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Politica, regolazione e sicurezza energetica

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5.<br />

<strong>Politica</strong>, <strong>regolazione</strong> e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

L’esigenza di rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> in uno scenario<br />

globale cangiante e contraddittorio ha dunque a che vedere<br />

con una molteplicità di variabili, la maggior parte delle quali<br />

è al di fuori della portata dei paesi consumatori di risorse energetiche.<br />

Tre leve, però, sono a disposizione dei paesi consumatori<br />

ed è opportuno che siano mosse in maniera coerente ed efficace.<br />

5.1. La politica economica<br />

La prima leva riguarda la politica economica. Come si è visto,<br />

è ragionevole supporre – anche se l’evidenza empirica non<br />

è ancora in grado di mettere la parola fine a questo dibattito –<br />

che quanto più un mercato è ampio e integrato, tanto più esso è<br />

flessibile e in grado di parare shock derivanti da incidenti, compresi<br />

quelli politici. Questo punto è esplicitamente riconosciuto,<br />

ed enfatizzato, nel Libro verde della Commissione Europea<br />

sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>: “l’energia sostenibile, competitiva e<br />

sicura non sarà raggiunta senza mercati energetici competitivi e<br />

aperti, basati sulla concorrenza tra imprese nel tentativo di diventare<br />

player competitivi a livello europeo anziché soggetti dominanti<br />

a livello nazionale. L’apertura dei mercati, non il protezionismo,<br />

rafforzerà l’Europa e le consentirà di risolvere i problemi.<br />

Un mercato unico europeo autenticamente competitivo<br />

dell’elettricità e del gas ridurrà i prezzi, migliorerà la <strong>sicurezza</strong><br />

degli approvvigionamenti e accrescerà la competitività. Aiuterà<br />

143


anche l’ambiente, perché le imprese reagiscono alla competizione<br />

chiudendo gli impianti inefficienti” 1. Perché si possa parlare<br />

di un vero mercato interno, occorre anzitutto sviluppare politiche<br />

che consentano, o almeno non ostacolino, l’accesso di newcomers<br />

sui mercati nazionali, e quindi sappiano garantire i principi<br />

di terzietà e non discriminazione nella gestione delle reti nazionali<br />

preesistenti alla liberalizzazione. Al tempo stesso, è fondamentale<br />

la crescita delle arterie di interconnessione dei diversi<br />

sistemi elettrici, in maniera tale che essi non restino di fatto<br />

isole collegate da pochi, esili ponti. L’obiettivo di raggiungere<br />

un livello di interconnessione pari al 10 per cento degli scambi<br />

elettrici nel continente, fissato dal Consiglio europeo svoltosi a<br />

Barcellona nel 2002, è ancora lontano e “i progressi non sono<br />

soddisfacenti”. Quindi, “gli investimenti pubblici e privati nelle<br />

infrastrutture devono essere stimolati e le procedure accelerate.<br />

Maggiore è l’interconnesione tra le reti elettriche europee,<br />

minore sarà il bisogno di capacità in eccesso e, col tempo, minori<br />

i costi. Questo è importante in un momento in cui il precedente<br />

eccesso di capacità europeo sta diventando storia” 2.<br />

Se tutto questo è vero, allora è fondamentale anche l’istituzione<br />

di un principio di “solidarietà tra gli Stati”, un patto di<br />

mutuo soccorso insomma che impegni i contraenti al reciproco<br />

aiuto in caso di difficoltà. Sebbene tale patto possa essere di difficile<br />

interpretazione all’atto pratico, quanto meno esso rafforza<br />

l’esigenza di sviluppare sinergie e compatibilità, che nel medio<br />

e lungo periodo possono essere raggiunte solo se si consente alle<br />

imprese di crescere e operare in paesi diversi da quello originario<br />

anche attraverso fusioni cross border. Infatti, solo con la<br />

perdita della “nazionalità delle imprese”, solo con la creazione<br />

di un “melting pot economico”, le motivazioni protezionistiche<br />

possono effettivamente perdere terreno, credibilità e appeal. È<br />

vero che in questa evoluzione si nasconde il rischio, ancora una<br />

volta, dell’uso politico delle imprese di un paese operanti in un<br />

altro: c’è sempre, in ogni strategia, una quota di azzardo. È tut-<br />

1 COMMISSIONE EUROPEA, “A European Strategy for Sustainable, Competitive<br />

and Secure Energy”, p. 5.<br />

2 Ivi, p. 7.<br />

144


tavia ragionevole attendersi che, se i mercati sono aperti, contendibili<br />

e trasparenti, scelte di questo genere vengano evitate –<br />

nel senso che la loro probabilità sarà minimizzata – non tanto<br />

per ragioni morali, quanto perché, semplicemente, esse non<br />

convengono.<br />

L’integrazione dei mercati avrebbe due effetti fondamentali.<br />

Dal punto di vista del consumatore, porterebbe a una maggiore<br />

libertà di scelta e a una convergenza dei prezzi verso un<br />

prezzo unico europeo di elettricità e gas, facendo venire meno<br />

gli sbalzi tariffari che tipicamente si sperimentano varcando i<br />

confini (e che dipendono anche, ma non solo, da una diversità<br />

nel trattamento fiscale). Dal punto di vista dei produttori, si potrebbe<br />

raggiungere una più efficiente collocazione degli impianti<br />

e un maggiore bilanciamento del mix produttivo, anche, ma<br />

non solo, perché la possibilità di spostare i processi produttivi<br />

da un paese all’altro senza avere eccessivi contraccolpi sul mercato<br />

di riferimento potrebbe, entro certi limiti, consentire un superamento<br />

delle restrizioni alla scelta dei combustibili. Naturalmente<br />

questo implicherebbe pure un premio (in termini di capacità<br />

di attirare investimenti) per quei paesi che hanno una regolamentazione<br />

più tollerante e processi autorizzativi più certi e<br />

rapidi. Per di più, potrebbe paradossalmente emergere un “nazionalismo<br />

positivo”: mentre oggi per trattenere competenze<br />

nei settori ritenuti strategici si ricorre talvolta a provvedimenti<br />

protezionistici, il modo per impedire la dispersione di capitale<br />

umano potrebbe essere la semplificazione burocratica, con beneficio<br />

dell’intera economia nazionale e, trattandosi di un mercato<br />

integrato, europea.<br />

L’integrazione europea nasconde però un’insidia: che venga<br />

concepita come una licenza a trasferire a livello continentale<br />

quelle politiche di chiusura che vengono sacrificate a livello nazionale.<br />

La creazione di un mercato interno europeo, infatti,<br />

non cancella il fatto che l’Europa e i suoi Stati membri siano immersi<br />

in un contesto globalizzato, nel quale – seppure a un grado<br />

minore – esistono forme di interconnessione. Questo è sicuramente<br />

vero per i mercati petroliferi, e meno vero (ma lo è in<br />

misura crescente) per quelli del gas, per le ragioni che si sono<br />

già viste.<br />

145


Il caso Cnooc-Unocal<br />

Un’esperienza utile a comprendere i rischi a cui espone<br />

il protezionismo è il braccio di ferro, svoltosi tra la primavera<br />

e l’estate 2005, tra la compagnia pubblica cinese Cnooc e<br />

la multinazionale americana Chevron per l’acquisizione di<br />

Unocal, nona impresa petrolifera americana con importanti<br />

asset in Asia. In quell’occasione fu il Congresso a mettere di<br />

fatto i bastoni tra le ruote a Cnooc, la cui offerta era superiore<br />

a quella dei competitori (anche grazie ai prestiti a tasso<br />

zero garantiti dal governo di Pechino). La decisione di<br />

sbarrare la strada ai cinesi dipendeva essenzialmente dal timore<br />

che aprire la porta a un’impresa pubblica di un paese<br />

tanto delicato avrebbe potuto creare problemi strategici agli<br />

Stati Uniti, e dunque avrebbe cozzato contro l’interesse nazionale.<br />

In verità, gli assetti proprietari delle compagnie petrolifere<br />

– e di una relativamente minore come Unocal in<br />

particolare – non bastano a determinare cambiamenti sui<br />

mercati petroliferi mondiali, su cui si forma il prezzo dei<br />

greggi di riferimento (e di tutti gli altri). Quindi difficilmente<br />

si può sostenere che l’acquisizione avrebbe prodotto<br />

smottamenti del mercato.<br />

Se insomma l’ingresso di Cnooc in America non avrebbe<br />

avuto grandi conseguenze, quali risultati può aver determinato<br />

la decisione di impedirlo? In primo luogo, poiché il<br />

tentativo di Cnooc era anche figlio delle spinte modernizzatrici<br />

che stanno attraversando la Cina, queste ultime sono<br />

state indebolite, con potenziali conseguenze negative<br />

per il paese e per il resto del mondo. Secondariamente, gli<br />

Stati Uniti si sono messi in una posizione facilmente criticabile<br />

da Pechino, riducendo la propria credibilità nel tentativo<br />

di “influenzare la Cina anziché semplicemente difendersi<br />

da essa” (per usare le parole con cui Adam Segal commentava<br />

il senso della visita in Cina del vicesegretario di<br />

Stato Robert Zoellick, avvenuta più o meno negli stessi<br />

giorni in cui si consumava lo scontro su Cnooc) 3. Secondariamente,<br />

posto che la Cina deve in qualche modo soddisfa-<br />

146


e il suo bisogno di energia, lo sbarramento incontrato sulla<br />

via americana ai mercati globali ha costretto il paese a<br />

cercare una boccata d’ossigeno costruendo una relazione<br />

meno limpida (in quanto necessariamente più dipendente<br />

da trattative e scelte politiche) con quei paesi che vengono<br />

ritenuti inaffidabili: “l’unica certezza è che più le compagnie<br />

energetiche cinesi sono tenute fuori dalla partecipazione<br />

al mercato, più saranno forzate a cercare il petrolio presso<br />

Stati canaglia quali l’Iran e il Sudan per alimentare la crescita<br />

del paese”, ha scritto Mark Cristopher 4. In questa maniera,<br />

si rischia di imprimere alla globalizzazione un percorso<br />

a ostacoli che potrebbe produrre un risultato grandemente<br />

negativo: il formarsi di due blocchi, quello dei “buoni”<br />

e quello dei “cattivi”, con poche forme di comunicazione<br />

reciproca. Al contrario, sarebbe opportuno promuovere<br />

i commerci e le relazioni internazionali come fattori di<br />

stabilità e <strong>sicurezza</strong>. Se due paesi sono legati l’uno all’altro,<br />

i comportamenti opportunistici hanno un costo maggiore<br />

per chi li adotta.<br />

Proprio perché la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> può essere vista come<br />

un elemento di <strong>sicurezza</strong> nazionale (in quanto il mondo<br />

contemporaneo ha nell’energia l’input che lo tiene in vita), occorre<br />

una chiara comprensione di quel che c’è in gioco, del significato<br />

della <strong>sicurezza</strong> (che è un costo), e delle strategie più<br />

efficaci per garantirla. Nell’attuale scenario mondiale – con un<br />

mondo sviluppato energivoro e un mondo in via di sviluppo<br />

che mette assieme una rapida evoluzione istituzionale e una<br />

crescita economica a due cifre a un’altrettanto sostenuta domanda<br />

di energia – le scelte di politica <strong>energetica</strong> hanno un im-<br />

3 ADAM SEGAL, “Encouraging China to Choose a Peaceful Path”, The<br />

Wall Street Journal, 3 agosto 2005.<br />

4 MARK CRISTOPHER, “In Need of a China Energy Strategy”, The Wall<br />

Street Journal, 27 giugno 2005. A proposito dell’asse tra Iran e Venezuela, su<br />

cui converge una delle possibili linee strategiche della politica cinese, si veda<br />

MAURIZIO STEFANINI, “Iran-Venezuela, la strana coppia”.<br />

147


patto fondamentale su quelle di politica economica, e viceversa.<br />

Di conseguenza, esse non possono essere trattate come due<br />

capitoli estranei l’uno all’altro. In particolare, nota Daniel Yergin,<br />

“bisogna riconoscere nei mercati una fonte di <strong>sicurezza</strong>...<br />

Oggi, l’esistenza di mercati dell’energia vasti, flessibili e ben<br />

funzionanti produce <strong>sicurezza</strong> assorbendo gli shock e consentendo<br />

a domanda e offerta di rispondere più velocemente e con<br />

maggiore ingegno di quanto potrebbe fare un sistema controllato.<br />

Tali mercati garantiranno <strong>sicurezza</strong> per il crescente mercato<br />

del Gnl e quindi faranno crescere la fiducia nei paesi importatori.<br />

Di conseguenza, i governi devono resistere alla tentazione<br />

di esercitare pressioni politiche e impegnarsi nel micromanagement<br />

dei mercati. L’interventismo e i controlli, per quanto<br />

ben intenzionati, possono generare conseguenze opposte, rallentando<br />

o addirittura impedendo il movimento dell’offerta<br />

per rispondere ai problemi” 5. Se i mercati sono una delle variabili<br />

chiave nella ricerca di <strong>sicurezza</strong>, allora le imprese devono<br />

essere lasciate libere di agire e non devono essere ostacolate nel<br />

tentativo di creare valore per gli azionisti, perché l’interesse di<br />

questi ultimi, in un mercato energetico libero, integrato e globale,<br />

coincide con l’interesse generale. Ecco allora che “il clima<br />

degli investimenti deve diventare una preoccupazione cruciale<br />

nella <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>”. Per l’Agenzia internazionale dell’energia,<br />

nei prossimi 25 anni il sistema energetico richiederà investimenti<br />

per 17 mila miliardi di dollari: “questi flussi di capitali<br />

non si materializzeranno senza una cornice stabile e ragionevole<br />

per gli investimenti, un processo decisionale puntuale<br />

da parte dei governi, e l’esistenza di mercati aperti” 6. Quella degli<br />

investimenti è una sfida non solo dal punto di vista dell’integrazione<br />

dei mercati, ma anche alle scelte legislative e regolatorie<br />

dei paesi europei, che spesso hanno adottato politiche il<br />

cui risultato inintenzionale è stato di aumentare il rischio paese<br />

e, dunque, rallentare gli investimenti, con ciò indebolendo la<br />

<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

5 DANIEL YERGIN, “Ensuring Energy Security”, pp. 79-80.<br />

6 Ivi, p. 81.<br />

148


Del resto, come si è già detto, la <strong>sicurezza</strong> è un costo: che<br />

può divenire maggiormente accettabile – e desiderabile da pagare<br />

– quanto più le istituzioni che governano i mercati energetici<br />

spingono i prezzi verso il basso. L’ex governatore della<br />

Federal Reserve Alan Greenspan ha detto che “l’esperienza<br />

degli ultimi cinquant’anni afferma che le forze del mercato<br />

giocano un ruolo cruciale nella conservazione di risorse energetiche<br />

scarse, dirigendole verso gli usi che vengono maggiormente<br />

valutati... Le questioni energetiche presentano ai decisori<br />

politici e ai cittadini decisioni e trade off difficili, da compiere<br />

al di fuori del processo di mercato. Ma queste preoccupazioni,<br />

si spera, troveranno una risposta che, per quanto possibile,<br />

non distorca o danneggi il ragionevole funzionamento<br />

dei nostri mercati. Dobbiamo ricordare che quegli stessi segnali<br />

di prezzo così critici nel bilanciare domanda e offerta di<br />

energia nel breve termine, nel lungo termine segnalano opportunità<br />

di profitto per l’espansione dell’offerta. Per giunta, stimolano<br />

la ricerca e lo sviluppo che scopriranno nuovi approcci<br />

alla produzione e all’uso di energia” 7. La competizione tra<br />

fonti – e tra fonti vecchie e nuove – è essa stessa un ulteriore<br />

fattore di <strong>sicurezza</strong>: la questione della garanzia degli investimenti,<br />

sollevate da Yergin, si applica anche in questo senso.<br />

Come si può pretendere che le imprese investano in ricerca e<br />

sviluppo se i segnali che provengono dalle decisioni politiche<br />

creano un clima di incertezza e lasciano aperto il dubbio che il<br />

risultato degli sforzi troverà un’accoglienza fredda o addirittura<br />

ostile dall’ambiente regolatorio? E come si può pretendere<br />

che le imprese investano se gli standard che esse sono chiamate<br />

a rispettare sono confusi, cambiano velocemente, e tendono<br />

ad alzare l’asticella a livelli talvolta difficilmente sostenibili?<br />

Infine, come si può chiedere alle imprese di investire se le risorse<br />

che esse riescono a produrre vengono ridotte da meccanismi<br />

burocratici nel nome di obiettivi non sempre chiari o<br />

praticamente raggiungibili?<br />

7 ALAN GREENSPAN, “Remarks Before the National Petrochemical and<br />

Refiners Association Conference”.<br />

149


5.2. La politica del clima<br />

La risposta a questa domanda coincide largamente col ricorso<br />

alla seconda leva, quella della politica ambientale e in particolare<br />

della politica climatica. La preoccupazione per le possibili<br />

conseguenze del cambiamento climatico, che secondo alcuni è<br />

causato in tutto o in parte dall’accumulazione in atmosfera di anidride<br />

carbonica e altri gas a effetto serra emessi dalla combustione<br />

di fonti fossili nei processi umani, ha innescato un ampio dibattito<br />

politico attorno alle contromisure. Spesso, però, tale dibattito<br />

si è affermato in una dimensione parallela, avulsa dal più generale<br />

contesto delle altre scelte politiche. Così, si è talvolta omesso di<br />

considerare i riflessi delle politiche ambientali sulle politiche energetiche,<br />

e di inserirle sul complesso sfondo delle relazioni internazionali.<br />

In tal modo, si rischia però di dar vita a un dibattito incompleto,<br />

basato su informazioni parziali, e dunque potenzialmente<br />

fonte di contraddizioni o fraintendimenti. Per esempio, non sempre<br />

si è colta, nell’alveo della discussione sul global warming, la<br />

portata (economica e no) del ripensamento delle fonti energetiche<br />

che pure viene richiesto. Le proiezioni dell’Agenzia internazionale<br />

dell’energia e degli altri organismi specializzati dicono che le<br />

fonti fossili sono destinate ad alimentare gran parte della crescita<br />

(economica e dei consumi di energia) del mondo in generale, e di<br />

quello in via di sviluppo in particolare. Siamo pronti a sacrificare<br />

tutto o parte di questo sviluppo nel nome della lotta ai mutamenti<br />

climatici? Se davvero si ritiene che questi ultimi possano produrre<br />

le gravi conseguenze, umane e ambientali, che talvolta vengono<br />

loro attribuite, allora la risposta può essere affermativa, ma dovrebbe<br />

essere consapevole delle conseguenze. Se invece si ritiene<br />

che l’effetto serra sia un fenomeno più contenuto, o affrontabile in<br />

maniera più efficace con altri mezzi (come le politiche di adattamento<br />

e l’innovazione tecnologica), allora è consigliabile adottare<br />

un approccio diverso. In ogni caso, la questione del clima non può<br />

essere risolta – anzi: non dovrebbe essere affrontata – prescindendo<br />

dai suoi risvolti energetici e di politica internazionale 8.<br />

8 Si veda MARIO SECHI eCARLO STAGNARO, “Clima. Vogliamo far gli amerikani”.<br />

150


Gli scenari suggeriscono che i consumi energetici, e quindi<br />

le emissioni di gas a effetto serra, nei prossimi decenni si sposteranno<br />

dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo. Questo<br />

significa che la riduzione operata dai paesi industrializzati<br />

sotto gli auspici del protocollo di Kyoto verrà più che controbilanciata<br />

da una crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo.<br />

È vero che molti di essi hanno ratificato il protocollo (sono<br />

oltre centocinquanta le nazioni ad averlo fatto), ma non hanno<br />

alcun obbligo e, anzi, da esso possono ricavare aiuti allo sviluppo<br />

sotto forma di acquisto di quote di emissione o partnership<br />

tecnologiche. Dal loro punto di vista, dunque, Kyoto è una strategia<br />

win-win, a prescindere dal suo ridotto o inesistente impatto<br />

sul clima globale. Inoltre, un approccio “regionale” – quale è<br />

di fatto Kyoto – è nuovamente condannato dal nostro futuro<br />

energetico: se nel 1990 le economie mature producevano quasi<br />

la metà delle emissioni globali, quelle in transizione il 23 per cento<br />

e quelle emergenti il 28 per cento, nel 2002 queste ultime salivano<br />

al 38 per cento e, secondo le proiezioni, nel 2025 raggiungeranno<br />

il 50 per cento, contro il 39 per cento dei paesi sviluppati<br />

9. Quindi, focalizzarsi su di essi in prospettiva rischia di produrre<br />

risultati deludenti. Corrado Clini riassume così i termini<br />

della questione: “i paesi industrializzati che hanno ratificato il<br />

Protocollo raggiungeranno infatti entro il 2012 una riduzione<br />

delle emissioni globali inferiore al 2,5 per cento. E se gli stessi<br />

Paesi volessero proseguire nell’attuale ‘format’ del Protocollo di<br />

Kyoto dopo il 2012, entro il 2030 le emissioni dei Paesi industrializzati<br />

– Usa esclusi – potrebbero essere ridotte del 16 per<br />

cento rispetto ai livelli del 1990, corrispondenti a meno del 5 per<br />

cento delle emissioni globali; è necessaria una strategia più ampia<br />

a livello globale, oltre il Protocollo di Kyoto, per assicurare<br />

nello stesso tempo una risposta adeguata alla crescita della domanda<br />

di energia e la riduzione delle emissioni globali, avendo<br />

presente che non devono essere compromesse né la crescita delle<br />

economie emergenti che stanno faticosamente uscendo dal<br />

sottosviluppo, né la competitività delle economie sviluppate di<br />

Usa, Europa e Giappone; per affrontare con successo questa dif-<br />

9 http://www.eia.doe.gov/oiaf/ieo/emissions.html.<br />

151


ficile sfida è necessario immaginare e realizzare una strategia innovativa<br />

a livello globale” 10. E questo è il secondo limite di Kyoto.<br />

Se è vero che il riscaldamento globale – a prescindere dal reale<br />

impatto delle emissioni antropogeniche sulle dinamiche climatiche<br />

11 – rappresenta una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità<br />

e gli equilibri ecologici attuali, i suoi effetti si manifesteranno<br />

non dal giorno alla notte, ma nell’arco di un orizzonte<br />

temporale molto ampio: almeno un secolo. Le contromisure,<br />

per essere efficaci, devono tener conto di questo fatto e debbono<br />

esse stesse proiettarsi avanti nei decenni. Di conseguenza, il<br />

baricentro delle policies deve spostarsi su coloro che saranno i<br />

maggiori responsabili delle emissioni “nocive”, non su quanti lo<br />

sono stati quando la sensibilità ecologica, le conoscenza scientifiche,<br />

e gli effetti dell’innalzamento delle temperature non mettevano<br />

in discussione tali attività.<br />

5.2.1. Kyoto e le sue alternative<br />

A livello globale, i combustibili fossili resteranno la fonte di<br />

energia dominante fino al 2030, a meno che non intervengano<br />

netti cambi di consumo e forti avanzamenti tecnologici. È probabile<br />

che essi coprano l’83 per cento dell’aumento totale della<br />

domanda <strong>energetica</strong> tra il 2004 e il 2030. Conseguentemente il<br />

loro contributo alla domanda mondiale si sposterebbe dall’80<br />

all’81 per cento. La quota del petrolio diminuirebbe, sebbene il<br />

suo contributo al mix energetico globale resti, singolarmente,<br />

quello maggiore. La richiesta globale di petrolio raggiungerà i<br />

99 milioni di barili al giorno nel 2015 e i 116 milioni nel 2030 rispetto<br />

agli 84 milioni del 2005. Il carbone supporterà il più grosso<br />

incremento della domanda in termini assoluti – un aumento<br />

indotto dalla produzione di energia elettrica. La Cina e l’India<br />

conteranno per quasi i quattro quinti della domanda incrementale<br />

di carbone, che resterà la seconda più importante fonte di<br />

energia primaria con un lieve aumento della sua porzione nella<br />

10 CORRADO CLINI, “Cari europei, riconsideriamo il protocollo di Kyoto”.<br />

11 Si veda HANS LABOHM, SIMON ROZENDAAL e DICK THOENES, Man-<br />

Made Global Warming: Unravelling a Dogma.<br />

152


domanda globale di energia. Anche la quota del gas naturale aumenterà,<br />

assieme a quella dell’energia idroelettrica che salirà lievemente,<br />

mentre il contributo dell’energia nucleare scenderà.<br />

La porzione delle biomasse diminuirà marginalmente perché i<br />

paesi in via di sviluppo effettueranno un graduale spostamento<br />

verso fonti più moderne di energia, compensando l’incremento<br />

delle biomasse per la produzione di biocarburanti e per quella<br />

di elettricità e di calore. Forme di energia rinnovabile non idro,<br />

come l’eolico, il solare e il geotermico avranno la crescita più veloce,<br />

ma partendo da una base molto piccola.<br />

La crescente domanda di petrolio e di gas, se non tenuta<br />

sotto controllo, accentuerebbe la vulnerabilità dei paesi consumatori<br />

a gravi interruzioni della fornitura e a conseguenti forti e<br />

improvvisi cambi di prezzi. I paesi Ocse e i paesi asiatici in via<br />

di sviluppo sono diventati sempre più dipendenti dalle importazioni<br />

perché la loro produzione interna non riesce a tenere il<br />

passo con la domanda. La produzione non Opec di greggio convenzionale<br />

e di gas naturale liquefatto è destinata a raggiungere<br />

il suo vertice entro un decennio. Nello scenario base allestito<br />

dalla Iea, entro il 2030 l’Ocse nel suo insieme importerà due terzi<br />

del fabbisogno petrolifero, rispetto al 56 per cento attuale.<br />

Una gran parte dell’aumento delle importazioni sarà soddisfatto<br />

dal Medio Oriente e viaggerà su vulnerabili rotte marittime.<br />

La concentrazione della produzione di petrolio in un ridotto numero<br />

di paesi dotati di vaste riserve – i membri mediorientali<br />

dell’Opec e la Russia – aumenterà il dominio sul mercato e la loro<br />

capacità di imporre prezzi più alti. Ci si aspetta anche che una<br />

fetta sempre più grossa della domanda di gas sia soddisfatta da<br />

importazioni via gasdotto o tramite gas naturale liquefatto provenienti<br />

da fornitori sempre più distanti. Nel consumo globale<br />

di petrolio si proietta l’aumento della quota di energia richiesta<br />

dal settore dei trasporti – che è relativamente non elastica dal<br />

punto di vista del prezzo quando comparata ad altri servizi. Si<br />

stima che i sussidi attuali ai prodotti petroliferi nei paesi non<br />

Ocse siano pari a oltre 90 miliardi di dollari. I sussidi relativi a<br />

tutte le forme finali di energia nei paesi non Ocse ammontano a<br />

oltre 250 miliardi di dollari all’anno, pari a tutti gli investimenti<br />

necessari nel settore elettrico, ogni anno, in quei paesi.<br />

153


I prezzi del petrolio sono ancora importanti per la salute<br />

economica dell’economia globale. Sebbene la maggior parte delle<br />

economie dei paesi importatori abbiano continuato a crescere<br />

fortemente dal 2002, esse sarebbero cresciute ancora più rapidamente<br />

se il prezzo del petrolio e di altre forme di energia non fosse<br />

aumentato. La maggior parte dei paesi Ocse ha subito un peggioramento<br />

della bilancia dei pagamenti correnti, il caso più ovvio<br />

essendo quello degli Stati Uniti. Il rientro in circolo dei petrodollari<br />

può avere aiutato a mitigare l’incremento dei tassi di<br />

interesse a lungo termine ritardando l’impatto negativo dei maggiori<br />

prezzi energetici sui redditi reali e la produzione, ma uno<br />

shock petrolifero causato da un’improvvisa e grave interruzione<br />

della fornitura sarebbe particolarmente dannoso, specialmente<br />

per i paesi poveri che sono affetti da grandi debiti.<br />

Secondo il rapporto Iea, soddisfare le crescente fame di<br />

energia del mondo richiede grandi investimenti nelle infrastrutture<br />

energetiche. Secondo lo scenario base saranno necessari investimenti<br />

cumulativi leggermente superiori a 20 mila miliardi<br />

di dollari (in dollari del 2005) tra il 2005 e il 2030. Il settore elettrico<br />

conta per il 56 per cento dell’investimento totale – circa<br />

due terzi se includiamo nella filiera della fornitura l’investimento<br />

per sopperire ai bisogni di combustibili delle centrali elettriche.<br />

L’investimento totale sul petrolio – tre quarti del quale è a<br />

monte della filiera – ammonta a oltre 4 mila miliardi di dollari<br />

tra il 2005 e il 2030. Gli investimenti a monte della filiera sono<br />

più sensibili ai tassi di calo di produzione dei pozzi di quanto lo<br />

siano ai tassi di crescita della domanda di petrolio. Più della<br />

metà di tutti gli investimenti energetici sarà nei paesi in via di<br />

sviluppo, dove domanda e produzione aumentano più rapidamente.<br />

La sola Cina dovrà investire 3.700 miliardi, cioè il 18 per<br />

cento del totale mondiale. Non c’è garanzia che tutti gli investimenti<br />

necessari siano disponibili. Scelte politiche interne, fattori<br />

geopolitici, cambi inaspettati dei costi e prezzi, l’introduzione<br />

di nuove tecnologie, potrebbero avere effetti sulle opportunità<br />

e sugli incentivi alle compagnie pubbliche o private di investire<br />

nei diversi stadi della filiera dell’energia. Le decisioni concernenti<br />

gli investimenti dei maggiori paesi produttori di petrolio e<br />

gas sono di importanza cruciale perché avranno un’influenza<br />

154


sempre maggiore sui volumi e i costi di importazione dei paesi<br />

consumatori. Ci sono dubbi, per esempio, sul fatto che gli investimenti<br />

nell’industria del gas russa siano sufficienti a mantenere<br />

gli attuali livelli di esportazione verso l’Europa e cominciare<br />

a esportare verso l’Asia. La capacità e la volontà dei maggiori<br />

produttori di petrolio e di gas di incrementare gli investimenti<br />

allo scopo di soddisfare la domanda globale sono particolarmente<br />

incerte. La spesa capitale da parte delle più grandi imprese<br />

petrolifere è incrementata nettamente in termini nominali durante<br />

la prima metà di questo decennio e, secondo i piani di queste<br />

imprese, continuerà ad aumentare fino al 2010. Ma l’impatto<br />

sulla futura capacità di spesa è affievolito dall’incremento dei<br />

costi. In termini reali, nel 2005 gli investimenti sono stati appena<br />

del 5 per cento più alti che nel 2000. Ci si aspetta che gli investimenti<br />

previsti da qui al 2010 nell’upstream aumenteranno<br />

lievemente l’eccesso di capacità produttiva. Dopo la fine di questo<br />

decennio saranno necessari investimenti ancora maggiori, in<br />

termini reali, per mantenere la crescita della capacità a monte e<br />

a valle della filiera.<br />

Intanto, le emissioni di anidride carbonica (CO 2) relative<br />

alla produzione di energia incrementeranno del 55 per cento tra<br />

il 2004 e il 2030, vale a dire dell’1,7 per cento all’anno (nello scenario<br />

base della Iea). La generazione di elettricità contribuirà alla<br />

metà di tale aumento. Già nel 2003 il carbone ha superato il<br />

petrolio come principale responsabile delle emissioni dovute alla<br />

generazione elettrica, e questa posizione si consoliderà fino al<br />

2030. I paesi in via di sviluppo conteranno per oltre tre quarti<br />

dell’incremento globale delle emissioni di CO 2 tra il 2004 e il<br />

2030 e oltrepasseranno l’Ocse poco dopo il 2010. La loro quota<br />

di emissioni globali aumenterà dal 39 per cento del 2004 ad<br />

oltre la metà entro il 2030. Tale aumento sarà più veloce della<br />

crescita della domanda <strong>energetica</strong> perché la richiesta incrementale<br />

di energia dipenderà maggiormente dal carbone di quanto<br />

non accada nei paesi Ocse e nelle economie in transizione. In generale,<br />

i paesi in via di sviluppo usano proporzionalmente più<br />

carbone e meno gas. La sola Cina sarà responsabile di circa il 30<br />

per cento dell’aumento delle emissioni globali. Le sue emissioni<br />

più che raddoppieranno tra il 2004 e il 2030, spinte da una<br />

155


forte crescita dell’economia basata pesantemente sull’uso del<br />

carbone sia per l’industria che per la produzione di elettricità.<br />

La Cina supererà gli Stati Uniti come principale emettitore<br />

mondiale prima del 2010. Anche altri paesi asiatici, l’India in<br />

particolare, contribuiranno fortemente all’incremento delle<br />

emissioni globali.<br />

Sebbene lo scenario base della Iea preveda una costante<br />

espansione dell’uso domestico di moderni servizi energetici nei<br />

paesi in via di sviluppo, molta gente nel 2030 continuerà a impiegare<br />

biomasse. Oggi due miliardi e mezzo di persone usano<br />

legna, carbone, rifiuti agricoli e sterco animale per soddisfare i<br />

quotidiani fabbisogni energetici, come quello di cucinare cibi e<br />

riscaldare case. In diversi paesi queste risorse contano per il 90<br />

per cento del totale fabbisogno domestico. L’inefficiente e insostenibile<br />

uso di biomasse ha gravi conseguenze per la salute, per<br />

l’ambiente e per lo sviluppo economico. È impressionante che<br />

circa 1.300.000 persone – prevalentemente donne e bambini –<br />

muoiano prematuramente ogni anno a causa dell’esposizione all’inquinamento<br />

indoor dovuto proprio alla combustione di tali<br />

sostanze. C’è evidenza che, in paesi dove i prezzi locali si sono<br />

adeguati agli alti prezzi internazionali dell’energia, lo spostamento<br />

verso modi più puliti ed efficienti di cucinare i cibi abbia<br />

rallentato se non addirittura si sia invertito. Secondo lo scenario<br />

base della Iea il numero delle persone che usano biomasse aumenterà<br />

a 2,6 miliardi nel 2015 e a 2,7 miliardi nel 2030, considerando<br />

l’aumento della popolazione. Ciò significa che un terzo<br />

della popolazione mondiale farà ancora uso di questi combustibili<br />

– una percentuale di poco inferiore a quella di oggi. Proprio<br />

in questo momento ci sono ancora 1,6 miliardi di persone<br />

nel mondo che sono senza elettricità. C’è un disperato bisogno<br />

di azioni per incoraggiare un uso più efficiente e sostenibile della<br />

biomassa e per aiutare la gente ad adottare combustibili e tecnologie<br />

moderne in cucina. L’approccio politico appropriato dipende<br />

da circostanze locali come il reddito pro-capite e la disponibilità<br />

di una fornitura sostenibile di biomasse. Tecnologie e<br />

combustibili alternativi sono già disponibili a costi ragionevoli.<br />

Dimezzare il numero di case che usano biomasse in cucina entro<br />

il 2015 – una delle raccomandazione del progetto per il mil-<br />

156


lennio delle Nazioni Unite – richiederebbe a 1,3 miliardi di persone<br />

di adottare gas, petrolio o altri combustibili commerciali.<br />

Ciò non avrebbe un impatto apprezzabile sulla domanda mondiale<br />

di petrolio e le dotazioni tecnologiche costerebbero, al più,<br />

un miliardo e mezzo di dollari l’anno. Ma azioni vigorose e coordinate<br />

dei governi – con il supporto dei paesi industrializzati –<br />

sono necessarie per ottenere lo scopo e richiedono finanziamenti<br />

pubblici e privati. Tali politiche dovrebbero essere mirate all’abbattimento<br />

delle barriere all’accesso, all’offerta e all’affluenza<br />

e dovrebbero anche costituire il cuore di una strategia di sviluppo<br />

più ampia.<br />

Nei paesi sviluppati, compresa l’Ue, la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

dipenderà da fattori come l’efficienza nell’uso dell’energia, gli<br />

sviluppi tecnologici sia per i combustibili fossili (cattura e stoccaggio<br />

del carbonio, per esempio) che per le fonti rinnovabili<br />

(energia eolica e solare in particolare) e, possibilmente, un maggior<br />

uso dell’energia nucleare per la produzione di elettricità.<br />

Però, allo scopo di ridurre il potenziale pericolo di cambio climatico<br />

globale, sarà soprattutto necessario incrementare l’efficienza<br />

<strong>energetica</strong> e ridurre la crescita delle emissioni di gas a effetto<br />

serra nei paesi in via di sviluppo, visto che è lì che si concentrerà<br />

la crescita delle emissioni.<br />

Uno studio di David Montgomery e Sugandha Tuladhar dimostra<br />

che accordi come la Asia & Pacific Partnership on Clean<br />

Development and Climate, firmato nel 2005 da India, Cina, Corea<br />

del Sud, Giappone, Australia e Stati Uniti presentino un approccio<br />

alla politica del cambio climatico che potrebbe riconciliare<br />

gli obiettivi della crescita economica e quelli dei miglioramenti<br />

ambientali per i paesi in via di sviluppo 12. Messi assieme,<br />

i firmatari costituiscono il 45 per cento della popolazione planetaria<br />

e generano il 50 per cento delle emissioni antropogeniche<br />

di anidride carbonica. La proiezione di una forte crescita di gas<br />

a effetto serra nei paesi in via di sviluppo durante i prossimi 20<br />

anni significa che c’è un enorme potenziale per la riduzione del-<br />

12 W. DAVID MONTGOMERY e SUGANDHA D. TULADHAR, “The Asia Pacific<br />

Partnership: Its Role in Promoting a Positive Climate for Investment,<br />

Economic Growth and Greenhouse Gas Reductions”.<br />

157


le emissioni tramite meccanismi di trasferimento tecnologico<br />

basati sul mercato.<br />

Montgomery e Tuladhar notano che esistono diversi fattori<br />

critici per assicurare il successo di un accordo internazionale<br />

fortemente basato su investimenti del settore privato. La loro ricerca<br />

dimostra che per la promozione di un clima favorevole agli<br />

investimenti la riforma delle istituzioni diventa un punto critico,<br />

in quanto la sua assenza è uno dei più grossi ostacoli alla riduzione<br />

delle emissioni di gas a effetto serra in Cina, India ed<br />

altre economie asiatiche. Sia Cina che India hanno iniziato a<br />

creare un sistema economico basato sul mercato, con chiari benefici<br />

sotto forma di una più rapida crescita economica. Ma il<br />

processo di riforma è stato lento ed esitante, e non ha rimosso<br />

solide barriere al cambio tecnologico, alla crescita della produttività<br />

e al miglioramento delle emissioni. La Banca Mondiale e<br />

altre istituzioni hanno condotto vaste indagini sul ruolo delle<br />

specifiche istituzioni nella creazione di un clima positivo per gli<br />

investimenti. I risultati indicano che tra i vari provvedimenti necessari<br />

devono essere incluse la minimizzazione della corruzione<br />

e del peso della regolamentazione, l’instaurazione di un’efficace<br />

rule of law, il riconoscimento dei diritti di proprietà intellettuale<br />

e la riduzione del ruolo dei governi nell’economia. Ciò<br />

porterebbe alla rimozione delle distorsioni dei prezzi dell’energia,<br />

consentendo la creazione di infrastrutture adeguate e di una<br />

forza lavoro istruita e motivata.<br />

Uno dei meccanismi chiave tramite i quali i paesi in via di<br />

sviluppo possono avere accesso alle risorse tecnologiche e ai capitali<br />

da investire allo scopo di sostenere la crescita della produttività<br />

è l’investimento diretto da parte di compagnie dei paesi industrializzati.<br />

Gli investimenti stranieri diretti possono procurare<br />

al paese ricevente diversi benefici: investimenti per l’espansione<br />

della produzione, opportunità per migliorare le tecnologie ed<br />

incrementare la produttività, esposizione a innovazioni manageriali,<br />

accesso a potenziali mercati di esportazione attraverso i canali<br />

delle reti di investimento straniere, oltre a vari benefici collaterali<br />

che incrementano la competitività dei mercati. Siccome<br />

la tecnologia produttiva è ampiamente incorporata nell’investimento<br />

capitale (che potrebbe andare dai computer ai processi<br />

158


chimici a strumentazione tecnologicamente sofisticata), il processo<br />

di trasferimento tecnologico richiede che le compagnie<br />

estere costruiscano impianti e macchinari con l’uso di tecnologia<br />

che non appartiene al paese in via di sviluppo. L’investitore estero<br />

trae profitto anche dall’aumento del suo potenziale bacino di<br />

capitale umano e di risorse naturali. Questi benefici sono gli ingredienti<br />

che danno impeto alla crescita economica.<br />

Gli stessi fattori istituzionali che sono i prerequisiti per lo<br />

sviluppo economico sostenibile – leggi che proteggono proprietà<br />

e contratti, giusta ed efficiente amministrazione della giustizia,<br />

riduzione del ruolo del governo nell’economia, minimizzazione<br />

degli oneri regolatori e della corruzione, nonché apertura<br />

agli investimenti stranieri – sono fortemente associati all’efficienza<br />

<strong>energetica</strong> e a basse emissioni di gas a effetto serra per<br />

unità di output. Due dei firmatari dell’Asia & Pacific Partnership<br />

– la Cina e l’India – si caratterizzano per un consumo energetico<br />

e una quantità di emissioni per dollaro di output di gran<br />

lunga superiori a tutti gli altri firmatari, e sono indietro con la<br />

tecnologia. Hanno anche una posizione relativamente bassa nella<br />

classifica dell’indice di libertà economica 13, che misura quanto<br />

le istituzioni di un paese sostengano un’economia di mercato<br />

aperta e libera (Figura 19). Una grande parte della differenza<br />

nell’intensità <strong>energetica</strong> tra Cina, India e gli altri firmatari è attribuibile<br />

ad una struttura istituzionale che crea distorsioni di<br />

prezzi e a un clima sfavorevole agli investimenti.<br />

L’analisi di Montgomery e Tuladhar dimostra che almeno il<br />

40 per cento della differenza nell’intensità <strong>energetica</strong> è spiegabile<br />

dalla posizione di un paese nella scala della libertà economica.<br />

Quindi un paese che si stia sviluppando finisce per usare sempre<br />

meno energia per produrre un dollaro di output, se ha un’economia<br />

di mercato e un clima favorevole agli investimenti.<br />

13 In questa analisi si fa riferimento all’indice della libertà economica elaborato<br />

da Fraser Institute e Cato Institute, coerentemente col paper di Montgomery<br />

e Tuladhar (si veda nota precedente). In altre parti di questo paper, invece,<br />

si impiega l’indice di Heritage Foundation e Wall Street Journal. Sebbene<br />

i valori possano talvolta differire, dal punto di vista qualitativo il risultato è<br />

il medesimo.<br />

159


Figura 19. Intensità <strong>energetica</strong> e libertà economica (1980-2003). Fonte: Montgomery<br />

e Tuladhar 2006.<br />

Anche la tecnologia è critica in quanto le emissioni per dollaro<br />

di reddito sono di gran lunga superiori nei paesi in via di<br />

sviluppo rispetto agli Stati Uniti o ad altri paesi industrializzati.<br />

Ciò rappresenta sia una sfida che un’opportunità. È una sfida<br />

perché l’alta intensità carbonica – e il suo relativamente basso (o<br />

inesistente) miglioramento – è la ragione dell’elevato tasso di<br />

crescita delle emissioni dei paesi in via di sviluppo.<br />

L’opportunità consiste nel fatto che le tecnologie energetiche<br />

dei paesi in via di sviluppo determinano emissioni per dollaro<br />

di output assai maggiori a quelle prodotte dalle tecnologie<br />

in uso negli Stati Uniti; in paesi come la Cina e l’India ciò vale<br />

sia per i nuovi investimenti che per la base installata (Figura<br />

20). La tecnologia della base installata in Cina produce emissioni<br />

ad un tasso quattro volte più alto che quella degli Stati<br />

Uniti. L’intensità di emissioni cinese sta migliorando rapidamente,<br />

ma ciò nonostante anche per i nuovi investimenti è doppia<br />

rispetto agli Stati Uniti. L’india non ha avuto quasi nessun<br />

miglioramento della sua intensità di emissioni, con una base installata<br />

e nuovi investimenti che hanno un’intensità di emissioni<br />

molto simile. I nuovi investimenti indiani hanno una tecno-<br />

160


Figura 20. Emissioni di gas a effetto serra associate agli investimenti nuovi e<br />

quelli esistenti nel 2001 (milioni di tonnellate di carbonio per miliardo di dollari<br />

di Pil al tasso di cambio di mercato). Fonte: Montgomery e Tuladhar 2006.<br />

logia con il doppio dell’intensità di emissioni dei nuovi investimenti<br />

negli Usa.<br />

La riduzione delle emissioni può essere ottenuta accorciando<br />

il gap tecnologico. Il potenziale dell’allineamento dell’intensità<br />

delle emissioni dei nuovi investimenti nei paesi in via di sviluppo<br />

a quella americana è comparabile o superiore a ciò che<br />

potrebbe essere ottenuto col protocollo di Kyoto (Tabella 4).<br />

Ciò offre opportunità nel breve termine grazie al cambio della<br />

natura degli investimenti attuali e all’accelerazione del ricambio<br />

dello stock capitale esistente. Inoltre, se ottenuta attraverso il<br />

trasferimento di tecnologie economicamente efficienti, è probabile<br />

che la riduzione di emissioni sia accompagnata da benefici<br />

economici generali per i paesi coinvolti.<br />

Nel primo esempio della Tabella 4 lo studio Cra ipotizza<br />

che i nuovi investimenti in Cina e in India si spostino immediatamente<br />

al livello di tecnologia impiegato negli Stati Uniti e calcola<br />

la risultante riduzione delle emissioni cumulative di carbonio<br />

fino al 2012 e al 2017. Questo è ciò che accadrebbe col trasferimento<br />

tecnologico. Nel secondo caso l’analisi del Cra ipotizza<br />

che le politiche per stimolare investimenti esteri diretti ac-<br />

161


Tabella 4. Riduzione cumulativa delle emissioni di gas serra ottenibili tramite<br />

il trasferimento di tecnologia e aumento degli investimenti. Fonte: Montgomery<br />

e Tuladhar 2006.<br />

celerino la sostituzione delle tecnologie oggi in funzione, causando<br />

risparmi ancora più significativi. Nel terzo caso l’ipotesi<br />

è che la nuova tecnologia continui a migliorare col tempo, come<br />

succederà se saranno implementate politiche per stimolare ricerca<br />

e sviluppo nel campo di tecnologie con minore intensità<br />

di emissioni. Anche la meno aggressiva di queste politiche ha il<br />

potenziale per la riduzione delle emissioni comparabile a quello<br />

che sarebbe possibile se tutti i paesi (inclusi gli Usa) arrivassero<br />

esattamente alla riduzione di emissioni stabilita dagli obiettivi<br />

del protocollo di Kyoto.<br />

Sebbene sia chiaro che c’è una relazione tra le istituzioni esistenti,<br />

la crescita economica e i gas a effetto serra, non esiste una<br />

formula generale che possa essere usata per identificare gli specifici<br />

fallimenti istituzionali che sono responsabili delle alte emissioni<br />

per unità di output in uno specifico paese. Le risposte a quattro<br />

domande chiave potrebbero fornire una base da cui la Partnership<br />

potrebbe dedurre l’agenda delle riforme istituzionali:<br />

• Come si possono identificare opportunità economicamente<br />

efficaci per migliorare l’efficienza <strong>energetica</strong> e per ridurre<br />

le emissioni di carbonio?<br />

162<br />

2012<br />

(Milioni di<br />

tonnellate<br />

di carbonio<br />

equivalente)<br />

2017<br />

(Milioni di<br />

tonnellate<br />

di carbonio<br />

equivalente)<br />

Adozione della tecnologia americana per i<br />

nuovi investimenti in India e Cina<br />

2600 5200<br />

Adozione della tecnologia americana con un<br />

tasso di ricambio accelerato in India e Cina<br />

4200 7700<br />

Adozione di una tecnologia in continuo miglioramento<br />

in Cina e India<br />

5000 9800<br />

Ue secondo il protocollo di Kyoto (senza<br />

hot air)<br />

600 1400<br />

Tutti i paesi Annex B (inclusi Usa e hot air) 2800 7300


• Che tipi di riforma istituzionale sono più urgenti in ogni<br />

paese?<br />

• Come si può determinare un cambiamento istituzionale?<br />

• Quanto grandi possono essere le potenziali riduzioni delle<br />

emissioni, e quanto possono essere migliorate le prospettive<br />

per la crescita economica con l’adozione delle corrette<br />

riforme istituzionali?<br />

È particolarmente difficile individuare strategie tali da consentire<br />

ad Australia, Giappone e Stati Uniti di rendere più probabili<br />

le necessarie riforme in paesi come Cina e India, perché<br />

tali riforme sono chiaramente prerogative di paesi sovrani. Però<br />

la Cina e l’India hanno un chiaro interesse a incoraggiare gli investimenti,<br />

a ottenere accesso al sistema finanziario mondiale e<br />

ad acquisire nuova tecnologia che possa sostenere miglioramento<br />

e crescita della produttività. Se è probabile che si verifichino<br />

delle riforme incrementali dove ne viene percepito il bisogno in<br />

misura più chiara, una importante missione della Asia & Pacific<br />

Partnership è proprio quello di rendere evidenti i benefici dei<br />

cambiamenti istituzionali nel settore energetico. Un ruolo analogo<br />

può giocare la Carta dell’Energia, come si vedrà in seguito.<br />

Inoltre, gli esperti, il settore privato e i governi devono tutti<br />

giocare ruoli chiave nella Partnership, se si vuole che essa abbia<br />

successo nell’indurre riforme istituzionali. Però è probabile<br />

che il settore privato sia il fattore cruciale. Le compagnie private<br />

saranno capaci di identificare le più importanti opportunità<br />

di trasferimento tecnologico e le riforme istituzionali necessarie<br />

per renderlo possibile. Il settore privato sarà anche, naturalmente,<br />

la fonte degli investimenti e delle tecnologie desiderate da Cina<br />

e India. È probabile che l’aspettativa di un più sostenuto flusso<br />

di investimenti e tecnologia sia il fattore singolarmente più<br />

importante nel rendere le riforme delle istituzioni maggiormente<br />

attraenti in questi paesi. Le imprese che sono o sono state attive<br />

in Cina e in India hanno l’esperienza più diretta su quali<br />

pratiche istituzionali, legali o di altra natura scoraggino investimenti<br />

e trasferimenti di tecnologia. L’identificazione dei problemi<br />

e delle proposte su ciò che costituirebbe un migliore clima<br />

per investimenti deve originare proprio da esse. Ciò sembra ovvio;<br />

ma quando un’iniziativa intergovernativa si sviluppa e di-<br />

163


spone di personale c’è una tendenza naturale all’autoreferenzialità<br />

all’interno del settore pubblico. La Partnership offre un’opportunità<br />

di scavalcare il consueto campo minato di comitati e<br />

di studi e di coinvolgere la comunità finanziaria internazionale<br />

direttamente nella diagnosi dei bisogni di riforme istituzionali.<br />

Potrebbe essere che il mondo del business debba proporsi per<br />

questo ruolo piuttosto che aspettare che ciò gli venga richiesto<br />

– se vogliamo ricordarci la storia di avventure passate e trarne<br />

degli insegnamenti per il futuro.<br />

Se le riforme istituzionali sono desiderabili, quantomeno gli<br />

attori chiave e gli stakeholders – come le imprese, altri gruppi<br />

che abbiano un’influenza sull’opinione pubblica e le politiche<br />

cinesi e indiane (comprese le amministrazioni locali e regionali)<br />

e i governi – devono trovare un accordo sulla natura e sulla portata<br />

dei problemi e sulle riforme necessarie per risolverli. Ci sono<br />

quattro stadi essenziali per procedere: (1) Definire il clima di<br />

investimenti e di opportunità per ridurre le emissioni di gas serra<br />

attraverso riforme istituzionali che inducano la crescita; (2)<br />

Sviluppare proposte specifiche di riforme istituzionali, assieme<br />

a stime dei loro possibili effetti in termini di riduzione delle<br />

emissioni; (3) Comprendere quali ostacoli impediscono i cambiamenti,<br />

specialmente per quel che riguarda l’ostilità alle riforme;<br />

e infine (4) Identificare le azioni concrete che ogni governo<br />

potrà intraprendere per riformare le istituzioni.<br />

Il progresso di tali quattro stadi può essere accelerato se i<br />

governi australiano, giapponese e americano prenderanno sul<br />

serio l’esigenza di approfondire le ricerche su questioni come<br />

quale sia il clima più favorevole agli investimenti, il livello tecnologico<br />

nei nuovi investimenti, il ruolo degli investimenti stranieri<br />

diretti e i potenziali risparmi energetici ottenibili attraverso<br />

il trasferimento tecnologico, nonché la natura e gli impatti<br />

delle distorsioni dei prezzi su offerta e domanda di energia e sulle<br />

emissioni di gas serra in India e Cina.<br />

Per avere successo i negoziati dovranno partire dalla disponibilità<br />

delle varie parti a mettere sul piatto una serie di cambiamenti<br />

istituzionali tali da produrre effetti misurabili e significativi<br />

sulle emissioni. Tali concessioni dovrebbero entrare in un<br />

accordo quadro relativo alle azioni richieste a tutte le parti, e a<br />

164


una forma di coordinamento per valutare i progressi e stabilire<br />

eventuali passi successivi. Questo sarebbe anche il luogo in cui<br />

sarebbe massimamente utile la commissione della Partnership<br />

su energia fossile pulita, energie rinnovabili, generazione e trasmissione<br />

di elettricità, acciaio, alluminio, cemento, estrazione<br />

di carbone e individuazione delle tecnologie e gli investimenti<br />

con le migliori potenzialità. Questi investimenti si trasformerebbero<br />

in un modo per premiare Cina e India per i progressi fatti<br />

nelle riforme istituzionali. La natura volontaria delle azione del<br />

settore privato nella Partnership sottolinea il bisogno, sul fronte<br />

delle riforme istituzionali, di traguardare questi investimenti<br />

potenziali.<br />

Tutto ciò può funzionare se si accetta l’evidenza secondo<br />

cui, per avere successo, le negoziazioni sul clima dovrebbero seguire<br />

un modello di “pledge and review”, piuttosto che quello di<br />

“targets and timetables” adottato nel processo di Kyoto. In questa<br />

maniera si potrebbe affrontare in modo più efficace l’incapacità<br />

di implementare obiettivi futuri entro un accordo tra nazioni<br />

sovrane, e si creerebbero incentivi a mantenere gli impegni<br />

presi grazie alla previsione di conseguenze credibili in caso<br />

di fallimento. Le successive azioni da parte di Australia, Giappone<br />

e Stati Uniti, gradite alla Cina e all’India, dovrebbero essere<br />

vincolate al successo nell’implementazione a breve scadenza<br />

delle riforme concordate durante il processo.<br />

I biocarburanti 14<br />

I biocarburanti sono rapidamente diventati uno dei pilastri<br />

della politica ambientale europea. Essi rientrano a pieno<br />

titolo nell’obiettivo, assunto nel documento della Commissione<br />

sulla strategia <strong>energetica</strong> europea a gennaio, di<br />

soddisfare almeno il 20 per cento del fabbisogno energetico<br />

primario dell’Unione con fonti rinnovabili entro il 2020.<br />

14 Questo box si basa su Carlo Stagnaro, “Biocarburanti: energia pulita<br />

o inefficienza agricola?”.<br />

165


Nella comunicazione al Parlamento europeo del 10 gennaio<br />

2007 a proposito dello “stato dell’arte” nel settore dei biocarburanti,<br />

la Commissione propone l’adozione di un obiettivo<br />

vincolante del 10 per cento entro il 2020. Alcuni ritengono<br />

che, dal punto di vista ambientale, i biocarburanti siano<br />

meno benefici di quando ci si possa attendere: restano<br />

aperti i problemi dello smaltimento dei rifiuti (liquami e solidi)<br />

derivanti dalla produzione di biocarburanti, delle emissioni<br />

di sostanze nocive in seguito alla loro combustione,<br />

dell’effettiva quantità di terreno necessaria a produrre una<br />

quantità sufficiente di biocarburanti, e dell’impatto sul mercato<br />

alimentare (in Europa e all’estero). Nonostante il fallimento<br />

degli obiettivi nazionali non vincolanti assunti in seguito<br />

a una direttiva europea del 2003, la produzione europea<br />

di biocarburanti è cresciuta del 65,7 per cento nel 2005.<br />

Ciò è coerente con l’aumento della domanda, l’aspettativa<br />

di attenzioni politiche da parte dell’Unione europea e l’elevato<br />

livello delle quotazioni del petrolio. La direttiva del<br />

2003 ha posto un obiettivo non vincolante del 5,75 per cento<br />

entro il 2010, e un target intermedio del 2 per cento nel<br />

2005. A tale scopo, veniva richiesto agli Stati membri di definire<br />

target nazionali non vincolanti (in realtà, in alcuni casi<br />

si sono adottati obiettivi vincolanti). Da allora, la quota di<br />

mercato dei biocarburanti è cresciuta dallo 0,5 per cento del<br />

2003 allo 0,7 del 2004, fino all’1 per cento nel 2005. In tutto,<br />

l’Unione Europea ha prodotto, nel 2005, 3,9 milioni di<br />

tonnellate di biocarburanti, l’81,5 per cento dei quali biodiesel<br />

15. Anche se sono venti i paesi europei produttori di<br />

biocarburanti, oltre metà del biodiesel proviene dalla Germania,<br />

mentre per quel che riguarda l’etanolo tre soli paesi<br />

(Spagna, Svezia e Germania) producono quasi il 70 per cento<br />

dell’intero contingente europeo; se si aggiunge la Francia,<br />

si supera l’80 per cento. L’Italia ha un’importante produzione<br />

di biodiesel, mentre Polonia ed Estonia hanno una signi-<br />

15 “Biofuels Barometer”, http://www.energies-renouvelables.org/observ-er/stat_baro/observ/baro173b.pdf.<br />

