Mimes Of Wine - Expo '70
Mimes Of Wine - Expo '70
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SENTIREASCOLTARE<br />
digital magazine febbraio 2009 N.52<br />
<strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong><br />
immagini in movimento<br />
Nuovi Corrieri Cosmici, Lo Spazio del Suono<br />
The Smiths, Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic313 Jem<br />
Cohen, Action Beat, Hjaltalìn, Dälek, Circlesquare Flaming<br />
Lips
nuovi corrieri cosmici<br />
expo‘70<br />
emeralds<br />
j o n a s<br />
reinhardt<br />
News p. 4-5<br />
Turn On p. 6-13<br />
Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic 313, Jem Cohen,<br />
Action Beat, Hjaltalìn<br />
Tune In p. 14-25<br />
Dälek, <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong>, Circlesquare<br />
Drop Out p. 26-43<br />
Nuovi Corrieri Cosmici (<strong>Expo</strong>’70, Emeralds, Reinhart...)<br />
Lo Spazio del Suono (Ralph Steinbruchel)<br />
recensioni p. 46-101<br />
Svarte Greiner, Andrew Bird, zZz, Mi Ami.....<br />
We are Demo p. 102-103<br />
Rearview Mirror p. 104-121<br />
The Smiths - New Order...<br />
la sera della prima p. 122-128<br />
Christmas on Mars, Tony Manero, Milk<br />
a night at the opera p. 130-131<br />
I Puritani<br />
i “cosiddetti contemporanei” p. 132-135<br />
Shostakovich<br />
Di r e t t o r e : edoardo bridda<br />
Co o r D i n a m e n t o : Teresa Greco<br />
Co n s u l e n t i a l l a r e D a z i o n e : Daniele follero, Stefano Solventi<br />
sta f f : Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, antonello Comunale<br />
Ha n n o C o l l a b o r at o : Leonardo amico, Gianni avella, Sara bracco, Marco braggion, Luca Collepiccolo, alessandro<br />
Grassi, andrea Napoli, francesca Marongiu, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, andrea Provinciali,<br />
antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, fabrizio Zampighi.<br />
Gu i D a s p i r i t ua l e : adriano Trauber (1966-2004)<br />
Gr a f i C a e im pa G i n a z i o n e : Nicolas Campagnari<br />
in C o p e r t i n a : Mines of <strong>Wine</strong>s<br />
SentireAscoltare online music magazine<br />
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05<br />
Editore: Edoardo Bridda<br />
Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />
Provider NGI S.p.A.<br />
Copyright © 2008 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare<br />
SENTIREASCOLTARE<br />
digital magazine febbraio 2009 N.52<br />
Sommario / 3
Necrologio cumulativo questo mese: il 22 gennaio<br />
è scomparso Charlie Wesley Cooper metà dei<br />
Telefon Tel Aviv a pochissimo dall’uscita dell’album<br />
Immolate Yourself; se n’è andato anche Bill<br />
Powell, tastierista dei Lynard Skynard; Powell<br />
e Gary Rossington erano gli unici sopravvissuti<br />
dell’incidente aereo del 1977 in cui erano morti<br />
gli altri componenti Ronnie Van Zant, Steve Gaines<br />
e la corista Cassie Gaines. E ancora se ne va a<br />
60 anni Ron Asheton, chitarrista degli Stooges; il<br />
musicista è stato trovato morto il 6 gennaio scorso<br />
nella sua casa in Michigan. A 76 anni muore<br />
il 27 gennaio per un cancro al polmone lo scrittore<br />
americano John Updike. E per ultimo il 29<br />
gennaio ci lascia a 60 anni il folk singer scozzese<br />
John Martyn. Ancora una scomparsa: il 4 febbraio<br />
muore in California a 62 anni per problemi cardiaci<br />
Lux Interior (Erick Purkhiser) dei Cramps,<br />
fondati insieme alla moglie Poison Ivy nel 1975 a<br />
New York, dove entrarono a far parte della scena<br />
punk rock gravitante intorno al CBGB.<br />
Nuovo album per Bill Callahan, a due anni da<br />
Woke On A Whaleheart. Sometimes I Wish<br />
We Were An Eagle uscirà come i precedenti su<br />
Drag City, in aprile…<br />
Tornano i gallesi Super Furry Animals con<br />
un’uscita ancora senza titolo, che appare prima<br />
in forma digitale sul loro sito ufficiale superfurry.<br />
com dal 16 marzo e poi dal 21 aprile fisicamente<br />
su Rough Trade; l’album vede titoli quali The Very<br />
Best of Neil Diamond e Crazy Naked Girls…<br />
Franz Ferdinand,<br />
Kings of Leon, Oasis e Paul<br />
Weller sono i primi headliner dell’edizione 2009<br />
del FIB Heineken 09 che si terrà a Benicàssim<br />
(Spagna) il 16, 17, 18 e 19 luglio 2009. Il resto<br />
della programmazione sara’ svelato non appena<br />
gli artisti confermeranno le proprie apparizioni.<br />
Maggiori informazioni su fiberfib.com…<br />
Nuovi dischi in arrivo tra febbraio e marzo per<br />
Odawas, Julie Doiron e Swan Lake, tutti su<br />
Jagjaguwar; gli Odawas sono al terzo album, The<br />
Blue Depths previsto per fine febbraio, la Doiron<br />
torna a marzo con Can Wonder What You<br />
Did With Your Day, così come Swan Lake, con<br />
Enemy Mine. Quest’ultimo progetto di Daniel<br />
Bejar (già con Destroyer e New Pornographers),<br />
Spencer Krug (di Sunset Rubdown e Wolf Parade)<br />
e Carey Mercer (di Frog Eyes e Blackout Beach)…<br />
Dopo cinque anni tornano i chicagoani Tortoise<br />
con un disco ancora senza titolo che uscirà<br />
il prossimo aprile…<br />
Ristampe in vista per i Monks e il loro garage<br />
rock su Light In the Attic: The Early Years e<br />
Black Monk Time in arrivo a marzo con distribuzione<br />
Goodfellas. Nel 1967 il gruppo si scioglie<br />
lasciando un album – Black Monk Time – oggetto<br />
di culto, causa la sua irreperibilità. Nel 1994<br />
il bassista Eddie Shaw pubblica l’autobiografia<br />
Black Monk Time; il gruppo si riunisce nel 1999<br />
durante il festival americano Cavestomp e poi in<br />
Spagna nel 2004 ed in occasione del tour in Germania<br />
ed Austria del 2007…<br />
Dopo ben quindici anni dall’ultima uscita con<br />
la sua band, That’s The Way It Should Be, Booker<br />
T pubblicherà su Anti il 20 aprile il nuovo<br />
