che “la lotta per la potenza è universale in senso temporale e spaziale<br />
ed è un fatto empirico innegabile” 14. La sua tesi è che sia illusorio<br />
pensare di contenere i conflitti dato che essi sono parte<br />
essenziale della realtà umana e sociale, tanto più che per ottenere<br />
questo risultato bisognerebbe affrancare al tempo stesso l’intera<br />
umanità 15. Altri autori ammettono che possa essere fondata<br />
la tesi secondo cui l’interdipendenza economica sia in grado di<br />
fare aumentare la conoscenza reciproca, ma esprimono scetticismo<br />
in merito al fatto che questo debba portare necessariamente<br />
ad una posizione di reciproco rispetto. In fondo, con un aforisma<br />
senza dubbio assai efficace, già Ennio Flaiano aveva rilevato che<br />
“se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più”.<br />
Oltre a ciò, non manca chi sottolinea come l’interdipendenza<br />
economica possa diventare essa stessa fattore di tensioni e<br />
14 HANS J. MORGENTHAU, <strong>Politica</strong> tra le nazioni, p. 55. Rilevare che la<br />
guerra è più o meno ovunque e c’è sempre stata può apparire un’affermazione<br />
di buon senso, ma non dà ragione del fatto che vi sono state età più o meno<br />
violente, e che anche oggi vi sono aree più segnate dai conflitti e altre invece<br />
in cui le nazioni intrattengono rapporti sostanzialmente pacifici. Anche se<br />
non può esser questa l’occasione per approfondire il tema, è poi necessario rilevare<br />
la fragilità metodologica di un’impostazione così piattamente empirista.<br />
Per una critica radicale al ricorso all’identificazione tra conoscenza e induzione<br />
si veda ad esempio KARL R. POPPER, Congetture e confutazioni. Una prospettiva<br />
radicalmente alternativa, basata su apriori e deduzione, si trova in:<br />
LUDWIG VON MISES, Human Actiono.<br />
15 “Sarebbe inutile, e perfino autolesionistico, liberare l’uno o l’altro popolo<br />
della terra dalla brama di potenza, lasciandola intatta in tutti gli altri”,<br />
HANS J. MORGENTHAU, <strong>Politica</strong> tra le nazioni, p. 56.<br />
257
conflitti. Se l’Europa occidentale – ad esempio – dipende dagli<br />
idrocarburi provenienti dall’area russa, e se Mosca può utilizzare<br />
queste risorse all’interno di una più generale strategia di dominio,<br />
allora è evidente come una crescita del commercio e della<br />
dipendenza sia ben lungi dal porre le condizioni per la pace e<br />
per relazioni amichevoli. Una simile integrazione potrebbe aumentare<br />
le ragioni di scontento e contrapposizione. Infine, non<br />
manca neppure chi – sulla scorta della lezione di Carl Schmitt,<br />
in particolare – rileva come la società liberale abbia una propria<br />
vocazione per la pace, ma solo per evidenziare che tale rigetto<br />
ideologico della guerra espresso dalla modernità liberale finisce<br />
per aprire la strada a guerre senza paragoni con i conflitti del<br />
passato: le quali, poiché negano ogni legittimità al conflitto, finiscono<br />
per veder nel nemico non già un hostis, ma un inimicus.<br />
Non un avversario da combattere nel rispetto della sua dignità,<br />
ma invece un nemico da distruggere e cancellare.<br />
L’Altro (diverso da noi per nazione, cultura, religione) non<br />
è più un soldato che combattiamo secondo quelle regole che<br />
perfino la guerra include, ma diventa un oppositore ideologico<br />
a cui neghiamo ogni riconoscimento. Per giunta, questo inimicus<br />
è ancor più inaccettabile nel momento in cui mantiene viva<br />
la possibilità della guerra: non abbracciando l’ideologia liberale-pacifista,<br />
egli diventa un soggetto hors la loi, hors l’humanité,<br />
che può solo essere annientato 16. Per Schmitt e per quanti si rifanno<br />
a lui, il pacifismo di Constant e della tradizione liberale<br />
classica avrebbe quindi aperto la strada alla guerra totale e alle<br />
barbarie del ventesimo secolo.<br />
Tutte queste analisi vanno prese sul serio: e all’interno di tali<br />
riflessioni vi sono elementi fondati, sebbene il più delle volte<br />
confusi tra molti equivoci e gravi fraintendimenti. Innanzi tutto<br />
è bene sgombrare il campo da un’ipotesi assolutamente indifendibile,<br />
che nessun serio fautore del rapporto tra commercio internazionale<br />
e pace ha mai avanzato: quella che sia sufficiente<br />
aprire i mercati ed eliminare i dazi doganali perché la guerra<br />
possa venire definitivamente sconfitta.<br />
16 Sul tema si veda CARL SCHMITT, Le categorie del “politico”.<br />
258
Questa tesi si può certamente ritrovare qua e là (una nota<br />
espressione si deve a Pierre-Joseph Proudhon 17, ad esempio),<br />
ma non può essere in alcun modo accolta. La pace è sempre il<br />
risultato di un processo articolato: è il frutto di dimensioni spirituali<br />
e culturali, oltre che di accorgimenti istituzionali e processi<br />
storici. Per uscire da una situazione di conflitto e poi, negli<br />
anni successivi, per riuscire a mantenere un ordine fondato<br />
sulla cooperazione e sul rispetto reciproco servono molteplici<br />
componenti. Un’economia aperta e il venir meno di ogni forma<br />
di “militarizzazione” della vita produttiva possono giocare un<br />
ruolo importante, ma sicuramente non possono mai bastare.<br />
In secondo luogo, la pace di cui qui si discute non è la pace<br />
definitiva (ora e per sempre) e universale (tra tutti gli uomini)<br />
che caratterizza le posizioni più “idealiste” all’interno della<br />
riflessione filosofica e politologica. Non vi è affatto identità tra<br />
la linea che conduce da Cobden a Mises, e quella interpretata<br />
prima da Immanuel Kant ne La pace perpetua e poi variamene<br />
ripresa. Per giunta, la pace ricercata anche attraverso l’ampliamento<br />
della cooperazione economica e dell’integrazione culturale<br />
non può essere una pace disarmata. L’obiezione di Morgenthau<br />
secondo cui contenere “la brama di potenza” avrebbe<br />
senso solo se ciò avvenisse a livello globale, contemporaneamente<br />
e per tutti gli Stati, confonde l’ingiusto ed illiberale desiderio<br />
di dominare gli altri e il più che legittimo (e anzi doveroso) impegno<br />
a costruire un apparato protettivo che scongiuri quanto<br />
più è possibile ogni forma di aggressione.<br />
Qui come sempre, pare che il miglior modo per avere dialetticamente<br />
ragione dell’avversario consista nel darne una rappresentazione<br />
parodistica. Se il liberalismo classico pensasse<br />
che sia sufficiente aprire qualche mercato per eliminare la guerra<br />
dall’orizzonte della storia, non varrebbe neppure la pena di<br />
prendere in considerazione simili tesi. Ma le cose non stanno<br />
così.<br />
17 Il noto autore socialista ebbe infatti ad affermare: “Sopprimiamo le tariffe,<br />
e l’alleanza tra i popoli verrà così dichiarata, la loro solidarietà riconosciuta,<br />
la loro uguaglianza proclamata”, PIERRE-JOSEPH PROUDHON, Oeuvres<br />
complètes, vol. I, p. 248.<br />
259
In un suo lavoro dedicato ad esaminare il rapporto tra ordine<br />
politico e libero commercio, Filippo Andreatta ha esaminato<br />
le relazioni internazionali alla luce dei problemi posti da<br />
un’economia sempre più integrata 18. Il testo si propone di superare<br />
la teoria liberale tradizionale, ma anche il realismo degli autori<br />
persuasi che l’aumento dell’integrazione economica possa<br />
produrre un’accresciuta conflittualità. Largamente basato su<br />
un’impostazione empirica, il lavoro sostiene che l’interdipendenza<br />
economica possa, a seconda delle circostanze, aumentare<br />
le occasioni di tensione, ma anche le possibilità di cooperazione.<br />
D’altra parte, dobbiamo prendere atto che “globalizzazione”<br />
e “interdipendenza economica” sono nozioni assai vaghe e<br />
se non le si definisce chiaramente è facile trovarsi a fare i conti<br />
con troppi fraintendimenti.<br />
In questo senso, va sottolineato che la prospettiva più coerentemente<br />
liberale – da Cobden a Mises – non si limita ad auspicare<br />
un crescente intreccio tra le differenti economie, ma suggerisce<br />
che ciò avvenga sulla base di accordi volontariamente<br />
scelti da parte di consumatori, imprese e altre realtà private. Sono<br />
queste intese realizzate dagli attori economici che vengono<br />
ritenute, da ogni partecipante, certamente vantaggiose a integrare<br />
nel migliore dei modi (e in forma pacifica) le differenti società<br />
e culture. In questo senso è importante che il processo di<br />
integrazione veda proprio protagonisti consumatori e imprese,<br />
assai più che istituzioni politiche nazionali o internazionali. La<br />
tesi di Andreatta secondo cui il commercio non sempre favorisce<br />
la pace è tanto più vera quanto più i sistemi economici che<br />
sono interessati a questa crescente integrazione non sono sistemi<br />
economici a potere diffuso, ma invece sono in larga misura<br />
controllati dall’apparato politico-burocratico. Due economie<br />
pianificate basate sulla monocultura che decidessero di “integrarsi”<br />
grazie ad intese tra i loro ministri dell’economia (ad<br />
esempio, cedendo zucchero in cambio di caffè) poco avrebbero<br />
a che fare con quanto al centro di questa riflessione.<br />
Un’analoga chiarificazione delle tesi e dei concetti che si intendono<br />
prendere in esame è necessaria anche per affrontare le<br />
18 FILIPPO ANDREATTA, Mercanti e guerrieri.<br />
260
obiezioni provenienti dal “realismo politico” di tradizione schmittiana<br />
19. Come già si è detto, difendere il nesso tra mercato e<br />
pace (e viceversa) non significa affatto abbracciare una prospettiva<br />
pacifista, che neghi ogni legittimità alle guerre volte respingere<br />
gli aggressori, alle armi, ai sistemi di difesa. Per tanti aspetti,<br />
uno dei testi fondanti della tradizione liberale classica è The<br />
Proclamation on Neutrality, promulgata dal presidente (già generale)<br />
George Washington il 22 aprile 1793, mentre l’Europa<br />
stava precipitando in una più che decennale lotta contro l’imperialismo<br />
francese. Questo documento è perfettamente in linea<br />
con le tesi già espresse dallo stesso Thomas Jefferson, l’uomo<br />
che più di tutti ha contributo a definire l’americanismo stesso 20.<br />
Per Jefferson, infatti, l’America uscita dalla Rivoluzione del<br />
1776 doveva intrattenere rapporti di “pace, commercio ed onesta<br />
amicizia con tutte le nazioni, senza stringere alleanza con nessuna<br />
di esse” 21; e, soprattutto, senza intromettersi negli affari altrui.<br />
Per i Padri fondatori della nazione americana, insomma,<br />
non si trattava certo di abolire l’esercito, ma più semplicemente<br />
di evitare ogni indebita intromissione negli affari altrui. La politica<br />
estera americana doveva solo preoccuparsi di proteggere<br />
da eventuali minacce esterne e di favorire la migliore cooperazione<br />
con tutti. Per costruire concretamente la pace bisogna<br />
quindi evitare l’utopia (irresponsabile) del pacifismo radicale e<br />
per questo motivo anche rifuggire dall’illusione che si possa eliminare<br />
la possibilità stessa della guerra: proprio perché tale prospettiva<br />
facilmente apre la strada alla costruzioni di “nemici assoluti”.<br />
Più modestamente, i fautori del commercio internazionale<br />
credono che ogni società possa trarre beneficio dall’arrivo di<br />
merci, servizi e informazioni. Se l’Occidente conoscesse meglio<br />
19 Si veda, ad esempio, ALESSANDRO COLOMBO, “Guerra e commercio:<br />
alle radici di un’utopia”.<br />
20 Come ha scritto Luigi Marco Bassani nella sua monografia, Jefferson<br />
fu “l’inventore stesso del termine americanismo”, oltre che “il padre fondatore<br />
più studiato, affascinante e rappresentativo di un’intera epoca”, LUIGI MAR-<br />
CO BASSANI, Jefferson. Un profilo intellettuale, p. 12.<br />
21 SELIG ADLER, The Isolationist Impulse: Its Twentieth-Century Reaction,<br />
pp. 10-11; il corsivo è aggiunto.<br />
261
l’Iran e questi conoscesse meglio il nostro mondo, la possibilità<br />
(almeno nel medio-lungo termine) di relazioni pacifiche e cooperative<br />
diverrebbe più concreta. Come detto, molti obiettano che<br />
la conoscenza può anche generare nuove occasioni di tensione; e<br />
in parte ciò è vero. Ma è un’alternativa credibile l’ignoranza reciproca?<br />
Ritenere (illuministicamente) che la conoscenza possa<br />
sempre e comunque eliminare ogni ragione di tensione esprime<br />
un’ingenuità indifendibile, ma il suo opposto è perfino peggio.<br />
Al contrario, è abbastanza ragionevole attendersi che in società<br />
tra loro permeabili sia più facile per tutti riconoscere quanto<br />
vi è di interessante, valido e meritevole all’interno di una cultura<br />
anche molto diversa dalla nostra. Se grazie ai processi di globalizzazione<br />
avviati dal secondo dopoguerra oggi vi sono milioni<br />
di giapponesi che amano Mozart e milioni di americani innamorati<br />
del vino e della cucina italiani, perché si dovrebbe escludere<br />
la possibilità che una migliore conoscenza dei differenti sistemi<br />
giuridici e istituzionali non possa aiutare gli uomini di ogni<br />
società ad evolvere verso ordinamenti migliori? La realtà della<br />
concorrenza istituzionale è un fatto di incredibile rilevanza, il<br />
quale è costantemente alimentato da quel processo di circolazione<br />
delle idee e delle informazioni che accompagna ogni apertura<br />
dei mercati nazionali. Per giunta, quanti hanno difeso la sintonia<br />
tra i mercati aperti e un ordine internazionale pacifico<br />
l’hanno sempre fatto nella consapevolezza di poter contribuire a<br />
comporre piccoli tasselli di un mosaico più ampio. Per Cobden,<br />
abolire i dazi che impedivano alle merci spagnole o francesi di<br />
traversare la Manica poteva giovare forse anche agli equilibri internazionali<br />
nel loro complesso, ma soprattutto avrebbe giovato<br />
ai rapporti tra i cittadini britannici e i paesi europei più vicini.<br />
Così le obiezioni schmittiane possono essere efficaci di<br />
fronte ai “costruttori” di un ordine internazionale idealisticamente<br />
inteso, spesso destinato a produrre effetti perversi e soluzioni<br />
inattese, del tutto inintenzionali. Ma quando invece Schmitt<br />
contrappone la visione moderna della pace (assoluta e<br />
astratta) a quella che era la concezione di tipo medievale, egli interpreta<br />
una prospettiva tutt’altro che lontana dalle tesi liberali.<br />
Prima della modernità e della sua volontà di neutralizzare e<br />
uniformare, in effetti, la pace “non era un concetto generale,<br />
262
normativo e privo di riferimento spaziale, ma un concetto sempre<br />
localizzato concretamente, in quanto pace di un regno, di un<br />
paese, di una chiesa, di una città, di un castello, di un mercato,<br />
di una ‘realtà’” 22. Sembra qui riconoscibile più di un punto di<br />
contatto con l’isolazionismo dell’America di fine Settecento,<br />
che non s’illudeva di salvare il mondo, ma più modestamente si<br />
proponeva di tenere gli ex-coloni fuori dai conflitti europei e garantire<br />
– per quanto possibile – una loro piena possibilità di tenere<br />
vivi i commerci e le relazioni culturali con tutte le nazioni<br />
travolte dal conflitto del Vecchio Continente.<br />
Quello espresso dai fautori del commercio internazionale è<br />
quindi una forma di idealismo realista, basato su una serie di tesi<br />
assai semplici e direttamente concatenate: l’idea che la civiltà<br />
esige il pieno dispiegarsi degli scambi e che le relazioni commerciali<br />
hanno necessità di un ordine di pace; che la pace si costruisce<br />
localmente e relazionalmente grazie ad una serie di contributi<br />
diversissimi 23, ma questi piccoli e grandi apporti sono facilitati<br />
da frontiere aperte e permeabili, e da società civili e sistemi<br />
di mercato quanto più è possibile sottratti a controlli e pianificazione;<br />
che a questo obiettivo possono dare un contributo<br />
fondamentale attori apparentemente non politici quali, appunto,<br />
gli uomini d’affari e le imprese.<br />
Secondo la lezione di Bruno Leoni, una società libera richiede<br />
che diritto e politica emergano da uno scambio di pretese<br />
(nel caso dell’ordine giuridico) e di poteri (nel caso dell’ordine<br />
politico). Questo significa che l’elaborazione di relazioni internazionali<br />
sempre più rette dal diritto, e quindi pacifiche, può<br />
trarre enormi benefici dall’infittirsi di interazioni: anche e forse<br />
in primo luogo di tipo economico.<br />
D’altra parte in ogni società, quale sia il suo ordinamento, i<br />
governanti non dispongono che di una quota del potere politico<br />
e per questo essi devono costantemente rispondere di ciò che<br />
22 CARL SCHMITT, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “jus<br />
publicum europaeum”, p. 42.<br />
23 Anche un’orchestra sinfonica composta da giovanissimi musicisti<br />
ebrei e palestinesi, quale è la West-Eastern Divan Orchestra creata da Daniel<br />
Baremboim, può a suo modo contribuire a ciò.<br />
263
fanno di fronte a molti altri soggetti. Ci si trova di fronte ad uno<br />
scenario al cui interno anche lo spazio del “potere” è definito da<br />
una costante contrattazione sociale dei diversi soggetti: ognuno<br />
dei quali portatore di istanze e diversamente dotato della capacità<br />
d’incidere sul reale. La riflessione di Leoni mira ad evidenziare<br />
come l’universo della politica non possa essere sottratto<br />
dal proprio contesto sociale; e se questo è vero entro i contesti<br />
nazionali, è ugualmente vero di fronte allo spazio sociale e giuridico<br />
internazionale. Ma proprio per questo è necessario che<br />
prenda corpo una rete di relazioni culturali, sociali, religiose e<br />
(certamente) anche economiche che ponga le premesse per questo<br />
genere di quotidiane negoziazioni di pretese e poteri.<br />
Una politica mirante alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> non può allora<br />
ignorare le ragioni di un impegno autentico per la pace (specie<br />
nelle aree cruciali per l’approvvigionamento degli idrocarburi),<br />
ma comprendendo pure come una strategia diplomatica<br />
efficace di fronte a tale questione debba riconoscere la più alta<br />
dignità e piena libertà d’azione ai nuovi Marco Polo del mondo<br />
futuro che si va costruendo.<br />
È anche in virtù di questa consapevolezza che, contrariamente<br />
a quanto vorrebbe la vulgata, le imprese operanti nel<br />
campo dell’energia hanno sempre vissuto con insofferenza le<br />
escalation belliche che hanno caratterizzato parte della storia<br />
dell’ultimo secolo 24. Eppure, se si vuole uscire dall’attuale crisi<br />
– le cui cause vanno cercate nei mancati investimenti delle imprese<br />
durante l’epoca del cheap oil così come nell’imprevedibile<br />
crescita della domanda delle economie emergenti, nel deficit<br />
di integrazione dei mercati regionali e globali come nella chiusura<br />
di molti paesi produttori – bisogna prendere atto del fatto<br />
che prima di tutto occorre costruire un panorama pacifico nel<br />
quale le imprese siano incentivate a investire, e dal quale possano<br />
ottenere quel grado minimo di certezza che è indispensabile<br />
perché lo facciano. Secondo Clô, “la sfida che il mondo si trova<br />
di fronte è come garantire un flusso di investimenti necessario<br />
ad assicurare una piena aderenza tra domanda potenziale ed offerta<br />
incrementale. Un flusso oggi molto inferiore al fabbisogno<br />
24 Si veda DAVID R. HENDERSON, “Do We Need to Go to War For Oil?”.<br />
264
di investimenti. La pace internazionale, non è retorica dirlo, è il<br />
presupposto imprescindibile per vincere la sfida <strong>energetica</strong> e<br />
per la ripresa degli investimenti. Gli anni Ottanta e Novanta furono<br />
gli anni del via dal petrolio del Medio Oriente. Quelli 2000<br />
si prefigurano come gli anni del ritorno al petrolio del Medio<br />
Oriente. La domanda mondiale è prevista aumentare del 50 per<br />
cento entro il 2030. Di questa l’80 per cento dovrà gioco forza<br />
provenire dal Medio Oriente. L’Occidente è costretto alla pace:<br />
nel suo stesso interesse. La risposta sta nella politica che sappia<br />
essere di cooperazione e non di contrapposizione per tutti controproducente”<br />
25. Se dunque la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è parte della<br />
più generale necessità di costruire la pace, essa ha una dimensione<br />
prettamente politica che esula dal suo lato economico, pure<br />
fondamentale. Questo ha due conseguenze. La prima è che la<br />
sfida <strong>energetica</strong> si gioca in misura significativa anche sul palcoscenico<br />
politico: le negoziazioni internazionali hanno importanza.<br />
Secondariamente, i progressi politici – se ci sono e per essere<br />
realmente tali – non devono contraddire le esigenze economiche.<br />
Devono anzi esserne determinati. L’adozione di obiettivi<br />
idealistici, irrealistici, o desiderabili solo all’apparenza – come<br />
l’autosufficienza <strong>energetica</strong> o l’eliminazione dei combustibili<br />
fossili e dunque della dipendenza dai paesi produttori – è una<br />
cura peggiore del male. La convinzione poi che tali traguardi<br />
debbano essere perseguiti “a ogni costo” è una miscela micidiale,<br />
perché sposta l’intero dibattito su un piano che è incommensurabile,<br />
sul quale non è possibile effettuare valutazioni dei costi<br />
e dei benefici e dunque le decisioni vengono prese sulla base<br />
di diktat ideologici, che poco o nulla hanno a che fare con la ragione.<br />
Piuttosto, il tema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dovrebbe trovare<br />
uno spazio sempre maggiore in tutte le sedi internazionali,<br />
in maniera da rappresentare uno dei pilastri di una strategia di<br />
pacifica cooperazione e sviluppo tra le nazioni del mondo. Alcune<br />
sedi sono snodi chiave nell’elaborazione di una road map<br />
funzionale e percorribile.<br />
25 ALBERTO CLÔ, “La questione <strong>energetica</strong> tra mercato e politica”, in<br />
AA.VV., Il futuro dell’energia, p. 58.<br />
265
7.3. Il G8<br />
La riunione del G8 del 15-17 luglio 2006 rappresenta un importante<br />
punto di svolta principalmente per due ragioni: per la<br />
prima volta un evento simile si è tenuto in Russia (unico paese<br />
esportatore netto di risorse energetiche rappresentato), e per la<br />
prima volta la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è stata costantemente sotto i riflettori,<br />
rappresentando anzi il tema più importante tra quelli discussi.<br />
I leader degli otto paesi più industrializzati – rappresentativi<br />
del 49 per cento dell’export globale e del 49 per cento degli asset<br />
nel Fondo monetario internazionale – hanno adottato una dichiarazione<br />
congiunta nella quale riconoscono che “la natura globale<br />
di queste sfide e la crescente interdipendenza tra paesi produttori,<br />
consumatori e di transito richiede una più forte collaborazione<br />
tra tutti gli stakeholder per migliorare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
globale. Siamo d’accordo sul fatto che lo sviluppo di mercati<br />
globali dell’energia trasparenti, efficienti e competitivi sia il modo<br />
migliore per perseguire i nostri obiettivi. Riconosciamo che anche<br />
i governi e le organizzazioni internazionali rilevanti giocano un<br />
ruolo importante nel rispondere alla sfida <strong>energetica</strong> globale” 26.Il<br />
G8 ha stabilito undici principi sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> globale:<br />
• Una forte crescita economica globale, un effettivo accesso<br />
al mercato, e investimenti in tutta la filiera dell’energia;<br />
• Mercati aperti, trasparenti, efficienti e competitivi per i servizi<br />
di produzione, offerta, uso, trasmissione e transito dell’energia;<br />
• Cornici legali e regolatorie trasparenti, eque, stabili ed efficaci,<br />
inclusi l’obbligo di rispettare i contratti, e generare investimenti<br />
internazionali sufficienti e sostenibili nell’upstream e<br />
nel downstream;<br />
• Un migliore dialogo sulle prospettive degli stakeholder rilevanti<br />
sulle questioni della crescente interdipendenza e<br />
sulla <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti e della domanda;<br />
• Diversificazione degli approvvigionamenti e della domanda<br />
energetici, delle fonti di energia, dei mercati geografici e<br />
settoriali, delle vie di transito e dei mezzi di trasporto;<br />
26 http://eno.g8russia.ru/docs/11.html.<br />
266
• Promozione di misure sul risparmio e l’efficienza <strong>energetica</strong><br />
attraverso iniziative a livello nazionale e internazionale;<br />
• Sviluppo e uso dell’energia ragionevoli dal punto di vista<br />
ambientale, e adozione e trasferimento di tecnologie di<br />
energia pulita che aiutino ad affrontare il mutamento del<br />
clima;<br />
• Promozione della trasparenza e della buona governance nel<br />
settore energetico per scoraggiare la corruzione;<br />
• Risposte cooperative elle emergenze energetiche, incluso<br />
una pianificazione coordinata delle riserve strategiche;<br />
• Salvaguardia delle infrastrutture energetiche critiche;<br />
• Affrontare le sfide energetiche per le popolazioni più povere<br />
nei paesi in via di sviluppo 27.<br />
In vista di questi obiettivi, il G8 ha adottato un piano d’azione<br />
che riguarda la trasparenza e prevedibilità dei mercati<br />
energetici, il miglioramento del clima per gli investimenti, l’efficienza<br />
e il risparmio energetico, la diversificazione del mix energetico,<br />
la difesa delle infrastrutture, la povertà <strong>energetica</strong>, il clima<br />
e lo sviluppo sostenibile 28. Molte delle raccomandazioni e<br />
degli impegni ivi contenuti sono sensati e, se rispettati, davvero<br />