166


ficativa presenza nell’etanolo. La leadership tedesca può essere<br />

spiegata, secondo la Commissione europea, “da una legislazione<br />

molto favorevole che consente una totale esenzione<br />

fiscale per i biocarburanti, sia puri sia miscelati ai combustibili<br />

fossili” 16. Dal punto di vista economico, per la<br />

Commissione, “con un prezzo del petrolio di 48 dollari al<br />

barile... i costi aggiuntivi diretti per raggiungere una quota<br />

di mercato del 14 per cento per i biocarburanti (rispetto ai<br />

costi dei carburanti tradizionali) sono stimati a 11,5-17,2 miliardi<br />

di euro nel 2020, Con un prezzo del petrolio di 70 dollari<br />

al barile, scenderebbero a 5,2-11,4 miliardi di euro” 17.<br />

In realtà, il break even di biodiesel e bioetanolo prodotti in<br />

Europa si colloca su prezzi del petrolio, rispettivamente, di<br />

60 e 90 dollari al barile. Il bioetanolo importato dal Brasile<br />

potrebbe rendere lo sforzo meno oneroso (e garantirebbe<br />

una superiore riduzione delle emissioni, attorno al 90 per<br />

cento). Purtroppo le importazioni di etanolo sono soggette<br />

a un dazio del 45 per cento. Questo dato proietta un’ombra<br />

sulla coerenza delle politiche europee, e sulla capacità dell’Ue<br />

di bilanciare l’efficienza economica con la forza politica<br />

della lobby agricola.<br />

5.2.2. Una prospettiva più ampia<br />

Per vincere la sfida del cambiamento climatico, quindi, è<br />

opportuno prendere in considerazione strumenti alternativi al<br />

protocollo di Kyoto. Quest’ultimo, infatti, ha il problema di non<br />

rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, escludere il mondo in via di<br />

sviluppo, e presentare costi notevoli. In merito all’aspetto dei<br />

costi, l’International Council for Capital Formation ha effettuato<br />

una stima dell’impatto economico di Kyoto sui alcuni grandi<br />

paesi europei, trovando risultanti allarmanti che sembrano confermare<br />

le previsioni più pessimistiche 18. Per quel che riguarda<br />

16 http://ec.europa.eu/energy/res/sectors/bioenergy_eno.htm<br />

17 COMMISSIONE EUROPEA, “Biofuels progress report”, p. 9.<br />

18 http://www.iccfglobal.org/pdf/Country-reports-overview.pdf.<br />

167


l’Italia, per esempio, raggiungere gli obiettivi del protocollo potrebbe<br />

significare, nel periodo 2008-12, una riduzione del Pil di<br />

oltre il 2 per cento, con la conseguente distruzione di più di duecentomila<br />

posti di lavoro e aumenti sensibili dei prezzi di gas,<br />

elettricità e combustibili per autotrazione 19. Ciò potrebbe generare<br />

effetti inintenzionali negativi. Il commissario europeo all’Industria<br />

Günther Verheugen ha riconosciuto che “la nostra<br />

leadership in campo ambientale potrebbe significativamente minare<br />

la competitività internazionale di una parte dei settori industriali<br />

energivori europei e peggiorare la performance ambientale<br />

globale attraverso la delocalizzazione della produzione in<br />

parti del globo con standard ambientali più bassi” 20. Anche<br />

Lord Lawson è convinto che, se si dovesse perseguire con maggior<br />

convinzione la via di Kyoto, “nel momento in cui i prezzi<br />

dell’energia in Europa iniziassero ad aumentare, con la prospettiva<br />

di ulteriori aumenti in seguito, le produzioni e i processi ad<br />

alta intensità d’energia chiuderebbero progressivamente in Europa<br />

e si sposterebbero in paesi come la Cina” 21, col risultato<br />

che le conseguenze ambientali del protocollo potrebbero essere<br />

addirittura negative. Questo non significa che sia sbagliato<br />

preoccuparsi dell’ambiente o che il conflitto tra le ragioni dell’ecologia<br />

e dell’economia sia insanabile: implica solo un’attenta<br />

valutazione degli effetti complessivi delle regolamentazioni<br />

che si intende adottare. Si potrebbe obiettare che nessuna spesa<br />

è troppo grande se sull’altro piatto della bilancia c’è nientemeno<br />

che la salvezza del mondo. Ma se, come abbiamo visto, il<br />

beneficio di Kyoto rischia di essere nullo, la logica si rovescia.<br />

Nessuna spesa è abbastanza piccola se l’altro piatto della bilancia<br />

è vuoto.<br />

Tale calcolo dei costi e dei benefici è particolarmente importante<br />

se si guarda, laicamente, alle prospettive dei paesi in via<br />

19 IBL-ICCF, “Il protocollo di Kyoto e oltre. I costi economici per l’Italia”.<br />

20 ANDREW BOUNDS, “Green laws may harm Europe’s economy”, Financial<br />

Times, 23 novembre 2006.<br />

21 NIGEL LAWSON, “L’economia e la politica del cambiamento climatico.<br />

Un appello alla ragione”, p. 7.<br />

168


di sviluppo. Per molti di essi, la lotta ai cambiamenti climatici<br />

può significare la condanna a restare in una condizione di povertà<br />

<strong>energetica</strong>. È dunque irresolubile il conflitto tra aumento<br />

della domanda di energia – cioè legittima aspirazione dei poveri<br />

del mondo a raggiungere il tenore di vita dei paesi industrializzati<br />

– ed efficace reazione al riscaldamento globale? Parte della<br />

risposta, che fortunatamente è negativa, sta in quello che si è<br />

già detto: poiché saranno proprio i paesi emergenti a produrre<br />

il grosso delle emissioni nei prossimi decenni, politiche di trasferimento<br />

tecnologico e stimoli allo sviluppo possono fare la<br />

differenza. La rimozione delle barriere agli investimenti stranieri,<br />

e quindi le liberalizzazioni e il rifiuto di strumenti protezionistici,<br />

fanno bene al clima tanto quanto alla competitività economica<br />

e alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

C’è anche un’altra ragione per cui sviluppo e integrazione<br />

economica possono costituire un importante passo avanti, anche<br />

dal punto di vista del rapporto tra l’uomo e l’ambiente.<br />

Una premessa è che i problemi collegati al mutamento del clima<br />

– dalla maggiore diffusione della malaria 22 a un aumento<br />

dell’incidenza di fame e sete – generalmente non sono causati,<br />

ma esacerbati dall’aumento delle temperature. Cioè, se la situazione<br />

attuale si prolungasse indefinitamente, i cambiamenti<br />

climatici non creerebbero problemi nuovi, ma aggraverebbero<br />

le conseguenze di problemi esistenti, soprattutto nei paesi<br />

in via di sviluppo. Indur Goklany ha valutato gli effetti, in questa<br />

prospettiva, di diversi scenari di mitigazione del cambiamento<br />

climatico, mostrando che sarebbero piuttosto limitati,<br />

anche se il costo della riduzione delle emissioni di gas a effetto<br />

serra potrebbe essere assai elevato: per esempio, se il protocollo<br />

di Kyoto venisse rispettato la popolazione globale a rischio<br />

di malaria, nel 2085, diminuirebbe di appena lo 0,2 per<br />

cento, mentre le riduzioni della fame e della sete nel mondo sarebbero,<br />

rispettivamente, dell’1,5 per cento e del 2,4 per cen-<br />

22 Il tema della malaria e delle malattie tropicali è particolarmente controverso.<br />

Si veda PAUL REITER, “Could global warming bring mosquito-borne<br />

disease to Europe?”, in KENDRA OKONSKI (a cura di), Adapt or Die. The science,<br />

politics and economics of climate change, pp. 19-38.<br />

169


to 23. Nel valutare le diverse opzioni, bisogna inoltre considerare<br />

che gli impatti del riscaldamento globale non sono non sarebbero<br />

uniformemente distribuiti sulla faccia del pianeta, ma<br />

addirittura in alcuni casi potrebbero essere positivi – aumentando<br />

la fertilità dei raccolti 24, rendendo più miti le temperature<br />

e dunque riducendo la mortalità per freddo 25, eccetera.<br />

Quindi gli sforzi di mitigazione potrebbero paradossalmente<br />

danneggiare alcune popolazioni.<br />

La strategia più efficiente, allora, parrebbe essere una in<br />

grado di catturare i benefici del riscaldamento globale riducendone<br />

i costi; in altri termini, l’obiettivo non dovrebbe essere la<br />

minimizzazione dei costi del global warming (a prescindere dai<br />

benefici che così vengono persi e dai costi delle misure di mitigazione)<br />

ma l’ottimizzazione degli impatti del, e delle reazioni al,<br />

riscaldamento globale stesso. Per Goklany, “vi sono svariate misure<br />

che possono aiutare le diverse società ad affrontare la scarsità<br />

attuale e futura di acqua, a prescindere da quale ne sia la<br />

causa. Tra di esse vanno menzionate quelle riforme istituzionali<br />

miranti a far sì che l’acqua venga considerata alla stregua di un<br />

qualsiasi altro bene economico, in modo da permettere una<br />

maggiore libertà di stabilirne il prezzo e garantire il rispetto dei<br />

diritti di proprietà trasferibili sulle risorse idriche. A ciò dovrebbe<br />

accompagnarsi un aumento delle attività di ricerca e sviluppo<br />

di colture nuove o migliorate e di tecniche agricole in grado<br />

di aumentare l’efficienza dell’uso dell’acqua. Se si considera che<br />

l’agricoltura assorbe l’85 per cento del consumo globale di risorse<br />

idriche, nel complesso tali misure potrebbero rendere disponibili<br />

ingenti quantità d’acqua da destinare al consumo dome-<br />

23 INDUR M. GOKLANY, “Clima: Stabilizzazione o adattamento?”, in particolare<br />

Tabella 1, p. 2.<br />

24 Si vedano per esempio LEANNE M. JABLONSKI, XIANZHONG WANG e<br />

PETER S. CURTIS, “Plant reproduction under elevated CO 2 conditions: a metaanalysis<br />

of reports on 79 crop and wild species”; WOLFRAM SCHLENKER, W.<br />

MICHAEL HANEMANN e ANTHONY C. FISHER, “The Impact of Global Warming<br />

on US Agriculture: An Econometric Analysis of Optimal Growing Conditions”.<br />

25 IPCC, Climate Change 2001: Impacts, Adaptation, and Vulnerability,<br />

§9.4.2.<br />

170


stico e industriale e da lasciare ‘a riposo’, permettendo la conservazione<br />

delle specie acquatiche e di destinare i corsi d’acqua<br />

ad attività ricreative. Si noti che, così come la trasformazione degli<br />

habitat terrestri rappresenta la principale minaccia alla biodiversità<br />

sulla terraferma, l’impiego delle risorse idriche per il<br />

consumo umano costituisce la minaccia primaria per la biodiversità<br />

delle specie d’acqua dolce. Le misure qui tratteggiate<br />

contribuirebbero inoltre ad eliminare quello che in futuro potrebbe<br />

risultare il maggiore ostacolo al soddisfacimento delle<br />

esigenze alimentari dell’umanità, vale a dire proprio la scarsità<br />

delle risorse idriche. Per finire, esiste un solo pericolo per il quale<br />

la riduzione delle emissioni potrebbe esibire un rapporto costo-efficacia<br />

migliore rispetto all’adattamento al mutare delle<br />

condizioni: l’allagamento delle regioni costiere. Per il 2085 un innalzamento<br />

non mitigato delle temperature globali (che innalzerebbe<br />

il livello del mare di 0,4 metri) contribuirebbe all’86 per<br />

cento della popolazione a rischio (Par) complessiva. La stabilizzazione<br />

delle emissioni a 550 ppm entro il 2085 ridurrebbe la<br />

Par complessiva ben dell’80 per cento, ad un costo complessivo<br />

di migliaia di miliardi di dollari. Tuttavia il costo complessivo di<br />

una protezione da un innalzamento del livello delle acqua di 0,5<br />

metri nel 2100 è stato stimato a circa 1 miliardo di dollari all’anno.<br />

Pertanto una riduzione significativa delle emissioni non solo<br />

costerebbe di più, ma di qui al 2085 offrirebbe una minore<br />

protezione rispetto all’adattamento” 26.<br />

La tesi di Goklany è, in breve, che l’adattamento sia preferibile<br />

alla mitigazione – come regola generale. Le ragioni sono<br />

molteplici:<br />

• C’è in primo luogo una questione di flessibilità. La mitigazione<br />

implica dei provvedimenti qui e ora, il cui costo è (per<br />

la maggior parte) immediato e pesa interamente sulla generazione<br />

presente e su quei paesi che sono in grado di fronteggiare<br />

un importante sforzo di razionamento delle emissioni.<br />

A priori, dunque, sulla mitigazione grava la doppia<br />

26 INDUR M. GOKLANY, “Clima: Stabilizzazione o adattamento?”, p. 5.<br />

Dello stesso autore si veda The Improving State of the World: Why We’re Living<br />

Longer, Healthier, More Comfortable Lives on a Cleaner Planet.<br />

171


spada di Damocle dell’incertezza sulle reali cause del riscaldamento<br />

globale (che potrebbe essere largamente o del tutto<br />

causato da ragioni naturali, e quindi al di là del controllo<br />

umano) e sugli effetti delle politiche di mitigazione (che<br />

potrebbero non essere quelle appropriate, o potrebbero generare<br />

un risultato deludente rispetto alla spesa e alle aspettative)<br />

27. Per contro, le misure di adattamento, quasi per definizione,<br />

sono maggiormente ritagliate sugli effetti concreti<br />

del riscaldamento globale, man mano che essi si manifestano;<br />

• C’è poi una questione di trasparenza. La mitigazione richiede<br />

l’instaurazione di complessi procedimenti burocratici e<br />

postula una governance globale che non tutti gli attori sembrano<br />

disposti ad accettare;<br />

• C’è infine una questione di reversibilità. L’adattamento non<br />

ha, ovviamente, questa esigenza (in generale): se il livello<br />

dei mari cresce meno di quanto ci si attendesse, per esempio,<br />

semplicemente non si procederà alla realizzazione di<br />

nuove opere difensive. Nella peggiore delle ipotesi ci si troverà<br />

con delle opere difensive sovradimensionate, che – si<br />

potrebbe affermare – sono di per sé una misura precauzionale.<br />

La mitigazione, viceversa, soprattutto quando prende<br />

la forma di strutture burocratiche complesse come il mercato<br />

delle quote di emissione, implica l’erezione di una<br />

complessa infrastruttura politica che potrebbe essere assai<br />

difficile riformare o rimuovere, anche se si rivelasse inefficace<br />

o inutile 28.<br />

27 Da questo punto di vista, una delle più paradossali caratteristiche del<br />

dibattito in corso è l’attenzione riservata quasi unicamente all’anidride carbonica,<br />

mentre gli altri gas a effetto serra sono spesso trascurati. Tuttavia, secondo<br />

alcuni studiosi potrebbe essere maggiormente efficace una strategia di<br />

controllo degli altri gas, se implementata a livello globale; tale strategia sarebbe<br />

anche forse politicamente più sostenibile perché le quantità dei gas non-CO2 sono inferiori e quindi più facilmente controllabili. Si veda JOHN REILLY, MAR-<br />

CUS SAROFIM, SERGEY PALTSEV e RONALD PRINN, “The Role of Non-CO2 GHGs in Climate Policy: Analysis Using the MIT IGSM”.<br />

28 Per un’analisi del complesso rapporto tra politica, scienza, economia e<br />

gruppi di pressione, si vedano BRUCE YANDLE e STUART BUCK, “Bootleggers,<br />

172


Restano due obiezioni. La prima riguarda i tempi: si potrebbe<br />

osservare che, se è vero che da qui al 2085 l’adattamento è<br />

più efficiente della mitigazione, prima o poi il riscaldamento<br />

globale (se non verrà fermato in tempo) genererà tanti e tali danni<br />

da costringerci a correre ai ripari. Quindi, è molto meglio agire<br />

subito che trovarsi a tamponare le falle lasciate aperte dalla<br />

nostra mancanza di attenzione con provvedimenti d’urgenza. Vi<br />

sono molti modi di rispondere. In primo luogo, per paradossale<br />

che ciò possa apparire, il protocollo di Kyoto e altre politiche<br />

simili hanno proprio le caratteristiche dei provvedimenti di<br />

emergenza, e quindi sarebbe forse opportuno riconsiderarli con<br />

maggiore attenzione e meno fretta. Secondariamente, il periodo<br />

di tempo che ci separa dal 2085 (ma anche dal 2050) è, tecnologicamente<br />

parlando, un’era geologica: noi non sappiamo quali<br />

tecnologie saranno allora disponibile, ma sappiamo con certezza<br />

che saranno incredibilmente più avanzate di quelle esistenti<br />

oggi. Agire subito, dunque, equivale a precludersi la possibilità<br />

di agire più incisivamente nel futuro. Terzo, quello che sarà il<br />

mondo tra 50 anni e più dipende da una quantità di fattori incredibilmente<br />

alta – dai tassi di crescita economica al ritmo a cui<br />

la popolazione mondiale aumenterà (o no) – e quindi può essere<br />

prematuro prendere oggi decisioni sulla base non già di proiezioni,<br />

ma di scenari che, per quanto accurati, sono fortemente<br />

dipendenti dalle ipotesi di partenza (né può essere altrimenti).<br />

Infine, assumendo che si debba perseguire una stabilizzazione<br />

delle concentrazioni atmosferiche di CO 2 entro il 2100, non è<br />

detto – o almeno dovrebbe essere dimostrato – che un percorso<br />

più graduale che inizi da subito, con le tecnologie e i capitali<br />

umani e finanziari di oggi, sia meno costoso di un percorso più<br />

Baptists and the global warming battle”, in KENDRA OKONSKI (a cura di), Adapt<br />

or Die, pp. 173-190; BRUCE YANDLE, “The precautionary principle as a force<br />

for global political centralization: a case-study of the Kyoto Protocol”, in JU-<br />

LIAN MORRIS (a cura di), Rethinking Risk and the Precautionary Principle; RO-<br />

GER A. PIELKE, JR., Scienza e politica. La lotta per il consenso; TODD J. ZYWICKI,<br />

“Industry and Environmental Lobbyists: Enemies or Allies?”, in ROGER E.<br />

MEINERS eANDREW P. MORRISS, The Common Law and the Environment.<br />

Rethinking the Statutory Basis for Modern Environmental Law, pp. 185-210.<br />

173


ipido da avviare tra due o più decenni, con le tecnologie e i capitali<br />

umani e finanziari del futuro.<br />

La seconda obiezione riguarda invece il rapporto tra adattamento<br />

e mitigazione. Qualcuno fa notare che non necessariamente<br />

l’uno esclude l’altra: quindi, sarebbe logicamente scorretto<br />

porli in alternativa, mentre le due strategie andrebbero perseguite<br />

simultaneamente. Si tratta di un’obiezione intelligente<br />

ma fragile. Le risorse, nel breve termine, sono scarse: ogni euro<br />

speso nelle attività di mitigazione è sottratto a tutte le altre attività,<br />

comprese quelle di adattamento (anche se si può discutere<br />

se, al margine, l’euro della mitigazione venga meno proprio all’adattamento)<br />

29. In ogni caso, è ovvio come le politiche del clima<br />

non possano stimolare la crescita economica, in quanto drenano<br />

risorse all’economia di mercato reindirizzandole verso usi<br />

non-economici (altrimenti sarebbero stati premiati dal mercato<br />

stesso). Riducendo la crescita economica rispetto al tendenziale<br />

– non importa in quale parte del mondo: a causa del relativo impoverimento<br />

di una regione, visto che ormai i mercati dei capitali<br />

sono globali, equivale all’impoverimento di tutto il pianeta<br />

– le misure di mitigazione finiscono per privare le generazioni<br />

future, oltre che quelle presenti, di risorse capitali, e quindi della<br />

capacità di affrontare i problemi e di possibilità di investire in<br />

innovazione.<br />

Se tutto ciò è vero, allora risulta rafforzata la tesi secondo<br />

cui gli sforzi di mitigazione, per come si sono delineati finora, rischiano<br />

di influire negativamente sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Un<br />

mondo più ricco è intrinsecamente un mondo più sicuro <strong>energetica</strong>mente.<br />

E sebbene una minore crescita economica possa<br />

implicare una minore domanda di energia, o un rallentamento<br />

della crescita della domanda, le tecniche produttive sono di peggiore<br />

qualità e in ultima analisi la grave questione della povertà<br />

<strong>energetica</strong> non sarebbe risolta, con ripercussioni negative sui<br />

rapporti che legano i diversi popoli, sulle prospettive di integra-<br />

29 Si veda INDUR M. GOKLANY, “Il cambiamento climatico: il più urgente<br />

problema ambientale del XXI secolo o la proverbiale goccia che fa traboccare<br />

il vaso?”, in KENDRA OKONSKI e CARLO STAGNARO (a cura di), Dall’effetto<br />

serra alla pianificazione economica, pp. 15-41.<br />

174


zione e – se si guarda ai paesi produttori e consumatori di risorse<br />

energetiche – la riduzione delle probabilità che la conflittualità<br />

e la chiusura reciproca dei mercati sfoci in una pienamente<br />

accettata interdipendenza.<br />

5.3. La politica estera<br />

La terza leva con cui i paesi consumatori di risorse possono<br />

aumentare o ridurre la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> ha a che fare con le<br />

scelte di politica estera, e quindi le alleanze internazionali ma<br />

anche il bilanciamento tra le tensioni – per così dire – idealistiche<br />

e l’attenta e cauta valutazione delle possibili conseguenze<br />

economiche, tanto nel paese consumatore quando in quello produttore,<br />

di prese di posizione troppo rigide o interpretabili come<br />

mosse di chiusura.<br />

Ciò ha un impatto diretto anche sulla politiche climatiche.<br />

Se infatti si incrocia la riflessione su Kyoto con uno sguardo alla<br />

carta geografica, allora si noteranno alcune questioni tutt’altro<br />

che secondarie. Sull’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, il<br />

principale divoratore di energia del mondo, sono impegnati in<br />

una campagna militare dispendiosa dal punto di vista politico,<br />

economico e umano, per esportare la democrazia in un paese<br />

del Medio Oriente, l’Iraq (terzo al mondo per quantità di riserve<br />

provate di petrolio (circa 115 miliardi di barili) 30. Contemporaneamente,<br />

gli Stati Uniti sono impegnati nel contenimento<br />

e nella distruzione (ove possibile) di Al Qaeda, mentre il<br />

network del terrore continua la sua guerra asimmetrica e ha preso<br />

di mira le infrastrutture dell’energia, oleodotti, gasdotti, pozzi<br />

di petrolio, piattaforme galleggianti. Gli episodi si stanno<br />

moltiplicando ed è ormai chiaro che l’oro nero non solo è caro<br />

ma è anche sempre più insicuro. È un target della jihad, è una<br />

risorsa localizzata in aree instabili, non democratiche, in Paesi<br />

che sono nel miglior caso regimi e nel peggiore dei veri e propri<br />

“Stati canaglia”.<br />

30 http://www.eia.doe.gov/emeu/cabs/Iraq/Oil.html<br />

175


Chi pensa che l’in<strong>sicurezza</strong> sia frutto solo del terrorismo e<br />

dell’instabilità Mediorientale si sbaglia. Le conseguenze dell’uragano<br />

Katrina nel Golfo del Messico, per gli Stati Uniti sono<br />

diventati una lezione da mandare a memoria: non per il legame<br />

degli uragani conl’effetto serra (che è semplicemente indimostrabile)<br />

31, ma per le ripercussioni sull’economia americana. Il<br />

Golfo del Messico infatti è uno dei principali punti di scambio<br />

e raffinazione di petrolio e molti lettori ricorderanno l’effetto<br />

domino nei mesi scorsi sul mercato del barile. A questo si aggiungono<br />

le tensioni in Sudamerica e in particolare il fenomeno<br />

Hugo Chàvez, il presidente del Venezuela che pratica una politica<br />

antiamericana ed è seduto su un mare di petrolio (e dollari)<br />

che gli consentonouna politica di riarmo e di pressione diplomatica<br />

su tutta l’area geopolitica. Chàvez persegue una strategia<br />

di nazionalizzazione delle risorse minerarie, del gas e del petrolio.<br />

“Via socialista” imitata prontamente dal nuovo presidente<br />

del Bolivia, Evo Morales, e destinata a diventare un problema<br />

regionale con effetti globali.<br />

Di fronte a questa serie di eventi, in cui il filo rosso è quello<br />

dell’instabilità e dell’in<strong>sicurezza</strong>, l’amministrazione Bush ha<br />

cercato una risposta in un nuovo piano energetico per il paese.<br />

L’8 agosto del 2005 il Presidente degli Stati Uniti ha firmato<br />

una nuova legge per l’energia che punta a migliorare l’efficienza<br />

<strong>energetica</strong> domestica (offrendo sgravi fiscali ai consumatori),<br />

ridurre il consumo energetico del governo federale,<br />

modernizzare l’infrastruttura <strong>energetica</strong> nazionale, diversificare<br />

l’approvvigionamento energetico nazionale con fonti alternative<br />

(in primis nucleare) e promuovere una nuova generazione<br />

di veicoli ad elevata efficienza <strong>energetica</strong>. Si tratta di una risposta<br />

pragmatica che punta all’efficienza e al risparmio, al<br />

quale si aggiunge il potenziamento del programma nucleare civile<br />

che mira a ridurre la dipendenza americana dalle importazioni<br />

di petrolio arabo nei prossimi anni. Il ragionamento che<br />

sta dietro queste scelte è il seguente: meno dipendenza più <strong>sicurezza</strong>.<br />

Gli Stati Uniti infatti non sono un “impero in decli-<br />

31 ROGER A. PIELKE, CHRIS LANDSEA, MAX MAYFIELD, JIM LAVER e<br />

RICHARD PASCH, “Hurricanes and Global Warming”.<br />

176


no”, ma continueranno a guidare la crescita mondiale insieme<br />

alla Cina 32.<br />

Evocando l’impero celeste, lo sguardo si posa sull’emisfero<br />

orientale della nostra carta geografica. Qui l’area è interessata da<br />

fenomeni che spingono verso Est, rimbalzano verso Ovest, si<br />

proiettano verso Sud-Est. La Cina sta vivendo la sua rivoluzione<br />

industriale ed è il più grande inquinatore della terra. Cina che<br />

non aderisce a Kyoto. I tassi di crescita cinesi sono elevatissimi,<br />

ancora per il 2006 il Fondo monetario internazionale prevede<br />

un +8,2 per cento e continua ad essere il più elevato della emerging<br />

Asia. Gli altri due giganti che nell’area continueranno a crescere<br />

sono il Giappone e l’India. Sono due eccezioni importanti,<br />

in cui il paese del Sol Levante conferma la sua ripresa (con<br />

l’aspettativa di un tasso di crescita del 2 per cento per quest’anno)<br />

e il subcontinente indiano emerge sempre più nel ruolo di<br />

global player con un tasso di crescita, secondo solo a quello cinese,<br />

del 6,3 per cento.<br />

Guardacaso, le economie che sostengono la crescita mondiale<br />

Cina, India e Giappone si sono ritrovate nel vertice della<br />

Asia & Pacific Partnership on Clean Development and Climate.<br />

Cina e India sono anche tra i più grandi divoratori di petrolio.<br />

I cinesi hanno stretto un importante accordo con l’Arabia<br />

Saudita, gli indiani si stanno muovendo anch’essi con accordi<br />

bilaterali. La globalizzazione del mercato dell’energia sembra<br />

essere completamente ignorata dal protocollo di Kyoto. La tabella<br />

di marcia per rispettare i parametri non tiene conto di un<br />

mondo in rapidissima evoluzione. La domanda di gas e petrolio<br />

di un gigante come la Cina, mette in moto un effetto domino di<br />

alleanze strategiche con al centro della scena il Medio Oriente,<br />

sotto molti aspetti “l’area del mondo più disconnessa dall’economia<br />

globale” 33.<br />

L’iniziativa è orientata agli stessi obiettivi fissati dal G8 – rimuovere<br />

le barriere allo sviluppo e all’adozione di tecnologie<br />

pulite, favorire una collaborazione tra paesi industrializzati e in<br />

via di sviluppo, elaborare una strategia di lungo termine per af-<br />

32 IMF, World Economic Outlook - Building Institutions.<br />

33 THOMAS P. M. BARNETT, The Pentagon’s New Map, p. 216.<br />

177


frontare i mutamenti climatici. Inoltre, a differenza di Kyoto<br />

(che impegna 34 nazioni, molte delle quali piccole, su un sentiero<br />

inefficace), la Partnership ha dalla sua la forza dei numeri. Gli<br />

Stati che ne fanno parte rappresentano quasi il 65 per cento del<br />

Pil mondiale, il 45 per cento della popolazione, il 51 per cento<br />

del consumo energetico e il 49 per cento delle emissioni di gas<br />

climalteranti.<br />

I critici hanno attaccato la Partnership sottolineandone in<br />

particolare il presunto carattere “anti-Kyoto” e le difficoltà di<br />

enforcement. Per esempio, il presidente di Legambiente Roberto<br />

Della Seta ha definito l’accordo di Sidney “un contenitore<br />

vuoto” il cui unico obiettivo “è lo sviluppo di nuove tecnologie<br />

per poter continuare a sfruttare l’energia delle fonti fossili senza<br />

far nessun taglio e nessuna riconversione e puntare anzi sul<br />

potenziamento del nucleare in quanto tecnologia pulita” 34.<br />

Greenpeace ha sfidato il “patto del carbone” (così lo ha definito<br />

Catherine Fitzpatrick, responsabile della campagna sulle<br />

energie pulite per l’organizzazione ecologista) a “provare come<br />

perseguirete le riduzioni di emissioni” 35.<br />

La natura delle accuse dimostra come da un lato viga una<br />

politica dei due pesi e due misure, dall’altro vi sia una profonda<br />

confusione riguardo a quella che dev’essere la ragione sociale<br />

delle politiche climatiche. Non si può, infatti, giudicare la Partnership<br />

dell’Asia e del Pacifico con un metro tarato sul pessimismo<br />

(condannando l’assenza di un meccanismo di enforcement)<br />

mentre dei meccanismi di enforcement di Kyoto si finge di non<br />

vedere l’inefficacia. L’iniziativa di Sidney non ha bisogno, per il<br />

modo in cui è concepita, di un vero e proprio sistema di sanzioni,<br />

in quanto non definisce obiettivi di breve termine: la scommessa<br />

sta nella creazione di incentivi virtuosi. Viceversa, il protocollo<br />

di Kyoto è un elenco di target e tabelle di marcia che, a<br />

dispetto dell’apparente inflessibilità della loro applicazione,<br />

vengono sistematicamente disattesi. D’altro canto, la via battu-<br />

34 “Legambiente contro l’anti-Kyoto”, Vita.it, 12 gennaio 2006,<br />

http://www.vita.it/articolo/index.php3?NEWSID=63809.<br />

35 “Greenpeace to ‘Coal Pact’: Prove how you’ll reduce”, Scoop, 12 gennaio<br />

2006, http://www.scoop. co.nz/stories/WO0601/S00113.htm.<br />

178


ta dagli ecologisti radicali non conduce molto lontano: non si<br />

cambia il paradigma energetico in un battito di ciglia. I miglioramenti<br />

in termini di efficienza nell’uso dei combustibili fossili<br />

o di abbattimento degli inquinanti non solo rappresentano la via<br />

più promettente per accompagnare lo sviluppo dei paesi poveri,<br />

ma sono l’unica incarnazione possibile di un principio spesso<br />

invocato dagli ambientalisti, quello del risparmio energetico.<br />

Il risparmio, d’altronde, ha senso se viene perseguito in termini<br />

di “cost-effectiveness” e a parità di output: al contrario, l’idea che<br />

sia doveroso consumare meno energia a prescindere dai costi e<br />

dalle dimensioni delle rinunce che vengono richieste rischia<br />

d’innescare una spirale suicida che sacrifica il tenore di vita di<br />

un’intera società nel nome di un inesistente eden climatico. Banalizzando,<br />

il risparmio merita attenzione se implica un risparmio,<br />

non una rinuncia.<br />

Da questo punto di vista le politiche americane si sono rivelate,<br />

semplicemente, più efficaci: tra il 1997 (anno in cui il protocollo<br />

venne concordato a Kyoto) e il 2003, l’intensità <strong>energetica</strong><br />

USA è diminuita del 12,20 per cento, quella dell’Ue15 di appena<br />

il 7,60 per cento. È il verdetto dei fatti a giocare a favore di un<br />

approccio volontaristico. Un’indagine condotta da David Montgomery<br />

e Roger Bate ha dimostrato una forte correlazione tra libertà<br />

economica e riduzione dei consumi energetici per unità di<br />

Pil: secondo gli autori, “le imperfezioni del mercato nei paesi in<br />

via di sviluppo spiegano perché usino tanta energia ed emettano<br />

tanto carbonio per dollaro di output. Se questo è vero, allora gli<br />

sforzi cooperativi per rimuovere queste imperfezioni del mercato<br />

e migliorare la libertà economica possono essere anche misure<br />

assai efficaci nella riduzione delle emissioni di gas serra” 36.<br />

Sfortunatamente, Kyoto – traducendosi di fatto in una complessa<br />

combinazione di inasprimenti fiscali, ipertrofia regolatoria e,<br />

36 W. DAVID MONTGOMERY e ROGER BATE, “Cutting Global Greenhouse<br />

Gas Emissions by Exporting Technological Solutions to Developing Countries”,<br />

in ANDREI ILLARIONOV e MARGO M. THORNING (a cura di), Climate<br />

Change Policy And Economic Growth: A Way Forward to Ensure Both, p. 137.<br />

Si veda anche, degli stessi autori, “A (mostly) Painless Path Forward: Reducing<br />

Greenhouse Gases Through Economic Freedom”, Ivi, pp. 140-151.<br />

179


in ultima analisi, pianificazione centrale di produzione e consumi<br />

energetici – rischia proprio di andare a detrimento della libertà<br />

economica e quindi, nel nome di una piccola e illusoria riduzione<br />

immediata delle emissioni, di cancellare le condizioni<br />

per uno sviluppo più radicale, profondo e duraturo. In fondo, un<br />

altro modo per guardare alla Partnership dell’Asia-Pacifico è vedervi<br />

ciò che avrebbe potuto essere perseguito, ma non è stato<br />

fatto, se a metà anni ’90 la comunità internazionale non si fosse<br />

incamminata sulla strada di Kyoto. Rispetto a questa evoluzione,<br />

esattamente come all’appuntamento con la politica <strong>energetica</strong><br />

comune, l’Europa rischia di trovarsi impreparata.<br />

Il senso del ritardo è particolarmente evidente se si considera<br />

che, da un lato, gli Stati Uniti guidano una coalizione di<br />

paesi impegnati in uno sforzo globale di rafforzamento della <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> che presti attenzione al tema della sostenibilità<br />

ambientale. Dall’altro, l’Europa ha scelto di affrontare la<br />

questione climatica in termini spesso ideologici, concentrandosi<br />

su soluzioni preconfezionate che rischiano, invece, di danneggiare<br />

la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Obiettivi come quello di produrre<br />

il 25 per cento dell’energia da fonti rinnovabili (in assenza di significativa<br />

balzi tecnologici) sono difficilmente realizzabili e forse<br />

neppure desiderabili: le fonti cosiddette alternative, allo stato<br />

attuale delle conoscenze tecnologiche e agli attuali prezzi del<br />

petrolio, sono economicamente poco competitive (e quindi rischiano<br />

di allargare lo svantaggio competitivo delle imprese europee)<br />

e difficilmente incasellabili in un’ottica di <strong>sicurezza</strong>. Fonti<br />

come l’eolica e la solare dipendono da vincoli esterni non controllabili<br />

né prevedibili dall’uomo, come la quantità di illuminazione<br />

solare o di vento, e variabili con elevata frequenza. Questo<br />

rende difficile un loro impiego a fronte di una domanda che<br />

presenta regolarità e ciclicità.<br />

Naturalmente, la politica internazionale ha un impatto più<br />

vasto, sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, della sua semplice interazione<br />

con le politiche ambientali.<br />

180


6.<br />

<strong>Politica</strong> estera e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

La dimensione internazionale della politica <strong>energetica</strong> dipende<br />

da almeno due fattori. Il primo riguarda la natura globale<br />

dei mercati dell’energia (in senso lato), che si manifesta<br />

anche quando essi hanno estensione regionale. La crescente<br />

interconnessione – economica, commerciale ed <strong>energetica</strong> –<br />

dei paesi rafforza questa caratteristica: due nazioni possono<br />

scambiare materie prime, prodotti raffinati o elettricità, e in<br />

molti casi questi mercati si sovrappongono o competono tra di<br />

loro. Un fenomeno attualmente in atto, per esempio, è quello<br />

che vede protagoniste le Nocs nel tentativo di migliorare la loro<br />

capacità di raffinazione, non solo per servire il loro mercato<br />

nazionale ma anche nel tentativo di cercare una proiezione<br />

globale.<br />

Infatti, le raffinerie occidentali – soggette come sono a<br />

standard ambientali sempre più stringenti – sono vincolate a<br />

utilizzare greggi di ottima qualità, e quindi contribuiscono a<br />

spingere in alto il prezzo dei benchmark. Ciò non accade per<br />

molti paesi produttori, che possono quindi scommettere sulla<br />

raffinazione dei greggi pesanti o ad alto tenore di zolfo (che<br />

avrebbero poco mercato nei paesi industrializzati) per poi<br />

esportare prodotti finiti. Per esempio, la compagnia di Stato<br />

saudita Aramco vende sui mercati internazionali circa 2 milioni<br />

di barili al giorno di prodotti raffinati contro 8 milioni di barili<br />

di greggio, a dimostrazione del fatto che quello della raffinazione<br />

sta divenendo un business molto importante. L’Iran ha<br />

previsto, tra il 2005 e il 2015, investimenti nel settore per oltre<br />

17 miliardi di dollari (di cui 12 di provenienza straniera) per<br />

181


portare la sua capacità di raffinazione da 1,47 a 2,5 milioni di<br />

barili al giorno 1.<br />

Il secondo fattore di intersezione tra politica estera e politica<br />

<strong>energetica</strong> deriva dall’impossibilità pratica dell’autosufficienza<br />

<strong>energetica</strong>. A prescindere dai costi di una politica di indipendenza<br />

(da cui, beninteso, non si può prescindere) è la natura stessa<br />

della domanda a imporre forme di apertura ai mercati globali.<br />

Forse uno fra i paesi produttori potrebbe perseguire tale obiettivo<br />

(ed è significativo che neppure essi, in genere, lo facciano). Un<br />

paese come l’Italia (e del resto l’Europa stessa), però, dispone di<br />

risorse modeste: puntare all’autosufficienza imporrebbe un radicale<br />

ripensamento degli attuali meccanismi produttivi nell’ottica<br />

di una drastica riduzione dei consumi. Se il paese ha un tasso di<br />

dipendenza dall’estero superiore all’80 per cento, è segno che se<br />

dovessimo produrre tutta l’energia che consumiamo (ammesso<br />

che ciò sia possibile), l’80 per cento di essa costerebbe di più.<br />

La sensibilità per questo aspetto è ormai evidente ai più, come<br />

dimostra la crescente attenzione che gli organismi e i meeting<br />

internazionali riservano all’energia o a questioni a essa collegate:<br />

per citare solo due esempi, delle ultime tre riunioni del G8, quella<br />

di Heiligendamm nel 2007 ha dedicato grande attenzione alle<br />

sfide <strong>energetica</strong> e climatica come richiesto dalla padrona di casa<br />

Angela Merkel, quella di Sanpietroburgo nel 2006 è stata consacrata<br />

da Vladimir Putin alla questione della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>,<br />

mentre quella di Gleneagles nel 2005 ha dedicato ampia attenzione<br />

al problema delle politiche climatiche, per volere di Tony Blair.<br />

D’altronde, la crescita della domanda di energia è un fatto globale,<br />

e l’aumento o la riduzione dei consumi in un paese impatta necessariamente<br />

tutto il sistema mondiale. In uno scenario sempre<br />

più globalizzato, l’energia mostra tutte le opportunità e tutti i rischi<br />

dell’integrazione economica: e riassume sotto un unico ombrello<br />

problematiche assai diverse come la contraddizione tra l’estensione<br />

di un mercato globale e il rafforzamento di imprese nazionali,<br />

la tensione tra apertura degli scambi e protezione dei<br />

campioni nazionali, il rapporto ambiguo tra produttori e consumatori<br />

di risorse e di prodotti finiti. Su questo aleggia la doman-<br />

1 VALÉRIE MARCEL, Oil Titans, pp. 186-187.<br />

182


da fondamentale: cos’è l’energia? O, meglio, cosa sono le risorse<br />

energetiche, petrolio e gas in primis? Sono commodities come le<br />

altre? Sono risorse strategiche? È ragionevole affidarle al mercato?<br />

Oppure occorrono forme di controllo e programmazione, ai<br />

vari livelli? Infine, quale rapporto sussiste tra i mercati energetici<br />

– mercati, come si è visto, ambigui e imprevedibili, globali ma<br />

ad alto tasso di interventismo pubblico, liberi a livello mondiale<br />

ma fortemente regolati nei cantucci nazionali – le linee guida della<br />

politica estera dei vari paesi o blocchi (su tutti, l’Unione Europea)<br />

e le negoziazioni per l’abbattimento delle barriere al commercio?<br />

Nel caso dell’energia, insomma, vale la pena battere una<br />

via multilaterale oppure forme di trattati bilaterali possono meglio<br />

garantire contro il rischio di shock o controshock?<br />

Questa dimensione impone una riflessione su almeno tre<br />

ordini di problemi: i rapporti con le compagnie di Stato dei paesi<br />

produttori, il rapporto coi paesi produttori stessi, e il carattere<br />

europeo della questione <strong>energetica</strong>. Su quest’ultimo punto si<br />

innesta la questione dei difficili rapporti dell’Ue con un fornitore<br />

strategico come la Russia.<br />

6.1. Rapporti con le compagnie di Stato<br />

L’affermazione più banale che si possa fare a proposito dei<br />

rapporti tra le compagnie occidentali e quelle dei paesi produttori<br />

è che dovrebbero essere i migliori possibili. Nonostante tutte<br />

le loro difficoltà a reperire capitali e raggiungere elevati standard<br />

di efficienza (dovute anche ai loro obblighi nei confronti<br />

dei rispettivi governi) le Nocs hanno in mano la larga maggioranza<br />

delle riserve note di petrolio e gas (Figura 21).<br />

Nella pratica, questo significa soprattutto che sarebbe opportuno,<br />

da parte dei paesi consumatori di risorse, non adottare<br />

politiche di chiusura nei confronti dei tentativi di internazionalizzazione<br />

delle compagnie di Stato. Come si è visto, queste<br />

dinamiche – figlie essenzialmente delle incredibili masse finanziarie<br />

che stanno affluendo nelle casse delle Nocs – rappresentano<br />

una sfida ma anche una grande opportunità. Se infatti da<br />

un lato esse possono oggettivamente rafforzare dei monopoli,<br />

183


Figura 21. Proprietà delle riserve mondiali di petrolio e gas (miliardi di barili<br />

di petrolio equivalenti, 1994). Fonte: PFC Energy.<br />

dall’altro la partita dei mercati internazionali impone l’adozione<br />

di criteri sempre più economici e sempre meno politici, così<br />

come richiede modelli di governance relativamente più trasparenti<br />

e comportamenti più leali. Una condotta sleale, che<br />

può essere opportunisticamente vantaggiosa per una compagnia<br />

che abbia come unico scopo quello di estrarre la massima<br />

rendita dalla sua posizione monopolistica, può al contrario essere<br />

dannosa per la sua libertà di movimento su altri mercati. È<br />

significativo, per esempio, che un paese come la Russia – che<br />

ha fatto, almeno a partire dal 2003, una precisa scelta di gestione<br />

nazionalistica delle risorse e ha adottato atteggiamenti talvolta<br />

ostili nei confronti delle imprese occidentali – al tempo<br />

stesso cerchi di guardare all’esempio della compagnia saudita<br />

Aramco, considerata relativamente efficiente nella produzione<br />

e sicuramente leale nei confronti dei partner. L’amministratore<br />

delegato di Gazprom, il monopolista russo del gas che sta perseguendo<br />

una strategia di integrazione nel petrolio anche attraverso<br />

la cooperazione col gruppo privato Lukoil, ha chiaramente<br />

espresso l’intenzione di voler imitare le grandi multinazionali<br />

straniere 2.<br />

2 FABRIZIO DRAGOSEI, “Alleanza Gazprom-Lukoil, Mosca pensa al modello<br />

Aramco”, Il Corriere della Sera, 19 novembre 2006.<br />

184


Molti sembrano ritenere che vi sia un sostanziale elemento<br />

di criticità nel concedere a compagnie come Gazprom l’accesso<br />

ai mercati occidentali, perché esse potrebbero perseguire politiche<br />

di integrazione verticale e sfruttare la loro copertura dell’intera<br />

filiera dell’energia. Tuttavia, il comportamento di Gazprom<br />

(e di altre aziende simili) va letto anche sotto un’altra prospettiva.<br />

Prima che i paesi europei intraprendessero la via delle liberalizzazioni,<br />

seppure in maniera talvolta ambigua e con non poche<br />

retromarce, l’esistenza di un monopolio a valle rappresentava,<br />

paradossalmente, una garanzia per i monopolisti a monte, che<br />

dovevano confrontarsi con entità a loro analoghe. Come ha rilevato<br />

Pippo Ranci, “Gazprom si affaccia sui mercati europei di<br />

consumo. Il vecchio regime vedeva Gazprom e gli altri produttori<br />

primari (come l’algerina Sonatrach) confinati al ruolo di fornitori<br />

dei monopolisti locali europei, garantiti nel prezzo e nella<br />

quantità. Ora la liberalizzazione fa scomparire le garanzie e apre<br />

i mercati alla penetrazione di nuovi operatori: i fornitori primari<br />

hanno tutto l’interesse a diventare anche operatori commerciali e<br />

appropriarsi di una parte del margine commerciale” 3. Il punto è<br />

che comunque una compagnia straniera, per quanto forte, non<br />

può operare in un paese diverso dal suo senza assimilarne le regole;<br />

e in ogni caso resterebbe soggetta alle pressioni del governo<br />

e delle autorità competenti. Paradossalmente, una maggiore<br />

penetrazione nei mercati di valle potrebbe favorire o accelerare<br />

l’evoluzione delle compagnie di Stato, ponendole nella direttrice<br />

di un ingresso a pieno titolo sui mercati internazionali e accrescendo<br />

il desiderio del management di sganciarsi dall’influenza<br />

politica del governo. In altri termini, maggiori sono i punti di contatto<br />

delle Nocs con le realtà globali, e maggiori sono anche le<br />

(benefiche) tensioni che all’interno di esse possono svilupparsi.<br />

Resta un problema serio, nel rapporto con le Nocs: esso non<br />

si riduce nella cooperazione e competizione tra imprese nazionali<br />

e compagnie internazionali; ha una diretta ricaduta politica.<br />

Per quanto una Noc possa essere indipendente, muoversi secondo<br />

linee economiche, eccetera, essa resterà sempre un’emanazio-<br />

3 PIPPO RANCI, “I gasdotti italiani in mani russe? Non solo rischi”, Il Sole<br />

24 Ore, 15 settembre 2005.<br />

185


ne del suo governo, o una realtà particolarmente sensibile agli input<br />

politici. Aprire la porta a un’entità di questo genere rappresenta<br />

un problema? Molti sembrano pensarla così, e qualcuno si<br />

è addirittura spinto a invocare forme di chiusura più o meno accentuate<br />

verso imprese pubbliche straniere. Del resto, in Italia fino<br />

a poco tempo fa una grande impresa elettrica straniera, pubblica,<br />

vedeva menomati i suoi diritti a godere di diritti di voto<br />

proporzionali alla sua partecipazione a una grande impresa elettrica<br />

italiana. Questa vicenda si è sanata, ma la domanda sottesa<br />

è: se abbiamo accettato un provvedimento del genere contro una<br />

compagnia europea, perché non dovremmo, a maggior ragione,<br />

porci il problema nel caso di aziende provenienti da paesi esterni<br />

all’Unione Europea, talvolta con scarsa credibilità democratica<br />

e con un rispetto della rule of law non sempre cristallino? È<br />

difficile, o impossibile, dare una risposta univoca. Si può però osservare<br />

una norma generale: chiedersi se l’ingresso della compagnia<br />

straniera danneggi o no la libertà di mercato nel paese ospite,<br />

e quali conseguenze potrebbe avere una luce rossa sul mercato<br />

del paese produttore. Nel primo caso, vale la pena sottolineare<br />

che le infrastrutture essenziali vengono gestite secondo regolamentazioni<br />

e norme che generalmente sono imposte dal governo<br />

e delle autorità di settore del paese consumatore, quindi la<br />

Noc è tenuta ad accettarle. Secondariamente, come si è visto nel<br />

caso di Cnooc / Unocal, un atteggiamento protezionistico potrebbe<br />

addirittura ridurre la tensione a internazionalizzarsi del<br />

paese straniero, inducendo indirettamente proprio quel problema<br />

che si voleva evitare – e cioè rafforzando l’asse tra governo e<br />

compagnia di Stato. Inoltre, come ha notato Enrico Colombatto,<br />

“la resistenza che un soggetto straniero può opporre alla liberalizzazione<br />

è inferiore, e quindi il suo arrivo può contribuire a<br />

creare condizioni favorevoli” nel paese consumatore 4. Parimenti,<br />

l’esperienza con un contesto liberalizzato può promuoverne le<br />

ragioni oltre la frontiera, attraverso il ruolo inevitabilmente politico<br />

del management della Noc. Il vero discrimine può collocarsi<br />

su un altro livello: quello delle relazioni tra i paesi.<br />

4 CARLO STAGNARO, “Quando l’opa è (para)statale, la mano invisibile del<br />

mercato non basta”, Il Foglio, 29 settembre 2005.<br />

186


6.2. Rapporti coi paesi produttori<br />

Il rapporto tra imprese – anche in quella dimensione del<br />

tutto particolare che riguarda l’ingresso di un’impresa nazionale<br />

di un paese produttore sul mercato di valle di un paese consumatore<br />

– si colloca su uno sfondo più generale che è quello<br />

delle relazioni internazionali. In quest’ottica, esattamente come<br />

si è detto all’inizio del paragrafo precedente, la condizione idealmente<br />

migliore è quella in cui vigono “buoni rapporti” tra i paesi<br />

produttori e consumatori. Cosa significa buoni rapporti? Anzitutto,<br />

evidentemente, rapporti pacifici: gli scambi tra paesi in<br />

guerra non sono impossibili ma sono difficili e costosi. Secondariamente,<br />

i rapporti tra paesi dovrebbero essere stabili: due<br />

paesi oggi alleati dovrebbero cercare di mantenere la loro alleanza<br />

e sforzarsi di superare eventuali, inevitabili difficoltà.<br />

Questo implica uno sforzo di reciproca comprensione da parte<br />

delle classi politiche dei due paesi, ma anche – all’interno del<br />

singolo paese – un analogo sforzo da parte dei diversi schieramenti<br />

che competono per ottenere la maggioranza parlamentare<br />

o il controllo del governo di concordare linee comuni che necessariamente<br />

si proiettano nel lungo termine. Tale esigenza dipende<br />

dalla natura ad alta intensità di capitale dell’industria dell’energia:<br />

costruire un gasdotto o firmare un contratto di lungo<br />

termine richiede la ragionevole aspettativa che i due (o più, considerando<br />

anche i diritti di transito) paesi interessati non ingaggeranno<br />

una guerra commerciale. A posteriori, una guerra commerciale<br />

riduce la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> perché fa venir meno la<br />

disponibilità di approvvigionamenti, o ne aumenta il costo per<br />

ragioni estranee alla dialettica economica. A priori, il rischio di<br />

guerre commerciali, o la poca fiducia nei confronti delle classi<br />

politiche, disincentiva gli investimenti, mantenendo stretta l’offerta<br />

di energia nel paese consumatore o riducendo l’apporto di<br />

capitali stranieri nell’upstream del paese produttore, e anche<br />

questo ha un effetto negativo sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> perché<br />

riduce i “cuscinetti” produttivi o di importazione.<br />

Al tempo stesso, è buona regola cercare “buoni rapporti”<br />

con tutti, in maniera da non trovarsi a dipendere eccessivamente<br />

da uno solo o pochi fornitori – un rischio che è intrinseco nella<br />

187


natura capital intensive delle forniture di gas, in maniera particolare,<br />

e che quindi sarebbe opportuno non esacerbare per ragioni<br />

meramente politiche. “Buoni rapporti”, nel campo delle relazioni<br />

internazionali, non significa solo pacche sulle spalle: implica<br />

anche la consapevole ricerca del comune interesse. Come scrive<br />

Sergio Garribba, “la <strong>sicurezza</strong> dell’approvvigionamento di petrolio<br />

e di gas naturale è favorita da un clima di rapporti tra paesi che<br />

consentano alle imprese, con il contributo delle istituzioni finanziarie,<br />

di realizzare i grandi progetti che sono necessari per rendere<br />

disponibili, a condizioni di costo accettabili, le risorse energetiche<br />

occorrenti. È sempre più chiara l’interdipendenza tra<br />

paesi produttori di materie prime energetiche e paesi consumatori.<br />

Anche i primi devono diversificare le proprie economie per<br />

non dipendere solo dalle loro esportazioni di petrolio o di materie<br />

prime energetiche. La diversificazione delle economie dei<br />

paesi produttori può avvenire con il contributo dei paesi consumatori”<br />

5. Da questo punto di vista, i paesi consumatori potrebbero<br />

puntare a ottenere il fine della <strong>sicurezza</strong> attraverso la promozione<br />

di politiche di mercato nel paese fornitore e attraverso<br />

la valorizzazione di accordi bi- o multi-laterali di libero scambio.<br />

In particolare, tali accordi dovrebbero riguardare tre punti.<br />

Il primo punto riguarda direttamente l’interesse del paese<br />

consumatore alla <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti e ha a che<br />

vedere con tutte quelle pressioni politiche che il governo può<br />

esercitare sull’esecutivo del paese produttore affinché i contratti<br />

e i patti con le imprese operanti a valle siano minuziosamente<br />

rispettati. Questo non implica una tutela delle imprese nazionali,<br />

quanto piuttosto la richiesta di garanzie a favore di tutte quelle<br />

imprese – nazionali o straniere – che concorrono al soddisfacimento<br />

dei fabbisogni energetici. Se, per esempio, una parte significativa<br />

della richiesta italiana di petrolio e gas viene soddisfatta<br />

da imprese multinazionali, è nell’interesse degli italiani<br />

che queste imprese possano operare in un regime di relativa<br />

tranquillità nei paesi produttori: se per qualunque ragione un<br />

contratto di fornitura dovesse interrompersi ingiustificatamen-<br />

5 SERGIO GARRIBBA, “Per una nuova politica <strong>energetica</strong> nazionale”, I<br />

Quaderni, no.8, agosto 2006, p. 97.<br />

188


te, a esserne danneggiata non sarebbero solo l’impresa vittima e<br />

i suoi azionisti, ma anche tutti coloro che ne acquistano i prodotti.<br />

Questo è particolarmente vero in un settore, come quello<br />

energetico, nel quale il cambiamento impone sempre una decisione<br />

assai complicata: per un fornitore è difficile e costoso cambiare<br />

clienti, perché un gasdotto non può essere facilmente deviato<br />

verso altri lidi. Proprio la rigidità implicita nel mercato del<br />

gas impone relazioni amichevoli tra i paesi che scambiano risorse<br />

naturali. Per stare a un caso spesso citato, l’Europa (e l’Italia<br />

in particolare) ha un forte grado di dipendenza dalla Russia (e<br />

dall’Algeria). Di per sé questa non è una situazione raccomandabile,<br />

ma si tratta pure di una realtà che non può essere ignorata.<br />

Coma ha rilevato Borut Grgic “la Russia resterà centrale rispetto<br />

alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> europea, specialmente in quanto<br />

le capacità produttive di petrolio e gas del continente stanno<br />

diminuendo. L’obiettivo quindi dovrebbe essere gestire meglio<br />

la dipendenza dal gas russo”, non sganciarsi da essa. Pertanto,<br />

“una delle priorità europee dovrebbe essere di convincere il<br />

presidente Putin a spendere di più sull’esplorazione e lo sviluppo<br />

dei giacimenti di gas in Russia. La condizione di sottoinvestimenti<br />

di Gazprom in questo settore rischia di trasformare la<br />

Russia in un fornitore inaffidabile, non solo per ragioni politiche<br />

ma anche tecniche” 6.<br />

Ciò conduce al secondo punto su cui la politica estera potrebbe<br />

essere funzionale alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Se molti paesi<br />

produttori soffrono di carenza di investimenti, mentre in molti<br />

paesi consumatori ci sono capitali e imprese pronti a investirli,<br />

è compito dei governi di questi ultimi spianare la strada alle<br />

imprese non firmando accordi in loro nome – il governo non è<br />

l’ufficio commerciale di una compagnia – ma cercando di ottenere<br />

rispetto della rule of law, dei contratti, eccetera. Guardando<br />

ancora più avanti, i paesi consumatori hanno tutto l’interesse<br />

di promuovere, nell’ambito degli accordi bi- e multi-laterali<br />

coi paesi produttori, politiche di maggiore apertura nell’upstream,<br />

e idealmente politiche di privatizzazione delle risorse<br />

6 BORUT GRGIC, “Addicted to Russian Gas”, The Wall Street Journal, 19<br />

ottobre 2006.<br />

189


naturali. In questa maniera si potrebbe incoraggiare un uso efficiente<br />

delle risorse, e fornire ai produttori un orizzonte temporale<br />

assai lungo nel quale pianificare i loro investimenti 7. La privatizzazione<br />

delle risorse è utile in due sensi: in primo luogo, garantendo<br />

allo scopritore diritti di uso esclusivo sui giacimenti che<br />

egli ha trovato, si crea un incentivo a sfruttare le risorse in maniera<br />

sostenibile, e a investire in modo tale da garantire i flussi futuri.<br />

Quindi, si tenderà ad adottare tecnologie tali da non rovinare<br />

il giacimento. In secondo luogo, l’incentivo a cercare giacimenti<br />

è più forte perché lo scopritore, anche casuale, sa di poterne<br />

trarre vantaggio. A questo scopo può essere utile confrontare<br />

la situazione di due paesi come gli Stati Uniti e l’Argentina: nel<br />

primo caso, chi scopra petrolio o gas su un suo terreno è felice;<br />

in Argentina, no. Perché? Perché negli Usa il proprietario del<br />

terreno potrà trarre vantaggio dalla ricchezza del sottosuolo, in<br />

Argentina molto probabilmente subirà una perdita di valore e<br />

dovrà accettare regolamentazioni ad hoc e l’ingresso di soggetti<br />

terzi, senza averne alcun beneficio. Come racconta Guillermo<br />

Yeatts, “la proprietà pubblica del sottosuolo genera un disincentivo<br />

per il proprietario del terreno in superficie”. Spesso la compensazione<br />

per i danni arrecati dalle attività estrattive non è neppure<br />

adeguata. Quindi i proprietari talvolta tendono a tenere segreti<br />

i loro eventuali sospetti sull’esistenza di riserve nel sottosuolo.<br />

Al contrario, se venisse loro riconosciuto qualche diritto sulle<br />

ricchezze sottostanti, “analizzerebbero la relativa profittabilità<br />

delle destinazioni d’uso (agricola o industriale) della superficie<br />

rispetto a quella dello sfruttamento minerario... Il ‘motivo del<br />

profitto’ li spingerà a scegliere l’alternativa più conveniente, generando<br />

maggiore benessere per la società attraverso dell’assegnazione<br />

delle risorse all’uso più efficiente” 8. Sebbene le proba-<br />

7 Si veda ROBERT L. BRADLEY JR., “Derechos privados sobre el subsuelo<br />

para el bien pùblico: experiencia de los Estados Unidos respecto del petròleo<br />

y el gas”, in AA.VV., Propiedad del subsuelo y privatizaciòn en América Latina.<br />

Il capitolo è disponibile online all’indirizzo http://instituteforenergyresearch.<br />

org/spanish_book.pdf.<br />

8 GUILLERMO YEATTS, Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization<br />

in Argentina, p. 71.<br />

190


ilità di una privatizzazione del sottosuolo non siano molto alte<br />

nella maggior parte dei paesi produttori, la prospettiva resta valida<br />

e resta ragionevole, dal punto di vista dei paesi consumatori,<br />

promuovere un’evoluzione in tale direzione, per esempio cercando<br />

di ottenere libertà di accesso per le compagnie internazionali<br />

nell’upstream dei paesi produttori.<br />

Perché le compagnie internazionali entrino sul mercato di<br />

monte non basta che i loro diritti a sfruttare i giacimenti che esse<br />

trovano siano protetti. Occorre una generale revisione del<br />

contesto istituzionale che garantisca la rule of law, la libertà di<br />

contratto e d’intrapresa, la possibilità di competere con altre imprese<br />

internazionali e, se esistenti, con le imprese nazionali<br />

(pubbliche e no). In altre parole, sarebbe opportuno che i paesi<br />

consumatori cercassero, anche attraverso iniziative congiunte<br />

e nelle sedi più opportune, di promuovere processi di liberalizzazione<br />

sui mercati a monte. Alla vigilia del G8 di San Pietroburgo,<br />

che era consacrato ai temi della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, il<br />

giornalista dell’Economist Vijay Vaitheeswaran ha scritto che, se<br />

la riunione doveva produrre fatti concreti, avrebbe dovuto<br />

“concentrarsi sulla liberalizzazione dei mercati. Le pie grida della<br />

Russia di essere un fornitore di gas affidabile sarebbero più<br />

credibili se Putin la smettesse di colpire gli investimenti privati<br />

nell’energia e aprisse la rete di pipelines del paese. La Commissione<br />

Europea deve prendere di petto quegli Stati membri che<br />

impediscono la liberalizzazione dell’energia (specialmente<br />

Francia e Spagna, che hanno avuto atteggiamenti recalcitranti di<br />

recente). E solo se l’America abbandona l’eccessiva burocratizzazione<br />

delle procedure per aprire un terminale Gnl al paese<br />

sarà garantita un’offerta crescente di questo combustibile pulito<br />

e abbondante” 9. Anche da questo punto di vista, una politica<br />

estera orientata a chiedere liberalizzazioni (che peraltro sarebbero<br />

nell’interesse degli stessi cittadini del paese produttore,<br />

perché garantirebbero una maggior facilità nell’agganciare il<br />

treno dello sviluppo) è tanto più credibile quanto più è coerente<br />

con politiche energetiche ed economiche adottate interna-<br />

9 VIJAY V. VAITHEESWARAN, “Abominable Gasman?”, The Wall Street<br />

Journal, 30 marzo 2006.<br />

191


mente al paese consumatore. Un paese protezionista non ha una<br />

grande forza contrattuale, politica o morale nel chiedere l’apertura<br />

dei mercati stranieri, perché dà la sensazione di puntare solo<br />

alla tutela dei suoi interessi particolari. Ancora peggio, dà la<br />

sensazione di non credere che un mercato liberalizzato sia intrinsecamente<br />

più efficiente o funzionale, e quindi si espone alla<br />

più scontata delle critiche: “se tu non lo fai nella convinzione<br />

che sia nocivo per la tua economia o perché la ragion politica è<br />

superiore agli eventuali guadagni in termini di efficienza economica,<br />

come puoi pretendere che lo faccia io che oltre tutto ho<br />

un sistema economico più fragile?”. La domanda è destinata a<br />

restare senza risposta. Quel che è peggio è che, idealmente, una<br />

liberalizzazione lungo tutta la filiera dei combustibili fossili<br />

avrebbe enormi vantaggi sul funzionamento dei mercati, sulla<br />

<strong>sicurezza</strong>, e sulla competizione tra le diverse fonti. Quindi la difesa<br />

protezionistica dei mercati di valle, pur non essendone la<br />

causa, contribuisce a rafforzare i sostenitori del protezionismo e<br />

della statalizzazione nei paesi produttori, e in questa maniera ha<br />

un effetto sui mercati globali.<br />

6.3. Il ruolo dell’Unione Europea<br />

Se questo è lo scenario, l’Unione Europea può giocare un<br />

duplice, fondamentale ruolo nella produzione di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