album Potato Hole, L’artista leader dei Booker<br />
T & the MG’s (session band della Stax Records di<br />
Memphis), ha collaborato con Neil Young, chitarrista<br />
in nove canzoni, e con i Drive By Truckers<br />
come turnisti. Nel disco sono presenti tre<br />
cover, Hey Ya degli Outkast, Get Behind the Mule di<br />
Tom Waits e Space City dei Drive By Truckers…<br />
Sarà pubblicato il 14 aprile Fantasies, quarto<br />
album dei Metric, il primo ad essere venduto direttamente<br />
dalla band canadese, acquistabile dal<br />
sito ufficiale Ilovemetric.com. Sarà preordinabile<br />
dal 2 marzo. In Canada e Messico sarà anche distribuito<br />
regolarmente dalla Arts & Crafts…<br />
I Black Dice pubblicheranno Repo, il loro<br />
quinto disco, il 7 aprile su Paw Tracks…<br />
Novità per gli electroloopers svedesi The Field.<br />
Il nuovo album - che segue il successo del 2007<br />
Here We Go Sublime - verrà pubblicato probabilmente<br />
intorno al 16 maggio prossimo sempre<br />
sulla tedesca Kompakt. Axel Willner è stato affiancato<br />
in fase di composizione di alcuni ritocchi sonori<br />
dal batterista dei Battles John Stainer…<br />
I Depeche Mode tornano con un nuovo disco,<br />
Sounds <strong>Of</strong> The Universe, previsto per il<br />
20 aprile su Mute, anticipato dal singolo Wrong<br />
e prodotto da Ben Hillier (già in Playing the Angel<br />
del 2005). Secondo quanto da loro dichiarato,<br />
prevede l’uso di synth analogici e drum machine<br />
che bilanciano il sound retro futurista dell’allbum;<br />
come già annunciato saranno nel nostro paese per<br />
due date, il 16 giugno a Roma e il 18 a Milano…<br />
Frank Black torna con l’incarnazione Grand<br />
Duchy, insieme alla moglie Violet Clark: il debutto<br />
del duo si chiama Petit Fours e sarà pubblicato<br />
in aprile su Cooking Vinyl…<br />
4 / News a cura di Teresa Greco<br />
News / 5
RACCOO-OO-OON<br />
Dei defunti, almeno in Italia, si tende a parlare<br />
sempre bene. Anche se la cosa solitamente non<br />
corrisponde alla realtà della vita vissuta, nel caso<br />
dei Raccoo-oo-oon è inevitabile. Così come inevitabilmente<br />
la memoria ritorna alla famosa frase di<br />
Steve Albini, secondo il quale l’idea di sciogliersi<br />
è venuta troppo spesso ai gruppi sbagliati. Il (fu)<br />
quartetto di Iowa City rientra appieno in questa<br />
categoria, come dimostra il canto del cigno appena<br />
uscito col benemerito placet del logo Release<br />
The Bats, eclettica etichetta svedese nel cui catalogo<br />
confluiscono weirdità a profusione, Robedoor<br />
e Warmer Milks giusto per fare due nomi. In<br />
tono col ruolo sommesso giocato dal quartetto nel<br />
corso della sua esistenza, anche lo split è passato<br />
sotto silenzio. Cosa privata era e tale è rimasta,<br />
come conferma Shawn Reed: Si, Raccoo-oo-oon ha<br />
chiuso i battenti l’anno scorso ma non l’abbiamo mai annunciato;<br />
è semplicemente successo, abbiamo vissuto la band<br />
intensamente per più di 4 anni ed era tempo che ognuno seguisse<br />
la propria via, le proprie cose…è stato naturale, come<br />
se avessimo inconsciamente realizzato che avevamo fatto tutto<br />
quello che dovevamo fare e che fosse saggio così.<br />
Così mentre la diaspora del procione è in atto spingendo<br />
i 4 membri ai quattro angoli degli States<br />
Il canto del procione<br />
come in una dispersione così fortemente a stelle e<br />
strisce (Andy è ora a Los Angeles, impegnato a tempo pieno<br />
nella scena artistica cittadina; Daren voleva trasferirsi a NY<br />
e ora l’ha fatto; io e Ryan Garbes viviamo ancora a Iowa<br />
City) non resta che ascoltare i 74 minuti pieni del<br />
personale swansong e da lì intraprendere un percorso<br />
a ritroso alla ricerca delle uscite precedenti e soprattutto<br />
minori del gruppo, come i 5 volumi della serie<br />
Mythos Folkways. Suddivisi equamente tra vinili<br />
e cassette mostrano il lato più selvaggio e sperimentale<br />
dei quattro; in alcuni casi con registrazioni in<br />
sede live devastanti – il Vol. IV, sottotitolato Future<br />
Visions – in altri in condivisione con spiriti<br />
affini, come nel caso del Vol. II – Pre-American<br />
Lands, pubblicato in vinile per Not Not Fun e splittato<br />
coi Woods. Oppure non resta che attendere<br />
le pubblicazioni del nuovo progetto di Shawn, da<br />
poco raggiunto da Garbes, a nome Wet Hair – più<br />
ossessivamente synth-drone-oriented – di cui testimonianze<br />
sono uscite (il 12” one-sided, la cassetta<br />
Irifi) e usciranno per Night People, etichetta di casa<br />
Reed con un catalogo che più strambo non si può.<br />
I Raccoo-oo-oon non esistono più. Lunga vita ai<br />
Raccoo-oo-oon.<br />
stEfano piffEri<br />
Nel giro dubstep c’è una spia che parla il verbo più tamarro<br />
e rinnegato della storia degli ultimi anni, l’ardekore. You<br />
know the score? Era l’anticristo di ogni afrofuturista techno<br />
che si rispetti e ora rivive in un album che punta dritto<br />
alla scienza del breakbeat… ma attenzione, in camuffa. La<br />
scorza è anche italo house e technotronik.<br />
Prendete uno del giro dubstep<br />
e fatelo andare in fissa<br />
con l’ardkore primi Novanta.<br />
Esatto. Proprio l’hardcore tamarrissima<br />
decantata da<br />
Reynolds, quella che ha ZOMBy<br />
ispirato al critico la famosa<br />
teoria del continuum secondo<br />
il quale il più vituperato<br />
genere dalla scena alla luce<br />
dei fatti era poi la chiave per<br />
mutare e reinventarsi come<br />
l’araba fenice. Fategli incidere<br />
un disco furbissimo che prende<br />
il meglio (o il peggio) di quei<br />
rush analogici e appiccicateci<br />
sopra un’etichetta che più<br />
paracula non ce n’è: dov’eri<br />
nel novantadue? La risposta<br />
è facile. Ero lì, proprio come<br />