favorirebbero un deciso miglioramento delle condizioni della <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Purtroppo c’è sempre uno iato piuttosto<br />
ampio tra le dichiarazioni congiunte dei leaders e il loro effettivo<br />
comportamento nella politica nazionale e internazionale. Del<br />
resto, se tale differenza esiste all’interno dell’Unione Europea,<br />
che fatica a conciliare la retorica del mercato interno con le pratiche<br />
protezioniste di molti Stati membri, non c’è alcuna ragione<br />
perché lo stesso fenomeno non si ripeta anche al livello del<br />
G8, che raccoglie soggetti per alcuni versi ancor più eterogenei<br />
di quelli che siedono al tavolo della trattative in sede europea.<br />
Il tratto autenticamente significativo del G8 è un altro, che<br />
merita di essere salvato e valorizzato: al G8 partecipano quegli<br />
attori della partita globale che sono veramente importanti, vuoi<br />
per il loro peso relativo rispetto all’economia mondiale, vuoi per<br />
la loro autorevolezza politica, vuoi infine perché, se visti in pro-<br />
27 Ibidem.<br />
28 Ibidem.<br />
267
spettiva, sono determinati a giocare un ruolo crescente rispetto<br />
alle dinamiche mondiali. D’altro canto, il limite del G8 è duplice:<br />
da un lato esso esclude alcuni paesi che già oggi sono pivot<br />
della politica e dell’economia internazionale, come la Cina e<br />
l’India; dall’altro lato esso è un evento ritagliato su misura di<br />
rappresentanti delle diverse nazioni, che quindi non riesce a intersecare<br />
altri player pure cruciali. Sarebbe quindi utile immaginare<br />
una sorta di “G20 dell’energia”, che raccolga periodicamente<br />
non solo i capi politici dei venti (o altra cifra arbitrariamente,<br />
ma ragionevolmente, definita) maggiori produttori e<br />
consumatori di energia – senza riguardo alla loro natura democratica<br />
o no, per il semplice motivo che il non essere una democrazia<br />
in linea di principio non aumenta e non riduce consumi e<br />
produzioni di energia – obbligandoli a discutere la questione<br />
<strong>energetica</strong> non solo in termini individuali e opportunistici (una<br />
dimensione che ovviamente non può essere né cancellata né<br />
ignorata), ma anche come un problema comune. Ancora una<br />
volta, questa caratterizzazione non dipende da pretese moralistiche<br />
o da retorica sulle “risorse comuni”, bensì dalla mera constatazione<br />
che quelli dell’energia sono mercati globali, anche<br />
quando sono regionali. Per esempio, si è detto che quello del gas<br />
naturale è (al netto dello sviluppo del Gnl) un mercato regionale:<br />
eppure, il prezzo del gas è ancorato a quello del petrolio, e gli<br />
sviluppi (o la loro assenza) dello sfruttamento, per esempio, del<br />
carbone e del nucleare nel resto del mondo impattano comunque<br />
quel mercato, che non è insomma sospeso nel vuoto ma si<br />
staglia su uno sfondo preciso e in movimento.<br />
Così come la questione <strong>energetica</strong> riguarda tutti, anche<br />
molti problemi sono comuni: le difficoltà dei paesi produttori a<br />
sfruttare adeguatamente ed efficientemente le risorse di cui dispongono<br />
impatta tanto essi stessi quanto i paesi consumatori,<br />
e ha un effetto diretto e preciso su altre nazioni ancora che dispongono<br />
di riserve ad alto costo di estrazione (per esempio nelle<br />
acque profonde) oppure non convenzionali. Allora, tutti –<br />
produttori e consumatori – hanno l’interesse a definire accordi<br />
quadro nell’ambito dei quali ottenere la mobilizzazione di competenze,<br />
tecnologie e capitali che consentano un migliore sfruttamento<br />
dei giacimenti che spesso sono trascurati o sottoutiliz-<br />
268
zati. In questo senso, la creazione di uno spazio di dibattito e<br />
confronto può davvero essere utile. Perché però questo funzioni<br />
occorre introdurre altri attori che giocano sul mondo reale ma<br />
talvolta restano in secondo piano nei meeting internazionali:<br />
quelle grandi imprese che sono il tramite fisico ed economico tra<br />
le economie dei paesi consumatori e produttori di energia. Se<br />
dunque, virtualmente, liberare l’accesso delle compagnie alle riserve<br />
dei paesi produttori è nel pieno e diretto interesse dei paesi<br />
consumatori, questo passo – rivoluzionario rispetto all’attuale<br />
fase storica – richiede uno sforzo economico e politico, che<br />
non può essere compiuto senza la partecipazione diretta dei soggetti<br />
interessati. Infine, sarebbe opportuno un coinvolgimento,<br />
sia pure in forma diversa, di quei portatori di valori forti che,<br />
con le loro posizioni, possono contribuire ad aiutare od ostacolare<br />
l’apertura dei paesi produttori e consumatori all’accesso di<br />
capitali stranieri (naturalmente la reciprocità è un principio da<br />
salvaguardare, non tanto come schermo dietro cui nascondere<br />
renitenze, ma come leva morale e negoziale nei confronti dei<br />
paesi più riottosi). Significa, questo, immaginare in primo luogo<br />
un coinvolgimento delle maggiori autorità religiose, che possono<br />
esercitare e spesso esercitano un ruolo guida nei diversi<br />
paesi e che non possono essere insensibili alle profonde conseguenze,<br />
per l’intero mondo, di una scelta di apertura o di chiusura.<br />
7.4. L’Organizzazione mondiale del commercio<br />
Una delle dichiarazioni congiunte degli otto capi dei paesi<br />
più sviluppati a San Pietroburgo recita che “né la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
globale, né gli obiettivi di sviluppo del millennio saranno<br />
pienamente raggiunti senza un accesso sostenibile ai carburanti<br />
per i 2,4 miliardi di persone e all’elettricità per gli 1,6 miliardi di<br />
persone che attualmente non godono di tale accesso nei paesi in<br />
via di sviluppo. Essi non possono essere dimenticati o marginalizzati”.<br />
Questi due numeri danno la misura di una sfida che non<br />
ha a che fare soltanto con le giuste esigenze di crescita dei paesi<br />
sviluppati o delle economie emergenti: riguarda anche una va-<br />
269
sta massa di umanità che, finora, è rimasta sostanzialmente<br />
esclusa dai benefici della globalizzazione. Il riferimento ai Millenium<br />
Development Goals aiuta a muoversi verso una visione<br />
più ampia: la conquista di un framework che liberi per tutti l’accesso<br />
all’energia sta alla base dello sforzo di estendere a quanta<br />
più parte del mondo possibile le istituzioni del libero mercato e<br />
della proprietà privata.<br />
Questo pone in una posizione centrale, nella prospettiva<br />
della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, l’Organizzazione mondiale del commercio.<br />
Nonostante le secche in cui sembra essere precipitata, e<br />
che ne fanno talvolta persino mettere in discussione l’utilità 29, la<br />
World Trade Organization è oggi l’unico spazio di negoziazione<br />
multilaterale nel quale la questione <strong>energetica</strong> possa seriamente<br />
e compiutamente essere affrontata. Di più: si può immaginare<br />
che l’energia divenga addirittura il motore di Doha, in grado di<br />
sbloccare lo stallo apparentemente infinito sull’accesso ai mercati<br />
agricoli e no. La Wto non si proietta verso prospettive politiche,<br />
come è invece il caso dell’Unione Europea o, in modo<br />
più o meno esplicito, di altre organizzazioni internazionali: ciò<br />
costituisce un notevole vantaggio. Come rileva Paolo Savona, la<br />
Wto “ha nel proprio dna di essere un segretariato di professionisti<br />
che agevolano la liberalizzazione dei mercati e quindi la costituzione<br />
di un mercato globale” 30.<br />
Entrando più nel dettaglio di alcune ipotesi di lavoro, sembra<br />
ragionevole ipotizzare tre auspicabili direttrici di sviluppo.<br />
Definizione di un’agenda per le trattative: è un compito che<br />
può sembrare scontato per un’organizzazione internazionale,<br />
ma che non va assolutamente sottovalutato. I punti qualificanti<br />
dovrebbero integrare aspetti economici e giuridici al fine di favorire<br />
l’apertura del mercato energetico alle imprese straniere<br />
operanti nel settore energetico, sia nel ramo del trasporto e della<br />
trasformazione, sia in quello della produzione e dello sfruttamento<br />
delle risorse. Sotto questo profilo va specificamente segnalata<br />
l’esigenza di ridurre al massimo l’interventismo da par-<br />
29 Si veda CARLO STAGNARO, “Wto, ormai è l’ultimo round”.<br />
30 PAOLO SAVONA, “Geopolitica e geoeconomia della sfida <strong>energetica</strong>”,<br />
in AA.VV., Il futuro dell’energia, p. 60.<br />
270
te dello Stato o di enti pubblici. Diminuire la presenza dell’operatore<br />
pubblico comporta un aumento della concorrenza su una<br />
scala potenzialmente globale, con un corrispondente beneficio<br />
per tutti i soggetti coinvolti nel mercato energetico e specificamente<br />
per l’utente finale, che potrebbe godere di un offerta potenzialmente<br />
più ampia e vantaggiosa in materia di prezzi e di<br />
servizi. Ma non solo: meno Stato significa più efficienza nei settori<br />
del trasporto e della produzione di energia, cioè, in altre parole,<br />
uno sfruttamento razionale delle risorse strategiche e ambientali<br />
a beneficio della tutela ambientale. Liberalizzazione e<br />
privatizzazione sono poi elementi determinanti per limitare al<br />
minimo le ipotesi di “guerriglia commerciale”, liberalizzare e<br />
privatizzare significa mettere da parte le armi (talvolta anche<br />
belliche) della politica per sfoderare l’arma con cui ci si confronta<br />
nel mondo del mercato: la strategia commerciale basata sulla<br />
concorrenza.<br />
Tutto ciò non è seriamente immaginabile senza incidere sulla<br />
cornice giuridica di riferimento, il che implica agire (attraverso<br />
gli strumenti della persuasione e dell’interesse reciproco) su<br />
due strade parallele: in primo luogo è necessario eliminare le<br />
norme discriminatorie, cioè le regole che consentono a determinati<br />
investitori di operare a condizioni migliori rispetto ad altri<br />
(cui magari è di fatto negata ogni seria prospettiva economica).<br />
Non possono essere ammesse norme discriminatorie non solo<br />
sotto il profilo della preferenza di un’impresa pubblica ad una<br />
privata, ma anche – e soprattutto – sotto quello della preferenza<br />
di una società nazionale rispetto ad una straniera (o una multinazionale).<br />
In secondo luogo si tratta di intervenire su tutto il<br />
quadro normativo: è imprescindibile assicurare un panorama<br />
giuridico stabile, contraddistinto dalla certezza del diritto e dalla<br />
chiarezza delle leggi e dei regolamenti vigenti, nonché dalla<br />
tutela della proprietà privata e dei diritti di credito e della libertà<br />
di contrattazione. Ovviamente non solo da un punto di vista formale,<br />
ma anche sostanziale: un mercato energetico globale non<br />
può svilupparsi realmente nelle sue enormi potenzialità positive<br />
senza sistemi giudiziari indipendenti, imparziali, fondati sul<br />
principio della rule of law. Sul punto va riconosciuto un ruolo<br />
sempre maggiore alle esperienze arbitrali, che – spesso a causa<br />
271
di distorsioni procedurali tipicamente legate a problematiche<br />
circoscritte nei confini statali – producono risultati (qualitativi e<br />
quantitativi) decisamente superiori se implementate a livello internazionale.<br />
Rappresentanza degli interessi coinvolti: ormai da tempo gli<br />
studiosi hanno rilevato come le forme e le istituzioni in cui si<br />
esplica la rappresentanza democratica (soprattutto le assemblee<br />
legislative) dimostrino evidenti problemi di approccio a tematiche<br />
dotate di caratteristiche e peculiarità tecniche. Nel diritto<br />
comunitario sono ormai pienamente collaudate ampie procedure<br />
di consultazione dei soggetti interessati, molto spesso in grado<br />
di innestare nel procedimento normativo elementi e conoscenze<br />
che il politico ignora. Addirittura a livello regionale italiano,<br />
alcuni Statuti hanno disciplinato forme di consultazione<br />
dei destinatari delle norme – si pensi agli Statuti delle regioni<br />
Toscana ed Emilia Romagna, per rimanere agli esempi più importanti,<br />
dove si giunge ad introdurre la motivazione della legge<br />
in rapporto alle risultanze istruttorie – che vanno ben al di là<br />
dell’esperienza (del tutto insoddisfacente) delle audizioni normalmente<br />
svolte in sede di commissioni parlamentari.<br />
Questa problematica acquista un rilievo specifico nelle tematiche<br />
energetiche dove il momento normativo non può prescindere<br />
da un accordo con numerosi stakeholeders che non<br />
possono strutturalmente avere voce nei parlamenti: si pensi alle<br />
imprese energetiche e alle autorità religiose. In un circuito mondiale<br />
(forse anche attraverso lo specifico strumento del G20 dell’energia,<br />
che si è proposto in precedenza) incardinato nella<br />
Wto tutte le istanze coinvolte nelle questioni energetiche potrebbero<br />
trovare un tavolo di confronto globale finalizzato alla<br />
creazione di norme il più possibile condivise e plasmate sulle necessità<br />
di operatori e clienti.<br />
Ampliamento dell’ambito oggettivo delle trattative: questo è<br />
l’aspetto di portata più generale e anche più importante. Com’è<br />
ampiamente noto la Wto, si è concentrata prevalentemente sull’accesso<br />
ai mercati agricoli, ritenendo tale tema (e non a torto)<br />
prioritario per combattere i tremendi flagelli della fame, della<br />
povertà e della malattia. Le questioni agricole probabilmente<br />
dovranno restare centrali, ma potrebbe essere proficua la ricer-<br />
272
ca di un approccio più integrato: esattamente al contrario di<br />
quanto si è ritenuto fino ad ora, l’accesso ai mercati non agricoli,<br />
ed energetici in particolare, non sarebbe un ulteriore blocco<br />
per le negoziazioni, ma ne costituirebbe la chiave per un complessivo<br />
rilancio. Si tratterebbe di creare un vasto quadro per le<br />
trattative, un approccio non solo multilaterale ma, per così dire,<br />
“multidimensionale”.<br />
Per comprendere lo stallo in cui versano ora le discussioni<br />
in sede di Wto è utile sviluppare alcune precisazioni. A livello<br />
scientifico-teorico, quasi nessuno dubita seriamente che liberalizzazioni<br />
e sviluppo dei commerci internazionali producano benefici<br />
a tutti coloro che vi prendono parte: anche un’apertura<br />
unilaterale è favorevole a chi la pratica. È ugualmente vero,<br />
però, che le problematiche di natura agricola presentano aspetti<br />
effettivamente spinosi, in virtù dei quali taluni gruppi di pressione<br />
hanno agito politicamente in modo da far percepire le<br />
aperture dei mercati come un “costo”, o addirittura un fattore<br />
negativo. Coinvolgere altri settori significa avvicinarsi ad una<br />
prospettiva in cui il mercato possa essere messo in grado di manifestare<br />
liberamente i vantaggi che il sistema dello scambio senza<br />
vincoli dispensa a tutti, produttori, mediatori e compratori.<br />
In tal modo, cioè, si prospetta un sistema in cui l’analisi costibenefici<br />
dell’approccio di mercato sia estesa ad ogni aspetto dell’economia,<br />
in modo da delineare un nuovo complessivo assetto<br />
di sfruttamento e circolazione globale delle risorse. Può forse<br />
suonare paradossale, ma aver ridotto l’ambito delle negoziazioni<br />
alle questioni agricole (o poco più), allo scopo di semplificare<br />
il raggiungimento di accordi stabili e soddisfacenti per tutti,<br />
ha prodotto un risultato pressoché opposto: i gruppi di pressione<br />
agricoli sono riusciti, in sede negoziale, a dare al costo concentrato<br />
che le liberalizzazioni potrebbero imporre loro un peso<br />
maggiore a quello, teoricamente molto superiore, dei benefici<br />
diffusi prodotti dalle aperture del mercato. La prospettiva è<br />
apparsa chiara agli interessati e ciò ha realizzato la condizione<br />
ideale per impedire qualunque conclusione delle trattative.<br />
L’apertura delle trattative anche all’energia può costituire la<br />
chiave di ingresso, il primo passo verso una nuova strategia veramente<br />
globale in cui costi e benefici – si mettano in paragone,<br />
273
ad esempio, gli equilibri in materia di agricoltura con quelli in<br />
materia di energia, ove si confrontano il bisogno dei paesi più<br />
avanzati con la fame di capitali dei Paesi produttori – non sono<br />
più fossilizzati, integrandosi invece in un mercato immenso, tale<br />
da produrre solo crescita economica e sviluppo sociale per<br />
tutti i popoli del mondo.<br />
Si potrebbe immaginare di giungere a questa condizione attraverso<br />
un approccio graduale. In quest’ottica potrebbe trovare<br />
uno sbocco pure l’idea, proposta dal primo ministro polacco<br />
Kazimierz Marcinkiewicz, di costituire una sorta di Nato dell’energia,<br />
rivolta principalmente ai paesi dell’Ue e della Nato, che<br />
segua il principio “tutti per uno, uno per tutti”: “sarebbe un’espressione<br />
di solidarietà fra tutte le parti, che le unirebbe di<br />
fronte a qualunque minaccia <strong>energetica</strong> provocata da tagli o riduzioni<br />
degli approvvigionamenti che potrebbe essere causata<br />
da disastri naturali, interruzioni della distribuzione o dell’offerta<br />
o decisioni politiche dei fornitori” 31. La creazione di una sorta<br />
di “società di mutuo soccorso energetico” è perfettamente<br />
sensata e può aiutare a compattare le posizioni dei paesi consumatori,<br />
aumentandone il potere negoziale: è però fondamentale<br />
che non la si persegua come forma di contrapposizione con i<br />
Paesi produttori, magari al fine di condizionarne politicamente<br />
le scelte.<br />
Ancor più adeguato, e scevro da rischi di manipolazione in<br />
chiave politica potrebbe forse rivelarsi uno strumento internazionale<br />
già collaudato con esiti settoriali soddisfacenti, e che merita<br />
di essere specificamente approfondito: la Carta dell’Energia.<br />
31 KAZIMIERZ MARCINKIEWICZ, “Europe’s energy musketeers must stand<br />
together”, Financial Times, 9 febbraio 2006.<br />
274
8.<br />
La Carta dell’energia<br />
La vicenda della Carta dell’Energia dimostra come le questioni<br />
energetiche siano in grado di ampliare la sfera delle contrattazioni<br />
tra gli Stati, sia in senso soggettivo (cioè sempre più<br />
Stati coinvolti in accordi internazionali) sia oggettivo (cioè sempre<br />
più materie interessate da accordi internazionali). Essa inoltre<br />
può essere un importante strumento di gestione dell’incertezza<br />
<strong>energetica</strong>.<br />
8.1. Dalle macerie della guerra fredda alla cooperazione <strong>energetica</strong><br />
L’ideazione della Carta dell’Energia risale a quel particolarissimo<br />
momento storico contraddistinto dalla fine del confronto<br />
politico-militare tra Est e Ovest: l’idea di una forma di collaborazione<br />
in materia <strong>energetica</strong> in ambito europeo fu delineata<br />
per la prima volta dal Primo Ministro olandese Lubbers, che<br />
presentò uno specifico memorandum al Consiglio europeo di<br />
Dublino del 25-26 giugno 1990 1.<br />
Dalla lettura di questo documento appare subito evidente<br />
la cornice politica che sottostà a tutti gli sviluppi futuri: elaborare<br />
una sinergia del tutto peculiare attraverso una collaborazione<br />
di portata continentale. Negli ultimi decenni, infatti, nell’Ovest<br />
si è affermata una spiccata capacità organizzativa (e tecnologica)<br />
nella produzione, nel trasporto e nel consumo razionale<br />
di energia, il tutto saldato con una notevole potenzialità sotto il<br />
1 RUUD LUBBERS, “Memorandum Lubbers”.<br />
275
profilo degli investimenti, mentre si continua a registrare una<br />
(quasi) assoluta assenza di fonti energetiche. Nell’Est la situazione<br />
è pressoché opposta: un panorama economico e infrastrutturale<br />
in pieno marasma si colloca in una vastissima disponibilità<br />
di gas e idrocarburi 2.<br />
Con la caduta del Muro di Berlino, i paesi della Comunità<br />
Economica Europea avevano l’opportunità storica di accedere<br />
direttamente a risorse energetiche da cui erano esclusi sino a pochissimo<br />
tempo prima; per i paesi del Comecon, contemporaneamente,<br />
ciò implicava la possibilità di attirare un flusso massiccio<br />
di capitali stranieri per poter avviare la transizione all’economia<br />
di mercato: un ampio vantaggio reciproco.<br />
Dire che l’Est ha enormi fonti energetiche significa usare<br />
una espressione tendenzialmente neutra per indicare principalmente<br />
l’ex Unione Sovietica: risultava esplicita l’attenzione verso<br />
questa realtà politica squassata da una crisi che ne porterà al<br />
disfacimento nel giro di pochi mesi. Nella dichiarazione conclusiva<br />
del Consiglio di Dublino emerse l’interesse europeo a sostenere<br />
l’ampio processo di riforme intrapreso in Urss: tra i settori<br />
bisognosi di interventi strutturali venne specificamente indicato<br />
quello dell’energia 3.<br />
La necessità di agire in questo ambito fu percepita in modo<br />
così pressante che nel giro di pochi mesi divenne argomento di<br />
dibattito sia nel vertice della Conferenza sulla <strong>sicurezza</strong> e la cooperazione<br />
in Europa (Parigi, 19-21 novembre 1990) sia in un’altra<br />
riunione del Consiglio europeo (Roma, 14-15 dicembre<br />
1990). Proprio in quest’ultimo incontro si decise di organizzare<br />
una conferenza intergovernativa per giungere alla stesura di una<br />
carta dell’energia: “più in generale per quanto riguarda l’energia”,<br />
si può leggere in un documento approvato nel Consiglio di<br />
Roma, “il Consiglio europeo ritiene necessario instaurare una<br />
cooperazione a lungo termine in Europa in modo da ottimizzare,<br />
allo scopo di aumentare la <strong>sicurezza</strong> dell’approvvigionamento,<br />
lo sfruttamento delle risorse e degli investimenti, il migliora-<br />
2 FRANCO VIEZZOLI, “La grande Europa e l’energia elettrica”, p. 503.<br />
3 Si veda MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e<br />
sviluppi di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 223, no. 2.<br />
276
mento delle reti, l’aumento degli scambi, nonché una utilizzazione<br />
più razionale dell’energia, che – di fronte alla responsabilità<br />
comune nei confronti dell’ambiente – gioverà ampiamente<br />
a tutta l’Europa. Il Consiglio europeo auspica che nel 1991 venga<br />
organizzata una Conferenza internazionale per l’elaborazione<br />
di una carta paneuropea dell’energia” 4.<br />
Va puntualizzato che l’attore principale nella prima fase del<br />
processo che portò all’approvazione della Carta fu la Comunità<br />
Economica Europea: la Commissione venne incaricata di redigere<br />
una bozza, e in un tempo brevissimo sottopose al Comitato<br />
economico e sociale, nonché al Parlamento europeo, un documento<br />
programmatico ove si puntualizzava la necessità di elaborare<br />
una politica <strong>energetica</strong> non solo interna, ma anche esterna<br />
alla Cee, al fine di creare un mercato continentale dell’energia<br />
contraddistinto da obiettivi strettamente economici – l’incremento<br />
degli scambi tramite lo sviluppo della concorrenza – ma<br />
anche da scopi politici di razionale sfruttamento dell’energia e di<br />
tutela dell’ambiente. La proposta della Commissione consisteva<br />
nel convogliare l’intesa internazionale su un testo di natura puramente<br />
programmatica la cui applicazione sarebbe stata garantita<br />
– in un secondo tempo – dalla stipula di accordi specifici 5.<br />
Se l’impulso ha una chiarissima matrice comunitaria, la Carta<br />
dell’Energia approvata il 17 dicembre 1991 va ben al di là dei<br />
dodici Paesi a quel tempo membri della Cee: alla conferenza dell’Aja<br />
che si concluse con l’approvazione della Carta parteciparono<br />
numerosissimi Stati da quattro continenti, oltre il Comitato<br />
Interstatale dell’ex URSS e la stessa Comunità Economica 6.<br />
4 “Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo (Roma 14-15 dicembre<br />
1990)”, citato in MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia:<br />
principi e sviluppi di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 225,<br />
n. 5 5 MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />
di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 226.<br />
6 I Paesi partecipanti furono: Albania, Armenia, Australia, Austria, Azerbagian,<br />
Belgio, Bielorussia, Bulgaria, Canada, Cipro, Cecoslovacchia, Danimarca,<br />
Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria,<br />
Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lituania,<br />
Lussemburgo, Malta, Moldavia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogal-<br />
277
8.2. Il contenuto e la natura giuridica della Carta dell’Energia.<br />
La Carta dell’Energia, sottoscritta nel 1991 7 e contenuta nella<br />
dichiarazione conclusiva della conferenza dell’Aja, è vincolante per<br />
gli Stati che l’hanno firmata, ma non ha lo scopo di creare obblighi<br />
specifici: si tratta di una dichiarazione programmatica sulla cui base,<br />
nel 1994, fu poi stipulato il Trattato sulla Carta dell’Energia.<br />
Il quadro di generale di riferimento appare chiaro già dal<br />
preambolo della Carta.<br />
In primo luogo si punta ad impostare un “nuovo modello<br />
di cooperazione <strong>energetica</strong> a lungo termine in Europa e a livello<br />
mondiale”: se in un primo tempo l’ambito geografico cui si<br />
guardava era un’Europa ormai priva di steccati ideologici, sin<br />
dalla sua redazione la Carta si impone sullo scacchiere internazionale<br />
come un documento di portata globale che coinvolge<br />