Tale ruolo è esplicitamente riconosciuto in un numero di<br />

atti o dichiarazioni ufficiali, compreso il Libro verde sulla <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Sono in particolare due i modi in cui l’Ue può<br />

essere un attore fondamentale nella ricerca di <strong>sicurezza</strong>: attraverso<br />

il coordinamento delle politiche nazionali e la promozione<br />

della loro integrazione; e attraverso la formazione di una<br />

“coalizione di consumatori” che sappia esercitare sui paesi produttori<br />

i generi di pressione descritti sopra, con la consapevolezza<br />

di parlare a nome di uno dei mercati più vasti del mondo<br />

(in termini di consumi).<br />

Intervistato dal Corriere della Sera in merito al più recente<br />

accordo tra Eni e Gazprom sul prolungamento dei contratti di<br />

lungo termine e altre forme di cooperazione, l’ex presidente<br />

192


dell’Autorità per l’energia Pippo Ranci ha evidenziato due linee<br />

di fondo che l’Unione Europea potrebbe seguire per rafforzare<br />

la <strong>sicurezza</strong> interna: “indipendenza delle reti e trasparenza<br />

delle transazioni commerciali”. Perché tali politiche – a cui<br />

si aggiunge, come corollario indispensabile, la spinta verso un<br />

maggior livello d’interconnessione tra i mercati energetici nazionali<br />

– siano perseguite non serve, secondo Ranci, un’autorità<br />

dell’energia unica a livello europeo: “il problema non è di figure,<br />

è di poteri... Sono convinto che si debba far sentire la forza<br />

dell’Europa, ma per questo non c’è bisogno di uno ‘zar dell’energia’.<br />

Il sistema c’è, si può potenziare, basta far lavorare di<br />

più le strutture che già ci sono” 10. Che questa debba essere la<br />

direzione sta scritto anche nel libro verde della Commissione<br />

Europea: “nel luglio 2007, con pochissime eccezioni, ogni consumatore<br />

europeo avrà il diritto di acquistare elettricità e gas<br />

da ogni fornitore europeo. Questo offre una grande opportunità<br />

all’Europa. Ma anche se molto è stato fatto per creare un<br />

mercato competitivo, il lavoro non è finito. Molti mercati restano<br />

largamente nazionali e dominati da poche compagnie. Restano<br />

molte differenze tra gli approcci degli Stati membri all’apertura<br />

del mercato, impedendo lo sviluppo di un mercato europeo<br />

autenticamente competitivo – compresi i poteri dei regolatori,<br />

i livelli di indipendenza dei gestori delle reti dalle attività<br />

competitive, le regole di rete, i regimi di bilancio e di stoccaggio<br />

del gas” 11. Se infatti il mercato è garanzia di <strong>sicurezza</strong> – nel<br />

senso che una cornice di mercato consente di dare un valore alla<br />

<strong>sicurezza</strong>, e garantisce la possibilità di effettuare in maniera<br />

decentralizzata la scelta nel trade off tra prezzo e <strong>sicurezza</strong> – allora<br />

gli effetti benefici sono tanto più visibili quanto più è esteso<br />

il mercato stesso. Idealmente, quindi, l’Europa dovrebbe<br />

perseguire un’integrazione non solo del mercato interno, ma<br />

anche coi mercati esterni, siano essi confinanti oppure no, sulla<br />

base che, stante una situazione di interdipendenza, il mag-<br />

10 GABRIELE DOSSENA, “Ranci: la Gazprom fuori dal controllo dei gasdotti”,<br />

Il Corriere della Sera, 18 novembre 2006.<br />

11 COMMISSIONE EUROPEA, “A European Strategy for Sustainable, Competitive<br />

and Secure Energy”, pp. 5-6.<br />

193


gior numero di legami economici rende meno probabile o più<br />

costosa (o più facilmente riparabile) l’emergere di minacce alla<br />

<strong>sicurezza</strong>. Quel che è essenziale, ancora una volta, è la regola<br />

della diversificazione: per riprendere la citazione di Winston<br />

Churchill riportata all’inizio di questo paper, la <strong>sicurezza</strong> sta<br />

nella varietà. La varietà stessa ha un costo, ma è probabile che<br />

un sistema di mercato sappia far emergere un numero di competitori<br />

sufficientemente ampio da garantire indirettamente la<br />

necessaria varietà.<br />

Sia a livello nazionale, sia europeo la politica <strong>energetica</strong> ed<br />

estera si intersecano pure su un altro piano: quello della <strong>sicurezza</strong><br />

nazionale. Poiché dalla disponibilità di energia affidabile<br />

dipende l’intero sistema economico di un paese, alcuni sostengono<br />

che la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> abbia i caratteri del bene pubblico<br />

e che quindi qualche forma di intervento pubblico – come<br />

regolamentazioni orientata a favorire la diversificazione delle<br />

fonti oppure forme di programmazione – sia necessaria. Tale<br />

tesi è spesso gettonata anche a livello europeo. Vale la pena,<br />

però, osservare che, per quel che riguarda le politiche pubbliche<br />

di diversificazione, esse per loro natura sono inefficienti in<br />

quanto inevitabilmente devono favorire alcune fonti di energia<br />

a scapito di altre. Ciò significa in primo luogo che fonti di energia<br />

relativamente non economiche o non efficienti – che quindi<br />

non avevano trovato grande spazio sul mercato – vengono<br />

automaticamente promosse. Significa anche che gli sforzi delle<br />

imprese saranno maggiormente orientati verso la compliance<br />

con gli standard individuati per via politica o burocratica e saranno<br />

meno attenti all’innovazione, sia perché dovranno comunque<br />

sacrificare risorse su fonti energetiche alternative e costose,<br />

sia perché il costo opportunità dell’innovazione sarebbe<br />

maggiore. Per quel che riguarda la programmazione, essa rischia<br />

di generare problemi su un altro versante ancora: centralizzando<br />

le scelte, si perdono informazioni rilevanti che, invece,<br />

in un sistema di mercato avrebbero potuto essere utili a far<br />

emergere nuove soluzioni. Questo non significa che la politica<br />

non debba avere un ruolo, semplicemente perché quella politica<br />

è, in maniera sostanziale, una dimensione della questione<br />

<strong>energetica</strong>. Il problema è semmai assegnare alla politica un ruo-<br />

194


lo di vasto respiro e non di micromanagement delle dinamiche<br />

interne ai mercati energetici. A sostegno della programmazione,<br />

Alberto Clô evidenzia come – se c’è una carenza di investimenti<br />

– due linee imprescindibili siano “accelerare lo sviluppo<br />

degli investimenti tesi ad accrescere la capacità produttiva e infrastrutturale,<br />

così da ricostruire margini di riserva e di flessibilità<br />

operativa nei dei flussi internazionali” e “introdurre aggiustamenti<br />

nel market design dei sistemi energetici nazionali,<br />

in modo da garantire agli agenti economici quei margini di certezza<br />

che ne favorirebbero le decisioni di investimento” 12. Clô<br />

ha sicuramente ragione nella diagnosi: le imprese, in Europa,<br />

hanno un drammatico problema di investimenti e questo deriva<br />

in misura significativa da una mancanza di certezza. Se, attraverso<br />

politiche pubbliche appropriate, fosse garantito loro<br />

un ritorno, investirebbero e la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> ne guadagnerebbe.<br />

Il problema è duplice, in questa prospettiva: da un<br />

lato, cosa garantisce che le politiche pubbliche possano individuare<br />

l’entità corretta degli investimenti, e sappiano scegliere<br />

quegli investimenti che effettivamente sono utili, distinguendoli<br />

da quelli che rappresentano un mero tentativo di rent<br />

seeking? Non è peregrino neppure il sospetto che le politiche<br />

pubbliche possano produrre un eccesso di investimenti, e quindi<br />

di capacità produttiva, con scarso beneficio per i consumatori.<br />

Secondariamente, e più fondamentale, non c’è alcuna garanzia<br />

che l’interventismo pubblico produca certezza, anzi:<br />

poiché le decisioni politiche sono soggette a mutazioni rapide,<br />

dovute ai cambiamenti di maggioranza o alla volatilità dell’opinione<br />

pubblica, il risultato potrebbe addirittura essere opposto<br />

a quello desiderato 13.<br />

Piuttosto, il compito che oggi spetta al ceto politico europeo<br />

è quello di immaginare una profonda revisione di quella che<br />

è stata finora la politica <strong>energetica</strong> degli Stati membri, nella convinzione<br />

che l’interventismo produca più costi che benefici, soprattutto<br />

se guardato con un’ottica di lungo termine. Questo<br />

compito richiede consapevolezza di quel che c’è in gioco e au-<br />

12 ALBERTO CLÔ, “L’energia come <strong>sicurezza</strong> nazionale”, p. 112.<br />

13 Sul tema si veda BRUNO LEONI, La libertà e la legge.<br />

195


tonomia, oltre che visione. Le resistenze sono fortissime, come<br />

dimostrano anche le innumerevoli difficoltà che il processo di<br />

liberalizzazione ha incontrato anche nella sua prima fase. Non<br />

tutte le obiezioni sono sbagliate: quando si tratta di gestire la<br />

transizione verso un regime liberalizzato si possono adottare<br />

percorsi diversi e più o meno graduali. Inoltre, il senso delle liberalizzazioni<br />

dovrebbe essere quello di rimuovere barriere all’ingresso,<br />

non indebolire i soggetti dominanti o gli ex monopolisti<br />

per il puro gusto di ridurne le dimensioni o per sadico accanimento,<br />

come talvolta sembra accadere. Il senso delle liberalizzazioni<br />

è un altro: “il modo più efficace per accrescere il potere<br />

del compratore – scrive Ranci – è quello di dotarlo di alternative.<br />

La costruzione delle infrastrutture (gasdotti, terminali) e<br />

il rafforzamento delle procedure di cooperazione europea vanno<br />

in questa direzione. Gli approvvigionamenti... andranno a riversarsi<br />

in un mercato europeo all’ingrosso che consentirà contrattazioni<br />

continue e intense, e quindi li metterà in condizione<br />

di competere tra di loro” 14.<br />

Al tempo stesso, una politica europea comune – che però<br />

oggi non è di fatto possibile perché il Trattato non concede alla<br />

Commissione poteri in tal senso – potrebbe essere utile nel<br />

rafforzare il peso delle pressioni politiche esercitate sui paesi<br />

produttori. “L’energia è una sfida per tutta l’Europa – ha scritto<br />

Fulvio Conti – I prezzi dell’elettricità e del gas sono cresciuti<br />

drammaticamente e ci sono stati fenomeni di scarsità in molti<br />

punti del sistema. Questa non è una sfida che possa essere vinta<br />

da 27 micro-mercati indipendenti. Deve essere affrontata da<br />

imprese europee abbastanza grandi da negoziare con grossi fornitori,<br />

ma deve anche essere affrontata con una sola voce... L’attuale<br />

normativa ha consentito a molti incumbents di mantenere<br />

posizioni dominanti, spesso giustificate appellandosi alla <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Questo è miope e va nella direzione sbagliata.<br />

La competizione e la <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti non si<br />

escludono a vicenda. In realtà, è solo una piena competizione su<br />

un mercato unico che produrrà le efficienze e gli investimenti<br />

14 PIPPO RANCI, “La <strong>sicurezza</strong> delle forniture di energia”, in CLAUDIO DE<br />

VINCENTI e ADRIANA VIGNERI (a cura di), Le virtù della concorrenza, p. 275.<br />

196


necessari a mantenere l’energia sicura, competitiva e sostenibile.<br />

Questa è la ragione per cui abbiamo bisogno di una nuova legislazione<br />

per l’Europa come un unico mercato, applicata da autorità<br />

nazionali davvero indipendenti” 15. È chiaro anche da questo<br />

intervento come la proiezione all’estero dell’unità europea<br />

dipenda dall’abilità di costruire un mercato interno capace di<br />

eliminare gli steccati nazionali: solo in questo modo sarà possibile<br />

perseguire il duplice obiettivo suggerito da Wolfgang Munchau,<br />

“nel breve termine formulare una posizione condivisa, nel<br />

lungo termine ridurre la sua dipendenza dal gas russo”, cioè<br />

perseguire strategie di diversificazione 16.<br />

Il problema è che gli Stati membri dell’Unione Europea<br />

concepiscono spesso l’energia non come una questione che investe<br />

anche la <strong>sicurezza</strong> nazionale, ma come una faccenda di mera<br />

<strong>sicurezza</strong> nazionale e, quindi, sono restii perfino all’idea di<br />

metterla in comune per trovare una linea condivisa. Riverberano,<br />

qui, le stesse divisioni che hanno finora impedito di completare<br />

il processo verso l’integrazione dei mercati: non è possibile<br />

immaginare un’unica strategia se gli attori interessati perseguono<br />

fini diversi con mezzi differenti o addirittura in conflitto.<br />

Particolarmente rilevante, a questo fine, è, secondo Dieter<br />

Helm, immaginare una cornice che faciliti lo scambio di informazioni<br />

tra i vari paesi: questo perché, in un regime liberalizzato<br />

e interconnesso, quel che accade in una nazione ha effetti su<br />

tutta l’Europa. Inoltre, anche in risposta all’inevitabile dipendenza<br />

da un numero ristretto di fornitori, un analogo scambio<br />

di informazioni su tutti i contratti di lungo termine che hanno<br />

come destinazione l’Europa. Analogamente, “è inevitabile, e desiderabile,<br />

che il transito del gas richieda lo sviluppo di una cornice<br />

di accordi politici, ed essa ha inevitabilmente una dimensione<br />

europea” 17.<br />

15 FULVIO CONTI, “Europe needs to act as one on energy supply”, Financial<br />

Times, 17 novembre 2006.<br />

16 WOLFGANG MUNCHAU, “Eu needs a joint response”, Financial Times,<br />

7 maggio 2006.<br />

17 DIETER HELM, “European Energy Policy: Securing supplies and meeting<br />

the challenges of climate change”, p. 5.<br />

197


Coerentemente con questo approccio, la Commissione Europea<br />

ha inviato una comunicazione al Consiglio d’Europa, nella<br />

quale si afferma che “l’Unione dovrebbe usare tutto il suo peso<br />

nelle attuali e future negoziazioni e accordi bilaterali, offrendo<br />

soluzioni bilanciate e basate sul mercato, prima di tutto coi<br />

suoi fornitori tradizionali, ma anche con altri grandi paesi produttori<br />

e consumatori. La Commissione dovrebbe essere un elemento<br />

fondamentale nella revisione degli accordi internazionali,<br />

inclusa l’estensione del quadro regolatorio europeo in materia<br />

di energia ai vicini (la Comunità <strong>energetica</strong>), lo sviluppo del<br />

trattato sulla Carta dell’energia, il regime post-Kyoto, un accordo<br />

quadro sull’efficienza <strong>energetica</strong>, l’estensione dello schema<br />

di emission trading ai partner globali, la promozione della ricerca<br />

e l’uso dell’energia rinnovabile. Il ruolo della Commissione<br />

nelle organizzazioni e nei fora internazionali deve essere ulteriormente<br />

sviluppato. Gli Stati membri e la Commissione dovrebbero<br />

coordinare le loro posizioni allo scopo di parlare con<br />

una sola voce in maniera efficace” 18. Tali affermazioni – condivisibili<br />

in linea di principio – offrono il fianco tre critiche.<br />

La prima è quella di essere un esercizio di wishful thinking:<br />

da anni discute attorno all’opportunità di potenziare le competenze<br />

della Commissione in materia di politica <strong>energetica</strong>, ma<br />

poco o nulla è stato fatto, tanto che gli interventi più sostanziali<br />

sono in verità incursioni che riguardano il profilo antitrust o<br />

la <strong>regolazione</strong> del mercato interno. La ragione è, semplicemente,<br />

che gli Stati membri – sopratutto quelli con una politica <strong>energetica</strong><br />

più strutturata – non hanno alcuna intenzione di abbandonare<br />

questa leva tanto importante.<br />

La seconda è che si ha la sensazione che la Commissione<br />

faccia fatica ad affrontare questo tema senza rendere il dovuto<br />

ma verboso omaggio a una serie di concetti che, a ben vedere,<br />

conducono su una strada opposta: dalla lotta ai cambiamenti climatici<br />

agli investimenti sulle energie rinnovabili (arrivando addirittura,<br />

in questo campo, a quasi ridisegnare uno dei capisaldi<br />

dell’azione della Commissione e ammettendo, anzi incorag-<br />

18 COMMISSIONE EUROPEA, “External energy policy – from principles to<br />

action”, p. 3.<br />

198


giando, gli aiuti di Stato) 19. Se davvero si vuole fare dei passi significativi,<br />

occorre individuare target precisi, specifici e realistici:<br />

se ogni volta si impegnano tempo e forze per ribadire atti di<br />

fede nei confronti di alcune politiche, che peraltro possono contrastare<br />

con l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, allora difficilmente<br />

si otterrà un cambiamento. Ugualmente grave è la tendenza<br />

– manifesta per esempio nella Energy strategy review pubblicata<br />

il 10 gennaio 2007 20 – a fissare target rotondi quando utopistici<br />

per la politica ambientale europea (20 per cento di energie<br />

rinnovabili entro il 2020, 20 per cento di risparmio energetico<br />

entro il 2020, 20 per cento di riduzione delle emissioni entro<br />

il 2020): Ad impossibilia nemo tenetur è un moto di cui anche<br />

i policy maker dovrebbero tener conto nell’assegnare obiettivi<br />

(più o meno desiderabili) ai loro paesi e all’industria.<br />

Anche alla luce di queste riflessioni, destano qualche perplessità<br />

le decisioni del Consiglio Europeo dell’8-9 marzo 2007,<br />

che ha posto le basi della nuova politica <strong>energetica</strong> europea<br />

adottando e rendendo vincolanti i target di riduzione delle emissioni<br />

del 20 per cento al di sotto dei livelli del 1990, ridurre del<br />

20 per cento rispetto al tendenziale la domanda di energia, e<br />

portare le rinnovabili a una quota del 20 per cento del consumo<br />

energetico complessivo (con un sotto-target del 10 per cento per<br />

la quota di mercato dei biocarburanti) entro il 2020 21. Tali obiettivi<br />

andrebbero raggiunti attraverso la definizione di target nazionali<br />

differenziati, che tengano conto delle specificità di ciascun<br />

paese (un punto particolarmente spinoso riguarda il modo<br />

in cui verrà trattato il nucleare: pur essendo una fonte non rinnovabile,<br />

ha un tasso di emissioni virtualmente nullo) 22. C’è, qui,<br />

un duplice problema.<br />

19 GEORGE PARKER, “EU to allow more state funding for innovation”, Financial<br />

Times, 22 novembre 2006.<br />

20 COMMISSIONE EUROPEA, “An energy policy for Europe”.<br />

21 Tali obiettivi sono fissati rispettivamente ai punti III.32 delle Conclusioni,<br />

e IV.6, e IV.7 dell’Action Plan del Consiglio Europeo dell’8-9 marzo 2007.<br />

22 La formulazione precisa, e volutamente ambigua, si trova al punto<br />

IV.7: “A partire dall’obiettivo generale sulle rinnovabili, dovranno essere ricavati<br />

obiettivi nazionali complessivi differenziati, col pieno coinvolgimento degli<br />

Stati membri e col dovuto riguardo a un’allocazione equa e adeguata che<br />

199


In primo luogo, molti osservatori ritengono l’obiettivo del<br />

20 per cento di energia rinnovabile – inizialmente si parlava del<br />

20 per cento del consumo primario, in seguito si è iniziato a far<br />

riferimento ai consumi finali, facendo aggio sull’ambiguità del<br />

relativo passaggio nelle conclusioni del Consiglio Europeo –<br />

semplicemente irraggiungibile. Dal punto di vista di mercati<br />

dell’energia, l’orizzonte temporale che ci separa dal 2020 è strettissimo,<br />

e probabilmente insufficiente a un riassetto complessivo<br />

del sistema energetico europeo. Inoltre, la creazione ope legis<br />

di un largo parco di energie rinnovabili, senza pari al mondo,<br />

avrà un costo difficile da calcolare ma senza dubbio rilevante,<br />

il quale a sua volta peserà sulla competitività delle imprese<br />

europee – in apparente contraddizione con gli obiettivi della<br />

strategia di Lisbona, peraltro esplicitamente richiamati nello<br />

stesso documento del Consiglio Europeo 23.<br />

Secondariamente, l’obiettivo del 20 per cento di rinnovabili<br />

rispetto al consumo totale di energia va “spacchettato” nelle<br />

sue componenti: posto il 10 per cento di biocarburanti, il resto<br />

dovrà dividersi tra il riscaldamento/condizionamento dell’aria e<br />

il settore elettrico: secondo le stime di Claude Turmes, portavoce<br />

del gruppo Verdi del Parlamento Europeo, la quota di rinnovabili<br />

dovrà essere rispettivamente del 25 e del 35 per cento 24 (è<br />

probabile che Turmes abbia sovrastimato il contributo che le<br />

rinnovabili potranno dare al riscaldamento/condizionamento, e<br />

conseguentemente sottostimato quello che dovranno dare alla<br />

generazione elettrica). Allo stato attuale, “rinnovabili” significa<br />

tenga conto dei diversi punti di partenza nazionali e dei potenziali, compresi<br />

gli attuali livelli di energia rinnovabile e il mix energetico e, fatto salvo l’obbligo<br />

di rispettare l’obiettivo minimo per i biocarburanti in ciascuno Stato membro,<br />

lasciando agli Stati membri la decisione sui target nazionali per ogni specifico<br />

settore delle energie rinnovabili (elettricità, riscaldamento e condizionamento,<br />

biocarburanti)”. Al momento in cui questo studio viene compilato, è<br />

ancora attesa una direttiva europea sulle energie rinnovabili, che secondo le<br />

previsioni dovrebbe essere elaborata entro il terzo quadrimestre 2007.<br />

23 Punti da I.1 a I.4 delle Conclusioni.<br />

24 “European Council’s Energy Action Plan”, Platts.com News, 16 marzo<br />

2007, http://www.platts.com/Electric%20Power/Resources/News%20Featu<br />

res/energyaction/index.xml.<br />

200


“sussidi” o altre forme di protezione regolatoria, perché le fonti<br />

rinnovabili non possono essere in alcun altro modo competitive.<br />

Viene dunque da chiedersi come ciò sia compatibile con l’idea<br />

di liberalizzazione del settore elettrico – con la parte di nonmercato<br />

davvero sostanziale – e quindi coi propositi di creazione<br />

del mercato interno ribaditi dal Consiglio Europeo 25. Analogamente,<br />

se questa preoccupazione è fondata, un obiettivo tanto<br />

ambizioso sulle rinnovabili rischia di entrare in rotta di collisione<br />

con lo sforzo di rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, che come<br />

si è visto si alimenta della presenza di mercati liberi, competitivi<br />

e diversificati. Pure la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> fa parte della<br />

strategia individuata dal Consiglio Europeo 26.<br />

A questo proposito giova ricordare la critica di Lovelock:<br />

“l’Europa ha seriamente danneggiato la sua campagna e al tempo<br />

stesso la sua competitività nel mondo grazie a quella miscela<br />

bizantina di sussidi, crediti e contrattazioni che è stata chiamata<br />

politica comunitaria agricola. Ora sembra determinata a perseguire<br />

un’ancora più folle politica comunitaria <strong>energetica</strong>. Ciò<br />

che è rimasto del paesaggio tedesco è stato degradato dall’installazione<br />

di diciassettemila enormi turbine a vento. L’Inghilterra<br />

sta seguendo rapidamente l’esempio tedesco, come ha già fatto<br />

la Danimarca” 27. Ancora una volta, Lovelock è forse eccessivo<br />

nel suo giudizio, ma pone un problema reale: quello non solo<br />

della fattibilità dell’obiettivo che l’Europa si è dato, ma anche<br />

della desiderabilità delle sue conseguenze. In altre parole, l’adozione<br />

di obiettivi estremi senza aver prima effettuato una valutazione,<br />

e una comparazione, dei costi e dei benefici rischia di<br />

rivelarsi una scommessa perdente.<br />

Oltre tutto, l’insistenza su target che a molti appaiono irragionevolmente<br />

alti rischia di danneggiare la stessa causa ecologista,<br />

nella misura in cui essa incarna una sincera preoccupazione<br />

per le sorti dell’ambiente e la potenziale minaccia costituita<br />

dall’uso eccessivo di certe tecnologie che, accanto a evidenti benefici,<br />

impongono costi all’ecosistema. Come ha notato Lawren-<br />

25 Ai punti I.7-I.12 delle Conclusioni e I.1-I.2 dell’Action Plan.<br />

26 Punto II.3 dell’Action Plan.<br />

27 JAMES LOVELOCK, La rivolta di Gaia, p. 112.<br />

201


ce Summers – un sostenitore delle politiche climatiche e dell’esigenza<br />

di combattere il riscaldamento globale attraverso la riduzione<br />

delle emissioni – “le visioni utopistiche e le ambizioni<br />

non temperate dalla realtà politica, economica e sociale possono<br />

essere controproducenti” 28.<br />

Infine, “politica <strong>energetica</strong> comune” non può e non deve significare<br />

programmazione a livello europeo, per le stesse ragioni,<br />

già ricordate, per cui è sensato dubitare della bontà della pianificazione<br />

centrale a livello nazionale. Per esempio, recentemente<br />

due grandi imprese europee sono state più o meno apertamente<br />

criticate per aver raggiunto accordi autonomi con Gazprom<br />

sulla fornitura di gas 29. In parte le critiche possono essere<br />

giustificate, perché riflettono un più generale problema di scarso<br />

coordinamento fra paesi (gli accordi commerciali intersecano<br />

negoziazioni politiche). Ma bisogna anche tener conto del<br />

fatto che, talvolta, per poter essere firmati i contratti devono essere<br />

discussi in maniera riservata, e non possono essere trattati<br />

su un piano diverso da quello meramente economico e industriale.<br />

<strong>Politica</strong> <strong>energetica</strong> europea, dunque, non può e non deve<br />

implicare il diritto della Commissione o di altri enti di sindacare<br />

le strategie aziendali delle imprese che operano nel campo<br />

dell’energia: deve semmai riguardare la costruzione di una cornice<br />

nella quale le imprese possano operare, e il tentativo di ottenere<br />

passi avanti nella stessa direzione anche sui mercati dei<br />

paesi produttori.<br />

6.4. Il rapporto con la Russia<br />

L’esigenza di sviluppare una politica <strong>energetica</strong> europea è<br />

particolarmente evidente nel confronto con la Russia. L’energia<br />

è, infatti, la nuova bomba globale che Mosca agita per imporsi<br />

sulla scena internazionale. Da dove deriva tale potenza? Dalla<br />

28 LAWRENCE SUMMERS, “We need to bring climate idealism down to<br />

Earth”, Financial Times, 30 aprile 2007.<br />

29 GIUSEPPE SARCINA, “Eni-Gazprom, missione di Scaroni a Bruxelles”,<br />

Il Corriere della Sera, 22 novembre 2006.<br />

202


natura: la Russia ha riserve provate di gas per 47 mila miliardi di<br />

metri cubi, le più grandi al mondo (seguono Iran e Qatar). Le<br />

riserve russe di petrolio, per quanto considerevoli, non sono tali<br />

da poter parlare di geopolitica del greggio verso l’Europa; anche<br />

in considerazione della presenza di supplier / concorrenti<br />

più importanti e meglio posizionati nel Golfo persico. Quindi il<br />

tema del petrolio di Mosca viene trattato solo lateralmente per<br />

concentrarsi sul gas, questo sì essenziale per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

della Ue e dell’Italia in particolare.<br />

Per quanto concerne la produzione russa di gas naturale, essa<br />

ha sfiorato i 600 miliardi di metri cubi nel 2005; nel 2006 sarebbe<br />

cresciuta fino a 640 miliardi di metri cubi 30. La parte del<br />

leone l’ha fatta naturalmente Gazprom; tuttavia si è assistito ad<br />

una progressiva, seppur parziale, diversificazione, grazie all’aumento<br />

della produzione da parte delle compagnie energetiche<br />

russe indipendenti. Questa è aumentata da 29 a quasi 45 miliardi<br />

di metri cubi negli ultimi cinque anni, e si è attestata a circa 47-48<br />

miliardi a fine 2005, con la prospettiva di crescere ancora fino a<br />

100 miliardi di metri cubi entro il 2008-2010. Invece la produzione<br />

di Gazprom aumenta a ritmi abbastanza bassi, nell’ordine<br />

dell’1,7 per cento nel 2004 e dello 0,8 per cento nel 2005, fermandosi<br />

a 547,2 miliardi di metri cubi, a fronte di una previsione iniziale<br />

di circa 580-590 miliardi di metri cubi (Figura 22).<br />

Se si esclude Gazprom, le più ingenti riserve di gas naturale<br />

in Russia sono attualmente possedute da Lukoil (quasi 700<br />

miliardi di metri cubi). Tra le società petrolifere la produzione<br />

maggiore nel 2004 è stata effettuata da Surgutneftgas (14,3 miliardi),<br />

seguita da Rosneft (9,4 miliardi), Tnk-Bp (8 miliardi) e<br />

Lukoil (5 miliardi di metri cubi). Come scrive Sergio Rossi, “le<br />

compagnie petrolifere sono attratte soprattutto dall’esportazione,<br />

assai più redditizia delle vendite sul mercato interno russo,<br />

dato il prezzo relativamente calmierato del gas per il consumo<br />

nazionale. Pertanto esse sono interessate alla graduale liberalizzazione<br />

del mercato del gas naturale, che dovrebbe progredire<br />

soprattutto a partire dal 2006. In effetti, le esportazioni di gas<br />

30 Stime su dati Rosstat e Ministero dell’Industria ed Energia della Federazione<br />

Russa.<br />

203


Figura 22. Produzione di gas naturale in Russia. Fonte: Elaborazione e stime<br />

D&E su dati Rosstat e Ministero dell’Industria ed Energia della Federazione<br />

Russa, gennaio 2006.<br />

naturale russo, aumentate del 6,3 per cento nel 2004, nel 2005<br />

hanno accresciuto la propria dinamica fino all’8 per cento” 31.<br />

Secondo lo stesso autore, i maggiori acquirenti europei di gas<br />

naturale russo nel recente passato sono stati la Germania (31,3<br />

miliardi di metri cubi), l’Italia (21,5 miliardi) e la Francia (13,3 miliardi)<br />

coprendo un terzo dell’export russo, mentre la Turchia ha<br />

acquistato altri 14,5 miliardi di metri cubi, attraverso il gasdotto<br />

del Mar Nero (“Blue Stream”). Tra i paesi Csi, i maggiori clienti<br />

sono stati l’Ucraina (32,3 miliardi di metri cubi), e la Bielorussia<br />

(17,8 miliardi); ma si tratta di forniture a prezzi agevolati che sono<br />

il casus belli della disputa tra Mosca e Kiev del dicembre 2005gennaio<br />

2006, e di quella con Minsk a cavallo tra 2006-07.<br />

Breve excursus storico: origini ed affermazione di Gazprom<br />

Gazprom è un colosso energetico emerso dalle ceneri<br />

dell’ex ministero del Petrolio sovietico ed oggi divenuto supermonopolio<br />

sia di riserve gas nazionali che di condotte.<br />

31 Sergio A. Rossi, “L’arma spuntata di Putin”.<br />

204


Dopo la disintegrazione dell’Urss (1991), Viktor Chernomyrdin<br />

– allora capo di Gazprom e poco dopo Primo Ministro<br />

– immagina un piano per conservare l’unità delle infrastrutture<br />

e della rete di trasporto del gas di Russia, Ucraina<br />

e Bielorussia, naturalmente sotto il controllo di Gazprom.<br />

Chernomyrdin segue il principio fondamentale della<br />

gas-geopolitics: per vincere occorre non solo l’accesso a<br />

grandi riserve, ma anche un sistema efficiente e sicuro per<br />

arrivare ai mercati internazionali. Non basta avere il gas, bisogna<br />

anche poterlo consegnare in maniera pratica ed economica<br />

(questo è il problema degli idrocarburi del Caspio:<br />

sono land-locked). Corollario del principio di cui sopra: chi<br />

controlla le pipeline, controlla l’acquirente – e in qualche misura<br />

il paese produttore del gas.<br />

Quello di Chernomyrdin era buon piano ma fallì perché<br />

Ucraina e Bielorussia si rifiutarono di cedere il lucroso<br />

business del transito di gas. Dopo l’indipendenza Kiev e<br />

Minsk scelsero di nazionalizzare le pipeline esistenti sul loro<br />

territorio. I principali componenti della rete sovietica furono<br />

così suddivisi tra i tre Stati successori dell’Urss. Sembrava<br />

la sconfitta definitiva per Gazprom, ma in realtà era solo<br />

una momentanea battuta d’arresto. La compagnia decise di<br />

puntare ancora più in alto: impadronirsi di tutta la rete di<br />

transito del gas, non solo nell’ex Unione sovietica ma anche<br />

in Europa centro-orientale. Obiettivo finale: controllare<br />

l’intero sistema di distribuzione regionale del gas in Europa.<br />

Ad oggi, Gazprom ha realizzato solo in parte il suo piano.<br />

In Bielorussia, per esempio, la rete di gas-pipeline costruita prima<br />

dell’indipendenza e poi passata a Minsk è stata a lungo sotto<br />

il controllo della compagnia di Stato Beltransgaz. Però in base<br />

ad un accordo firmato alla fine del 2007, Gazprom dovrebbe<br />

coprire il 50 per cento della compagnia bielorussa a titolo di pagamento<br />

di debiti arretrati, e dunque anche il controllo della relativa<br />

rete in prospettiva. Rete da non confondere con la postsovietica<br />

Jamal-Europe pipeline, costruita da Gazprom e di sua<br />

205


proprietà, che trasporta il gas russo via Bielorussia verso la Polonia<br />

e poi la Germania. È in costruzione un raddoppio della linea<br />

(Jamal II), sempre sotto il controllo di Mosca. In Ucraina,<br />

la Soyuz pipeline e quella doppia Urengoi-Uzhgorod sono sotto<br />

il controllo di Kiev, almeno finora. Nella prima decade di ottobre<br />

2007 è stato firmato un accordo tra il presidente di Gazprom<br />

Alexci Miller e il ministro dell’energia ucranio Jurij Boiko<br />

riguardo al rimborso del debito pari a circa 1,2 miliardi di dollari<br />

che le società ucranie responsabili dell’importazione di metano<br />

hanno con Gazprom. Ma è solo una tregua.<br />

Per quanto riguarda il costo del metano russo per l’Ucrania<br />

il prezzo finale è stato di 130 dollari nel 2007, mentre per il 2008<br />

si prevedono 143 dollari per mille metri cubi. Con la Georgia è<br />

in corso un perenne braccio di ferro a causa delle pessime relazioni<br />

politiche tra Tbilisi e Mosca: a partire dal 1° gennaio 2007,<br />

Tbilisi paga 235 dollari (prima erano 110) per mille metri cubi<br />

di metano russo, il prezzo più alto tra i paesi Csi.<br />

Inoltre Gazprom, dopo aver aumentato le tariffe del gas per<br />

il 2007 ad Azerbaigian (235 dollari, come la Georgia) e Moldavia<br />

(170 dollari), prevede un rialzo del prezzo medio del gas<br />

esportato in Europa nel 2007-2008: da 255-259 dollari a 263-<br />

265 dollari per mille metri cubi.<br />

L’Armenia, nel tentativo di diversificare le sue fonti di approvvigionamento,<br />

sta costruendo una pipeline per connettersi<br />

all’Iran. Ma Gazprom insiste affinché il diametro del nuovo tubo<br />

sia più piccolo di quello originariamente concepito al fine di<br />

impedire che l’Armenia possa sifonare il surplus di gas iraniano<br />

alla Georgia. Altrove Gazprom guadagna terreno. In Estonia<br />

(Paese non considerato amico) Gazprom possiede più azioni<br />

(30,64 per cento) rispetto al governo estone (27 per cento) della<br />

Compagnia nazionale del gas, AS Eesti Gaas. Da sottolineare<br />

che Eesti Gaas possiede la rete di distribuzione del gas presente<br />

nel Paese baltico.<br />

Il catalogo delle compagnie penetrate da Gazprom nell’ex<br />

spazio sovietico include Gazsnabtranzit in Moldova (Gazprom<br />

possiede il 50 per cento del capitale autorizzato); la lituana Stella<br />

Vitae (Gazprom detiene il 30 per cento). Gazprom inoltre<br />

possiede il 25 per cento della lettone Latvias Gaze. Non solo,<br />

206


Gazprom, ha pure una significativa presenza oltre i confini dell’ex-Urss.Per<br />

esempio in Polonia: la rete di condotte del gas che<br />

attraversa il Paese è stata costruita insieme alla Russia, e Gazprom<br />

possiede una quota pari al 50 per cento. Gazprom infine<br />

controlla il 46 per cento della compagnia polacca EvRoPol Gaz.<br />

Emmanuel Bergasse, responsabile per l’Europa centroorientale<br />

dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, afferma:<br />

“Gazprom oggi ha un potere di mercato tale da essere in grado<br />

di portare direttamente il gas al consumatore finale”. Insomma,<br />

in teoria Gazprom può controllare tutta la catena del gas dall’estrazione<br />

fino alla caldaia di casa. Bergasse aggiunge: “Obiettivo<br />

dichiarato di Gazprom è di estendere la sua posizione dominante,<br />

con ovvie conseguenze per la diversificazione delle fonti<br />

di approvvigionamento dell’Europa” 32.<br />

In sintesi si stima che Gazprom fino ad oggi abbia speso 2,6<br />

miliardi di dollari in partecipazioni in decine di compagnie del<br />

gas europee: in Italia, Francia, Austria, Serbia, Grecia, Finlandia,<br />

Turchia, ed altri paesi.<br />

Potenza di Gazprom<br />

Cos’è Gazprom oggi?<br />

• la più importante compagnia di gas esistente (16 per<br />

cento delle riserve mondiali, 20 per cento della produzione);<br />

• la più grande impresa in assoluto dei mercati emergenti<br />

con una capitalizzazione di 160 miliardi di dollari;<br />

• assicura un quarto delle entrate fiscali russe;<br />

• possiede l’intera rete dei gasdotti russi e la maggior parte<br />

dei depositi di metano nel Paese;<br />

• è l’unica società a cui la legge della Federazione russa permette<br />

di esportare il metano fuori dai confini della Csi;<br />

• gestisce tutta la commercializzazione del gas – sia russo<br />

che centro-asiatico fornito al mercato internazionale.<br />

32 Da intervista a Radio Free Europe, si veda www.rferl.org.<br />

207


Lo Stato russo è il maggior azionista della compagnia.<br />

Nel dicembre 2005 la Duma ha dato il via libera alla privatizzazione<br />

di Gazprom (per attirare gli indispensabili investimenti<br />

stranieri), ma in realtà lo Stato continuerà per legge<br />

a detenere la maggioranza assoluta del pacchetto azionario<br />

(51 per cento) e dunque il controllo della compagnia. Da<br />

qui il nomignolo che gira a Mosca: Gosprom, perché in russo<br />

Gos significa statale.<br />

Inoltre la compagnia – dopo l’acquisizione di Sibneft<br />

nel 2005, allora di proprietà dell’oligarca buono (amico del<br />

Cremlino) Roman Abramovich, e dei bocconi migliori di<br />

Yukos (affaire Kodorkhovski) – controlla notevoli riserve di<br />

petrolio e mira a divenire in futuro il leader del mercato globale<br />

dell’energia.<br />

Ma anche Gazprom non è priva di problemi: perché obbedisce<br />

alle logiche del Cremlino più che a quelle del mercato<br />

con ovvie conseguenze sul piano operativo (vedi ritardi<br />

negli investimenti e nelle infrastrutture), e soprattutto<br />

perché le sue dimensioni colossali lo rendono uno strumento<br />

molto potente, ma poco flessibile.<br />

Secondo le stime di Mosca, il Pil della Russia supererà presto<br />

(potrebbe già essere accaduto mentre si legge) i livelli pre-<br />

1991 (data che corrisponde al crollo dell’Urss e dell’economia<br />

sovietica), grazie soprattutto all’export di idrocarburi. Nella<br />

strategia di potenza di Mosca, il controllo delle risorse energetiche<br />

è fondamentale. Gazprom nel 2005 ha esportato 152 miliardi<br />

di metri cubi di gas, di cui 146 verso l’Unione Europea, per<br />

un valore di 26 miliardi di dollari. Nel 2006, i profitti delle<br />

esportazioni sono cresciuti del 43 per cento, raggiungendo il livello<br />

recordo di 37,2 miliardi di dollari 33.<br />

Nel frattempo, è iniziata la costruzione del gasdotto North<br />

Stream (già noto come North European Gas Pipeline), avveniristico<br />

gasdotto sottomarino posato nel Mar Baltico che permet-<br />

33 http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/6273065.stm.<br />

208


terà a Gazprom di portare il gas russo in Germania e nel resto<br />

dell’Europa nord-occidentale, forse persino in Gran Bretagna.<br />

Bypasserà dunque Polonia, Bielorussia ed Ucraina, creando una<br />

via alternativa che ridurrà la dipendenza di Mosca dalla tradizionale<br />

via di transito terrestre degli idrocarburi verso i ricchi<br />

mercati europei; e metterà molti paesi dell’Est in difficoltà, se<br />

nel frattempo non avranno diversificato le loro fonti di approvvigionamento<br />

energetico (difficile che ciò accada in tempi brevi).<br />

Qualche rischio però c’è anche per l’Italia, che vedrà il baricentro<br />

energetico spostarsi inesorabilmente verso il Nord Europa.<br />

L’accordo per il gasdotto sottomarino fu firmato nell’aprile<br />

2005 da Putin con il cancelliere tedesco Gerhard Schröder e<br />

suggella la nascita di un asse energetico-strategico tra i due paesi:<br />

attualmente Mosca soddisfa il 32 per cento circa del fabbisogno<br />

energetico di Berlino, ma in futuro la cifra è destinata a crescere<br />

notevolmente, insieme alla dipendenza europea dagli idrocarburi<br />

russi. Particolare illuminante: oggi il pensionato (politico)<br />

Schröder ha un ruolo di responsabilità nel consorzio tra<br />

Gazprom e le tedesche Basf ed E.On, creato per costruire materialmente<br />

il North European.<br />

Le criticità di Gazprom<br />

Se Gazprom è stata il principale strumento del presidente<br />

Vladimir Putin nella riaffermazione del controllo nazionale<br />

sulle risorse energetiche, la scommessa politica ed<br />

economica della rinazionalizzazione non è esente da rischi.<br />

Il principale è quello dell’insostenibilità della domanda: talvolta<br />

si è denunciata la “politica dei due forni” che la Russia<br />

potrebbe perseguire, scegliendo di volta in volta se privilegiare<br />

il cliente europeo o quello cinese. In realtà non è da<br />

lì che proviene la vera minaccia. Essa dipende da due altri<br />

fattori: da un lato la rapida crescita dei consumi interni di<br />

gas (alimentata da un prezzo sussidiato e del tutto slegato<br />

dai mercati internazionali di circa 15,90 dollari per mille me-<br />

209


tri cubi di gas per gli utenti residenziali, 24,20 dollari per gli<br />

utenti industriali. Si tratta di tariffe pari a un decimo di quelle<br />

finlandesi e addirittura tra le venti e le trenta volte inferiori<br />

a quelle in vigore in Danimarca. La seconda, e potenzialmente<br />

esplosiva, criticità sta nell’inefficienza di Gazprom –<br />

in parte dovuta alla voragine finanziaria determinata dal<br />

mercato interno – nella ricerca ed estrazione di gas, che è resa<br />

più vivida dall’ostilità nei confronti degli investimenti<br />

stranieri. Anche in questo caso, il limite non è fisico: il rapporto<br />

tra riserve e produzione russa è tra i più alti al mondo<br />

(circa 81,5, contro il 55,4 algerino e l’8,8 canadese). “Nonostante<br />

le notevoli riserve del paese – spiega una dettagliata<br />

indagine di Energy Tribune – la produzione di gas naturale<br />

è sostanzialmente la stessa da molti anni, con la previsione<br />

di un modesto aumento (1,3 per cento) nel 2008. Per contro,<br />

la produzione petrolifera è molto cresciuta, specie negli<br />

anni di Yukos” 34. Per questo, alcuni analisti temono che presto<br />

la produzione russa di gas si riveli insufficiente (Figura<br />

23). Attualmente, per quanto possa suonare paradossale, il<br />

mercato russo del gas si regge soprattutto grazie alle importazioni<br />

dal Turmenistan, che vende il gas a Mosca a un prezzo<br />

particolarmente vantaggioso e che quindi consente di<br />

tamponare le perdite dovute ai consumi interni. Non stupisce<br />

che i due paesi abbiano recentemente firmato un accordo<br />

della durata di 25 anni che impegna i turkmeni a moltiplicare<br />

la loro produzione di gas.<br />

“Sebbene la scarsità sia dietro l’angolo – notano Michael<br />

Economides, Robert Bryce e Pavel Romanov – Gazprom<br />

ha acconsentito a raddoppiare le sue esportazioni verso<br />

l’Europa e la Cina” 35. Per mantenere l’impegno, la Russia<br />

ha assoluto bisogno di sviluppare i campi esistenti e<br />

aprirne di nuovi (per esempio, l’isola siberiana di Sakhalin<br />

34 E.O. NDEFO, P. GENG, S. LASKAR, L. TAWOFAING E MICHAEL J.<br />

ECONOMIDES, “Russia: A Critical Evaluation of its Natural Gas Resources”.<br />

35 MICHAEL J. ECONOMIDES, ROBERT BRYCE e PAVEL ROMANOV, “Russia:<br />

The Energy State of the Nation”.<br />

210


Figura 23. Produzione russa di gas e proiezioni sui consumi interni e le<br />

esportazioni. Fonte: Energy Tribune, 2007.<br />

ospita cinque progetti esplorativi, ma solo due sono effettivamente<br />

in movimento). Ciò ha portato a una parziale revisione<br />

della politica nei confronti degli investimenti stranieri,<br />

con l’accettazione dell’ingresso di compagnie internazio-<br />

211


nali purché il controllo dei progetti resti in mani russe. Paradossalmente,<br />

quindi, la politica <strong>energetica</strong> muscolare di<br />

Putin ha messo in ginocchio l’industria nazionale, aprendo<br />

un ulteriore margine di incertezza rispetto alla futura capacità<br />

del paese di tenere il passo della domanda interna ed<br />

estera.<br />

La situazione non è resa più rosea dal crescente degrado<br />

delle infrastrutture russe. Il sistema integrato dei gasdotti<br />

russi – la maggior rete mondiale – è controllato da Gazprom<br />

e ha conosciuto uno sviluppo significativo lungo le direttrici<br />

esterne, ma nel suo complesso sta lavorando al limite<br />

della sua capacità di trasporto. L’intervento più recente<br />

riguarda la creazione del gasdotto Negc, il gasdotto sottomarino<br />

con la peculiarità di non attraversare alcun paese di<br />

transito e, quindi, di essere esposto a minori rischi. Tuttavia,<br />

non si è assistito all’esplosione di investimenti che sarebbe<br />

stato ragionevole aspettarsi in presenza di una domanda<br />

tanto certa e sostenuta di gas russo. La principale ragione,<br />

riferisce Energy Tribune, sta “nell’assenza di una<br />

struttura organizzata e di una cornice legale che governi efficacemente<br />

il trasporto via tubo. Le questioni ad esso relative<br />

sono fortemente regolate e si basano sui cangianti capricci<br />

governativi” 36. Inoltre, molti gasdotti sono vecchi e<br />

richiedono manutenzione. Secondo Vladimir Katrenko,<br />

presidente della Commissione per le comunicazioni e il trasporto<br />

energetico della Duma, un quarto dei gasdotti hanno<br />

più di trent’anni, e un altro terzo è in funzione da oltre<br />

venti.<br />

Non solo l’età e lo stato della rete russa dei gasdotti è<br />

quindi causa di inefficienze: la prolungata condizione di carente<br />

manutenzione è all’origine di una serie di perdite che<br />

hanno un’incidenza significativa sul bilancio del gas russo.<br />

Il controllo dei prezzi sul mercato domestico, per giunta, ha<br />

due effetti negativi: da un lato mantiene la domanda artifi-<br />

36 E.O. NDEFO, P. GENG, S. LASKAR, L. TAWOFAING E MICHAEL J.<br />

ECONOMIDES, “Russia: A Critical Evaluation of its Natural Gas Resources”.<br />

212


cialmente alta, dall’altro crea una scarsità di liquidità per affrontare<br />

i necessari investimenti. “La Strategia <strong>energetica</strong><br />

russa – si legge in uno studio dell’Agenzia Internazionale<br />

dell’Energia – stima che la Russia potrebbe ridurre il consumo<br />

di energia per unità di prodotto del 40-50 per cento al<br />

di sotto dei livelli del 2000, ma sarà necessario un sistema di<br />

formazione dei prezzi che rifletta i costi affinché sorgano gli<br />

incentivi a stimolare le riduzioni dell’intensità <strong>energetica</strong>” 37.<br />

Il solo adeguamento tecnologico, anche in assenza di specifiche<br />

politiche di risparmio energetico, potrebbe determinare<br />

un cambiamento di proporzioni notevoli: se lo scenario di<br />

base prevede che i consumi interni nel 2020 saranno pari al<br />

334 per cento di quelli del 2000, l’adozione di cambiamenti<br />

tecnici e organizzativi potrebbe portare a un consumo del<br />

254 per cento, e i potenziali risparmi dovuti alla ristrutturazione<br />

del Pil farebbero calare la previsione addirittura al 140<br />

per cento del 2000 38.<br />

Gazprom, dunque, rappresenta la “cinghia di trasmissione”<br />

tra il Cremlino e la sua politica <strong>energetica</strong> globale, volta in<br />

primo luogo verso l’Europa, e poi Usa ed Asia. Tre sono le direttrici<br />

di flusso del grande progetto geo-politico-energetico di<br />

Putin:<br />

• Sud Europa: il gas arriverà dalla Russia occidentale (bacino<br />

Volga-Urali, storica fonte per l’Europa), insieme a nuove risorse<br />

presenti sia nel Caspio russo (regione Astrakhan) sia<br />

alla frontiera del Kazakistan; tale flusso sarà sostenuto a medio<br />

termine dal retrostante bacino della Siberia occidentale<br />

e da una quota crescente di gas non russo (giacimenti centroasiatici<br />

che corrispondono ad un ottavo delle riserve russe),<br />

trasportato grazie alle condotte potenziate del vecchio<br />

network ex-sovietico. Il Caucaso è destinato a divenire il<br />

grande collettore del gas verso il sud Europa via Mar Nero<br />

37 IEA, Optimizing Russian Natural Gas, p. 39.<br />

38 Ivi, p. 40.<br />

213


(Blue Stream e non solo); le condizioni tecnico economiche<br />

(know how, partnership e possibilità di investimenti per le<br />

compagnie occidentali) già esistono. Tutto ciò può coincidere<br />

con le aspirazioni geopolitiche russe, se il serbatoio<br />

centro-asiatico resterà disponibile.<br />

• Nord Europa / Usa: flussi da oltre il circolo polare artico,<br />

dove si trovano i nuovi forzieri dell’impero; si tratta di giacimenti<br />

solo marginalmente sfruttati sotto il permafrost artico<br />

– a Peãora e nella penisola di Jamal, Siberia nord-occidentale<br />

– e giacimenti offshore, molto ricchi, estesi tra il Mare<br />

Barents e il Mare di Kara. La perla è il giacimento offshore<br />

di ·tokmanov, uno tra i maggiori al mondo, già operativo.<br />

Norvegia e Russia, messi da parte gli annosi contenziosi di<br />

frontiera, sono ora associate in grandi progetti di esportazione<br />

di gas liquefatto (Gnl), da Murmansk verso le coste<br />

atlantiche degli Usa. Tuttavia il gas di Peãora, penisola di Jamal,<br />

Mare di Barents e di Kara servirà soprattutto per i<br />

grandi flussi verso il nord Europa, via gasdotto sottomarino<br />

baltico North Stream, destinati a garantire la <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> dell’Europa.<br />

• Estremo oriente, Cina, sud-est asiatico, Giappone, India,<br />

Usa: flussi dai giacimenti in Siberia centrale, orientale, isola<br />

di Sakhalin. Mosca vorrebbe acquisire il 10 per cento del<br />

mercato americano; far viaggiare flotte di supermetaniere,<br />

in una settimana, dal Mare di Barents agli impianti di rigassificazione<br />

sulla costa atlantica degli Usa; o dall’isola di<br />

Sakhalin verso gli impianti sulle coste giapponesi, coreane,<br />

cinesi ed ancora statunitensi sul Pacifico. Si tratta soltanto<br />

di progetti per ora: il potenziale energetico presente potrà<br />

trasformarsi in flusso commerciale solo grazie a partnership<br />

con le corporation occidentali e dei paesi emergenti. Ai russi<br />

manca il know how; ma sopratutto è la convenienza economica<br />

di tali flussi ad essere dubbia.<br />

A tale grande piano energetico di Putin giungerebbe un<br />

aiuto insperato dalla meteorologia. Il progressivo scioglimento<br />

del permafrost (ghiaccio perenne) potrebbe facilitare lo sfruttamento<br />

delle riserve, e renderà navigabili rotte artiche ora difficilmente<br />

praticabili per le navi metaniere. Questo per domani.<br />

214


Ma intanto oggi gli enormi costi (a causa delle attuali sfavorevoli<br />

condizioni climatiche e geografiche) rallentano lo sviluppo dei<br />

giacimenti siberiani. Inoltre, sorgono sempre più dissidi con i<br />

partner occidentali per il controllo dei pozzi: si veda per esempio<br />

la diatriba con Shell, operatore del consorzio per lo sfruttamento<br />

del giacimento di Sakhalin.<br />

Così prima tappa del progetto di Vladimir Putin è l’Europa,<br />

dove Mosca ha stabilito stretti e collaudati legami con alcuni<br />

governi (Germania in primis) e compagnie energetiche per<br />

organizzare una grande rete di <strong>sicurezza</strong> e business. La <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> è oggi il servizio più importante che Mosca può e<br />

vuole vendere all’Europa; è stato il tema centrale dell’agenda<br />

della presidenza russa del G8 nel 2006. E lo sarà anche negli anni<br />

a venire.<br />

La Russia è uno dei principali fornitori di metano per l’Europa<br />

(25 per cento) ed in particolare per l’Italia (30 per cento);<br />

Gazprom, colosso energetico russo e monopolista statale del gas,<br />

è divenuto oggi un’arma formidabile nelle mani del Cremlino al<br />

fine di perseguire la sua geo-politica <strong>energetica</strong>. Inoltre è recente<br />

l’istituzione di un asse strategico tra la Federazione Russa<br />

(Gazprom) e l’Algeria (Sonatrach) da cui l’Italia importa la quota<br />

maggiore di gas (35,4 per cento). Tale accordo secondo alcuni<br />

mirerebbe a creare un cartello mondiale del gas sul modello<br />

dell’Opec; questo è improbabile per ragioni strutturali connesse<br />

alla natura del mercato del gas. Inoltre, l’obiettivo dell’Opec era<br />

quello di mantenere alti i prezzi a fronte di un’offerta abbondante:<br />

nel caso del gas, questo scenario non vale. Tuttavia la forte dipendenza<br />

da due soli produttori rappresenta indubbiamente un<br />

rischio reale per l’Italia e l’Europa; a cui si aggiunge la probabile<br />

incapacità russa di coprire la prevista robusta crescita della domanda<br />

europea di energia negli anni a venire 39.<br />

Sicuramente, quindi, è ragionevole la strategia europea di<br />

investire sulla diversificazione delle fonti (grazie a una intensificazione<br />

dei rapporti coi paesi del Golfo persico, per esempio:<br />

39 ANGELANTONIO ROSATO, La Sicurezza Energetica nelle relazioni tra<br />

Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, cap. IV “Scenari”.<br />

215


l’Iran ha il 15 per cento delle riserve mondiali provate di gas; ma<br />

anche col Nordafrica, i Caraibi e il Sudest asiatico) 40. Analogamente<br />

è importante sviluppare un adeguato numero di impianti<br />

di liquefazione del gas a monte, e rigassificatori a valle (tema<br />

su cui l’Italia manifesta un significativo ritardo). Nel frattempo<br />

la Russia è destinata a rimanere il principale fornitore individuale<br />

per i paesi Ue negli anni a venire, anche se non l’unico. Ne<br />

consegue che l’Europa non può volgere le spalle alla Russia come<br />

fonte <strong>energetica</strong>, nel breve-medio periodo.<br />

Neanche Mosca ha molte alternative. La Ue rimane il mercato<br />

più redditizio al mondo per i produttori ed esportatori di<br />

gas ed è destinata a restarlo a lungo, almeno fino al 2030. La domanda<br />

europea, già molto forte, crescerà in maniera esponen-<br />

40 Anche il Mar Caspio potrebbe essere una fonte interessante di diversificazione<br />

(magari via pipeline come Nabucco), ma a patto di non cadere in<br />

una illusione degli idrocarburi caspici collegata al cosiddetto “Nuovo Grande<br />

Gioco in Asia centrale”. Spesso si sente dire, anche da fonti qualificate,<br />

che gli idrocarburi della regione potrebbero risolvere il problema della dipendenza<br />

dell’Europa dalla Russia (secondo alcuni addirittura dal Medio<br />

Oriente) se si costruissero delle pipeline in grado di portare tali riserve energetiche<br />

(descritte come pressoché illimitate) ai mercati mondiali, naturalmente<br />

bypassando la Russia. In realtà, si tratta di affermazioni non corrette,<br />

di strategie non praticabili. Prima di tutto perché le riserve energetiche presenti<br />

nel Caspio ed in Asia centrale sono meno consistenti di quanto si credeva,<br />

sicuramente non in grado di sostituire la Russia. In secondo luogo perché<br />

questa possiede tuttora un sostanziale monopolio delle vie di esportazione<br />

di tali idrocarburi, solo recentemente intaccato dall’oleodotto Btc, il quel<br />

però ha i suoi limiti e rischi. A tutto ciò va aggiunto che Mosca in questi anni<br />

ha sapientemente ricostituito la sua posizione geo-politica di dominus in<br />

Asia centrale, scalzando l’influenza americana dalla maggior parte delle locali<br />

repubbliche ex-sovietiche. Ne consegue che la Russia rappresenta – e verosimilmente<br />

lo resterà a lungo – la principale via per esportare le riserve<br />

energetiche della regione. E soprattutto che il Caspio, a meno di straordinarie<br />

scoperte di nuovi super-giacimenti, non può essere per l’Europa una fonte<br />

di approvvigionamento alternativa rispetto alla Russia; né è probabile che<br />

la Turchia possa diventare un ponte energetico sicuro ed affidabile per il<br />

transito degli idrocarburi caspici verso i paesi Ue, almeno nel prevedibile futuro.<br />