lì c’era James Murphy nella<br />
famosa canzone e proprio<br />
come qui tra le mie mani c’è<br />
questo dischetto uscito a novembre<br />
2008 (Where Were<br />
You In ‘92?) che è una chicca<br />
assurda.<br />
Dentro, dice Mr Zomby, contattato<br />
istantaneamente via fido myspace, c’è tutta<br />
la jungle techno from u.k, o meglio il suo ombrellone chiamato<br />
‘old skool hardcore’. E se sei brit come dice lui non<br />
c’è scampo: jungle garage, hardcore, dubstep ecc. e tutto<br />
quel che c’è in mezzo, anche se il focus del disco è<br />
su gente mirata e da addetti ai lavori come Manix,<br />
Acen, 2 Bad Mice,Origination, Noise Factory, Hackney<br />
Hardcore, Lennie De Ice e etichette come Formation,<br />
Ibiza e Music House. Del resto dj o no tutti ci ri-<br />
troveranno qualcosa, dato che ci ascolti gli Orbital<br />
e i Nightmares On Wax laser verdi annessi, e gli<br />
LFO in gara per il basso più sismico come l’umidità<br />
colata dagli specchi mescolata alle deformazioni<br />
della cassa al girar di manopola. Quelle voci brekkate<br />
prese dall’hip-hop che credevamo trashy nella<br />
poco esclusiva accezione<br />
Snap! Technotronik e l’irritantissima<br />
balbuzie messa<br />
lì, da bambini cerebrolesi.<br />
E poi pure gli Orb, gli speaker<br />
KLF e le sirene Acid<br />
Nation. Tante sirene ein<br />
zwei polizei in remember<br />
degli scontri e delle retate<br />
del ‘92: l’anno della crociata<br />
governativa inglese antirave,<br />
l’act che avrebbe stangato<br />
tutti e riportato tutto<br />
nei club istituzionalizzando<br />
il suono di una generazione.<br />
Ci sono pure le tastieracce,<br />
quelle dei Black Box<br />
nella variante taglia e cuci<br />
di vocal che volgarizzavano<br />
per sempre il romanticismo<br />
di Derrick May, ficcandoci<br />
come un coltello in cuore la<br />
disco music di dieci e passa<br />
anni prima. Supercafona<br />
‘sta musica<br />
che puzza di<br />
club scalcinato;<br />
ma più dentro puzza<br />
di ghetto, di negroni New York old skool (sentitevi<br />
la compila di Van Helden - New York A Mix<br />
Odyssey 2). Quel kitsch che diede agli inglesi<br />
e agli europei tutti la voglia di sporcarsi le mani<br />
mentre oltreoceano gli intellettuali di Detroit atterrivano.<br />
Una nuova via per reinventare lo step<br />
inglese è tracciata.<br />
‘ardekore you know what i mean<br />
Edoardo Bridda E Marco Braggion<br />
6 / Turn On Turn On / 7
HARMONIC 313<br />
Grazie all’one man project 313, la Warp si riappropria<br />
dell’ambient che la fece conoscere al mondo intero con una<br />
sorpresa, l’hip hop. E tutti quei bass e break tornano a casa<br />
grazie a un magico brit finora rimasto in penombra.<br />
Sono anni che SA manda missive agli Autechre.<br />
Parola chiave e diktat: reinventarsi, hip hop, ripartire.<br />
Rasare daccapo. Via i vicoli ciechi del robo<br />
Cunningham. Via i rebus e i millennium bug. E sì,<br />
pure quel cazzo di snobismo oramai storicizzato e<br />
anni Ottanta che nessuno vuole. Oltrepiù è l’unica<br />
scelta artistica seria possibile, da artisti con le palle<br />
come direbbero i critics di Arte Fiera e Netmage,<br />
un ritorno a casa che non sappia di ripiego a seguire<br />
certi ritorni stimolanti, come l‘ardkore per il<br />
misterioso Zomby. Ma poi loro, gli Aut- li ricordate?<br />
Nacquero b-boy graffiti e skate. Sangue e pane<br />
del ghetto for real. Krautismo breakbeat stampo<br />
Warp. Label che ora fuori dal mucchio del pure<br />
electro ripesca magicamente le origini, si ricompone<br />
e anticipa un revival proprio sulle sue cose,<br />
prima che qualcuno soffi. Ma dicevamo hip-hop.<br />
Che sarebbero stati gli Autechre di Amber tra metalli<br />
e sincopi pre-dubstep senza il prezzemolo del<br />
battito? Già, ce lo dicevano pure gli Amari che sul<br />
prototipo del Bbeat si fondano tutti i Novanta. Ce<br />
lo diceva il Dariella prima B e ora electro-pop: “è<br />
tutta trasfigurazione (break)beat”. Da tutto questo<br />
e dalle sacrosante sentenze, attacchiamo anche un<br />
Quando le macchine spaccano<br />
piccolo rewind con un riflettore puntato Beastie<br />
Boys periodo tuta gialla robo, importante quanto<br />
il sottobosco 8bit che non buca la notizia ma non<br />
molla e si reinventa continuamente come il Virtumonde<br />
che infesta i PC. Poi voci. Vocoder grezzi,<br />
kraft senza werk lontani dalle sofisticazioni francofone.<br />
Voci tirate in grana grossa come i pixelloni<br />
che si vedono nelle pubblicità. E pure l’internet<br />
tutt’uno con il suono. Fateci un giro nella home di<br />
Harmonic. C’è il segmento del loro pezzo chiave<br />
in animazione grafica stile graffiti Warp. Sincopi<br />
che vanno lette come basic beat. Tonde e sorde.<br />
Giochino di voci I/O. Biglietto da visita di mr.<br />
Mark Pritchard, ovvero le palle di reinventarsi<br />
come uno dei più intelligenti hip-hopper strumentali.<br />
Lui che ha un passato di ½ Global Comunication<br />
e che giustamente si merita un bel riflettore<br />
puntato a fianco di Tom Middleton quello di Lifetracks.<br />
Non ci si era soffermati più di tanto in<br />
occasione del paio di EP usciti nel 2008 (EP One<br />
e Dirtbox 12) ma rimediare è facile con un disco<br />
come When Machines Exceed Human Intelligence,<br />
uno di quei lavori che reinventano il<br />
Warp sound più tech, rinfocolano il bbeat con dosi<br />
controllate di 8bit e ambient autistica. E per i più<br />
vibertiani c’è pure l’acid. 09=90. E pure la noia<br />
buona del bit quadrato.<br />
Edoardo Bridda E Marco Braggion<br />
Da anni l’americano Jem Cohen rappresenta un esempio di<br />
cinematografia “sul serio” indipendente che pare aver trovato<br />
ennesima conferma nell’uscita in dvd della riflessione sullo<br />
stato dell’unione Evening’s Civil Twilight In Empires <strong>Of</strong><br />