tutte le potenze industriali del G8 ma si proietta verso realtà ben<br />
distanti, quali, ad esempio, l’Australia.<br />
Secondariamente la cornice economica è esclusivamente<br />
quella dell’economia di mercato, e in questo senso le Parti sono<br />
“consapevoli” dell’opportunità di partecipare “agli sforzi congiunti<br />
diretti ad agevolare e promuovere riforme orientate ad un<br />
economia di mercato” in tutti i Paesi che avevano appena abbandonato<br />
il modello del socialismo reale.<br />
In terzo luogo si enuncia il principio cardine di tutta l’impalcatura<br />
collaborativa che veniva delineandosi: la non discriminazione<br />
tra gli operatori economici. Ciò significa che l’obiettivo<br />
delle trattative è quello di formare un’area di libero scambio in<br />
cui ad ogni investitore sia legalmente concesso sviluppare i propri<br />
investimenti in campo energetico alle stesse identiche condizioni<br />
giuridiche cui sono sottoposte le imprese nazionali (pubbliche<br />
o private) dei paesi firmatari.<br />
Pur riconoscendo “la sovranità degli Stati e i diritti sovrani<br />
sulle risorse energetiche”, le Parti si dichiarano persuase “che una<br />
più ampia cooperazione <strong>energetica</strong>… sia essenziale al progresso<br />
lo, Romania, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera Tagikistan, Turchia, Turkmenistan,<br />
Ucraina, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Uzbekistan, Iugoslavia.<br />
7 http://www.encharter.org/fileadmin/user_upload/document/IT.pdf.<br />
278
economico e, più in generale, allo sviluppo sociale e al miglioramento<br />
della qualità della vita”, in tal senso anche “riconoscendo<br />
il ruolo degli imprenditori… nel promuovere la cooperazione”.<br />
Alla luce di questa impostazione complessiva, la Carta consta<br />
di due parti ove si specificano gli scopi e i mezzi per la loro<br />
attuazione, e una terza sezione che prefigura l’adozione di una<br />
serie di successivi accordi specifici.<br />
Tre sono le direttrici sostanziali verso le quali si orienta la<br />
disciplina programmatica 8.<br />
• Incremento dell’efficienza nella produzione, nel trasporto, nella<br />
distribuzione e nell’utilizzo dell’energia. È il primo scopo<br />
delle trattative e si esplica principalmente nell’obiettivo del<br />
miglioramento degli standard di certezza degli approvvigionamenti<br />
energetici al fine di aumentare le condizioni complessive<br />
di <strong>sicurezza</strong>. Si sottolinea “l’importanza dello sviluppo<br />
di reti commerciali internazionali di trasmissione dell’energia”,<br />
garantendo “la compatibilità delle specifiche tecniche<br />
che disciplinano l’installazione e il funzionamento delle<br />
reti”. Strumentalmente, dunque, si punta all’ammodernamento<br />
del complesso delle infrastrutture coinvolte nella produzione<br />
e nel trasporto di energia, con particolare attenzione<br />
ai processi di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.<br />
• Creazione di un mercato internazionale dell’energia tramite<br />
la liberalizzazione degli scambi. È probabilmente il filone<br />
più significativo: viene prefigurata una politica <strong>energetica</strong><br />
in cui i prezzi possano formarsi attraverso la libera interazione<br />
di domanda e offerta: ciò sia nel mercato dei prodotti<br />
e dei servizi energetici sia in quello dell’accesso alle risorse<br />
energetiche. Lo strumento principale è chiaramente la liberalizzazione<br />
degli scambi, nonché la promozione e la tutela<br />
degli investimenti. Nell’attuare tale linea politica le Parti<br />
“si impegnano ad incoraggiare l’iniziativa privata”, ma<br />
anche a sostenere la cooperazione tra imprese e istituzioni<br />
di differenti Paesi, sempre “agendo sulla base dei principi<br />
di mercato”, nell’ottica complessiva di “agevolare l’azione<br />
8 Si veda MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />
di una nuova cooperazione nel settore energetico”, pp. 229 e seguenti.<br />
279
delle forze di mercato e di favorire la concorrenza”. Sotto<br />
un profilo squisitamente giuridico, appare particolarmente<br />
significativa la menzione dello scopo finale dell’eliminazione<br />
“degli ostacoli tecnici, amministrativi e di altro genere”<br />
che impediscono il pieno svolgimento degli scambi commerciali<br />
inerenti energia e tecnologia: questo elemento implica<br />
chiaramente un impegno alla semplificazione normativa<br />
e burocratica. Tale aspetto trova una diretta conferma<br />
ove si delinea l’importantissimo intento di costruire “un<br />
contesto giuridico stabile e trasparente che crei le condizioni<br />
per uno sviluppo delle risorse energetiche”, anche tramite<br />
“il rispetto delle norme internazionali sulla protezione<br />
della proprietà industriale, commerciale ed intellettuale” e<br />
l’impedimento di fenomeni di doppia imposizione fiscale.<br />
• Equilibrio tra esigenze economiche e tutela dell’ambiente. Gli<br />
obiettivi di sviluppo delle infrastrutture e di apertura dei<br />
mercati devono comunque essere perseguiti in una prospettiva<br />
di massimo rispetto dell’ambiente. Non si parla solo di<br />
un generico favore verso le fonti rinnovabili, non vi è esclusivamente<br />
un generico impegno a misure politiche “coordinate<br />
ed efficaci”, il punto più rilevante è certamente la previsione<br />
di un mercato che, pur nel libero incontrarsi di domanda<br />
e di offerta, sia in grado di riflettere “maggiormente<br />
i costi e i benefici per l’ambiente”.<br />
8.3. Dalla Carta dell’Energia al Trattato sulla Carta dell’Energia.<br />
L’estensione oggettiva della Carta dell’Energia – che di fatto<br />
tratta di ogni aspetto inerente il mercato energetico, dalla ricerca<br />
sino al trasporto – nonché il considerevole numero delle<br />
Parti contraenti hanno fatto correttamente ritenere che questo<br />
documento, “nonostante si esplichi in una mera dichiarazione<br />
di intenti”, abbia “un peso importante sia nei rapporti commerciali…<br />
sia nello sviluppo economico” 9.<br />
9 MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />
di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 233.<br />
280
Su questa valutazione si può sostanzialmente convenire, soprattutto<br />
se si attribuisce il dovuto rilievo ad un elemento politico<br />
decisamente notevole: per la prima volta si affronta il problema<br />
energetico attraverso un approccio di stampo globale e<br />
globalizzato, e per la prima volta il blocco orientale e quello occidentale<br />
possono realmente considerarsi dissolti nell’ottica di<br />
una progressiva integrazione sotto le insegne dell’economia di<br />
mercato.<br />
Non si può comunque dimenticare che la Carta rimane pur<br />
sempre una declamazione di principi intrinsecamente generali:<br />
non a caso, nella sua parte conclusiva, essa prevede la successiva<br />
stipula di un trattato di base e ulteriori trattati settoriali. Utilizzando<br />
le categorie del diritto civile, ci si potrebbe forse azzardare<br />
a pensare la Carta del 1991 come una sorta di contratto preliminare:<br />
ma la realtà del diritto internazionale è ben diversa. In<br />
particolare, nonostante gli Stati si siano impegnati a stipulare<br />
una serie di trattati, nessuno strumento coercitivo potrebbe essere<br />
utilizzato per “costringerli” ad addivenire a tali accordi.<br />
Proprio sotto questo profilo è apprezzabile lo sforzo che<br />
porta ai trattati-base in soli tre anni: il 17 dicembre 1994 a Lisbona.<br />
Non è un percorso semplice quello che conduce la Conferenza<br />
internazionale sulla Carta europea dell’energia ad elaborare<br />
testi in grado di accontentare un numero molto ampio di<br />
paesi 10: davanti ad alcune resistenze della Federazione Russa,<br />
soprattutto nelle parti dedicate al libero accesso alle risorse<br />
energetiche e agli investimenti, un fondamentale ruolo propulsivo<br />
viene nuovamente impersonato dalla Comunità Europea 11.<br />
Nella conferenza di Lisbona vengono sottoscritti tre documenti<br />
collegati tra loro: l’“Atto finale della Conferenza della<br />
Carta Europea dell’Energia” 12, cui si allegano il Trattato sulla<br />
10 MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale<br />
in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />
e delle sue prospettive”, pp. 208 e seguenti.<br />
11 Si veda COMMISSIONE EUROPEA, “The European Energy Charter: Fresh<br />
impetus from the European Community”.<br />
12 L’atto finale fu firmato da quarantacinque Stati e dalla Comunità Europea,<br />
non lo sottoscrissero Canada, Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Un-<br />
281
Carta dell’Energia (a sua volta con relativi allegati) 13 e il Protocollo<br />
della Carta dell’Energia sull’Efficienza Energetica e sugli<br />
Aspetti Ambientali Correlati 14.<br />
Dei tre testi scaturiti dalle trattative 15, l’atto finale consiste<br />
in una dichiarazione conclusiva effettuata dalle Parti, mentre il<br />
Protocollo riunisce tutti gli aspetti ambientali già visti nella Carta<br />
del 1991, senza, onestamente, svilupparne elementi particolarmente<br />
interessanti. Il Trattato e il Protocollo sono stati recepiti<br />
nell’ordinamento italiano con la legge 10 novembre 1997, n.<br />
415, ma il documento centrale è certamente il Trattato (entrato<br />
in vigore il 16 aprile 1998) cui sarà dedicata un’analisi specifica.<br />
8.4. Il Trattato sulla Carta dell’Energia: i punti salienti.<br />
Il Trattato si compone di otto parti, ma le più rilevanti sono<br />
probabilmente la II, dedicata al commercio, la III, finalizzata alla<br />
tutela e alla promozione degli investimenti, la V, ove si delinea<br />
la tecnica di soluzione delle controversie e la VII, riservata alla<br />
struttura istituzionale creata per l’applicazione dell’accordo.<br />
gheria ed Uzbekistan: si veda MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso<br />
alla cooperazione internazionale in campo energetico: analisi del Trattato<br />
sulla Carta dell’energia e delle sue prospettive”, p. 212, no. 25.<br />
13 Il Trattato fu firmato da quarantuno Stati e dalla Comunità Europea,<br />
con l’esclusione di Canada, Giappone, Lituania, Norvegia, Repubblica Ceca,<br />
Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Ungheria ed Uzbekistan: si veda Maurizio<br />
Motta, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale in<br />
campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia e delle sue prospettive”,<br />
p. 212, no. 25.<br />
14 Il Protocollo fu firmato da trentanove Stati e dalla Comunità Europea,<br />
non lo sottoscrissero Albania, Canada, Giappone, Lituania, Norvegia, Repubblica<br />
Ceca, Romania, Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Ungheria, ed Uzbekistan:<br />
si veda MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione<br />
internazionale in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />
e delle sue prospettive”, p. 212, no.25.<br />
15 I dati aggiornati sugli Stati attualmente coinvolti nella Conferenza sulla<br />
Carta dell’Energia sono disponibili nel sito internet della Carta dell’Energia,<br />
alla pagina web http://www.encharter.org/index.php?id=61, ove si può<br />
anche consultare una carta geografica mondiale attraverso la quale si comprende<br />
agevolmente la portata globale della Carta dell’Energia.<br />
282
La cornice politico-giuridica di riferimento in cui si muovono<br />
tutte le regole dettate dal Trattato – è bene precisarlo – rimane<br />
comunque la salvaguardia della sovranità statale sulle risorse<br />
energetiche, che viene chiaramente ribadita in una disposizione<br />
di carattere generale (art. 18): alla luce di ciò si deve riconoscere<br />
che il Trattato non vuole interessarsi delle questioni economiche<br />
interne degli Stati contraenti. In particolare, nessuna norma<br />
esprime un favore verso la natura pubblica o privata delle imprese<br />
coinvolte nel mercato dell’energia.<br />
La struttura istituzionale. Allo scopo di vegliare sulla corretta<br />
applicazione del Trattato, nonché per la negoziazione di ulteriori<br />
protocolli o dichiarazioni in materia <strong>energetica</strong>, si delinea<br />
una struttura istituzionale assolutamente agile: i due organi<br />
principali 16 sono la Conferenza della Carta dell’Energia e il Segretariato.<br />
La Conferenza, costituita da un rappresentante per<br />
ciascuna Parte contraente, ricopre il ruolo più importante: da<br />
un lato veglia sulla costante attuazione dei principi che informano<br />
l’accordo nella sua globalità, anche incoraggiando ogni iniziativa<br />
di cooperazione al fine di favorire una completa transizione<br />
all’economia di mercato da parte degli ex paesi socialisti;<br />
dall’altro ha il potere di decidere su eventuali adesioni o associazioni,<br />
nonché di esaminare e di adottare ogni protocollo aggiuntivo<br />
e ogni modifica al Trattato 17. Il Segretariato, formato<br />
dal Segretario generale e dal “personale strettamente necessario<br />
a garantire prestazioni efficienti”, è tenuto a svolgere i compiti<br />
e le funzioni che gli sono assegnate dalla Conferenza. Tale organo<br />
è nominato dalla Conferenza, la quale può anche sollevarlo<br />
dall’incarico e verso la quale esso è responsabile.<br />
Commercio. Il principio fondamentale è certamente costituito<br />
dalla tutela della libera concorrenza e del mercato: ogni Stato<br />
si impegna ad “attenuare le distorsioni di mercato e gli ostacoli<br />
alla concorrenza nell’attività economica nel settore dell’energia”<br />
(art. 6/1). Una simile disposizione si esplicita direttamente nel<br />
16 Vi sono anche organi sussidiari: si veda http://www.encharter.org/index.php?id=24.<br />
17 Le maggioranze prescritte sono dettagliatamente indicate all’articolo<br />
36 del Trattato.<br />
283
dovere di approntare gli opportuni strumenti normativi “per disciplinare<br />
la condotta unilaterale e concertata contraria alla concorrenza”<br />
(art. 6/2): si pone dunque un obbligo giuridico di creazione<br />
di una normativa antitrust e dei corrispondenti organi deputati<br />
ad darne applicazione. Le condotte contrarie alla concorrenza<br />
che risultino pregiudizievoli di interessi rilevanti possono<br />
essere denunciate da ogni Paese firmatario, il quale può poi provvedere<br />
alla notifica nei confronti dell’altra Parte nel cui ambito<br />
geografico di competenza esse siano attuate (art. 6/5) 18. In quest’ottica<br />
si collocano anche l’obbligo di eliminare gli ostacoli esistenti<br />
(e di non porne dei nuovi) al commercio non discriminatorio<br />
di tecnologia <strong>energetica</strong> (art. 8) – pur nel rispetto della singola<br />
normativa nazionale e dei diritti di proprietà intellettuale –<br />
e l’apertura del mercato dei capitali per cittadini e società degli<br />
Stati firmatari allo scopo di finanziare scambi di prodotti e materiali<br />
energetici nonché effettuare investimenti nell’attività economica<br />
del settore dell’energia nelle aree di altre Parti contraenti<br />
(art. 9) 19. Un secondo aspetto che merita attenzione è quello<br />
della libertà di transito 20: essa interessa “materiali e prodotti<br />
energetici” (art. 7/1), e per la sua tutela tutti gli Stati si impegnano<br />
ad adottare ogni misura necessaria, senza distinzioni basate su<br />
origine, destinazione o proprietà. In particolare, viene statuito il<br />
divieto di operare discriminazioni di prezzo basate su tali distinzioni,<br />
ed è anche previsto che non possano essere imposti “ritardi,<br />
restrizioni o oneri non ragionevoli” (art. 7/1). Com’è del tutto<br />
evidente, la prospettiva generale è quella di permettere la circolazione<br />
di beni collegati al mercato dell’energia nel modo più<br />
ampio possibile: in tal senso si comprende il “divieto di condizioni<br />
meno favorevoli”, in forza del quale non è possibile appli-<br />
18 MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale<br />
in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />
e delle sue prospettive”, pp. 218-219.<br />
19 Ivi, p. 220.<br />
20 La definizione di “transito” ai sensi del Trattato ha una portata semantica<br />
piuttosto ampia ed è espressamente contenuta dall’art. 7/10. Sul punto vedi<br />
anche MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione<br />
internazionale in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />
e delle sue prospettive”, p. 219.<br />
284
care ai materiali e prodotti energetici in transito disposizioni meno<br />
favorevoli rispetto a quelle applicate ai materiali e prodotti<br />
energetici provenienti dalla propria area geografica o ad essa destinati<br />
(a meno che ciò sia previsto da altro accordo internazionale<br />
vigente). Lo Stato può limitare il transito solo dimostrando<br />
la pericolosità per la <strong>sicurezza</strong> (anche dell’approvvigionamento)<br />
o per l’efficienza dei suoi sistemi energetici, e comunque solo in<br />
due ipotesi: può opporsi alla costruzione o alla modifica delle infrastrutture<br />
che permettono il trasporto dell’energia; può opporsi<br />
a transiti nuovi o supplementari attraverso le infrastrutture di<br />
trasporto energetico esistenti (art. 7/5). Proprio in relazione alle<br />
problematiche del transito dell’energia è dettata anche una disposizione<br />
che, alla luce degli avvenimenti degli inverni 2005-<br />
2006 e 2006-2007, si è forse rivelata non realmente efficace: salvo<br />
accordi specifici, l’esistenza di controversie sul transito non è<br />
ragione sufficiente per interrompere o limitare il flusso esistente<br />
di materiali o prodotti energetici prima della conclusione delle<br />
procedure conciliative previste dal Trattato stesso (art. 7/6).<br />
Promozione e tutela degli investimenti. Lo scopo di creare un<br />
immenso mercato energetico comune di portata ultra-continentale<br />
non può trascurare l’aspetto della tutela degli investimenti<br />
che persone fisiche o giuridiche di Paesi firmatari vogliano compiere<br />
nelle aree geografiche politicamente soggette ad altri Paesi<br />
firmatari. Da una parte il Trattato prevede espressamente che<br />
ogni Stato debba creare condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti<br />
per ogni investitore nel campo energetico, dall’altra si<br />
vieta agli enti pubblici di porre in essere misure ingiustificate e<br />
discriminatorie tali da poter danneggiare gli investimenti effettuati<br />
da società o cittadini di una qualsiasi Parte contraente. Particolare<br />
interesse suscita il sistema di indennizzi elaborato dagli<br />
articoli 12 e 13. La prima disposizione, di portata più generale,<br />
riguarda le perdite derivanti da danni subiti a causa di conflitti<br />
armati, situazioni di emergenza nazionale, disordini civili o di<br />
analoghi eventi in detta area: in queste ipotesi, agli investitori degli<br />
altri Paesi firmatari deve essere assicurato il trattamento più<br />
favorevole tra quelli garantiti ai ogni altro investitore, interno o<br />
estero. In ogni caso (salvo che il danno non sia stato cagionato da<br />
autorità pubbliche poiché imposto dalla necessità della situazio-<br />
285
ne) l’investitore ha diritto a una riparazione o un risarcimento<br />
che devono essere entrambi tempestivi, congrui ed effettivi. Per<br />
quanto riguarda le espropriazioni (art. 13) emerge la strettissima<br />
similitudine della norma in questione con l’art. 1110 del North<br />
Atlantic Free Trade Agreement (Nafta). Dal punto di vista del diritto<br />
italiano, la disciplina dell’esproprio delineata dal Trattato<br />
sulla Carta dell’Energia ha una portata del tutto singolare e merita<br />
una specifica attenzione. Innanzitutto l’oggetto dell’atto<br />
ablatorio sono gli “investimenti”, il che non ha un significato immediatamente<br />
percepibile attraverso le categorie giuridiche nostrane:<br />
nel diritto amministrativo l’oggetto di un esproprio è un<br />
diritto reale, non un “investimento”. Un ovvio criterio ermeneutico<br />
generale sviluppatosi nell’ambito della scienza del diritto internazionale<br />
nega che il diritto interno possa essere usato come<br />
strumento interpretativo per attribuire un significato ad una disposizione<br />
di diritto pattizio 21, quindi sembra opportuno sviluppare<br />
l’indagine in altro modo. Invero la ricerca non risulta complessa:<br />
l’art. 1, comma 6, del Trattato fornisce una definizione<br />
dettagliata che comprende ogni tipo di bene e diritto, per cui anche<br />
i diritti di credito rientrano certamente nella nozione di “investimenti”<br />
ai sensi della norma sull’espropriazione 22. Appurato<br />
l’oggetto dell’attività espropriativa, è necessario precisare che<br />
l’attività di stampo pubblicistico etichettata come “espropriazione”<br />
va anch’essa considerata nel senso più ampio possibile: è<br />
21 Il principio è del tutto consolidato. Sul punto si veda SERGIO MARIA<br />
CARBONE e PAOLA IVALDI, Lezioni di diritto internazionale privato, pp. 14 e seguenti.<br />
22 Vale la pena riportare testualmente la definizione fornita dall’art. 1,<br />
comma 6: “‘Investimento’: ogni tipo di attività, detenuta o controllata, direttamente<br />
o indirettamente da un investitore e comprendente: a) beni materiali<br />
e immateriali, beni mobili e immobili, proprietà e qualsiasi diritto su beni, quali<br />
locazioni (leases), ipoteche, vincoli e pegni; b) una società o un’impresa commerciale,<br />
o azioni, quote di capitale, o altre forme di partecipazioni in una società<br />
o un’impresa commerciale e obbligazioni e altri debiti di una società o di<br />
un’impresa commerciale; c) diritti di credito e diritti a prestazioni, in virtù di<br />
contratto aventi valore economico e connessi con un investimento; d) proprietà<br />
intellettuale; e) utili; f) qualsiasi diritto conferito per legge o contratto o<br />
derivante da qualsiasi licenza e autorizzazione concesse conformemente alla<br />
legge a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia”.<br />
286
“espropriazione” ogni misura di effetto equivalente alla nazionalizzazione<br />
o all’espropriazione. Quindi anche una mera regolamentazione<br />
dell’uso di un bene tale da svuotarne sostanzialmente<br />
il valore economico va sicuramente annoverato nella categoria<br />
delle “espropriazioni” (si tratta del fenomeno delle cosiddette<br />
“espropriazioni sostanziali”) 23. Anche sotto questo profilo si deve<br />
dunque registrare un notevole scostamento dalla normativa<br />
italiana: come precisato dalla Corte Costituzionale in una giurisprudenza<br />
ormai consolidata da decenni 24, nel diritto nazionale,<br />
quando il legislatore detta una disciplina uniforme per un’intera<br />
categoria di beni, la sua attività non può essere considerata<br />
espropriativa, anche se – nei fatti – si giungesse a privare tali beni<br />
di una qualunque utilità per i loro proprietari. Ne consegue<br />
che nel diritto interno le espropriazioni sostanziali sono riconosciute<br />
(ed indennizzate) solo se hanno ad oggetto beni determinati;<br />
ai sensi del Trattato sulla Carta dell’Energia, invece, si verifica<br />
un’espropriazione ogniqualvolta l’operatore pubblico provochi<br />
in qualunque modo effetti espropriativi. Nei termini definitori<br />
appena esposti, il Trattato detta regole ben precise in virtù<br />
delle quali un Paese firmatario può espropriare-nazionalizzare<br />
gli investimenti effettuati da un investitore di un’altra parte contraente.<br />
L’espropriazione deve essere giustificata da uno scopo di<br />
pubblico interesse, non deve essere discriminatoria, deve essere<br />
compiuta con procedura conforme alla legge e – soprattutto –<br />
deve essere accompagnata da un indennizzo tempestivo, congruo<br />
ed effettivo. Ma la norma si spinge oltre: l’indennizzo è pari<br />
all’equo valore di mercato che l’investimento espropriato aveva<br />
immediatamente prima dell’espropriazione, o al momento in<br />
cui l’imminente espropriazione è diventata nota provocando un<br />
effetto pregiudizievole di tale valore. Non solo: per evitare rischi<br />
valutari, l’investitore ha la facoltà di scegliere in quale divisa<br />
esprimere l’equo valore di mercato, e, per evitare i problemi con-<br />
23 Il comma 3 dell’art. 13, inoltre, precisa che: “a fini di chiarezza, l’espropriazione<br />
comprende situazioni in cui una Parte contraente espropria le attività di<br />
una società o impresa nella propria area in cui un investitore di qualsiasi altra Parte<br />
contraente possiede investimenti, anche attraverso partecipazioni azionarie”.<br />
24 Inaugurata da C. Cost., sent. 9 maggio 1968, no. 55.<br />
287
nessi con la svalutazione monetaria, vengono corrisposti anche<br />
gli interessi calcolati dalla data dell’esproprio a quella del pagamento<br />
25. L’impianto di questa disciplina è significativo sotto due<br />
distinti profili. Innanzitutto appronta una tutela particolarmente<br />
incisiva e completa degli investimenti energetici, tendenzialmente<br />
plasmata sul modello generale statunitense in materia di<br />
espropriazioni sviluppatosi nell’applicazione giurisprudenziale<br />
del V e XIV Emendamento 26. In secondo luogo, dal punto di vista<br />
del diritto interno, emerge un elemento veramente paradossale:<br />
l’asimmetria tra la normativa italiana e quella delineata dal<br />
Trattato comporta la conseguenza che, nel settore energetico, un<br />
investitore di un altro Paese contraente sottoposto ad una espropriazione<br />
verrà molto probabilmente a trovarsi – in Italia – in una<br />
posizione migliore di un suo omologo italiano 27. Ciò non solo<br />
perché certe attività, che per il Trattato sono “espropriazioni”,<br />
nel diritto italiano costituirebbero invece legittime forme di regolamentazione<br />
delle attività private, ma anche sotto il profilo<br />
del quantum dell’indennizzo e della stessa velocità nel suo pagamento<br />