Si veda Angelantonio Rosato, La Sicurezza Energetica nelle relazioni tra<br />

Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, cap. VI “L’illusione degli idrocarburi<br />

caspici”.<br />

216


ziale nei prossimi anni; tanto che nel 2030 le importazioni europee<br />

di metano saranno più che doppie rispetto all’aggregato delle<br />

regioni del Nord America e India/Cina, secondo le più autorevoli<br />

proiezioni come quelle dell’International Energy Agency<br />

e dell’Ocse. Inoltre, esiste già un’efficiente, diversificata ed affidabile<br />

rete di pipeline per la consegna degli idrocarburi russi<br />

orientata rigidamente verso l’Europa, di una lunghezza complessiva<br />

compresa tra i 3.000 ed i 4.000 chilometri; i prezzi pagati<br />

dagli europei per l’energia sono sempre stati molto alti e<br />

continueranno ad esserlo nel futuro (per Mosca il mercato Usa<br />

è più attraente solo per il petrolio e il Gnl).<br />

A conferma di tutto ciò basti citare un dato: nel 2005 il volume<br />

delle forniture all’Europa di petrolio e gas russo ha raggiunto<br />

la cifra record di 400 milioni di tonnellate equivalenti di<br />

petrolio, pari a un terzo dei consumi complessivi di metano e petrolio<br />

nella Ue25. Invece per i russi, malgrado la loro stessa propaganda,<br />

la Cina e l’Asia in generale non presentano attrattive<br />

paragonabili all’Europa come mercato energetico, né oggi né<br />

domani 41.<br />

In verità Ue e Russia sono interdipendenti, anzi probabilmente<br />

è la Russia ad avere più bisogno di noi, dato che oggi ha<br />

solo un ruolo regionale come supplier di energia: Mosca esporta<br />

circa il 95 per cento del greggio e la totalità del gas naturale<br />

verso la Greater Europe (cioè inclusa la Turchia). La presenza<br />

russa sugli altri mercati mondiali dell’energia è trascurabile. Di<br />

conseguenza sarebbe ragionevole trovare un accordo, realizzare<br />

un grande patto energetico euro-russo, su una base di pari<br />

convenienza. Ma ciò che è razionale, non sempre è reale nelle<br />

relazioni internazionali: almeno se i trattati internazionali continueranno<br />

a restare lettera morta, come troppo spesso è accaduto<br />

finora. Difficilmente assisteremo nel prossimo futuro alla<br />

firma di un vero accordo strategico. Ciò per due motivi fondamentali<br />

e strettamente connessi: primo, in Europa predominano<br />

gli egoismi nazionali per cui gli Stati membri preferiscono<br />

agire in ordine sparso e perseguire il loro interesse particolare,<br />

che spesso è un mero interesse di politica interna; secondo, la<br />

41 Ivi, cap. III “Impraticabilità economica della via asiatica per Mosca”.<br />

217


Russia storicamente privilegia i rapporti e le intese bilaterali con<br />

i singoli paesi, anche per ovvie ragioni strategiche e di peso specifico.<br />

La questione si sposta necessariamente su un piano nazionale<br />

e, per quanto concerne l’Italia, se si guarda a una piena<br />

“Energobesopasnost” (<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>), non si può prescindere<br />

da una partnership <strong>energetica</strong> con la Russia. Tale partnership<br />

dovrà essere fondata su un semplice do ut des: accesso al<br />

nostro downstream in cambio di maggiori e più sicure forniture,<br />

soprattutto una vera ed articolata partecipazione all’upstream<br />

russo. I presupposti per un serio patto strategico ci sono<br />

e sono buoni: l’Italia ha un importante mercato energetico ed<br />

è disposta a sostenere prezzi relativamente alti, i russi hanno tanto<br />

gas e voglia di venderlo al miglior offerente; inoltre gli italiani<br />

sono in grado di provvedere gli investimenti e la tecnologia di<br />

cui i russi hanno bisogno per sviluppare i loro campi. I rapporti<br />

politici bilaterali sono discreti, ma vanno rinsaldati e migliorati:<br />

quel che serve è un sano realismo politico. L’accordo di novembre<br />

2006 tra Eni e Gazprom, malgrado i suoi limiti, può essere<br />

una buona base per sviluppare una vera intesa strategica in<br />

futuro; ma la base deve essere allargata e consolidata politicamente<br />

perché la Russia non si accontenta di accordi industriali<br />

settoriali ed è estremamente sospettosa nei confronti degli europei,<br />

da sempre. In particolare occorre ampliare la cooperazione<br />

tra la compagnia di Piazzale Mattei (ed eventuali altre, italiane<br />

o presenti in Italia, che abbiano un interesse in tal senso) e Gazprom.<br />

Se ciò richiederà una maggiore apertura del mercato italiano,<br />

certo non lo si potrebbe considerare un prezzo particolarmente<br />

grave, dato che, come si è visto, le liberalizzazioni sono in<br />

sé un fattore di <strong>sicurezza</strong>.<br />

Oltre la carota servirà anche il bastone: l’oleodotto Btc, i futuri<br />

gasdotti Nabucco e Igi per portare gli idrocarburi caspici in<br />

Italia via Turchia bypassando il territorio della Federazione russa<br />

sono utili in questo senso, ovvero come strumento di pressione,<br />

come garanzia nei confronti di Mosca, ma senza cadere nell’illusione<br />

che possano un giorno sostituirsi al tubo russo. Semmai<br />

possono aggiungersi a esso nella composizione di un “paniere<br />

di importazioni” più equilibrato e bilanciato. In questo senso,<br />

218


è positivo pure l’accordo tra l’Italia e l’Algeria per la costruzione<br />

del gasdotto Galsi.<br />

Nel prossimo futuro urge soprattutto trovare vie alternative<br />

all’Ucraina (per cui transita il 36,5 per cento del metano importato<br />

dall’Italia) ed alla Bielorussia per il transito del gas russo<br />

destinato all’Italia, come sta facendo la Germania per le sue<br />

forniture. Una via sarà il prolungamento del gasdotto Blue<br />

Stream (alla cui costruzione partecipa l’Eni). Occorrerebbe anche<br />

trovare un aggancio al Negp, il gasdotto sottomarino baltico<br />

tra Russia e Germania, realizzando una derivazione verso l’Italia.<br />

Anche l’altra grande pipeline terrestre Siberia–Europa è<br />

poco sicura perché attraversa la Bielorussia e poi la Polonia.<br />

Particolarmente insidioso il tratto sul territorio bielorusso dove<br />

passa il 20 per cento del gas destinato ai paesi europei e dove,<br />

non a caso, è in corso una nuova crisi politico-<strong>energetica</strong> mentre<br />

si scrive, all’inizio del gennaio del 2007. Probabilmente anche<br />

questa crisi si risolverà, come le precedenti, ma quel che<br />

conta è che tali episodi generano sistematici riflessi sugli approvvigionamenti<br />

europei (e italiani), contribuendo ad aggiungere<br />

incertezza, per così dire, locale a quella globale.<br />

In conclusione, trattare con i russi può apparire difficile, ma<br />

è necessario per l’Italia; richiede prudenza, costanza, polso fermo<br />

e chiarezza strategica di fini. Occorre anche lealtà, perché i<br />

russi sanno rispettare i patti se si fidano dell’altra parte (e soprattutto<br />

se conviene loro). Insomma nel trattare con Mosca occorre<br />

seguire il precetto evangelico: “candidi come colombe ed<br />

astuti come serpenti”. Inoltre bisogna agire nella consapevolezza<br />

che i russi faticano a orientarsi tra le troppe delegazioni che<br />

ricevono, ciascuna delle quali pretende di parlare a nome dell’Italia<br />

in quanto tale. Occorre, cioè, tenere ben distinto il piano<br />

politico-strategico da quello commerciale: bisogna far capire a<br />

Mosca che in un mercato liberalizzato, come il nostro, chiunque<br />

ha diritto di cittadinanza, e dunque tutti hanno diritto di cercare<br />

un accesso alle risorse. Al tempo stesso, il paese in quanto tale<br />

ha interesse a costruire un rapporto di reciproca apertura con<br />

la Russia, per ragioni economiche e commerciali prima che politiche<br />

– ma tale rapporto non può prescindere da una dimensione<br />

politica e diplomatica.<br />

219


Mosca sta cercando alleati in Europa: se l’Italia non partecipa<br />

al gioco, altri lo faranno in sua vece, e ciò esporrà il paese a<br />

crisi sempre più frequenti e imprevedibili. Infatti è naturale che<br />

queste crisi accadano periodicamente perché le pipeline tradizionali<br />

europee che portano il gas via Ucraina, Bielorussia, Polonia,<br />

eccetera attraversano un’area – la nuova frontiera orientale<br />

della Ue – estremamente instabile e pericolosa, un vero e<br />

proprio buco nero geopolitico in Europa. Ciò non significa abbandonare<br />

al loro destino i paesi dell’Europa orientale, ma neppure<br />

è sensato candidarsi al ruolo di consapevole vittima di ogni<br />

tensione geopolitica. Né pare una strategia efficace quella, peraltro<br />

utopistica, di bypassare Mosca. Sarebbe paradossale, dopo<br />

aver intrattenuto rapporti durante l’intera epoca della Guerra<br />

fredda, voler costruire una nuova cortina di ferro nell’epoca<br />

della globalizzazione, col risultato di isolare l’Europa da uno dei<br />

suoi principali fornitori di risorse energetiche.<br />

6.5. La regione del Caspio<br />

La regione del Caspio può svolgere una funzione di creazione<br />

di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> per l’Europa. Sono molte le ragioni.<br />

In primo luogo, le risorse del Caspio diverranno una fonte addizionale<br />

di energia per l’Ue. Il petrolio e il gas del Caspio non<br />

possono sostituire le attuali fonti, ma possono aiutare a diversificare<br />

l’offerta per l’Europa. Secondariamente, la regione del<br />

Caspio è una delle poche fonti di risorse energetiche ancora non<br />

sfruttate che possa soddisfare la crescente domanda dell’Ue riducendo,<br />

al tempo stesso, la sua dipendenza da fornitori monopolistici.<br />

Il costo del petrolio e gas caspici sarebbe inferiore a<br />

quello dei nuovi progetti nei giacimenti siberiani. Terzo, è utile<br />

allo sviluppo della regione verso un modello più stabili, prospero<br />

e liberale, grazie alla maggiore interazione politica ed economica<br />

con l’Europa e l’esposizione alle pratiche commerciali occidentali.<br />

Quarto, il coinvolgimento europeo nel petrolio e gas<br />

del Caspio e la realizzazione di nuove infrastrutture rende questi<br />

paesi più autosufficienti e indipendenti attraverso i profitti<br />

dei progetti energetici. Infine, ricostituisce rapporti economici<br />

220


tra gli Stati della regione prevenendo conflitti locali. Sebbene la<br />

regione del Caspio non possa essere la soluzione alla ricerca europea<br />

di <strong>sicurezza</strong>, certamente può esserne parte.<br />

Gli eventi recenti, come si è visto, hanno reso evidente che<br />

la Russia intende perseguire un gioco vincente nella regione. Ciò<br />

ha senso dal punto di vista russo: la strategia di base di Gazprom<br />

è di mantenere il suo dominio sulla regione, tramite il quale può<br />

acquistare il gas dell’Asia centrale a prezzi inferiori a quelli di<br />

mercato, distribuirlo ai suoi clienti russi che possono pagare di<br />

meno mentre vende le sue riserve domestiche all’Europa occidentale<br />

ad alti prezzi. Inoltre può proteggere il suo lucrativo<br />

mercato europeo congelando i fornitori indipendenti dell’Asia<br />

centrale. Mantenendo e rafforzando il suo potere di monopolio,<br />

Gazprom rafforzerà la leva che può esercitare sui consumatori<br />

di gas europei. A tal fine a Gazprom servono continue forniture<br />

di energia dall’Asia centrale per far fronte agli impegni presi<br />

42. Le riserve della regione sono significative.<br />

Azerbaijan. La produzione di gas e di petrolio dell’Azerbaijan<br />

non è enorme, ma è la sua locazione e la tempistica con<br />

cui tali risorse possono accedere al mercato ciò che conta. L’Azerbaijan<br />

è un paese produttore sia di gas che di petrolio. Questo,<br />

assieme al completamento del gasdotto Baku-Tblisi-Ceyhan<br />

(Btc), lo rende anche un paese di transito per i volumi, ancora<br />

più consistenti, di gas e petrolio che giungono dalla costa orientale<br />

del Caspio. Con l’integrazione infrastrutturale tra l’Azerbaijan<br />

e l’Europa diventa ora realistico pensare di liberare le risorse<br />

energetiche dell’Asia centrale tramite gasdotti sul Mar Caspio<br />

che, attraverso l’Azerbaijan, la Georgia e la Turchia sono<br />

collegati con l’Europa. Ciò potrebbe, per l’Europa, aprire le<br />

porte a risorse di gas più vaste addirittura di quelle di Gazprom.<br />

Infatti l’Azerbaijan, il Kazakistan e il Turkmenistan messi assieme<br />

potrebbero potenzialmente esportare più dei 140 miliardi di<br />

metri cubi di gas che Gazprom cede annualmente all’Europa.<br />

Inoltre, avendo popolazioni più piccole, i loro volumi di espor-<br />

p. 3.<br />

42 ZEYNO BARAN, “Assessing Energy and Security Issues in Central Asia”,<br />

221


tazione non saranno dipendenti dall’evoluzione dei loro mercati<br />

domestici e conseguentemente saranno più affidabili. La produzione<br />

azera di gas naturale già dal 2012 potrà essere immessa<br />

nel flusso produttivo europeo. Le sue risorse sono piccole rispetto<br />

a quelle dell’Asia centrale, specie quelle turmene e kazake.<br />

Tali riserve – nel caso del Turkmenistan si parla di uno tra<br />

i cinque più grandi depositi del mondo – sono cruciali per il futuro<br />

rifornimento energetico europeo 43. Il gasdotto Btc, dunque,<br />

è in sé un elemento di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> e per di più potrebbe<br />

fare da volano all’implementazione di altri progetti, come<br />

la South Caucasus Gas Pipeline (Scp) e il più lungo corridoio<br />

di trasporto e di comunicazione est-ovest. Il gasdotto Scp,<br />

che collegherebbe Baku a Erzurum in Turchia attraverso la<br />

Georgia, è stato progettato per fornire 6 miliardi di metri cubi<br />

di gas all’anno alla Turchia in virtù di un contratto già esistente.<br />

La capacità iniziale del gasdotto sarà di 8,4 miliardi di metri cubi<br />

all’anno, con la possibilità di essere incrementato fino a 30 miliardi<br />

di metri cubi all’anno e di essere collegato al Turkmenistan<br />

44. Un altro sviluppo ha avuto luogo il 24 Gennaio 2007 ad<br />

Astana, quando diverse compagnie internazionali hanno siglato<br />

un memorandum d’intesa per la creazione di un sistema di trasporto<br />

petrolifero attraverso il Caspio. Tale accordo prevede il<br />

trasporto via nave fino all’Azerbaijan del petrolio kazako, per<br />

poi immetterlo nell’oleodotto Btc. Si parla di una capacità iniziale<br />

di 25 milioni di tonnellate all’anno, per salire a 38 milioni<br />

di tonnellate in un secondo momento. Il costo è stimato in tre<br />

miliardi di dollari. I porti e le navi dovrebbero servire Tengiz e<br />

Kashagan, adiacenti ai rispettivi giacimenti.<br />

Kazakistan. Il Kazakistan è il più grande produttore della<br />

regione e il secondo più grande del Commonwealth degli stati<br />

43 SVANTE E. CORNELL, ANNA JONSSON, NIKLAS NILSSON e PER HÄG-<br />

GSTRÖM, The Wider Black Sea Region, p. 21.<br />

44 SVANTE E. CORNELL, MAMUKA TSERETELI e VLADIMIR SOCOR,<br />

“Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline”, in S. FRED-<br />

ERICK STARR E SVANTE E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan<br />

Pipeline: Oil Window to the West, p. 22.<br />

222


indipendenti (Cis) dopo la Russia. Coi suoi tre milioni di barili<br />

al giorno previsti per il 2015, è anche il secondo produttore non<br />

Opec di petrolio. Non solo il Kazakistan è, quindi, un importante<br />

paese produttore, ma è – aspetto forse più rilevante – un ancor<br />

più importante paese esportatore. Quanto si parla di petrolio,<br />

è la perla dell’Asia centrale 45. Tale primato vale anche nel<br />

campo del gas naturale. Il paese ha riserve note di circa 2000 miliardi<br />

di metri cubi, e riserve probabili (comprese quelle potenziali<br />

al largo del Caspio) di circa 8300 miliardi di metri cubi. Negli<br />

ultimi anni la produzione domestica annuale è stata attorno<br />

ai 12 miliardi di metri cubi, ma si prevede che entro il 2020 arriverà<br />

a 40 miliardi di metri cubi 46.<br />

Turkmenistan. Le riserve di gas naturale del Turkmenistan<br />

raggiungono i 2900 miliardi di metri cubi. La produzione di gas<br />

costituisce la più importante promessa del Turkmenistan, che<br />

secondo le stime si colloca al quarto o quinto posto al mondo e<br />

ha una capacità produttiva teoricamente estendibile a 100 miliardi<br />

di metri cubi all’anno, quasi interamente dedicata all’esportazione<br />

47. La collocazione dei giacimenti sottomarini tra<br />

l’Azerbaijan e il Turkmenistan suggerisce l’esigenza di una cooperazione<br />

per la realizzazione di un gasdotto sottomarino che<br />

colleghi le coste turkmene alla pipeline Tbc e al progettato gasdotto<br />

da Baku a Erzurum in Turchia. Questa soluzione diminuirebbe<br />

i costi dei progetti del Turkmenistan a monte della filiera<br />

e aprirebbe nuove rotte di esportazione 48. C’è una grande<br />

aspettativa che la politica <strong>energetica</strong> del Turkmenistan cambierà<br />

direzione a cause della scomparsa a dicembre 2006 del presidente<br />

Niyazov. Per molto tempo il Turkmenistan è stato vassallo<br />

energetico della Russia, ma vi sono indicazioni che i leader<br />

45 ZEYNO BARAN, “Assessing Energy and Security Issues in Central<br />

Asia”, p. 5.<br />

46 Ibidem.<br />

47 SVANTE E. CORNELL, ANNA JONSSON, NIKLAS NILSSON e PER HÄG-<br />

GSTRÖM, The Wider Black Sea Region, pp. 83-84.<br />

48 SVANTE E. CORNELL, MAMUKA TSERETELI e VLADIMIR SOCOR,<br />

“Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline”, p. 36.<br />

223


politici del paese non siano soddisfatti di tale situazione. Sebbene<br />

Niyazov abbia preso importanti iniziative per ridurre la dipendenza<br />

delle esportazione del Turkmenistan dalla Russia,<br />

molta strada deve ancora essere fatta. Ci si aspetta che con un<br />

nuovo presidente il paese avrà una nuova possibilità di partecipare<br />

alla costruzione del gasdotto transcaspico (Tpc) al quale la<br />

Russia si oppone con forza.<br />

Appare quindi evidente come la regione del Caspio e l’Europa<br />

abbiano l’interesse ad accrescere la dipendenza reciproca. L’Ue<br />

è il maggior importatore al mondo di energia (gas e petrolio) e il<br />

secondo più grande consumatore, mentre è circondata dalle più<br />

importanti riserve mondiali di petrolio e di gas naturale. L’Europa<br />

diventerà sempre più dipendente dalle importazioni. I paesi<br />

circostanti giocano un ruolo di vitale importanza per la sua <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Dal canto loro, molti paesi cercano di guadagnare<br />

o migliorare il loro accesso al mercato energetico europeo.<br />

Quelli caspici sono importanti anche da questo punto di vista 49. Il<br />

miglioramento della partnership strategica con essi è un elemento<br />

fondamentale della politica europea di vicinato (European Neighbourhood<br />

Policy, Enp). Essa include la <strong>sicurezza</strong> della fornitura<br />

<strong>energetica</strong> e la <strong>sicurezza</strong> e protezione dell’energia. Infatti, attraendo<br />

i paesi vicini verso il modello economica europeo, essi miglioreranno<br />

il clima per gli investimenti. Ciò creerà anche un ambiente<br />

più trasparente e stabile che condurrà a una crescita del settore<br />

privato 50. In tali termini l’Enp ha l’obiettivo di costruire un<br />

mutuo impegno a valori comuni entro i campi della legalità, buon<br />

governo, rispetto dei diritti umani, promozione di buona coesistenza,<br />

principi di economia di mercato e sviluppo sostenibile.<br />

Da questo punto di vista, è particolarmente interessante il<br />

memorandum d’intesa firmato il 7 novembre 2006 dal presidente<br />

della Commissione Europea José Manuel Barroso e il presidente<br />

azero Ilham Aliyev. Il memorandum include quattro priorità<br />

principali:<br />

49 COMMISSIONE EUROPEA, “European Neighbourhood Policy. Strategy<br />

Paper”, p. 17.<br />

50 Ivi, p. 14.<br />

224


• Armonizzazione graduale della legislazione azera con quella<br />

europea nel campo energetico, per favorire la convergenza<br />

dei mercati elettrici e del gas;<br />

• Aumento della <strong>sicurezza</strong> e della protezione delle forniture<br />

energetiche e dei sistemi di transito dall’Azerbaijan e il bacino<br />

del Caspio all’Ue;<br />

• Sviluppo di una politica complessiva di gestione della domanda<br />

dell’energia;<br />

• Cooperazione tecnica e scambio di expertise.<br />

In conclusione, la cooperazione e la <strong>sicurezza</strong> energetiche<br />

non possono svilupparsi in assenza di riforme democratiche, ma<br />

la democrazia non potrà svilupparsi senza la cooperazione e la<br />

<strong>sicurezza</strong> e nei campi di produzione <strong>energetica</strong>. Se l’Europa riuscirà<br />

a trovare una quadra politica, i paesi caspici continueranno<br />

a rispondere positivamente ai consigli sulle riforme politiche.<br />

L’Ue, nel promuovere buon governo e democrazia nella regione,<br />

dovrebbe adottare un approccio a lungo termine che si focalizzi<br />

sull’adozione di architetture istituzionali coerenti, non<br />

solo sulle libere elezioni.<br />

L’Unione Europea dovrebbe approfittare delle opportunità<br />

offerte dalla regione del Caspio per ridurre la sua dipendenza dalla<br />

Russia: ciò implica un deciso supporto allo sviluppo di oleodotti<br />

e gasdotti di collegamento. Per conseguire tale obiettivo anche<br />

la rete turca dovrebbe essere integrata, in modo da creare un vero<br />

e proprio ponte energetico; analogamente, la sponda occidentale<br />

del Caspio dovrebbe essere collegata a quella orientale, tramite<br />

pipelines transcaspiche. Il progetto inizierà con l’Azerbaijan<br />

e il Kazakistan, ma è anche importante che, nel lungo termine, si<br />

cerchi un maggior coinvolgimento del Turkmenistan.<br />

C’è di più: la cooperazione <strong>energetica</strong> può aiutare l’Europa a<br />

tessere un rapporto migliore col mondo islamico. Ugualmente<br />

importante è l’opportunità, per l’Europa, di far leva sulla cooperazione<br />

coi paesi del Caspio nel suo dialogo con la Russia. Le relazioni<br />

tra Mosca e le nazioni caspiche potrebbero essere utili a<br />

promuovere riforme in entrambe le aree, e al tempo stesso l’Europa<br />

può svolgere un ruolo di equilibrio nella regione. La diversificazione<br />

delle fonti di approvvigionamento energetico, e quindi<br />

un indebolimento della dipendenza dalla Russia (in particola-<br />

225


e per quel che riguarda il gas), potrebbe stimolare i necessari adeguamenti,<br />

specie in termini di trasparenza, che servono a dare all’intreccio<br />

di relazioni caratteristiche di stabilità e sostenibilità.<br />

6.6. La questione mediorientale<br />

Precedentemente è già stato sottolineato come il Medio<br />

Oriente soffra di sottoinvestimenti proprio nel settore di sua<br />

maggiore importanza, quello petrolifero. Un fatto, questo, che<br />

appare paradossale se si analizza il mercato globale del petrolio.<br />

I bassi costi di produzione in questa regione (che sono inferiori<br />

a quattro dollari al barile e sono i più bassi al mondo) e le sue<br />

immense riserve petrolifere (che sono pari a circa due terzi di<br />

quelle mondiali) dovrebbero infatti portare ad un grande afflusso<br />

di investimenti nel settore. Contrariamente a quanto ci si attenderebbe,<br />

invece, negli scorsi due decenni è stata osservata<br />

una situazione ben diversa: gli investimenti nell’industria petrolifera<br />

sono stati estremamente limitati e la capacità produttiva è<br />

stata accresciuta solo marginalmente. A tal proposito, è indicativo<br />

il fatto che dei nuovi 25.000 pozzi perforati nel periodo<br />

compreso tra il 1996 e il 2003, solo il 2 per cento si trovi in Medio<br />

Oriente 51. Malgrado le sue vaste riserve e i bassi costi di produzione,<br />

la regione ha infatti attirato solo una limitatissima parte<br />

degli investimenti mondiali nel settore in un periodo temporale<br />

durante il quale i prezzi del petrolio erano “bassi” (che<br />

quindi avrebbero dovuto favorire la perforazione laddove il costo<br />

di produzione è minore).<br />

Il “sottoinvestimento” è un problema di tutta l’industria<br />

petrolifera in generale, riscontrabile in molti paesi produttori.<br />

Secondo Fatih Birol, chief economist dell’Iea, nel 2004 gli investimenti<br />

sono stati inferiori “del 15-20 per cento a quanto necessario<br />

per soddisfare le stime effettuate dall’Iea [di consumo<br />

mondiale] per i prossimi venticinque anni” 52. (La Figura 24 mostra<br />

l’aumento della produzione necessario per soddisfare la do-<br />

51 JAVIER BLAS, JAMES BOXELL e KEVIN MORRISON, “Oil companies underinvesting<br />

by up to 20%”, Financial Times, 6 maggio 2005.<br />

52 Ibidem.<br />

226


manda globale). Relativamente al Medio Oriente, però, il problema<br />

è ben più grave 53, poiché tanto i suoi bassi costi di estrazione<br />

quanto la sua prossimità ad un’area prospera come l’Europa<br />

e ad una in via di rapido sviluppo quale l’Asia farebbero<br />

pensare altrimenti. Il fatto che durante gli anni ’90 i nuovi investimenti<br />

si siano concentrati in grande maggioranza in altre zone<br />

(Europa e Alaska), dove il costo di produzione è assai più elevato<br />

e le riserve conosciute assai più limitate, è dunque rivelatore<br />

del problema esistente.<br />

Figura 24. Crescita della capacità produttiva necessaria per soddisfare la domanda<br />

globale. Fonte: Iea, 2005.<br />

È possibile rintracciare le cause di questa situazione in due<br />

categorie di fattori, uno riguardante il settore in generale e uno<br />

il Medio Oriente in particolare. In primo luogo, i bassi prezzi<br />

del petrolio registrati durante gli ultimi due decenni hanno rappresentato<br />

un forte disincentivo a ulteriori investimenti e all’accrescimento<br />

della capacità produttiva. Appare infatti evidente il<br />

fatto che durante periodi di prezzi moderati non si abbia alcun<br />

53 Iea, Press Release: “World Energy Outlook 2005”, 7 Novembre 2005,<br />

http://www.iea.org/Textbase/press/pressdetail.asp?PRESS_REL_ID=163.<br />

227


incentivo tanto a ridurre i propri utili (per reinvestirli) quanto<br />

ad accrescere la propria capacità produttiva – in quanto ciò ridurrebbe<br />

ulteriormente il livello dei prezzi.<br />

In secondo luogo, sono subentrati altri fattori collegati ai regimi<br />

dei paesi mediorentali che hanno ostacolano gli investimenti<br />

nel settore. L’instabilità politica è il primo. Paesi come Iran,<br />

Iraq o Libia, per via della loro condotta in politica estera sono<br />

stati assoggettati a sanzioni internazionali che ne hanno intaccato<br />

fortemente le capacità di manovra per tutti gli anni Novanta,<br />

sia da un punto vi vista politico che, soprattutto, da un punto di<br />

vista economico. Con la guerra del 1991, l’Iraq è stato colpito da<br />

sanzioni commerciali multilaterali imposte dall’Onu che in vario<br />

modo ne hanno ostacolato la crescita economica e soprattutto la<br />

capacità di attrarre investimenti. Libia e Iran sono stati colpiti nel<br />

1995 da un pacchetto di sanzioni varate dal Congresso americano<br />

che, seppur non multilaterali, hanno rappresentato un duro<br />

colpo alle loro prospettive economico-commerciali 54. Altri paesi<br />

quali il Sudan o l’Arabia Saudita, ma anche l’Egitto, per via della<br />

loro complicata e conflittuale situazione politica interna, hanno<br />

invece rappresentato a lungo un enigma per le compagnie internazionali:<br />

mal volute e osteggiate da ampie fazioni interne, le<br />

aziende internazionali si sono viste spesso ostaggio della violenza<br />

di queste fazioni ovvero di norme discrezionali che i vari parlamenti<br />

nazionali hanno varato per sedare il rancore popolare<br />

che contraddistingueva la loro cornice di politica interna. Collegato<br />

a questo problema vi sono una serie di dinamiche regionali<br />

di natura extra-statuale quali il terrorismo, l’islamismo radicale,<br />

54 Per rendere più efficaci le loro sanzioni gli Stati Uniti, come d’altronde<br />

storicamente hanno fatto tutte le grandi potenze, le varano in maniera tale<br />

che i paesi terzi siano fortemente disincentivati ad entrare in accordi con il paese<br />

vittima delle loro azioni. In particolar modo, gli Stati Uniti sfruttano la loro<br />

forza di mercato rifiutandosi di entrare in contatto con qualunque azienda<br />

che abbia avuto dei rapporti con i paesi da loro sanzionati. Di fatto, le loro sanzioni,<br />

per quanto unilaterali, finiscono per divenire multilaterali, in quanto per<br />

le loro implicazioni non differiscono notevolmente da queste ultime. A proposito<br />

delle sanzioni commerciali si veda DANIEL DREDZNER, The Sanction Paradox.<br />

A proposito dell’uso della forza di mercato in termini politici si veda<br />

JOANNE GOWA, Allies, Trade and War.<br />

228


l’anti-americanismo 55 che hanno contribuito, e contribuiscono<br />

tutt’ora all’instabilità politica o all’incertezza del quadro politico<br />

e normativo – finendo dunque per rappresentare una variabile<br />

non gestibile dalle major petrolifere.<br />

Infine vi è un ultimo aspetto da considerare che è anche<br />

quello più importante nel limitare gli investimenti in Medio<br />

Oriente. Si tratta delle misure restrittive verso gli investimenti<br />

esteri che molti paesi della regione hanno adottato nel corso degli<br />

anni. Data la sua rilevanza, è proprio su quest’ultimo aspetto<br />

che ci si vuole concentrare. Conviene comunque definire ed<br />

inquadrare quale sia la relazione tra prezzi e investimenti prima<br />

di andare a considerare questo secondo elemento.<br />

6.6.1. L’era dei bassi prezzi e dei bassi investimenti<br />

Durante gli ultimi due decenni, i bassi prezzi del petrolio<br />

hanno disincentivato gli investimenti nel settore petrolifero. Conseguentemente,<br />

la capacità di raffinazione è rimasta a livelli inadeguati<br />

rispetto alla domanda globale e la disponibilità di petrolio<br />

sul mercato è rimasta limitata. Questa situazione ha iniziato ad<br />

apparire evidente in particolare dal 2003, cioè da quando è stata<br />

esacerbata dall’“inaspettato aumento del consumo globale di<br />

grezzo”, e dal conseguente drammatico aumento dei prezzi del<br />

petrolio 56. Come sottolinea Leonardo Maugeri, proprio quest’ultimo<br />

fenomeno potrebbe però non essere così negativo, in quanto<br />

potrebbe rappresentare un importante incentivo a nuovi investimenti,<br />

e quindi invertire il trend registrato in passato 57.<br />

Gli investimenti nel settore petrolifero dipendono da molti<br />

fattori, tra i quali ovviamente spicca il prezzo del petrolio. Come<br />

risulta evidente dalla Figura 25, il trend negativo dei prezzi registrato<br />

tra la metà degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 ha comportato<br />

una sensibile riduzione degli investimenti, il cui livello è<br />

sceso infatti di circa il 30 per cento tra il periodo 1979-1985 e il<br />

55 Si veda BARRY BUZAN eOLE WAEVER, Regions and Power: The Structure<br />

of International Security.<br />

56 LEONARDO MAUGERI, “Two Cheers for Expensive Oil”, p. 149.<br />

57 Ibidem.<br />

229


periodo 1990-2002. Oltre ad influire direttamente sul livello degli<br />

investimenti, i prezzi vi incidono anche indirettamente, in<br />

quanto la loro instabilità tende a creare elevati livelli di incertezza,<br />

che in ultima istanza influenza le scelte di investimento. Scrivono<br />

a proposito Kalpana Kochhar, Sam Ouliaris, e Hossein Samiei<br />

del Fondo Monetario Internazionale: “l’imprevedibilità e la<br />

volatilità dei prezzi del petrolio e della sua domanda hanno inoltre<br />

contribuito al basso livello di investimento, offuscando la differenza<br />

tra i movimenti temporanei e permanenti dei prezzi e<br />

quindi il cash flow strutturale [delle compangie petrolifere]. Dato<br />

l’alto livello degli investimenti fissi, i lunghi periodi di gestazione<br />

e la natura irreversibile dell’investimento nel settore petrolifero,<br />

l’incertezza dei cash flow tende [quindi] a ritardare l’allargamento<br />

della capacità produttiva” 58.<br />

Figura 25. Investimenti in esplorazione e produzione di petrolio e gas. Le<br />

colonne rosa sono espresse in termini correnti, quelle rosse in dollari reali (2002),<br />

la linea blu mostra il prezzo del petrolio (dollari 2002). Fonte: Appert 2004.<br />

58 KALPANA KOCHHAR, SAM OULIARIS e HOSSEIN SAMIE, “What Hinders<br />

What Hinders Investment in the Oil Sector?”.<br />

230


Ciò rappresenta in parte una conferma del trend a cui si è<br />

potuto assistere nel corso degli ultimi anni, che ha visto il rialzo<br />

dei prezzi accompagnato da un aumento degli investimenti 59. I<br />

prezzi del petrolio sono stati spinti al rialzo dalla “forte crescita<br />

della domanda globale [...] ed è assai improbabile che questo<br />

trend venga invertito nel breve termine, dato che riflette il miracolo<br />

economico della Cina e la forte performance economica<br />

globale” 60. Come appare immediato dalla Figura 26, la crescita<br />

economica cinese è infatti intervenuta massicciamente sul mercato<br />

mondiale, e l’aumento del consumo energetico di Pechino<br />

è stato negli anni 2002 e 2003 all’incirca uguale alla crescita del<br />

consumo energetico del resto del mondo (Cina esclusa). Il fatto<br />

che l’aumento del prezzo del petrolio sia dovuto a questa crescita<br />

della domanda globale e non ad una diminuzione dell’offerta<br />

Figura 26. Crescita annuale del consumo energetico mondiale. Fonte: Bp, 2005.<br />

59 MATT KOVAC, “Energy Investments to Rise by 52% Across the Region”,<br />

p. 18.<br />

60 “This Boom is Different”, Global Finance, vol. 21, no. 1, gennaio 2007,<br />

p. 7.<br />

231


ende quindi le prospettive relative al livello dei prezzi futuro<br />

maggiormente stabili, riducendo così l’incertezza per gli investitori<br />

internazionali.<br />

6.6.2. Gli ostacoli agli investimenti in Medio Oriente<br />

Un secondo fattore contribuisce a spiegare il sottoinvestimento<br />

nel settore petrolifero in Medio Oriente è costituito dalle<br />

restrizioni e dalle barriere imposte dai singoli Stati agli investimenti<br />

esteri. Mentre i prezzi del petrolio sono un fattore ciclico,<br />

queste limitazioni sono invece strutturali e spiegano dunque<br />

per quale motivo, nonostante la crescita registrata negli ultimi<br />

anni, l’industria petrolifera in Medio Oriente continui a soffrire<br />

di sottoinvestimenti. Anche in altre regioni esistono numerose<br />

barriere all’ingresso per gli operatori stranieri. Ma come è facile<br />

intuire, la situazione mediorientale è di particolare rilevanza.<br />

Per Fatih Birol, infatti, la mancanza di accesso per gli investimenti<br />

internazionali nella regione è “il più grande problema che<br />

il settore si trova a dover affrontare” 61.<br />

La limitata apertura agli investimenti esteri è un aspetto critico<br />

per il settore in quanto in molti paesi, a livello domestico,<br />

l’accesso ai capitali viene ostacolato, da un lato, dai criteri di distribuzione<br />

dei fondi pubblici tra le aziende statali e, dall’altro,<br />

dalla scarsa competitività del mercato interno del credito. Il primo<br />

è il caso dell’Arabia Saudita, i cui introiti dal petrolio sarebbero<br />

in grado di finanziare gli investimenti necessari, ma che per<br />

via delle esigenze di bilancio pubblico e di redistribuzione delle<br />

risorse tra le varie aziende statali possono risultare inadeguati. Il<br />

secondo è invece il caso dell’Iran, il cui settore petrolifero non riesce<br />

a garantire i capitali necessari a finanziare gli investimenti richiesti<br />

62, e il cui apparato creditizio e finanziario è stato letteralmente<br />

distrutto dall’applicazione di politiche scriteriate 63.<br />

61 JAVIER BLAS, JAMES BOXELL e KEVIN MORRISON, “Oil companies underinvesting<br />

by up to 20%”.<br />

62 VALERIE MARCEL, Oil Titans, p. 149.<br />

63 Si veda ANDREA GILLI, “Le politiche creditizie nell’Iran post-rivoluzionario,<br />

1979-2002”.<br />

232


Il paradosso iraniano<br />

La situazione iraniana rappresenta una sorta di caso limite<br />

nello scenario mediorientale: anche sorvolando su talune<br />

dichiarazioni particolarmente bellicose del presidente<br />

Mahmoud Ahmadinejad, il paese si presenta come una<br />

realtà quasi impermeabile agli investimenti stranieri, in forte<br />

difficoltà nella gestione efficiente delle enormi risorse di<br />

cui dispone, e isolato sul piano internazionale.<br />

La prima e più evidente criticità della nazione consiste<br />

nella sua natura di monocoltura petrolifera: dalla vendita di<br />

greggio dipendono l’80-90 per cento delle esportazioni e il<br />

40-50 per cento delle entrate statali 64. L’Iran dispone di riserve<br />

provate per 132,5 miliardi di barili, il 10 per cento del<br />

totale globale, generalmente non di ottima qualità. La produzione<br />

di greggio – 3,94 milioni di barili al giorno nel 2005,<br />

inferiore alla quota Opec di 4,110 milioni di barili al giorno<br />

– ne fa il secondo produttore mondiale. Secondo l’Eia, “i<br />

campi esistenti hanno un tasso di declino naturale stimato<br />

dell’8 per cento onshore e del 10 per cento offshore. I campi<br />

hanno bisogno di upgrading, modernizzazione e tecnologie<br />

di enhanced oil recovery come l’iniezione di gas. Attualmente<br />

i tassi di ricupero sono appena del 24-27 per cento,<br />

contro una media globale del 35 per cento. L’Iran ha anche<br />

bisogno di aumentare la ricerca di nuovo greggio: nel 2005<br />

sono stati aperti solo un pugno di pozzi esplorativi”. La produzione,<br />

pure in crescita, è ancora decisamente inferiore ai<br />

livelli raggiunti prima della rivoluzione del 1979 (Figura 27).<br />

Della produzione petrolifera iraniana, 2,5 milioni di barili<br />

al giorno sono detinati alle esportazioni, di cui circa il 60<br />

per cento verso paesi Ocse (l’Italia è il quarto importatore<br />

dall’Iran, e il primo in Europa, con circa 194 mila barili al<br />

giorno, seguita dalla Francia con 143 mila). La carenza di<br />

64 Ove non diversamente specificato, i dati sull’Iran sono tratti dal Country<br />

Brief della Eia, disponibile online all’indirizzo http://www.eia.doe.gov/<br />

emeu/cabs/Iran/Background.html.<br />

233


Figura 27. Produzione di petrolio in Iran, 1970-2006 (migliaia di barili al<br />

giorno). Fonte: Eia 2007.<br />

investimenti nel settore petrolifero non si limita all’upstream:<br />

infatti il paese paga un drammatico collo di bottiglia<br />

nella fase della raffinazione. La capacità è oggi di 1,64<br />

milioni di barili al giorno, ma la domanda di benzina sta crescendo<br />

al ritmo dell’11 per cento all’anno. Il paese ha approvato<br />

un piano di crescita che porterebbe a un raddoppio<br />

della capacità di raffinazione, ma non è ancora chiaro se riuscirà<br />

a tenere il passo. Così, paradossalmente, il secondo<br />

esportatore mondiale di greggio è, dal 1982, importatore di<br />

prodotti petroliferi – a livello globale, il secondo importatore<br />

di prodotti raffinati dopo gli Usa: l’Iran infatti importa<br />

circa un terzo del suo fabbisogno di benzina, anche a causa<br />

di una politica che fissa il prezzo a circa 40 centesimi di dollaro<br />

al gallone.<br />

La situazione è molto simile anche nel caso del gas naturale.<br />

Con 27 mila miliardi di metri cubi di riserve provate,<br />

l’Iran è il secondo paese dopo la Russia. Tuttavia, il 62<br />

per cento delle riserve si trovano in giacimenti non associati<br />

all’olio che devono ancora essere sviluppati. Quasi<br />

234


tutto il gas prodotto viene utilizzato nel paese – sia come<br />

fonte di energia, sia per essere reiniettato nei giacimenti<br />

petroliferi – e l’Iran, pur avendone le potenzialità, non ne<br />

esporta.<br />

La scarsità di capitali che affligge il settore deriva da<br />

molteplici ragioni. La principale è l’isolamento internazionale<br />

del paese. Ciò è dovuto in parte all’embargo americano,<br />

imposto dal presidente Bill Clinton nel 1995 e confermato<br />

da George W. Bush. Ma anche la cattiva regolamentazione<br />

interna contribuisce in misura importante a tenere le imprese<br />

straniere lontane, nonostante alcune importanti aperture<br />

(come quelle che riguardano l’italiana Eni e la francese<br />

Total). La Costituzione iraniana, infatti, proibisce l’assegnazione<br />

di diritti sul petrolio a soggetto stranieri. Tale provvedimento<br />

è stato in parte aggirato dalla Legge sul petrolio del<br />

1987, che consente la stipula di contratti fra il ministero del<br />

Petrolio, le compagnie di bandiera e “persone fisiche o giuridiche<br />

nazionali e straniere”. In base a questa norma e ad<br />

alcuni successivi sviluppi, per esempio, hanno trovato giustificazione<br />

i contratti di buyback.<br />

È in questo quadro che si colloca la contesa sul nucleare<br />

iraniano. Come scrive Marco Macciò, gli impianti atomici<br />

“sono stati concepiti per esportare più gas e petrolio e,<br />

quindi, consentire all’Iran di innalzare la sua rendita mineraria,<br />

visto che la storia economica post-rivoluzionaria del<br />

paese è quella di un fenomenale declino... Tuttavia, per<br />

esportare di più l’Iran deve aumentare le estrazioni e ridurre<br />

i consumi. Due obiettivi non facili da conseguire. Non<br />

perché il paese manchi di riserve, ma perché contro l’ampliamento<br />

della messa in produzione di molti campi gioca<br />

la Costituzione voluta da Khomeini, che esclude concessioni<br />

agli stranieri, e contro il nucleare gioca la diffidenza delle<br />

grandi potenze. Poiché nessuno ha abbastanza carisma<br />

per rimuovere l’ostacolo costituzionale, gli investimenti<br />

esteri in nuova capacità estrattiva non sono ampi quanto<br />

giustificherebbe il sottosuolo. Donde, la necessità di energia<br />

alternativa e la decisione del presidente della repubbli-<br />

235


ca Mahmoud Ahmadinejad di riprendere il programma nucleare”<br />

65.<br />

Naturalmente gli iraniani sono coscienti di questi problemi<br />

e, come è già stato accennato, hanno introdotto una<br />

serie di novità – se non riforme, almeno interpretazioni più<br />

elastiche della Costituzione – per rendere il clima più favorevole<br />

agli investimenti diretti. Così, notano Michael Economides<br />

e David Wood, “dal 1990 l’Iran ha conseguito un aumento<br />

di quasi quattro volte della produzione di gas... Ciò è<br />

impressionante, tranne che per il fatto che quasi tutto questo<br />

gas è destinato al consumo domestico”: o viene iniettato<br />

nei giacimenti petroliferi per creare le necessarie condizioni<br />

di pressione, oppure viene destinato alla generazione elettrica.<br />

Così, l’Iran importa circa 6 miliardi di metri cubi all’anno<br />

di gas dal Turkmenistan. I consumi elettrici sono un’importante<br />

causa della crescita della domanda interna di gas:<br />

dal 1990, il fabbisogno è quasi triplicato, assestandosi nel<br />

2005 a 169 terawattora, con un tasso di crescita dei consumi<br />

dell’8 per cento all’anno. Il mix energetico primario dell’Iran<br />

(Figura 28) è dunque difficilmente sostenibile sia dal<br />

punto di vista della scarsa diversificazione, sia per ragioni<br />

ambientali. Infatti, esso è sostanzialmente composto di sole<br />

due fonti: il gas per il 49 per cento, il petrolio per il 48 per<br />

cento 66.<br />

In queste condizioni, è comprensibile che l’intersezione<br />

tra il piano economico e quello politico cre confusione. Tuttavia,<br />

rilevano Wood ed Economides, “all’interno dell’Onu,<br />

la vera preoccupazione riguardo l’Iran e il nucleare militare<br />

non è la possibile proliferazione nucleare nel Medio Oriente<br />

o la possibilità di un confronto atomico tra gli Stati di<br />

quella regione. La preoccupazione è la possibilità che la tecnologia<br />

nucleare entri in possesso di altri Stati fondamentalisti<br />

musulmani, e infine arrivi in mano dei gruppi terroristi<br />

65 MARCO MACCIÒ, Islam e petrolio, pp. 148-149.<br />

66 DAVID WOOD e MICHAEL J. ECONOMIDES, “Iran Stuck in Neutral: Energy<br />

Geopolitics Hinder Iran’s Oil and Gas Industry’s Development”.<br />

236


Figura 28. Mix energetico primario iraniano (2005). Fonte: Wood ed Economides<br />

(2006).<br />

(come i ribelli ceceni e Al Qaeda), portando ad attacchi da<br />

parte di entità non statuali contro il mondo capitalista con<br />

bombe sporche. In questo contesto è scorretto ritrarre la<br />

questione nucleare come un mero confronto tra l’Iran e gli<br />

Stati Uniti; è una faccenda assai più ampia. Tuttavia, la nebbia<br />

politica oscura il fatto che l’Iran ha delle buone ragioni<br />

economiche e di sostenibilità per desiderare l’energia nucleare”<br />

67 (questo contribuisce anche a chiarire le ragioni dell’interesse<br />

russo per la questione). Con ciò, naturalmente,<br />

non si intende sminuire i rischi – per la pace e la stabilità politica<br />

nel mondo – della strategia nucleare iraniana, ma solo<br />

porla nella giusta luce. Solo così, infatti, si potranno identificare<br />

delle risposte, economiche e politiche, tali da spianare<br />

una via d’uscita dall’attuale escalation polemica, che sia<br />

67 Ivi.<br />

237


nell’interesse sia dell’Iran, sia del resto del mondo, e che aiuti<br />

a rafforzare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> – che in fondo è il convitato<br />

di pietra tanto delle rivendicazioni di Teheran quanto<br />

della posizione americana ed europea 68.<br />

Uno degli attori principali del mercato petrolifero globale<br />

sono le compagnie petrolifere nazionali (Nocs). Dopo la nazionalizzazione<br />

intervenuta a partire dagli anni Settanta, queste<br />

compagnie hanno assunto un ruolo centrale in Medio Oriente,<br />

andando a sostituire il ruolo precedentemente ricoperto dalla<br />

Sette Sorelle. Collegato alla natura pubblica di queste compagnie<br />

vi è il problema dell’allocazione centralizzata delle risorse<br />

finanziarie da parte del governo. Il processo politico interno ai<br />

singoli paesi influisce infatti in modo massiccio sulla distribuzione<br />

dei fondi tra le diverse aziende pubbliche, che quindi non<br />

ricevono dotazioni finanziarie in maniera commisurata alla loro<br />

redditività quanto piuttosto sulla base di una pura logica politica<br />

(il caso dell’Iran è nuovamente uno di quelli più emblematici<br />

a proposito) 69. Conseguentemente, le compagnie petrolifere<br />

nazionali (i principali attori economici dei paesi mediorientali)<br />

si trovano a competere con altre compagnie pubbliche per<br />

68 Per un confronto tra le diverse opzioni, militari e no, nei confronti dell’Iran<br />

si vedano TED GALEN CARPENTER, “Iran’s Nuclear Program: America’s<br />

Policy Options”; JUSTIN LOGAN, “The Bottom Line on Iran: The Costs and<br />

Benefits of Preventive War versus Deterrence”.<br />

69 Controllando le aziende creditizie, il governo fissava infatti dei target<br />

di allocazione settoriale dei crediti. Ciò significava che al settore petrolifero<br />

non poteva andare più di una certa percentuale del credito totale, mentre a<br />

quello commerciale più di un’altra data percentuale. In questa maniera, gli Ayatollah<br />

al potere hanno cercato in primo luogo di soddisfare altre logiche da<br />

quelle economiche, che in particolare consistevano nel garantire al regime la<br />

popolarità necessaria per la sua sopravvivenza. Oltre ad un’enorme corruzione,<br />

queste politiche hanno finito per distorcere il mercato interno senza<br />

riuscire a incentivare gli investimenti nei settori considerati prioritari dal Governo.<br />

Si veda ANDREA GILLI, “Le politiche creditizie nell’Iran post-rivoluzionario,<br />

1979-2002”. Si veda anche PARVIN ALIZADEH (a cura di), The Economy<br />

of Iran: The Dilemmas of an Islamic State; Hooahang Amirahmad, Revolution<br />

and Economic Transformation: The Iranian Experience.<br />

238


ottenere le risorse necessarie al loro sviluppo. In alcuni paesi<br />

(ad esempio l’Arabia Saudita), questa competizione tra fondi risulta<br />

particolarmente penalizzante per le compagnie petrolifere<br />

nazionali in quanto queste ultime hanno l’obbligo (diversamente<br />

dalle altre aziende pubbliche) di cedere tutti i propri introiti<br />

allo stato, senza che però vi sia alcun tipo di privilegio in<br />

sede di allocazione dei fondi. A ciò si aggiunge la scarsa apertura<br />

e concorrenza del mercato creditizio, che ostacola il tentativo<br />

delle compagnie petrolifere di trovare risorse alternative sul<br />

mercato domestico, con un risultato nettamente inferiore rispetto<br />

a quello che sarebbe prodotto da un mercato più aperto<br />

ed efficiente 70.<br />

Alla luce di quanto scritto, risulta quindi particolarmente<br />

evidente per quale motivo le restrizioni agli investimenti esteri<br />

rappresentino un aspetto tanto critico nel mercato energetico<br />

mondiale. Il Golfo Persico è infatti una regione ancora per molti<br />

versi inesplorata dal punto di vista energetico. È indicativo<br />

che negli ultimi vent’anni, il 70 per cento delle esplorazioni di<br />

petrolio sia avvenuta negli Stati Uniti e in Canada, e solo il 3 per<br />

cento in Medio Oriente – che detiene il 70 per cento delle riserve<br />

conosciute contro il 3 per cento del Nord America. Come risultato,<br />

“le vaste riserve dell’Arabia Saudita sono sottosfruttate.<br />

I 260 miliardi di barili di riserve saudite conosciute rappresentano<br />

solo un terzo del petrolio che giace sotto il suolo saudita” 71.<br />

È naturale chiedersi, dunque, come i paesi ostacolino gli investitori<br />

stranieri. In Arabia Saudita e Kuwait, ad esempio, il settore<br />

petrolifero è aperto solo marginalmente agli investimenti<br />

esteri. In altri paesi, come ad esempio l’Iran, questi, seppur non<br />

ostacolati direttamente, vengono scoraggiati da contratti non<br />

particolarmente favorevoli per le compagnie straniere (in Iran vi<br />

è il production-sharing e buyback. Quest’ultimo risulta poco gradito<br />

alle compagnie internazionali in quanto le esponendo ad alti<br />

livelli di rischio in caso in cui il prezzo del petrolio precipitas-<br />

70 Si vedano PAUL HORSELL, Energy Investments and Impediments;<br />

CLEMENT M. HENRY eRODNEY WILSON (a cura di), The Politics of Islamic Finance.<br />

71 LEONARDO MAUGERI, “Two Cheers for Expensive Oil”, pp. 152-153.<br />

239


se o i costi di produzione crescessero. Dal febbrario 2004, nessun<br />

nuovo contratto è stato firmato 72, ma il governo ha tentato<br />

di rendere questo contratto più conveniente per gli operatori<br />

esteri).<br />

Come si vede nella Tabella 1, vi sono anche dei paesi che<br />

si sono aperti investitori stranieri. Algeria, Libia e Abu Dhabi<br />

sono degli ottimi esempi, con risultati tra l’altro invidiabili. Le<br />

prime due sono riuscite ad attirare investimenti garantendo alle<br />

compagnie internazionali il diritto di “prenotare le riserve”.<br />

Abu Dhabi, grazie ad una politica attenta alle esigenze degli investitori<br />

stranieri, è riuscito a mantenere alti il loro impegno e<br />

il loro interesse verso il settore energetico nazionale, facendo<br />

concessioni particolarmente favorevoli per gli investimenti<br />

stranieri. Tali concessioni sono invece del tutto “fuori discussione”<br />

in altri paesi: come scrive Valerie Marcel, “per via della<br />

loro storia di concessioni e nazionalizzazione, Arabia Saudita,<br />

Iran, e Kuwait, che insieme detengono il 42 per cento delle riserve<br />

conosciute di petrolio e il 54 per cento delle riserve delle<br />

compagnie nazionali petrolifere, non offriranno alcuna partecipazione<br />

[ad operatori stranieri] nel settore petrolifero nel<br />

medio periodo” 73. Per via dell’importanza di questi tre paesi<br />

nella produzione petrolifera mondiale, il costo delle loro scelte<br />

è evidente: da una parte, essi continueranno ad avere un accesso<br />

solo marginale e ritardato ad un avanzato livello tecnologico<br />

nel settore estrattivo e di raffinazione. Dall’altra parte, per<br />

via dei bassi investimenti, la crescita della capacità produttiva<br />

continuerà ad essere limitata, con un conseguente effetto sui<br />

prezzi.<br />

6.6.3. La chimera dell’ìndipendenza economica. Il Medio Oriente,<br />

l’Europa e il futuro condiviso<br />

L’integrazione economica tra comunità politiche è un processo<br />

antico, databile forse con la stessa nascita delle prime ag-<br />

72 “Exploration and Production”, Petroleum Economist, agosto 2006,<br />

pp. 35-36.<br />

73 VALERIE MARCEL, Oil Titans, p. 40.<br />

240


Paese<br />

Partecipazione<br />

straniera<br />

legalmente possibile<br />

Iran Sì Buy-back.<br />

Iraq Sì<br />

Kuwait No<br />

Libia Sì<br />

Qatar Sì<br />

Arabia Saudita No Nessuno.<br />

Emirati degli<br />

Stati Arabi<br />

Si<br />

gregazioni tra individui 74. La ragione principale consiste nel fatto<br />

che l’integrazione economica non è solo conveniente ma è anche<br />

un processo naturale, mosso dalle normali interazioni che si<br />

istituiscono tra individui e gruppi di individui (“la naturale propensione<br />

a barattare, a truschinare e a scambiare un bene per un<br />

altro” di cui parlò Adam Smith). La storia ha dimostrato infatti<br />

l’insuccesso o per lo meno il breve respiro delle politiche volte a<br />

garantire “l’indipendenza da altri paesi”.<br />

Da un punto di vista puramente economico, esiste infatti un<br />

largo consenso tra gli studiosi sul fallimento delle politiche contrarie<br />

all’integrazione economica internazionale. La teoria economica<br />

postula sin dai tempi di Smith e Ricardo la convenienza<br />

dell’interdipendenza. Ciononostante, nel corso degli anni Cin-<br />

74 Si veda BARRY BUZAN e RICHARD LITTLE, International Systems in<br />

World History: Remaking the Study of International Relations.<br />

241<br />

Tipo di partecipazione<br />

Status non definito, ma i contratti di<br />

“production sharing” sono incoraggiati<br />

dalle autorità.<br />

Le autorità stanno considerando l’introduzione<br />

di schemi di “buy-back”.<br />

Contratti di “Exploration and Production<br />

Sharing Contract”.<br />

“Service Contract” e “Production<br />

Sharing Agreements”.<br />

Esistono diritti di concessione (fino al<br />

90% del petrolio prodotto proviene<br />

da joint venture con le compagnie<br />

nazionali del petrolio, NOCs).<br />

Tabella 5. Limiti agli investimenti internazionali in Medio Oriente. Fonte:<br />

Kalpana Kochhar et al. 2005.


quanta, alcuni economisti si convinsero dell’esistenza di strade<br />

alternative, e suggerirono ai paesi più poveri di proteggere il mercato<br />

interno, e aspettare prima di integrarsi nel mercato mondiale<br />

75. Il fallimento di queste soluzioni ha fatto sì che il consenso<br />

sui benefici del commercio internazionale si sia ben presto esteso<br />

anche ai suggerimenti per i paesi in via di sviluppo 76. Il successo<br />

del Sudest Asiatico ha screditato infatti le ultime “teorie”<br />

in supporto delle misure protezionistiche e della cautela verso<br />

l’apertura al commercio internazionale. Il successo di Singapore,<br />

Hong Kong, Taiwan, e Corea del Sud, e più recentemente di Malesia,<br />

Indonesia, Thailandia e soprattutto Cina si è infatti basato<br />

su investimenti diretti esteri ed esportazioni, smentendo così<br />

drammaticamente quanti sostenevano per questi Paesi la necessità<br />

di avviare un processo di integrazione economico domestico<br />

prima di integrarsi con l’economia globale 77.<br />

Tra gli studiosi di politica internazionale, invece, non è ancora<br />

stato trovato un consenso sufficientemente diffuso sull’argomento<br />

dell’integrazione economica. Da una parte alcuni autori<br />

hanno sottolineato come la natura hobbesiana del sistema<br />

internazionale spinga gli Stati a mostrare una certa cautela verso<br />

l’apertura economica nei confronti degli altri paesi. E ciò sarebbe<br />

spiegato dalla necessità dei singoli Stati di dover provvedere<br />

autonomamente alla propria <strong>sicurezza</strong>, necessità che richiede<br />

un limitato livello di dipendenza da altri Stati. Detto in<br />

altri termini, la teoria vorrebbe che gli Stati preferiscano non<br />

avere un guadagno assoluto derivante dalla cooperazione economica<br />

se esso è relativamente inferiore al guadagno assoluto<br />

degli altri Stati. La ragione si troverebbe appunto nel timore derivante<br />

da un (eccessivo) rafforzamento relativo degli altri attori<br />

78. Meglio, essere poveri, ma più ricchi del vicino, piuttosto che<br />

75 Si veda ad esempio RAUL PREBISCH, The Economic Development of<br />

Latin American and Its Principal Problems.<br />

76 Si veda ad esempio JEFFREY SACHS, The End of Poverty.<br />

77 GUNNAR MYRDAL, An International Economy: Problems and Prospects.<br />

78 Si veda JOSEPH. G. GRIECO, Cooperation Among Nations. Si vedano<br />

anche JOHN J. MEARSHEIMER, The Tragedy of Great Power Politics e Kenneth<br />

Waltz, Theory of International Politics.<br />

242


essere ricchi ma meno ricchi del proprio rivale – afferma questa<br />

visione. Assumendo che questa rappresentazione raffiguri realmente<br />

la realtà 79, si evince la complessità delle scelte di fronte alle<br />

quali si trovano gli Stati: se essi sono riluttanti ad integrarsi<br />

nell’economia mondiale perché in tal modo diventano dipendenti<br />

da altri Stati, allo stesso tempo sono anche scettici verso<br />

l’autonomia economica, in quanto essa non è in grado di fornire<br />

economie di scala e un mercato sufficientemente vasto da garantire<br />

crescita e benessere 80.<br />

Dall’altra parte, altri autori hanno invece abbracciato più<br />

direttamente la causa dell’interdipendenza economica, sottolineando<br />

come il commercio internazionale favorisca la cooperazione<br />

tra gli Stati e quindi riduca la loro propensione alla conflittualità<br />

81. Riprendendo in modo più o meno diretto gli argomenti<br />

di liberali classici quali Mill o Montesquieu, alcuni autori<br />

hanno sottolineato il ruolo pacifico dell’integrazione economica<br />

che, riducendo i vantaggi economici dei conflitti dovrebbe<br />

portare ad una loro sensibile riduzione, se non addirittura alla<br />

totale estinzione 82.<br />

79 Ciò non è necessariamente vero: è l’assunto di una teoria. Il dibattito<br />

su queste posizioni è molto ampio e complesso. Un ottimo riassunto si trova in<br />