Tin.<br />
Chissà se c’è un nesso tra l’insediarsi di Barack<br />
Obama alla Casa Bianca e la quasi contemporanea<br />
uscita del dvd Evening’s Civil Twilight In<br />
Empires <strong>Of</strong> Tin. E chissà che in qualche modo<br />
serva a chiudere il capitolo su un decennio tra i<br />
più tristi in politica estera per gli Stati Uniti, col<br />
suo evidenziare errori e decadenza del (fu?) paese<br />
più importante del mondo. Anche così non fosse,<br />
si tratta in fondo di uno tra gli innumerevoli livelli<br />
di lettura di un’opera che fonde musica, letteratura<br />
e politica come in poche altre è dato sentire.<br />
Non poteva che essere altrimenti, visti i pezzi da<br />
novanta impegnati e cioè il regista fieramente indipendente<br />
Jem Cohen, il cantautore Vic Chesnutt,<br />
i post-apocalittici rockers A Silver Mt. Zion e l’ex<br />
Fugazi Guy Picciotto. L’ensemble che già si era<br />
trovato in sala per il meraviglioso North Star Deserter<br />
e che qui si trova a fornire - con l’ausilio dei<br />
newyorchesi Quavers - adeguato commento sonoro<br />
alle immagini. Basata liberamente sul romanzo<br />
The Radetzky March di Joseph Roth (propostagli<br />
dal “montanaro d’argento” Efrim Menuck:<br />
“La ragione autentica dell’interesse del libro stava<br />
nel fatto che questi sono tempi assai duri, special-<br />
JEM COHEN<br />
mente in America, sotto l’amministrazione Bush<br />
e dopo il 9/11.”) e commissionata dal Festival del<br />
Cinema di Vienna, la pellicola veniva proiettata<br />
a chiusura dell’edizione 2007 della rassegna. La<br />
sera stessa Cohen filmava l’esibizione ed eccoci<br />
oggi con in mano un dvd pesante come un mattone<br />
gettato dentro una vetrata; qualcosa che demolisce<br />
la barriera tra rockumentary e film d’autore<br />
attraverso metafore sociopolitiche aguzze e dolorose,<br />
secondo le quali il kaiser Francesco Giuseppe<br />
e “Mr. Dabliù” incarnano lo stesso timoniere di<br />
un vascello alla deriva. A tale scopo la macchina<br />
da presa indaga tra le pieghe della Vienna di oggi<br />
e che fu e lo stesso vale per New York, restituendo<br />
una metropoli-simbolo percorsa da ectoplasmi.<br />
L’uso del rallentatore e della velocizzazione tipici<br />
di Cohen congelano le emozioni per restituirle<br />
intatte nel loro potenziale evocativo e simbolico,<br />
siano esse sgranate istantanee prebelliche, seppiate<br />
intrusioni tra il centro città o panorami restituiti<br />
alle tinte vitali di ogni giorno. L’architettura si fa<br />
narrazione, pagina da indagare per leggere passato,<br />
presente e futuro. Sperando che quest’ultimo<br />
non sia come quella bandiera americana che, ridotta<br />
uno straccio di brandelli, sventolava sopra il<br />
“ground zero” nei giorni seguenti l’undici settembre<br />
di otto anni fa.<br />
giancarlo turra<br />
8 / Turn On Turn On / 9
ACTION BEAT<br />
Viene da Bletchley, nord-est di Londra, una delle<br />
sensazioni più vivide dell’attuale panorama indie<br />
del Regno Unito. Una appartenenza sentita che<br />
viene sbandierata sin dal titolo del comeback The<br />
Noise Band From Bletchley appena uscito per<br />
la neonata Truth Cult, sussidiaria della più nota<br />
Southern.<br />
Non una band in senso stretto, però, quanto piuttosto<br />
un collettivo piuttosto ampio e mobile che<br />
fluttua intorno ad un nucleo tutto sommato standard<br />
di almeno cinque membri. Quando però si<br />
tratta di salire su un palco, la formazione base si<br />
moltiplica fino a prevedere come minimo 3 chitarristi,<br />
un bassista e da 1 a 4 batterie. Intorno a<br />
questo core ruota di volta in volta una marea di<br />
collaboratori più o meno occasionali tra cui anche<br />
il drum-kit del nostro Bruno Dorella. Tanto per<br />
rendere l’idea, nelle sessions del nuovo album se<br />
ne contano almeno 10 tra chitarre, bassi, batterie,<br />
sax e trombe, come ci conferma Don McLean,<br />
col quale abbiamo fatto una lunga chiacchierata:<br />
«Non siamo una band classica, dato che ci adattiamo<br />
a situazioni differenti. Non abbiamo bisogno<br />
di un nucleo di membri, così se qualche membro<br />
regolare non può suonare un live è molto semplice<br />
farlo lo stesso. Nel nostro ultimo tour il nostro van<br />
si è rotto in Germania e abbiamo affittato un’auto<br />
suonando lo show successivo in Belgio. Quando<br />
però il van fu riparato, alcuni di noi dovettero tornare<br />
a recuperarlo a Leipzig e così abbiamo dovuto<br />
suonare l’ultimo show ad Amsterdam senza<br />
mezza band. È stato grande lo stesso!»<br />
Totale libertà, dunque. Approccio punk che si materializza<br />
in un assoluto distacco da canoni e codici.<br />
Libertà, una parola che tornerà spesso durante<br />
la conversazione e che si nasconde in ogni pezzo<br />
del collettivo: «Chiunque può suonare con AB e<br />
questo ci permette grande libertà e indipendenza.<br />
Per questo così tante persone hanno suonato con<br />
noi e permesso una così ampia libertà di suono»..<br />
Date queste premesse – collettivo aperto + attitudine<br />
free – sarebbe facile attendersi una potenza<br />
di fuoco impressionante. E invece ciò che stupisce<br />
maggiormente all’ascolto di The Noise Band<br />
From Bletchley è che cotanta artiglieria non si<br />
dedica, almeno in studio, ad un parossistico assalto<br />
sonico stordente e cacofonico come sarebbe lecito<br />
aspettarsi, bensì ad uno sviluppo focalizzato, controllato,<br />
quasi ragionato delle strutture che però<br />
nasce spesso in circostanze pressoché improvvisa-<br />
te: «Per il nuovo album abbiamo precedentemente<br />
jammato 3 pezzi in sede live (i pezzi sono High Action,<br />
Meat Head e Manic Face suonati nel live ripreso<br />
nell’artwork, nda) in modo da sapere cosa stavamo<br />