28.<br />
25 Da notare che il comma 2 dell’art. 13 prevede anche una specifica tutela<br />
processuale: “l’investitore interessato ha diritto, in base alla legge della Parte<br />
contraente che opera l’espropriazione, ad un sollecito esame ad opera di un organo<br />
giurisdizionale o di altro competente organo indipendente di detta Parte<br />
contraente del suo caso, della stima del suo investimento e del pagamento dell’indennizzo,<br />
in conformità dei princìpi di cui al paragrafo 1”. L’art. 21, comma<br />
4, inoltre, prevede una specifica procedura a tutela dell’investitore che ritenga<br />
di essere stato sottoposto ad una espropriazione sotto forma di tassazione.<br />
26 Per una prima analisi, si veda GIUSEPPE FRANCO FERRARI, “Eminent<br />
Domain”. Più di recente si veda SILVIO BOCCALATTE, “Parte I. Proprietà ed<br />
espropriazione”, in GIOVANNI COFRANCESCO (a cura di), Urbanistica, espropriazione,<br />
ambiente negli Usa.<br />
27 Vale la pena notare, infatti, che l’articolo dedicato alle espropriazioni<br />
esordisce nei seguenti termini: “gli investimenti di un investitore di una Parte<br />
contraente nell’area di un’altra Parte contraente…”. Se ne deve dedurre, dunque,<br />
che gli investimenti effettuati in Italia da un investitore italiano siano sottratti<br />
alla disciplina dettata dal Trattato e siano sottoposti a pieno titolo alla<br />
normativa italiana.<br />
28 Si vedano artt 32 ss., DPR 327/2001 (per le espropriazioni finalizzate<br />
alla realizzazione di opere in materia <strong>energetica</strong> si vedano artt. 52-bis ss). È solo<br />
il caso di notare che l’art. 42 Cost. non prevede che l’indennizzo debba es-<br />
288
8.5. La Carta dell’Energia: grande opportunità od occasione perduta?<br />
La Carta dell’Energia e gli atti che ne sono scaturiti rappresentano<br />
il primo serio tentativo di una risposta comune alle problematiche<br />
energetiche, e soprattutto il primo serio tentativo di<br />
superare una visione regionale e protezionistica.<br />
Il punto principale su cui concentrare alcune riflessioni di<br />
sintesi, però, è un altro. Questo strumento, nato in una logica<br />
strettamente europea – e sotto l’impulso di un’organizzazione<br />
istituzionale del tutto peculiare, come la Comunità Europea –<br />
ha progressivamente interessato paesi lontanissimi dal bacino<br />
geografico che ne ha visto la nascita. Il dato – rilevato anche nella<br />
prima relazione sullo stato della Carta dell’Energia effettuata<br />
nel 2004 29 – è decisamente notevole: oltre a coinvolgere, in qualità<br />
di membri a pieno titolo, realtà che avrebbero ben poco a<br />
che spartire con il mondo europeo (Giappone e Australia), come<br />
osservatori sono presenti gli Stati più disparati, quali – tra gli<br />
altri – gli Stati Uniti, il Canada, la Cina, la Nigeria, l’Iran, l’Arabia<br />
Saudita e il Venezuela. Di fatto, tutto il mondo industrializzato<br />
e buona parte dei paesi in via di sviluppo sono toccati a vario<br />
titolo dalle attività delle istituzioni create dalla Carta dell’Energia.<br />
Questo elemento spinge ad una riflessione ulteriore. In<br />
molti punti del Trattato si menzionano gli accordi Gatt-Wto 30:<br />
gli emendamenti approvati nel 1998 hanno specificamente lo<br />
sere pari al valore medio di mercato, né tanto meno che vada corrisposto tempestivamente<br />
al soggetto espropriato: è anzi ampiamente noto che la giurisprudenza<br />
costituzionale ha sempre considerato l’indennizzo “il massimo di contributo<br />
e di riparazione che, nell’ambito degli scopi di interesse generale, la<br />
pubblica amministrazione può garantire all’interesse privato” (C. cost., sent.<br />
13 maggio 1957, no. 61).<br />
29 http://www.encharter.org/fileadmin/user_upload/document/Final_<br />
Review_Conclusions.pdf.<br />
30 Sul punto va anche ricordato che l’art. 4 del Trattato dispone esplicitamente<br />
che “nessuna disposizione del presente Trattato deroga, nei rapporti<br />
tra Parti contraenti che sono membri del GATT, alle disposizioni del GATT e<br />
agli atti correlati, quali applicate tra dette Parti contraenti”.<br />
289
scopo di armonizzare il Trattato sulla Carta dell’Energia con il<br />
sistema delineato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio,<br />
che sembra un implicito orizzonte di riferimento 31. Ora, alla<br />
luce della indubbia vitalità che ha contraddistinto le vicende<br />
della Carta dell’Energia, forse non sarebbe assurdo immaginare<br />
una progressiva (ed esplicita) integrazione della discussione a livello<br />
globale delle tematiche energetiche con altre problematiche<br />
(tipicamente agricole) che già si trattano in sede di Wto. Da<br />
un lato, ciò proietterebbe la Carta dell’Energia in una dimensione<br />
totalmente globale, confermando una tendenza che si sta imponendo<br />
sul piano fattuale; dall’altro, l’aggiunta delle questioni<br />
energetiche al materiale sul tavolo delle trattative della Wto potrebbe<br />
forse rilanciare una prospettiva di integrazione commerciale<br />
veramente mondiale.<br />
Se questo scenario appare effettivamente stimolante, non si<br />
può ignorare un problema di fondo che pervade la logica stessa<br />
della Carta dell’Energia e degli atti ad essa successivi. Pur ribadendo<br />
in numerosissimi frangenti la necessità di sviluppare<br />
scambi che si basino sulle regole del mercato, il Trattato non incide<br />
– non vuole incidere – sul regime di proprietà delle imprese<br />
energetiche. Si pensi, ad esempio, all’art. 22, ove invece di esservi<br />
un perentorio divieto per tutte le imprese statali ad agire<br />
in modo non conforme alla disposizioni convenzionali, si trova<br />
una norma ben più moderata: “nessuna Parte contraente incoraggia<br />
o obbliga [un’]impresa statale a svolgere le proprie attività<br />
nella sua area in maniera non conforme agli obblighi della<br />
Parte contraente ai sensi di altre disposizioni del presente Trattato”.<br />
Un simile approccio non è soddisfacente e difetta di coerenza<br />
con le stesse premesse di liberalizzazione degli scambi di pro-<br />
31 Come si nota nel sito internet della Carta dell’Energia (http://www.encharter.org/index.php?id=26)<br />
nove firmatari del Trattato (Azerbaigian, Bielorussia,<br />
Bosnia-Erzegovina, Kazakistan, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan,<br />
Ucraina ed Uzbekistan) non sono membri della Wto: per questi<br />
Paesi si tratta di un primo approccio a una disciplina di diritto commerciale<br />
internazionale modellata sull’impostazione dell’Organizzazione Mondiale del<br />
Commercio.<br />
290
dotti e materiali energetici nell’ambito dello sviluppo di un mercato<br />
internazionale dell’energia: davanti ad imprese private che<br />
rispondono pienamente a dinamiche economiche capitalistiche,<br />
infatti, si continuano a contrapporre colossi statalizzati che tali<br />
dinamiche riescono ad eludere proprio grazie alla costante presenza<br />
del capitale pubblico.<br />
In altre parole, cioè, si vuole evidenziare che il passo finale<br />
verso un’equilibrata integrazione su scala mondiale del mercato<br />
energetico è possibile solo a patto di inaugurare un parallelo<br />
processo di privatizzazione dei soggetti che vi operano: sotto<br />
questo profilo, una trattativa internazionale potrebbe favorire<br />
una transizione armonica, garantendo contemporaneamente<br />
una tempistica ragionevole, determinata e indipendente dai<br />
cambiamenti politici di ogni singola realtà statale.<br />
8.6. Oltre la Carta dell’Energia?<br />
Alla luce della ricostruzione sin qui fornita si possono ricavare<br />
due elementi di riflessione:<br />
8.6.1. La vocazione “espansiva” della Carta dell’Energia.<br />
Non si può negare che la Carta dell’Energia sia stata in grado<br />
di andare oltre i limiti storici in cui è stata originata. La realtà<br />
della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta era<br />
contraddistinta dalle prospettive di superamento delle contrapposizioni<br />
tra Est e Ovest nell’ottica di una progressiva integrazione<br />
(se non politica, per lo meno) economica. Subito dopo la<br />
sua sottoscrizione, la Carta dell’Energia si è immersa in una situazione<br />
contraddistinta dal collasso dell’Unione Sovietica: di<br />
fatto, quindi, molto diversa da quella in cui era stata pensata.<br />
Nonostante abbia subito una qualche forma di eterogenesi dei<br />
fini, la trattativa internazionale sui temi energetici non si è arenata,<br />
dimostrando che la problematica andava ben oltre una rigida<br />
prospettiva Est-Ovest: quando nel dicembre 1994 vengono<br />
apposte le firme ai primi documenti giuridicamente vincolanti,<br />
il quadro politico generale è tanto velocemente quando to-<br />
291
talmente mutato. Nel 1998, all’entrata in vigore degli accordi<br />
base, il mondo in cui è stato presentato il Memorandum Lubbers,<br />
nel giugno 1990, non esisteva più.<br />
Pur essendo condotte in uno dei momenti in cui la storia ha<br />
avuto alcune tra le accelerazioni più consistenti degli ultimi decenni,<br />
le discussioni intorno alla Carta dell’Energia non si sono<br />
atrofizzate, non sono apparse obsolete, ma si sono ulteriormente<br />
sviluppate. Il primo punto su cui è necessario convenire,<br />
quindi, è la profonda necessità – percepita da più parti – di attuare<br />
una qualche forma di collaborazione internazionale in<br />
campo energetico, esigenza che, da una parte ha fatto sopravvivere<br />
la piattaforma della Carta dell’Energia al di là delle sue intenzioni<br />
originarie, dall’altra ha progressivamente ampliato<br />
l’ambito dei Paesi interessati (in qualità di Parti o, perlomeno,<br />
di osservatori) ben oltre l’ambito europeo.<br />
8.6.2. I limiti “strutturali” all’interazione internazionale realizzata<br />
dalla Carta.<br />
Nonostante i profili di indubbio successo, la Carta dell’Energia<br />
e i relativi trattati non sembrano aver pienamente raggiunto<br />
alcuni degli obiettivi che gli Stati contraenti si erano proposti.<br />
In primo luogo non si possono ignorare le crisi che negli<br />
ultimi anni hanno visto contrapposte Russia e Ucraina nonché<br />
Russia e Bielorussia 32: si tratta sicuramente di momenti di massima<br />
tensione su tematiche energetiche. Come è evidente a tutta<br />
l’opinione pubblica, l’organizzazione che trae origine dalla<br />
Carta dell’Energia non è stata in grado di riunire ad uno stesso<br />
32 D’altra parte lo status di Russia e Bielorussia nell’ambito del Trattato<br />
sulla Carta dell’Energia è controverso: ai sensi degli artt. 44 e 45, prima dell’entrata<br />
in vigore del Trattato o prima della sua ratifica il Trattato si applica<br />
provvisoriamente, ma, per ciascuno Stato, nei limiti della compatibilità con la<br />
costituzione, le leggi e i regolamenti. Ogni Stato, comunque, può evitare l’applicazione<br />
provvisoria presentando un’apposita dichiarazione ai sensi dell’art.<br />
45 comma 2, lett. a). Russia e Bielorussia non hanno ratificato il Trattato, ma<br />
non hanno nemmeno presentato alcuna dichiarazione in senso contrario: ne<br />
consegue, dunque, che il Trattato si applica anche a questi due Stati, i quali,<br />
però, possono renderne inefficaci le previsioni con un semplice atto normativo<br />
di diritto interno.<br />
292
tavolo tutti gli interessati: non si trattava solo delle parti specificamente<br />
interessate dal conflitto diplomatico, ma anche – e forse<br />
soprattutto – dei numerosi Paesi europei coinvolti loro malgrado.<br />
Proprio nel momento della crisi, insomma, è mancato un<br />
confronto multilaterale: si è lasciato campo libero allo scontro<br />
tra due Stati, mentre il modo più efficace ed efficiente di affrontare<br />
situazioni di contrasto sarebbe proprio quello di ottenere<br />
mediazioni attraverso il contemporaneo bilanciamento dei molteplici<br />
interessi in gioco.<br />
Si è dovuto quindi fare ancora riferimento ai consueti canali<br />
diplomatici che – beninteso – sono riusciti ad ottenere una qualche<br />
forma di “accomodamento”, ma senza giungere ad una definizione<br />
complessiva della controversia e facendo permanere il rischio<br />
che, in un futuro inverno particolarmente rigido, la situazione<br />
possa nuovamente precipitare costringendo i Paesi occidentali<br />
(in particolare l’Italia) ad attingere alle riserve strategiche.<br />
Sotto un certo profilo, ciò è anche peggio: si sarebbero potute<br />
risolvere le controversie agendo in anticipo, evitando uno<br />
scontro da cui hanno subito danni sia i paesi importatori di materiale<br />
energetico sia gli esportatori. In fondo, uno degli scopi<br />
primari di un’organizzazione come quella collegata ai trattati<br />
scaturiti dalla Carta dell’Energia sarebbe proprio la prevenzione<br />
delle crisi attraverso la procedimentalizzazione delle controversie.<br />
Che il sistema dell’Energy Charter mostri le sue debolezze<br />
nei momenti critici è confermato anche da un altro dato riferito<br />
a una prospettiva diversa: negli anni più recenti, si è assistito a un<br />
progressivo incremento, da parte degli investitori, del ricorso ai<br />
meccanismi di arbitrato internazionale istituito dal Trattato 33.<br />
Sotto una certa prospettiva, ciò potrebbe dare l’impressione che<br />
le previsioni convenzionali siano state in grado di fornire una valida<br />
strada per risolvere le questioni giuridiche sorte nel campo<br />
degli investimenti energetici transnazionali. Guardando i dati<br />
33 Il punto ha ormai una rilevanza tale da spingere la stessa organizzazione<br />
della Carta dell’Energia a patrocinare conferenze e incontri di studio focalizzati<br />
sulle esigenze degli investitori:si veda www.encharter.org/index.<br />
php?id=221&L=0.<br />
293
con un minimo di attenzione, invece, le deduzioni che se ne possono<br />
trarre hanno segno esattamente opposto. Una volta recepite<br />
nei Paesi contraenti, le previsioni dei trattati divengono diritto<br />
interno: ne consegue che gli investitori nel campo energetico<br />
non hanno possibilità di scelta, ma sono sempre tenuti a seguire<br />
le procedure di dispute resolution così come delineate nel Trattato<br />
stesso. Non solo: in una quota significativa di controversie, l’origine<br />
risiede proprio in problemi interpretativi del Trattato.<br />
Il panorama che si deduce, insomma, sembra evidenziare la<br />
non completa adeguatezza delle previsioni convenzionali: da un<br />
lato, esse non riescono ad evitare che gli investitori siano sottoposti<br />
a comportamenti scorretti da parte delle autorità degli Stati in<br />
cui operano; dall’altro, la prassi dimostra la presenza, all’interno<br />
del Trattato, di snodi normativi non facilmente applicabili.<br />
8.6.3. Profili critici della Carta dell’Energia.<br />
Nonostante il notevole passo in avanti realizzato dalla Carta<br />
dell’Energia e dal relativo Trattato, va riconosciuta l’esistenza di<br />
profili di criticità che non sembrano risolvibili senza un’ulteriore<br />
evoluzione del sistema. Non si tratta solo di migliorare la redazione<br />
del Trattato attraverso emendamenti scaturenti da necessità riconosciute<br />
da analisi periodiche – cosa sempre fattibile, auspicabile<br />
e prevista dall’art. 34 del Trattato – ma di andare oltre la Carta<br />
dell’Energia, riproducendone le logiche su una scala più vasta.<br />
Come già accennato, una soluzione ragionevole potrebbe<br />
essere quella di integrare formalmente il Trattato sulla Carta dell’Energia<br />
con la Wto: ciò darebbe la possibilità di realizzare un<br />
tavolo di discussione molto ampio in cui i problemi energetici<br />
potrebbero essere studiati, affrontati e risolti sotto i molteplici<br />
profili che li contraddistinguono. Un forum globale permanente<br />
sull’energia potrebbe inserire il dialogo su queste problematiche<br />
in una dimensione tale da realizzare forme di interazione<br />
che travalichino le questioni energetiche collocandosi in un<br />
mercato potenzialmente totale e globale, favorendo l’ulteriore<br />
stipula di convenzioni finalizzate all’apertura armonica dei mercati<br />
dei Paesi produttori e dei Paesi consumatori di energia.<br />
294
Sotto un diverso profilo non si può negare che un sistema<br />
simile possa avere la conseguenza negativa di ridurre la velocità<br />
di approccio verso problemi immediati o verso episodi classificabili<br />
come vere e proprie crisi energetiche o diplomatiche.<br />
Sembra logico supporre, dunque, che l’eventuale forum globale<br />
debba essere affiancato ed integrato da una struttura più flessibile<br />
e meno variegata: una specie di consiglio di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
Si delinea, cioè, la necessità di un luogo ove possano confrontarsi<br />
i principali quindici o venti Paesi produttori e consumatori,<br />
che, dal punto di vista complessivo, rappresentano una<br />
percentuale molto significativa dei mercati energetici.<br />
Un simile strumento rappresenterebbe anche la possibilità<br />
concreta di superare attuali (o eventuali) cartelli di paesi produttori,<br />
evitando una contrapposizione con un possibile (e forse già<br />
all’orizzonte) cartello dei paesi prevalentemente consumatori di<br />
energia. Il punto è di notevole importanza: i rapporti con il forum<br />
globale dovrebbero fare in modo di evitare uno scontro<br />
frontale tra queste due categorie di Stati, che costituisce un rischio<br />
da evitare con cura.<br />
Ma vi sono altri aspetti che meritano una certa attenzione.<br />
Strutturalmente, gli investimenti in campo energetico sono<br />
sempre molto ingenti e hanno una prospettiva temporale<br />
decisamente ampia: per sostenere i costi di ricerca, innovazione<br />
e sviluppo, ma anche soltanto per ammortizzare la costruzione<br />
degli impianti, l’operatore economico deve avere una<br />
certa entità e solidità economica. A differenza di altri mercati,<br />
in cui determinati fattori intrinseci non rilevano, il mercato<br />
energetico richiede quindi la presenza di imprese di grandi dimensioni.<br />
Molto spesso si tratta di enti pubblici o società a<br />
prevalente capitale pubblico: in ogni caso si tratta di soggetti<br />
la cui entità non può essere mai sottovalutata. In altre parole,<br />
una sede di confronto tra Stati è necessaria, ma può non essere<br />
sufficiente. Sarebbe invece estremamente proficuo far partecipare<br />
anche le imprese energetiche in un tavolo paritario e<br />
scevro da pregiudizi: da un lato gli Stati si farebbero interpreti<br />
della voce dei cittadini elettori direttamente nelle allegoriche<br />
orecchie di chi materialmente porta l’energia elettrica in ogni<br />
casa; dall’altro si realizzerebbe la premessa per una profonda<br />
295
fase di privatizzazioni che sinora è stata semplicemente inimmaginabile.<br />
Il confronto tra enti pubblici ed operatori economici fornirebbe<br />
un quadro sicuro di apertura dei mercati entro cui sviluppare<br />
gli investimenti privati, limitando progressivamente l’ingerenza<br />
dello Stato: un programma di liberalizzazioni e privatizzazioni<br />
in un solo Stato (produttore, o anche consumatore) richiederebbe<br />
un impatto geo-politico tutt’altro che trascurabile, poiché<br />
permetterebbe l’ingerenza di un soggetto pubblico al di fuori<br />
dei confini nazionali. In una prospettiva di superamento globale<br />
e concordato della partecipazione pubblica negli operatori<br />
energetici – la cui sede potrebbe dunque essere questa sorta<br />
di “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” dell’energia –, invece, tale rischio si<br />
scongiurerebbe. D’altra parte, non avrebbero senso determinati<br />
timori – peraltro generalmente immotivati – che un processo<br />
di privatizzazione può generare in relazione ai prezzi e alla tutela<br />
delle categorie meno abbienti: ormai liberi da partecipazioni<br />
nel mercato, gli Stati potrebbero adoperarsi in moderate forme<br />
di controllo esterno proprio attraverso una moral suasion da<br />
esercitarsi in sede di “consiglio di <strong>sicurezza</strong>”.<br />
Vale la pena rimarcare la necessità di coordinare e integrare<br />
il forum globale con la struttura più ristretta di cui si è appena<br />
discusso: la realtà dell’energia è intrinsecamente flessibile e<br />
richiede tecniche di collaborazione internazionale che riescano<br />
a supportare tale alto grado di elasticità. Dal lato dei consumi,<br />
infatti, sono preventivabili aumenti anche molto consistenti in<br />
rapporto con le previsioni di crescita demografica ma anche – e<br />
soprattutto – industriale che, fortunatamente, interessano, e<br />
sempre più interesseranno, zone del mondo ancora in via di sviluppo.<br />
Anche sul lato delle risorse energetiche, peraltro – come<br />
già visto al capitolo 4 del presente studio – la situazione è tutt’altro<br />
che statica: il progresso tecnologico e le mutevoli esigenze<br />
della società “creano” risorse energetiche: sul medio-lungo termine<br />
paesi prevalentemente consumatori potrebbero evolversi<br />
come produttori, o viceversa.<br />
Non solo, vi è anche una terza categoria di paesi che non<br />
possono essere assolutamente ignorati: gli Stati in cui passano le<br />
grandi reti di trasporto dell’energia. Con le crisi degli scorsi in-<br />
296
verni si è visto come anch’essi giochino un ruolo determinante:<br />
sebbene le reti appaiano (superficialmente) quanto di più stabile<br />
e intangibile possa esistere, la realtà dei rigassificatori ha reso<br />
evidente a tutti che anche le tecniche di trasporto dell’energia<br />
mutano radicalmente con il passare del tempo, e che tale fattore<br />
possa incidere nelle dinamiche di mercato tanto da giungere<br />
addirittura a modificare l’equilibrio di tutte le forze in campo.<br />
Ne consegue, insomma, che l’organismo ristretto – che abbiamo<br />
denominato “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” – debba rapportarsi al forum<br />
globale in modo letteralmente opposto rispetto a quello che<br />
accade nell’Organizzazione delle Nazioni Unite: l’immutabilità,<br />
l’ingessatura del “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” avrebbe la conseguenza<br />
di diminuirne progressivamente la rilevanza, come, d’altronde, è<br />
accaduto per il corrispondente organismo Onu. Sul punto, la storia<br />
delle relazioni internazionali – comunque basate su rapporti di<br />
potenza più statici di quanto si possa riscontrare nel mercato energetico<br />
– può fornire lezioni interessanti: davanti all’insuccesso delle<br />
strutture Onu, che avevano senso solo in rapporto all’esito della<br />
Seconda guerra mondiale, ma che erano state presto superate, i<br />
paesi maggiormente industrializzati hanno percepito l’esigenza di<br />
un luogo d’incontro informale, dando vita al G7. Anche se contestatissimo,<br />
il G7 ha avuto la capacità di rinnovarsi attraverso la<br />
cooptazione della Russia (trasformandosi, quindi, nel G8), che,<br />
pur non essendo ai vertici dell’industrializzazione, è comunque un<br />
partner strategico essenziale. Con il passare del tempo, il mutare<br />
del contesto politico internazionale (che ha più volte provveduto<br />
a sconfessare ogni ipotesi di morte della storia) e il susseguirsi delle<br />
riunioni, il G8 ha visto la presenza di paesi “osservatori” nonché<br />
di un’organizzazione sovrastatale (o parastatale, o confederale:<br />
sul punto i giuristi non hanno ancora raggiunto una valutazione<br />
unanime) come l’Unione Europea.<br />
In altre parole: il modello di un’organizzazione globale dell’energia<br />
non può essere l’Onu, ma piuttosto, con alcune diverse<br />
peculiarità, il G8. Certamente non è facile individuare forme<br />
di interazione che garantiscano efficacia nella flessibilità, ma il<br />
tavolo delle discussioni non potrà ignorare questo elemento, che<br />
riassume molti degli elementi che contraddistinguono la sfida<br />
globale dell’energia.<br />
297
9.<br />
Conclusione: un coordinamento necessario<br />
Le tesi sostenute in questo paper possono essere riassunte<br />
in quattro punti:<br />
• Le liberalizzazioni, promuovendo l’integrazione e la flessibilità<br />
dei mercati, rafforzano la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Su un<br />
mercato autenticamente libero, infatti, il mix energetico<br />
tende a essere più diversificato, e questo consente di assorbire<br />
meglio eventuali shock;<br />
• Alcune scelte di politica ambientale – specie in relazione alla<br />
lotta ai mutamenti climatici – possono al contrario indebolire<br />
la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, penalizzando fonti di energia<br />
efficienti a favore di fonti inaffidabili;<br />
• Il ruolo primario della politica estera, sia a livello nazionale<br />
sia in sede europea, dovrebbe essere quello di perseguire<br />
forme di reciproca apertura dei mercati tra i paesi produttori<br />
e consumatori;<br />
• Poiché la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dipende da tutti questi fattori<br />
in misura sostanziale, è urgente una revisione delle tre linee<br />
politiche – economica, ambientale ed estera – e delle<br />
conseguenti scelte regolatorie nel tentativo di trovare un<br />
coordinamento e di non adottare scelte contraddittorie.<br />
Tali osservazioni seguono in primo luogo dalla constatazione<br />
che le tensioni sui mercati dell’energia non derivano da, e non<br />
hanno nulla a che vedere con, una scarsità fisica delle risorse.<br />
Petrolio, gas naturale, carbone e uranio – per citare i combustibili<br />
principali che oggi soddisfano gran parte dei fabbisogni<br />
mondiali – sono in natura abbondanti e non c’è alcuna ragione<br />
di temere un loro esaurimento. Le riserve note sono in grado di<br />
299
durare, agli attuali ritmi di consumo, un quarantennio nel caso<br />