DAVID A. BALDWIN, Neorealism and Neoliberalism: The Contemporary Debate.<br />

Alcuni saggi hanno rivelato come spesso gli Stati siano effettivamente più attenti<br />

ai guadagni relativi, e non a quelli assoluti, confermando quindi la visione<br />

più pessimista delle relazioni internazionali. Tra questi si veda MICHAEL MAS-<br />

TANDUNO, “Do Relative Gains Matter? America’s Response to Japanese Industrial<br />

Policy”. Per quanto riguarda invece la logica politica del settore economico,<br />

si vedano BARRY BUZAN, People, State and Fear: An Agenda for International<br />

Security Studies in the post-Cold War Era; MICHAEL SHEEHAN, International<br />

Security: An Analytical Survey; GIACOMO LUCIANI, “The Economic Content of<br />

Security”.<br />

80 Si veda a proposito BARRY BUZAN, People, State and Fear.<br />

81 Robert. O KEOHANE e JOSEPH S. NYE, jr., Power and Interdipendece:<br />

World Politics in Transitiono.<br />

82 Si vedano JOHN R. ONEAL e BRUCE RUSSETT, “The Classical Liberals<br />

Were Right: Democracy, Interdependence,and Conflict, 1950-1985”; SOLO-<br />

MON W. POLACHEK, “Why Democracies Cooperate More and Fight Less: The<br />

Relationship Between International Trade and Cooperation”; Rudolph J.<br />

Rummel, Stati Assassini.<br />

243


Figura 29. Flussi interregionali di petrolio: 2003 e 2030. Fonte: Iea 2004.<br />

La questione è certamente complessa – il fatto che gli studiosi<br />

non siano ancora giunti ad un punto di accordo ne è solo<br />

una piccola prova. Se si considera il settore energetico, appare<br />

ancora più complicata. L’energia è un fattore indispensabile<br />

per ogni economica nazionale. Per ogni Stato è dunque<br />

fondamentale garantire che le forniture di energia non vengano<br />

interrotte o non subiscano alcun ridimensionamento significativo.<br />

In generale si parla in questo caso di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

Data l’importanza che l’energia ricopre, è chiara la difficoltà<br />

che si incontra nel tentare di definire una politica <strong>energetica</strong><br />

ottimale.<br />

Essere autonomi significa molto verosimilmente ricorrere a<br />

prodotti più costosi – cosa che nel lungo termine può rappresentare<br />

una stessa fonte di in<strong>sicurezza</strong> 83. Inoltre, le risorse ener-<br />

83 Soprattutto se si ritiene che siano i vantaggi relativi a trainare le azioni<br />

degli Stati. Ciò che qui si vuole dire è che se per essere autonomi, si spendono<br />

più risorse di quanto si potrebbe fare in condizioni di mercato, allora si intacca<br />

il proprio potenziale di crescita di lungo termine, che a sua volta implica<br />

uno svantaggio relativo e quindi una possibile fonte di in<strong>sicurezza</strong>. Si vedano<br />

a proposito EDWARD H. Carr, The Twenty Years’ Crisis: An Introduction to the<br />

244


getiche sono difficilmente sostituibili nel breve termine. A fronte<br />

di quanto detto risulta evidente come possa essere assai più<br />

facile identificare una politica <strong>energetica</strong> non ottimale, piuttosto<br />

che una ottimale. Le politiche non ottimali sono numerose:<br />

tra di esse vi sono sicuramente quei provvedimenti che, intenzionalmente<br />

o no, potrebbero rallentare o bloccare la crescita<br />

economica. E tra le politiche non ottimali vi è l’illusione di potersi<br />

isolare da alcune regioni politicamente turbolente, ignorando<br />

quindi il loro ruolo economico. È questo il caso del Medio<br />

Oriente.<br />

6.6.4. Il dilemma energetico<br />

Tradizionalmente, per via della sua importanza, il settore<br />

energetico è considerato “strategico”. Per i paesi consumatori<br />

più piccoli così come per quelli più grandi, il concetto chiave in<br />

tema di politica <strong>energetica</strong> è la “<strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti,<br />

ossia, la disponibilità e la affidabilità dell’energia a prezzi<br />

ragionevoli” 84. La crisi dello Yom Kippur nel 1973, la rivoluzione<br />

Kohmeinista in Iran nel 1979, e più recentemente la politica<br />

del gas attuata della Russia contro Georgia e Ucraina (tra gli<br />

altri) esprimono chiaramente il potere di cui dispongono i paesi<br />

produttori, e quindi quanto gli approvvigionamenti di risorse<br />

siano soggetti a incertezza e volatilità, e dunque al rischio rappresentato<br />

da variabili esogene del tutto incontrollabili. La possibilità<br />

dei paesi produttori di tagliare (o limitare) le forniture di<br />

energia rappresenta infatti una seria minaccia per quelli consumatori,<br />

sia nel breve che nel lungo periodo.<br />

Da quanto detto verrebbe logicamente da concludere che<br />

una politica <strong>energetica</strong> ottimale debba mirare a garantire l’indipendenza<br />

dei paesi consumatori. La situazione, come si può immaginare,<br />

non è purtroppo di così facile soluzione. Le fonti<br />

energetiche sono difficilmente sostituibili nel breve-medio pe-<br />

Study of International Relations; ROBERT GILPIN, War and Change in World<br />

Politics; A.F.K. ORGANSKI e JACK KUGLER, The War Ledger.<br />

84 DANIEL YERGIN, “What Does ‘Energy Security’ Really Mean?”, The<br />

Wall Street Journal, 11 luglio 2006.<br />

245


iodo, e il costo di una tale politica nel lungo periodo non è contenuto<br />

(soprattutto per paesi come l’Italia che hanno abbandonato<br />

l’energia nucleare). Inoltre, il vantaggio di perseguire fonti<br />

alternative deriva dal loro costo di approvvigionamento. In ultima<br />

analisi, come i paesi europei hanno un interesse ad acquistare<br />

energia, così i paesi mediorientali hanno un interesse a venderla.<br />

Una politica che miri all’indipendenza <strong>energetica</strong> non<br />

può di conseguenza che scontrarsi con l’interesse dei paesi produttori<br />

a continuare a vendere le loro risorse energetiche. Detto<br />

in termini più semplici, abbassando il prezzo del petrolio, i<br />

paesi produttori possono facilmente “sabotare” qualsiasi strategia<br />

volta all’indipendenza <strong>energetica</strong> dei paesi europei – per i<br />

quali sarebbe particolarmente difficile sostenere costose politiche<br />

volte all’indipendenza <strong>energetica</strong> di fronte ai loro elettorati<br />

alla luce di prezzi più moderati – al di là del fatto che la manovra<br />

potrebbe anche non avere alcuna logica economica 85. A ciò<br />

si aggiungono poi problemi più pratici quali il rinnovamento di<br />

tutto l’apparato industriale (la produzione industriale di petrolio<br />

comincia alla fine dell’Ottocento, ma c’è voluto un secolo<br />

perché si imponesse sulle altre fonti) o il vantaggio derivante<br />

dalle strutture di trasporto già esistenti.<br />

Dopo la Federazione Russa, il Medio Oriente è il secondo<br />

fornitore di petrolio dell’Europa occidentale. Per quanto riguarda<br />

il futuro, secondo le proiezioni dell’Iea, il suo ruolo crescerà<br />

ancora, fino ad arrivare nei prossimi 25 anni ad essere il<br />

primo fornitore di petrolio dell’Europa. Da un punto di vista<br />

energetico, quello di Europa e Medio Oriente è dunque un futuro<br />

condiviso. L’Europa, infatti, non può pensare credibilmente<br />

di abbandonare una fonte di approvvigionamento energetico<br />

così importante. Certamente l’instabilità politica della regione<br />

potrebbe rivelarsi un fattore particolarmente problematico e negativo.<br />

Ma proprio per questo motivo, l’approccio da adottare<br />

85 Nel corso della Guerra Fredda, i paesi produttori hanno infatti sapientemente<br />

calibrato i prezzi petroliferi in modo da intervenire ogni qual volta<br />

i paesi consumatori hanno avuto l’incentivo a perseguire fonti alternative. Si<br />

veda a proposito PAUL R. KRUGMAN, Strategic Trade Policy and the New International<br />

Economics.<br />

246


dovrebbe cercare di essere pragmatico e realistico, cioè capace<br />

di reagire ad ogni eventuale crisi. Come scrive Daniel Yergin,<br />

“mercati ampi e flessibili sono lo strumento per assorbire gli<br />

shock che promuovono la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>... I mercati, con<br />

la loro decentralizzazione e la loro ingenuità, possono velocizzare<br />

gli aggiustamenti più rapidamente ed efficacemente di ogni<br />

altro approccio interventista” 86.<br />

La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, se esiste, può solo essere assicurata<br />

attraverso un aumento dell’offerta: pensare di abbandonare gli<br />

approvvigionamenti mediorientali per appoggiarsi su nuovi fornitori<br />

significa semplicemente trasferire ad un altro attore tale<br />

potere nei confronti dell’Europa. Che questo sia un passo avanti<br />

verso la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è ancora tutto da dimostrare.<br />

Per il Medio Oriente vale lo stesso ragionamento. La regione<br />

è ancora disconnessa dal resto dell’economia mondiale, e in<br />

più molti governi rendono l’integrazione con il resto del mondo<br />

ulteriormente più complicata per via del tentativo di applicare<br />

una concezione particolarmente restrittiva della religione islamica.<br />

Alla base di queste politiche vi è l’idea che il Medio Oriente,<br />

chiudendosi in se stesso, possa diventare un’oasi felice e prospera.<br />

Queste ricette sono fallite ogni volta che sono state tentate.<br />

Nonostante la ricchezza di petrolio, il Medio Oriente non<br />

sembra poter fare eccezione. D’altronde, i dati sull’analfabetismo,<br />

sulla povertà, sulla speranza e sulla qualità della vita vita<br />

non lasciano alcun margine di dubbio. La stessa Europa, che<br />

spesso a malo modo viene citata come poderoso esempio di<br />

chiusura verso l’esterno, ha potuto crescere e svilupparsi durante<br />

la Guerra Fredda grazie agli investimenti (degli) e soprattutto<br />

ai commerci con gli Stati Uniti.<br />

Proprio l’Europa, rispetto al Medio Oriente, potrebbe giocare<br />

un ruolo simile. Purtroppo, fino a questo momento, ha giocato<br />

invece un ruolo del tutto marginale, sia in termini politici<br />

che economici. In ragione della prossimità geografica, l’Europa<br />

dovrebbe dunque aumentare la sua presenza nella regione, promuovendo<br />

cooperazione economica e favorire lo sviluppo politico,<br />

economico e sociale dei singoli paesi. Allo stesso tempo<br />

86 DANIEL YERGIN, “What Does ‘Energy Security’ Really Mean?”.<br />

247


non si può negare come anche i paesi del Medio Oriente abbiano<br />

delle responsabilità. Essi dovrebbero infatti abbandonare le<br />

loro obsolete ricette economiche, ridurre gli ostacoli agli investimenti<br />

esteri e ai commerci così da creare un ambiente più prospero,<br />

seguendo l’esempio dell’Estremo Oriente.<br />

248


7.<br />

Le organizzazioni internazionali<br />

Instaurare “buoni rapporti tra le nazioni” è condizione necessaria<br />

(anche se non sufficiente) affinché si possano avere<br />

“buoni rapporti tra le imprese” e, di conseguenza, affinché si<br />

possa conseguire una ragionevole <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Per questo<br />

motivo una politica estera che abbia tra le propria finalità anche<br />

il perseguimento di una strategia <strong>energetica</strong> efficace non potrà<br />

ignorare il tema della pace e, più in generale, di un processo<br />

volto a rafforzare la concordia e a minimizzare le situazioni di<br />

crisi. Questo si applica a tutti i livelli. In altri termini, è importante<br />

che Italia ed Europa, e perfino – anche se in misura diversa<br />

– l’intero occidente (definendo in tal modo l’insieme dei paesi<br />

sviluppati, a economia capitalistica, e importatori di risorse<br />

energetiche), facciano il possibile per spegnere i focolai di tensione<br />

ed evitare i conflitti.<br />

Tuttavia, il fine dei “buoni rapporti” tra le nazioni trascende<br />

la questione della politica <strong>energetica</strong> e investe una dimensione<br />

superiore e più vasta: quella dell’ordine internazionale.<br />

7.1. Pace e libero commercio<br />

In effetti, non può esservi ordine e stabilità dei commerci al<br />

di fuori di un contesto pacifico, perché da un lato solo la pace<br />

rende possibili gli scambi, ma anche – in senso più forte – perché<br />

lo stesso diritto (quale ordine contraddistinto dalla pace) va<br />

pensato in larga misura come il risultato di un processo di negoziazione<br />

sociale e di interazioni reciprocamente vantaggiose.<br />

249


Per un acuto analista del fenomeno giuridico quale Bruno<br />

Leoni, in ogni società il diritto emerge proprio da uno scambio<br />

di pretese: in linea di massima, cioè, nel contatto con gli altri<br />

ognuno modera le proprie attese e si sforza di venire incontro<br />

alle esigenze altrui allo scopo di vedere soddisfatte le proprie<br />

esigenze primarie 1. Esiste quindi una relazione di reciproca implicazione<br />

tra commercio e pace (quest’ultima intesa anche come<br />

diritto), dato che il commercio esige la pace, ma a sua volta<br />

essa si costruisce quotidianamente attraverso l’infittirsi di relazioni<br />

e negozi 2.<br />

Durante tutto il Settecento, per gli autori di cultura illuminista<br />

il tema dell’eliminazione delle barriere doganali è tutt’uno<br />

con quello della costruzione di un mondo un po’ più pacifico.<br />

Già Montesquieu osservava che “l’effetto naturale del commercio<br />

è portare la pace. Due nazioni che negoziano tra di loro diventano<br />

reciprocamente dipendenti, se l’una ha un interesse nel<br />

comprare e l’altra nel vendere. E tutte le unioni sono basate sui<br />

bisogni reciproci” 3. Neppure si deve scordare che l’intera riflessione<br />

dello studioso francese poggiava sulla tesi che “dove vi è<br />

il commercio, là i costumi si addolciscono” 4, rilevando che l’intreccio<br />

di relazioni e interessi che si trova al cuore dell’universo<br />

degli scambi favorisce lo sviluppo di rapporti cooperativi.<br />

In Benjamin Constant questa idea attraversa l’intera opera<br />

e caratterizza specialmente De l’esprit de conquête et de l’usurpation,<br />

in cui sono anticipati taluni argomenti poi ricorrenti nella<br />

riflessione liberale, a partire dalla contrapposizione tra la moderna<br />

civiltà del commercio e l’antica barbarie della violenza:<br />

“la guerra e il commercio non sono che due mezzi diversi per ottenere<br />

il medesimo fine: possedere ciò che si desidera. Il commercio<br />

non è altro che un omaggio reso alla forza del possessore<br />

da parte di chi aspira al possesso. È un tentativo per ottenere<br />

1 Sul tema si veda BRUNO LEONI, Il diritto come pretesa.<br />

2 In ambito internazionale questo è del tutto evidente quando si pone<br />

mente alla natura e al ruolo del diritto internazionale privato elaborato attraverso<br />

gli scambi e i contratti. Un’utile lettura a tale proposito è: FRANCESCO<br />

GALGANO, Lex mercatoria. Storia del diritto commerciale.<br />

3 MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, libro XX, cap. 2.<br />

4 Ivi, cap. 1.<br />

250


per mutuo accordo ciò che non speriamo più di conquistare con<br />

la violenza. Un uomo che fosse sempre il più forte in ogni confronto<br />

non penserebbe mai di servirsi del commercio: è l’esperienza<br />

che – provandogli come la guerra, vale a dire l’uso della<br />

propria forza contro la forza altrui, sia esposta a varie resistenze<br />

e a vari insuccessi – lo induce a ricorrere al commercio, ossia<br />

ad un mezzo più mite e sicuro per impegnare l’interesse degli altri<br />

a consentire a ciò che conviene al suo proprio interesse. La<br />

guerra è dunque anteriore al commercio, selvaggio impulso<br />

quella, calcolo civile questo” 5.<br />

Ricollegandosi alla tradizione dei Lumi, Constant qui afferma<br />

che la pace e il commercio rendono gli uomini tra loro “compatrioti”.<br />

La sua idea è che mentre il potere tende a reificare ed<br />

irrigidire confini e barriere il più delle volte del tutto artificiali,<br />

nel libero spazio del commercio gli uomini si riconoscono come<br />

appartenenti alla medesima “famiglia umana”.<br />

Una concretizzazione storica significativa di tale ispirazione<br />

liberale, dopo Constant, si ha con l’esperienza civile di Richard<br />

Cobden, il più noto esponente del cosiddetto “liberalismo<br />

manchesteriano” 6. Il nome di questo autore è solitamente<br />

associato alla battaglia vittoriosa condotta in vista dell’abolizione<br />

dei dazi posti a protezione dei cereali prodotti in Inghilterra<br />

(una campagna politica e mediatica che, per la prima volta nella<br />

storia, coinvolse larghe masse), ma quando si esamina la produzione<br />

intellettuale di Cobden si deve constatare come la gran<br />

parte dei suoi scritti tratti in realtà temi di politica estera ed<br />

esprima una costante e documentata critica dell’imperialismo<br />

britannico. In Cobden come in larga parte del liberalismo ottocentesco,<br />

quindi, le due battaglie sono strettamente correlate: il<br />

protezionismo conduce al militarismo, e il militarismo alla guerra<br />

e alla pretesa di dominare il mondo. Viceversa, l’apertura del-<br />

5 BENJAMIN CONSTANT, De l’esprit de conquête et de l’usurpation, in Oeuvres,<br />

p. 959.<br />

6 Tale espressione, solitamente associata all’idea di un “fanatico” sostegno<br />

delle ragioni del libero scambio, si deve alla verve polemica di Karl Marx,<br />

che in varie occasioni ebbe ad attaccare “gli importuni trattatelli lanciati per il<br />

mondo dall’Anti-Corn-Law League, con in testa i fabbricanti Cobden e Bright”,<br />

KARL MARX, Il Capitale, vol. I, p. 81.<br />

251


le frontiere crea una reciproca “interdipendenza” la quale costringe<br />

a rigettare il ricorso alle armi quando chi si trova da un<br />

lato di una frontiera ha fatto enormi investimenti nell’altra nazione<br />

e quindi non ha alcuna voglia di vedere i bombardieri sorvolare<br />

i propri stabilimenti e constatare che i propri capitali rischiano<br />

di essere distrutti da un momento all’altro 7.<br />

Non molti decenni dopo, nel pieno dell’espansione coloniale<br />

britannica, contro la guerra e in difesa del libero scambio si<br />

alza la voce di Herbert Spencer, fautore della più ampia espansione<br />

delle libertà mercantili e fiero avversario del colonialismo.<br />

E posizioni analoghe assumono altri difensori del libero commercio<br />

internazionale: William G. Sumner (che avversò il conflitto<br />

tra Stati Uniti e Spagna), Vilfredo Pareto (che fu un membro<br />

attivo della Società internazionale per la pace) e Frédéric<br />

Passy (economista liberale che ottenne il premio Nobel per la<br />

pace proprio in virtù delle sue battaglie contro il militarismo).<br />

Nel corso dell’Ottocento, quindi, il liberalismo classico ha<br />

ripetutamente evidenziato che quando uno Stato si dilata e finisce<br />

per controllare in larga misura la vita economica, è fatale che<br />

si abbiano non soltanto esiti “colbertisti” e mercantilisti, ma anche<br />

che la classe politica finisca prima o poi per lanciarsi in politiche<br />

espansionistiche.<br />

Gli autori favorevoli ad evidenziare il rapporto tra pace e<br />

commercio hanno innumerevoli volte sottolineato che le stesse<br />

esperienze conosciute in Europa tra il diciannovesimo e il ventesimo<br />

secolo ci insegnano che se la vita di un paese finisce per<br />

convergere nella sola dimensione politica, lo Stato arriva a disporre<br />

di un micidiale potenziale aggressivo che, un giorno o<br />

l’altro, potrebbe essere utilizzato. La stessa vita economica finisce<br />

per essere raffigurata sempre più non come interazione tra<br />

individui, ma quale scontro tra blocchi e quella che un tempo<br />

era la libera concorrenza tra soggetti ed imprese, diventa solo un<br />

altro modo di combattersi.<br />

Per tutta la tradizione liberale esiste quindi uno stretto collegamento<br />

tra la libertà e la pace, tra la tutela dei diritti indivi-<br />

7 RICHARD COBDEN, Speeches on Questions of Public Policy by Richard<br />

Cobdeno.<br />

252


duali e il rigetto di ogni forma d’imperialismo. Non a caso,<br />

quando nel sedicesimo secolo i Paesi Bassi si sganciarono dall’impero<br />

asburgico e costruirono una società largamente basata<br />

sulla tolleranza e sul libero scambio, il loro motto era “Commercium<br />

et pax”. E qualcosa di simile si può dire per l’America delle<br />

origini, un paese nato ugualmente a seguito di una guerra<br />

d’indipendenza, la quale fu pure una lotta contro la fiscalità eccessiva,<br />

l’uso arbitrario del potere, l’erosione dei diritti individuali.<br />

Per giunta, l’esplosione delle grandi guerre novecentesche<br />

coincide con la crisi del liberalismo europeo e con il ritorno<br />

(si pensi al cancelliere Bismarck) a politiche dirigiste, determinate<br />

a nazionalizzare la vita produttiva e a fare dell’economia<br />

– parafrasando Clausewitz – soltanto un altro modo di combattersi<br />

8.<br />

L’autore che forse meglio di altri ha saputo tirare tutte le<br />

conseguenze da questa vicenda storica e intellettuale è Joseph<br />

Schumpeter, nei cui scritti è forte la sottolineatura del fatto che<br />

nei paesi capitalisti vige un’opposizione di principio alla guerra.<br />

Se per Lenin nelle logiche di mercato si annida una naturale predisposizione<br />

al dominio, e il capitalismo implicherebbe per sua<br />

natura l’imperialismo, all’indomani della Grande Guerra<br />

Schumpeter riflette sulla tragedia che ha distrutto definitivamente<br />

il vecchio mondo, e in tali pagine egli rovescia la tesi leninista<br />

evidenziando come il mondo degli affari abbia al contrario<br />

una naturale predisposizione (e un ovvio interesse) alla difesa<br />

di un ordine internazionale pacifico 9.<br />

Spesso si è detto che vi sono taluni imprenditori (quanti<br />

producono armi, in particolare) che vedono nei conflitti grandi<br />

occasioni di guadagno. Si tratta di un dato tanto inequivocabile<br />

8 Utili intuizioni sul tema si ritrovano anche in quell’acuto intellettuale<br />

che fu Guglielmo Ferrero, che a causa del suo antifascismo morirà nel 1944 in<br />

esilio a Ginevra. Quando alla fine del diciannovesimo secolo egli tiene una serie<br />

di conferenze sull’emergere in Europa del militarismo, la polemica contro<br />

il nuovo regime prussiano muove in lui anche dalla consapevolezza di quanto<br />

possa essere pericolosa la miscela tra interventismo economico e nazionalismo<br />

politico. Si veda GUGLIELMO FERRERO, Il militarismo.<br />

9 JOSEPH SCHUMPETER, Sociologia dell’imperialismo. Si veda anche LO-<br />

RENZO INFANTINO, Sociologia dell’imperialismo: interpretazioni liberali.<br />

253


quanto sostanzialmente marginale, che soltanto il trionfo epocale<br />

del materialismo dialettico, con la sua pretesa di leggere la<br />

realtà nei termini del rapporto struttura-sovrastruttura e di far<br />

derivare ogni cosa (e quindi anche la politica) dai rapporti economici,<br />

può aver condotto a sopravvalutare.<br />

Se si eccettuano taluni specifici settori, bisogna prendere<br />

consapevolezza che l’economia di mercato nel suo insieme considera<br />

le guerre semplicemente una minaccia, dato che in caso<br />

di conflitto non soltanto gli scambi internazionali si riducono,<br />

ma al tempo stesso crescono la tassazione, gli espropri, l’inflazione.<br />

Richiamando la rappresentazione duméziliana dei tipi<br />

fondamentali della società, è infatti evidente che il trionfo dei<br />

guerrieri è destinato a segnare il declino dei mercanti.<br />

Al contrario, allo scopo di espandersi l’economia di mercato<br />

esige un ordine pacifico che permetta la piena circolazione<br />

degli attori economici e l’instaurazione di relazioni d’affari tra<br />

chiunque sia interessato a ciò. Perché questo sia possibile è perciò<br />

necessario ridurre ogni ragione di tensione. Non vi è nulla di<br />

sorprendente, allora, se anche nel Novecento la sparuta pattuglia<br />

di economisti rimasti affezionati alle idee liberali abbia coniugato<br />

strettamente i mercati aperti e la pace.<br />

Secondo Wilhelm Röpke (maestro di Ludwig Erhard e<br />

quindi ispiratore del boom economico della Germania post-bellica),<br />

dato che “soltanto lo stato di guerra crea le premesse psicologiche<br />

nelle quali il collettivismo può imporsi” è facile comprendere<br />

come esista un “desiderio irresistibile del governo collettivista<br />

di facilitarsi il compito cercando di provocare lo stato<br />

di guerra tanto favorevole al collettivismo” 10. Nato dalla guerra,<br />

lo Stato totale e aggressivo ricerca i conflitti come straordinarie<br />

opportunità per espandersi e consolidarsi.<br />

Lo stesso argomento si ritrova in Ludwig von Mises: “non<br />

la guerra ma la pace è madre di tutte le cose. L’unica cosa che fa<br />

progredire l’umanità e la distingue dal mondo animale è la cooperazione<br />

sociale. Solo il lavoro costruisce, crea ricchezza e pone<br />

così le basi materiali del progresso spirituale dell’uomo... Il<br />

pieno sviluppo della divisione del lavoro è possibile solo se vi è<br />

10 WILHELM RÖPKE, Civitas Humana, pp. 25-26.<br />

254


la garanzia permanente di una convivenza pacifica” 11. La divisione,<br />

anche internazionale, del lavoro è alla base dello sviluppo,<br />

economico e non solo. Per contro, c’è un nesso molto forte<br />

tra protezionismo e guerra: se non altro, nel senso che per due<br />

paesi privi di legami economici, scendere in guerra è meno costoso,<br />

perché le rispettive economie patiscono solo i danni diretti<br />

della guerra, ma non quelli indiretti derivanti dalla perdita<br />

o dall’allentamento degli affari reciproci. “Per non distruggere<br />

la pace – prosegue Mises – occorre eliminare l’interesse a fare la<br />

guerra” 12. L’interdipendenza ha esattamente questo risultato: e<br />

in questo senso, ai suoi rischi corrispondono enormi opportunità.<br />

Se vista in tali termini, la richiesta di autosufficienza o indipendenza<br />

<strong>energetica</strong> non diventa solo una politica inefficiente<br />

dal punto di vista meramente economico: diventa anche una<br />

scelta pericolosa sul piano prettamente politico. Viceversa, l’integrazione<br />

economica produce diversi effetti. Il primo e più ovvio<br />

è lo spostamento delle attività laddove la produttività è maggiore.<br />

Tale movimento è tanto più efficace quanto minori sono<br />

le barriere legali che lo ostacolano. Esso non determina (solo)<br />

una potenziale riduzione dei posti di lavoro nel paese che “perde”<br />

l’attività in questione (peraltro potenzialmente compensato<br />

dal rafforzamento di altre industrie): determina anche un abbassamento<br />

dei costi dei prodotti la cui produzione è migrata, e<br />

quindi favorisce tutti. In particolare spinge gli abitanti del paese<br />

A ad acquistare beni e servizi prodotti nel paese B. Il secondo<br />

effetto di questo cambiamento è che concetti quali quello di<br />

mercato “interno” ed “esterno” perdono valore, o diventano meno<br />

importanti.<br />

Quando Mises rifletteva su questi temi, nel 1927, il mondo<br />

era diviso da steccati inamovibili che l’avrebbero presto<br />

precipitato nel turbine della guerra. L’Europa, in particolare,<br />

fu talmente ferita dal conflitto che, una volta uscitane, decise<br />

di porre le basi per una via del tutto diversa: “voltando le spalle<br />

alla guerra – ricorda Lord Harris – le sei nazioni fondatrici<br />

si costrinsero a creare la Cee come una singola comunità eco-<br />

11 LUDWIG VON MISES, Liberalismo, pp. 54-57.<br />

12 Ivi, p. 163.<br />

255


nomica senza barriere interne. Nazioni che per centinaia di<br />

anni avevano combattuto l’una contro l’altra con gli eserciti e<br />

che si erano scontrate in guerre commerciali all’insegna dell’<br />

‘impoverire-il-mio-vicino’, alla fine si garantivano reciprocamente<br />

una pacifica cooperazione economica. Il fine era politico,<br />

cioè la pace; il metodo era principalmente economico, cioè<br />

il libero mercato” 13. Il fine, per ora, è stato raggiunto. Il completamento<br />

del mercato interno è ancora lontano, eppure quel<br />

che è stato fatto ha determinato un’autentica rivoluzione nei<br />

rapporti tra i paesi europei: gli odi che una volta scatenavano<br />

guerre sono ormai ridotti a materiale per le barzellette, o poco<br />

più.<br />

Uno sforzo simile è ora necessario rispetto a una base più<br />

ampia: mentre l’Europa deve tagliare un traguardo che è in vista,<br />

anche se difficile da raggiungere, è opportuno che una strategia<br />

simile, di coraggiosa apertura, venga perseguita rispetto ad<br />

altri paesi, a partire da quelli che già hanno con l’Ue forti legami<br />

commerciali. Questa tensione verso la pace non dipende da<br />

un idealismo cieco o da un pacifismo acritico: deriva dalla constatazione<br />

che la pace conviene o, per dirla in altri termini, la pace<br />

è economicamente efficiente.<br />

Tale ragionamento generale non è privo di riflessi sul fronte<br />

della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Se le risorse energetiche sono commodities<br />

come le altre, allora non c’è ragione di assoggettarle a<br />

regole diverse da quelle del libero scambio che, pur tra molti<br />

contraddizioni, si stanno affermando, dentro e fuori l’Europa,<br />

su quasi tutti i fronti. Se invece l’energia è un capitolo a parte,<br />

un settore strategico, un input essenziale al funzionamento dell’economia<br />

dei paesi sviluppati e alla crescita di quelli in via di<br />

sviluppo, allora a maggior ragione va sottratta alla logica nazionalistica<br />

che, erigendo barriere, crea inefficienze economiche,<br />

aumenta i costi, introduce rigidità e, in ultima analisi, genera in<strong>sicurezza</strong>.<br />

13 RALPH HARRIS, “L’Unione Europea sopravviverà?”, in ENRICO CO-<br />

LOMBATTO e ALBERTO MINGARDI (a cura di), Il coraggio della libertà, p. 248.<br />

256


7.2. Il libero commercio può bastare?<br />

Le tesi liberali sul rapporto tra pace e commercio (e quindi<br />

anche tra pace e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>) sono state ampiamente criticate:<br />

e non solo da posizione marxiste. L’ottimismo del liberalismo<br />

di matrice illuminista di fronte alle virtù del commercio è stata<br />

molto contestato, in particolare, da quanti ritengono ingenuo<br />

illudersi che un mercato senza frontiere possa bastare a costruire<br />

un mondo più pacifico. Uno dei maestri della cosiddetta “scuola<br />

realista” nell’ambito delle relazioni internazionali, Hans J. Morgenthau,<br />

ha criticato duramente il pacifismo liberale sostenendo<br />

che “la lotta per la potenza è universale in senso temporale e spaziale<br />

ed è un fatto empirico innegabile” 14. La sua tesi è che sia illusorio<br />

pensare di contenere i conflitti dato che essi sono parte<br />

essenziale della realtà umana e sociale, tanto più che per ottenere<br />

questo risultato bisognerebbe affrancare al tempo stesso l’intera<br />

umanità 15. Altri autori ammettono che possa essere fondata<br />

la tesi secondo cui l’interdipendenza economica sia in grado di<br />

fare aumentare la conoscenza reciproca, ma esprimono scetticismo<br />

in merito al fatto che questo debba portare necessariamente<br />

ad una posizione di reciproco rispetto. In fondo, con un aforisma<br />

senza dubbio assai efficace, già Ennio Flaiano aveva rilevato che<br />

“se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di più”.<br />

Oltre a ciò, non manca chi sottolinea come l’interdipendenza<br />

economica possa diventare essa stessa fattore di tensioni e<br />

14 HANS J. MORGENTHAU, <strong>Politica</strong> tra le nazioni, p. 55. Rilevare che la<br />

guerra è più o meno ovunque e c’è sempre stata può apparire un’affermazione<br />

di buon senso, ma non dà ragione del fatto che vi sono state età più o meno<br />

violente, e che anche oggi vi sono aree più segnate dai conflitti e altre invece<br />

in cui le nazioni intrattengono rapporti sostanzialmente pacifici. Anche se<br />

non può esser questa l’occasione per approfondire il tema, è poi necessario rilevare<br />

la fragilità metodologica di un’impostazione così piattamente empirista.<br />

Per una critica radicale al ricorso all’identificazione tra conoscenza e induzione<br />

si veda ad esempio KARL R. POPPER, Congetture e confutazioni. Una prospettiva<br />

radicalmente alternativa, basata su apriori e deduzione, si trova in:<br />

LUDWIG VON MISES, Human Actiono.<br />

15 “Sarebbe inutile, e perfino autolesionistico, liberare l’uno o l’altro popolo<br />

della terra dalla brama di potenza, lasciandola intatta in tutti gli altri”,<br />

HANS J. MORGENTHAU, <strong>Politica</strong> tra le nazioni, p. 56.<br />

257


conflitti. Se l’Europa occidentale – ad esempio – dipende dagli<br />

idrocarburi provenienti dall’area russa, e se Mosca può utilizzare<br />

queste risorse all’interno di una più generale strategia di dominio,<br />

allora è evidente come una crescita del commercio e della<br />

dipendenza sia ben lungi dal porre le condizioni per la pace e<br />

per relazioni amichevoli. Una simile integrazione potrebbe aumentare<br />

le ragioni di scontento e contrapposizione. Infine, non<br />

manca neppure chi – sulla scorta della lezione di Carl Schmitt,<br />

in particolare – rileva come la società liberale abbia una propria<br />

vocazione per la pace, ma solo per evidenziare che tale rigetto<br />

ideologico della guerra espresso dalla modernità liberale finisce<br />

per aprire la strada a guerre senza paragoni con i conflitti del<br />

passato: le quali, poiché negano ogni legittimità al conflitto, finiscono<br />

per veder nel nemico non già un hostis, ma un inimicus.<br />

Non un avversario da combattere nel rispetto della sua dignità,<br />

ma invece un nemico da distruggere e cancellare.<br />

L’Altro (diverso da noi per nazione, cultura, religione) non<br />

è più un soldato che combattiamo secondo quelle regole che<br />

perfino la guerra include, ma diventa un oppositore ideologico<br />

a cui neghiamo ogni riconoscimento. Per giunta, questo inimicus<br />

è ancor più inaccettabile nel momento in cui mantiene viva<br />

la possibilità della guerra: non abbracciando l’ideologia liberale-pacifista,<br />

egli diventa un soggetto hors la loi, hors l’humanité,<br />

che può solo essere annientato 16. Per Schmitt e per quanti si rifanno<br />

a lui, il pacifismo di Constant e della tradizione liberale<br />

classica avrebbe quindi aperto la strada alla guerra totale e alle<br />

barbarie del ventesimo secolo.<br />

Tutte queste analisi vanno prese sul serio: e all’interno di tali<br />

riflessioni vi sono elementi fondati, sebbene il più delle volte<br />

confusi tra molti equivoci e gravi fraintendimenti. Innanzi tutto<br />

è bene sgombrare il campo da un’ipotesi assolutamente indifendibile,<br />

che nessun serio fautore del rapporto tra commercio internazionale<br />

e pace ha mai avanzato: quella che sia sufficiente<br />

aprire i mercati ed eliminare i dazi doganali perché la guerra<br />

possa venire definitivamente sconfitta.<br />

16 Sul tema si veda CARL SCHMITT, Le categorie del “politico”.<br />

258


Questa tesi si può certamente ritrovare qua e là (una nota<br />

espressione si deve a Pierre-Joseph Proudhon 17, ad esempio),<br />

ma non può essere in alcun modo accolta. La pace è sempre il<br />

risultato di un processo articolato: è il frutto di dimensioni spirituali<br />

e culturali, oltre che di accorgimenti istituzionali e processi<br />

storici. Per uscire da una situazione di conflitto e poi, negli<br />

anni successivi, per riuscire a mantenere un ordine fondato<br />

sulla cooperazione e sul rispetto reciproco servono molteplici<br />

componenti. Un’economia aperta e il venir meno di ogni forma<br />

di “militarizzazione” della vita produttiva possono giocare un<br />

ruolo importante, ma sicuramente non possono mai bastare.<br />

In secondo luogo, la pace di cui qui si discute non è la pace<br />

definitiva (ora e per sempre) e universale (tra tutti gli uomini)<br />

che caratterizza le posizioni più “idealiste” all’interno della<br />

riflessione filosofica e politologica. Non vi è affatto identità tra<br />

la linea che conduce da Cobden a Mises, e quella interpretata<br />

prima da Immanuel Kant ne La pace perpetua e poi variamene<br />

ripresa. Per giunta, la pace ricercata anche attraverso l’ampliamento<br />

della cooperazione economica e dell’integrazione culturale<br />

non può essere una pace disarmata. L’obiezione di Morgenthau<br />

secondo cui contenere “la brama di potenza” avrebbe<br />

senso solo se ciò avvenisse a livello globale, contemporaneamente<br />

e per tutti gli Stati, confonde l’ingiusto ed illiberale desiderio<br />

di dominare gli altri e il più che legittimo (e anzi doveroso) impegno<br />

a costruire un apparato protettivo che scongiuri quanto<br />

più è possibile ogni forma di aggressione.<br />

Qui come sempre, pare che il miglior modo per avere dialetticamente<br />

ragione dell’avversario consista nel darne una rappresentazione<br />

parodistica. Se il liberalismo classico pensasse<br />

che sia sufficiente aprire qualche mercato per eliminare la guerra<br />

dall’orizzonte della storia, non varrebbe neppure la pena di<br />

prendere in considerazione simili tesi. Ma le cose non stanno<br />

così.<br />

17 Il noto autore socialista ebbe infatti ad affermare: “Sopprimiamo le tariffe,<br />

e l’alleanza tra i popoli verrà così dichiarata, la loro solidarietà riconosciuta,<br />

la loro uguaglianza proclamata”, PIERRE-JOSEPH PROUDHON, Oeuvres<br />

complètes, vol. I, p. 248.<br />

259


In un suo lavoro dedicato ad esaminare il rapporto tra ordine<br />

politico e libero commercio, Filippo Andreatta ha esaminato<br />

le relazioni internazionali alla luce dei problemi posti da<br />

un’economia sempre più integrata 18. Il testo si propone di superare<br />

la teoria liberale tradizionale, ma anche il realismo degli autori<br />

persuasi che l’aumento dell’integrazione economica possa<br />

produrre un’accresciuta conflittualità. Largamente basato su<br />

un’impostazione empirica, il lavoro sostiene che l’interdipendenza<br />

economica possa, a seconda delle circostanze, aumentare<br />

le occasioni di tensione, ma anche le possibilità di cooperazione.<br />

D’altra parte, dobbiamo prendere atto che “globalizzazione”<br />

e “interdipendenza economica” sono nozioni assai vaghe e<br />

se non le si definisce chiaramente è facile trovarsi a fare i conti<br />

con troppi fraintendimenti.<br />

In questo senso, va sottolineato che la prospettiva più coerentemente<br />

liberale – da Cobden a Mises – non si limita ad auspicare<br />

un crescente intreccio tra le differenti economie, ma suggerisce<br />

che ciò avvenga sulla base di accordi volontariamente<br />

scelti da parte di consumatori, imprese e altre realtà private. Sono<br />

queste intese realizzate dagli attori economici che vengono<br />

ritenute, da ogni partecipante, certamente vantaggiose a integrare<br />

nel migliore dei modi (e in forma pacifica) le differenti società<br />

e culture. In questo senso è importante che il processo di<br />

integrazione veda proprio protagonisti consumatori e imprese,<br />

assai più che istituzioni politiche nazionali o internazionali. La<br />

tesi di Andreatta secondo cui il commercio non sempre favorisce<br />

la pace è tanto più vera quanto più i sistemi economici che<br />

sono interessati a questa crescente integrazione non sono sistemi<br />

economici a potere diffuso, ma invece sono in larga misura<br />

controllati dall’apparato politico-burocratico. Due economie<br />

pianificate basate sulla monocultura che decidessero di “integrarsi”<br />

grazie ad intese tra i loro ministri dell’economia (ad<br />

esempio, cedendo zucchero in cambio di caffè) poco avrebbero<br />

a che fare con quanto al centro di questa riflessione.<br />

Un’analoga chiarificazione delle tesi e dei concetti che si intendono<br />

prendere in esame è necessaria anche per affrontare le<br />

18 FILIPPO ANDREATTA, Mercanti e guerrieri.<br />

260


obiezioni provenienti dal “realismo politico” di tradizione schmittiana<br />

19. Come già si è detto, difendere il nesso tra mercato e<br />

pace (e viceversa) non significa affatto abbracciare una prospettiva<br />

pacifista, che neghi ogni legittimità alle guerre volte respingere<br />

gli aggressori, alle armi, ai sistemi di difesa. Per tanti aspetti,<br />

uno dei testi fondanti della tradizione liberale classica è The<br />

Proclamation on Neutrality, promulgata dal presidente (già generale)<br />

George Washington il 22 aprile 1793, mentre l’Europa<br />

stava precipitando in una più che decennale lotta contro l’imperialismo<br />

francese. Questo documento è perfettamente in linea<br />

con le tesi già espresse dallo stesso Thomas Jefferson, l’uomo<br />

che più di tutti ha contributo a definire l’americanismo stesso 20.<br />

Per Jefferson, infatti, l’America uscita dalla Rivoluzione del<br />

1776 doveva intrattenere rapporti di “pace, commercio ed onesta<br />

amicizia con tutte le nazioni, senza stringere alleanza con nessuna<br />

di esse” 21; e, soprattutto, senza intromettersi negli affari altrui.<br />

Per i Padri fondatori della nazione americana, insomma,<br />

non si trattava certo di abolire l’esercito, ma più semplicemente<br />

di evitare ogni indebita intromissione negli affari altrui. La politica<br />

estera americana doveva solo preoccuparsi di proteggere<br />

da eventuali minacce esterne e di favorire la migliore cooperazione<br />

con tutti. Per costruire concretamente la pace bisogna<br />

quindi evitare l’utopia (irresponsabile) del pacifismo radicale e<br />

per questo motivo anche rifuggire dall’illusione che si possa eliminare<br />

la possibilità stessa della guerra: proprio perché tale prospettiva<br />

facilmente apre la strada alla costruzioni di “nemici assoluti”.<br />

Più modestamente, i fautori del commercio internazionale<br />

credono che ogni società possa trarre beneficio dall’arrivo di<br />

merci, servizi e informazioni. Se l’Occidente conoscesse meglio<br />

19 Si veda, ad esempio, ALESSANDRO COLOMBO, “Guerra e commercio:<br />

alle radici di un’utopia”.<br />

20 Come ha scritto Luigi Marco Bassani nella sua monografia, Jefferson<br />

fu “l’inventore stesso del termine americanismo”, oltre che “il padre fondatore<br />

più studiato, affascinante e rappresentativo di un’intera epoca”, LUIGI MAR-<br />

CO BASSANI, Jefferson. Un profilo intellettuale, p. 12.<br />

21 SELIG ADLER, The Isolationist Impulse: Its Twentieth-Century Reaction,<br />

pp. 10-11; il corsivo è aggiunto.<br />

261


l’Iran e questi conoscesse meglio il nostro mondo, la possibilità<br />

(almeno nel medio-lungo termine) di relazioni pacifiche e cooperative<br />

diverrebbe più concreta. Come detto, molti obiettano che<br />

la conoscenza può anche generare nuove occasioni di tensione; e<br />

in parte ciò è vero. Ma è un’alternativa credibile l’ignoranza reciproca?<br />

Ritenere (illuministicamente) che la conoscenza possa<br />

sempre e comunque eliminare ogni ragione di tensione esprime<br />

un’ingenuità indifendibile, ma il suo opposto è perfino peggio.<br />

Al contrario, è abbastanza ragionevole attendersi che in società<br />

tra loro permeabili sia più facile per tutti riconoscere quanto<br />

vi è di interessante, valido e meritevole all’interno di una cultura<br />

anche molto diversa dalla nostra. Se grazie ai processi di globalizzazione<br />

avviati dal secondo dopoguerra oggi vi sono milioni<br />

di giapponesi che amano Mozart e milioni di americani innamorati<br />

del vino e della cucina italiani, perché si dovrebbe escludere<br />

la possibilità che una migliore conoscenza dei differenti sistemi<br />

giuridici e istituzionali non possa aiutare gli uomini di ogni<br />

società ad evolvere verso ordinamenti migliori? La realtà della<br />

concorrenza istituzionale è un fatto di incredibile rilevanza, il<br />

quale è costantemente alimentato da quel processo di circolazione<br />

delle idee e delle informazioni che accompagna ogni apertura<br />

dei mercati nazionali. Per giunta, quanti hanno difeso la sintonia<br />

tra i mercati aperti e un ordine internazionale pacifico<br />

l’hanno sempre fatto nella consapevolezza di poter contribuire a<br />

comporre piccoli tasselli di un mosaico più ampio. Per Cobden,<br />

abolire i dazi che impedivano alle merci spagnole o francesi di<br />

traversare la Manica poteva giovare forse anche agli equilibri internazionali<br />

nel loro complesso, ma soprattutto avrebbe giovato<br />

ai rapporti tra i cittadini britannici e i paesi europei più vicini.<br />

Così le obiezioni schmittiane possono essere efficaci di<br />

fronte ai “costruttori” di un ordine internazionale idealisticamente<br />

inteso, spesso destinato a produrre effetti perversi e soluzioni<br />

inattese, del tutto inintenzionali. Ma quando invece Schmitt<br />

contrappone la visione moderna della pace (assoluta e<br />

astratta) a quella che era la concezione di tipo medievale, egli interpreta<br />

una prospettiva tutt’altro che lontana dalle tesi liberali.<br />

Prima della modernità e della sua volontà di neutralizzare e<br />

uniformare, in effetti, la pace “non era un concetto generale,<br />

262


normativo e privo di riferimento spaziale, ma un concetto sempre<br />

localizzato concretamente, in quanto pace di un regno, di un<br />

paese, di una chiesa, di una città, di un castello, di un mercato,<br />

di una ‘realtà’” 22. Sembra qui riconoscibile più di un punto di<br />

contatto con l’isolazionismo dell’America di fine Settecento,<br />

che non s’illudeva di salvare il mondo, ma più modestamente si<br />

proponeva di tenere gli ex-coloni fuori dai conflitti europei e garantire<br />

– per quanto possibile – una loro piena possibilità di tenere<br />

vivi i commerci e le relazioni culturali con tutte le nazioni<br />

travolte dal conflitto del Vecchio Continente.<br />

Quello espresso dai fautori del commercio internazionale è<br />

quindi una forma di idealismo realista, basato su una serie di tesi<br />

assai semplici e direttamente concatenate: l’idea che la civiltà<br />

esige il pieno dispiegarsi degli scambi e che le relazioni commerciali<br />

hanno necessità di un ordine di pace; che la pace si costruisce<br />

localmente e relazionalmente grazie ad una serie di contributi<br />

diversissimi 23, ma questi piccoli e grandi apporti sono facilitati<br />

da frontiere aperte e permeabili, e da società civili e sistemi<br />

di mercato quanto più è possibile sottratti a controlli e pianificazione;<br />

che a questo obiettivo possono dare un contributo<br />

fondamentale attori apparentemente non politici quali, appunto,<br />

gli uomini d’affari e le imprese.<br />

Secondo la lezione di Bruno Leoni, una società libera richiede<br />

che diritto e politica emergano da uno scambio di pretese<br />

(nel caso dell’ordine giuridico) e di poteri (nel caso dell’ordine<br />

politico). Questo significa che l’elaborazione di relazioni internazionali<br />

sempre più rette dal diritto, e quindi pacifiche, può<br />

trarre enormi benefici dall’infittirsi di interazioni: anche e forse<br />

in primo luogo di tipo economico.<br />

D’altra parte in ogni società, quale sia il suo ordinamento, i<br />

governanti non dispongono che di una quota del potere politico<br />

e per questo essi devono costantemente rispondere di ciò che<br />

22 CARL SCHMITT, Il Nomos della Terra nel diritto internazionale dello “jus<br />

publicum europaeum”, p. 42.<br />

23 Anche un’orchestra sinfonica composta da giovanissimi musicisti<br />

ebrei e palestinesi, quale è la West-Eastern Divan Orchestra creata da Daniel<br />

Baremboim, può a suo modo contribuire a ciò.<br />

263


fanno di fronte a molti altri soggetti. Ci si trova di fronte ad uno<br />

scenario al cui interno anche lo spazio del “potere” è definito da<br />

una costante contrattazione sociale dei diversi soggetti: ognuno<br />

dei quali portatore di istanze e diversamente dotato della capacità<br />

d’incidere sul reale. La riflessione di Leoni mira ad evidenziare<br />

come l’universo della politica non possa essere sottratto<br />

dal proprio contesto sociale; e se questo è vero entro i contesti<br />

nazionali, è ugualmente vero di fronte allo spazio sociale e giuridico<br />

internazionale. Ma proprio per questo è necessario che<br />

prenda corpo una rete di relazioni culturali, sociali, religiose e<br />

(certamente) anche economiche che ponga le premesse per questo<br />

genere di quotidiane negoziazioni di pretese e poteri.<br />

Una politica mirante alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> non può allora<br />

ignorare le ragioni di un impegno autentico per la pace (specie<br />

nelle aree cruciali per l’approvvigionamento degli idrocarburi),<br />

ma comprendendo pure come una strategia diplomatica<br />

efficace di fronte a tale questione debba riconoscere la più alta<br />

dignità e piena libertà d’azione ai nuovi Marco Polo del mondo<br />

futuro che si va costruendo.<br />

È anche in virtù di questa consapevolezza che, contrariamente<br />

a quanto vorrebbe la vulgata, le imprese operanti nel<br />

campo dell’energia hanno sempre vissuto con insofferenza le<br />

escalation belliche che hanno caratterizzato parte della storia<br />

dell’ultimo secolo 24. Eppure, se si vuole uscire dall’attuale crisi<br />

– le cui cause vanno cercate nei mancati investimenti delle imprese<br />

durante l’epoca del cheap oil così come nell’imprevedibile<br />

crescita della domanda delle economie emergenti, nel deficit<br />

di integrazione dei mercati regionali e globali come nella chiusura<br />

di molti paesi produttori – bisogna prendere atto del fatto<br />

che prima di tutto occorre costruire un panorama pacifico nel<br />

quale le imprese siano incentivate a investire, e dal quale possano<br />

ottenere quel grado minimo di certezza che è indispensabile<br />

perché lo facciano. Secondo Clô, “la sfida che il mondo si trova<br />

di fronte è come garantire un flusso di investimenti necessario<br />

ad assicurare una piena aderenza tra domanda potenziale ed offerta<br />

incrementale. Un flusso oggi molto inferiore al fabbisogno<br />

24 Si veda DAVID R. HENDERSON, “Do We Need to Go to War For Oil?”.<br />

264


di investimenti. La pace internazionale, non è retorica dirlo, è il<br />

presupposto imprescindibile per vincere la sfida <strong>energetica</strong> e<br />

per la ripresa degli investimenti. Gli anni Ottanta e Novanta furono<br />

gli anni del via dal petrolio del Medio Oriente. Quelli 2000<br />

si prefigurano come gli anni del ritorno al petrolio del Medio<br />

Oriente. La domanda mondiale è prevista aumentare del 50 per<br />

cento entro il 2030. Di questa l’80 per cento dovrà gioco forza<br />

provenire dal Medio Oriente. L’Occidente è costretto alla pace:<br />

nel suo stesso interesse. La risposta sta nella politica che sappia<br />

essere di cooperazione e non di contrapposizione per tutti controproducente”<br />

25. Se dunque la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è parte della<br />

più generale necessità di costruire la pace, essa ha una dimensione<br />

prettamente politica che esula dal suo lato economico, pure<br />

fondamentale. Questo ha due conseguenze. La prima è che la<br />

sfida <strong>energetica</strong> si gioca in misura significativa anche sul palcoscenico<br />

politico: le negoziazioni internazionali hanno importanza.<br />

Secondariamente, i progressi politici – se ci sono e per essere<br />

realmente tali – non devono contraddire le esigenze economiche.<br />

Devono anzi esserne determinati. L’adozione di obiettivi<br />

idealistici, irrealistici, o desiderabili solo all’apparenza – come<br />

l’autosufficienza <strong>energetica</strong> o l’eliminazione dei combustibili<br />

fossili e dunque della dipendenza dai paesi produttori – è una<br />

cura peggiore del male. La convinzione poi che tali traguardi<br />

debbano essere perseguiti “a ogni costo” è una miscela micidiale,<br />

perché sposta l’intero dibattito su un piano che è incommensurabile,<br />

sul quale non è possibile effettuare valutazioni dei costi<br />

e dei benefici e dunque le decisioni vengono prese sulla base<br />

di diktat ideologici, che poco o nulla hanno a che fare con la ragione.<br />

Piuttosto, il tema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dovrebbe trovare<br />

uno spazio sempre maggiore in tutte le sedi internazionali,<br />

in maniera da rappresentare uno dei pilastri di una strategia di<br />

pacifica cooperazione e sviluppo tra le nazioni del mondo. Alcune<br />

sedi sono snodi chiave nell’elaborazione di una road map<br />

funzionale e percorribile.<br />

25 ALBERTO CLÔ, “La questione <strong>energetica</strong> tra mercato e politica”, in<br />

AA.VV., Il futuro dell’energia, p. 58.<br />

265


7.3. Il G8<br />

La riunione del G8 del 15-17 luglio 2006 rappresenta un importante<br />

punto di svolta principalmente per due ragioni: per la<br />

prima volta un evento simile si è tenuto in Russia (unico paese<br />

esportatore netto di risorse energetiche rappresentato), e per la<br />

prima volta la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è stata costantemente sotto i riflettori,<br />

rappresentando anzi il tema più importante tra quelli discussi.<br />

I leader degli otto paesi più industrializzati – rappresentativi<br />

del 49 per cento dell’export globale e del 49 per cento degli asset<br />

nel Fondo monetario internazionale – hanno adottato una dichiarazione<br />

congiunta nella quale riconoscono che “la natura globale<br />

di queste sfide e la crescente interdipendenza tra paesi produttori,<br />

consumatori e di transito richiede una più forte collaborazione<br />

tra tutti gli stakeholder per migliorare la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

globale. Siamo d’accordo sul fatto che lo sviluppo di mercati<br />

globali dell’energia trasparenti, efficienti e competitivi sia il modo<br />

migliore per perseguire i nostri obiettivi. Riconosciamo che anche<br />

i governi e le organizzazioni internazionali rilevanti giocano un<br />

ruolo importante nel rispondere alla sfida <strong>energetica</strong> globale” 26.Il<br />

G8 ha stabilito undici principi sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> globale:<br />