facendo. Le altre 9 canzoni sono totalmente improvvisate<br />
e assemblate in studio, anche se sono<br />
più corte, veloci e “song-oriented” rispetto alle<br />
precedenti. Considera che come AB non abbiamo<br />
mai provato; facciamo canzoni solo quando suoniamo<br />
live».<br />
Un discorso valido anche per il precedente<br />
1977-2007: Thirty Years of Hurt, then us<br />
Cunts Exploded, nei cui 6 pezzi l’aspetto improvvisativo<br />
è ancor più evidente; in virtù soprattutto<br />
di un atteggiamento più jam-oriented che<br />
genera un sound libero, informe, dilatato, ben rappresentato<br />
dalle cacofonie e dai vuoti cosmici dei<br />
16 minuti di Maximum Bletchley.<br />
Nel percorso sonoro del collettivo sono però riconoscibili<br />
un paio di capisaldi piuttosto evidenti:<br />
Sonic Youth e Glenn Branca «Siamo completamente<br />
fan di Sonic Youth e Glenn Branca; da lì<br />
proviene l’idea di accordare le chitarre in maniera<br />
differente». Le dissonanti accordature dei primi e<br />
i vortici ascensionali del secondo sono parte integrante<br />
del dna degli sgherri di Bletchley: l’ascendenza<br />
Daydream Nation cala come fall-out<br />
post-atomico sugli incastri strumentali solo apparentemente<br />
elementari di cui le partiture del collettivo<br />
sono piene; le ramificazioni ascensionali di<br />
Branca sfruttano la stratificazione delle chitarre<br />
per creare piccoli tornado noise, senza mai scivolare<br />
nell’accademico.<br />
Quello degli AB è però un percorso non circoscritto<br />
alla riproposizione, seppur personale, del sound<br />
di quelle pietre miliari; da quelle che sono le vere<br />
e proprie chiavi di volta per l’architettura sonica<br />
del collettivo, il suono di AB si allarga fino ad inglobare<br />
quanto di più rumoroso gli States abbiano<br />
prodotto nell’ultimo trentennio abbondante (scorre<br />
nelle parole di Don un bignami delle musiche<br />
rumorose Usa: «Stooges, Black Flag, Fugazi, Nirvana,<br />
Jesus Lizard, Swans, Big Black»). Il tutto, ov-<br />
viamente, suonato con strafottenza e supponenza<br />
tipicamente british alla Fall «Amiamo molto i Fall,<br />
specialmente quelli degli esordi…Live At The<br />
Witch Trials con la splendida Rebellious Jukebox»<br />
ma memore anche di altri momenti dimenticati e<br />
apparentemente fuori contesto, come Stone Roses<br />
e EMF «Cosa? You’re Unbelievable??? Unbeliev- Unbelievably<br />
Shite!!!»<br />
Nonostante le grasse risate di Don, l’ascolto della<br />
prima metà di Master Beat sembrerebbe dire il contrario.<br />
Cioè che a stratificarsi nel background di<br />
gruppi come questo sia una infinità di riferimenti<br />
più o meno consci agli stessi autori e che si riverberano<br />
in maniera latente nelle loro composizioni.<br />
Ecco così che dalle impalcature noise-rock in sovrapposizione<br />
emergono moloch apparentemente<br />
estranei come le aperture jazzy, i fiati che impreziosiscono<br />
e screziano il suono rendendolo schizoide,<br />
il motorik krauto che si accende all’improvviso<br />
oppure sorprendenti fascinazioni per drum’n’bass<br />
e musica africana. Se la prima trova giustificazione<br />
nelle parole di Don «tempo e ritmo sono controllati<br />
dal basso e dalla/dalle batterie…puntiamo<br />
sempre a beat dancey, un po’ come la d’n’b made<br />
in UK» la seconda sottolinea l’aspetto sciamanico<br />
che alcuni momenti più dilatati sembrano evocare:<br />
«Fondamentalmente siamo rockers che ascoltano<br />
underground noise shit e punk, ma amiamo ballare<br />
con James Brown, soul music, Motown e non è una<br />
novità dire che la musica nera, africana è la migliore<br />
musica sulla terra. […] Mi piace ascoltare musica<br />
africana come Konono N.1, e recentemente l’etiope<br />
Mahmoud Ahmed. C’è così tanta musica africana<br />
che devo ascoltare che spero, col tempo, possa influenzare<br />
gli AB».<br />
stEfano piffEri<br />
10 / Turn On Turn On / 11
©Leo Stefansson<br />
HJALTALíN<br />
Leggerezza e ironia, chamber indie pop e catchyness le caratteristiche<br />
degli Hjaltalín, nuova scoperta islandese.<br />
La definizione di sleepdrunk in slang inglese così<br />
recita: “Lo stato, dovuto alla mancanza di sonno, in<br />
cui si è talmente stanchi che le inibizioni si abbassano<br />
e i processi cerebrali si affievoliscono, proprio come se si<br />
fosse ubriachi”. E Sleepdrunk Seasons è il nome<br />
dell’album di debutto<br />
degli islandesi Hjaltalín,<br />
disco che ben<br />
fotografa la condizione<br />
di ebbrezza cui sopra,<br />
anche da un punto di<br />
vista musicale. Ci si<br />
trova allora davanti, in<br />
quest’album, a canzoni<br />
con massime variazioni<br />
in tempi e mood, uso<br />
di ampia strumentazione<br />
tra indie rock e pop<br />
orchestrale, e insieme<br />
un senso di estrema rilassatezza<br />
da festa tra<br />
amici, in cui si passa<br />
agevolmente da uno<br />
stato a un altro, dall’euforia<br />
alla rilassatezza<br />
alcolica e così via. Con<br />
una leggerezza piacevole<br />
e easy derivata dallo<br />
stare bene insieme, anche<br />
musicalmente. E in<br />
questo, una non scontata<br />
complessità musicale.<br />
D’altronde, l’apparente<br />
facilità del pop è cosa<br />
difficilissima da ottenere,<br />
si sa, frutto di intuizioni<br />
e talento nonché<br />
di fortunate e magiche<br />
alchimie. Chi sono allora<br />
questi newcomers del<br />
chamber pop nordico lo andremo scoprendo man<br />
mano, basti dire intanto, per ribadire il carattere<br />
di loro (apparente) easyness, che il gruppo messo<br />
su nel 2006 da Hogni Egilsson, fresco di studi di<br />
composizione, songwriter cantante e chitarrista di<br />
Reykjavik, nonché deus ex-machina del gruppo,<br />
è in origine destinato a un’unica esibizione. Evidentemente<br />
le cose vanno meglio del previsto e il<br />