del petrolio, molto di più negli altri. Inoltre il concetto stesso di<br />
riserve note è di difficile applicabilità, se non a fini statistici e per<br />
valutare gli asset in mano alle varie compagnie o paesi. Esso<br />
esclude, per definizione, le riserve incognite, che non sono ancora<br />
state trovate e che si celano nel sottosuolo: gran parte della<br />
superficie terrestre è tuttora inesplorata e potrebbe riservare<br />
grandi sorprese. Le stesse riserve note sono spesso poco o male<br />
sfruttate, principalmente a causa della chiusura di molti paesi<br />
produttori ai capitali stranieri. Coi capitali, restano al di fuori<br />
dei confini anche competenze e tecnologie che potrebbero aumentare<br />
di molto la resa dei giacimenti.<br />
Inoltre, se davvero le risorse fossero in via di esaurimento –<br />
dopo tutto si tratta di quantità finite – il mercato, laddove funzionante,<br />
consente una loro gestione oculata. Al progressivo<br />
prosciugamento dei giacimenti corrisponderebbe un aumento<br />
dei prezzi, che immediatamente incentiverebbe il risparmio e<br />
l’efficienza, in maniera tale da fare miglior uso delle risorse esistenti:<br />
il dimezzamento dei consumi per la produzione di un dato<br />
output (per esempio spostare un’automobile per x chilometri<br />
o, in generale, produrre un’unità di prodotto interno lordo)<br />
equivale, a tutti gli effetti, a un raddoppio delle risorse. Più nel<br />
lungo termine, l’aumento dei prezzi creerebbe maggiori occasioni<br />
di profitto per chiunque fosse in grado di immettere sul<br />
mercato fonti diverse ma equivalenti (come gli oli non convenzionali),<br />
oppure fonti alternative. Questa prospettiva di maggior<br />
guadagno spingerebbe molte imprese a rischiare: le compagnie<br />
petrolifere già oggi investono molto nella ricerca e sviluppo di<br />
tecnologie alternative, semplicemente per non rischiare di essere<br />
tagliate fuori dal business quando queste dovessero emergere.<br />
È ovvio che la maggior parte fallirebbe nella ricerca, a sue<br />
spese. Ma l’esperienza suggerisce che molto probabilmente<br />
qualcuno riuscirebbe a trovare energie alternative efficienti,<br />
causando un nuovo salto tecnologico paragonabile a quelli sperimentati<br />
in passato. Per comprendere tale fenomeno bisogna<br />
considerare che quel che l’umanità cerca non è, astrattamente,<br />
petrolio o gas o carbone: è energia che possa muovere i mezzi di<br />
trasporto, far funzionare le macchine, alimentare le tecnologie<br />
300
dell’informazione e della comunicazione. La stessa maggiore<br />
importanza conquistata dall’elettricità rispetto ad altre forme di<br />
energia è una garanzia in questo senso, perché l’elettricità generata<br />
da una fonte è indistinguibile da quella generata da altre<br />
fonti, e quindi i consumatori sarebbero orientati semplicemente<br />
dal prezzo: non dovrebbero sostenere particolari costi nell’acquistare<br />
energia da un fornitore piuttosto che da un altro (anche<br />
questo fatto rende di cruciale importanza la terzietà e la gestione<br />
non discriminatoria delle reti, pienamente ottenuta in Italia<br />
con la separazione proprietaria di Terna dall’Enel e l’imposizione<br />
di un limite alle quote che le imprese produttrici di energia<br />
elettrica possono detenere).<br />
Anche in quest’ottica evolutiva, le liberalizzazioni e, in generale,<br />
la libertà economica giocano un ruolo molto importante,<br />
in quanto costituiscono la garanzia per le imprese che potranno<br />
operare liberamente e che i loro investimenti saranno protetti.<br />
Ne seguono due conclusioni. La prima riguarda la tassazione<br />
dei profitti delle compagnie, che va affrontata in maniera razionale<br />
e non emozionale: grandi profitti sono sinonimo – se un’impresa<br />
vuole sopravvivere – di grandi investimenti. L’adozione di<br />
imposte punitive degli extra profitti dovuti all’aumento dei<br />
prezzi del petrolio (o del gas) è doppiamente miope, dunque:<br />
nell’immediato fa scappare le imprese e quindi indebolisce la <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> (alleggerendo le pressioni competitive su chi<br />
resta), nel medio e lungo periodo rischia di ridurre gli investimenti<br />
e quindi la speranza di aumentare la diversificazione o<br />
escogitare alternative. La seconda conclusione ha a che fare con<br />
le politiche pubbliche di promozione degli investimenti, di cui<br />
spesso si discute sia a livello nazionale sia europeo: esse dovrebbero<br />
essere le più neutrali possibili – per esempio la defiscalizzazione<br />
di tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo. Quanto<br />
maggiori sono gli spazi di arbitrarietà, per esempio sotto forma<br />
di detrazioni o deduzioni selettive oppure sussidi alla ricerca e<br />
sviluppo in certi campi, tanto maggiore è il rischio che le imprese<br />
si orientino verso attività di mero rent seeking, che abbiano<br />
luogo fenomeni di corruzione, e che la burocrazia, per quanto<br />
onesta, preparata e disinteressata, fallisca nel compito di individuare<br />
i filoni più promettenti, promuovendo così un’allocazio-<br />
301
ne inefficiente delle risorse e in ultima analisi rallentando il progresso.<br />
Lo stesso ragionamento vale per le politiche ambientali in<br />
generale, climatiche in particolare. Esse devono muovere da tre<br />
presupposti: (1) in prospettiva, le maggiori emissioni di gas a effetto<br />
serra proverranno dai paesi in via di sviluppo; (2) il riscaldamento<br />
globale e altre questioni ambientali sono problemi globali,<br />
non regionali, e di lungo termine, e le soluzioni devono<br />
dunque avere le medesime caratteristiche; (3) un’eccessiva enfasi<br />
su miglioramenti locali e immediati può indebolire chi li persegue<br />
sullo scenario economico e politico internazionale, e perciò<br />
disincentivare la partecipazione di chi emette di più e in ultima<br />
analisi peggiorare, anziché alleviare, il problema. Probabilmente<br />
questo è il punto più delicato del protocollo di Kyoto. Esso,<br />
in effetti, richiede a un ristretto numero di paesi di operare<br />
riduzioni sostanziali delle loro emissioni entro una scadenza ravvicinata,<br />
e facendo ciò produce (di fatto) uno spostamento di risorse<br />
a favore non tanto di chi può effettivamente produrre un<br />
balzo tecnologico, ma verso chi è in grado di offrire tagli delle<br />
emissioni, reali o apparenti che siano, qui e ora. Anche sotto il<br />
profilo delle opzioni tecnologiche, Kyoto sembra favorire quelle<br />
fonti di energia che, pur già disponibili, sono economicamente<br />
poco efficienti a scapito di tecnologie più promettenti ma non<br />
ancora perfezionate.<br />
Infine, la politica estera gioca un ruolo spesso sottovalutato:<br />
è opportuno che esistano forme di coordinamento, o almeno<br />
di non contraddizione, tra politica ambientale, <strong>energetica</strong> ed<br />
estera. In tutti questi casi, infatti, ci si scontra con l’esigenza, diretta<br />
o indiretta, di creare un rapporto di cooperazione stabile e<br />
mutuamente vantaggioso con gli altri paesi: da un lato per quanto<br />
attiene la collaborazione tecnologica e la riduzione dell’impatto<br />
antropogenico sul clima, dall’altro per quel che riguarda<br />
la ricerca, l’estrazione, il trasporto e la vendita delle fonti fossili.<br />
Se questo è il compito della politica estera, ne derivano due<br />
conseguenze. Una è che essa non deve essere ostacolata da dichiarazioni<br />
avventate o decisioni controproducenti negli altri<br />
campi. L’altra è che la politica estera deve essere forte, stabile e<br />
credibile: quindi condivisa. Ciò rende necessario un confronto<br />
302
tra i diversi partiti politici per elaborare delle linee condivise<br />
nell’interesse del paese, quanto meno sotto il profilo della <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> (un discorso analogo può valere per altri temi<br />
che qui non vengono trattati).<br />
Da queste tesi derivano alcune indicazioni in merito a quali<br />
scelte potrebbero essere effettuate a livello nazionale, europeo,<br />
e internazionale nell’ambito di una strategia orientata alla<br />
<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />
L’Italia e gli altri Stati membri dell’Unione Europea soffrono<br />
principalmente di due problemi: un deficit di libertà economica<br />
nel settore energetico, e una eccessiva dipendenza da pochi<br />
combustibili ottenuti da pochi fornitori. La diversificazione<br />
è quindi uno dei pilastri su cui deve reggersi la strategia di <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>: il primo e più ovvio metodo per perseguirla è<br />
la rimozione di quei provvedimenti di legge o regolatori che disincentivano<br />
o vietano il ricorso a talune fonti energetiche, obbligando<br />
dunque il mercato a spostarsi verso le altre. Parallelamente,<br />
occorre pure un deciso sforzo di liberalizzazione dell’energia<br />
– anche attraverso una ragionevole politica di separazione<br />
delle reti dagli operatori del servizio 1 – e l’abbandono delle<br />
forme di discriminazione verso le imprese straniere. Altrettanto<br />
importante è l’adozione di un quadro normativo certo e non<br />
ostile agli investimenti. Se è vero che l’Italia e gli altri paesi hanno<br />
un disperato bisogno di infrastrutture, allora essi devono saper<br />
attirare, non respingere, capitali. Questo è un passaggio<br />
chiave nell’ottica della diversificazione: per avvenire, infatti, essa<br />
richiede necessariamente l’ingresso di newcomers. Per esempio,<br />
la dipendenza dai pochi fornitori di gas naturale (nel caso<br />
italiano, principalmente Russia e Algeria) può essere alleviata<br />
grazie a una più capillare diffusione del Gnl. Tuttavia, quelle imprese<br />
che hanno approntato progetti di terminali di rigassificazione<br />
si sono dovute scontrare con opposizioni e ritardi che hanno<br />
fatto lievitare i costi e i tempi delle operazioni 2. Naturalmen-<br />
1 A proposito della situazione italiana, si veda in particolare CARLO SCAR-<br />
PA, “La falsa liberalizzazione del mercato del gas”.<br />
2 Si veda SILVIO BOCCALATTE, PAOLO MESSA e CARLO STAGNARO, “Liberare<br />
gli investimenti per liberare la sfida <strong>energetica</strong>”.<br />
303
te, gli effetti di questa misure non saranno e non possono essere<br />
immediati: tuttavia, il problema – che ha un aspetto acuto e<br />
immediato, difficilmente risolubile se non con provvedimenti<br />
tampone e in caso di emergenza, come è accaduto all’inizio del<br />
2006 con la crisi del gas o nel 2003 con le sospensioni programmate<br />
del servizio elettrico – ha una sua natura di lungo termine.<br />
Necessariamente, dunque, la risposta deve guardare al lungo<br />
periodo, per poter essere adeguata. Inoltre, occorre tenere presente<br />
che la maggior parte dell’aumento della domanda, e quindi<br />
gran parte delle pressioni sui prezzi, delle risorse energetiche,<br />
proviene dalle economie emergenti, non dai paesi industrializzati:<br />
quindi, piuttosto che far fronte a una crescita dei consumi<br />
di energia (anche se potranno verificarsi aumenti anche sensibili<br />
della domanda di alcune fonti, come il gas) l’Italia dovrà porsi<br />
il problema di garantire approvvigionamenti sicuri e stabili.<br />
L’obiettivo, dunque, dev’essere da un lato quello di provvedere<br />
un clima favorevole agli investimenti delle imprese private, dall’altro<br />
presentarsi come un partner politico affidabile per i paesi<br />
produttori.<br />
L’Unione Europea può svolgere un ruolo essenziale alla <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>, sia per gli Stati membri, sia per il sistema globale<br />
nel suo complesso. Tale ruolo si declina secondo due direttrici,<br />
una interna all’Ue, l’altra esterna. Internamente, l’Ue può<br />
promuovere l’implementazione delle liberalizzazioni negli Stati<br />
membri. Inoltre, può agevolare la creazione di un mercato interno<br />
dell’energia sia forzando la rimozione degli ostacoli agli investimenti<br />
cross border (ancora rilevanti, nonostante la piena liberalizzazione<br />
entrata in vigore il 1 luglio 2007), sia – anche come<br />
conseguenza di ciò – spingendo una maggiore interconnessione<br />
delle reti e degli scambi energetici tra gli Stati membri. Il<br />
Libro verde sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> pubblicato dalla Commissione<br />
evidenzia chiaramente questi punti, anche se al fondo è<br />
evidente la debolezza della Commissione su questi temi: è dunque<br />
essenziale che si sviluppi un consenso interno all’Ue sul<br />
conferimento a Bruxelles di maggiori poteri in materia di politica<br />
<strong>energetica</strong>. Ciò sarebbe funzionale anche all’efficacia della<br />
direttrice esterna, che consiste nella creazione di “buoni rapporti”<br />
coi paesi produttori e fornitori di risorse energetiche, e con<br />
304
quelli di transito. “Buoni rapporti” significa primariamente garanzie<br />
reciproche sulla protezione degli investimenti, e cioè mutue<br />
aperture dei mercati, in base all’assunto che, in un’economia<br />
globalizzata caratterizzata da un crescente grado di interdipendenza,<br />
ciascuno ha bisogno dell’altro. La reciprocità è un elemento<br />
importante, ma per poterla pretendere bisogna avere la<br />
forza e il coraggio di aprirsi per primi. Quindi tattiche di chiusura<br />
sono nocive e da evitare, anche se in alcuni casi possono esservi<br />
preoccupazioni fondate. I dossier vanno dunque gestiti caso<br />
per caso, mantenendo però ferma la barra sul principio chiave<br />
della libertà economica. Come si è visto, molte inefficienze<br />
nei paesi produttori derivano infatti da una sua assenza: essa<br />
può difficilmente essere promossa in maniera credibile se chi la<br />
invoca non la adotta in casa sua.<br />
Una accresciuta consapevolezza del ruolo dell’Ue in questo<br />
senso potrebbe farne aumentare pure il prestigio internazionale,<br />
con la conseguenza di agevolare negoziazioni multilaterali tese<br />
a favorire una diffusione di tale approccio: nella consapevolezza<br />
che pure all’interno dell’Ue il processo è tutt’altro che<br />
semplice o lineare, ma si muove grazie a un faticoso e generoso<br />
sforzo ma anche perché vige la convinzione che, nel lungo termine,<br />
tutto ciò convenga. Tre sono i luoghi chiave in cui possono<br />
prender luogo tali negoziazioni. Il primo è il G8, a causa del<br />
fatto che esso raccoglie le maggiori potenze economiche e politiche<br />
del pianeta – coloro, cioè, che hanno il massimo interesse<br />
e i mezzi più efficaci a convincere gli altri paesi a seguire la via<br />
della libertà economica. Nel caso dell’energia, sarebbe utile l’apertura<br />
di un nuovo spazio analogo al G8, che però includa tutti<br />
i maggiori produttori e consumatori di energia, compreso l’Opec.<br />
Non è necessario – anzi: potrebbe essere controproducente<br />
– che le decisioni ivi assunte siano legalmente vincolanti. Esse<br />
dovrebbero servire più a fornire degli indirizzi, allo scopo di<br />
esercitare una forma di moral suasion sui partecipanti ed evidenziare<br />
il reciproco interesse. Nel processo potrebbero essere<br />
coinvolti anche tutti gli stakeholder rilevanti, come le grandi imprese,<br />
nazionali e internazionali, operanti nell’energia. Proprio<br />
perché il settore privato dispone dei mezzi (tecnologici ed economici)<br />
e delle competenze necessarie a far funzionare i merca-<br />
305
ti energetici, esso non dovrebbe essere trascurato, escluso, o<br />
considerato ininfluente ai fini del buon esito delle negoziazioni<br />
politiche: dopo tutto, ciò di cui in pratica si sta parlando è la libertà<br />
di accesso delle Nocs dei paesi produttori sui mercati a<br />
valle, e delle Iocs sui mercati a monte della filiera <strong>energetica</strong>. Seguendo<br />
la stessa logica, acquista una importanza centrale la<br />
World Trade Organization. La questione <strong>energetica</strong> è di natura<br />
essenzialmente commerciale e le difficoltà nel soddisfare pienamente<br />
la domanda, oltre che alcune rigidità lungo la filiera, dipendono<br />
essenzialmente dalla chiusura dei mercati e dall’eccessivo<br />
interventismo pubblico a tutti gli stadi. Sebbene la Wto si<br />
trovi oggi in grave difficoltà a causa della via apparentemente<br />
senza sbocco in cui sembra essere entrato il multilateralismo, l’energia<br />
potrebbe essere – se solo le parti avessero il coraggio di<br />
trattarla in questi termini – il terreno comune su cui cercare una<br />
composizione delle opposte spinte. Se si abbandona la logica<br />
delle reciproche rivendicazioni e si guarda ai fatti, si osserverà<br />
come vi sia una simmetria quasi perfetta tra le esigenze dei maggiori<br />
consumatori e produttori di energia: i primi hanno bisogno<br />
delle risorse, gli altri dei capitali, competenze e tecnologie per<br />
estrarle. I tasselli non si incastrano principalmente a causa di rivalità<br />
e cecità politiche, e dunque politica deve essere la soluzione.<br />
Come? Attraverso mezzi economici, cioè attraverso il commercio.<br />
Un tentativo di ottenere un simile risultato è la Carta<br />
dell’energia, un impegno che purtroppo non è stato ancora ratificato<br />
(talvolta neppure firmato) dai principali protagonisti del<br />
risiko energetico. La parte più significativa della Carta, sotto il<br />
profilo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, è forse quella relativa alla protezione<br />
degli investimenti stranieri nei paesi firmatari. Perché<br />
ciò avvenga è necessario uno sforzo da parte di tutti, a partire da<br />
coloro che, oggi, si trovano nella posizione contrattualmente più<br />
debole, cioè i paesi consumatori. Nella consapevolezza, però,<br />
che le posizioni potrebbero rovesciarsi e che il gioco non potrà<br />
durare in eterno: quando emergeranno tecnologie realmente alternative,<br />
e ciò dovrà accadere nei prossimi decenni, le fonti fossili<br />
perderanno importanza e quei paesi produttori che saranno<br />
restati monocolture petrolifere (o del gas) avranno irrimediabilmente<br />
perso l’occasione di innescare un sentiero di sviluppo du-<br />
306
aturo e sostenibile. Contrariamente a ciò che talvolta si sente<br />
affermare, possedere ricchi giacimenti di idrocarburi non è né<br />
una posizione di rendita né una maledizione: è una grande opportunità,<br />
ma anche una bomba a orologeria. Quando la miccia<br />
avrà finito di ardere – quando, fuor di metafora, il mondo avrà<br />
meno o nessun bisogno di petrolio e gas, perché si saranno affermate<br />
fonti alternative efficienti – il petrolio e il gas nel sottosuolo<br />
non saranno più una ricchezza ma un dato geologico. Se<br />
nel frattempo i paesi in questione avranno saputo utilizzare i fiumi<br />
di denaro ottenuti in cambio delle loro risorse per mettere in<br />
moto l’economia, allora saranno protagonisti dell’economia globale:<br />
altrimenti, ne saranno marginalizzati e dovranno ancora fare<br />
i conti con la povertà e con la fame, senza neppure potersi appoggiare<br />
ai programmi di assistenza oggi generosamente finanziati<br />
dalle Nocs (che per farlo rinunciano a guadagni in efficienza<br />
e a loro volta sono danneggiate dal perverso meccanismo politico<br />
che è alla base del sistema).<br />
L’intera tesi qui esposta si regge su un presupposto: che sia<br />
possibile aprire i diversi mercati e che i paesi coinvolti siano disposti<br />
a negoziare in un contesto pacifico. Senza la pace tutto ciò<br />
è più costoso e, quindi, più difficile, anche perché inquinato da<br />
recriminazioni reciproche più o meno giustificate e più o meno<br />
pretestuose. Quindi, l’impegno comune di tutti – e in primo luogo<br />
dell’Europa – per costruire un panorama globale meno bellicoso<br />
di quanto non sia adesso. Il punto è che la guerra raramente<br />
può risolvere i problemi: più spesso ne crea di nuovi.<br />
Dunque, è fondamentale l’uso sapiente della deterrenza così come<br />
l’abilità di offrire condizioni vantaggiose a chi può essere<br />
tentato di ricorrere a espedienti militaristici.<br />
Si torna così a uno dei temi inizialmente messi in luce e che<br />
vanno chiariti onde evitare fraintendimenti dannosi: il concetto<br />
stesso di <strong>sicurezza</strong>. Si possono definire “sicuri” gli approvvigionamenti<br />
di energia se essi dipendono solo e semplicemente da<br />
dinamiche economiche. Questo significa che la variabilità dei<br />
prezzi, lungi dall’essere sintomo di in<strong>sicurezza</strong>, è fattore di <strong>sicurezza</strong>,<br />
in quanto indica l’esistenza di un mercato funzionante. I<br />
tentativi di controllare i prezzi, mantenendoli attorno a un livello<br />
arbitrariamente ritenuto né troppo alto né troppo basso, ge-<br />
307
nerano solitamente forme di scarsità acuta e pericolosa. Quindi,<br />
l’obiettivo di una strategia di <strong>sicurezza</strong> non deve essere la stabilizzazione<br />
dei prezzi: piuttosto la rimozione di tutti quei fattori<br />
che, oggi, impediscono un efficiente sfruttamento delle risorse,<br />
il loro scambio su un mercato competitivo, il loro utilizzo da imprese<br />
in concorrenza tra di loro su tutti i mercati globali. L’energia<br />
non fa eccezione al nesso che lega pace e libertà economica:<br />
non è dunque per moralismo, ma per ragioni puramente economiche,<br />
che si può affermare ciò che è ovvio, ossia che un mondo<br />
pacifico è anche un mondo in cui è maggiore la <strong>sicurezza</strong> degli<br />
approvvigionamenti energetici.<br />
308
Commenti
Fulvio Conti *<br />
In un mondo in cui la domanda di energia cresce rapidamente<br />
per soddisfare le esigenze di sviluppo, la sfida della sostenibilità<br />
si gioca intorno a tre fattori interconnessi: la <strong>sicurezza</strong><br />
degli approvvigionamenti, l’economicità e quindi la competitività<br />
del sistema, la salvaguardia dell’ambiente. Le politiche energetiche,<br />
dunque, debbono essere guidate dalla necessità di conciliare<br />
il più possibile questi tre fattori, tenendo conto dello scenario<br />
energetico e politico globale.<br />
Secondo le previsioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia,<br />
la domanda mondiale di energia è destinata a crescere in<br />
maniera significativa nei prossimi 25 anni, con un incremento<br />
stimato attorno al 52 per cento. Ciò servirà soprattutto a sostenere<br />
la crescita dei paesi in via di sviluppo, la cui domanda avrà<br />
una crescita vicina al 93 per cento, ma è pur vero che con un 25<br />
per cento circa i paesi dell’area OCSE avranno un tasso di crescita<br />
molto significativo. La stessa Agenzia ritiene che una crescita<br />
così sostenuta della domanda di energia non potrà fare a<br />
meno dei combustibili fossili. Anche rafforzando le politiche<br />
che favoriscono il risparmio energetico e le fonti a basso contenuto<br />
di carbonio, il ricorso ai combustibili fossili è dunque destinato<br />
ad aumentare. Ciò genererà inevitabilmente pressioni<br />
sulla domanda, con la conseguente tendenza all’aumento dei<br />
prezzi, e, conseguentemente, del potere contrattuale dei paesi<br />
produttori, non solo dal punto di vista economico ma anche politico.<br />
* Amministratore delegato, Enel.<br />
311
La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è certamente un problema europeo,<br />
ma soprattutto italiano: se l’Europa, infatti, dipende per oltre il<br />
60 per cento dalle importazioni, l’Italia dipende dall’estero per<br />
circa il 90 per cento del suo fabbisogno energetico. Questa tendenza<br />
è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni: si stima che<br />
entro il 2025 queste percentuali supereranno l’80 per cento per<br />
l’Europa e sfioreranno il 100 per cento per l’Italia.<br />
Se, dunque, a causa della dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti<br />
energetici l’Europa è in una condizione chiaramente<br />
difficile, l’Italia si trova in una situazione peggiore anche<br />
a causa dello sbilanciamento verso olio e gas naturale del<br />
mix delle fonti utilizzate per la produzione elettrica.<br />
Diversamente dalla maggior parte dei paesi maggiormente<br />
industrializzati, infatti, l’Italia non dispone di energia da fonte<br />
nucleare, utilizza il carbone in misura estremamente limitata,<br />
mentre quasi la metà dell’energia elettrica prodotta in Italia proviene<br />
dal gas naturale, combustibile che ha progressivamente<br />
preso il posto dell’olio sia grazie alla riconversione di alcune vecchie<br />
centrali, che alla realizzazione di nuovi impianti, anche in<br />
virtù della spinta data dal processo di liberalizzazione del settore<br />
energetico. Infatti, in un contesto competitivo gli investitori<br />
privilegiano i cicli combinati, caratterizzati da un ritorno a più<br />
breve termine e da una maggiore accettabilità da parte dei territori<br />
interessati. A tale fenomeno si somma un uso del gas da<br />
parte delle famiglie e del settore civile pari al 53 per cento dei<br />
consumi totali, un livello largamente superiore a quello che si registra<br />
in media nel resto d’Europa.<br />
Poiché nel nostro paese il nucleare non sarà un’opzione reale<br />
ancora per molti anni, l’unica via possibile per migliorare la<br />
situazione è da un lato incrementare quanto più possibile il contributo<br />
già elevato delle rinnovabili, dall’altro creare le condizioni<br />
per un uso del carbone tendenzialmente a zero emissioni.<br />
Il carbone è una fonte economica, abbondante e diffusa in<br />
molte aree del pianeta stabili dal punto di vista politico, pulita<br />
grazie alle moderne tecnologie oggi disponibili. Una quota ragionevole<br />
di carbone nel mix di produzione consente quindi numerosi<br />