• Una forte crescita economica globale, un effettivo accesso<br />

al mercato, e investimenti in tutta la filiera dell’energia;<br />

• Mercati aperti, trasparenti, efficienti e competitivi per i servizi<br />

di produzione, offerta, uso, trasmissione e transito dell’energia;<br />

• Cornici legali e regolatorie trasparenti, eque, stabili ed efficaci,<br />

inclusi l’obbligo di rispettare i contratti, e generare investimenti<br />

internazionali sufficienti e sostenibili nell’upstream e<br />

nel downstream;<br />

• Un migliore dialogo sulle prospettive degli stakeholder rilevanti<br />

sulle questioni della crescente interdipendenza e<br />

sulla <strong>sicurezza</strong> degli approvvigionamenti e della domanda;<br />

• Diversificazione degli approvvigionamenti e della domanda<br />

energetici, delle fonti di energia, dei mercati geografici e<br />

settoriali, delle vie di transito e dei mezzi di trasporto;<br />

26 http://eno.g8russia.ru/docs/11.html.<br />

266


• Promozione di misure sul risparmio e l’efficienza <strong>energetica</strong><br />

attraverso iniziative a livello nazionale e internazionale;<br />

• Sviluppo e uso dell’energia ragionevoli dal punto di vista<br />

ambientale, e adozione e trasferimento di tecnologie di<br />

energia pulita che aiutino ad affrontare il mutamento del<br />

clima;<br />

• Promozione della trasparenza e della buona governance nel<br />

settore energetico per scoraggiare la corruzione;<br />

• Risposte cooperative elle emergenze energetiche, incluso<br />

una pianificazione coordinata delle riserve strategiche;<br />

• Salvaguardia delle infrastrutture energetiche critiche;<br />

• Affrontare le sfide energetiche per le popolazioni più povere<br />

nei paesi in via di sviluppo 27.<br />

In vista di questi obiettivi, il G8 ha adottato un piano d’azione<br />

che riguarda la trasparenza e prevedibilità dei mercati<br />

energetici, il miglioramento del clima per gli investimenti, l’efficienza<br />

e il risparmio energetico, la diversificazione del mix energetico,<br />

la difesa delle infrastrutture, la povertà <strong>energetica</strong>, il clima<br />

e lo sviluppo sostenibile 28. Molte delle raccomandazioni e<br />

degli impegni ivi contenuti sono sensati e, se rispettati, davvero<br />

favorirebbero un deciso miglioramento delle condizioni della <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Purtroppo c’è sempre uno iato piuttosto<br />

ampio tra le dichiarazioni congiunte dei leaders e il loro effettivo<br />

comportamento nella politica nazionale e internazionale. Del<br />

resto, se tale differenza esiste all’interno dell’Unione Europea,<br />

che fatica a conciliare la retorica del mercato interno con le pratiche<br />

protezioniste di molti Stati membri, non c’è alcuna ragione<br />

perché lo stesso fenomeno non si ripeta anche al livello del<br />

G8, che raccoglie soggetti per alcuni versi ancor più eterogenei<br />

di quelli che siedono al tavolo della trattative in sede europea.<br />

Il tratto autenticamente significativo del G8 è un altro, che<br />

merita di essere salvato e valorizzato: al G8 partecipano quegli<br />

attori della partita globale che sono veramente importanti, vuoi<br />

per il loro peso relativo rispetto all’economia mondiale, vuoi per<br />

la loro autorevolezza politica, vuoi infine perché, se visti in pro-<br />

27 Ibidem.<br />

28 Ibidem.<br />

267


spettiva, sono determinati a giocare un ruolo crescente rispetto<br />

alle dinamiche mondiali. D’altro canto, il limite del G8 è duplice:<br />

da un lato esso esclude alcuni paesi che già oggi sono pivot<br />

della politica e dell’economia internazionale, come la Cina e<br />

l’India; dall’altro lato esso è un evento ritagliato su misura di<br />

rappresentanti delle diverse nazioni, che quindi non riesce a intersecare<br />

altri player pure cruciali. Sarebbe quindi utile immaginare<br />

una sorta di “G20 dell’energia”, che raccolga periodicamente<br />

non solo i capi politici dei venti (o altra cifra arbitrariamente,<br />

ma ragionevolmente, definita) maggiori produttori e<br />

consumatori di energia – senza riguardo alla loro natura democratica<br />

o no, per il semplice motivo che il non essere una democrazia<br />

in linea di principio non aumenta e non riduce consumi e<br />

produzioni di energia – obbligandoli a discutere la questione<br />

<strong>energetica</strong> non solo in termini individuali e opportunistici (una<br />

dimensione che ovviamente non può essere né cancellata né<br />

ignorata), ma anche come un problema comune. Ancora una<br />

volta, questa caratterizzazione non dipende da pretese moralistiche<br />

o da retorica sulle “risorse comuni”, bensì dalla mera constatazione<br />

che quelli dell’energia sono mercati globali, anche<br />

quando sono regionali. Per esempio, si è detto che quello del gas<br />

naturale è (al netto dello sviluppo del Gnl) un mercato regionale:<br />

eppure, il prezzo del gas è ancorato a quello del petrolio, e gli<br />

sviluppi (o la loro assenza) dello sfruttamento, per esempio, del<br />

carbone e del nucleare nel resto del mondo impattano comunque<br />

quel mercato, che non è insomma sospeso nel vuoto ma si<br />

staglia su uno sfondo preciso e in movimento.<br />

Così come la questione <strong>energetica</strong> riguarda tutti, anche<br />

molti problemi sono comuni: le difficoltà dei paesi produttori a<br />

sfruttare adeguatamente ed efficientemente le risorse di cui dispongono<br />

impatta tanto essi stessi quanto i paesi consumatori,<br />

e ha un effetto diretto e preciso su altre nazioni ancora che dispongono<br />

di riserve ad alto costo di estrazione (per esempio nelle<br />

acque profonde) oppure non convenzionali. Allora, tutti –<br />

produttori e consumatori – hanno l’interesse a definire accordi<br />

quadro nell’ambito dei quali ottenere la mobilizzazione di competenze,<br />

tecnologie e capitali che consentano un migliore sfruttamento<br />

dei giacimenti che spesso sono trascurati o sottoutiliz-<br />

268


zati. In questo senso, la creazione di uno spazio di dibattito e<br />

confronto può davvero essere utile. Perché però questo funzioni<br />

occorre introdurre altri attori che giocano sul mondo reale ma<br />

talvolta restano in secondo piano nei meeting internazionali:<br />

quelle grandi imprese che sono il tramite fisico ed economico tra<br />

le economie dei paesi consumatori e produttori di energia. Se<br />

dunque, virtualmente, liberare l’accesso delle compagnie alle riserve<br />

dei paesi produttori è nel pieno e diretto interesse dei paesi<br />

consumatori, questo passo – rivoluzionario rispetto all’attuale<br />

fase storica – richiede uno sforzo economico e politico, che<br />

non può essere compiuto senza la partecipazione diretta dei soggetti<br />

interessati. Infine, sarebbe opportuno un coinvolgimento,<br />

sia pure in forma diversa, di quei portatori di valori forti che,<br />

con le loro posizioni, possono contribuire ad aiutare od ostacolare<br />

l’apertura dei paesi produttori e consumatori all’accesso di<br />

capitali stranieri (naturalmente la reciprocità è un principio da<br />

salvaguardare, non tanto come schermo dietro cui nascondere<br />

renitenze, ma come leva morale e negoziale nei confronti dei<br />

paesi più riottosi). Significa, questo, immaginare in primo luogo<br />

un coinvolgimento delle maggiori autorità religiose, che possono<br />

esercitare e spesso esercitano un ruolo guida nei diversi<br />

paesi e che non possono essere insensibili alle profonde conseguenze,<br />

per l’intero mondo, di una scelta di apertura o di chiusura.<br />

7.4. L’Organizzazione mondiale del commercio<br />

Una delle dichiarazioni congiunte degli otto capi dei paesi<br />

più sviluppati a San Pietroburgo recita che “né la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

globale, né gli obiettivi di sviluppo del millennio saranno<br />

pienamente raggiunti senza un accesso sostenibile ai carburanti<br />

per i 2,4 miliardi di persone e all’elettricità per gli 1,6 miliardi di<br />

persone che attualmente non godono di tale accesso nei paesi in<br />

via di sviluppo. Essi non possono essere dimenticati o marginalizzati”.<br />

Questi due numeri danno la misura di una sfida che non<br />

ha a che fare soltanto con le giuste esigenze di crescita dei paesi<br />

sviluppati o delle economie emergenti: riguarda anche una va-<br />

269


sta massa di umanità che, finora, è rimasta sostanzialmente<br />

esclusa dai benefici della globalizzazione. Il riferimento ai Millenium<br />

Development Goals aiuta a muoversi verso una visione<br />

più ampia: la conquista di un framework che liberi per tutti l’accesso<br />

all’energia sta alla base dello sforzo di estendere a quanta<br />

più parte del mondo possibile le istituzioni del libero mercato e<br />

della proprietà privata.<br />

Questo pone in una posizione centrale, nella prospettiva<br />

della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, l’Organizzazione mondiale del commercio.<br />

Nonostante le secche in cui sembra essere precipitata, e<br />

che ne fanno talvolta persino mettere in discussione l’utilità 29, la<br />

World Trade Organization è oggi l’unico spazio di negoziazione<br />

multilaterale nel quale la questione <strong>energetica</strong> possa seriamente<br />

e compiutamente essere affrontata. Di più: si può immaginare<br />

che l’energia divenga addirittura il motore di Doha, in grado di<br />

sbloccare lo stallo apparentemente infinito sull’accesso ai mercati<br />

agricoli e no. La Wto non si proietta verso prospettive politiche,<br />

come è invece il caso dell’Unione Europea o, in modo<br />

più o meno esplicito, di altre organizzazioni internazionali: ciò<br />

costituisce un notevole vantaggio. Come rileva Paolo Savona, la<br />

Wto “ha nel proprio dna di essere un segretariato di professionisti<br />

che agevolano la liberalizzazione dei mercati e quindi la costituzione<br />

di un mercato globale” 30.<br />

Entrando più nel dettaglio di alcune ipotesi di lavoro, sembra<br />

ragionevole ipotizzare tre auspicabili direttrici di sviluppo.<br />

Definizione di un’agenda per le trattative: è un compito che<br />

può sembrare scontato per un’organizzazione internazionale,<br />

ma che non va assolutamente sottovalutato. I punti qualificanti<br />

dovrebbero integrare aspetti economici e giuridici al fine di favorire<br />

l’apertura del mercato energetico alle imprese straniere<br />

operanti nel settore energetico, sia nel ramo del trasporto e della<br />

trasformazione, sia in quello della produzione e dello sfruttamento<br />

delle risorse. Sotto questo profilo va specificamente segnalata<br />

l’esigenza di ridurre al massimo l’interventismo da par-<br />

29 Si veda CARLO STAGNARO, “Wto, ormai è l’ultimo round”.<br />

30 PAOLO SAVONA, “Geopolitica e geoeconomia della sfida <strong>energetica</strong>”,<br />

in AA.VV., Il futuro dell’energia, p. 60.<br />

270


te dello Stato o di enti pubblici. Diminuire la presenza dell’operatore<br />

pubblico comporta un aumento della concorrenza su una<br />

scala potenzialmente globale, con un corrispondente beneficio<br />

per tutti i soggetti coinvolti nel mercato energetico e specificamente<br />

per l’utente finale, che potrebbe godere di un offerta potenzialmente<br />

più ampia e vantaggiosa in materia di prezzi e di<br />

servizi. Ma non solo: meno Stato significa più efficienza nei settori<br />

del trasporto e della produzione di energia, cioè, in altre parole,<br />

uno sfruttamento razionale delle risorse strategiche e ambientali<br />

a beneficio della tutela ambientale. Liberalizzazione e<br />

privatizzazione sono poi elementi determinanti per limitare al<br />

minimo le ipotesi di “guerriglia commerciale”, liberalizzare e<br />

privatizzare significa mettere da parte le armi (talvolta anche<br />

belliche) della politica per sfoderare l’arma con cui ci si confronta<br />

nel mondo del mercato: la strategia commerciale basata sulla<br />

concorrenza.<br />

Tutto ciò non è seriamente immaginabile senza incidere sulla<br />

cornice giuridica di riferimento, il che implica agire (attraverso<br />

gli strumenti della persuasione e dell’interesse reciproco) su<br />

due strade parallele: in primo luogo è necessario eliminare le<br />

norme discriminatorie, cioè le regole che consentono a determinati<br />

investitori di operare a condizioni migliori rispetto ad altri<br />

(cui magari è di fatto negata ogni seria prospettiva economica).<br />

Non possono essere ammesse norme discriminatorie non solo<br />

sotto il profilo della preferenza di un’impresa pubblica ad una<br />

privata, ma anche – e soprattutto – sotto quello della preferenza<br />

di una società nazionale rispetto ad una straniera (o una multinazionale).<br />

In secondo luogo si tratta di intervenire su tutto il<br />

quadro normativo: è imprescindibile assicurare un panorama<br />

giuridico stabile, contraddistinto dalla certezza del diritto e dalla<br />

chiarezza delle leggi e dei regolamenti vigenti, nonché dalla<br />

tutela della proprietà privata e dei diritti di credito e della libertà<br />

di contrattazione. Ovviamente non solo da un punto di vista formale,<br />

ma anche sostanziale: un mercato energetico globale non<br />

può svilupparsi realmente nelle sue enormi potenzialità positive<br />

senza sistemi giudiziari indipendenti, imparziali, fondati sul<br />

principio della rule of law. Sul punto va riconosciuto un ruolo<br />

sempre maggiore alle esperienze arbitrali, che – spesso a causa<br />

271


di distorsioni procedurali tipicamente legate a problematiche<br />

circoscritte nei confini statali – producono risultati (qualitativi e<br />

quantitativi) decisamente superiori se implementate a livello internazionale.<br />

Rappresentanza degli interessi coinvolti: ormai da tempo gli<br />

studiosi hanno rilevato come le forme e le istituzioni in cui si<br />

esplica la rappresentanza democratica (soprattutto le assemblee<br />

legislative) dimostrino evidenti problemi di approccio a tematiche<br />

dotate di caratteristiche e peculiarità tecniche. Nel diritto<br />

comunitario sono ormai pienamente collaudate ampie procedure<br />

di consultazione dei soggetti interessati, molto spesso in grado<br />

di innestare nel procedimento normativo elementi e conoscenze<br />

che il politico ignora. Addirittura a livello regionale italiano,<br />

alcuni Statuti hanno disciplinato forme di consultazione<br />

dei destinatari delle norme – si pensi agli Statuti delle regioni<br />

Toscana ed Emilia Romagna, per rimanere agli esempi più importanti,<br />

dove si giunge ad introdurre la motivazione della legge<br />

in rapporto alle risultanze istruttorie – che vanno ben al di là<br />

dell’esperienza (del tutto insoddisfacente) delle audizioni normalmente<br />

svolte in sede di commissioni parlamentari.<br />

Questa problematica acquista un rilievo specifico nelle tematiche<br />

energetiche dove il momento normativo non può prescindere<br />

da un accordo con numerosi stakeholeders che non<br />

possono strutturalmente avere voce nei parlamenti: si pensi alle<br />

imprese energetiche e alle autorità religiose. In un circuito mondiale<br />

(forse anche attraverso lo specifico strumento del G20 dell’energia,<br />

che si è proposto in precedenza) incardinato nella<br />

Wto tutte le istanze coinvolte nelle questioni energetiche potrebbero<br />

trovare un tavolo di confronto globale finalizzato alla<br />

creazione di norme il più possibile condivise e plasmate sulle necessità<br />

di operatori e clienti.<br />

Ampliamento dell’ambito oggettivo delle trattative: questo è<br />

l’aspetto di portata più generale e anche più importante. Com’è<br />

ampiamente noto la Wto, si è concentrata prevalentemente sull’accesso<br />

ai mercati agricoli, ritenendo tale tema (e non a torto)<br />

prioritario per combattere i tremendi flagelli della fame, della<br />

povertà e della malattia. Le questioni agricole probabilmente<br />

dovranno restare centrali, ma potrebbe essere proficua la ricer-<br />

272


ca di un approccio più integrato: esattamente al contrario di<br />

quanto si è ritenuto fino ad ora, l’accesso ai mercati non agricoli,<br />

ed energetici in particolare, non sarebbe un ulteriore blocco<br />

per le negoziazioni, ma ne costituirebbe la chiave per un complessivo<br />

rilancio. Si tratterebbe di creare un vasto quadro per le<br />

trattative, un approccio non solo multilaterale ma, per così dire,<br />

“multidimensionale”.<br />

Per comprendere lo stallo in cui versano ora le discussioni<br />

in sede di Wto è utile sviluppare alcune precisazioni. A livello<br />

scientifico-teorico, quasi nessuno dubita seriamente che liberalizzazioni<br />

e sviluppo dei commerci internazionali producano benefici<br />

a tutti coloro che vi prendono parte: anche un’apertura<br />

unilaterale è favorevole a chi la pratica. È ugualmente vero,<br />

però, che le problematiche di natura agricola presentano aspetti<br />

effettivamente spinosi, in virtù dei quali taluni gruppi di pressione<br />

hanno agito politicamente in modo da far percepire le<br />

aperture dei mercati come un “costo”, o addirittura un fattore<br />

negativo. Coinvolgere altri settori significa avvicinarsi ad una<br />

prospettiva in cui il mercato possa essere messo in grado di manifestare<br />

liberamente i vantaggi che il sistema dello scambio senza<br />

vincoli dispensa a tutti, produttori, mediatori e compratori.<br />

In tal modo, cioè, si prospetta un sistema in cui l’analisi costibenefici<br />

dell’approccio di mercato sia estesa ad ogni aspetto dell’economia,<br />

in modo da delineare un nuovo complessivo assetto<br />

di sfruttamento e circolazione globale delle risorse. Può forse<br />

suonare paradossale, ma aver ridotto l’ambito delle negoziazioni<br />

alle questioni agricole (o poco più), allo scopo di semplificare<br />

il raggiungimento di accordi stabili e soddisfacenti per tutti,<br />

ha prodotto un risultato pressoché opposto: i gruppi di pressione<br />

agricoli sono riusciti, in sede negoziale, a dare al costo concentrato<br />

che le liberalizzazioni potrebbero imporre loro un peso<br />

maggiore a quello, teoricamente molto superiore, dei benefici<br />

diffusi prodotti dalle aperture del mercato. La prospettiva è<br />

apparsa chiara agli interessati e ciò ha realizzato la condizione<br />

ideale per impedire qualunque conclusione delle trattative.<br />

L’apertura delle trattative anche all’energia può costituire la<br />

chiave di ingresso, il primo passo verso una nuova strategia veramente<br />

globale in cui costi e benefici – si mettano in paragone,<br />

273


ad esempio, gli equilibri in materia di agricoltura con quelli in<br />

materia di energia, ove si confrontano il bisogno dei paesi più<br />

avanzati con la fame di capitali dei Paesi produttori – non sono<br />

più fossilizzati, integrandosi invece in un mercato immenso, tale<br />

da produrre solo crescita economica e sviluppo sociale per<br />

tutti i popoli del mondo.<br />

Si potrebbe immaginare di giungere a questa condizione attraverso<br />

un approccio graduale. In quest’ottica potrebbe trovare<br />

uno sbocco pure l’idea, proposta dal primo ministro polacco<br />

Kazimierz Marcinkiewicz, di costituire una sorta di Nato dell’energia,<br />

rivolta principalmente ai paesi dell’Ue e della Nato, che<br />

segua il principio “tutti per uno, uno per tutti”: “sarebbe un’espressione<br />

di solidarietà fra tutte le parti, che le unirebbe di<br />

fronte a qualunque minaccia <strong>energetica</strong> provocata da tagli o riduzioni<br />

degli approvvigionamenti che potrebbe essere causata<br />

da disastri naturali, interruzioni della distribuzione o dell’offerta<br />

o decisioni politiche dei fornitori” 31. La creazione di una sorta<br />

di “società di mutuo soccorso energetico” è perfettamente<br />

sensata e può aiutare a compattare le posizioni dei paesi consumatori,<br />

aumentandone il potere negoziale: è però fondamentale<br />

che non la si persegua come forma di contrapposizione con i<br />

Paesi produttori, magari al fine di condizionarne politicamente<br />

le scelte.<br />

Ancor più adeguato, e scevro da rischi di manipolazione in<br />

chiave politica potrebbe forse rivelarsi uno strumento internazionale<br />

già collaudato con esiti settoriali soddisfacenti, e che merita<br />

di essere specificamente approfondito: la Carta dell’Energia.<br />

31 KAZIMIERZ MARCINKIEWICZ, “Europe’s energy musketeers must stand<br />

together”, Financial Times, 9 febbraio 2006.<br />

274


8.<br />

La Carta dell’energia<br />

La vicenda della Carta dell’Energia dimostra come le questioni<br />

energetiche siano in grado di ampliare la sfera delle contrattazioni<br />

tra gli Stati, sia in senso soggettivo (cioè sempre più<br />

Stati coinvolti in accordi internazionali) sia oggettivo (cioè sempre<br />

più materie interessate da accordi internazionali). Essa inoltre<br />

può essere un importante strumento di gestione dell’incertezza<br />

<strong>energetica</strong>.<br />

8.1. Dalle macerie della guerra fredda alla cooperazione <strong>energetica</strong><br />

L’ideazione della Carta dell’Energia risale a quel particolarissimo<br />

momento storico contraddistinto dalla fine del confronto<br />

politico-militare tra Est e Ovest: l’idea di una forma di collaborazione<br />

in materia <strong>energetica</strong> in ambito europeo fu delineata<br />

per la prima volta dal Primo Ministro olandese Lubbers, che<br />

presentò uno specifico memorandum al Consiglio europeo di<br />

Dublino del 25-26 giugno 1990 1.<br />

Dalla lettura di questo documento appare subito evidente<br />

la cornice politica che sottostà a tutti gli sviluppi futuri: elaborare<br />

una sinergia del tutto peculiare attraverso una collaborazione<br />

di portata continentale. Negli ultimi decenni, infatti, nell’Ovest<br />

si è affermata una spiccata capacità organizzativa (e tecnologica)<br />

nella produzione, nel trasporto e nel consumo razionale<br />

di energia, il tutto saldato con una notevole potenzialità sotto il<br />

1 RUUD LUBBERS, “Memorandum Lubbers”.<br />

275


profilo degli investimenti, mentre si continua a registrare una<br />

(quasi) assoluta assenza di fonti energetiche. Nell’Est la situazione<br />

è pressoché opposta: un panorama economico e infrastrutturale<br />

in pieno marasma si colloca in una vastissima disponibilità<br />

di gas e idrocarburi 2.<br />

Con la caduta del Muro di Berlino, i paesi della Comunità<br />

Economica Europea avevano l’opportunità storica di accedere<br />

direttamente a risorse energetiche da cui erano esclusi sino a pochissimo<br />

tempo prima; per i paesi del Comecon, contemporaneamente,<br />

ciò implicava la possibilità di attirare un flusso massiccio<br />

di capitali stranieri per poter avviare la transizione all’economia<br />

di mercato: un ampio vantaggio reciproco.<br />

Dire che l’Est ha enormi fonti energetiche significa usare<br />

una espressione tendenzialmente neutra per indicare principalmente<br />

l’ex Unione Sovietica: risultava esplicita l’attenzione verso<br />

questa realtà politica squassata da una crisi che ne porterà al<br />

disfacimento nel giro di pochi mesi. Nella dichiarazione conclusiva<br />

del Consiglio di Dublino emerse l’interesse europeo a sostenere<br />

l’ampio processo di riforme intrapreso in Urss: tra i settori<br />

bisognosi di interventi strutturali venne specificamente indicato<br />

quello dell’energia 3.<br />

La necessità di agire in questo ambito fu percepita in modo<br />

così pressante che nel giro di pochi mesi divenne argomento di<br />

dibattito sia nel vertice della Conferenza sulla <strong>sicurezza</strong> e la cooperazione<br />

in Europa (Parigi, 19-21 novembre 1990) sia in un’altra<br />

riunione del Consiglio europeo (Roma, 14-15 dicembre<br />

1990). Proprio in quest’ultimo incontro si decise di organizzare<br />

una conferenza intergovernativa per giungere alla stesura di una<br />

carta dell’energia: “più in generale per quanto riguarda l’energia”,<br />

si può leggere in un documento approvato nel Consiglio di<br />

Roma, “il Consiglio europeo ritiene necessario instaurare una<br />

cooperazione a lungo termine in Europa in modo da ottimizzare,<br />

allo scopo di aumentare la <strong>sicurezza</strong> dell’approvvigionamento,<br />

lo sfruttamento delle risorse e degli investimenti, il migliora-<br />

2 FRANCO VIEZZOLI, “La grande Europa e l’energia elettrica”, p. 503.<br />

3 Si veda MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e<br />

sviluppi di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 223, no. 2.<br />

276


mento delle reti, l’aumento degli scambi, nonché una utilizzazione<br />

più razionale dell’energia, che – di fronte alla responsabilità<br />

comune nei confronti dell’ambiente – gioverà ampiamente<br />

a tutta l’Europa. Il Consiglio europeo auspica che nel 1991 venga<br />

organizzata una Conferenza internazionale per l’elaborazione<br />

di una carta paneuropea dell’energia” 4.<br />

Va puntualizzato che l’attore principale nella prima fase del<br />

processo che portò all’approvazione della Carta fu la Comunità<br />

Economica Europea: la Commissione venne incaricata di redigere<br />

una bozza, e in un tempo brevissimo sottopose al Comitato<br />

economico e sociale, nonché al Parlamento europeo, un documento<br />

programmatico ove si puntualizzava la necessità di elaborare<br />

una politica <strong>energetica</strong> non solo interna, ma anche esterna<br />

alla Cee, al fine di creare un mercato continentale dell’energia<br />

contraddistinto da obiettivi strettamente economici – l’incremento<br />

degli scambi tramite lo sviluppo della concorrenza – ma<br />

anche da scopi politici di razionale sfruttamento dell’energia e di<br />

tutela dell’ambiente. La proposta della Commissione consisteva<br />

nel convogliare l’intesa internazionale su un testo di natura puramente<br />

programmatica la cui applicazione sarebbe stata garantita<br />

– in un secondo tempo – dalla stipula di accordi specifici 5.<br />

Se l’impulso ha una chiarissima matrice comunitaria, la Carta<br />

dell’Energia approvata il 17 dicembre 1991 va ben al di là dei<br />

dodici Paesi a quel tempo membri della Cee: alla conferenza dell’Aja<br />

che si concluse con l’approvazione della Carta parteciparono<br />

numerosissimi Stati da quattro continenti, oltre il Comitato<br />

Interstatale dell’ex URSS e la stessa Comunità Economica 6.<br />

4 “Conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo (Roma 14-15 dicembre<br />

1990)”, citato in MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia:<br />

principi e sviluppi di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 225,<br />

n. 5 5 MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />

di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 226.<br />

6 I Paesi partecipanti furono: Albania, Armenia, Australia, Austria, Azerbagian,<br />

Belgio, Bielorussia, Bulgaria, Canada, Cipro, Cecoslovacchia, Danimarca,<br />

Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Ungheria,<br />

Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Kazakistan, Kirghizistan, Lettonia, Lituania,<br />

Lussemburgo, Malta, Moldavia, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogal-<br />

277


8.2. Il contenuto e la natura giuridica della Carta dell’Energia.<br />

La Carta dell’Energia, sottoscritta nel 1991 7 e contenuta nella<br />

dichiarazione conclusiva della conferenza dell’Aja, è vincolante per<br />

gli Stati che l’hanno firmata, ma non ha lo scopo di creare obblighi<br />

specifici: si tratta di una dichiarazione programmatica sulla cui base,<br />

nel 1994, fu poi stipulato il Trattato sulla Carta dell’Energia.<br />

Il quadro di generale di riferimento appare chiaro già dal<br />

preambolo della Carta.<br />

In primo luogo si punta ad impostare un “nuovo modello<br />

di cooperazione <strong>energetica</strong> a lungo termine in Europa e a livello<br />

mondiale”: se in un primo tempo l’ambito geografico cui si<br />

guardava era un’Europa ormai priva di steccati ideologici, sin<br />

dalla sua redazione la Carta si impone sullo scacchiere internazionale<br />

come un documento di portata globale che coinvolge<br />

tutte le potenze industriali del G8 ma si proietta verso realtà ben<br />

distanti, quali, ad esempio, l’Australia.<br />

Secondariamente la cornice economica è esclusivamente<br />

quella dell’economia di mercato, e in questo senso le Parti sono<br />

“consapevoli” dell’opportunità di partecipare “agli sforzi congiunti<br />

diretti ad agevolare e promuovere riforme orientate ad un<br />

economia di mercato” in tutti i Paesi che avevano appena abbandonato<br />

il modello del socialismo reale.<br />

In terzo luogo si enuncia il principio cardine di tutta l’impalcatura<br />

collaborativa che veniva delineandosi: la non discriminazione<br />

tra gli operatori economici. Ciò significa che l’obiettivo<br />

delle trattative è quello di formare un’area di libero scambio in<br />

cui ad ogni investitore sia legalmente concesso sviluppare i propri<br />

investimenti in campo energetico alle stesse identiche condizioni<br />

giuridiche cui sono sottoposte le imprese nazionali (pubbliche<br />

o private) dei paesi firmatari.<br />

Pur riconoscendo “la sovranità degli Stati e i diritti sovrani<br />

sulle risorse energetiche”, le Parti si dichiarano persuase “che una<br />

più ampia cooperazione <strong>energetica</strong>… sia essenziale al progresso<br />

lo, Romania, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera Tagikistan, Turchia, Turkmenistan,<br />

Ucraina, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Uzbekistan, Iugoslavia.<br />

7 http://www.encharter.org/fileadmin/user_upload/document/IT.pdf.<br />

278


economico e, più in generale, allo sviluppo sociale e al miglioramento<br />

della qualità della vita”, in tal senso anche “riconoscendo<br />

il ruolo degli imprenditori… nel promuovere la cooperazione”.<br />

Alla luce di questa impostazione complessiva, la Carta consta<br />

di due parti ove si specificano gli scopi e i mezzi per la loro<br />

attuazione, e una terza sezione che prefigura l’adozione di una<br />

serie di successivi accordi specifici.<br />

Tre sono le direttrici sostanziali verso le quali si orienta la<br />

disciplina programmatica 8.<br />

• Incremento dell’efficienza nella produzione, nel trasporto, nella<br />

distribuzione e nell’utilizzo dell’energia. È il primo scopo<br />

delle trattative e si esplica principalmente nell’obiettivo del<br />

miglioramento degli standard di certezza degli approvvigionamenti<br />

energetici al fine di aumentare le condizioni complessive<br />

di <strong>sicurezza</strong>. Si sottolinea “l’importanza dello sviluppo<br />

di reti commerciali internazionali di trasmissione dell’energia”,<br />

garantendo “la compatibilità delle specifiche tecniche<br />

che disciplinano l’installazione e il funzionamento delle<br />

reti”. Strumentalmente, dunque, si punta all’ammodernamento<br />

del complesso delle infrastrutture coinvolte nella produzione<br />

e nel trasporto di energia, con particolare attenzione<br />

ai processi di ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.<br />

• Creazione di un mercato internazionale dell’energia tramite<br />

la liberalizzazione degli scambi. È probabilmente il filone<br />

più significativo: viene prefigurata una politica <strong>energetica</strong><br />

in cui i prezzi possano formarsi attraverso la libera interazione<br />

di domanda e offerta: ciò sia nel mercato dei prodotti<br />

e dei servizi energetici sia in quello dell’accesso alle risorse<br />

energetiche. Lo strumento principale è chiaramente la liberalizzazione<br />

degli scambi, nonché la promozione e la tutela<br />

degli investimenti. Nell’attuare tale linea politica le Parti<br />

“si impegnano ad incoraggiare l’iniziativa privata”, ma<br />

anche a sostenere la cooperazione tra imprese e istituzioni<br />

di differenti Paesi, sempre “agendo sulla base dei principi<br />

di mercato”, nell’ottica complessiva di “agevolare l’azione<br />

8 Si veda MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />

di una nuova cooperazione nel settore energetico”, pp. 229 e seguenti.<br />

279


delle forze di mercato e di favorire la concorrenza”. Sotto<br />

un profilo squisitamente giuridico, appare particolarmente<br />

significativa la menzione dello scopo finale dell’eliminazione<br />

“degli ostacoli tecnici, amministrativi e di altro genere”<br />

che impediscono il pieno svolgimento degli scambi commerciali<br />

inerenti energia e tecnologia: questo elemento implica<br />

chiaramente un impegno alla semplificazione normativa<br />

e burocratica. Tale aspetto trova una diretta conferma<br />

ove si delinea l’importantissimo intento di costruire “un<br />

contesto giuridico stabile e trasparente che crei le condizioni<br />

per uno sviluppo delle risorse energetiche”, anche tramite<br />

“il rispetto delle norme internazionali sulla protezione<br />

della proprietà industriale, commerciale ed intellettuale” e<br />

l’impedimento di fenomeni di doppia imposizione fiscale.<br />

• Equilibrio tra esigenze economiche e tutela dell’ambiente. Gli<br />

obiettivi di sviluppo delle infrastrutture e di apertura dei<br />

mercati devono comunque essere perseguiti in una prospettiva<br />

di massimo rispetto dell’ambiente. Non si parla solo di<br />

un generico favore verso le fonti rinnovabili, non vi è esclusivamente<br />

un generico impegno a misure politiche “coordinate<br />

ed efficaci”, il punto più rilevante è certamente la previsione<br />

di un mercato che, pur nel libero incontrarsi di domanda<br />

e di offerta, sia in grado di riflettere “maggiormente<br />

i costi e i benefici per l’ambiente”.<br />

8.3. Dalla Carta dell’Energia al Trattato sulla Carta dell’Energia.<br />

L’estensione oggettiva della Carta dell’Energia – che di fatto<br />

tratta di ogni aspetto inerente il mercato energetico, dalla ricerca<br />

sino al trasporto – nonché il considerevole numero delle<br />

Parti contraenti hanno fatto correttamente ritenere che questo<br />

documento, “nonostante si esplichi in una mera dichiarazione<br />

di intenti”, abbia “un peso importante sia nei rapporti commerciali…<br />

sia nello sviluppo economico” 9.<br />

9 MAURIZIO MOTTA, “La Carta Europea dell’Energia: principi e sviluppi<br />

di una nuova cooperazione nel settore energetico”, p. 233.<br />

280


Su questa valutazione si può sostanzialmente convenire, soprattutto<br />

se si attribuisce il dovuto rilievo ad un elemento politico<br />

decisamente notevole: per la prima volta si affronta il problema<br />

energetico attraverso un approccio di stampo globale e<br />

globalizzato, e per la prima volta il blocco orientale e quello occidentale<br />

possono realmente considerarsi dissolti nell’ottica di<br />

una progressiva integrazione sotto le insegne dell’economia di<br />

mercato.<br />

Non si può comunque dimenticare che la Carta rimane pur<br />

sempre una declamazione di principi intrinsecamente generali:<br />

non a caso, nella sua parte conclusiva, essa prevede la successiva<br />

stipula di un trattato di base e ulteriori trattati settoriali. Utilizzando<br />

le categorie del diritto civile, ci si potrebbe forse azzardare<br />

a pensare la Carta del 1991 come una sorta di contratto preliminare:<br />

ma la realtà del diritto internazionale è ben diversa. In<br />

particolare, nonostante gli Stati si siano impegnati a stipulare<br />

una serie di trattati, nessuno strumento coercitivo potrebbe essere<br />

utilizzato per “costringerli” ad addivenire a tali accordi.<br />

Proprio sotto questo profilo è apprezzabile lo sforzo che<br />

porta ai trattati-base in soli tre anni: il 17 dicembre 1994 a Lisbona.<br />

Non è un percorso semplice quello che conduce la Conferenza<br />

internazionale sulla Carta europea dell’energia ad elaborare<br />

testi in grado di accontentare un numero molto ampio di<br />

paesi 10: davanti ad alcune resistenze della Federazione Russa,<br />

soprattutto nelle parti dedicate al libero accesso alle risorse<br />

energetiche e agli investimenti, un fondamentale ruolo propulsivo<br />

viene nuovamente impersonato dalla Comunità Europea 11.<br />

Nella conferenza di Lisbona vengono sottoscritti tre documenti<br />

collegati tra loro: l’“Atto finale della Conferenza della<br />

Carta Europea dell’Energia” 12, cui si allegano il Trattato sulla<br />

10 MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale<br />

in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />

e delle sue prospettive”, pp. 208 e seguenti.<br />

11 Si veda COMMISSIONE EUROPEA, “The European Energy Charter: Fresh<br />

impetus from the European Community”.<br />

12 L’atto finale fu firmato da quarantacinque Stati e dalla Comunità Europea,<br />

non lo sottoscrissero Canada, Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Un-<br />

281


Carta dell’Energia (a sua volta con relativi allegati) 13 e il Protocollo<br />

della Carta dell’Energia sull’Efficienza Energetica e sugli<br />

Aspetti Ambientali Correlati 14.<br />

Dei tre testi scaturiti dalle trattative 15, l’atto finale consiste<br />

in una dichiarazione conclusiva effettuata dalle Parti, mentre il<br />

Protocollo riunisce tutti gli aspetti ambientali già visti nella Carta<br />

del 1991, senza, onestamente, svilupparne elementi particolarmente<br />

interessanti. Il Trattato e il Protocollo sono stati recepiti<br />

nell’ordinamento italiano con la legge 10 novembre 1997, n.<br />

415, ma il documento centrale è certamente il Trattato (entrato<br />

in vigore il 16 aprile 1998) cui sarà dedicata un’analisi specifica.<br />

8.4. Il Trattato sulla Carta dell’Energia: i punti salienti.<br />

Il Trattato si compone di otto parti, ma le più rilevanti sono<br />

probabilmente la II, dedicata al commercio, la III, finalizzata alla<br />

tutela e alla promozione degli investimenti, la V, ove si delinea<br />

la tecnica di soluzione delle controversie e la VII, riservata alla<br />

struttura istituzionale creata per l’applicazione dell’accordo.<br />

gheria ed Uzbekistan: si veda MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso<br />

alla cooperazione internazionale in campo energetico: analisi del Trattato<br />

sulla Carta dell’energia e delle sue prospettive”, p. 212, no. 25.<br />

13 Il Trattato fu firmato da quarantuno Stati e dalla Comunità Europea,<br />

con l’esclusione di Canada, Giappone, Lituania, Norvegia, Repubblica Ceca,<br />

Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Ungheria ed Uzbekistan: si veda Maurizio<br />

Motta, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale in<br />

campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia e delle sue prospettive”,<br />

p. 212, no. 25.<br />

14 Il Protocollo fu firmato da trentanove Stati e dalla Comunità Europea,<br />

non lo sottoscrissero Albania, Canada, Giappone, Lituania, Norvegia, Repubblica<br />

Ceca, Romania, Stati Uniti d’America, Turkmenistan, Ungheria, ed Uzbekistan:<br />

si veda MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione<br />

internazionale in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />

e delle sue prospettive”, p. 212, no.25.<br />

15 I dati aggiornati sugli Stati attualmente coinvolti nella Conferenza sulla<br />

Carta dell’Energia sono disponibili nel sito internet della Carta dell’Energia,<br />

alla pagina web http://www.encharter.org/index.php?id=61, ove si può<br />

anche consultare una carta geografica mondiale attraverso la quale si comprende<br />

agevolmente la portata globale della Carta dell’Energia.<br />

282


La cornice politico-giuridica di riferimento in cui si muovono<br />

tutte le regole dettate dal Trattato – è bene precisarlo – rimane<br />

comunque la salvaguardia della sovranità statale sulle risorse<br />

energetiche, che viene chiaramente ribadita in una disposizione<br />

di carattere generale (art. 18): alla luce di ciò si deve riconoscere<br />

che il Trattato non vuole interessarsi delle questioni economiche<br />

interne degli Stati contraenti. In particolare, nessuna norma<br />

esprime un favore verso la natura pubblica o privata delle imprese<br />

coinvolte nel mercato dell’energia.<br />

La struttura istituzionale. Allo scopo di vegliare sulla corretta<br />

applicazione del Trattato, nonché per la negoziazione di ulteriori<br />

protocolli o dichiarazioni in materia <strong>energetica</strong>, si delinea<br />

una struttura istituzionale assolutamente agile: i due organi<br />

principali 16 sono la Conferenza della Carta dell’Energia e il Segretariato.<br />

La Conferenza, costituita da un rappresentante per<br />

ciascuna Parte contraente, ricopre il ruolo più importante: da<br />

un lato veglia sulla costante attuazione dei principi che informano<br />

l’accordo nella sua globalità, anche incoraggiando ogni iniziativa<br />

di cooperazione al fine di favorire una completa transizione<br />

all’economia di mercato da parte degli ex paesi socialisti;<br />

dall’altro ha il potere di decidere su eventuali adesioni o associazioni,<br />

nonché di esaminare e di adottare ogni protocollo aggiuntivo<br />

e ogni modifica al Trattato 17. Il Segretariato, formato<br />

dal Segretario generale e dal “personale strettamente necessario<br />

a garantire prestazioni efficienti”, è tenuto a svolgere i compiti<br />

e le funzioni che gli sono assegnate dalla Conferenza. Tale organo<br />

è nominato dalla Conferenza, la quale può anche sollevarlo<br />

dall’incarico e verso la quale esso è responsabile.<br />

Commercio. Il principio fondamentale è certamente costituito<br />

dalla tutela della libera concorrenza e del mercato: ogni Stato<br />

si impegna ad “attenuare le distorsioni di mercato e gli ostacoli<br />

alla concorrenza nell’attività economica nel settore dell’energia”<br />

(art. 6/1). Una simile disposizione si esplicita direttamente nel<br />

16 Vi sono anche organi sussidiari: si veda http://www.encharter.org/index.php?id=24.<br />

17 Le maggioranze prescritte sono dettagliatamente indicate all’articolo<br />

36 del Trattato.<br />

283


dovere di approntare gli opportuni strumenti normativi “per disciplinare<br />

la condotta unilaterale e concertata contraria alla concorrenza”<br />

(art. 6/2): si pone dunque un obbligo giuridico di creazione<br />

di una normativa antitrust e dei corrispondenti organi deputati<br />

ad darne applicazione. Le condotte contrarie alla concorrenza<br />

che risultino pregiudizievoli di interessi rilevanti possono<br />

essere denunciate da ogni Paese firmatario, il quale può poi provvedere<br />

alla notifica nei confronti dell’altra Parte nel cui ambito<br />

geografico di competenza esse siano attuate (art. 6/5) 18. In quest’ottica<br />

si collocano anche l’obbligo di eliminare gli ostacoli esistenti<br />

(e di non porne dei nuovi) al commercio non discriminatorio<br />

di tecnologia <strong>energetica</strong> (art. 8) – pur nel rispetto della singola<br />

normativa nazionale e dei diritti di proprietà intellettuale –<br />

e l’apertura del mercato dei capitali per cittadini e società degli<br />

Stati firmatari allo scopo di finanziare scambi di prodotti e materiali<br />

energetici nonché effettuare investimenti nell’attività economica<br />

del settore dell’energia nelle aree di altre Parti contraenti<br />

(art. 9) 19. Un secondo aspetto che merita attenzione è quello<br />

della libertà di transito 20: essa interessa “materiali e prodotti<br />

energetici” (art. 7/1), e per la sua tutela tutti gli Stati si impegnano<br />

ad adottare ogni misura necessaria, senza distinzioni basate su<br />

origine, destinazione o proprietà. In particolare, viene statuito il<br />

divieto di operare discriminazioni di prezzo basate su tali distinzioni,<br />

ed è anche previsto che non possano essere imposti “ritardi,<br />

restrizioni o oneri non ragionevoli” (art. 7/1). Com’è del tutto<br />

evidente, la prospettiva generale è quella di permettere la circolazione<br />

di beni collegati al mercato dell’energia nel modo più<br />

ampio possibile: in tal senso si comprende il “divieto di condizioni<br />

meno favorevoli”, in forza del quale non è possibile appli-<br />

18 MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione internazionale<br />

in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />

e delle sue prospettive”, pp. 218-219.<br />

19 Ivi, p. 220.<br />

20 La definizione di “transito” ai sensi del Trattato ha una portata semantica<br />

piuttosto ampia ed è espressamente contenuta dall’art. 7/10. Sul punto vedi<br />

anche MAURIZIO MOTTA, “Un nuovo e decisivo impulso alla cooperazione<br />

internazionale in campo energetico: analisi del Trattato sulla Carta dell’energia<br />

e delle sue prospettive”, p. 219.<br />

284


care ai materiali e prodotti energetici in transito disposizioni meno<br />

favorevoli rispetto a quelle applicate ai materiali e prodotti<br />

energetici provenienti dalla propria area geografica o ad essa destinati<br />

(a meno che ciò sia previsto da altro accordo internazionale<br />

vigente). Lo Stato può limitare il transito solo dimostrando<br />

la pericolosità per la <strong>sicurezza</strong> (anche dell’approvvigionamento)<br />

o per l’efficienza dei suoi sistemi energetici, e comunque solo in<br />

due ipotesi: può opporsi alla costruzione o alla modifica delle infrastrutture<br />

che permettono il trasporto dell’energia; può opporsi<br />

a transiti nuovi o supplementari attraverso le infrastrutture di<br />

trasporto energetico esistenti (art. 7/5). Proprio in relazione alle<br />

problematiche del transito dell’energia è dettata anche una disposizione<br />

che, alla luce degli avvenimenti degli inverni 2005-<br />

2006 e 2006-2007, si è forse rivelata non realmente efficace: salvo<br />

accordi specifici, l’esistenza di controversie sul transito non è<br />

ragione sufficiente per interrompere o limitare il flusso esistente<br />

di materiali o prodotti energetici prima della conclusione delle<br />

procedure conciliative previste dal Trattato stesso (art. 7/6).<br />

Promozione e tutela degli investimenti. Lo scopo di creare un<br />

immenso mercato energetico comune di portata ultra-continentale<br />

non può trascurare l’aspetto della tutela degli investimenti<br />

che persone fisiche o giuridiche di Paesi firmatari vogliano compiere<br />

nelle aree geografiche politicamente soggette ad altri Paesi<br />

firmatari. Da una parte il Trattato prevede espressamente che<br />

ogni Stato debba creare condizioni stabili, eque, favorevoli e trasparenti<br />

per ogni investitore nel campo energetico, dall’altra si<br />

vieta agli enti pubblici di porre in essere misure ingiustificate e<br />

discriminatorie tali da poter danneggiare gli investimenti effettuati<br />

da società o cittadini di una qualsiasi Parte contraente. Particolare<br />

interesse suscita il sistema di indennizzi elaborato dagli<br />

articoli 12 e 13. La prima disposizione, di portata più generale,<br />

riguarda le perdite derivanti da danni subiti a causa di conflitti<br />

armati, situazioni di emergenza nazionale, disordini civili o di<br />

analoghi eventi in detta area: in queste ipotesi, agli investitori degli<br />

altri Paesi firmatari deve essere assicurato il trattamento più<br />

favorevole tra quelli garantiti ai ogni altro investitore, interno o<br />

estero. In ogni caso (salvo che il danno non sia stato cagionato da<br />

autorità pubbliche poiché imposto dalla necessità della situazio-<br />

285


ne) l’investitore ha diritto a una riparazione o un risarcimento<br />

che devono essere entrambi tempestivi, congrui ed effettivi. Per<br />

quanto riguarda le espropriazioni (art. 13) emerge la strettissima<br />

similitudine della norma in questione con l’art. 1110 del North<br />

Atlantic Free Trade Agreement (Nafta). Dal punto di vista del diritto<br />

italiano, la disciplina dell’esproprio delineata dal Trattato<br />

sulla Carta dell’Energia ha una portata del tutto singolare e merita<br />

una specifica attenzione. Innanzitutto l’oggetto dell’atto<br />

ablatorio sono gli “investimenti”, il che non ha un significato immediatamente<br />

percepibile attraverso le categorie giuridiche nostrane:<br />

nel diritto amministrativo l’oggetto di un esproprio è un<br />

diritto reale, non un “investimento”. Un ovvio criterio ermeneutico<br />

generale sviluppatosi nell’ambito della scienza del diritto internazionale<br />

nega che il diritto interno possa essere usato come<br />

strumento interpretativo per attribuire un significato ad una disposizione<br />

di diritto pattizio 21, quindi sembra opportuno sviluppare<br />

l’indagine in altro modo. Invero la ricerca non risulta complessa:<br />

l’art. 1, comma 6, del Trattato fornisce una definizione<br />

dettagliata che comprende ogni tipo di bene e diritto, per cui anche<br />

i diritti di credito rientrano certamente nella nozione di “investimenti”<br />

ai sensi della norma sull’espropriazione 22. Appurato<br />

l’oggetto dell’attività espropriativa, è necessario precisare che<br />

l’attività di stampo pubblicistico etichettata come “espropriazione”<br />

va anch’essa considerata nel senso più ampio possibile: è<br />

21 Il principio è del tutto consolidato. Sul punto si veda SERGIO MARIA<br />

CARBONE e PAOLA IVALDI, Lezioni di diritto internazionale privato, pp. 14 e seguenti.<br />

22 Vale la pena riportare testualmente la definizione fornita dall’art. 1,<br />

comma 6: “‘Investimento’: ogni tipo di attività, detenuta o controllata, direttamente<br />

o indirettamente da un investitore e comprendente: a) beni materiali<br />

e immateriali, beni mobili e immobili, proprietà e qualsiasi diritto su beni, quali<br />

locazioni (leases), ipoteche, vincoli e pegni; b) una società o un’impresa commerciale,<br />

o azioni, quote di capitale, o altre forme di partecipazioni in una società<br />

o un’impresa commerciale e obbligazioni e altri debiti di una società o di<br />

un’impresa commerciale; c) diritti di credito e diritti a prestazioni, in virtù di<br />

contratto aventi valore economico e connessi con un investimento; d) proprietà<br />

intellettuale; e) utili; f) qualsiasi diritto conferito per legge o contratto o<br />

derivante da qualsiasi licenza e autorizzazione concesse conformemente alla<br />

legge a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia”.<br />

286


“espropriazione” ogni misura di effetto equivalente alla nazionalizzazione<br />

o all’espropriazione. Quindi anche una mera regolamentazione<br />

dell’uso di un bene tale da svuotarne sostanzialmente<br />

il valore economico va sicuramente annoverato nella categoria<br />

delle “espropriazioni” (si tratta del fenomeno delle cosiddette<br />

“espropriazioni sostanziali”) 23. Anche sotto questo profilo si deve<br />

dunque registrare un notevole scostamento dalla normativa<br />

italiana: come precisato dalla Corte Costituzionale in una giurisprudenza<br />

ormai consolidata da decenni 24, nel diritto nazionale,<br />

quando il legislatore detta una disciplina uniforme per un’intera<br />

categoria di beni, la sua attività non può essere considerata<br />

espropriativa, anche se – nei fatti – si giungesse a privare tali beni<br />

di una qualunque utilità per i loro proprietari. Ne consegue<br />

che nel diritto interno le espropriazioni sostanziali sono riconosciute<br />

(ed indennizzate) solo se hanno ad oggetto beni determinati;<br />

ai sensi del Trattato sulla Carta dell’Energia, invece, si verifica<br />

un’espropriazione ogniqualvolta l’operatore pubblico provochi<br />

in qualunque modo effetti espropriativi. Nei termini definitori<br />

appena esposti, il Trattato detta regole ben precise in virtù<br />

delle quali un Paese firmatario può espropriare-nazionalizzare<br />

gli investimenti effettuati da un investitore di un’altra parte contraente.<br />

L’espropriazione deve essere giustificata da uno scopo di<br />

pubblico interesse, non deve essere discriminatoria, deve essere<br />

compiuta con procedura conforme alla legge e – soprattutto –<br />

deve essere accompagnata da un indennizzo tempestivo, congruo<br />

ed effettivo. Ma la norma si spinge oltre: l’indennizzo è pari<br />

all’equo valore di mercato che l’investimento espropriato aveva<br />

immediatamente prima dell’espropriazione, o al momento in<br />

cui l’imminente espropriazione è diventata nota provocando un<br />

effetto pregiudizievole di tale valore. Non solo: per evitare rischi<br />

valutari, l’investitore ha la facoltà di scegliere in quale divisa<br />

esprimere l’equo valore di mercato, e, per evitare i problemi con-<br />

23 Il comma 3 dell’art. 13, inoltre, precisa che: “a fini di chiarezza, l’espropriazione<br />

comprende situazioni in cui una Parte contraente espropria le attività di<br />

una società o impresa nella propria area in cui un investitore di qualsiasi altra Parte<br />

contraente possiede investimenti, anche attraverso partecipazioni azionarie”.<br />

24 Inaugurata da C. Cost., sent. 9 maggio 1968, no. 55.<br />

287


nessi con la svalutazione monetaria, vengono corrisposti anche<br />

gli interessi calcolati dalla data dell’esproprio a quella del pagamento<br />

25. L’impianto di questa disciplina è significativo sotto due<br />

distinti profili. Innanzitutto appronta una tutela particolarmente<br />

incisiva e completa degli investimenti energetici, tendenzialmente<br />

plasmata sul modello generale statunitense in materia di<br />

espropriazioni sviluppatosi nell’applicazione giurisprudenziale<br />

del V e XIV Emendamento 26. In secondo luogo, dal punto di vista<br />

del diritto interno, emerge un elemento veramente paradossale:<br />

l’asimmetria tra la normativa italiana e quella delineata dal<br />

Trattato comporta la conseguenza che, nel settore energetico, un<br />

investitore di un altro Paese contraente sottoposto ad una espropriazione<br />

verrà molto probabilmente a trovarsi – in Italia – in una<br />

posizione migliore di un suo omologo italiano 27. Ciò non solo<br />

perché certe attività, che per il Trattato sono “espropriazioni”,<br />

nel diritto italiano costituirebbero invece legittime forme di regolamentazione<br />

delle attività private, ma anche sotto il profilo<br />

del quantum dell’indennizzo e della stessa velocità nel suo pagamento<br />

28.<br />

25 Da notare che il comma 2 dell’art. 13 prevede anche una specifica tutela<br />

processuale: “l’investitore interessato ha diritto, in base alla legge della Parte<br />

contraente che opera l’espropriazione, ad un sollecito esame ad opera di un organo<br />

giurisdizionale o di altro competente organo indipendente di detta Parte<br />

contraente del suo caso, della stima del suo investimento e del pagamento dell’indennizzo,<br />

in conformità dei princìpi di cui al paragrafo 1”. L’art. 21, comma<br />

4, inoltre, prevede una specifica procedura a tutela dell’investitore che ritenga<br />

di essere stato sottoposto ad una espropriazione sotto forma di tassazione.<br />

26 Per una prima analisi, si veda GIUSEPPE FRANCO FERRARI, “Eminent<br />

Domain”. Più di recente si veda SILVIO BOCCALATTE, “Parte I. Proprietà ed<br />

espropriazione”, in GIOVANNI COFRANCESCO (a cura di), Urbanistica, espropriazione,<br />

ambiente negli Usa.<br />

27 Vale la pena notare, infatti, che l’articolo dedicato alle espropriazioni<br />

esordisce nei seguenti termini: “gli investimenti di un investitore di una Parte<br />

contraente nell’area di un’altra Parte contraente…”. Se ne deve dedurre, dunque,<br />

che gli investimenti effettuati in Italia da un investitore italiano siano sottratti<br />

alla disciplina dettata dal Trattato e siano sottoposti a pieno titolo alla<br />

normativa italiana.<br />

28 Si vedano artt 32 ss., DPR 327/2001 (per le espropriazioni finalizzate<br />

alla realizzazione di opere in materia <strong>energetica</strong> si vedano artt. 52-bis ss). È solo<br />

il caso di notare che l’art. 42 Cost. non prevede che l’indennizzo debba es-<br />

288


8.5. La Carta dell’Energia: grande opportunità od occasione perduta?<br />

La Carta dell’Energia e gli atti che ne sono scaturiti rappresentano<br />

il primo serio tentativo di una risposta comune alle problematiche<br />

energetiche, e soprattutto il primo serio tentativo di<br />

superare una visione regionale e protezionistica.<br />

Il punto principale su cui concentrare alcune riflessioni di<br />

sintesi, però, è un altro. Questo strumento, nato in una logica<br />

strettamente europea – e sotto l’impulso di un’organizzazione<br />

istituzionale del tutto peculiare, come la Comunità Europea –<br />

ha progressivamente interessato paesi lontanissimi dal bacino<br />

geografico che ne ha visto la nascita. Il dato – rilevato anche nella<br />

prima relazione sullo stato della Carta dell’Energia effettuata<br />

nel 2004 29 – è decisamente notevole: oltre a coinvolgere, in qualità<br />

di membri a pieno titolo, realtà che avrebbero ben poco a<br />

che spartire con il mondo europeo (Giappone e Australia), come<br />

osservatori sono presenti gli Stati più disparati, quali – tra gli<br />

altri – gli Stati Uniti, il Canada, la Cina, la Nigeria, l’Iran, l’Arabia<br />

Saudita e il Venezuela. Di fatto, tutto il mondo industrializzato<br />

e buona parte dei paesi in via di sviluppo sono toccati a vario<br />

titolo dalle attività delle istituzioni create dalla Carta dell’Energia.<br />

Questo elemento spinge ad una riflessione ulteriore. In<br />

molti punti del Trattato si menzionano gli accordi Gatt-Wto 30:<br />

gli emendamenti approvati nel 1998 hanno specificamente lo<br />

sere pari al valore medio di mercato, né tanto meno che vada corrisposto tempestivamente<br />

al soggetto espropriato: è anzi ampiamente noto che la giurisprudenza<br />

costituzionale ha sempre considerato l’indennizzo “il massimo di contributo<br />

e di riparazione che, nell’ambito degli scopi di interesse generale, la<br />

pubblica amministrazione può garantire all’interesse privato” (C. cost., sent.<br />

13 maggio 1957, no. 61).<br />

29 http://www.encharter.org/fileadmin/user_upload/document/Final_<br />

Review_Conclusions.pdf.<br />

30 Sul punto va anche ricordato che l’art. 4 del Trattato dispone esplicitamente<br />

che “nessuna disposizione del presente Trattato deroga, nei rapporti<br />

tra Parti contraenti che sono membri del GATT, alle disposizioni del GATT e<br />

agli atti correlati, quali applicate tra dette Parti contraenti”.<br />

289


scopo di armonizzare il Trattato sulla Carta dell’Energia con il<br />

sistema delineato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio,<br />

che sembra un implicito orizzonte di riferimento 31. Ora, alla<br />

luce della indubbia vitalità che ha contraddistinto le vicende<br />

della Carta dell’Energia, forse non sarebbe assurdo immaginare<br />

una progressiva (ed esplicita) integrazione della discussione a livello<br />

globale delle tematiche energetiche con altre problematiche<br />

(tipicamente agricole) che già si trattano in sede di Wto. Da<br />

un lato, ciò proietterebbe la Carta dell’Energia in una dimensione<br />

totalmente globale, confermando una tendenza che si sta imponendo<br />

sul piano fattuale; dall’altro, l’aggiunta delle questioni<br />

energetiche al materiale sul tavolo delle trattative della Wto potrebbe<br />

forse rilanciare una prospettiva di integrazione commerciale<br />

veramente mondiale.<br />

Se questo scenario appare effettivamente stimolante, non si<br />

può ignorare un problema di fondo che pervade la logica stessa<br />

della Carta dell’Energia e degli atti ad essa successivi. Pur ribadendo<br />

in numerosissimi frangenti la necessità di sviluppare<br />

scambi che si basino sulle regole del mercato, il Trattato non incide<br />

– non vuole incidere – sul regime di proprietà delle imprese<br />

energetiche. Si pensi, ad esempio, all’art. 22, ove invece di esservi<br />

un perentorio divieto per tutte le imprese statali ad agire<br />

in modo non conforme alla disposizioni convenzionali, si trova<br />

una norma ben più moderata: “nessuna Parte contraente incoraggia<br />

o obbliga [un’]impresa statale a svolgere le proprie attività<br />

nella sua area in maniera non conforme agli obblighi della<br />

Parte contraente ai sensi di altre disposizioni del presente Trattato”.<br />

Un simile approccio non è soddisfacente e difetta di coerenza<br />

con le stesse premesse di liberalizzazione degli scambi di pro-<br />

31 Come si nota nel sito internet della Carta dell’Energia (http://www.encharter.org/index.php?id=26)<br />

nove firmatari del Trattato (Azerbaigian, Bielorussia,<br />

Bosnia-Erzegovina, Kazakistan, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan,<br />

Ucraina ed Uzbekistan) non sono membri della Wto: per questi<br />

Paesi si tratta di un primo approccio a una disciplina di diritto commerciale<br />

internazionale modellata sull’impostazione dell’Organizzazione Mondiale del<br />