Sleepdrunk Pop<br />
combo variegato, che oscilla dalle otto alle dieci<br />
persone, prosegue la sua attività. Accanto ai tradizionali<br />
chitarra basso batteria piano e tastiere,<br />
si affiancano i meno usuali fagotto, tromba, trombone,<br />
corno francese e clarinetto, e i più consueti<br />
violino, violoncello, fisarmonica, harmonium,<br />
banjo. E la voce imperfetta ma efficace di Hogni,<br />
un misto di Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens<br />
Lekman, doppiata dal lato femminile di Sigga (Sigríður<br />
Thorlacius), contribuisce a creare una definita<br />
alchimia di gruppo nonché un vero e proprio<br />
tratto distintivo armonico. Siamo dalle parti di un<br />
chamber pop impetuoso ma lirico molto vicino ai<br />
primi Arcade Fire, ai quali cominciano a essere<br />
ben presto paragonati. Il solito passaparola su Internet<br />
fa il resto, anche se il gruppo oggi non ama<br />
definirsi, con il senno di poi e con una certa punta<br />
di snobismo, “una internet band tipica”.<br />
L’incontro con il Morr-iano Benedikt Hermann<br />
Hermannsson alias Benni Hemm Hemm segue di<br />
lì a poco (e non si possono non notare le più che<br />
evidenti affinità tra le due band), mentre si cominciano<br />
a porre le basi per il disco d’esordio.<br />
Intanto il gruppo si tempra massicciamente dal<br />
vivo, e qui la formazione varia di numero a seconda<br />
delle esigenze e delle occasioni. Una mini orchestra<br />
la loro, che fa musica ben presto definita<br />
dalla critica locale “beautiful eclectic powerpop”,<br />
con descrizioni del tipo“suonano come se i Teletubbies<br />
avessero deciso di formare una band”, per<br />
il loro aspetto elfico e il potere immaginifico ma<br />
d’impatto delle liriche.<br />
A dicembre 2007 esce in Islanda il debutto Sleepdrunk<br />
Seasons, prodotto da Hermannsson insieme<br />
a Gunnar Tynes dei Múm, ed è da subito<br />
la consacrazione in patria, dove ricevono nel corso<br />
del 2008 numerosi riconoscimenti. Album d’esordio<br />
che nei primi mesi del 2009 è pubblicato nel<br />
resto d’Europa.<br />
Accade così che le fredde brume dei ghiacci nordici<br />
producono calde melodie laddove non ti aspetteresti,<br />
un equilibrio perfetto tra una base melodico<br />
ritmica beachboysiana e un’orchestrazione<br />
variegata, con uso massivo di cambio di tempi, alla<br />
maniera di mini suite tematiche (Goodbye July,<br />
cantata per metà in inglese e per metà in islandese)<br />
o colonne sonore classico-orchestrali (Kveldúlfur).<br />
Una passione nemmeno troppo nascosta per Bacharach<br />
e Hazelwood così come per la musica colta<br />
traspare da subito. Ed ecco ancora Jens Lekman<br />
e i Decemberists incontrare le voci e le variegate<br />
orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic Music),<br />
mentre gli ultimi Sigur Ros pop si uniscono alla<br />
sensibilità Antony (The Boy Next Door). Non sorprende<br />
quindi incrociare anche il barocco meno<br />
melodrammatico dei canadesi Stars (Debussy,<br />
Selur) e dei Belle & Sebastian più malinconici<br />
alla Drake (nell’intensa e melodica The Trees Don’t<br />
Like The Smoke). Nonché il pop eclettico degli Hidden<br />
Cameras e la complessità dell’immancabile<br />
(da citare in questi casi) Sufjan Stevens.<br />
L’unità tematica si ritrova anche a livello contenutistico;<br />
Sleepdrunk Seasons può essere definito<br />
un “concept album” atipico, ricco com’è di spunti<br />
ecologisti espressi anche in modo giocoso e non<br />
forzato (così in The Trees Don’t Like The Smoke: “Put<br />
that cigarette out for the trees/ and if you’re so sure that it’s<br />
alright, then why don’t you say it out loud to the trees?”),<br />
dettagli cinematici ed impressionistici alla maniera<br />
di una soundtrack, anche se molto spesso, più<br />
che le parole, piuttosto centellinate, è il carattere<br />
prettamente evocativo della musica ad esprimersi<br />
pienamente.<br />
Un gruppo potenzialmente in grado di dare molto<br />
e ce lo dirà il tempo a questo punto. Intanto non<br />
si può non godere, ancora una volta, delle melodie<br />
cristalline e della magia del loro pop.<br />
tErEsa grEco<br />
12 / Turn On Turn On / 13
dälek<br />
- Marco Braggion<br />
<strong>Of</strong> f -HO p<br />
Il ritorno del doom per due degli hip-hoppers più duri del momento. L’uscita del nuovo album<br />
e qualche riflessione sulla contemporaneità direttamente dalla strada. dälek: il nuovo<br />
incubo dal New Jersey.<br />
Cos’è diventato l’hip-hop? I Dälek ne parlano<br />
nel loro nuovo album Gutter Tactics (recensito<br />
in questo numero): il genere è un magma<br />
ribollente che attinge da qualsiasi fonte sonora o<br />
linguistica. La voglia di innovare non si è affievolita.<br />
Il duo -formato dall’MC Will Brooks e dal<br />
produttore Oktopus (coadiuvati nella prima parte<br />
del loro percorso dal turntablista Still)- è attivo dal<br />
1998. I due si trovano immersi fino alla gola nella<br />
pre-millennium tension profetizzata dal santone<br />
Tricky. Era la stagione del doom: etichette che<br />
proponevano un hip-hop ‘sperimentale’, avant. I<br />
nomi sulle copertine dei giornali musicali erano<br />
Anticon, El-P e cLOUDDEAD. I drones del rock<br />
e dell’elettronica, che avrebbero fatto la fortuna dei<br />
Radiohead, sfociavano improvvisamente nel ritmo<br />
urban per eccellenza. Oggi che di mesh ne siamo<br />
pieni, queste estetiche suonano normali, a tratti<br />
scontate. E non ci sorprendiamo più degli accostamenti<br />
inusuali. Il problema è uscire dal binario pur<br />
restando vicini all’ortodossia del genere. Senza ovviamente<br />
perdere la reputazione. Fedeli alla staticità<br />
che premia solo i più decisi, i più ‘massicci’, come si<br />
dice in gergo.<br />