vantaggi: una significativa riduzione del costo medio di<br />
generazione, una maggiore <strong>sicurezza</strong> negli approvvigionamenti<br />
312
energetici, una minore esposizione del costo di produzione al<br />
prezzo del petrolio, cui è legato anche quello del gas, un contenimento<br />
delle emissioni inquinanti e dei gas serra rispetto alle<br />
vecchie centrali a olio, anche grazie alla maggiore efficienza. Per<br />
queste ragioni è chiaro che il carbone può avere un ruolo essenziale<br />
nel riequilibrio del mix di produzione, mentre è importante<br />
che l’Europa e in particolare l’Italia promuovano e sostengano<br />
la ricerca relativa al carbone pulito e al sequestro di CO2 allo<br />
scopo di migliorare ulteriormente le già eccellenti prestazioni<br />
ambientali dei nuovi impianti, attivando una delle chiavi che<br />
renderanno compatibile la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> con la sfida proposta<br />
dal cambiamento climatico.<br />
Nel frattempo, è indispensabile ampliare la disponibilità di<br />
gas naturale, realizzando terminali di rigassificazione che non<br />
solo faranno aumentare l’offerta, ma consentiranno anche di diversificare<br />
la provenienza geografica di tale combustibile. In<br />
questo modo sarà possibile ridurre la dipendenza da pochi paesi<br />
produttori e, quindi, il rischio di crisi di approvvigionamento<br />
dovuta a decisioni politiche.<br />
Per quello che riguarda le fonti rinnovabili è chiara a tutti<br />
la loro importanza. È necessario incrementare il più possibile la<br />
produzione da questo tipo di fonti, sia per contenere le emissioni,<br />
sia per ridurre il fabbisogno di combustibili fossili. È tuttavia<br />
necessario essere realisti. Le fonti rinnovabili non sono risorse<br />
tutte disponibili sempre e dovunque e non è detto che, ove<br />
siano disponibili, sia possibile o concesso sfruttarle, spesso per<br />
gli ostacoli posti, in particolare in Italia, dalle amministrazioni<br />
locali. Inoltre, bisogna tener presente che gli investimenti necessari<br />
per lo sfruttamento economicamente vantaggioso delle rinnovabili<br />
sono ancora poco competitivi rispetto agli investimenti<br />
in impianti “tradizionali”. In termini pratici senza gli opportuni<br />
incentivi alla produzione di energia “verde” difficilmente<br />
l’industria avrebbe convenienza a investire in questo campo.<br />
È dunque necessario un duplice sforzo, teso da un lato ad<br />
una giusta incentivazione all’istallazione di nuovi impianti, ponendo<br />
in essere le condizioni perché ciò possa esser fatto con<br />
successo, e volto dall’altro alla promozione e al sostegno della<br />
ricerca in questo campo. Questo secondo aspetto è particolar-<br />
313
mente rilevante, soprattutto se pensiamo all’ambizioso obiettivo<br />
che recentemente l’Unione Europea si è data di raggiungere<br />
entro il 2020 il 20 per cento dei consumi energetici da fonti rinnovabili.<br />
Un obiettivo di questo genere, se estrapolato alla situazione<br />
italiana, significherebbe triplicare l’attuale produzione da<br />
rinnovabili. Ciò richiede degli sforzi enormi e una forte spinta<br />
all’innovazione tecnologica che può essere data solo dalla ricerca.<br />
L’onere necessario al raggiungimento di questo obiettivo non<br />
può interamente pesare sull’industria ma deve essere anche sostenuto<br />
da programmi finanziati dallo stato, dato che i benefici<br />
che questo sforzo può darci saranno a vantaggio di tutti. È necessario,<br />
inoltre, combattere la cosiddetta sindrome NIMBY<br />
(Not In My Back Yard). Lo sviluppo di know-how tecnologico<br />
potrà stimolare la crescita di un vera e propria industria del rinnovabile,<br />
con benefiche ricadute non solo in termini energetici<br />
e ambientali ma anche occupazionali e sociali.<br />
Il processo di liberalizzazione del settore elettrico nel nostro<br />
Paese dimostra che l’apertura del mercato può rappresentare<br />
uno strumento efficace per stimolare efficienza ed investimenti.<br />
Il nostro Paese ha percorso la strada della liberalizzazione<br />
del settore energetico con molta più decisione e profondità<br />
rispetto a quanto avvenuto altrove. Fra i grandi Paesi europei<br />
soltanto il Regno Unito ha compiuto scelte paragonabili a quelle<br />
italiane. Solo in questi due Paesi, infatti, è stata assicurata l’indipendenza<br />
dell’operatore della rete di trasmissione dagli interessi<br />
delle imprese del settore per permettere alle stesse un accesso<br />
non discriminatorio alla rete, ed è stata ridotta la capacità<br />
produttiva degli attori storici del mercato attraverso la cessione<br />
forzosa di asset, così da consentire l’ingresso nel mercato di nuovi<br />
concorrenti. Oggi, nel mercato della generazione, Enel ha una<br />
quota dell’ordine del 30 per cento, rispetto al 70 per cento del<br />
1999. Inoltre, è stata istituita una autorità di regolamentazione<br />
del settore realmente indipendente e dotata di ampi poteri d’intervento.<br />
La liberalizzazione ha prodotto importanti benefici in termini<br />
di contenimento dei prezzi. Secondo Eurostat, dal 1996 al<br />
2005 i prezzi dell’elettricità sono stati, dopo le telecomunicazioni,<br />
i più virtuosi del paniere, con un aumento del 9 per cento no-<br />
314
minale in Italia contro una media del 16 per cento in Europa.<br />
Tale dato è tanto più significativo se si considera che nello stesso<br />
periodo il prezzo del Brent, cui è legato l’andamento del costo<br />
dei combustibili che utilizziamo, è cresciuto da circa 20 a oltre<br />
60 dollari al barile e l’inflazione cumulata nel nostro Paese<br />
ha superato il 20 per cento. In termini reali, le tariffe elettriche<br />
dal 1996 ad oggi si sono ridotte di più del 12 per cento in termini<br />
reali.<br />
Nello stesso periodo, il costo dei combustibili, che pesa per<br />
circa il 40 per cento sul prezzo dell’elettricità, è più che raddoppiato.<br />
La componente tariffaria di pertinenza delle imprese si è<br />
invece ridotta di circa il 40 per cento. Ciò è stato possibile perché<br />
parte dei risparmi ottenuti dalle imprese in termini di efficienza<br />
sono stati trasferiti ai clienti finali dagli interventi dell’Autorità.<br />
Anche le tariffe di accesso alle rete di trasmissione e<br />
distribuzione si sono ridotte sensibilmente nello stesso periodo,<br />
e sono oggi tra le più basse in Europa.<br />
Tuttavia, la legislazione attuale non ha contribuito alla creazione<br />
di un singolo mercato europeo. L’Europa rimane una<br />
realtà frammentata, con differenze anche sostanziali tra i diversi<br />
Paesi. I governi di alcuni Paesi membri continuano a fare i<br />
propri interessi intervenendo direttamente sul mercato dell’energia<br />
per creare i cosiddetti campioni nazionali, alterando in tal<br />
modo il corretto funzionamento del mercato dei capitali. Ogni<br />
forma di protezionismo a favore di operatori nazionali deve cessare.<br />
Il processo di consolidamento del mercato, con la conseguente<br />
creazione di campioni europei, avrà luogo solo consentendo<br />
un’effettiva e libera circolazione dei capitali. Sono oggi<br />
necessarie leggi europee che armonizzino i processi di svolgimento<br />
delle OPA negli Stati membri.<br />
Non sono oggi necessarie nuove leggi a livello europeo. Ciò<br />
di cui si ha più bisogno è l’armonizzazione dell’attuale corpo di<br />
leggi a livello dei singoli Stati. Tale armonizzazione dovrà avvenire<br />
con la supervisione di autorità regolatorie nazionali indipendenti,<br />
che abbiano poteri e competenze simili nei diversi<br />
Paesi.<br />
È auspicabile la creazione di un’Agenzia Europea che coordini<br />
il funzionamento dei diversi TSO (Transmission System<br />
315
Operator) nazionali. Tale agenzia garantirebbe la mutua cooperazione<br />
dei vari TSO, favorendo in tal modo la creazione di mercati<br />
macroregionali efficienti, e permetterebbe una ripartizione<br />
equa dell’energia ai confini dei Paesi membri. L’Agenzia minimizzerebbe<br />
inoltre le conseguenze negative sui mercati europei<br />
derivanti da blackout che hanno origine in un singolo Paese.<br />
Un altro tema di discussione è l’unbundling ovvero la separazione<br />
amministrativa, contabile, proprietaria. Nel contesto<br />
Europeo, l’Italia è all’avanguardia nel processo di unbundling<br />
del settore elettrico, avendo adottato ormai già da tempo la separazione<br />
proprietaria della rete di trasmissione. Le attuali normative<br />
comunitarie in tema di unbundling dovrebbero essere<br />
applicate omogeneamente all’interno di tutti i Paesi membri così<br />
come avvenuto in Italia, almeno per quanto riguarda il settore<br />
elettrico.<br />
Il terzo e ultimo cardine della politica <strong>energetica</strong>, è quello<br />
della sostenibilità ambientale. Il tema è quanto mai attuale: la<br />
lotta al cambiamento climatico è ormai una priorità nell’agenda<br />
politica internazionale. Il problema è globale e richiede quindi<br />
soluzioni globali, tenendo conto della diversa dimensione e dinamica<br />
nei diversi Paesi. Azioni isolate delle singole nazioni non<br />
possono che condurre ad un esito fallimentare. Occorrono dunque<br />
azioni congiunte e coordinate. Innanzi tutto è necessario includere<br />
nel nuovo sistema di riduzione di emissioni di gas serra<br />
le economie mature che finora non ne hanno fatto parte, come<br />
gli Stati Uniti, perché l’Europa può sì svolgere un ruolo trainante<br />
nella lotta al cambiamento climatico ma non ne può sostenere<br />
da sola tutto il peso. Inoltre, non si possono chiedere sacrifici<br />
eccessivi ai Paesi emergenti, né si può pensare di ostacolarne<br />
lo sviluppo. Si può però pensare a un meccanismo di inclusione<br />
progressiva, che preveda la convergenza su determinati standard<br />
di prestazione ambientale.<br />
Secondo le attuali proiezioni, al 2030, le emissioni di Brasile,<br />
Cina e India saranno più del doppio delle attuali, arrivando<br />
a rappresentare un terzo del totale mondiale. Ogni anno le emissioni<br />
di CO 2 della Cina crescono di circa 8 volte le riduzioni annuali<br />
che l’Europa conseguirebbe rispettando Kyoto. Gli sforzi<br />
di riduzione possono quindi avere un impatto maggiore in que-<br />
316
ste aree, dove ci sono ampi spazi per aumentare l’efficienza<br />
<strong>energetica</strong> ed emissiva. Bisogna quindi facilitare il trasferimento<br />
nei Paesi in via di sviluppo delle migliori tecnologie esistenti<br />
e di soluzioni innovative per la produzione e la distribuzione<br />
dell’elettricità. In Europa, il protocollo di Kyoto sta cominciando<br />
a produrre i suoi effetti attraverso il meccanismo dell’Emission<br />
Trading Scheme (EU ETS).. Com’è noto, esso attribuisce<br />
alle aziende di alcuni settori – a quelle energetiche in primis –<br />
obiettivi di riduzione delle emissioni coerenti con gli obiettivi<br />
nazionali. Le imprese che non riescono a raggiungere tali obiettivi<br />
sono chiamate ad acquistare sul mercato diritti di emissione<br />
da imprese che invece riescono a battere il proprio obiettivo. È<br />
intuitivo che tale meccanismo può funzionare solo se gli obiettivi<br />
vengono attribuiti in modo equilibrato ed equo. Purtroppo<br />
ciò non è avvenuto. La ripartizione dell’impegno assunto collettivamente<br />
dall’Europa nei confronti del Protocollo di Kyoto ha<br />
posto l’Italia in una situazione più difficile rispetto a gran parte<br />
dei partner europei. Lo squilibrio è confermato in particolare<br />
dai primi risultati dell’EU ETS, da cui risulta che l’Italia è uno<br />
dei pochi Paesi che presenta un deficit di quote di emissione.<br />
Ciò comporta il paradossale effetto di costringere l’Italia e le sue<br />
imprese ad acquistare diritti di emissione da Paesi meno efficienti<br />
ed ambientalmente virtuosi. Questa situazione è particolarmente<br />
iniqua in quanto distorce la concorrenza a livello europeo<br />
in maniera assolutamente indipendente dalle effettive<br />
prestazioni ambientali e non tiene in conto lo sforzo di ambientalizzazione<br />
già operato dall’industria elettrica italiana negli anni<br />
pre-Kyoto.<br />
Il Protocollo di Kyoto in mancanza di un coinvolgimento<br />
globale nelle politiche sul cambiamento climatico, da un lato rischia<br />
di essere inefficace, dall’altro, oltre alla generale perdita di<br />
competitività del continente, rischia di accrescere il divario fra<br />
l’Italia e gli altri Paesi europei. Per correggere questo squilibrio<br />
è necessario che gli obiettivi di emissione siano fissati sulla base<br />
di benchmark armonizzati e differenziati per combustibile e per<br />
tecnologia e che, di conseguenza, agli impianti appartenenti alla<br />
stessa categoria tecnologica siano assegnate quote in maniera<br />
omogenea, qualunque sia la loro collocazione geografica.<br />
317
L’energia rappresenta il motore dello sviluppo di un’economia<br />
moderna. La nostra visione come Enel è di garantire energia<br />
abbondante per tutti, a basso costo e pulita, attraverso l’efficienza,<br />
il risparmio energetico e l’utilizzo delle migliori tecnologie.<br />
Per far questo però è necessario che le istituzioni compiano<br />
scelte coerenti e lungimiranti, evitando che il contesto dominato<br />
da interessi diversi, le induca a preferire l’inazione a decisioni<br />
difficili e impegnative. Il “non fare” rappresenta la scelta peggiore,<br />
non solo perché ci espone a enormi rischi futuri, ma soprattutto<br />
perché penalizza cittadini e imprese nell’immediato.<br />
È necessario intraprendere numerose azioni concrete. Innanzitutto<br />
è essenziale diversificare il mix energetico, equilibrando<br />
lo sbilanciamento con un ragionevole uso del carbone,<br />
promuovendo allo stesso tempo, ove possibile, lo sviluppo del<br />
nucleare, la produzione di energia da fonti rinnovabili e l’efficienza<br />
<strong>energetica</strong>. È necessario inoltre costruire nuovi gasdotti<br />
e terminali di rigassificazione per meglio collegare l’Europa ai<br />
Paesi produttori di gas.<br />
Bisogna promuovere la ricerca scientifica e l’innovazione<br />
tecnologica investendo in soluzioni innovative per la produzione<br />
di energia nel pieno rispetto dell’ambiente, dando l’impulso<br />
decisivo allo sviluppo delle fonti rinnovabili. In questo campo<br />
Enel è già in prima linea. Il Progetto Ambiente e Innovazione<br />
prevede investimenti di oltre 4 miliardi di euro al 2011 per la ricerca,<br />
le fonti rinnovabili, lo sviluppo, l’innovazione e l’applicazione<br />
di tecnologie più avanzate. È un piano senza precedenti<br />
per Enel e con pochi paragoni anche a livello internazionale.<br />
È importante rimuovere gli ostacoli ad una completa integrazione<br />
del mercato, favorendo la creazione di grandi operatori<br />
elettrici europei. Occorre applicare in modo omogeneo, in tutti<br />
i Paesi membri, l’attuale normativa comunitaria sull’unbundling,<br />
costituendo al tempo stesso un’Agenzia Europea per il presidio<br />
e coordinamento del funzionamento dei TSO nazionali.<br />
Dobbiamo infine creare un sistema mondiale condiviso in sostituzione<br />
del Protocollo di Kyoto dal 2012 in poi, e sostituire gli<br />
attuali piani di allocazione nazionale con un unico piano a livello<br />
quanto meno europeo per la riduzione delle emissioni di CO 2.<br />
318
L’impegno che Enel profonde nello sviluppo sostenibile<br />
continuerà a far avanzare nei mercati di competenza la soluzione<br />
dell’equazione più energia a meno costo e a zero emissioni.<br />
L’obiettivo è impegnativo ma non impossibile e a questo dedicheremo<br />
ogni sforzo.<br />
319
Gian Battista Merlo *<br />
Il tema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> occupa oggi un posto di<br />
primaria rilevanza politica per ogni paese moderno. La complessità<br />
dei fattori, il numero delle variabili e l’ampiezza delle<br />
problematiche rendono il dibattito sui temi dell’energia una<br />
questione di ampio respiro, che implica scelte e visioni politiche<br />
globali, che spaziano dal campo economico a quello ambientale,<br />
dalle scelte di politica <strong>energetica</strong> nazionale a quelle di politica<br />
estera, europea e internazionale.<br />
Proprio con quest’ottica globale, questo studio dell’Istituto<br />
Bruno Leoni affronta il tema della sfida <strong>energetica</strong> che si profila<br />
all’orizzonte geo-politico dei prossimi anni. Il rapporto, infatti,<br />
approfondisce puntualmente le diverse componenti della problematica<br />
(la costante crescita della domanda <strong>energetica</strong>, la lotta<br />
ai cambiamenti climatici, la disponibilità delle risorse energetiche,<br />
il ruolo del petrolio, del gas e delle altre fonti di energia, gli<br />
sviluppi della politica <strong>energetica</strong> europea, la liberalizzazione dei<br />
mercati, eccetera) e analizza i termini della complessa questione<br />
<strong>energetica</strong> sia con riferimento alla specificità della realtà italiana,<br />
sia nell’ambito di un più ampio quadro di riferimento europeo.<br />
Ne viene fuori un interessante e completo quadro d’insieme che,<br />
a partire da quello che sembra un “ineludibile intreccio”, fornisce<br />
non solo originali spunti di riflessione, ma anche interessanti<br />
suggerimenti pratici per un efficace piano d’azione.<br />
In questo breve commento vorrei affrontare in particolare<br />
il ruolo che il gas naturale liquefatto (Gnl) può giocare nella “ri-<br />
* Presidente, ExxonMobil Mediterranea.<br />
321
cerca di <strong>sicurezza</strong>” che caratterizza il nostro paese, l’Europa e il<br />
mondo intero. Prima è però necessario ricordare alcuni elementi<br />
del sistema energetico che è alla base del nostro tessuto economico.<br />
Dal punto di vista energetico, l’Italia è un paese fortemente<br />
dipendente dall’estero: l’82 per cento del greggio necessario<br />
a soddisfare la domanda nazionale è, infatti, importato in<br />
prevalenza da Libia, Russia, Arabia Saudita ed Iran, mentre circa<br />
i due terzi del nostro fabbisogno di gas è soddisfatto da importazioni<br />
da due soli paesi, la Russia e l’Algeria. In un periodo<br />
di forti tensioni – sia strutturali che geopolitiche – come quello<br />
che stiamo vivendo, il problema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> nazionale<br />
assume un ruolo sempre più importante e diventa sempre<br />
più critico ed urgente poter rendere disponibili le risorse<br />
presenti sul territorio.<br />
Al contrario, negli ultimi anni, la produzione nazionale sia<br />
di greggio che di gas naturale ha registrato una flessione (rispettivamente<br />
del -2,2 per cento e -7,2 per cento), proseguendo<br />
la tendenza alla contrazione, dovuta sia al progressivo esaurimento<br />
dei giacimenti già da tempo in produzione, sia ai ritardi<br />
nella messa in produzione di nuovi progetti. La regione italiana<br />
con le maggiori riserve di greggio e dalla quale proviene<br />
il 75 per cento della produzione nazionale onshore è la Basilicata.<br />
Qui, nel 1998, è stato scoperto un nuovo giacimento, denominato<br />
Tempa Rossa, di cui la Esso Italiana detiene il 25 per<br />
cento di titolarità, in compartecipazione con l’operatore Total<br />
(50 per cento) e con Shell (25 per cento). Il giacimento ha riserve<br />
stimate per 420 milioni di barili di greggio ed una produzione<br />
prevista di 50.000 barili/giorno. A tutt’oggi, però, non è<br />
ancora entrato in esercizio a causa di lungaggini burocratiche<br />
che il decentramento regionale non ha certo aiutato a snellire.<br />
Quella in campo energetico è un’attività di lungo termine, ad<br />
alta intensità di capitale, che richiede un quadro normativo di<br />
riferimento stabile e certo. Il ruolo dei governi e delle istituzioni,<br />
sia a livello centrale che locale, sarà sempre più determinante<br />
nel favorire gli investimenti privati necessari per soddisfare<br />
la crescente domanda di energia, riducendo la dipendenza dall’estero<br />
e l’incertezza che ne può conseguire per il “sistema<br />
paese”.<br />
322
Contemporaneamente, anche il resto del mondo si sta muovendo.<br />
Va premesso che esiste una stretta correlazione tra energia<br />
e progresso economico. Si prevede che al 2030 il Pil mondiale<br />
raddoppierà, con un tasso di crescita media annua del 2,7 per<br />
cento, stimolato principalmente dai paesi in via di sviluppo che<br />
oggi rappresentano poco più del 20 per cento della produzione<br />
economica mondiale. Nel 2030 questa incidenza salirà sensibilmente,<br />
grazie all’apporto delle economie in rapida espansione<br />
quali Cina, India, Indonesia e Malesia. Nel contempo, anche la<br />
popolazione mondiale è prevista crescere raggiungendo, al<br />
2030, un totale di 8 miliardi di persone ed il 95 per cento di questa<br />
crescita si registrerà sempre nei paesi in via di sviluppo.<br />
Crescita demografica, miglioramento degli standard di vita<br />
e progresso economico determineranno un aumento della domanda<br />
mondiale di energia del 50 per cento rispetto ad oggi e,<br />
stando alle sopracitate assunzioni, la crescita più pronunciata<br />
(circa l’80 per cento) si registrerà nei paesi in via di sviluppo.<br />
Nel corso del tempo si renderà necessaria una sempre più<br />
ampia gamma di fonti di energia e di tecnologie diverse. Ma, almeno<br />
fino al 2030, i combustibili fossili rimarranno fonti primarie<br />
e continueranno a soddisfare gran parte del fabbisogno energetico<br />
mondiale. Petrolio, gas e carbone sono, infatti, le uniche<br />
fonti che offrano adeguata disponibilità e flessibilità. Le nostre<br />
analisi evidenziano che petrolio e gas, insieme, copriranno quasi<br />
il 60 per cento della domanda totale di energia per i prossimi<br />
25 anni. L’utilizzo del petrolio aumenterà ad un tasso dell’1,4<br />
per cento l’anno, con una crescita in qualche modo moderata<br />
dai continui miglioramenti nel campo dell’efficienza, in particolare<br />
nel settore dei trasporti. La crescita del gas e del carbone<br />
(per ambedue dell’1,8 per cento / anno), più sostenuta rispetto<br />
a quella del petrolio, sarà alimentata soprattutto dalla forte domanda<br />
di energia elettrica, per il carbone soprattutto nell’area<br />
Asia/Pacifico che dispone di vaste riserve locali.<br />
È evidente, allora, che ci troviamo di fronte a una sfida epocale:<br />
come soddisfare una domanda <strong>energetica</strong> crescente, nazionale<br />
e globale, in un mondo dove per ragioni politiche alcune risorse<br />
sono sottosfruttate – per esempio, come lo studio IBL mostra<br />
in maniera molto chiara, l’accesso alle riserve di molti pae-<br />
323
si produttori è precluso alle compagnie internazionali, mentre le<br />
compagnie nazionali sono inefficienti, anche per mancanza di<br />
capitali e tecnologie – e in cui preoccupazioni di carattere ambientale,<br />
spesso giustificate ma talvolta esagerate, suggeriscono<br />
l’adozione di politiche di disincentivazione del ricorso alle fonti<br />
fossili? La mia risposta è che tutte le forme di energia avranno<br />
un ruolo importante da svolgere nel soddisfare il crescente<br />
fabbisogno energetico e le nostre previsioni, condivise dai maggiori<br />
centri di ricerca, indicano che le fonti rinnovabili cresceranno<br />
a ritmi superiori a qualsiasi altra fonte.<br />
Tra queste, l’energia eolica e solare saranno quelle che faranno<br />
registrare l’aumento più sensibile ma la loro base iniziale<br />
è così bassa che, persino ipotizzando una crescita superiore al<br />
10 per cento per anno, esse non copriranno più dell’1 per cento<br />
del fabbisogno mondiale di energia al 2030. Lo sviluppo di<br />
altre fonti alternative, quali l’energia da biomasse ed idroelettrica<br />
è limitato da molti fattori tra i quali la disponibilità di aree e<br />
di siti. Il nucleare, invece, sconta le decisioni politiche e sociali<br />
assunte negli anni addietro e, quand’anche caratterizzato da un<br />
nuovo impulso, avrà bisogno di almeno dieci anni di adeguamenti<br />
strutturali e tecnologici prima di poter offrire un contributo<br />
significativo.<br />
In realtà, per ampliare e diversificare le fonti di approvvigionamento<br />
energetico, l’unica vera risposta risiede nel progresso<br />
tecnologico. Occorre contribuire allo sviluppo delle opzioni<br />
più promettenti e capaci di coniugare la crescita economica con<br />
la sostenibilità ambientale e sociale. Per questo, la ExxonMobil<br />
è impegnata, tra l’altro, nel Global Climate and Energy Project<br />
(GCEP) della Stanford University, il più grande investimento<br />
privato per la ricerca scientifica sul clima e l’energia. È un programma<br />
di lungo termine volto ad identificare nuove tecnologie<br />
per un miglior uso dell’energia e per ridurre sensibilmente le<br />
emissioni di gas ad effetto serra. Tra i 27 progetti di ricerca, molti<br />
riguardano le energie alternative: 7 sono sull’idrogeno, 5 sull’energia<br />
solare e 2 sulle biomasse.<br />
Intanto, lo sviluppo della tecnologia del gas naturale liquefatto<br />
(Gnl) sta diventando sempre più importante per soddisfare<br />
la futura domanda globale di gas. Infatti, a fronte del sensibi-<br />
324
le aumento del fabbisogno mondiale, il commercio internazionale<br />
di gas sta registrando una notevole crescita e si stima che,<br />
tra venticinque anni, i volumi movimentati saranno quattro volte<br />
superiori a quelli di oggi e pari al 15 per cento del totale commercio<br />
del gas. Allo stesso tempo stanno anche aumentando le<br />
distanze da coprire prima che il gas possa giungere dai paesi<br />
produttori ai paesi consumatori. È chiaro che per trasferimenti<br />
così importanti, da un continente all’altro, la tecnica del trasporto<br />