Commercio.<br />

290


dotti e materiali energetici nell’ambito dello sviluppo di un mercato<br />

internazionale dell’energia: davanti ad imprese private che<br />

rispondono pienamente a dinamiche economiche capitalistiche,<br />

infatti, si continuano a contrapporre colossi statalizzati che tali<br />

dinamiche riescono ad eludere proprio grazie alla costante presenza<br />

del capitale pubblico.<br />

In altre parole, cioè, si vuole evidenziare che il passo finale<br />

verso un’equilibrata integrazione su scala mondiale del mercato<br />

energetico è possibile solo a patto di inaugurare un parallelo<br />

processo di privatizzazione dei soggetti che vi operano: sotto<br />

questo profilo, una trattativa internazionale potrebbe favorire<br />

una transizione armonica, garantendo contemporaneamente<br />

una tempistica ragionevole, determinata e indipendente dai<br />

cambiamenti politici di ogni singola realtà statale.<br />

8.6. Oltre la Carta dell’Energia?<br />

Alla luce della ricostruzione sin qui fornita si possono ricavare<br />

due elementi di riflessione:<br />

8.6.1. La vocazione “espansiva” della Carta dell’Energia.<br />

Non si può negare che la Carta dell’Energia sia stata in grado<br />

di andare oltre i limiti storici in cui è stata originata. La realtà<br />

della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta era<br />

contraddistinta dalle prospettive di superamento delle contrapposizioni<br />

tra Est e Ovest nell’ottica di una progressiva integrazione<br />

(se non politica, per lo meno) economica. Subito dopo la<br />

sua sottoscrizione, la Carta dell’Energia si è immersa in una situazione<br />

contraddistinta dal collasso dell’Unione Sovietica: di<br />

fatto, quindi, molto diversa da quella in cui era stata pensata.<br />

Nonostante abbia subito una qualche forma di eterogenesi dei<br />

fini, la trattativa internazionale sui temi energetici non si è arenata,<br />

dimostrando che la problematica andava ben oltre una rigida<br />

prospettiva Est-Ovest: quando nel dicembre 1994 vengono<br />

apposte le firme ai primi documenti giuridicamente vincolanti,<br />

il quadro politico generale è tanto velocemente quando to-<br />

291


talmente mutato. Nel 1998, all’entrata in vigore degli accordi<br />

base, il mondo in cui è stato presentato il Memorandum Lubbers,<br />

nel giugno 1990, non esisteva più.<br />

Pur essendo condotte in uno dei momenti in cui la storia ha<br />

avuto alcune tra le accelerazioni più consistenti degli ultimi decenni,<br />

le discussioni intorno alla Carta dell’Energia non si sono<br />

atrofizzate, non sono apparse obsolete, ma si sono ulteriormente<br />

sviluppate. Il primo punto su cui è necessario convenire,<br />

quindi, è la profonda necessità – percepita da più parti – di attuare<br />

una qualche forma di collaborazione internazionale in<br />

campo energetico, esigenza che, da una parte ha fatto sopravvivere<br />

la piattaforma della Carta dell’Energia al di là delle sue intenzioni<br />

originarie, dall’altra ha progressivamente ampliato<br />

l’ambito dei Paesi interessati (in qualità di Parti o, perlomeno,<br />

di osservatori) ben oltre l’ambito europeo.<br />

8.6.2. I limiti “strutturali” all’interazione internazionale realizzata<br />

dalla Carta.<br />

Nonostante i profili di indubbio successo, la Carta dell’Energia<br />

e i relativi trattati non sembrano aver pienamente raggiunto<br />

alcuni degli obiettivi che gli Stati contraenti si erano proposti.<br />

In primo luogo non si possono ignorare le crisi che negli<br />

ultimi anni hanno visto contrapposte Russia e Ucraina nonché<br />

Russia e Bielorussia 32: si tratta sicuramente di momenti di massima<br />

tensione su tematiche energetiche. Come è evidente a tutta<br />

l’opinione pubblica, l’organizzazione che trae origine dalla<br />

Carta dell’Energia non è stata in grado di riunire ad uno stesso<br />

32 D’altra parte lo status di Russia e Bielorussia nell’ambito del Trattato<br />

sulla Carta dell’Energia è controverso: ai sensi degli artt. 44 e 45, prima dell’entrata<br />

in vigore del Trattato o prima della sua ratifica il Trattato si applica<br />

provvisoriamente, ma, per ciascuno Stato, nei limiti della compatibilità con la<br />

costituzione, le leggi e i regolamenti. Ogni Stato, comunque, può evitare l’applicazione<br />

provvisoria presentando un’apposita dichiarazione ai sensi dell’art.<br />

45 comma 2, lett. a). Russia e Bielorussia non hanno ratificato il Trattato, ma<br />

non hanno nemmeno presentato alcuna dichiarazione in senso contrario: ne<br />

consegue, dunque, che il Trattato si applica anche a questi due Stati, i quali,<br />

però, possono renderne inefficaci le previsioni con un semplice atto normativo<br />

di diritto interno.<br />

292


tavolo tutti gli interessati: non si trattava solo delle parti specificamente<br />

interessate dal conflitto diplomatico, ma anche – e forse<br />

soprattutto – dei numerosi Paesi europei coinvolti loro malgrado.<br />

Proprio nel momento della crisi, insomma, è mancato un<br />

confronto multilaterale: si è lasciato campo libero allo scontro<br />

tra due Stati, mentre il modo più efficace ed efficiente di affrontare<br />

situazioni di contrasto sarebbe proprio quello di ottenere<br />

mediazioni attraverso il contemporaneo bilanciamento dei molteplici<br />

interessi in gioco.<br />

Si è dovuto quindi fare ancora riferimento ai consueti canali<br />

diplomatici che – beninteso – sono riusciti ad ottenere una qualche<br />

forma di “accomodamento”, ma senza giungere ad una definizione<br />

complessiva della controversia e facendo permanere il rischio<br />

che, in un futuro inverno particolarmente rigido, la situazione<br />

possa nuovamente precipitare costringendo i Paesi occidentali<br />

(in particolare l’Italia) ad attingere alle riserve strategiche.<br />

Sotto un certo profilo, ciò è anche peggio: si sarebbero potute<br />

risolvere le controversie agendo in anticipo, evitando uno<br />

scontro da cui hanno subito danni sia i paesi importatori di materiale<br />

energetico sia gli esportatori. In fondo, uno degli scopi<br />

primari di un’organizzazione come quella collegata ai trattati<br />

scaturiti dalla Carta dell’Energia sarebbe proprio la prevenzione<br />

delle crisi attraverso la procedimentalizzazione delle controversie.<br />

Che il sistema dell’Energy Charter mostri le sue debolezze<br />

nei momenti critici è confermato anche da un altro dato riferito<br />

a una prospettiva diversa: negli anni più recenti, si è assistito a un<br />

progressivo incremento, da parte degli investitori, del ricorso ai<br />

meccanismi di arbitrato internazionale istituito dal Trattato 33.<br />

Sotto una certa prospettiva, ciò potrebbe dare l’impressione che<br />

le previsioni convenzionali siano state in grado di fornire una valida<br />

strada per risolvere le questioni giuridiche sorte nel campo<br />

degli investimenti energetici transnazionali. Guardando i dati<br />

33 Il punto ha ormai una rilevanza tale da spingere la stessa organizzazione<br />

della Carta dell’Energia a patrocinare conferenze e incontri di studio focalizzati<br />

sulle esigenze degli investitori:si veda www.encharter.org/index.<br />

php?id=221&L=0.<br />

293


con un minimo di attenzione, invece, le deduzioni che se ne possono<br />

trarre hanno segno esattamente opposto. Una volta recepite<br />

nei Paesi contraenti, le previsioni dei trattati divengono diritto<br />

interno: ne consegue che gli investitori nel campo energetico<br />

non hanno possibilità di scelta, ma sono sempre tenuti a seguire<br />

le procedure di dispute resolution così come delineate nel Trattato<br />

stesso. Non solo: in una quota significativa di controversie, l’origine<br />

risiede proprio in problemi interpretativi del Trattato.<br />

Il panorama che si deduce, insomma, sembra evidenziare la<br />

non completa adeguatezza delle previsioni convenzionali: da un<br />

lato, esse non riescono ad evitare che gli investitori siano sottoposti<br />

a comportamenti scorretti da parte delle autorità degli Stati in<br />

cui operano; dall’altro, la prassi dimostra la presenza, all’interno<br />

del Trattato, di snodi normativi non facilmente applicabili.<br />

8.6.3. Profili critici della Carta dell’Energia.<br />

Nonostante il notevole passo in avanti realizzato dalla Carta<br />

dell’Energia e dal relativo Trattato, va riconosciuta l’esistenza di<br />

profili di criticità che non sembrano risolvibili senza un’ulteriore<br />

evoluzione del sistema. Non si tratta solo di migliorare la redazione<br />

del Trattato attraverso emendamenti scaturenti da necessità riconosciute<br />

da analisi periodiche – cosa sempre fattibile, auspicabile<br />

e prevista dall’art. 34 del Trattato – ma di andare oltre la Carta<br />

dell’Energia, riproducendone le logiche su una scala più vasta.<br />

Come già accennato, una soluzione ragionevole potrebbe<br />

essere quella di integrare formalmente il Trattato sulla Carta dell’Energia<br />

con la Wto: ciò darebbe la possibilità di realizzare un<br />

tavolo di discussione molto ampio in cui i problemi energetici<br />

potrebbero essere studiati, affrontati e risolti sotto i molteplici<br />

profili che li contraddistinguono. Un forum globale permanente<br />

sull’energia potrebbe inserire il dialogo su queste problematiche<br />

in una dimensione tale da realizzare forme di interazione<br />

che travalichino le questioni energetiche collocandosi in un<br />

mercato potenzialmente totale e globale, favorendo l’ulteriore<br />

stipula di convenzioni finalizzate all’apertura armonica dei mercati<br />

dei Paesi produttori e dei Paesi consumatori di energia.<br />

294


Sotto un diverso profilo non si può negare che un sistema<br />

simile possa avere la conseguenza negativa di ridurre la velocità<br />

di approccio verso problemi immediati o verso episodi classificabili<br />

come vere e proprie crisi energetiche o diplomatiche.<br />

Sembra logico supporre, dunque, che l’eventuale forum globale<br />

debba essere affiancato ed integrato da una struttura più flessibile<br />

e meno variegata: una specie di consiglio di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

Si delinea, cioè, la necessità di un luogo ove possano confrontarsi<br />

i principali quindici o venti Paesi produttori e consumatori,<br />

che, dal punto di vista complessivo, rappresentano una<br />

percentuale molto significativa dei mercati energetici.<br />

Un simile strumento rappresenterebbe anche la possibilità<br />

concreta di superare attuali (o eventuali) cartelli di paesi produttori,<br />

evitando una contrapposizione con un possibile (e forse già<br />

all’orizzonte) cartello dei paesi prevalentemente consumatori di<br />

energia. Il punto è di notevole importanza: i rapporti con il forum<br />

globale dovrebbero fare in modo di evitare uno scontro<br />

frontale tra queste due categorie di Stati, che costituisce un rischio<br />

da evitare con cura.<br />

Ma vi sono altri aspetti che meritano una certa attenzione.<br />

Strutturalmente, gli investimenti in campo energetico sono<br />

sempre molto ingenti e hanno una prospettiva temporale<br />

decisamente ampia: per sostenere i costi di ricerca, innovazione<br />

e sviluppo, ma anche soltanto per ammortizzare la costruzione<br />

degli impianti, l’operatore economico deve avere una<br />

certa entità e solidità economica. A differenza di altri mercati,<br />

in cui determinati fattori intrinseci non rilevano, il mercato<br />

energetico richiede quindi la presenza di imprese di grandi dimensioni.<br />

Molto spesso si tratta di enti pubblici o società a<br />

prevalente capitale pubblico: in ogni caso si tratta di soggetti<br />

la cui entità non può essere mai sottovalutata. In altre parole,<br />

una sede di confronto tra Stati è necessaria, ma può non essere<br />

sufficiente. Sarebbe invece estremamente proficuo far partecipare<br />

anche le imprese energetiche in un tavolo paritario e<br />

scevro da pregiudizi: da un lato gli Stati si farebbero interpreti<br />

della voce dei cittadini elettori direttamente nelle allegoriche<br />

orecchie di chi materialmente porta l’energia elettrica in ogni<br />

casa; dall’altro si realizzerebbe la premessa per una profonda<br />

295


fase di privatizzazioni che sinora è stata semplicemente inimmaginabile.<br />

Il confronto tra enti pubblici ed operatori economici fornirebbe<br />

un quadro sicuro di apertura dei mercati entro cui sviluppare<br />

gli investimenti privati, limitando progressivamente l’ingerenza<br />

dello Stato: un programma di liberalizzazioni e privatizzazioni<br />

in un solo Stato (produttore, o anche consumatore) richiederebbe<br />

un impatto geo-politico tutt’altro che trascurabile, poiché<br />

permetterebbe l’ingerenza di un soggetto pubblico al di fuori<br />

dei confini nazionali. In una prospettiva di superamento globale<br />

e concordato della partecipazione pubblica negli operatori<br />

energetici – la cui sede potrebbe dunque essere questa sorta<br />

di “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” dell’energia –, invece, tale rischio si<br />

scongiurerebbe. D’altra parte, non avrebbero senso determinati<br />

timori – peraltro generalmente immotivati – che un processo<br />

di privatizzazione può generare in relazione ai prezzi e alla tutela<br />

delle categorie meno abbienti: ormai liberi da partecipazioni<br />

nel mercato, gli Stati potrebbero adoperarsi in moderate forme<br />

di controllo esterno proprio attraverso una moral suasion da<br />

esercitarsi in sede di “consiglio di <strong>sicurezza</strong>”.<br />

Vale la pena rimarcare la necessità di coordinare e integrare<br />

il forum globale con la struttura più ristretta di cui si è appena<br />

discusso: la realtà dell’energia è intrinsecamente flessibile e<br />

richiede tecniche di collaborazione internazionale che riescano<br />

a supportare tale alto grado di elasticità. Dal lato dei consumi,<br />

infatti, sono preventivabili aumenti anche molto consistenti in<br />

rapporto con le previsioni di crescita demografica ma anche – e<br />

soprattutto – industriale che, fortunatamente, interessano, e<br />

sempre più interesseranno, zone del mondo ancora in via di sviluppo.<br />

Anche sul lato delle risorse energetiche, peraltro – come<br />

già visto al capitolo 4 del presente studio – la situazione è tutt’altro<br />

che statica: il progresso tecnologico e le mutevoli esigenze<br />

della società “creano” risorse energetiche: sul medio-lungo termine<br />

paesi prevalentemente consumatori potrebbero evolversi<br />

come produttori, o viceversa.<br />

Non solo, vi è anche una terza categoria di paesi che non<br />

possono essere assolutamente ignorati: gli Stati in cui passano le<br />

grandi reti di trasporto dell’energia. Con le crisi degli scorsi in-<br />

296


verni si è visto come anch’essi giochino un ruolo determinante:<br />

sebbene le reti appaiano (superficialmente) quanto di più stabile<br />

e intangibile possa esistere, la realtà dei rigassificatori ha reso<br />

evidente a tutti che anche le tecniche di trasporto dell’energia<br />

mutano radicalmente con il passare del tempo, e che tale fattore<br />

possa incidere nelle dinamiche di mercato tanto da giungere<br />

addirittura a modificare l’equilibrio di tutte le forze in campo.<br />

Ne consegue, insomma, che l’organismo ristretto – che abbiamo<br />

denominato “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” – debba rapportarsi al forum<br />

globale in modo letteralmente opposto rispetto a quello che<br />

accade nell’Organizzazione delle Nazioni Unite: l’immutabilità,<br />

l’ingessatura del “consiglio di <strong>sicurezza</strong>” avrebbe la conseguenza<br />

di diminuirne progressivamente la rilevanza, come, d’altronde, è<br />

accaduto per il corrispondente organismo Onu. Sul punto, la storia<br />

delle relazioni internazionali – comunque basate su rapporti di<br />

potenza più statici di quanto si possa riscontrare nel mercato energetico<br />

– può fornire lezioni interessanti: davanti all’insuccesso delle<br />

strutture Onu, che avevano senso solo in rapporto all’esito della<br />

Seconda guerra mondiale, ma che erano state presto superate, i<br />

paesi maggiormente industrializzati hanno percepito l’esigenza di<br />

un luogo d’incontro informale, dando vita al G7. Anche se contestatissimo,<br />

il G7 ha avuto la capacità di rinnovarsi attraverso la<br />

cooptazione della Russia (trasformandosi, quindi, nel G8), che,<br />

pur non essendo ai vertici dell’industrializzazione, è comunque un<br />

partner strategico essenziale. Con il passare del tempo, il mutare<br />

del contesto politico internazionale (che ha più volte provveduto<br />

a sconfessare ogni ipotesi di morte della storia) e il susseguirsi delle<br />

riunioni, il G8 ha visto la presenza di paesi “osservatori” nonché<br />

di un’organizzazione sovrastatale (o parastatale, o confederale:<br />

sul punto i giuristi non hanno ancora raggiunto una valutazione<br />

unanime) come l’Unione Europea.<br />

In altre parole: il modello di un’organizzazione globale dell’energia<br />

non può essere l’Onu, ma piuttosto, con alcune diverse<br />

peculiarità, il G8. Certamente non è facile individuare forme<br />

di interazione che garantiscano efficacia nella flessibilità, ma il<br />

tavolo delle discussioni non potrà ignorare questo elemento, che<br />

riassume molti degli elementi che contraddistinguono la sfida<br />

globale dell’energia.<br />

297


9.<br />

Conclusione: un coordinamento necessario<br />

Le tesi sostenute in questo paper possono essere riassunte<br />

in quattro punti:<br />

• Le liberalizzazioni, promuovendo l’integrazione e la flessibilità<br />

dei mercati, rafforzano la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Su un<br />

mercato autenticamente libero, infatti, il mix energetico<br />

tende a essere più diversificato, e questo consente di assorbire<br />

meglio eventuali shock;<br />

• Alcune scelte di politica ambientale – specie in relazione alla<br />

lotta ai mutamenti climatici – possono al contrario indebolire<br />

la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, penalizzando fonti di energia<br />

efficienti a favore di fonti inaffidabili;<br />

• Il ruolo primario della politica estera, sia a livello nazionale<br />

sia in sede europea, dovrebbe essere quello di perseguire<br />

forme di reciproca apertura dei mercati tra i paesi produttori<br />

e consumatori;<br />

• Poiché la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dipende da tutti questi fattori<br />

in misura sostanziale, è urgente una revisione delle tre linee<br />

politiche – economica, ambientale ed estera – e delle<br />

conseguenti scelte regolatorie nel tentativo di trovare un<br />

coordinamento e di non adottare scelte contraddittorie.<br />

Tali osservazioni seguono in primo luogo dalla constatazione<br />

che le tensioni sui mercati dell’energia non derivano da, e non<br />

hanno nulla a che vedere con, una scarsità fisica delle risorse.<br />

Petrolio, gas naturale, carbone e uranio – per citare i combustibili<br />

principali che oggi soddisfano gran parte dei fabbisogni<br />

mondiali – sono in natura abbondanti e non c’è alcuna ragione<br />

di temere un loro esaurimento. Le riserve note sono in grado di<br />

299


durare, agli attuali ritmi di consumo, un quarantennio nel caso<br />

del petrolio, molto di più negli altri. Inoltre il concetto stesso di<br />

riserve note è di difficile applicabilità, se non a fini statistici e per<br />

valutare gli asset in mano alle varie compagnie o paesi. Esso<br />

esclude, per definizione, le riserve incognite, che non sono ancora<br />

state trovate e che si celano nel sottosuolo: gran parte della<br />

superficie terrestre è tuttora inesplorata e potrebbe riservare<br />

grandi sorprese. Le stesse riserve note sono spesso poco o male<br />

sfruttate, principalmente a causa della chiusura di molti paesi<br />

produttori ai capitali stranieri. Coi capitali, restano al di fuori<br />

dei confini anche competenze e tecnologie che potrebbero aumentare<br />

di molto la resa dei giacimenti.<br />

Inoltre, se davvero le risorse fossero in via di esaurimento –<br />

dopo tutto si tratta di quantità finite – il mercato, laddove funzionante,<br />

consente una loro gestione oculata. Al progressivo<br />

prosciugamento dei giacimenti corrisponderebbe un aumento<br />

dei prezzi, che immediatamente incentiverebbe il risparmio e<br />

l’efficienza, in maniera tale da fare miglior uso delle risorse esistenti:<br />

il dimezzamento dei consumi per la produzione di un dato<br />

output (per esempio spostare un’automobile per x chilometri<br />

o, in generale, produrre un’unità di prodotto interno lordo)<br />

equivale, a tutti gli effetti, a un raddoppio delle risorse. Più nel<br />

lungo termine, l’aumento dei prezzi creerebbe maggiori occasioni<br />

di profitto per chiunque fosse in grado di immettere sul<br />

mercato fonti diverse ma equivalenti (come gli oli non convenzionali),<br />

oppure fonti alternative. Questa prospettiva di maggior<br />

guadagno spingerebbe molte imprese a rischiare: le compagnie<br />

petrolifere già oggi investono molto nella ricerca e sviluppo di<br />

tecnologie alternative, semplicemente per non rischiare di essere<br />

tagliate fuori dal business quando queste dovessero emergere.<br />

È ovvio che la maggior parte fallirebbe nella ricerca, a sue<br />

spese. Ma l’esperienza suggerisce che molto probabilmente<br />

qualcuno riuscirebbe a trovare energie alternative efficienti,<br />

causando un nuovo salto tecnologico paragonabile a quelli sperimentati<br />

in passato. Per comprendere tale fenomeno bisogna<br />

considerare che quel che l’umanità cerca non è, astrattamente,<br />

petrolio o gas o carbone: è energia che possa muovere i mezzi di<br />

trasporto, far funzionare le macchine, alimentare le tecnologie<br />

300


dell’informazione e della comunicazione. La stessa maggiore<br />

importanza conquistata dall’elettricità rispetto ad altre forme di<br />

energia è una garanzia in questo senso, perché l’elettricità generata<br />

da una fonte è indistinguibile da quella generata da altre<br />

fonti, e quindi i consumatori sarebbero orientati semplicemente<br />

dal prezzo: non dovrebbero sostenere particolari costi nell’acquistare<br />

energia da un fornitore piuttosto che da un altro (anche<br />

questo fatto rende di cruciale importanza la terzietà e la gestione<br />

non discriminatoria delle reti, pienamente ottenuta in Italia<br />

con la separazione proprietaria di Terna dall’Enel e l’imposizione<br />

di un limite alle quote che le imprese produttrici di energia<br />

elettrica possono detenere).<br />

Anche in quest’ottica evolutiva, le liberalizzazioni e, in generale,<br />

la libertà economica giocano un ruolo molto importante,<br />

in quanto costituiscono la garanzia per le imprese che potranno<br />

operare liberamente e che i loro investimenti saranno protetti.<br />

Ne seguono due conclusioni. La prima riguarda la tassazione<br />

dei profitti delle compagnie, che va affrontata in maniera razionale<br />

e non emozionale: grandi profitti sono sinonimo – se un’impresa<br />

vuole sopravvivere – di grandi investimenti. L’adozione di<br />

imposte punitive degli extra profitti dovuti all’aumento dei<br />

prezzi del petrolio (o del gas) è doppiamente miope, dunque:<br />

nell’immediato fa scappare le imprese e quindi indebolisce la <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> (alleggerendo le pressioni competitive su chi<br />

resta), nel medio e lungo periodo rischia di ridurre gli investimenti<br />

e quindi la speranza di aumentare la diversificazione o<br />

escogitare alternative. La seconda conclusione ha a che fare con<br />

le politiche pubbliche di promozione degli investimenti, di cui<br />

spesso si discute sia a livello nazionale sia europeo: esse dovrebbero<br />

essere le più neutrali possibili – per esempio la defiscalizzazione<br />

di tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo. Quanto<br />

maggiori sono gli spazi di arbitrarietà, per esempio sotto forma<br />

di detrazioni o deduzioni selettive oppure sussidi alla ricerca e<br />

sviluppo in certi campi, tanto maggiore è il rischio che le imprese<br />

si orientino verso attività di mero rent seeking, che abbiano<br />

luogo fenomeni di corruzione, e che la burocrazia, per quanto<br />

onesta, preparata e disinteressata, fallisca nel compito di individuare<br />

i filoni più promettenti, promuovendo così un’allocazio-<br />

301


ne inefficiente delle risorse e in ultima analisi rallentando il progresso.<br />

Lo stesso ragionamento vale per le politiche ambientali in<br />

generale, climatiche in particolare. Esse devono muovere da tre<br />

presupposti: (1) in prospettiva, le maggiori emissioni di gas a effetto<br />

serra proverranno dai paesi in via di sviluppo; (2) il riscaldamento<br />

globale e altre questioni ambientali sono problemi globali,<br />

non regionali, e di lungo termine, e le soluzioni devono<br />

dunque avere le medesime caratteristiche; (3) un’eccessiva enfasi<br />

su miglioramenti locali e immediati può indebolire chi li persegue<br />

sullo scenario economico e politico internazionale, e perciò<br />

disincentivare la partecipazione di chi emette di più e in ultima<br />

analisi peggiorare, anziché alleviare, il problema. Probabilmente<br />

questo è il punto più delicato del protocollo di Kyoto. Esso,<br />

in effetti, richiede a un ristretto numero di paesi di operare<br />

riduzioni sostanziali delle loro emissioni entro una scadenza ravvicinata,<br />

e facendo ciò produce (di fatto) uno spostamento di risorse<br />

a favore non tanto di chi può effettivamente produrre un<br />

balzo tecnologico, ma verso chi è in grado di offrire tagli delle<br />

emissioni, reali o apparenti che siano, qui e ora. Anche sotto il<br />

profilo delle opzioni tecnologiche, Kyoto sembra favorire quelle<br />

fonti di energia che, pur già disponibili, sono economicamente<br />

poco efficienti a scapito di tecnologie più promettenti ma non<br />

ancora perfezionate.<br />

Infine, la politica estera gioca un ruolo spesso sottovalutato:<br />

è opportuno che esistano forme di coordinamento, o almeno<br />

di non contraddizione, tra politica ambientale, <strong>energetica</strong> ed<br />

estera. In tutti questi casi, infatti, ci si scontra con l’esigenza, diretta<br />

o indiretta, di creare un rapporto di cooperazione stabile e<br />

mutuamente vantaggioso con gli altri paesi: da un lato per quanto<br />

attiene la collaborazione tecnologica e la riduzione dell’impatto<br />

antropogenico sul clima, dall’altro per quel che riguarda<br />

la ricerca, l’estrazione, il trasporto e la vendita delle fonti fossili.<br />

Se questo è il compito della politica estera, ne derivano due<br />

conseguenze. Una è che essa non deve essere ostacolata da dichiarazioni<br />

avventate o decisioni controproducenti negli altri<br />

campi. L’altra è che la politica estera deve essere forte, stabile e<br />

credibile: quindi condivisa. Ciò rende necessario un confronto<br />

302


tra i diversi partiti politici per elaborare delle linee condivise<br />

nell’interesse del paese, quanto meno sotto il profilo della <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> (un discorso analogo può valere per altri temi<br />

che qui non vengono trattati).<br />

Da queste tesi derivano alcune indicazioni in merito a quali<br />

scelte potrebbero essere effettuate a livello nazionale, europeo,<br />

e internazionale nell’ambito di una strategia orientata alla<br />

<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>.<br />

L’Italia e gli altri Stati membri dell’Unione Europea soffrono<br />

principalmente di due problemi: un deficit di libertà economica<br />

nel settore energetico, e una eccessiva dipendenza da pochi<br />

combustibili ottenuti da pochi fornitori. La diversificazione<br />

è quindi uno dei pilastri su cui deve reggersi la strategia di <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>: il primo e più ovvio metodo per perseguirla è<br />

la rimozione di quei provvedimenti di legge o regolatori che disincentivano<br />

o vietano il ricorso a talune fonti energetiche, obbligando<br />

dunque il mercato a spostarsi verso le altre. Parallelamente,<br />

occorre pure un deciso sforzo di liberalizzazione dell’energia<br />

– anche attraverso una ragionevole politica di separazione<br />

delle reti dagli operatori del servizio 1 – e l’abbandono delle<br />

forme di discriminazione verso le imprese straniere. Altrettanto<br />

importante è l’adozione di un quadro normativo certo e non<br />

ostile agli investimenti. Se è vero che l’Italia e gli altri paesi hanno<br />

un disperato bisogno di infrastrutture, allora essi devono saper<br />

attirare, non respingere, capitali. Questo è un passaggio<br />

chiave nell’ottica della diversificazione: per avvenire, infatti, essa<br />

richiede necessariamente l’ingresso di newcomers. Per esempio,<br />

la dipendenza dai pochi fornitori di gas naturale (nel caso<br />

italiano, principalmente Russia e Algeria) può essere alleviata<br />

grazie a una più capillare diffusione del Gnl. Tuttavia, quelle imprese<br />

che hanno approntato progetti di terminali di rigassificazione<br />

si sono dovute scontrare con opposizioni e ritardi che hanno<br />

fatto lievitare i costi e i tempi delle operazioni 2. Naturalmen-<br />

1 A proposito della situazione italiana, si veda in particolare CARLO SCAR-<br />

PA, “La falsa liberalizzazione del mercato del gas”.<br />

2 Si veda SILVIO BOCCALATTE, PAOLO MESSA e CARLO STAGNARO, “Liberare<br />

gli investimenti per liberare la sfida <strong>energetica</strong>”.<br />

303


te, gli effetti di questa misure non saranno e non possono essere<br />

immediati: tuttavia, il problema – che ha un aspetto acuto e<br />

immediato, difficilmente risolubile se non con provvedimenti<br />

tampone e in caso di emergenza, come è accaduto all’inizio del<br />

2006 con la crisi del gas o nel 2003 con le sospensioni programmate<br />

del servizio elettrico – ha una sua natura di lungo termine.<br />

Necessariamente, dunque, la risposta deve guardare al lungo<br />

periodo, per poter essere adeguata. Inoltre, occorre tenere presente<br />

che la maggior parte dell’aumento della domanda, e quindi<br />

gran parte delle pressioni sui prezzi, delle risorse energetiche,<br />

proviene dalle economie emergenti, non dai paesi industrializzati:<br />

quindi, piuttosto che far fronte a una crescita dei consumi<br />

di energia (anche se potranno verificarsi aumenti anche sensibili<br />

della domanda di alcune fonti, come il gas) l’Italia dovrà porsi<br />

il problema di garantire approvvigionamenti sicuri e stabili.<br />

L’obiettivo, dunque, dev’essere da un lato quello di provvedere<br />

un clima favorevole agli investimenti delle imprese private, dall’altro<br />

presentarsi come un partner politico affidabile per i paesi<br />

produttori.<br />

L’Unione Europea può svolgere un ruolo essenziale alla <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>, sia per gli Stati membri, sia per il sistema globale<br />

nel suo complesso. Tale ruolo si declina secondo due direttrici,<br />

una interna all’Ue, l’altra esterna. Internamente, l’Ue può<br />

promuovere l’implementazione delle liberalizzazioni negli Stati<br />

membri. Inoltre, può agevolare la creazione di un mercato interno<br />

dell’energia sia forzando la rimozione degli ostacoli agli investimenti<br />

cross border (ancora rilevanti, nonostante la piena liberalizzazione<br />

entrata in vigore il 1 luglio 2007), sia – anche come<br />

conseguenza di ciò – spingendo una maggiore interconnessione<br />

delle reti e degli scambi energetici tra gli Stati membri. Il<br />

Libro verde sulla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> pubblicato dalla Commissione<br />

evidenzia chiaramente questi punti, anche se al fondo è<br />

evidente la debolezza della Commissione su questi temi: è dunque<br />

essenziale che si sviluppi un consenso interno all’Ue sul<br />

conferimento a Bruxelles di maggiori poteri in materia di politica<br />

<strong>energetica</strong>. Ciò sarebbe funzionale anche all’efficacia della<br />

direttrice esterna, che consiste nella creazione di “buoni rapporti”<br />

coi paesi produttori e fornitori di risorse energetiche, e con<br />

304


quelli di transito. “Buoni rapporti” significa primariamente garanzie<br />

reciproche sulla protezione degli investimenti, e cioè mutue<br />

aperture dei mercati, in base all’assunto che, in un’economia<br />

globalizzata caratterizzata da un crescente grado di interdipendenza,<br />

ciascuno ha bisogno dell’altro. La reciprocità è un elemento<br />

importante, ma per poterla pretendere bisogna avere la<br />

forza e il coraggio di aprirsi per primi. Quindi tattiche di chiusura<br />

sono nocive e da evitare, anche se in alcuni casi possono esservi<br />

preoccupazioni fondate. I dossier vanno dunque gestiti caso<br />

per caso, mantenendo però ferma la barra sul principio chiave<br />

della libertà economica. Come si è visto, molte inefficienze<br />

nei paesi produttori derivano infatti da una sua assenza: essa<br />

può difficilmente essere promossa in maniera credibile se chi la<br />

invoca non la adotta in casa sua.<br />

Una accresciuta consapevolezza del ruolo dell’Ue in questo<br />

senso potrebbe farne aumentare pure il prestigio internazionale,<br />

con la conseguenza di agevolare negoziazioni multilaterali tese<br />

a favorire una diffusione di tale approccio: nella consapevolezza<br />

che pure all’interno dell’Ue il processo è tutt’altro che<br />

semplice o lineare, ma si muove grazie a un faticoso e generoso<br />

sforzo ma anche perché vige la convinzione che, nel lungo termine,<br />

tutto ciò convenga. Tre sono i luoghi chiave in cui possono<br />

prender luogo tali negoziazioni. Il primo è il G8, a causa del<br />

fatto che esso raccoglie le maggiori potenze economiche e politiche<br />

del pianeta – coloro, cioè, che hanno il massimo interesse<br />

e i mezzi più efficaci a convincere gli altri paesi a seguire la via<br />

della libertà economica. Nel caso dell’energia, sarebbe utile l’apertura<br />

di un nuovo spazio analogo al G8, che però includa tutti<br />

i maggiori produttori e consumatori di energia, compreso l’Opec.<br />

Non è necessario – anzi: potrebbe essere controproducente<br />

– che le decisioni ivi assunte siano legalmente vincolanti. Esse<br />

dovrebbero servire più a fornire degli indirizzi, allo scopo di<br />

esercitare una forma di moral suasion sui partecipanti ed evidenziare<br />

il reciproco interesse. Nel processo potrebbero essere<br />

coinvolti anche tutti gli stakeholder rilevanti, come le grandi imprese,<br />

nazionali e internazionali, operanti nell’energia. Proprio<br />

perché il settore privato dispone dei mezzi (tecnologici ed economici)<br />

e delle competenze necessarie a far funzionare i merca-<br />

305


ti energetici, esso non dovrebbe essere trascurato, escluso, o<br />

considerato ininfluente ai fini del buon esito delle negoziazioni<br />

politiche: dopo tutto, ciò di cui in pratica si sta parlando è la libertà<br />

di accesso delle Nocs dei paesi produttori sui mercati a<br />

valle, e delle Iocs sui mercati a monte della filiera <strong>energetica</strong>. Seguendo<br />

la stessa logica, acquista una importanza centrale la<br />

World Trade Organization. La questione <strong>energetica</strong> è di natura<br />

essenzialmente commerciale e le difficoltà nel soddisfare pienamente<br />

la domanda, oltre che alcune rigidità lungo la filiera, dipendono<br />

essenzialmente dalla chiusura dei mercati e dall’eccessivo<br />

interventismo pubblico a tutti gli stadi. Sebbene la Wto si<br />

trovi oggi in grave difficoltà a causa della via apparentemente<br />

senza sbocco in cui sembra essere entrato il multilateralismo, l’energia<br />

potrebbe essere – se solo le parti avessero il coraggio di<br />

trattarla in questi termini – il terreno comune su cui cercare una<br />

composizione delle opposte spinte. Se si abbandona la logica<br />

delle reciproche rivendicazioni e si guarda ai fatti, si osserverà<br />

come vi sia una simmetria quasi perfetta tra le esigenze dei maggiori<br />

consumatori e produttori di energia: i primi hanno bisogno<br />

delle risorse, gli altri dei capitali, competenze e tecnologie per<br />

estrarle. I tasselli non si incastrano principalmente a causa di rivalità<br />

e cecità politiche, e dunque politica deve essere la soluzione.<br />

Come? Attraverso mezzi economici, cioè attraverso il commercio.<br />

Un tentativo di ottenere un simile risultato è la Carta<br />

dell’energia, un impegno che purtroppo non è stato ancora ratificato<br />

(talvolta neppure firmato) dai principali protagonisti del<br />

risiko energetico. La parte più significativa della Carta, sotto il<br />

profilo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>, è forse quella relativa alla protezione<br />

degli investimenti stranieri nei paesi firmatari. Perché<br />

ciò avvenga è necessario uno sforzo da parte di tutti, a partire da<br />

coloro che, oggi, si trovano nella posizione contrattualmente più<br />

debole, cioè i paesi consumatori. Nella consapevolezza, però,<br />

che le posizioni potrebbero rovesciarsi e che il gioco non potrà<br />

durare in eterno: quando emergeranno tecnologie realmente alternative,<br />

e ciò dovrà accadere nei prossimi decenni, le fonti fossili<br />

perderanno importanza e quei paesi produttori che saranno<br />

restati monocolture petrolifere (o del gas) avranno irrimediabilmente<br />

perso l’occasione di innescare un sentiero di sviluppo du-<br />

306


aturo e sostenibile. Contrariamente a ciò che talvolta si sente<br />

affermare, possedere ricchi giacimenti di idrocarburi non è né<br />

una posizione di rendita né una maledizione: è una grande opportunità,<br />

ma anche una bomba a orologeria. Quando la miccia<br />

avrà finito di ardere – quando, fuor di metafora, il mondo avrà<br />

meno o nessun bisogno di petrolio e gas, perché si saranno affermate<br />

fonti alternative efficienti – il petrolio e il gas nel sottosuolo<br />

non saranno più una ricchezza ma un dato geologico. Se<br />

nel frattempo i paesi in questione avranno saputo utilizzare i fiumi<br />

di denaro ottenuti in cambio delle loro risorse per mettere in<br />

moto l’economia, allora saranno protagonisti dell’economia globale:<br />

altrimenti, ne saranno marginalizzati e dovranno ancora fare<br />

i conti con la povertà e con la fame, senza neppure potersi appoggiare<br />

ai programmi di assistenza oggi generosamente finanziati<br />

dalle Nocs (che per farlo rinunciano a guadagni in efficienza<br />

e a loro volta sono danneggiate dal perverso meccanismo politico<br />

che è alla base del sistema).<br />

L’intera tesi qui esposta si regge su un presupposto: che sia<br />

possibile aprire i diversi mercati e che i paesi coinvolti siano disposti<br />

a negoziare in un contesto pacifico. Senza la pace tutto ciò<br />

è più costoso e, quindi, più difficile, anche perché inquinato da<br />

recriminazioni reciproche più o meno giustificate e più o meno<br />

pretestuose. Quindi, l’impegno comune di tutti – e in primo luogo<br />

dell’Europa – per costruire un panorama globale meno bellicoso<br />

di quanto non sia adesso. Il punto è che la guerra raramente<br />

può risolvere i problemi: più spesso ne crea di nuovi.<br />

Dunque, è fondamentale l’uso sapiente della deterrenza così come<br />

l’abilità di offrire condizioni vantaggiose a chi può essere<br />

tentato di ricorrere a espedienti militaristici.<br />

Si torna così a uno dei temi inizialmente messi in luce e che<br />

vanno chiariti onde evitare fraintendimenti dannosi: il concetto<br />

stesso di <strong>sicurezza</strong>. Si possono definire “sicuri” gli approvvigionamenti<br />

di energia se essi dipendono solo e semplicemente da<br />

dinamiche economiche. Questo significa che la variabilità dei<br />

prezzi, lungi dall’essere sintomo di in<strong>sicurezza</strong>, è fattore di <strong>sicurezza</strong>,<br />

in quanto indica l’esistenza di un mercato funzionante. I<br />

tentativi di controllare i prezzi, mantenendoli attorno a un livello<br />

arbitrariamente ritenuto né troppo alto né troppo basso, ge-<br />

307


nerano solitamente forme di scarsità acuta e pericolosa. Quindi,<br />

l’obiettivo di una strategia di <strong>sicurezza</strong> non deve essere la stabilizzazione<br />

dei prezzi: piuttosto la rimozione di tutti quei fattori<br />

che, oggi, impediscono un efficiente sfruttamento delle risorse,<br />

il loro scambio su un mercato competitivo, il loro utilizzo da imprese<br />

in concorrenza tra di loro su tutti i mercati globali. L’energia<br />

non fa eccezione al nesso che lega pace e libertà economica:<br />

non è dunque per moralismo, ma per ragioni puramente economiche,<br />

che si può affermare ciò che è ovvio, ossia che un mondo<br />

pacifico è anche un mondo in cui è maggiore la <strong>sicurezza</strong> degli<br />

approvvigionamenti energetici.<br />

308


Commenti


Fulvio Conti *<br />

In un mondo in cui la domanda di energia cresce rapidamente<br />

per soddisfare le esigenze di sviluppo, la sfida della sostenibilità<br />

si gioca intorno a tre fattori interconnessi: la <strong>sicurezza</strong><br />

degli approvvigionamenti, l’economicità e quindi la competitività<br />

del sistema, la salvaguardia dell’ambiente. Le politiche energetiche,<br />

dunque, debbono essere guidate dalla necessità di conciliare<br />

il più possibile questi tre fattori, tenendo conto dello scenario<br />

energetico e politico globale.<br />

Secondo le previsioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia,<br />

la domanda mondiale di energia è destinata a crescere in<br />

maniera significativa nei prossimi 25 anni, con un incremento<br />

stimato attorno al 52 per cento. Ciò servirà soprattutto a sostenere<br />

la crescita dei paesi in via di sviluppo, la cui domanda avrà<br />

una crescita vicina al 93 per cento, ma è pur vero che con un 25<br />

per cento circa i paesi dell’area OCSE avranno un tasso di crescita<br />

molto significativo. La stessa Agenzia ritiene che una crescita<br />

così sostenuta della domanda di energia non potrà fare a<br />

meno dei combustibili fossili. Anche rafforzando le politiche<br />

che favoriscono il risparmio energetico e le fonti a basso contenuto<br />

di carbonio, il ricorso ai combustibili fossili è dunque destinato<br />

ad aumentare. Ciò genererà inevitabilmente pressioni<br />

sulla domanda, con la conseguente tendenza all’aumento dei<br />

prezzi, e, conseguentemente, del potere contrattuale dei paesi<br />

produttori, non solo dal punto di vista economico ma anche politico.<br />

* Amministratore delegato, Enel.<br />

311


La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> è certamente un problema europeo,<br />

ma soprattutto italiano: se l’Europa, infatti, dipende per oltre il<br />

60 per cento dalle importazioni, l’Italia dipende dall’estero per<br />

circa il 90 per cento del suo fabbisogno energetico. Questa tendenza<br />

è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni: si stima che<br />

entro il 2025 queste percentuali supereranno l’80 per cento per<br />

l’Europa e sfioreranno il 100 per cento per l’Italia.<br />

Se, dunque, a causa della dipendenza dall’estero per gli approvvigionamenti<br />

energetici l’Europa è in una condizione chiaramente<br />

difficile, l’Italia si trova in una situazione peggiore anche<br />

a causa dello sbilanciamento verso olio e gas naturale del<br />

mix delle fonti utilizzate per la produzione elettrica.<br />

Diversamente dalla maggior parte dei paesi maggiormente<br />

industrializzati, infatti, l’Italia non dispone di energia da fonte<br />

nucleare, utilizza il carbone in misura estremamente limitata,<br />

mentre quasi la metà dell’energia elettrica prodotta in Italia proviene<br />

dal gas naturale, combustibile che ha progressivamente<br />

preso il posto dell’olio sia grazie alla riconversione di alcune vecchie<br />

centrali, che alla realizzazione di nuovi impianti, anche in<br />

virtù della spinta data dal processo di liberalizzazione del settore<br />

energetico. Infatti, in un contesto competitivo gli investitori<br />

privilegiano i cicli combinati, caratterizzati da un ritorno a più<br />

breve termine e da una maggiore accettabilità da parte dei territori<br />

interessati. A tale fenomeno si somma un uso del gas da<br />

parte delle famiglie e del settore civile pari al 53 per cento dei<br />

consumi totali, un livello largamente superiore a quello che si registra<br />

in media nel resto d’Europa.<br />

Poiché nel nostro paese il nucleare non sarà un’opzione reale<br />

ancora per molti anni, l’unica via possibile per migliorare la<br />

situazione è da un lato incrementare quanto più possibile il contributo<br />

già elevato delle rinnovabili, dall’altro creare le condizioni<br />

per un uso del carbone tendenzialmente a zero emissioni.<br />

Il carbone è una fonte economica, abbondante e diffusa in<br />

molte aree del pianeta stabili dal punto di vista politico, pulita<br />

grazie alle moderne tecnologie oggi disponibili. Una quota ragionevole<br />

di carbone nel mix di produzione consente quindi numerosi<br />

vantaggi: una significativa riduzione del costo medio di<br />

generazione, una maggiore <strong>sicurezza</strong> negli approvvigionamenti<br />

312


energetici, una minore esposizione del costo di produzione al<br />

prezzo del petrolio, cui è legato anche quello del gas, un contenimento<br />

delle emissioni inquinanti e dei gas serra rispetto alle<br />

vecchie centrali a olio, anche grazie alla maggiore efficienza. Per<br />

queste ragioni è chiaro che il carbone può avere un ruolo essenziale<br />

nel riequilibrio del mix di produzione, mentre è importante<br />

che l’Europa e in particolare l’Italia promuovano e sostengano<br />

la ricerca relativa al carbone pulito e al sequestro di CO2 allo<br />

scopo di migliorare ulteriormente le già eccellenti prestazioni<br />

ambientali dei nuovi impianti, attivando una delle chiavi che<br />

renderanno compatibile la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> con la sfida proposta<br />

dal cambiamento climatico.<br />

Nel frattempo, è indispensabile ampliare la disponibilità di<br />

gas naturale, realizzando terminali di rigassificazione che non<br />

solo faranno aumentare l’offerta, ma consentiranno anche di diversificare<br />

la provenienza geografica di tale combustibile. In<br />

questo modo sarà possibile ridurre la dipendenza da pochi paesi<br />

produttori e, quindi, il rischio di crisi di approvvigionamento<br />

dovuta a decisioni politiche.<br />

Per quello che riguarda le fonti rinnovabili è chiara a tutti<br />

la loro importanza. È necessario incrementare il più possibile la<br />

produzione da questo tipo di fonti, sia per contenere le emissioni,<br />

sia per ridurre il fabbisogno di combustibili fossili. È tuttavia<br />

necessario essere realisti. Le fonti rinnovabili non sono risorse<br />

tutte disponibili sempre e dovunque e non è detto che, ove<br />

siano disponibili, sia possibile o concesso sfruttarle, spesso per<br />

gli ostacoli posti, in particolare in Italia, dalle amministrazioni<br />

locali. Inoltre, bisogna tener presente che gli investimenti necessari<br />

per lo sfruttamento economicamente vantaggioso delle rinnovabili<br />

sono ancora poco competitivi rispetto agli investimenti<br />

in impianti “tradizionali”. In termini pratici senza gli opportuni<br />

incentivi alla produzione di energia “verde” difficilmente<br />

l’industria avrebbe convenienza a investire in questo campo.<br />

È dunque necessario un duplice sforzo, teso da un lato ad<br />

una giusta incentivazione all’istallazione di nuovi impianti, ponendo<br />

in essere le condizioni perché ciò possa esser fatto con<br />

successo, e volto dall’altro alla promozione e al sostegno della<br />

ricerca in questo campo. Questo secondo aspetto è particolar-<br />

313


mente rilevante, soprattutto se pensiamo all’ambizioso obiettivo<br />

che recentemente l’Unione Europea si è data di raggiungere<br />

entro il 2020 il 20 per cento dei consumi energetici da fonti rinnovabili.<br />

Un obiettivo di questo genere, se estrapolato alla situazione<br />

italiana, significherebbe triplicare l’attuale produzione da<br />

rinnovabili. Ciò richiede degli sforzi enormi e una forte spinta<br />

all’innovazione tecnologica che può essere data solo dalla ricerca.<br />

L’onere necessario al raggiungimento di questo obiettivo non<br />

può interamente pesare sull’industria ma deve essere anche sostenuto<br />

da programmi finanziati dallo stato, dato che i benefici<br />

che questo sforzo può darci saranno a vantaggio di tutti. È necessario,<br />

inoltre, combattere la cosiddetta sindrome NIMBY<br />

(Not In My Back Yard). Lo sviluppo di know-how tecnologico<br />

potrà stimolare la crescita di un vera e propria industria del rinnovabile,<br />

con benefiche ricadute non solo in termini energetici<br />

e ambientali ma anche occupazionali e sociali.<br />

Il processo di liberalizzazione del settore elettrico nel nostro<br />

Paese dimostra che l’apertura del mercato può rappresentare<br />

uno strumento efficace per stimolare efficienza ed investimenti.<br />

Il nostro Paese ha percorso la strada della liberalizzazione<br />

del settore energetico con molta più decisione e profondità<br />

rispetto a quanto avvenuto altrove. Fra i grandi Paesi europei<br />

soltanto il Regno Unito ha compiuto scelte paragonabili a quelle<br />

italiane. Solo in questi due Paesi, infatti, è stata assicurata l’indipendenza<br />

dell’operatore della rete di trasmissione dagli interessi<br />

delle imprese del settore per permettere alle stesse un accesso<br />

non discriminatorio alla rete, ed è stata ridotta la capacità<br />

produttiva degli attori storici del mercato attraverso la cessione<br />

forzosa di asset, così da consentire l’ingresso nel mercato di nuovi<br />

concorrenti. Oggi, nel mercato della generazione, Enel ha una<br />

quota dell’ordine del 30 per cento, rispetto al 70 per cento del<br />

1999. Inoltre, è stata istituita una autorità di regolamentazione<br />

del settore realmente indipendente e dotata di ampi poteri d’intervento.<br />

La liberalizzazione ha prodotto importanti benefici in termini<br />

di contenimento dei prezzi. Secondo Eurostat, dal 1996 al<br />

2005 i prezzi dell’elettricità sono stati, dopo le telecomunicazioni,<br />

i più virtuosi del paniere, con un aumento del 9 per cento no-<br />

314


minale in Italia contro una media del 16 per cento in Europa.<br />

Tale dato è tanto più significativo se si considera che nello stesso<br />

periodo il prezzo del Brent, cui è legato l’andamento del costo<br />

dei combustibili che utilizziamo, è cresciuto da circa 20 a oltre<br />

60 dollari al barile e l’inflazione cumulata nel nostro Paese<br />

ha superato il 20 per cento. In termini reali, le tariffe elettriche<br />

dal 1996 ad oggi si sono ridotte di più del 12 per cento in termini<br />

reali.<br />

Nello stesso periodo, il costo dei combustibili, che pesa per<br />

circa il 40 per cento sul prezzo dell’elettricità, è più che raddoppiato.<br />

La componente tariffaria di pertinenza delle imprese si è<br />

invece ridotta di circa il 40 per cento. Ciò è stato possibile perché<br />

parte dei risparmi ottenuti dalle imprese in termini di efficienza<br />

sono stati trasferiti ai clienti finali dagli interventi dell’Autorità.<br />

Anche le tariffe di accesso alle rete di trasmissione e<br />

distribuzione si sono ridotte sensibilmente nello stesso periodo,<br />

e sono oggi tra le più basse in Europa.<br />

Tuttavia, la legislazione attuale non ha contribuito alla creazione<br />

di un singolo mercato europeo. L’Europa rimane una<br />

realtà frammentata, con differenze anche sostanziali tra i diversi<br />

Paesi. I governi di alcuni Paesi membri continuano a fare i<br />

propri interessi intervenendo direttamente sul mercato dell’energia<br />

per creare i cosiddetti campioni nazionali, alterando in tal<br />

modo il corretto funzionamento del mercato dei capitali. Ogni<br />

forma di protezionismo a favore di operatori nazionali deve cessare.<br />

Il processo di consolidamento del mercato, con la conseguente<br />

creazione di campioni europei, avrà luogo solo consentendo<br />

un’effettiva e libera circolazione dei capitali. Sono oggi<br />

necessarie leggi europee che armonizzino i processi di svolgimento<br />

delle OPA negli Stati membri.<br />

Non sono oggi necessarie nuove leggi a livello europeo. Ciò<br />

di cui si ha più bisogno è l’armonizzazione dell’attuale corpo di<br />

leggi a livello dei singoli Stati. Tale armonizzazione dovrà avvenire<br />

con la supervisione di autorità regolatorie nazionali indipendenti,<br />

che abbiano poteri e competenze simili nei diversi<br />

Paesi.<br />

È auspicabile la creazione di un’Agenzia Europea che coordini<br />

il funzionamento dei diversi TSO (Transmission System<br />

315


Operator) nazionali. Tale agenzia garantirebbe la mutua cooperazione<br />

dei vari TSO, favorendo in tal modo la creazione di mercati<br />

macroregionali efficienti, e permetterebbe una ripartizione<br />

equa dell’energia ai confini dei Paesi membri. L’Agenzia minimizzerebbe<br />

inoltre le conseguenze negative sui mercati europei<br />

derivanti da blackout che hanno origine in un singolo Paese.<br />

Un altro tema di discussione è l’unbundling ovvero la separazione<br />

amministrativa, contabile, proprietaria. Nel contesto<br />

Europeo, l’Italia è all’avanguardia nel processo di unbundling<br />

del settore elettrico, avendo adottato ormai già da tempo la separazione<br />

proprietaria della rete di trasmissione. Le attuali normative<br />

comunitarie in tema di unbundling dovrebbero essere<br />

applicate omogeneamente all’interno di tutti i Paesi membri così<br />

come avvenuto in Italia, almeno per quanto riguarda il settore<br />

elettrico.<br />

Il terzo e ultimo cardine della politica <strong>energetica</strong>, è quello<br />

della sostenibilità ambientale. Il tema è quanto mai attuale: la<br />

lotta al cambiamento climatico è ormai una priorità nell’agenda<br />

politica internazionale. Il problema è globale e richiede quindi<br />

soluzioni globali, tenendo conto della diversa dimensione e dinamica<br />

nei diversi Paesi. Azioni isolate delle singole nazioni non<br />

possono che condurre ad un esito fallimentare. Occorrono dunque<br />

azioni congiunte e coordinate. Innanzi tutto è necessario includere<br />

nel nuovo sistema di riduzione di emissioni di gas serra<br />

le economie mature che finora non ne hanno fatto parte, come<br />

gli Stati Uniti, perché l’Europa può sì svolgere un ruolo trainante<br />

nella lotta al cambiamento climatico ma non ne può sostenere<br />

da sola tutto il peso. Inoltre, non si possono chiedere sacrifici<br />

eccessivi ai Paesi emergenti, né si può pensare di ostacolarne<br />

lo sviluppo. Si può però pensare a un meccanismo di inclusione<br />

progressiva, che preveda la convergenza su determinati standard<br />

di prestazione ambientale.<br />

Secondo le attuali proiezioni, al 2030, le emissioni di Brasile,<br />

Cina e India saranno più del doppio delle attuali, arrivando<br />

a rappresentare un terzo del totale mondiale. Ogni anno le emissioni<br />

di CO 2 della Cina crescono di circa 8 volte le riduzioni annuali<br />

che l’Europa conseguirebbe rispettando Kyoto. Gli sforzi<br />

di riduzione possono quindi avere un impatto maggiore in que-<br />

316


ste aree, dove ci sono ampi spazi per aumentare l’efficienza<br />

<strong>energetica</strong> ed emissiva. Bisogna quindi facilitare il trasferimento<br />

nei Paesi in via di sviluppo delle migliori tecnologie esistenti<br />

e di soluzioni innovative per la produzione e la distribuzione<br />

dell’elettricità. In Europa, il protocollo di Kyoto sta cominciando<br />

a produrre i suoi effetti attraverso il meccanismo dell’Emission<br />

Trading Scheme (EU ETS).. Com’è noto, esso attribuisce<br />

alle aziende di alcuni settori – a quelle energetiche in primis –<br />

obiettivi di riduzione delle emissioni coerenti con gli obiettivi<br />

nazionali. Le imprese che non riescono a raggiungere tali obiettivi<br />

sono chiamate ad acquistare sul mercato diritti di emissione<br />

da imprese che invece riescono a battere il proprio obiettivo. È<br />

intuitivo che tale meccanismo può funzionare solo se gli obiettivi<br />

vengono attribuiti in modo equilibrato ed equo. Purtroppo<br />

ciò non è avvenuto. La ripartizione dell’impegno assunto collettivamente<br />

dall’Europa nei confronti del Protocollo di Kyoto ha<br />

posto l’Italia in una situazione più difficile rispetto a gran parte<br />

dei partner europei. Lo squilibrio è confermato in particolare<br />

dai primi risultati dell’EU ETS, da cui risulta che l’Italia è uno<br />

dei pochi Paesi che presenta un deficit di quote di emissione.<br />

Ciò comporta il paradossale effetto di costringere l’Italia e le sue<br />

imprese ad acquistare diritti di emissione da Paesi meno efficienti<br />

ed ambientalmente virtuosi. Questa situazione è particolarmente<br />

iniqua in quanto distorce la concorrenza a livello europeo<br />

in maniera assolutamente indipendente dalle effettive<br />

prestazioni ambientali e non tiene in conto lo sforzo di ambientalizzazione<br />

già operato dall’industria elettrica italiana negli anni<br />

pre-Kyoto.<br />

Il Protocollo di Kyoto in mancanza di un coinvolgimento<br />

globale nelle politiche sul cambiamento climatico, da un lato rischia<br />

di essere inefficace, dall’altro, oltre alla generale perdita di<br />

competitività del continente, rischia di accrescere il divario fra<br />

l’Italia e gli altri Paesi europei. Per correggere questo squilibrio<br />

è necessario che gli obiettivi di emissione siano fissati sulla base<br />

di benchmark armonizzati e differenziati per combustibile e per<br />

tecnologia e che, di conseguenza, agli impianti appartenenti alla<br />

stessa categoria tecnologica siano assegnate quote in maniera<br />

omogenea, qualunque sia la loro collocazione geografica.<br />

317


L’energia rappresenta il motore dello sviluppo di un’economia<br />

moderna. La nostra visione come Enel è di garantire energia<br />

abbondante per tutti, a basso costo e pulita, attraverso l’efficienza,<br />

il risparmio energetico e l’utilizzo delle migliori tecnologie.<br />

Per far questo però è necessario che le istituzioni compiano<br />

scelte coerenti e lungimiranti, evitando che il contesto dominato<br />

da interessi diversi, le induca a preferire l’inazione a decisioni<br />

difficili e impegnative. Il “non fare” rappresenta la scelta peggiore,<br />

non solo perché ci espone a enormi rischi futuri, ma soprattutto<br />

perché penalizza cittadini e imprese nell’immediato.<br />

È necessario intraprendere numerose azioni concrete. Innanzitutto<br />

è essenziale diversificare il mix energetico, equilibrando<br />

lo sbilanciamento con un ragionevole uso del carbone,<br />

promuovendo allo stesso tempo, ove possibile, lo sviluppo del<br />

nucleare, la produzione di energia da fonti rinnovabili e l’efficienza<br />

<strong>energetica</strong>. È necessario inoltre costruire nuovi gasdotti<br />

e terminali di rigassificazione per meglio collegare l’Europa ai<br />

Paesi produttori di gas.<br />

Bisogna promuovere la ricerca scientifica e l’innovazione<br />

tecnologica investendo in soluzioni innovative per la produzione<br />

di energia nel pieno rispetto dell’ambiente, dando l’impulso<br />

decisivo allo sviluppo delle fonti rinnovabili. In questo campo<br />

Enel è già in prima linea. Il Progetto Ambiente e Innovazione<br />

prevede investimenti di oltre 4 miliardi di euro al 2011 per la ricerca,<br />

le fonti rinnovabili, lo sviluppo, l’innovazione e l’applicazione<br />

di tecnologie più avanzate. È un piano senza precedenti<br />

per Enel e con pochi paragoni anche a livello internazionale.<br />

È importante rimuovere gli ostacoli ad una completa integrazione<br />

del mercato, favorendo la creazione di grandi operatori<br />

elettrici europei. Occorre applicare in modo omogeneo, in tutti<br />

i Paesi membri, l’attuale normativa comunitaria sull’unbundling,<br />

costituendo al tempo stesso un’Agenzia Europea per il presidio<br />

e coordinamento del funzionamento dei TSO nazionali.<br />

Dobbiamo infine creare un sistema mondiale condiviso in sostituzione<br />

del Protocollo di Kyoto dal 2012 in poi, e sostituire gli<br />

attuali piani di allocazione nazionale con un unico piano a livello<br />

quanto meno europeo per la riduzione delle emissioni di CO 2.<br />

318


L’impegno che Enel profonde nello sviluppo sostenibile<br />

continuerà a far avanzare nei mercati di competenza la soluzione<br />

dell’equazione più energia a meno costo e a zero emissioni.<br />

L’obiettivo è impegnativo ma non impossibile e a questo dedicheremo<br />

ogni sforzo.<br />

319


Gian Battista Merlo *<br />

Il tema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> occupa oggi un posto di<br />

primaria rilevanza politica per ogni paese moderno. La complessità<br />

dei fattori, il numero delle variabili e l’ampiezza delle<br />

problematiche rendono il dibattito sui temi dell’energia una<br />

questione di ampio respiro, che implica scelte e visioni politiche<br />

globali, che spaziano dal campo economico a quello ambientale,<br />

dalle scelte di politica <strong>energetica</strong> nazionale a quelle di politica<br />

estera, europea e internazionale.<br />

Proprio con quest’ottica globale, questo studio dell’Istituto<br />

Bruno Leoni affronta il tema della sfida <strong>energetica</strong> che si profila<br />

all’orizzonte geo-politico dei prossimi anni. Il rapporto, infatti,<br />

approfondisce puntualmente le diverse componenti della problematica<br />

(la costante crescita della domanda <strong>energetica</strong>, la lotta<br />

ai cambiamenti climatici, la disponibilità delle risorse energetiche,<br />

il ruolo del petrolio, del gas e delle altre fonti di energia, gli<br />

sviluppi della politica <strong>energetica</strong> europea, la liberalizzazione dei<br />

mercati, eccetera) e analizza i termini della complessa questione<br />

<strong>energetica</strong> sia con riferimento alla specificità della realtà italiana,<br />

sia nell’ambito di un più ampio quadro di riferimento europeo.<br />

Ne viene fuori un interessante e completo quadro d’insieme che,<br />

a partire da quello che sembra un “ineludibile intreccio”, fornisce<br />

non solo originali spunti di riflessione, ma anche interessanti<br />

suggerimenti pratici per un efficace piano d’azione.<br />

In questo breve commento vorrei affrontare in particolare<br />

il ruolo che il gas naturale liquefatto (Gnl) può giocare nella “ri-<br />

* Presidente, ExxonMobil Mediterranea.<br />

321


cerca di <strong>sicurezza</strong>” che caratterizza il nostro paese, l’Europa e il<br />