Il duo da Newark (New Jersey) esordisce con una<br />
pletora di collaborazioni ed EP. Il primo è Negro,<br />
Necro, Nekros EP (1998). Un esperimento che<br />
esce dalla stagione post-hardcore e che si fonde<br />
con le estetiche cut’n’paste della Mo’ Wax e con lo<br />
Shadow più illuminato. Ma è in combo con Tech-<br />
no Animal nel Megaton & Classical Homicide<br />
EP (2002) che si avverte un segnale forte. Quattro<br />
tracce che mostrano la ‘shape of hip-hop to come’,<br />
la visione futurista che è ancor oggi il loro biglietto<br />
da visita: suoni lunghi, drones alieni mescolati a<br />
ritmiche old school. Vecchio e nuovo che collidono<br />
per far avanzare lo stile. Lo stesso anno, dopo<br />
quell’antipasto che ci aveva fatto venire l’acquolina<br />
in bocca, arriva il botto.<br />
L’album sulla lunga distanza si chiama From Filthy<br />
Tongue of Gods and Griots. Divinità e cantori<br />
africani sono la giusta cornice per entrare in<br />
una visione che ancor oggi spaventa per la potenza<br />
e per la freschezza del suono. Bordate del calibro di<br />
Spiritual Healing hanno la cattiveria del metal melvinsiano<br />
e la grazia della strada, tracce lunghe come<br />
l’incubo Black Smoke Rises ci fanno capire che non<br />
c’è compromesso. Il duo ha già il suono in tasca.<br />
Ha già in mente le visioni electro-ambient dei Boards<br />
of Canada, mescolate a suoni industriali à la<br />
Nurse With Wound e a un vago sapore etnico che<br />
non si eclissa in sterili elitarismi. L’esordio li lancia<br />
sull’olimpo delle classifiche; li si cataloga come hiphoppers<br />
solo perché vengono usate le basi in quattro.<br />
Ma sotto il vestito (ritmico) c’è molto di più.<br />
Due anni dopo li troviamo infatti al fianco dei<br />
Faust. Il combo krauto che va oltre la storia del<br />
rock. In Derbe Respect, Alder (2004) esplode<br />
la visione affine al sentire europeo. E non sai chi<br />
stia facendo cosa, se i maghi della psichedelia si<br />
stiano prendendo gioco dei pischelli americani o<br />
se proprio qui l’hip-hop si stia rivoluzionando nello<br />
sgretolamento di tutte le certezze; perché non<br />
c’è un pattern ritmico che segni la strada, non c’è<br />
un minuto in cui possiamo sentirci sicuri di quello<br />
che succederà. Più che un disco, questo split ci<br />
conferma il fatto che i ragazzi non scherzano. Da<br />
qui in poi non è più solo old school. Si passa alla<br />
maturità.<br />
Absence (2005). Il disco che fa i conti con i classici.<br />
La pietra che scava nella storia hip-hop e che<br />
inserisce la freschezza degli esperimenti sonori.<br />
Un lavoro coraggioso: proprio quando l’attenzio-<br />
ne sta calando sulla scena, la crew si fa notare con<br />
l’arte della calibratura perfetta di vecchio e nuovo.<br />
Il rapping incazzato dell’MC che si districa attraverso<br />
muri chitarristici in Asylum e i sample cupi<br />
nell’inno che è Culture for Dollars; le cronache dal<br />
dopobomba narrate nell’ambient sinuosa della titletrack<br />
o nei paesaggi glitch di Koner ci fanno capire<br />
la qualità di un combo che non ha mollato la<br />
corda davanti al compromesso e che sa di poter<br />
scuotere ancora per molto il pianeta del ritmo.<br />
Poi la strada è tutta in discesa. Nel 2007 Abandoned<br />
Language e la raccolta di B-sides Deadverse<br />
Massive consacrano il gruppo come alfiere di<br />
una ortodossia creata sul campo e sul palco. Gente<br />
che si è costruita faticosamente un seguito, senza<br />
aver bisogno di sponsor o di raccomandazioni.<br />
Scostanti, scivolosi e sfuggenti. Data l’impossibilità<br />
della catalogazione, l’anarchia nella scelta della<br />
proposta sonora è ormai d’obbligo. Loro sanno di<br />
dover fare quello che sentono senza dover rendere<br />
conto a produttori o a etichette. Solo a se stessi e a<br />
noi che li seguiamo. A noi, fan stupiti che ci siano<br />
ancora delle sorprese dietro la grancassa e l’hi-hat.<br />
Per toglierci gli ultimi dubbi siamo andati a sentire<br />
direttamente uno dei protagonisti. L’intervista<br />
telefonica con l’MC Will Brooks in esclusiva per<br />
SentireAscoltare.<br />
Con il tuo lavoro hai cambiato la prospettiva<br />
che guarda all’hip-hop. Il genere oggi<br />
è difficilmente definibile dai critici. Pensi<br />
di aver spostato il limite musicale o di aver<br />
mantenuto le radici?<br />
Per me l’hip-hop è quello che faccio, quello con cui<br />
sono nato e cresciuto, è la mia cultura. Scelgo suoni<br />
differenti rispetto ad altri artisti, ma l’hip-hop è<br />
sempre stato questo, è sempre stato così: spostare i<br />
limiti e usare suoni nuovi. Poi è anche diventato un<br />
affare commerciale, ma sicuramente queste operazioni<br />
non servono a creare cose nuove.<br />
L’hip-hop è nato come una cosa di strada e<br />
-come dici tu- poi è passato anche al com-<br />
14 / Tune In Tune In / 15
merciale. Sì è persa definitivamente la realness?<br />
No. C’è ancora. Penso che l’hip-hop rimanga comunque<br />
hip-hop, cioè questa evoluzione non mi<br />
sorprende. Puoi trovare buona musica anche nella<br />
parte commerciale,<br />
e anche ovviamente<br />
nella parte<br />
underground.<br />
In Europa ci<br />
sono molte crew<br />
che stanno mescolando<br />
suoni<br />
diversi: banghra,<br />
hip-hop,<br />
electro, etc.<br />
pensi che questo<br />
mix di suoni<br />
sia la next-bigthing?<br />
Mixare i suoni è<br />
quello che io chiamo<br />
hip-hop! Non<br />
c’è niente di nuovo.<br />
Scoprire nuovi suoni<br />
e metterli assieme<br />
in una canzone. Il<br />
cuore dell’hip-hop<br />
è sempre stata la<br />
scoperta di sample<br />
da dischi o da film<br />
e il loro riassemblaggio.<br />
Pensa alle<br />
prime canzoni. Venivano usati anche samples dei<br />
Kraftwerk: è la mentalità che sta da sempre dietro<br />