prevalentemente utilizzata fino ad oggi, quella dei gasdotti,<br />
diventa decisamente molto rigida, mentre cresce il trasporto di<br />
Gnl, molto più moderno, flessibile e adattabile a simili distanze.<br />
Il Gnl, infatti, è gas naturale (metano), uno dei combustibili più<br />
puliti al mondo, portato e mantenuto allo stato liquido alla temperatura<br />
di circa -162 °C, a pressione atmosferica. Così liquefatto,<br />
riduce il suo volume di circa 600 volte e può essere trasportato<br />
con navi gasiere per essere poi ricevuto in appositi terminali,<br />
rigassificato ed immesso nei metanodotti alla località di arrivo,<br />
rendendolo disponibile ovunque ce ne sia bisogno.<br />
Questa opzione dà modo di svincolarsi dalla dipendenza<br />
dal “tubo”, di approvvigionarsi di gas anche su mercati lontani<br />
e da paesi non connessi direttamente alla rete di gasdotti nazionale.<br />
Offre un’interessante opportunità per operatori che abbiano<br />
solidità finanziaria, buone relazioni con i paesi produttori,<br />
tecnologia e continua capacità di competere. E, soprattutto,<br />
permette di aumentare la <strong>sicurezza</strong> del sistema energetico del<br />
paese dotandolo di fonti e forme di approvvigionamento diversificate.<br />
ExxonMobil sta facendo, anche in questo, la sua parte,<br />
grazie alla nostra partecipazione al 45 per cento alla società Terminale<br />
Gnl Adriatico (gli altri soci sono Qatar Petroleum 45 per<br />
cento ed Edison 10 per cento), che si occupa della realizzazione<br />
di un rigassificatore al largo della costa veneta. Tale terminale è<br />
incluso nella lista delle “opere strategiche per la modernizzazione<br />
e lo sviluppo del paese” (delibera Cipe 121 del 21 dicembre<br />
2001) ed è nella lista dei progetti di comune interesse europeo;<br />
è stato inoltre identificato dall’Autorità per l’energia elettrica e<br />
il gas e dall’Antitrust come un elemento essenziale per migliorare<br />
la competitività del mercato italiano del gas naturale. L’impianto,<br />
che avrà una capacità massima di rigassificazione di cir-<br />
325
ca 8 miliardi di metri cubi all’anno, rappresenterà una delle<br />
strutture tecnologicamente più avanzate dell’intero settore<br />
energetico italiano e contribuirà a diversificare le fonti di approvvigionamento<br />
e ad aumentare la <strong>sicurezza</strong> del sistema energetico<br />
del paese.<br />
Se la diffusione del Gnl continuerà a crescere, la struttura<br />
stessa dei mercati del gas muterà radicalmente, acquisendo una<br />
natura globale. Questo cambiamento presenta opportunità e rischi.<br />
Opportunità, nel senso che grazie al Gnl verrà meno il panorama<br />
oligopolistico che oggi caratterizza il mercato del gas.<br />
Ciò è di particolare rilevanza per l’Europa e per l’Italia, dove il<br />
gas è un combustibile sempre più importante (sia in termini di<br />
quota del fabbisogno energetico primario, sia per quel che riguarda<br />
in particolare la generazione elettrica) e dove l’approvvigionamento<br />
dipende essenzialmente da tre sole fonti – il mare<br />
del Nord, la Russia e l’Algeria. Naturalmente il Gnl comporta<br />
anche dei rischi: la globalizzazione del gas crea anche le condizioni<br />
perché possa nascere una sorta di Opec del gas, di cui si è<br />
ampiamente parlato talvolta, forse, drammatizzando tale prospettiva<br />
in maniera un po’ esagerata. In effetti, l’esperienza dell’Opec<br />
dovrebbe contribuire a calmare gli animi: l’Organizzazione<br />
dei paesi esportatori di petrolio, pur avendo influenzato<br />
pesantemente i mercati petroliferi globali fin dalla sua creazione,<br />
non ha mai interrotto per lunghi periodi le forniture di greggio<br />
ai paesi consumatori, e anche durante le due crisi petrolifere<br />
degli anni Settanta, come mostra il paper qui riportato, l’entità<br />
delle riduzioni è stata relativamente contenuta, anche se sufficiente<br />
a creare, nell’immediato, gravi problemi. In generale,<br />
però, il Gnl è importante perché contribuisce a moltiplicare le<br />
fonti di approvvigionamento del gas e a introdurre flessibilità<br />
nel processo, oggi estremamente rigido.<br />
In conclusione, la sfida <strong>energetica</strong> può essere vinta, perché<br />
non vi sono nel futuro prevedibile ostacoli fisici alla disponibilità<br />
di risorse, ma solo ostacoli politici. Per questo è importante<br />
che una riflessione come quella avviata dall’IBL trovi attenzione<br />
nel dibattito pubblico, troppo spesso ostaggio di paure immotivate<br />
o entusiasmi ingiustificati. L’energia è ciò che ha reso<br />
possibile l’incredibile sviluppo che il mondo intero ha conosciu-<br />
326
to all’indomani della Rivoluzione Industriale e non va demonizzata.<br />
È fuori discussione che maggiori consumi renderanno ancora<br />
più urgenti i problemi ecologici a cui già oggi stiamo cercando<br />
una soluzione. Ma resto ottimista sul fatto che il progresso<br />
economico e tecnologico ci aiuterà a perfezionare le soluzioni<br />
che abbiamo già trovato e a scovarne di nuove. Un futuro sicuro<br />
in campo energetico richiede nuove fonti, tecnologie innovative<br />
ed una continua attenzione all’efficienza e all’ambiente.<br />
Questi temi vanno sempre trattati congiuntamente, per evitare<br />
di caricare troppo peso sulle singole questioni o di trascurarne<br />
altre.<br />
327
Edoardo Zanchini *<br />
Grave, imprescindibile, cruciale. Su pochi temi aggettivi<br />
così severi hanno senso come per il problema della <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Il termometro delle relazioni internazionali è sensibilissimo<br />
a qualsiasi variazione di umore negli equilibri interni<br />
dei Paesi da cui provengono le risorse energetiche per gli effetti<br />
che determinerebbero sull’economia e la crescita. Non è una<br />
novità, non lo è da alcuni secoli e per questo si deve evitare di<br />
utilizzare chiavi di lettura e un vocabolario fuori dal tempo per<br />
affrontare problemi nuovi per dimensione e complessità. Occorre<br />
aggiornare i ragionamenti alla dimensione dei problemi<br />
del XXI secolo, il rischio è altrimenti di continuare a pensare<br />
che si possa governare solo con la geopolitica rinunciando a capire<br />
in questa fase storica i problemi ma anche le nuove opportunità<br />
per un Paese come l’Italia - dipendente per quasi il 90 per<br />
cento della propria bilancia <strong>energetica</strong> dall’estero - in questa delicata<br />
partita. Gli osservatori più pragmatici invitano a diversificare<br />
i Paesi da cui le risorse provengono e insieme le stesse fonti<br />
(la “varietà” di approvvigionamento, come sosteneva Churchill)<br />
attraverso un bilancio equilibrato e flessibile composto da<br />
nucleare, carbone, gas, petrolio, le rinnovabili meno costose.<br />
Proprio il mix e un mercato più aperto vengono presentati come<br />
la risposta al problema della <strong>sicurezza</strong> ma anche dei costi<br />
dell’energia nel nostro Paese, dove il deficit di competitività è<br />
soprattutto nell’offerta alle aziende. Questa ricetta è però solo<br />
apparentemente lungimirante, non fa infatti i conti con alcune<br />
* Responsabile Energia, Legambiente.<br />
329
novità rilevanti avvenute su scala internazionale che invece obbligano<br />
a guardare in maniera nuova al tema <strong>sicurezza</strong> ma anche<br />
al ruolo e agli interessi di un Paese come l’Italia.<br />
Il primo cambiamento riguarda lo sconvolgimento impresso<br />
dall’aumento dei consumi di Cina e India nella bilancia delle<br />
risorse energetiche. I Paesi asiatici hanno pesato per oltre il 50<br />
per cento dell’aumento dei consumi a livello mondiale nell’ultimo<br />
decennio e quelli cinesi hanno raggiunto come dimensione<br />
quelli europei. Teniamo pure da parte il dibattito sulla fine delle<br />
risorse, si è indubbiamente aperta una nuova questione difficilmente<br />
eludibile come l’aumento della domanda che avviene<br />
proprio nei Paesi fuori dalla Nato. Un avvenimento difficilmente<br />
immaginabile su questa scala e che paradossalmente toglie<br />
linfa ad uno slogan No Global di grande successo: le responsabilità<br />
Usa nei confronti del Pianeta e delle emissioni climalteranti.<br />
Perché dal 1990 (anno da cui si iniziano a calcolare secondo<br />
il Protocollo di Kyoto) ad oggi la suddivisione della torta delle<br />
emissioni è profondamente cambiata e grazie al suo vorticoso<br />
sviluppo economico la Cina supererà gli Stati Uniti già nel 2009.<br />
Il secondo cambiamento riguarda da vicino le strategie politiche<br />
internazionali: il ritorno ad un ruolo da protagonisti degli Stati<br />
nella gestione delle risorse energetiche. Si ragiona apertamente<br />
di Opec del gas, Cina e India stringono legami diretti con Paesi<br />
dell’Africa come del Medioriente per l’approvvigionamento.<br />
Mentre nel controllo dei giacimenti petroliferi mondiali solo il<br />
9 per cento è attualmente controllato dalle Majors: Exxon,<br />
Shell, BP, Total, Chevron. Difficile pensare di continuare con<br />
l’antica ricetta della potenza militare che “accompagna” gli investimenti<br />
strategici delle multinazionali del petrolio. Proprio la<br />
guerra in Irak e la teoria dell’unilateralismo hanno rafforzato in<br />
molti Paesi la convinzione che solo il controllo diretto delle risorse<br />
petrolifere e adeguate armi di dissuasione (il nucleare militare<br />
nascosto dal civile) permettono di avere una qualche autonomia<br />
politica. Basta in un quadro di questo tipo affidarsi alle<br />
armi della politica internazionale e del libero mercato per dare<br />
una risposta ai problemi di <strong>sicurezza</strong> italiani? Lecito dubitarne.<br />
Chi spinge questa prospettiva sembra piuttosto candidare il<br />
Paese a un futuro da spettatrice speranzosa del palcoscenico<br />
330
mondiale dell’energia. Mentre invece l’Italia avrebbe tutto l’interesse<br />
a ridurre la propria dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento<br />
di risorse energetiche. Una diminuzione che permetterebbe<br />
di realizzare quegli obiettivi di riduzione della CO2<br />
tanto invisi ai cosiddetti economisti liberisti. Volenti o nolenti<br />
occorrerà fare i conti con una realtà che vede l’Italia allontanarsi<br />
da quanto sottoscritto con il Protocollo di Kyoto (+13 per<br />
cento rispetto al 1990 invece di -6,5 per cento). Appare privo di<br />
senso continuare a sperare in un ripensamento internazionale<br />
quando l’Unione Europea ha di recente fissato nuovi e più ambiziosi<br />
obiettivi al 2020: tagliare le emissioni del 20 per cento rispetto<br />
ai valori del 1990, spingere l’efficienza <strong>energetica</strong> con una<br />
riduzione dei consumi energetici del 20 per cento, raggiungere<br />
una diffusione delle rinnovabili tale da garantire il 20 per cento<br />
dei consumi rispetto al 7 per cento attuale. Si può anche essere<br />
scettici sui cambiamenti climatici o addirittura sostenere che le<br />
scelte per fermarli “possono indebolire la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>”<br />
1, ma con questi impegni toccherà fare i conti quando si parla<br />
di mix energetico e in particolare del peso che l’aumento del<br />
carbone potrebbe svolgere in futuro. E dentro quegli obiettivi<br />
c’è una visione dello spazio europeo come motore di una innovazione<br />
che allarghi le possibilità per tutti, che promuova la ricerca<br />
applicata, l’esportazione di brevetti e tecnologie, diventando<br />
un modello per qualità e accesso anche per altre aree del<br />
Mondo. Certo una rivoluzione di questo tipo nel modo di gestire<br />
l’energia non conviene ai grandi gruppi che infatti sono i veri<br />
avversari di ogni cambiamento. Del resto in anni che hanno<br />
visto crescere esponenzialmente le bollette energetiche e la percezione<br />
dell’in<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> sono esplosi i guadagni per<br />
chi il petrolio lo estrae e commercializza (le “sette sorelle” hanno<br />
realizzato 141 miliardi di utili nel 2006 il 6 per cento in più<br />
rispetto al 2005). È questo il modello che si vuole continuare a<br />
spingere magari spostato più sul versante carbone e uranio, con<br />
meno importazioni dalla Russia e più dalla Libia, meno dal Venezuela<br />
e più dalla Norvegia? Se nei prossimi anni il principale<br />
problema per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> italiana è prevedibile che<br />
1 Supra, p. 17.<br />
331
sarà rispetto all’approvvigionamento di gas è curioso che nessuno<br />
si eserciti nel calcolare quale effetto avrebbe il solo recuperare<br />
il gap di inefficienza delle centrali termoelettriche italiane<br />
rispetto alla media europea (40 per cento contro 48). Calcolarlo<br />
potrebbe aiutare a sgombrare il campo del dibattito da una<br />
vecchia e diffusa favola che riguarda la tanto decantata efficienza<br />
<strong>energetica</strong> italiana. Un alibi che ancora oggi viene tirato fuori<br />
da un industria che da decenni non investe in innovazione. I<br />
dati parlano chiaro, l’Italia, che negli anni ‘80 presentava una<br />
delle più basse intensità energetiche del mondo – ossia la quantità<br />
di energia consumata per la produzione di una unità di prodotto<br />
nazionale lordo –, oggi vanta livelli inferiori alla media europea<br />
e ben peggiori di paesi più svantaggiati sotto il profilo climatico.<br />
Per contribuire a un dibattito finalmente nuovo e trasparente<br />
occorre che anche l’ambientalismo si faccia carico di spiegare<br />
meglio la propria idea di futuro energetico e non sottovaluti<br />
il vero punto debole delle fonti energetiche rinnovabili in un<br />
dibattito di tipo economicistico: gli incentivi pubblici. D’altronde<br />
se si vuole parlare senza ipocrisie di energia dobbiamo partire<br />
dal fare chiarezza rispetto alla inestricabile simbiosi di sussidi,<br />
incentivi, tasse. Si potrebbe citare il rilancio dell’energia nucleare,<br />
che sarà possibile solo a fronte di forzature nelle regole<br />
di un mercato libero: il Governo USA prevede 8miliardi di dollari<br />
di aiuti alle imprese (per aumentare del 3 per cento le forniture<br />
elettriche nazionali!), in Finlandia è già stabilito che l’energia<br />
prodotta dalla nuova centrale verrà comprata dallo Stato che<br />
si farà carico delle spese per <strong>sicurezza</strong> e smaltimento. Oppure le<br />
miniere di carbone tedesche, che pesano ogni anno 2,5 miliardi<br />
di sussidi pubblici. Senza contare i vantaggi di competitività della<br />
filiera delle fonti fossili grazie ad infrastrutture pagate spesso<br />
dalle casse pubbliche e con sussidi nascosti. Spingere sulla trasparenza<br />
conviene innanzi tutto alle fonti rinnovabili perché<br />
hanno comunque il vantaggio di ridurre importazioni e emissioni<br />
e di creare un mercato energetico con nuovi attori diffusi.<br />
Semmai il vero problema per le rinnovabili sta nel fatto che presuppongono<br />
di cambiare modo di ragionare. Perché non ha alcun<br />
senso discuterne come alternativa a questa o quella fonte, o<br />
332
paragonare la risposta necessaria in termini di torri eoliche o di<br />
ettari di pannelli fotovoltaici per chiudere le centrali di Civitavecchia<br />
o Brindisi. Non lo ha proprio perché queste vanno sviluppate<br />
diffuse, dove ci sono le opportunità migliori, con impianti<br />
che scambiano in rete e avvicinano domanda di energia e<br />
produzione. Per esempio in città il solare ha un vantaggio di vicinanza<br />
e di offerta proprio nell’ora di punta. E invece eolico,<br />
idroelettrico, geotermia e biomasse (per elettricità e calore in teleriscaldamento)<br />
possono svilupparsi nei territori dove le risorse<br />
sono realmente presenti. In poche parole non esiste una risposta<br />
che valga ovunque, e in ogni caso per essere efficace deve<br />
essere sempre associata a una strategia di riduzione dei consumi.<br />
Un assurdità? Utopie ambientaliste? Ma allora perché il<br />
Governo di centrodestra danese dal 2001 ad oggi non ha cambiato<br />
politica <strong>energetica</strong> come annunciato in campagna elettorale?<br />
Passato qualche mese ha deciso di continuare nella strategia<br />
di riduzione della dipendenza dall’estero attraverso la diffusione<br />
delle rinnovabili (oggi soddisfano il 20 per cento dei consumi)<br />
e dell’efficienza <strong>energetica</strong>. Sembrerà impossibile ma dal<br />
1990 ad oggi i consumi energetici del settore industriale sono rimasti<br />
stabili mentre quelli domestici sono diminuiti del 20 per<br />
cento. Nel complesso mentre il PIL cresceva del 70 per cento<br />
l’intensità <strong>energetica</strong> scendeva del 35 per cento. Impossibile ridurre<br />
i consumi energetici senza deprimere l’economia? Nulla<br />
di più sbagliato come alibi, basti dire che il nuovo obiettivo nazionale<br />
prevede di raddoppiare il contributo delle rinnovabili al<br />
2020 e di ridurre i consumi dell’1,25 per cento all’anno spingendo<br />
un mercato virtuoso che vede nascere ogni anno nuove aziende.<br />
Se le rinnovabili sono comunque condannate a un ruolo<br />
marginale e ad una prospettiva di lungo termine come mai in<br />
Germania tra il 1997 e il 2005 hanno visto crescere il contributo<br />
dal 4,5 per cento al 10,8 rispetto ai consumi elettrici? Può<br />
sembrare poco per chi ragiona con in mano una mappa globale,<br />
ma solo da qui può venire la risposta alla fame di energia del<br />
mondo.<br />
Ma torniamo agli interessi di un Paese come l’Italia mediamente<br />
piccolo nello scacchiere geopolitica mondiale. È evidente<br />
che deve coltivare la sua interdipendenza <strong>energetica</strong> in un si-<br />
333
stema europeo, con relazioni efficienti e sicure. Che deve giocare<br />
un attento ruolo di alleanze internazionali. Spetta però anche<br />
ad osservatori imparziali il compito di ricordare come non si<br />
possa sfuggire dal guardare anche al proprio interno per non<br />
continuare a fornire alibi a un settore industriale che non ha fatto<br />
nulla per stare al passo con i tempi. E insieme di aiutare a non<br />
dimenticare il fallimento delle ricette andate per la maggiore in<br />
questi anni. Ma la liberalizzazione e il Decreto “sblocca centrali”<br />
non dovevano dare il la a una rivoluzione che avrebbe risolto<br />
tutti i problemi di costi e di concorrenza? Chi allora sosteneva<br />
queste tesi oggi propone una diversificazione verso il carbone<br />
e il nucleare. Ma non spiega come risolvere i problemi legati<br />
nel primo caso all’aumento delle emissioni di Co2 – con le multe<br />
previste dalla Direttiva sull’Emission Trading e dal protocollo<br />
di Kyoto - e nel secondo alle spese di <strong>sicurezza</strong> e smaltimento<br />
delle centrali e delle scorie. Perché se le liberalizzazioni possono<br />
essere una straordinaria opportunità per rendere più aperto<br />
e concorrenziale il sistema energetico italiano è anche vero<br />
che senza una chiara direzione di marcia rischiano di consolidare<br />
i soliti vecchi interessi.<br />
La sfida della liberalizzazione sta nell’allargare le possibilità<br />
di scelta per i cittadini, le opportunità di risparmio nella bolletta<br />
<strong>energetica</strong>. Come realizzare questa prospettiva è il vero banco<br />
di prova del sistema energetico italiano, per creare nuovi attori<br />
industriali e competitori nell’offerta ai cittadini e alle imprese<br />
di servizi più efficienti di produzione, gestione, risparmio<br />
energetico. Purtroppo il confronto politico non si occupa di<br />
questi aspetti, malgrado l’imminente apertura (a Luglio 2007)<br />
del mercato elettrico anche per gli utenti finali. Le uniche questioni<br />
di confronto riguardano le alleanze tra grandi produttori<br />
e distributori di energia, le nuove centrali e l’accesso alle risorse.<br />
Ossia gli interessi delle majors che in questi hanno ridotto gli<br />
investimenti per inseguire la redditività finanziaria a breve. Se le<br />
liberalizzazioni produrranno nuovi oligopoli e una finta concorrenza<br />
non si sarà migliorata la <strong>sicurezza</strong> del sistema ma solo aiutato<br />
alcuni gruppi. Al contrario una liberalizzazione che guarda<br />
agli interessi dei cittadini promuove l’efficienza e si sposa perfettamente<br />
con una idea di mercato aperto che promuove l’in-<br />
334
novazione, dove il risparmio energetico è la prima politica in un<br />
modello energetico distribuito che produce nuovi attori. Del resto<br />
non esiste un alternativa credibile per la fame di energia del<br />
Pianeta. Non lo è da un punto di vista della <strong>sicurezza</strong> internazionale<br />
un modello incentrato su risorse petrolifere, nucleare e<br />
carbone. Né lo può essere da un punto di vista dell’accesso alle<br />
risorse con tassi di crescita dei consumi energetici esponenziali,<br />
che condannano per via dei prezzi inaccessibili i Paesi meno sviluppati<br />
e senza giacimenti. Sicuramente non può rappresentarlo<br />
rispetto agli equilibri internazionali, perché contribuisce a<br />
diffondere una in<strong>sicurezza</strong> latente nei Paesi che possiedono le<br />
risorse dove si riducono gli spazi di democrazia e di libertà, dal<br />
Niger all’Algeria, dall’Indonesia all’Iran. Occorre prendere atto<br />
che l’aumento della domanda <strong>energetica</strong> e dei protagonisti sul<br />
palcoscenico internazionale è tale che un uso razionale delle risorse<br />
diventa essenziale in chiave economicista ma anche di<br />
equità. E ancora prima che si ponga il tema del limite delle risorse<br />
energetiche è proprio l’impossibilità di allargare le possibilità<br />
di accesso all’energia e quindi allo sviluppo per tanti cittadini<br />
del Pianeta a dover spingere la ricerca e l’innovazione verso<br />
tecnologie alternative e rinnovabili. Per citare il più avversato<br />
protagonista di questi anni, George W. Bush nel suo recente<br />
viaggio in Brasile, “ridurre la dipendenza dal petrolio per aiutare<br />
la <strong>sicurezza</strong> nazionale oltre che l’ambiente”.<br />
335
Salvatore Zecchini *<br />
Nel panorama della saggistica italiana in tema di <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> molto è stato scritto, seguendo approcci differenti,<br />
che enfatizzano di volta in volta l’una dimensione del problema,<br />
oppure l’altra. Rispetto a questi studi, quello qui proposto dall’Istituto<br />
Bruno Leoni ha il merito di affrontare l’argomento con<br />
una approccio globale ed equilibrato, quale è quello che si richiede<br />
date le molte sfaccettature del problema e i ridotti margini di<br />
compatibilità tra le soluzioni che affrontano singoli aspetti.<br />
Questo pregevole saggio, in particolare, sviluppa un’analisi<br />
trasversale a tre dimensioni del problema, economica, politica e<br />
ambientale, nella prospettiva di una governance internazionale,<br />
che sia funzionale alle esigenze di un paese, come il nostro. Il risultato<br />
è un insieme di proposte che hanno come fulcro l’uso intelligente<br />
delle politiche di liberalizzazione su scala internazionale<br />
in un contesto di governance soprannazionale, quale quella<br />
della Wto.<br />
Di fronte a una soluzione così argomentata è ragionevole<br />
porsi due quesiti di fondo: 1) quale sia il suo grado di idoneità<br />
rispetto all’obiettivo? e 2) quale la fattibilità nel mondo in cui viviamo?<br />
Naturalmente la risposta dipende in maniera cruciale da<br />
molte premesse, e in particolare da cosa si intende per <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>.<br />
Se la si interpreta nei termini di una mera garanzia della<br />
continuità dei flussi di approvvigionamento di energia per un<br />
* Presidente, Gme.<br />
337
dato paese, come era il caso per i paesi europei usciti dalla seconda<br />
guerra mondiale, specialmente quelli sconfitti, la soluzione<br />
è meno difficile di quanto appaia, perché qualsiasi strumento<br />
può essere utile per questo scopo.<br />
Ma se la si guarda nell’ottica di un paese sviluppato, che è<br />
lontano dall’autosufficienza <strong>energetica</strong> e che nell’utilizzo dell’energia<br />
si è imposto una serie di vincoli, anche ambientali, al fine<br />
di soddisfare una funzione complessa del benessere sociale,<br />
espressa dalla collettività, allora la soluzione idonea non è di tutta<br />
evidenza e nemmeno di facile attuazione.<br />
Per questo paese l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> presenta,<br />
infatti, non solo i contenuti di una garanzia di continuità<br />
di offerta di energia, ma dimensioni aggiuntive, ovvero<br />
la considerazione dell’orizzonte temporale rilevante per la<br />
<strong>sicurezza</strong> (il breve periodo, o il medio-lungo);<br />
la sostenibilità del costo dell’energia per le imprese (a causa<br />
degli effetti sulla loro capacità competitiva) e per i bilanci delle<br />
famiglie;<br />
la capacità di fronteggiare sconvolgimenti improvvisi dell’offerta<br />
(market disruptions) rimpiazzando alcune fonti energetiche<br />
con altre disponibili prontamente;<br />
la salvaguardia dai danni ambientali derivanti dall’uso dell’energia.<br />
Un paese evoluto, come l’Italia, ha enunciato nell’ultimo<br />
decennio questa visione programmatica della sua <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>. Ma guardando alle preferenze rivelate dalle azioni<br />
concrete messe in campo dalle autorità italiane, ai diversi livelli<br />
di governo, la nozione di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> che emerge è molto<br />
più modesta. Essa è consistita nell’assicurare per un orizzonte<br />
di pochi anni una disponibilità di energia a costi più elevati<br />
dei maggiori partner europei, con un effetto di contenimento<br />
dell’inquinamento non significativamente migliore di quei paesi,<br />