mondo intero. Prima è però necessario ricordare alcuni elementi<br />

del sistema energetico che è alla base del nostro tessuto economico.<br />

Dal punto di vista energetico, l’Italia è un paese fortemente<br />

dipendente dall’estero: l’82 per cento del greggio necessario<br />

a soddisfare la domanda nazionale è, infatti, importato in<br />

prevalenza da Libia, Russia, Arabia Saudita ed Iran, mentre circa<br />

i due terzi del nostro fabbisogno di gas è soddisfatto da importazioni<br />

da due soli paesi, la Russia e l’Algeria. In un periodo<br />

di forti tensioni – sia strutturali che geopolitiche – come quello<br />

che stiamo vivendo, il problema della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> nazionale<br />

assume un ruolo sempre più importante e diventa sempre<br />

più critico ed urgente poter rendere disponibili le risorse<br />

presenti sul territorio.<br />

Al contrario, negli ultimi anni, la produzione nazionale sia<br />

di greggio che di gas naturale ha registrato una flessione (rispettivamente<br />

del -2,2 per cento e -7,2 per cento), proseguendo<br />

la tendenza alla contrazione, dovuta sia al progressivo esaurimento<br />

dei giacimenti già da tempo in produzione, sia ai ritardi<br />

nella messa in produzione di nuovi progetti. La regione italiana<br />

con le maggiori riserve di greggio e dalla quale proviene<br />

il 75 per cento della produzione nazionale onshore è la Basilicata.<br />

Qui, nel 1998, è stato scoperto un nuovo giacimento, denominato<br />

Tempa Rossa, di cui la Esso Italiana detiene il 25 per<br />

cento di titolarità, in compartecipazione con l’operatore Total<br />

(50 per cento) e con Shell (25 per cento). Il giacimento ha riserve<br />

stimate per 420 milioni di barili di greggio ed una produzione<br />

prevista di 50.000 barili/giorno. A tutt’oggi, però, non è<br />

ancora entrato in esercizio a causa di lungaggini burocratiche<br />

che il decentramento regionale non ha certo aiutato a snellire.<br />

Quella in campo energetico è un’attività di lungo termine, ad<br />

alta intensità di capitale, che richiede un quadro normativo di<br />

riferimento stabile e certo. Il ruolo dei governi e delle istituzioni,<br />

sia a livello centrale che locale, sarà sempre più determinante<br />

nel favorire gli investimenti privati necessari per soddisfare<br />

la crescente domanda di energia, riducendo la dipendenza dall’estero<br />

e l’incertezza che ne può conseguire per il “sistema<br />

paese”.<br />

322


Contemporaneamente, anche il resto del mondo si sta muovendo.<br />

Va premesso che esiste una stretta correlazione tra energia<br />

e progresso economico. Si prevede che al 2030 il Pil mondiale<br />

raddoppierà, con un tasso di crescita media annua del 2,7 per<br />

cento, stimolato principalmente dai paesi in via di sviluppo che<br />

oggi rappresentano poco più del 20 per cento della produzione<br />

economica mondiale. Nel 2030 questa incidenza salirà sensibilmente,<br />

grazie all’apporto delle economie in rapida espansione<br />

quali Cina, India, Indonesia e Malesia. Nel contempo, anche la<br />

popolazione mondiale è prevista crescere raggiungendo, al<br />

2030, un totale di 8 miliardi di persone ed il 95 per cento di questa<br />

crescita si registrerà sempre nei paesi in via di sviluppo.<br />

Crescita demografica, miglioramento degli standard di vita<br />

e progresso economico determineranno un aumento della domanda<br />

mondiale di energia del 50 per cento rispetto ad oggi e,<br />

stando alle sopracitate assunzioni, la crescita più pronunciata<br />

(circa l’80 per cento) si registrerà nei paesi in via di sviluppo.<br />

Nel corso del tempo si renderà necessaria una sempre più<br />

ampia gamma di fonti di energia e di tecnologie diverse. Ma, almeno<br />

fino al 2030, i combustibili fossili rimarranno fonti primarie<br />

e continueranno a soddisfare gran parte del fabbisogno energetico<br />

mondiale. Petrolio, gas e carbone sono, infatti, le uniche<br />

fonti che offrano adeguata disponibilità e flessibilità. Le nostre<br />

analisi evidenziano che petrolio e gas, insieme, copriranno quasi<br />

il 60 per cento della domanda totale di energia per i prossimi<br />

25 anni. L’utilizzo del petrolio aumenterà ad un tasso dell’1,4<br />

per cento l’anno, con una crescita in qualche modo moderata<br />

dai continui miglioramenti nel campo dell’efficienza, in particolare<br />

nel settore dei trasporti. La crescita del gas e del carbone<br />

(per ambedue dell’1,8 per cento / anno), più sostenuta rispetto<br />

a quella del petrolio, sarà alimentata soprattutto dalla forte domanda<br />

di energia elettrica, per il carbone soprattutto nell’area<br />

Asia/Pacifico che dispone di vaste riserve locali.<br />

È evidente, allora, che ci troviamo di fronte a una sfida epocale:<br />

come soddisfare una domanda <strong>energetica</strong> crescente, nazionale<br />

e globale, in un mondo dove per ragioni politiche alcune risorse<br />

sono sottosfruttate – per esempio, come lo studio IBL mostra<br />

in maniera molto chiara, l’accesso alle riserve di molti pae-<br />

323


si produttori è precluso alle compagnie internazionali, mentre le<br />

compagnie nazionali sono inefficienti, anche per mancanza di<br />

capitali e tecnologie – e in cui preoccupazioni di carattere ambientale,<br />

spesso giustificate ma talvolta esagerate, suggeriscono<br />

l’adozione di politiche di disincentivazione del ricorso alle fonti<br />

fossili? La mia risposta è che tutte le forme di energia avranno<br />

un ruolo importante da svolgere nel soddisfare il crescente<br />

fabbisogno energetico e le nostre previsioni, condivise dai maggiori<br />

centri di ricerca, indicano che le fonti rinnovabili cresceranno<br />

a ritmi superiori a qualsiasi altra fonte.<br />

Tra queste, l’energia eolica e solare saranno quelle che faranno<br />

registrare l’aumento più sensibile ma la loro base iniziale<br />

è così bassa che, persino ipotizzando una crescita superiore al<br />

10 per cento per anno, esse non copriranno più dell’1 per cento<br />

del fabbisogno mondiale di energia al 2030. Lo sviluppo di<br />

altre fonti alternative, quali l’energia da biomasse ed idroelettrica<br />

è limitato da molti fattori tra i quali la disponibilità di aree e<br />

di siti. Il nucleare, invece, sconta le decisioni politiche e sociali<br />

assunte negli anni addietro e, quand’anche caratterizzato da un<br />

nuovo impulso, avrà bisogno di almeno dieci anni di adeguamenti<br />

strutturali e tecnologici prima di poter offrire un contributo<br />

significativo.<br />

In realtà, per ampliare e diversificare le fonti di approvvigionamento<br />

energetico, l’unica vera risposta risiede nel progresso<br />

tecnologico. Occorre contribuire allo sviluppo delle opzioni<br />

più promettenti e capaci di coniugare la crescita economica con<br />

la sostenibilità ambientale e sociale. Per questo, la ExxonMobil<br />

è impegnata, tra l’altro, nel Global Climate and Energy Project<br />

(GCEP) della Stanford University, il più grande investimento<br />

privato per la ricerca scientifica sul clima e l’energia. È un programma<br />

di lungo termine volto ad identificare nuove tecnologie<br />

per un miglior uso dell’energia e per ridurre sensibilmente le<br />

emissioni di gas ad effetto serra. Tra i 27 progetti di ricerca, molti<br />

riguardano le energie alternative: 7 sono sull’idrogeno, 5 sull’energia<br />

solare e 2 sulle biomasse.<br />

Intanto, lo sviluppo della tecnologia del gas naturale liquefatto<br />

(Gnl) sta diventando sempre più importante per soddisfare<br />

la futura domanda globale di gas. Infatti, a fronte del sensibi-<br />

324


le aumento del fabbisogno mondiale, il commercio internazionale<br />

di gas sta registrando una notevole crescita e si stima che,<br />

tra venticinque anni, i volumi movimentati saranno quattro volte<br />

superiori a quelli di oggi e pari al 15 per cento del totale commercio<br />

del gas. Allo stesso tempo stanno anche aumentando le<br />

distanze da coprire prima che il gas possa giungere dai paesi<br />

produttori ai paesi consumatori. È chiaro che per trasferimenti<br />

così importanti, da un continente all’altro, la tecnica del trasporto<br />

prevalentemente utilizzata fino ad oggi, quella dei gasdotti,<br />

diventa decisamente molto rigida, mentre cresce il trasporto di<br />

Gnl, molto più moderno, flessibile e adattabile a simili distanze.<br />

Il Gnl, infatti, è gas naturale (metano), uno dei combustibili più<br />

puliti al mondo, portato e mantenuto allo stato liquido alla temperatura<br />

di circa -162 °C, a pressione atmosferica. Così liquefatto,<br />

riduce il suo volume di circa 600 volte e può essere trasportato<br />

con navi gasiere per essere poi ricevuto in appositi terminali,<br />

rigassificato ed immesso nei metanodotti alla località di arrivo,<br />

rendendolo disponibile ovunque ce ne sia bisogno.<br />

Questa opzione dà modo di svincolarsi dalla dipendenza<br />

dal “tubo”, di approvvigionarsi di gas anche su mercati lontani<br />

e da paesi non connessi direttamente alla rete di gasdotti nazionale.<br />

Offre un’interessante opportunità per operatori che abbiano<br />

solidità finanziaria, buone relazioni con i paesi produttori,<br />

tecnologia e continua capacità di competere. E, soprattutto,<br />

permette di aumentare la <strong>sicurezza</strong> del sistema energetico del<br />

paese dotandolo di fonti e forme di approvvigionamento diversificate.<br />

ExxonMobil sta facendo, anche in questo, la sua parte,<br />

grazie alla nostra partecipazione al 45 per cento alla società Terminale<br />

Gnl Adriatico (gli altri soci sono Qatar Petroleum 45 per<br />

cento ed Edison 10 per cento), che si occupa della realizzazione<br />

di un rigassificatore al largo della costa veneta. Tale terminale è<br />

incluso nella lista delle “opere strategiche per la modernizzazione<br />

e lo sviluppo del paese” (delibera Cipe 121 del 21 dicembre<br />

2001) ed è nella lista dei progetti di comune interesse europeo;<br />

è stato inoltre identificato dall’Autorità per l’energia elettrica e<br />

il gas e dall’Antitrust come un elemento essenziale per migliorare<br />

la competitività del mercato italiano del gas naturale. L’impianto,<br />

che avrà una capacità massima di rigassificazione di cir-<br />

325


ca 8 miliardi di metri cubi all’anno, rappresenterà una delle<br />

strutture tecnologicamente più avanzate dell’intero settore<br />

energetico italiano e contribuirà a diversificare le fonti di approvvigionamento<br />

e ad aumentare la <strong>sicurezza</strong> del sistema energetico<br />

del paese.<br />

Se la diffusione del Gnl continuerà a crescere, la struttura<br />

stessa dei mercati del gas muterà radicalmente, acquisendo una<br />

natura globale. Questo cambiamento presenta opportunità e rischi.<br />

Opportunità, nel senso che grazie al Gnl verrà meno il panorama<br />

oligopolistico che oggi caratterizza il mercato del gas.<br />

Ciò è di particolare rilevanza per l’Europa e per l’Italia, dove il<br />

gas è un combustibile sempre più importante (sia in termini di<br />

quota del fabbisogno energetico primario, sia per quel che riguarda<br />

in particolare la generazione elettrica) e dove l’approvvigionamento<br />

dipende essenzialmente da tre sole fonti – il mare<br />

del Nord, la Russia e l’Algeria. Naturalmente il Gnl comporta<br />

anche dei rischi: la globalizzazione del gas crea anche le condizioni<br />

perché possa nascere una sorta di Opec del gas, di cui si è<br />

ampiamente parlato talvolta, forse, drammatizzando tale prospettiva<br />

in maniera un po’ esagerata. In effetti, l’esperienza dell’Opec<br />

dovrebbe contribuire a calmare gli animi: l’Organizzazione<br />

dei paesi esportatori di petrolio, pur avendo influenzato<br />

pesantemente i mercati petroliferi globali fin dalla sua creazione,<br />

non ha mai interrotto per lunghi periodi le forniture di greggio<br />

ai paesi consumatori, e anche durante le due crisi petrolifere<br />

degli anni Settanta, come mostra il paper qui riportato, l’entità<br />

delle riduzioni è stata relativamente contenuta, anche se sufficiente<br />

a creare, nell’immediato, gravi problemi. In generale,<br />

però, il Gnl è importante perché contribuisce a moltiplicare le<br />

fonti di approvvigionamento del gas e a introdurre flessibilità<br />

nel processo, oggi estremamente rigido.<br />

In conclusione, la sfida <strong>energetica</strong> può essere vinta, perché<br />

non vi sono nel futuro prevedibile ostacoli fisici alla disponibilità<br />

di risorse, ma solo ostacoli politici. Per questo è importante<br />

che una riflessione come quella avviata dall’IBL trovi attenzione<br />

nel dibattito pubblico, troppo spesso ostaggio di paure immotivate<br />

o entusiasmi ingiustificati. L’energia è ciò che ha reso<br />

possibile l’incredibile sviluppo che il mondo intero ha conosciu-<br />

326


to all’indomani della Rivoluzione Industriale e non va demonizzata.<br />

È fuori discussione che maggiori consumi renderanno ancora<br />

più urgenti i problemi ecologici a cui già oggi stiamo cercando<br />

una soluzione. Ma resto ottimista sul fatto che il progresso<br />

economico e tecnologico ci aiuterà a perfezionare le soluzioni<br />

che abbiamo già trovato e a scovarne di nuove. Un futuro sicuro<br />

in campo energetico richiede nuove fonti, tecnologie innovative<br />

ed una continua attenzione all’efficienza e all’ambiente.<br />

Questi temi vanno sempre trattati congiuntamente, per evitare<br />

di caricare troppo peso sulle singole questioni o di trascurarne<br />

altre.<br />

327


Edoardo Zanchini *<br />

Grave, imprescindibile, cruciale. Su pochi temi aggettivi<br />

così severi hanno senso come per il problema della <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Il termometro delle relazioni internazionali è sensibilissimo<br />

a qualsiasi variazione di umore negli equilibri interni<br />

dei Paesi da cui provengono le risorse energetiche per gli effetti<br />

che determinerebbero sull’economia e la crescita. Non è una<br />

novità, non lo è da alcuni secoli e per questo si deve evitare di<br />

utilizzare chiavi di lettura e un vocabolario fuori dal tempo per<br />

affrontare problemi nuovi per dimensione e complessità. Occorre<br />

aggiornare i ragionamenti alla dimensione dei problemi<br />

del XXI secolo, il rischio è altrimenti di continuare a pensare<br />

che si possa governare solo con la geopolitica rinunciando a capire<br />

in questa fase storica i problemi ma anche le nuove opportunità<br />

per un Paese come l’Italia - dipendente per quasi il 90 per<br />

cento della propria bilancia <strong>energetica</strong> dall’estero - in questa delicata<br />

partita. Gli osservatori più pragmatici invitano a diversificare<br />

i Paesi da cui le risorse provengono e insieme le stesse fonti<br />

(la “varietà” di approvvigionamento, come sosteneva Churchill)<br />

attraverso un bilancio equilibrato e flessibile composto da<br />

nucleare, carbone, gas, petrolio, le rinnovabili meno costose.<br />

Proprio il mix e un mercato più aperto vengono presentati come<br />

la risposta al problema della <strong>sicurezza</strong> ma anche dei costi<br />

dell’energia nel nostro Paese, dove il deficit di competitività è<br />

soprattutto nell’offerta alle aziende. Questa ricetta è però solo<br />

apparentemente lungimirante, non fa infatti i conti con alcune<br />

* Responsabile Energia, Legambiente.<br />

329


novità rilevanti avvenute su scala internazionale che invece obbligano<br />

a guardare in maniera nuova al tema <strong>sicurezza</strong> ma anche<br />

al ruolo e agli interessi di un Paese come l’Italia.<br />

Il primo cambiamento riguarda lo sconvolgimento impresso<br />

dall’aumento dei consumi di Cina e India nella bilancia delle<br />

risorse energetiche. I Paesi asiatici hanno pesato per oltre il 50<br />

per cento dell’aumento dei consumi a livello mondiale nell’ultimo<br />

decennio e quelli cinesi hanno raggiunto come dimensione<br />

quelli europei. Teniamo pure da parte il dibattito sulla fine delle<br />

risorse, si è indubbiamente aperta una nuova questione difficilmente<br />

eludibile come l’aumento della domanda che avviene<br />

proprio nei Paesi fuori dalla Nato. Un avvenimento difficilmente<br />

immaginabile su questa scala e che paradossalmente toglie<br />

linfa ad uno slogan No Global di grande successo: le responsabilità<br />

Usa nei confronti del Pianeta e delle emissioni climalteranti.<br />

Perché dal 1990 (anno da cui si iniziano a calcolare secondo<br />

il Protocollo di Kyoto) ad oggi la suddivisione della torta delle<br />

emissioni è profondamente cambiata e grazie al suo vorticoso<br />

sviluppo economico la Cina supererà gli Stati Uniti già nel 2009.<br />

Il secondo cambiamento riguarda da vicino le strategie politiche<br />

internazionali: il ritorno ad un ruolo da protagonisti degli Stati<br />

nella gestione delle risorse energetiche. Si ragiona apertamente<br />

di Opec del gas, Cina e India stringono legami diretti con Paesi<br />

dell’Africa come del Medioriente per l’approvvigionamento.<br />

Mentre nel controllo dei giacimenti petroliferi mondiali solo il<br />

9 per cento è attualmente controllato dalle Majors: Exxon,<br />

Shell, BP, Total, Chevron. Difficile pensare di continuare con<br />

l’antica ricetta della potenza militare che “accompagna” gli investimenti<br />

strategici delle multinazionali del petrolio. Proprio la<br />

guerra in Irak e la teoria dell’unilateralismo hanno rafforzato in<br />

molti Paesi la convinzione che solo il controllo diretto delle risorse<br />

petrolifere e adeguate armi di dissuasione (il nucleare militare<br />

nascosto dal civile) permettono di avere una qualche autonomia<br />

politica. Basta in un quadro di questo tipo affidarsi alle<br />

armi della politica internazionale e del libero mercato per dare<br />

una risposta ai problemi di <strong>sicurezza</strong> italiani? Lecito dubitarne.<br />

Chi spinge questa prospettiva sembra piuttosto candidare il<br />

Paese a un futuro da spettatrice speranzosa del palcoscenico<br />

330


mondiale dell’energia. Mentre invece l’Italia avrebbe tutto l’interesse<br />

a ridurre la propria dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento<br />

di risorse energetiche. Una diminuzione che permetterebbe<br />

di realizzare quegli obiettivi di riduzione della CO2<br />

tanto invisi ai cosiddetti economisti liberisti. Volenti o nolenti<br />

occorrerà fare i conti con una realtà che vede l’Italia allontanarsi<br />

da quanto sottoscritto con il Protocollo di Kyoto (+13 per<br />

cento rispetto al 1990 invece di -6,5 per cento). Appare privo di<br />

senso continuare a sperare in un ripensamento internazionale<br />

quando l’Unione Europea ha di recente fissato nuovi e più ambiziosi<br />

obiettivi al 2020: tagliare le emissioni del 20 per cento rispetto<br />

ai valori del 1990, spingere l’efficienza <strong>energetica</strong> con una<br />

riduzione dei consumi energetici del 20 per cento, raggiungere<br />

una diffusione delle rinnovabili tale da garantire il 20 per cento<br />

dei consumi rispetto al 7 per cento attuale. Si può anche essere<br />

scettici sui cambiamenti climatici o addirittura sostenere che le<br />

scelte per fermarli “possono indebolire la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>”<br />

1, ma con questi impegni toccherà fare i conti quando si parla<br />

di mix energetico e in particolare del peso che l’aumento del<br />

carbone potrebbe svolgere in futuro. E dentro quegli obiettivi<br />

c’è una visione dello spazio europeo come motore di una innovazione<br />

che allarghi le possibilità per tutti, che promuova la ricerca<br />

applicata, l’esportazione di brevetti e tecnologie, diventando<br />

un modello per qualità e accesso anche per altre aree del<br />

Mondo. Certo una rivoluzione di questo tipo nel modo di gestire<br />

l’energia non conviene ai grandi gruppi che infatti sono i veri<br />

avversari di ogni cambiamento. Del resto in anni che hanno<br />

visto crescere esponenzialmente le bollette energetiche e la percezione<br />

dell’in<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> sono esplosi i guadagni per<br />

chi il petrolio lo estrae e commercializza (le “sette sorelle” hanno<br />

realizzato 141 miliardi di utili nel 2006 il 6 per cento in più<br />

rispetto al 2005). È questo il modello che si vuole continuare a<br />

spingere magari spostato più sul versante carbone e uranio, con<br />

meno importazioni dalla Russia e più dalla Libia, meno dal Venezuela<br />

e più dalla Norvegia? Se nei prossimi anni il principale<br />

problema per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> italiana è prevedibile che<br />

1 Supra, p. 17.<br />

331


sarà rispetto all’approvvigionamento di gas è curioso che nessuno<br />

si eserciti nel calcolare quale effetto avrebbe il solo recuperare<br />

il gap di inefficienza delle centrali termoelettriche italiane<br />

rispetto alla media europea (40 per cento contro 48). Calcolarlo<br />

potrebbe aiutare a sgombrare il campo del dibattito da una<br />

vecchia e diffusa favola che riguarda la tanto decantata efficienza<br />

<strong>energetica</strong> italiana. Un alibi che ancora oggi viene tirato fuori<br />

da un industria che da decenni non investe in innovazione. I<br />

dati parlano chiaro, l’Italia, che negli anni ‘80 presentava una<br />

delle più basse intensità energetiche del mondo – ossia la quantità<br />

di energia consumata per la produzione di una unità di prodotto<br />

nazionale lordo –, oggi vanta livelli inferiori alla media europea<br />

e ben peggiori di paesi più svantaggiati sotto il profilo climatico.<br />

Per contribuire a un dibattito finalmente nuovo e trasparente<br />

occorre che anche l’ambientalismo si faccia carico di spiegare<br />

meglio la propria idea di futuro energetico e non sottovaluti<br />

il vero punto debole delle fonti energetiche rinnovabili in un<br />

dibattito di tipo economicistico: gli incentivi pubblici. D’altronde<br />

se si vuole parlare senza ipocrisie di energia dobbiamo partire<br />

dal fare chiarezza rispetto alla inestricabile simbiosi di sussidi,<br />

incentivi, tasse. Si potrebbe citare il rilancio dell’energia nucleare,<br />

che sarà possibile solo a fronte di forzature nelle regole<br />

di un mercato libero: il Governo USA prevede 8miliardi di dollari<br />

di aiuti alle imprese (per aumentare del 3 per cento le forniture<br />

elettriche nazionali!), in Finlandia è già stabilito che l’energia<br />

prodotta dalla nuova centrale verrà comprata dallo Stato che<br />

si farà carico delle spese per <strong>sicurezza</strong> e smaltimento. Oppure le<br />

miniere di carbone tedesche, che pesano ogni anno 2,5 miliardi<br />

di sussidi pubblici. Senza contare i vantaggi di competitività della<br />

filiera delle fonti fossili grazie ad infrastrutture pagate spesso<br />

dalle casse pubbliche e con sussidi nascosti. Spingere sulla trasparenza<br />

conviene innanzi tutto alle fonti rinnovabili perché<br />

hanno comunque il vantaggio di ridurre importazioni e emissioni<br />

e di creare un mercato energetico con nuovi attori diffusi.<br />

Semmai il vero problema per le rinnovabili sta nel fatto che presuppongono<br />

di cambiare modo di ragionare. Perché non ha alcun<br />

senso discuterne come alternativa a questa o quella fonte, o<br />

332


paragonare la risposta necessaria in termini di torri eoliche o di<br />

ettari di pannelli fotovoltaici per chiudere le centrali di Civitavecchia<br />

o Brindisi. Non lo ha proprio perché queste vanno sviluppate<br />

diffuse, dove ci sono le opportunità migliori, con impianti<br />

che scambiano in rete e avvicinano domanda di energia e<br />

produzione. Per esempio in città il solare ha un vantaggio di vicinanza<br />

e di offerta proprio nell’ora di punta. E invece eolico,<br />

idroelettrico, geotermia e biomasse (per elettricità e calore in teleriscaldamento)<br />

possono svilupparsi nei territori dove le risorse<br />

sono realmente presenti. In poche parole non esiste una risposta<br />

che valga ovunque, e in ogni caso per essere efficace deve<br />

essere sempre associata a una strategia di riduzione dei consumi.<br />

Un assurdità? Utopie ambientaliste? Ma allora perché il<br />

Governo di centrodestra danese dal 2001 ad oggi non ha cambiato<br />

politica <strong>energetica</strong> come annunciato in campagna elettorale?<br />

Passato qualche mese ha deciso di continuare nella strategia<br />

di riduzione della dipendenza dall’estero attraverso la diffusione<br />

delle rinnovabili (oggi soddisfano il 20 per cento dei consumi)<br />

e dell’efficienza <strong>energetica</strong>. Sembrerà impossibile ma dal<br />

1990 ad oggi i consumi energetici del settore industriale sono rimasti<br />

stabili mentre quelli domestici sono diminuiti del 20 per<br />

cento. Nel complesso mentre il PIL cresceva del 70 per cento<br />

l’intensità <strong>energetica</strong> scendeva del 35 per cento. Impossibile ridurre<br />

i consumi energetici senza deprimere l’economia? Nulla<br />

di più sbagliato come alibi, basti dire che il nuovo obiettivo nazionale<br />

prevede di raddoppiare il contributo delle rinnovabili al<br />

2020 e di ridurre i consumi dell’1,25 per cento all’anno spingendo<br />

un mercato virtuoso che vede nascere ogni anno nuove aziende.<br />

Se le rinnovabili sono comunque condannate a un ruolo<br />

marginale e ad una prospettiva di lungo termine come mai in<br />

Germania tra il 1997 e il 2005 hanno visto crescere il contributo<br />

dal 4,5 per cento al 10,8 rispetto ai consumi elettrici? Può<br />

sembrare poco per chi ragiona con in mano una mappa globale,<br />

ma solo da qui può venire la risposta alla fame di energia del<br />

mondo.<br />

Ma torniamo agli interessi di un Paese come l’Italia mediamente<br />

piccolo nello scacchiere geopolitica mondiale. È evidente<br />

che deve coltivare la sua interdipendenza <strong>energetica</strong> in un si-<br />

333


stema europeo, con relazioni efficienti e sicure. Che deve giocare<br />

un attento ruolo di alleanze internazionali. Spetta però anche<br />

ad osservatori imparziali il compito di ricordare come non si<br />

possa sfuggire dal guardare anche al proprio interno per non<br />

continuare a fornire alibi a un settore industriale che non ha fatto<br />

nulla per stare al passo con i tempi. E insieme di aiutare a non<br />

dimenticare il fallimento delle ricette andate per la maggiore in<br />

questi anni. Ma la liberalizzazione e il Decreto “sblocca centrali”<br />

non dovevano dare il la a una rivoluzione che avrebbe risolto<br />

tutti i problemi di costi e di concorrenza? Chi allora sosteneva<br />

queste tesi oggi propone una diversificazione verso il carbone<br />

e il nucleare. Ma non spiega come risolvere i problemi legati<br />

nel primo caso all’aumento delle emissioni di Co2 – con le multe<br />

previste dalla Direttiva sull’Emission Trading e dal protocollo<br />

di Kyoto - e nel secondo alle spese di <strong>sicurezza</strong> e smaltimento<br />

delle centrali e delle scorie. Perché se le liberalizzazioni possono<br />

essere una straordinaria opportunità per rendere più aperto<br />

e concorrenziale il sistema energetico italiano è anche vero<br />

che senza una chiara direzione di marcia rischiano di consolidare<br />

i soliti vecchi interessi.<br />

La sfida della liberalizzazione sta nell’allargare le possibilità<br />

di scelta per i cittadini, le opportunità di risparmio nella bolletta<br />

<strong>energetica</strong>. Come realizzare questa prospettiva è il vero banco<br />

di prova del sistema energetico italiano, per creare nuovi attori<br />

industriali e competitori nell’offerta ai cittadini e alle imprese<br />

di servizi più efficienti di produzione, gestione, risparmio<br />

energetico. Purtroppo il confronto politico non si occupa di<br />

questi aspetti, malgrado l’imminente apertura (a Luglio 2007)<br />

del mercato elettrico anche per gli utenti finali. Le uniche questioni<br />

di confronto riguardano le alleanze tra grandi produttori<br />

e distributori di energia, le nuove centrali e l’accesso alle risorse.<br />

Ossia gli interessi delle majors che in questi hanno ridotto gli<br />

investimenti per inseguire la redditività finanziaria a breve. Se le<br />

liberalizzazioni produrranno nuovi oligopoli e una finta concorrenza<br />

non si sarà migliorata la <strong>sicurezza</strong> del sistema ma solo aiutato<br />

alcuni gruppi. Al contrario una liberalizzazione che guarda<br />

agli interessi dei cittadini promuove l’efficienza e si sposa perfettamente<br />

con una idea di mercato aperto che promuove l’in-<br />

334


novazione, dove il risparmio energetico è la prima politica in un<br />

modello energetico distribuito che produce nuovi attori. Del resto<br />

non esiste un alternativa credibile per la fame di energia del<br />

Pianeta. Non lo è da un punto di vista della <strong>sicurezza</strong> internazionale<br />

un modello incentrato su risorse petrolifere, nucleare e<br />

carbone. Né lo può essere da un punto di vista dell’accesso alle<br />

risorse con tassi di crescita dei consumi energetici esponenziali,<br />

che condannano per via dei prezzi inaccessibili i Paesi meno sviluppati<br />

e senza giacimenti. Sicuramente non può rappresentarlo<br />

rispetto agli equilibri internazionali, perché contribuisce a<br />

diffondere una in<strong>sicurezza</strong> latente nei Paesi che possiedono le<br />

risorse dove si riducono gli spazi di democrazia e di libertà, dal<br />

Niger all’Algeria, dall’Indonesia all’Iran. Occorre prendere atto<br />

che l’aumento della domanda <strong>energetica</strong> e dei protagonisti sul<br />

palcoscenico internazionale è tale che un uso razionale delle risorse<br />

diventa essenziale in chiave economicista ma anche di<br />

equità. E ancora prima che si ponga il tema del limite delle risorse<br />

energetiche è proprio l’impossibilità di allargare le possibilità<br />

di accesso all’energia e quindi allo sviluppo per tanti cittadini<br />

del Pianeta a dover spingere la ricerca e l’innovazione verso<br />

tecnologie alternative e rinnovabili. Per citare il più avversato<br />

protagonista di questi anni, George W. Bush nel suo recente<br />

viaggio in Brasile, “ridurre la dipendenza dal petrolio per aiutare<br />

la <strong>sicurezza</strong> nazionale oltre che l’ambiente”.<br />

335


Salvatore Zecchini *<br />

Nel panorama della saggistica italiana in tema di <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> molto è stato scritto, seguendo approcci differenti,<br />

che enfatizzano di volta in volta l’una dimensione del problema,<br />

oppure l’altra. Rispetto a questi studi, quello qui proposto dall’Istituto<br />

Bruno Leoni ha il merito di affrontare l’argomento con<br />

una approccio globale ed equilibrato, quale è quello che si richiede<br />

date le molte sfaccettature del problema e i ridotti margini di<br />

compatibilità tra le soluzioni che affrontano singoli aspetti.<br />

Questo pregevole saggio, in particolare, sviluppa un’analisi<br />

trasversale a tre dimensioni del problema, economica, politica e<br />

ambientale, nella prospettiva di una governance internazionale,<br />

che sia funzionale alle esigenze di un paese, come il nostro. Il risultato<br />

è un insieme di proposte che hanno come fulcro l’uso intelligente<br />

delle politiche di liberalizzazione su scala internazionale<br />

in un contesto di governance soprannazionale, quale quella<br />

della Wto.<br />

Di fronte a una soluzione così argomentata è ragionevole<br />

porsi due quesiti di fondo: 1) quale sia il suo grado di idoneità<br />

rispetto all’obiettivo? e 2) quale la fattibilità nel mondo in cui viviamo?<br />

Naturalmente la risposta dipende in maniera cruciale da<br />

molte premesse, e in particolare da cosa si intende per <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>.<br />

Se la si interpreta nei termini di una mera garanzia della<br />

continuità dei flussi di approvvigionamento di energia per un<br />

* Presidente, Gme.<br />

337


dato paese, come era il caso per i paesi europei usciti dalla seconda<br />

guerra mondiale, specialmente quelli sconfitti, la soluzione<br />

è meno difficile di quanto appaia, perché qualsiasi strumento<br />

può essere utile per questo scopo.<br />

Ma se la si guarda nell’ottica di un paese sviluppato, che è<br />

lontano dall’autosufficienza <strong>energetica</strong> e che nell’utilizzo dell’energia<br />

si è imposto una serie di vincoli, anche ambientali, al fine<br />

di soddisfare una funzione complessa del benessere sociale,<br />

espressa dalla collettività, allora la soluzione idonea non è di tutta<br />

evidenza e nemmeno di facile attuazione.<br />

Per questo paese l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> presenta,<br />

infatti, non solo i contenuti di una garanzia di continuità<br />

di offerta di energia, ma dimensioni aggiuntive, ovvero<br />

la considerazione dell’orizzonte temporale rilevante per la<br />

<strong>sicurezza</strong> (il breve periodo, o il medio-lungo);<br />

la sostenibilità del costo dell’energia per le imprese (a causa<br />

degli effetti sulla loro capacità competitiva) e per i bilanci delle<br />

famiglie;<br />

la capacità di fronteggiare sconvolgimenti improvvisi dell’offerta<br />

(market disruptions) rimpiazzando alcune fonti energetiche<br />

con altre disponibili prontamente;<br />

la salvaguardia dai danni ambientali derivanti dall’uso dell’energia.<br />

Un paese evoluto, come l’Italia, ha enunciato nell’ultimo<br />

decennio questa visione programmatica della sua <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>. Ma guardando alle preferenze rivelate dalle azioni<br />

concrete messe in campo dalle autorità italiane, ai diversi livelli<br />

di governo, la nozione di <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> che emerge è molto<br />

più modesta. Essa è consistita nell’assicurare per un orizzonte<br />

di pochi anni una disponibilità di energia a costi più elevati<br />

dei maggiori partner europei, con un effetto di contenimento<br />

dell’inquinamento non significativamente migliore di quei paesi,<br />

con la rinuncia allo sviluppo del nucleare, neanche nelle tipologie<br />

tecnologiche meno rischiose, e con una minima capacità di<br />

fronteggiare imprevedibili interruzioni negli approvvigionamenti<br />

esterni.<br />

Non è chiaro se un simile atteggiamento possa tranquillizzare<br />

il Paese, a fronte di una triplice dipendenza, che non ha pa-<br />

338


i tra i maggiori paesi comunitari. In particolare si osserva: 1)<br />

elevata dipendenza da fonti estere (per l’85 per cento); 2) elevata<br />

dipendenza da combustibili fossili (due terzi da gas e petrolio);<br />

e 3) elevata dipendenza dai primi due paesi in cui si concentrano<br />

gli acquisti di prodotti petroliferi e gas naturale.<br />

Inoltre, l’esborso per i consumi energetici è maggiore che<br />

nei principali concorrenti nell’UE, con una incidenza della spesa<br />

<strong>energetica</strong> sul fatturato industriale quasi doppia rispetto a<br />

quei paesi.<br />

L’Italia, in breve, spende molto per l’energia e poco per la<br />

sua <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Su questo fronte è talmente vulnerabile<br />

che uno shock di prezzo o di offerta sui mercati internazionali<br />

dell’energia avrebbe per il Paese le caratteristiche di uno<br />

shock idiosincratico, con conseguenze più gravi che negli altri.<br />

Non potrebbe, infatti, contare su soluzioni condivise con i suoi<br />

partner, in quanto meno colpiti dal problema.<br />

Assumendo la visione dell’obiettivo <strong>sicurezza</strong> espressa dal<br />

Paese, è evidente che si tratta di una meta ardua da raggiungere,<br />

sia per la distanza esistente rispetto all’attuale situazione<br />

<strong>energetica</strong>, sia per la ristrettezza del ventaglio delle opzioni percorribili<br />

nella scelta degli strumenti.<br />

Quanto ai mezzi, è necessario sottolineare la differenza esistente<br />

tra quelli appropriati ed efficaci sul versante interno e<br />

quelli adatti nell’ambito esterno, per il semplice motivo che i<br />

due contesti sono profondamente diversi quanto ad assetti di<br />

potere di mercato e a spazi disponibili per interventi. Soltanto<br />

per un paese egemone la linea divisoria tra le possibilità di azione<br />

all’interno e quelle all’estero si attenua. Ma neanche in questo<br />

caso scompare, perché le probabilità di successo di una politica<br />

egemonica sulle fonti di energia appaiono modeste nell’attuale<br />

scenario mondiale, mentre i costi ad essa associati si presentano<br />

notevoli.<br />

Guardando agli strumenti, il Rapporto dell’IBL sposa la tesi<br />

che la liberalizzazione dei mercati dell’energia può consentire<br />

di avvicinarsi all’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. Il motore<br />

di tale processo di avvicinamento sarebbe un mercato libero<br />

da costrizioni e in grado di guidare le scelte economiche dei soggetti<br />

tanto privati, che pubblici.<br />

339


Tuttavia, il Rapporto riconosce che, secondo taluni, la <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> è un bene pubblico, nel senso dato dai tecnici<br />

dell’economia. Invero, di questa categoria sembra condividere<br />

le caratteristiche di non rigettabilità e non escludibilità,<br />

mentre è dubbio che abbia sempre i tratti della non rivalità nei<br />

consumi.<br />

In ogni caso, presenta una forte componente di “bene pubblico”,<br />

come si può desumere dalla stessa vulnerabilità attuale<br />

del Paese sotto il profilo della <strong>sicurezza</strong>. Infatti, nell’ultimo decennio<br />

le forze di mercato, affidate a sé stesse, non si sono dimostrate<br />

interessate a condurre a questo obiettivo. In altri termini,<br />

come per tutti i “beni pubblici”, il mercato non è stato in<br />

grado di fornire il bene <strong>sicurezza</strong>. Il motivo è che il privato non<br />

riesce ad appropriarsi di tutti i benefici derivanti dal produrlo,<br />

e al limite potrebbe trovare più conveniente non produrlo. Pertanto,<br />

in simili circostanze è giustificato e necessario un intervento<br />

pubblico o al fine di correggere il “fallimento del mercato”,<br />

o per sostituirsi al mercato stesso nel fornire questo bene.<br />

Nella storia del secondo dopoguerra, si ritrova la conferma<br />

di questo assunto. In tutti i paesi europei e in Giappone lo Stato<br />

è intervenuto o direttamente, o attraverso società da esso controllate<br />

o aiutate, per garantire l’approvvigionamento energetico<br />

nazionale a costi contenuti. Negli USA l’esperienza è differente,<br />

ma si sostanzia pur sempre nell’occhio benevolo dello<br />

Stato nell’assecondare storicamente i processi di accumulazione<br />

capitalistica nelle maggiori società del settore e nel tutelare le<br />

stesse nei loro programmi di investimento per lo sfruttamento<br />

delle risorse di altri paesi.<br />

Negli ultimi 60 anni le compagnie europee, col sostegno dei<br />

governi nazionali, sono divenute grosse multinazionali dell’energia,<br />

ma dagli anni 70 hanno progressivamente perduto il<br />

controllo delle attività estrattive nei paesi petroliferi a tutto vantaggio<br />

delle rispettive società nazionali. Queste ultime, inoltre,<br />

tendono attualmente a sviluppare una concorrenza verso le multinazionali<br />

dell’energia anche nel downstream, ossia nel mercato<br />

dei prodotti energetici.<br />

Nel quadro europeo si assiste, pertanto, a un assetto fortemente<br />

sbilanciato. All’interno dei mercati nazionali, vi è il pre-<br />

340


dominio delle grandi imprese energetiche con posizioni dominanti<br />

assecondate dai loro governi.<br />

Nei mercati mondiali, invece, queste imprese sono costrette<br />

ad approvvigionarsi sottostando alle condizioni poste dai paesi<br />

titolari delle risorse energetiche (specialmente dal cartello dell’Opec).<br />

In questo senso giocano anche l’eccesso tendenziale<br />

della domanda di energia per i prossimi decenni e le rigidità<br />

strutturali di approvvigionamento, dovute ad esempio alla dipendenza<br />

dalle condotte di trasporto del petrolio e del gas.<br />

Nei paesi terzi, d’altronde, esse iniziano a incontrare la concorrenza<br />

delle compagnie nazionali dei paesi petroliferi, che godono<br />

di condizioni di approvvigionamento privilegiate.<br />

In Italia l’assetto è reso ancor più sbilanciato di quello europeo<br />

dalla sua rinuncia all’energia nucleare e dai limiti di fatto<br />

esistenti al potenziamento dell’utilizzo del carbone a causa di ragioni<br />

ambientali.<br />

In un contesto così sbilanciato non è affatto certo che il perseguimento<br />

di una assoluta liberalizzazione dei mercati energetici<br />

interni conduca all’ottimizzazione nell’uso delle risorse<br />

energetiche, e per questa via alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> del Paese.<br />

Infatti, liberalizzare non vuole dire necessariamente creare una<br />

condizione di concorrenza soddisfacente, da cui possa discendere<br />

una maggiore efficienza nei flussi di energia prodotta o impiegata.<br />

Al contrario, l’esito più plausibile sarebbe un accentuarsi<br />

delle disparità, in quanto, essendo le posizioni competitive di<br />

partenza nettamente sperequate, la nuova concorrenza, di cui vi<br />

è bisogno, avrebbe ristrette possibilità di emergere. Essa dovrebbe,<br />

infatti, scontrarsi con consolidate posizioni dominanti e<br />

forti barriere all’entrata nel mercato. A meno che la nuova concorrenza<br />

non sia rappresentata da grandi imprese estere, che godono<br />

di tutele e di vantaggi da integrazione verticale nei paesi di<br />

origine, e possono quindi operare in condizioni di sovvenzionamento<br />

incrociato delle attività estere a spese di quelle interne.<br />

Tuttavia, è plausibile ritenere che, una volta entrate nel mercato,<br />

il loro interesse sia quello di accordarsi con l’incumbent.<br />

Va sottolineato che le barriere all’accesso derivano tanto da<br />

posizioni dominanti e da ragioni politiche, quanto da requisiti<br />

341


tecnologici, ovvero dal fabbisogno di grandi investimenti, che<br />

comportano grandi rischi e di riflesso postulano grandi dimensioni<br />

di impresa per poterli sopportare.<br />

In uno scenario realistico, quindi, al quesito se la liberalizzazione<br />

sia strumentale o compatibile con l’obiettivo <strong>sicurezza</strong>,<br />

si deve rispondere che per questo obiettivo vi è bisogno all’interno<br />

del Paese sia di più concorrenza, sia di più Stato, ma in un<br />

ruolo diverso dal tradizionale. Più concorrenza, per scalzare, almeno<br />

in parte, le posizioni di rendita precostituite. Più Stato,<br />

per svolgere il ruolo chiave di disciplina della concorrenza nel<br />

mercato interno e di sostegno all’apertura dei mercati esteri.<br />

Al contrario, il coinvolgimento pubblico direttamente nella<br />

proprietà di imprese energetiche con posizione dominante<br />

non è una condizione necessaria, e può perfino essere nefasto<br />

per la collettività, se finisce con lo smorzare la propensione dell’impresa<br />

a innovare tecnologicamente, ad assumere nuovi rischi<br />

di ricerca e sviluppo, e a investire nel potenziamento produttivo.<br />

L’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> può invece essere perseguito<br />

con il classico armamentario pubblico della regolamentazione,<br />

della tassazione e dei sostegni finanziari.<br />

Il bisogno di un ruolo pubblico di disciplina si evidenzia in<br />

particolare nell’incentivare l’investimento nelle fonti energetiche<br />

alternative e nelle infrastrutture che sono essenziali per la <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong>, e nel disciplinare il loro utilizzo.<br />

Se la diversificazione delle fonti di energia è essenziale per<br />

la <strong>sicurezza</strong>, considerato che le energie alternative presentano<br />

costi molto più elevati di quelle fossili, è indispensabile un intervento<br />

pubblico del tipo “tax cum subsidy” per creare una convenienza<br />

relativa del privato a investire nello sviluppo di queste<br />

fonti. In altri termini, occorre un intervento pubblico per ridurre<br />

lo scarto di costo tra i combustibili fossili e le energie rinnovabili,<br />

con l’eccezione di quella idroelettrica, che già comporta<br />

costi relativamente bassi. Al limite occorre operare nella direzione<br />

di pareggiare i costi marginali delle diverse fonti.<br />

Condizione necessaria per diversificare fonti energetiche ed<br />

aree di rifornimento, e per promuovere una maggiore concorrenza<br />

nel mercato interno è anche l’espansione delle infrastrutture<br />

oltre i fabbisogni dell’operatore dominante. Quest’ultimo,<br />

342


infatti, non ha interesse a investire in queste opere per dare spazio<br />

alla concorrenza. Ma gran parte delle infrastrutture energetiche<br />

presentano le caratteristiche di un “monopolio naturale”,<br />

che non lascia posto, ad esempio, per la duplicazione di reti. È<br />

quindi necessario che intervenga il soggetto pubblico per incentivare<br />

l’investimento in nuove infrastrutture (fino a creare eccedenze<br />

di capacità) e per assicurare che il loro utilizzo avvenga<br />

nell’interesse collettivo, piuttosto che per consentire all’incumbent<br />

di sfruttare posizioni di quasi-rendita derivante dalla proprietà<br />

delle infrastrutture.<br />

Parimenti, il ruolo dello Stato è essenziale per fronteggiare<br />

la carenza di concorrenza sui mercati mondiali. In questo senso<br />

è bene abbandonare l’illusione che i paesi importatori netti di<br />

energia possano da soli far aprire alla concorrenza i mercati dei<br />

paesi esportatori. La scarsità relativa di fonti energetiche milita<br />

contro questa possibilità. Né nessuna multinazionale dell’energia<br />

dispone nella realtà di una forza tale da poter negoziare ad<br />

armi pari con cartelli, quali l’Opec, o con i maggiori paesi petroliferi.<br />

In un contesto in cui prevale la forza dei grandi produttori<br />

di energia (il cartello dei paesi Opec e, da ultimo, anche quello<br />

nascente del gas), nessuna apertura dei mercati, né alcuna <strong>sicurezza</strong><br />

<strong>energetica</strong> è possibile senza un intervento dei governi dall’una<br />

e dall’altra parte.<br />

Non avrebbe senso, in specie, l’apertura unilaterale dei<br />

mercati energetici europei ai concorrenti provenienti dai paesi<br />

produttori, proprio perché favorirebbe l’emergere nel mercato<br />

interno di nuovi operatori dominanti di provenienza estera, che<br />

sono ancor più difficilmente controllabili di quelli nazionali. In<br />

un simile assetto l’apertura va ricercata solo attraverso negoziati<br />

a livello di governi, che si ispirino al principio di reciprocità<br />

nelle concessioni dell’un paese e dell’altro.<br />

Ciò vale anche per la <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong>. In questa prospettiva,<br />

l’autosufficienza <strong>energetica</strong> non è una via percorribile<br />

per i paesi europei, data la loro scarsa dotazione di fonti interne<br />

di energia. Oltretutto, l’autosufficienza sarebbe molto costosa<br />

ed in contrasto con le esigenze di competitività, in quanto determina<br />

una deviazione dal criterio di ottimalità, che consiste nel<br />

343


concentrare le risorse disponibili nello sfruttamento dei genuini<br />

vantaggi comparati del paese.<br />

Nemmeno l’affidarsi alle sole forze del mercato darebbe<br />

questa <strong>sicurezza</strong> ai paesi europei, perché devono confrontarsi<br />

con mercati mondiali governati da paesi con posizioni dominanti.<br />

Né vi sono istituzioni internazionali in grado di fornire questo<br />

bene pubblico della <strong>sicurezza</strong> attraverso un sistema di governance<br />

internazionale. La World Trade Organization, in particolare,<br />

non appare idonea allo scopo, dal momento che può operare<br />

per l’apertura dei mercati solo entro settori molto delimitati,<br />

non garantisce su questi mercati le condizioni di concorrenza<br />

attraverso una politica attiva, ma solo la loro apertura, ed è<br />

priva di reali capacità sanzionatorie verso i paesi che violano gli<br />

accordi.<br />

Per queste ragioni i negoziati tra paesi produttori e consumatori<br />

si pongono come lo strumento principale per costruire<br />

un certo livello di <strong>sicurezza</strong> per gli europei, benché non lo possano<br />

garantire nel lungo periodo.<br />

In questa prospettiva, la politica estera ha un ruolo importante<br />

da svolgere, soprattutto nella sua dimensione di politica<br />

economica verso l’estero. Questa viene condotta sia dalla diplomazia<br />

tradizionale, sia dalle grandi imprese multinazionali dell’energia,<br />

in un lavoro che è spesso di squadra.<br />

Ma nessuna forma di diplomazia o politica estera, quale<br />

quella fondata sui soliti “buoni rapporti tra Stati”, è sufficiente<br />

per questo obiettivo. Né lo è il sottoscrivere contratti pluridecennali<br />

di fornitura di energia, perché questi patti possono sempre<br />

essere rimessi in discussione con un pretesto o un altro (e gli<br />

esempi non mancano nella storia recente), o possono essere infranti<br />

a causa di problemi che riguardano una terza parte, quale<br />

ad esempio un paese di transito della fornitura di energia.<br />

La garanzia ultima della <strong>sicurezza</strong>, invece, sta nello sviluppare<br />

tra i paesi produttori e quelli consumatori una fiducia reciproca<br />

(mutual trust) fondata sulla convergenza di interessi. E la<br />

fiducia va costruita nel tempo, con continuità di comportamenti,<br />

e avendo in mente, in primo luogo, lo stabilire un’intensa collaborazione<br />

per lo sviluppo di entrambe le economie.<br />

344


Solo se si instaura un’interdipendenza di convenienze economiche,<br />

il paese fornitore avrà interesse a non pregiudicare la<br />

<strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> dell’altro.<br />

Tuttavia, la fiducia reciproca non si costruisce soltanto sullo<br />

scacchiere economico, ma si estende al campo della <strong>sicurezza</strong><br />

nazionale, e quindi delle alleanze internazionali. Ne discende<br />

che l’obiettivo della <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> pone una seria ipoteca<br />

sulle scelte di politica estera del paese consumatore.<br />

In ogni caso, è chiaro che per i paesi consumatori non vi sono<br />

grandi probabilità di successo nell’assicurarsi un livello soddisfacente<br />

di <strong>sicurezza</strong> fintantoché permarrà l’attuale contesto<br />

di rapporti che è fortemente sbilanciato a favore del cartello dei<br />

produttori. Ristabilire un contesto meno squilibrato di posizioni<br />

negoziali è quindi una priorità a cui non si può sfuggire.<br />

Non si tratta, tuttavia, di contrapporre a un cartello dei produttori<br />

un altro dei consumatori, ma di pareggiare le condizioni<br />

attualmente fortemente sbilanciate dell’operare sui mercati mondiali.<br />

Ciò è possibile se si stabilisce un adeguato coordinamento<br />

tra i paesi consumatori, nel senso di sviluppare posizioni comuni,<br />

che siano fondate sulla condivisione dei medesimi interessi di<br />

lungo periodo, e di accettare gli oneri della disciplina dell’operare<br />

in comune, cioè di porre un limite all’autonomia nazionale.<br />

Un simile quadro di coordinamento non può essere fornito<br />

dalla Wto, per le ragioni già accennate, né da una Nato dell’energia,<br />

come indicato dal premier polacco, in quanto sarebbe<br />

marcata da un atteggiamento più di confronto che di cooperazione<br />

con la controparte. È invece l’UE che può dare all’Italia,<br />

come agli altri paesi membri, quella cornice di coordinamento<br />

che si ispiri ai principi di convergenza e di collaborazione con le<br />

controparti. Di questa realtà purtroppo i maggiori paesi europei<br />

non sembrano aver acquisito profonda consapevolezza, mentre<br />

continuano a mostrare di voler procedere isolatamente, nel falso<br />

assunto di poter spuntare con i paesi produttori condizioni<br />

migliori dei propri partner.<br />

Il risultato è che l’Europa comunitaria, nonostante i diversi<br />

tentativi in questa direzione sin dalla sua fondazione, manca<br />

ancora di una politica europea dell’energia. Solo qualche timido<br />

progresso, come la Carta dell’Energia, che tuttavia rimane a<br />

345


livello di principi generali e non di impegni con un seguito concreto.<br />

Nel contempo, la sua vulnerabilità <strong>energetica</strong> permane<br />

considerevole, ed è destinata ad ampliarsi nei prossimi decenni.<br />

Per altro verso, l’UE ha adottato ambiziosi obiettivi di contenimento<br />

delle emissioni inquinanti, con scarsa considerazione<br />

degli effetti negativi che ne discendono sul piano della vulnerabilità<br />

<strong>energetica</strong> per paesi, come l’Italia, la quale denuncia<br />

un’accentuata dipendenza dal gas naturale di fonte estera e ha<br />

necessità di ricorrere a costose energie rinnovabili a causa dell’assenza<br />

di centrali nucleari e dell’aver raggiunto i limiti nello<br />

sfruttamento dell’idroelettrico. Sicurezza <strong>energetica</strong> e tutela<br />

ambientale non sono incompatibili tra loro, in quanto le energie<br />

rinnovabili di origine interna, a differenza di quelle fossili d’importazione,<br />

hanno un basso impatto ambientale. Tuttavia esse<br />

sono relativamente onerose, richiedono consistenti investimenti<br />

nelle infrastrutture relative e nello sviluppo di nuove tecnologie,<br />

e nel breve periodo si riflettono sfavorevolmente sulla competitività<br />

del sistema produttivo. Pertanto, la compatibilità tra i<br />

due obiettivi non può considerarsi come un fatto acquisito per<br />

assunto, ma piuttosto come una meta che è ancora da raggiungere<br />

e per il cui perseguimento il privato non può fare a meno<br />

di un ben mirato sostegno pubblico.<br />

L’Italia, tuttavia, appare ancora lontana dal realizzare un assetto<br />

di convenienze e costi relativi delle fonti rinnovabili, tale<br />

da permettere di progredire verso entrambi gli obiettivi. In particolare,<br />

le agevolazioni pubbliche a favore delle energie rinnovabili<br />

non appaiono in grado di compensare fattori di vulnerabilità,<br />

quali la rinuncia al nucleare, il freno all’impiego del carbone<br />

e la modestia delle misure di risparmio energetico.<br />

In conclusione, le tensioni che tendono ad improntare l’evoluzione<br />

dei mercati mondiali dell’energia in questa prima<br />

metà del secolo rendono sempre più urgente che il Paese prenda<br />

consapevolezza del fatto che non esiste una <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong><br />

a buon mercato. Essa al contrario comporta oneri considerevoli.<br />

Di questi costi la società italiana si dimostra essere poco<br />

consapevole, ed ancor meno disposta a sostenerli.<br />

È una situazione insostenibile, che va superata puntando su<br />

quei fattori che contribuiscono alla <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> e supe-<br />

346


ando quelli che la indeboliscono. Tra i primi vi sono, in particolare,<br />

lo sviluppo delle fonti interne di energia, la diversificazione,<br />

l’efficienza <strong>energetica</strong>, l’investimento nella ricerca e sviluppo<br />

nel settore, la cooperazione con i paesi produttori. Tra i<br />

secondi vanno sottolineate la concentrazione su poche fonti di<br />

derivazione estera e l’accentuazione dei vincoli interni al potenziamento<br />

dell’offerta <strong>energetica</strong>. Ma al di là di queste vulnerabilità<br />

va superato il retaggio di una cultura sociale che sembra<br />

ignorare che l’energia è una risorsa scarsa e costosa, e quindi deve<br />

essere utilizzata con il massimo di razionalità possibile.<br />

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361


Gli autori<br />

ROSAMARIA BITETTI è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />

SILVIO BOCCALATTE è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />

ANDREA GILLI è studente al master in Relazioni internazionali presso<br />

la London School of Economics and <strong>Politica</strong>l Science.<br />

MAURO GILLI è studente al master in Relazioni internazionali presso la<br />

School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University.<br />

TABRIZ JABBAROV è vicepresidente per le relazioni internazionali della<br />

Free Minds Association (Baku).<br />

CARLO LOTTIERI è direttore del dipartimento Teoria politica dell’Istituto<br />

Bruno Leoni (Torino).<br />

ANGELANTONIO ROSATO, giornalista professionista, è ricercatore di<br />

politiche energetiche in Eurasia.<br />

CARLO STAGNARO è direttore del dipartimento Ecologia di mercato<br />

dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />

MARGO M. THORNING è managing director dell’International Council<br />

for Capital Formation (Bruxelles).<br />

MASSIMILIANO TROVATO è fellow dell’Istituto Bruno Leoni (Torino).<br />

TURAL K. VELIYEV è direttore esecutivo della Free Minds Association<br />

(Baku).<br />

363


Indice<br />

Introduzione di Massimo D’Alema p. 5<br />

1. La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> tra economia e politica 15<br />

2. La situazione europea e italiana 21<br />

3. La <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 43<br />

4. Le risorse si stanno esaurendo? 87<br />

5. <strong>Politica</strong>, <strong>regolazione</strong> e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 143<br />

6. <strong>Politica</strong> estera e <strong>sicurezza</strong> <strong>energetica</strong> 181<br />

7. Le organizzazioni internazionali 249<br />

8. La Carta dell’energia 275<br />

9. Conclusione: un coordinamento necessario 299<br />

Commenti 309<br />

Bibliografia 349<br />

Gli autori 363<br />

365


Finito di stampare nel mese di novembre 2007<br />

dalla Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali<br />

per conto di Rubbettino Editore Srl e Leonardo Facco Editore<br />

88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)


Pagina collana<br />

Policy


L’Istituto Bruno Leoni (IBL), intitolato al grande filosofo del diritto<br />

Bruno Leoni (1913-1967), nasce con l’ambizione di stimolare il dibattito<br />

pubblico, in Italia, esprimendo in modo puntuale e rigoroso un<br />

punto di vista autenticamente liberale.<br />

L’IBL intende studiare, promuovere e divulgare gli ideali del libero<br />

mercato, della proprietà privata e della libertà di scambio.<br />

Attraverso la pubblicazione di libri, l’organizzazione di convegni, la diffusione<br />

di articoli sulla stampa nazionale e internazionale, l’elaborazione<br />

di brevi e puntuali studi e briefing papers, l’IBL mira a orientare il<br />

processo decisionale, a informare al meglio la pubblica opinione, a crescere<br />

una nuova generazione di intellettuali e studiosi sensibili alle ragioni<br />

della libertà.<br />

L’IBL vuole essere per l’Italia ciò che altri think tank sono stati per le<br />

nazioni anglosassoni: un pungolo per la classe politica e un punto di riferimento<br />

per il pubblico in generale. Il corso della storia segue dalle<br />

idee: il liberalismo è un’idea forte, ma la sua voce è ancora debole nel<br />

nostro Paese.<br />

Volti ad approfondire la dimensione teorica dei dibattiti sulla libertà individuale<br />

e sulla giustizia, i volumi della collana Mercato, Diritto e Libertà<br />

(promossi dall’IBL presso gli editori Facco e Rubbettino) si caratterizzano<br />

per il rigore con cui difendono la tradizione liberale più coerente.<br />

L’obiettivo è di offrire i migliori strumenti intellettuali alle giovani<br />

generazioni, favorendo quel mutamento del dibattito culturale che è<br />

premessa indispensabile a un’efficace difesa delle libertà minacciate e<br />

ad una riconquista di quelle perdute.<br />

Istituto Bruno Leoni<br />

Via Bossi 1<br />

10144 Torino<br />

Italy<br />

Tel. 011-070.2087<br />

Fax: 011-437.1384<br />

E-mail: info@brunoleoni.it<br />

www.brunoleoni.it

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