con la rinuncia allo sviluppo del nucleare, neanche nelle tipologie<br />
tecnologiche meno rischiose, e con una minima capacità di<br />
fronteggiare imprevedibili interruzioni negli approvvigionamenti<br />
esterni.<br />
Non è chiaro se un simile atteggiamento possa tranquillizzare<br />
il Paese, a fronte di una triplice dipendenza, che non ha pa-<br />
338
i tra i maggiori paesi comunitari. In particolare si osserva: 1)<br />
elevata dipendenza da fonti estere (per l’85 per cento); 2) elevata<br />
dipendenza da combustibili fossili (due terzi da gas e petrolio);<br />
e 3) elevata dipendenza dai primi due paesi in cui si concentrano<br />
gli acquisti di prodotti petroliferi e gas naturale.<br />
Inoltre, l’esborso per i consumi energetici è maggiore che<br />
nei principali concorrenti nell’UE, con una incidenza della spesa<br />
<strong>energetica</strong> sul fatturato industriale quasi doppia rispetto a<br />
quei paesi.<br />
L’Italia, in breve, spende molto per l’energia e poco per la<br />
sua <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Su questo fronte è talmente vulnerabile<br />
che uno shock di prezzo o di offerta sui mercati internazionali<br />
dell’energia avrebbe per il Paese le caratteristiche di uno<br />
shock idiosincratico, con conseguenze più gravi che negli altri.<br />
Non potrebbe, infatti, contare su soluzioni condivise con i suoi<br />
partner, in quanto meno colpiti dal problema.<br />
Assumendo la visione dell’obiettivo <strong>sicurezza</strong> espressa dal<br />
Paese, è evidente che si tratta di una meta ardua da raggiungere,<br />
sia per la distanza esistente rispetto all’attuale situazione<br />
<strong>energetica</strong>, sia per la ristrettezza del ventaglio delle opzioni percorribili<br />
nella scelta degli strumenti.<br />
Quanto ai mezzi, è necessario sottolineare la differenza esistente<br />
tra quelli appropriati ed efficaci sul versante interno e<br />
quelli adatti nell’ambito esterno, per il semplice motivo che i<br />
due contesti sono profondamente diversi quanto ad assetti di<br />
potere di mercato e a spazi disponibili per interventi. Soltanto<br />
per un paese egemone la linea divisoria tra le possibilità di azione<br />
all’interno e quelle all’estero si attenua. Ma neanche in questo<br />
caso scompare, perché le probabilità di successo di una politica<br />
egemonica sulle fonti di energia appaiono modeste nell’attuale<br />
scenario mondiale, mentre i costi ad essa associati si presentano<br />
notevoli.<br />
Guardando agli strumenti, il Rapporto dell’IBL sposa la tesi<br />
che la liberalizzazione dei mercati dell’energia può consentire<br />
di avvicinarsi all’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Il motore<br />
di tale processo di avvicinamento sarebbe un mercato libero<br />
da costrizioni e in grado di guidare le scelte economiche dei soggetti<br />
tanto privati, che pubblici.<br />
339
Tuttavia, il Rapporto riconosce che, secondo taluni, la <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> è un bene pubblico, nel senso dato dai tecnici<br />
dell’economia. Invero, di questa categoria sembra condividere<br />
le caratteristiche di non rigettabilità e non escludibilità,<br />
mentre è dubbio che abbia sempre i tratti della non rivalità nei<br />
consumi.<br />
In ogni caso, presenta una forte componente di “bene pubblico”,<br />
come si può desumere dalla stessa vulnerabilità attuale<br />
del Paese sotto il profilo della <strong>sicurezza</strong>. Infatti, nell’ultimo decennio<br />
le forze di mercato, affidate a sé stesse, non si sono dimostrate<br />
interessate a condurre a questo obiettivo. In altri termini,<br />
come per tutti i “beni pubblici”, il mercato non è stato in<br />
grado di fornire il bene <strong>sicurezza</strong>. Il motivo è che il privato non<br />
riesce ad appropriarsi di tutti i benefici derivanti dal produrlo,<br />
e al limite potrebbe trovare più conveniente non produrlo. Pertanto,<br />
in simili circostanze è giustificato e necessario un intervento<br />
pubblico o al fine di correggere il “fallimento del mercato”,<br />
o per sostituirsi al mercato stesso nel fornire questo bene.<br />
Nella storia del secondo dopoguerra, si ritrova la conferma<br />
di questo assunto. In tutti i paesi europei e in Giappone lo Stato<br />
è intervenuto o direttamente, o attraverso società da esso controllate<br />
o aiutate, per garantire l’approvvigionamento energetico<br />
nazionale a costi contenuti. Negli USA l’esperienza è differente,<br />
ma si sostanzia pur sempre nell’occhio benevolo dello<br />
Stato nell’assecondare storicamente i processi di accumulazione<br />
capitalistica nelle maggiori società del settore e nel tutelare le<br />
stesse nei loro programmi di investimento per lo sfruttamento<br />
delle risorse di altri paesi.<br />
Negli ultimi 60 anni le compagnie europee, col sostegno dei<br />
governi nazionali, sono divenute grosse multinazionali dell’energia,<br />
ma dagli anni 70 hanno progressivamente perduto il<br />
controllo delle attività estrattive nei paesi petroliferi a tutto vantaggio<br />
delle rispettive società nazionali. Queste ultime, inoltre,<br />
tendono attualmente a sviluppare una concorrenza verso le multinazionali<br />
dell’energia anche nel downstream, ossia nel mercato<br />
dei prodotti energetici.<br />
Nel quadro europeo si assiste, pertanto, a un assetto fortemente<br />
sbilanciato. All’interno dei mercati nazionali, vi è il pre-<br />
340
dominio delle grandi imprese energetiche con posizioni dominanti<br />
assecondate dai loro governi.<br />
Nei mercati mondiali, invece, queste imprese sono costrette<br />
ad approvvigionarsi sottostando alle condizioni poste dai paesi<br />
titolari delle risorse energetiche (specialmente dal cartello dell’Opec).<br />
In questo senso giocano anche l’eccesso tendenziale<br />
della domanda di energia per i prossimi decenni e le rigidità<br />
strutturali di approvvigionamento, dovute ad esempio alla dipendenza<br />
dalle condotte di trasporto del petrolio e del gas.<br />
Nei paesi terzi, d’altronde, esse iniziano a incontrare la concorrenza<br />
delle compagnie nazionali dei paesi petroliferi, che godono<br />
di condizioni di approvvigionamento privilegiate.<br />
In Italia l’assetto è reso ancor più sbilanciato di quello europeo<br />
dalla sua rinuncia all’energia nucleare e dai limiti di fatto<br />
esistenti al potenziamento dell’utilizzo del carbone a causa di ragioni<br />
ambientali.<br />
In un contesto così sbilanciato non è affatto certo che il perseguimento<br />
di una assoluta liberalizzazione dei mercati energetici<br />
interni conduca all’ottimizzazione nell’uso delle risorse<br />
energetiche, e per questa via alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> del Paese.<br />
Infatti, liberalizzare non vuole dire necessariamente creare una<br />
condizione di concorrenza soddisfacente, da cui possa discendere<br />
una maggiore efficienza nei flussi di energia prodotta o impiegata.<br />
Al contrario, l’esito più plausibile sarebbe un accentuarsi<br />
delle disparità, in quanto, essendo le posizioni competitive di<br />
partenza nettamente sperequate, la nuova concorrenza, di cui vi<br />
è bisogno, avrebbe ristrette possibilità di emergere. Essa dovrebbe,<br />
infatti, scontrarsi con consolidate posizioni dominanti e<br />
forti barriere all’entrata nel mercato. A meno che la nuova concorrenza<br />
non sia rappresentata da grandi imprese estere, che godono<br />
di tutele e di vantaggi da integrazione verticale nei paesi di<br />
origine, e possono quindi operare in condizioni di sovvenzionamento<br />
incrociato delle attività estere a spese di quelle interne.<br />
Tuttavia, è plausibile ritenere che, una volta entrate nel mercato,<br />
il loro interesse sia quello di accordarsi con l’incumbent.<br />
Va sottolineato che le barriere all’accesso derivano tanto da<br />
posizioni dominanti e da ragioni politiche, quanto da requisiti<br />
341
tecnologici, ovvero dal fabbisogno di grandi investimenti, che<br />
comportano grandi rischi e di riflesso postulano grandi dimensioni<br />
di impresa per poterli sopportare.<br />
In uno scenario realistico, quindi, al quesito se la liberalizzazione<br />
sia strumentale o compatibile con l’obiettivo <strong>sicurezza</strong>,<br />
si deve rispondere che per questo obiettivo vi è bisogno all’interno<br />
del Paese sia di più concorrenza, sia di più Stato, ma in un<br />
ruolo diverso dal tradizionale. Più concorrenza, per scalzare, almeno<br />
in parte, le posizioni di rendita precostituite. Più Stato,<br />
per svolgere il ruolo chiave di disciplina della concorrenza nel<br />
mercato interno e di sostegno all’apertura dei mercati esteri.<br />
Al contrario, il coinvolgimento pubblico direttamente nella<br />
proprietà di imprese energetiche con posizione dominante<br />
non è una condizione necessaria, e può perfino essere nefasto<br />
per la collettività, se finisce con lo smorzare la propensione dell’impresa<br />
a innovare tecnologicamente, ad assumere nuovi rischi<br />
di ricerca e sviluppo, e a investire nel potenziamento produttivo.<br />
L’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> può invece essere perseguito<br />
con il classico armamentario pubblico della regolamentazione,<br />
della tassazione e dei sostegni finanziari.<br />
Il bisogno di un ruolo pubblico di disciplina si evidenzia in<br />
particolare nell’incentivare l’investimento nelle fonti energetiche<br />
alternative e nelle infrastrutture che sono essenziali per la <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong>, e nel disciplinare il loro utilizzo.<br />
Se la diversificazione delle fonti di energia è essenziale per<br />
la <strong>sicurezza</strong>, considerato che le energie alternative presentano<br />
costi molto più elevati di quelle fossili, è indispensabile un intervento<br />
pubblico del tipo “tax cum subsidy” per creare una convenienza<br />
relativa del privato a investire nello sviluppo di queste<br />
fonti. In altri termini, occorre un intervento pubblico per ridurre<br />
lo scarto di costo tra i combustibili fossili e le energie rinnovabili,<br />
con l’eccezione di quella idroelettrica, che già comporta<br />
costi relativamente bassi. Al limite occorre operare nella direzione<br />
di pareggiare i costi marginali delle diverse fonti.<br />
Condizione necessaria per diversificare fonti energetiche ed<br />
aree di rifornimento, e per promuovere una maggiore concorrenza<br />
nel mercato interno è anche l’espansione delle infrastrutture<br />
oltre i fabbisogni dell’operatore dominante. Quest’ultimo,<br />
342
infatti, non ha interesse a investire in queste opere per dare spazio<br />
alla concorrenza. Ma gran parte delle infrastrutture energetiche<br />
presentano le caratteristiche di un “monopolio naturale”,<br />
che non lascia posto, ad esempio, per la duplicazione di reti. È<br />
quindi necessario che intervenga il soggetto pubblico per incentivare<br />
l’investimento in nuove infrastrutture (fino a creare eccedenze<br />
di capacità) e per assicurare che il loro utilizzo avvenga<br />
nell’interesse collettivo, piuttosto che per consentire all’incumbent<br />
di sfruttare posizioni di quasi-rendita derivante dalla proprietà<br />
delle infrastrutture.<br />
Parimenti, il ruolo dello Stato è essenziale per fronteggiare<br />
la carenza di concorrenza sui mercati mondiali. In questo senso<br />
è bene abbandonare l’illusione che i paesi importatori netti di<br />
energia possano da soli far aprire alla concorrenza i mercati dei<br />
paesi esportatori. La scarsità relativa di fonti energetiche milita<br />
contro questa possibilità. Né nessuna multinazionale dell’energia<br />
dispone nella realtà di una forza tale da poter negoziare ad<br />
armi pari con cartelli, quali l’Opec, o con i maggiori paesi petroliferi.<br />
In un contesto in cui prevale la forza dei grandi produttori<br />
di energia (il cartello dei paesi Opec e, da ultimo, anche quello<br />
nascente del gas), nessuna apertura dei mercati, né alcuna <strong>sicurezza</strong><br />
<strong>energetica</strong> è possibile senza un intervento dei governi dall’una<br />
e dall’altra parte.<br />
Non avrebbe senso, in specie, l’apertura unilaterale dei<br />
mercati energetici europei ai concorrenti provenienti dai paesi<br />
produttori, proprio perché favorirebbe l’emergere nel mercato<br />
interno di nuovi operatori dominanti di provenienza estera, che<br />
sono ancor più difficilmente controllabili di quelli nazionali. In<br />
un simile assetto l’apertura va ricercata solo attraverso negoziati<br />
a livello di governi, che si ispirino al principio di reciprocità<br />
nelle concessioni dell’un paese e dell’altro.<br />
Ciò vale anche per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. In questa prospettiva,<br />
l’autosufficienza <strong>energetica</strong> non è una via percorribile<br />
per i paesi europei, data la loro scarsa dotazione di fonti interne<br />
di energia. Oltretutto, l’autosufficienza sarebbe molto costosa<br />
ed in contrasto con le esigenze di competitività, in quanto determina<br />
una deviazione dal criterio di ottimalità, che consiste nel<br />
343
concentrare le risorse disponibili nello sfruttamento dei genuini<br />
vantaggi comparati del paese.<br />
Nemmeno l’affidarsi alle sole forze del mercato darebbe<br />
questa <strong>sicurezza</strong> ai paesi europei, perché devono confrontarsi<br />
con mercati mondiali governati da paesi con posizioni dominanti.<br />
Né vi sono istituzioni internazionali in grado di fornire questo<br />
bene pubblico della <strong>sicurezza</strong> attraverso un sistema di governance<br />
internazionale. La World Trade Organization, in particolare,<br />
non appare idonea allo scopo, dal momento che può operare<br />
per l’apertura dei mercati solo entro settori molto delimitati,<br />
non garantisce su questi mercati le condizioni di concorrenza<br />
attraverso una politica attiva, ma solo la loro apertura, ed è<br />
priva di reali capacità sanzionatorie verso i paesi che violano gli<br />
accordi.<br />
Per queste ragioni i negoziati tra paesi produttori e consumatori<br />
si pongono come lo strumento principale per costruire<br />
un certo livello di <strong>sicurezza</strong> per gli europei, benché non lo possano<br />
garantire nel lungo periodo.<br />
In questa prospettiva, la politica estera ha un ruolo importante<br />
da svolgere, soprattutto nella sua dimensione di politica<br />
economica verso l’estero. Questa viene condotta sia dalla diplomazia<br />
tradizionale, sia dalle grandi imprese multinazionali dell’energia,<br />
in un lavoro che è spesso di squadra.<br />
Ma nessuna forma di diplomazia o politica estera, quale<br />
quella fondata sui soliti “buoni rapporti tra Stati”, è sufficiente<br />
per questo obiettivo. Né lo è il sottoscrivere contratti pluridecennali<br />
di fornitura di energia, perché questi patti possono sempre<br />
essere rimessi in discussione con un pretesto o un altro (e gli<br />
esempi non mancano nella storia recente), o possono essere infranti<br />
a causa di problemi che riguardano una terza parte, quale<br />
ad esempio un paese di transito della fornitura di energia.<br />
La garanzia ultima della <strong>sicurezza</strong>, invece, sta nello sviluppare<br />
tra i paesi produttori e quelli consumatori una fiducia reciproca<br />
(mutual trust) fondata sulla convergenza di interessi. E la<br />
fiducia va costruita nel tempo, con continuità di comportamenti,<br />
e avendo in mente, in primo luogo, lo stabilire un’intensa collaborazione<br />
per lo sviluppo di entrambe le economie.<br />
344
Solo se si instaura un’interdipendenza di convenienze economiche,<br />
il paese fornitore avrà interesse a non pregiudicare la<br />
<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dell’altro.<br />
Tuttavia, la fiducia reciproca non si costruisce soltanto sullo<br />
scacchiere economico, ma si estende al campo della <strong>sicurezza</strong><br />
nazionale, e quindi delle alleanze internazionali. Ne discende<br />
che l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> pone una seria ipoteca<br />
sulle scelte di politica estera del paese consumatore.<br />
In ogni caso, è chiaro che per i paesi consumatori non vi sono<br />
grandi probabilità di successo nell’assicurarsi un livello soddisfacente<br />
di <strong>sicurezza</strong> fintantoché permarrà l’attuale contesto<br />
di rapporti che è fortemente sbilanciato a favore del cartello dei<br />
produttori. Ristabilire un contesto meno squilibrato di posizioni<br />
negoziali è quindi una priorità a cui non si può sfuggire.<br />
Non si tratta, tuttavia, di contrapporre a un cartello dei produttori<br />
un altro dei consumatori, ma di pareggiare le condizioni<br />
attualmente fortemente sbilanciate dell’operare sui mercati mondiali.<br />
Ciò è possibile se si stabilisce un adeguato coordinamento<br />
tra i paesi consumatori, nel senso di sviluppare posizioni comuni,<br />
che siano fondate sulla condivisione dei medesimi interessi di<br />
lungo periodo, e di accettare gli oneri della disciplina dell’operare<br />
in comune, cioè di porre un limite all’autonomia nazionale.<br />
Un simile quadro di coordinamento non può essere fornito<br />
dalla Wto, per le ragioni già accennate, né da una Nato dell’energia,<br />
come indicato dal premier polacco, in quanto sarebbe<br />
marcata da un atteggiamento più di confronto che di cooperazione<br />
con la controparte. È invece l’UE che può dare all’Italia,<br />
come agli altri paesi membri, quella cornice di coordinamento<br />
che si ispiri ai principi di convergenza e di collaborazione con le<br />
controparti. Di questa realtà purtroppo i maggiori paesi europei<br />
non sembrano aver acquisito profonda consapevolezza, mentre<br />
continuano a mostrare di voler procedere isolatamente, nel falso<br />
assunto di poter spuntare con i paesi produttori condizioni<br />
migliori dei propri partner.<br />
Il risultato è che l’Europa comunitaria, nonostante i diversi<br />
tentativi in questa direzione sin dalla sua fondazione, manca<br />
ancora di una politica europea dell’energia. Solo qualche timido<br />
progresso, come la Carta dell’Energia, che tuttavia rimane a<br />
345
livello di principi generali e non di impegni con un seguito concreto.<br />
Nel contempo, la sua vulnerabilità <strong>energetica</strong> permane<br />
considerevole, ed è destinata ad ampliarsi nei prossimi decenni.<br />
Per altro verso, l’UE ha adottato ambiziosi obiettivi di contenimento<br />
delle emissioni inquinanti, con scarsa considerazione<br />
degli effetti negativi che ne discendono sul piano della vulnerabilità<br />
<strong>energetica</strong> per paesi, come l’Italia, la quale denuncia<br />
un’accentuata dipendenza dal gas naturale di fonte estera e ha<br />
necessità di ricorrere a costose energie rinnovabili a causa dell’assenza<br />
di centrali nucleari e dell’aver raggiunto i limiti nello<br />
sfruttamento dell’idroelettrico. Sicurezza <strong>energetica</strong> e tutela<br />
ambientale non sono incompatibili tra loro, in quanto le energie<br />
rinnovabili di origine interna, a differenza di quelle fossili d’importazione,<br />
hanno un basso impatto ambientale. Tuttavia esse<br />
sono relativamente onerose, richiedono consistenti investimenti<br />
nelle infrastrutture relative e nello sviluppo di nuove tecnologie,<br />
e nel breve periodo si riflettono sfavorevolmente sulla competitività<br />
del sistema produttivo. Pertanto, la compatibilità tra i<br />
due obiettivi non può considerarsi come un fatto acquisito per<br />
assunto, ma piuttosto come una meta che è ancora da raggiungere<br />
e per il cui perseguimento il privato non può fare a meno<br />
di un ben mirato sostegno pubblico.<br />
L’Italia, tuttavia, appare ancora lontana dal realizzare un assetto<br />
di convenienze e costi relativi delle fonti rinnovabili, tale<br />
da permettere di progredire verso entrambi gli obiettivi. In particolare,<br />
le agevolazioni pubbliche a favore delle energie rinnovabili<br />
non appaiono in grado di compensare fattori di vulnerabilità,<br />
quali la rinuncia al nucleare, il freno all’impiego del carbone<br />
e la modestia delle misure di risparmio energetico.<br />
In conclusione, le tensioni che tendono ad improntare l’evoluzione<br />
dei mercati mondiali dell’energia in questa prima<br />
metà del secolo rendono sempre più urgente che il Paese prenda<br />
consapevolezza del fatto che non esiste una <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />
a buon mercato. Essa al contrario comporta oneri considerevoli.<br />
Di questi costi la società italiana si dimostra essere poco<br />
consapevole, ed ancor meno disposta a sostenerli.<br />
È una situazione insostenibile, che va superata puntando su<br />
quei fattori che contribuiscono alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> e supe-<br />
346
ando quelli che la indeboliscono. Tra i primi vi sono, in particolare,<br />
lo sviluppo delle fonti interne di energia, la diversificazione,<br />
l’efficienza <strong>energetica</strong>, l’investimento nella ricerca e sviluppo<br />
nel settore, la cooperazione con i paesi produttori. Tra i<br />
secondi vanno sottolineate la concentrazione su poche fonti di<br />
derivazione estera e l’accentuazione dei vincoli interni al potenziamento<br />
dell’offerta <strong>energetica</strong>. Ma al di là di queste vulnerabilità<br />
va superato il retaggio di una cultura sociale che sembra<br />
ignorare che l’energia è una risorsa scarsa e costosa, e quindi deve<br />
essere utilizzata con il massimo di razionalità possibile.<br />
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Franco Muzzio Editore, 2005)<br />
361
Gli autori<br />
ROSAMARIA BITETTI è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />
SILVIO BOCCALATTE è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />
ANDREA GILLI è studente al master in Relazioni internazionali presso<br />
la London School of Economics and <strong>Politica</strong>l Science.<br />
MAURO GILLI è studente al master in Relazioni internazionali presso la<br />
School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University.<br />
TABRIZ JABBAROV è vicepresidente per le relazioni internazionali della<br />
Free Minds Association (Baku).<br />
CARLO LOTTIERI è direttore del dipartimento Teoria politica dell’Istituto<br />
Bruno Leoni (Torino).<br />
ANGELANTONIO ROSATO, giornalista professionista, è ricercatore di<br />
politiche energetiche in Eurasia.<br />
CARLO STAGNARO è direttore del dipartimento Ecologia di mercato<br />
dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />
MARGO M. THORNING è managing director dell’International Council<br />
for Capital Formation (Bruxelles).<br />
MASSIMILIANO TROVATO è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />
TURAL K. VELIYEV è direttore esecutivo della Free Minds Association<br />
(Baku).<br />
363
Indice<br />
Introduzione di Massimo D’Alema p. 5<br />
1. La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> tra economia e politica 15<br />
2. La situazione europea e italiana 21<br />
3. La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 43<br />
4. Le risorse si stanno esaurendo? 87<br />
5. <strong>Politica</strong>, <strong>regolazione</strong> e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 143<br />
6. <strong>Politica</strong> estera e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 181<br />
7. Le organizzazioni internazionali 249<br />
8. La Carta dell’energia 275<br />
9. Conclusione: un coordinamento necessario 299<br />
Commenti 309<br />
Bibliografia 349<br />
Gli autori 363<br />
365
Finito di stampare nel mese di novembre 2007<br />
dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali<br />
per conto di Rubbettino Editore Srl e Leonardo Facco Editore<br />
88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Pagina collana<br />
Policy
L’Istituto Bruno Leoni (IBL), intitolato al grande filosofo del diritto<br />
Bruno Leoni (1913-1967), nasce con l’ambizione di stimolare il dibattito<br />
pubblico, in Italia, esprimendo in modo puntuale e rigoroso un<br />
punto di vista autenticamente liberale.<br />
L’IBL intende studiare, promuovere e divulgare gli ideali del libero<br />
mercato, della proprietà privata e della libertà di scambio.<br />
Attraverso la pubblicazione di libri, l’organizzazione di convegni, la diffusione<br />
di articoli sulla stampa nazionale e internazionale, l’elaborazione<br />
di brevi e puntuali studi e briefing papers, l’IBL mira a orientare il<br />
processo decisionale, a informare al meglio la pubblica opinione, a crescere<br />
una nuova generazione di intellettuali e studiosi sensibili alle ragioni<br />
della libertà.<br />
L’IBL vuole essere per l’Italia ciò che altri think tank sono stati per le<br />
nazioni anglosassoni: un pungolo per la classe politica e un punto di riferimento<br />
per il pubblico in generale. Il corso della storia segue dalle<br />
idee: il liberalismo è un’idea forte, ma la sua voce è ancora debole nel<br />
nostro Paese.<br />
Volti ad approfondire la dimensione teorica dei dibattiti sulla libertà individuale<br />
e sulla giustizia, i volumi della collana Mercato, Diritto e Libertà<br />
(promossi dall’IBL presso gli editori Facco e Rubbettino) si caratterizzano<br />
per il rigore con cui difendono la tradizione liberale più coerente.<br />
L’obiettivo è di offrire i migliori strumenti intellettuali alle giovani<br />
generazioni, favorendo quel mutamento del dibattito culturale che è<br />
premessa indispensabile a un’efficace difesa delle libertà minacciate e<br />
ad una riconquista di quelle perdute.<br />
Istituto Bruno Leoni<br />
Via Bossi 1<br />
10144 Torino<br />
Italy<br />
Tel. 011-070.2087<br />
Fax: 011-437.1384<br />
E-mail: info@brunoleoni.it<br />
www.brunoleoni.it