l’hip-hop.<br />
Il mood che sta sotto alle tue canzoni è<br />
sempre molto oscuro.<br />
Secondo te si connette con il dubstep?<br />
Ascolti dubstep?<br />
No, non molto.<br />
Pensi che questo modo che hai di descrivere<br />
la realtà sia condizionato dai tempi in<br />
cui vivi?<br />
È una domanda soggettiva, dipende sempre<br />
dall’esperienza di ognuno, da che tipo di vita vivi,<br />
da dove provieni.<br />
Ascoltando il tuo<br />
nuovo album ho<br />
percepito due<br />
prospettive diverse.<br />
Una più<br />
focalizzata sul<br />
suono e l’altra<br />
sui testi. Come<br />
lavori? Che cosa<br />
influenza cosa?<br />
Dipende da canzone<br />
a canzone.<br />
Ma comunque<br />
non è il suono che<br />
influenza i testi o<br />
viceversa. Si tratta<br />
di costruire una<br />
canzone nel suo<br />
complesso. I testi<br />
e la musica si influenzano<br />
a vicenda.<br />
Ovviamente i<br />
testi sono importanti,<br />
ma allo stesso<br />
tempo riflettono<br />
il mood dei suoni.<br />
Nessuna delle due<br />
componenti prevale sull’altra. Non ci sono regole<br />
ben definite.<br />
L’album è su Ipecac, l’etichetta di Mike<br />
Patton. Perché hai scelto questa etichetta?<br />
Conosci Patton o lavori con lui?<br />
Non ho mai lavorato con lui ma penso che la sua<br />
etichetta sia “open minded”, dà all’artista tutta<br />
la libertà che vuole. Puoi fare ciò che vuoi, quin-<br />
di penso sia una buona opportunità lavorare con<br />
un’etichetta del genere.<br />
Nei tuoi album parli spesso anche di politica.<br />
Scusa l’ovvietà della domanda, ma<br />
cosa ne pensi di Obama? Pensi che ci sarà<br />
davvero un cambiamento?<br />
Probabilmente è significativo. Penso sia grande<br />
che sia stato eletto Obama. Ma nello stesso tempo<br />
non penso che un presidente possa cambiare così<br />
tanto in 4 anni. Sono felice e orgoglioso, ma non<br />
sono stupido. Non penso che una persona possa<br />
cambiare l’intero sistema.<br />
Pensi che la tua musica ‘politica’ possa<br />
cambiare qualcosa? Perché scrivi se il sistema<br />
non cambierà?<br />
Non la vedo come musica ‘politica’. La ragione per<br />
cui scrivo musica è perché ho bisogno di qualcosa<br />
per esprimere le mie frustrazioni, i miei sogni o<br />
altro. Non penso che con questa musica cambierà<br />
qualcosa, Se la gente cambia ascoltandola certo<br />
sono il primo ad essere contento, e questa è una<br />
delle qualità della musica, ma non è lo scopo con<br />
cui la scrivo.<br />
Verrai in Italia per un tour?<br />
Certo, ci sono stato qualche mese fa e di sicuro ci<br />
tornerò! Non so ancora quando, ma sta sicuro che<br />
tornerò.<br />
Molte delle tue canzoni sembrano musica<br />
adatta per qualche film. Hai mai pensato<br />
di scrivere colonne sonore?<br />
Certo! Abbiamo già fatto qualcosina e probabilmente<br />
nel futuro scriveremo qualcos’altro per<br />
film.<br />
Hai qualche progetto per il futuro? Un nuovo<br />
album?<br />
Abbiamo due album su cui stiamo lavorando, ma<br />
adesso siamo in tour, quindi torneremo a lavorarci<br />
da marzo fino alla fine dell’anno.<br />
16 / Tune In Tune In / 17<br />
© Alexandra Momin
CirClesquare<br />
Be r l i n em o t r o n i c a<br />
- Marco Braggion<br />
MoM e n t s in lo v e<br />
La lacrimuccia sul dancefloor ci mancava. Che<br />
siano le tonnellate di break o di acidità ad averci<br />
un po’ saturato le notti sul dancefloor non lo possiamo<br />
dimostrare, ma il riprendere in mano le briglie<br />
della melodia di tanto in tanto ce lo possiamo<br />
pure concedere. Dopo essere stati prigionieri delle<br />
camere dubstep e dell’ambient da decompressione<br />
ci mancava l’emozione. Ovvero il sentimento tutto<br />
80 che due decadi fa veniva sprimacciato con tonnellate<br />
di paillettes sulle classifiche del pianeta e sugli<br />
aperitivi della Milano da bere. Quella sensazione<br />
è mutata dopo il crollo del muro, nelle camerette<br />
che la Morr ha abilmente nutrito con le sue sonorità;<br />
il cuore pulsante che nella disco di classe è sempre<br />
stato soul (vedi l’ultimo paladino Erlend Øye),<br />
nella bianchissima Europa da un po’ di tempo non<br />
trovava più casa se non in qualche uscita infelice e<br />
ripetitiva.<br />
Gli alfieri di quelle cavalcate epiche sono gli Apparat<br />
e i Röyksopp (nord e ancora nord). La loro è<br />
una visione che colpisce la pancia e che punta sulla<br />
voce. Con i primi si recuperano le lezioni tecniche<br />
di warpiana memoria, remiscelate nelle vocals che<br />
bilanciano il diabolico battito in quattro. Un intimismo<br />
che non si guarda le scarpe, ma che alza la<br />
testa e fa vibrare. Cose che scuotono, come l’Arcadia<br />
(nella storica versione remiscelata dai Telefon<br />
Tel Aviv), un mondo ideale da cui non vogliamo<br />
scendere, o quell’inno che è da sempre uno dei capisaldi<br />
del minimalismo: Queer Fellow (magari nella<br />
versione con Ellen Allien). Con i secondi invece<br />
andiamo in direzione pop, quella perfezione che<br />
ci annienta perché non ha una direzione, bensì la<br />
sensazione romantica delle pianure sconfinate, gli<br />
abissi che solo dal nord Europa si possono ammaestrare.<br />
I vuoti e i silenzi di una terra che non ti regala<br />
niente. La meditazione che ti porta a cercare<br />
nuovi universi nel tuo io.<br />
Dopo i fondatori, lo scettro passa a quel Patrick<br />
Wolf, il nuovo Bowie, che qualche anno fa ha<br />
sorpreso le piste da ballo e le passerelle di mezzo<br />
mondo. Un’estetica fatta di synth pop almon-<br />
diano remiscelato rave e dunque step che guarda<br />
furbescamente al rock mentre dal taschino spunta<br />
l’electro da cameretta che fa zero zero come non<br />
mai. Cose che fanno innamorare le girls e che fanno<br />
arrossire i boys (ma anche no). E da qui sarà<br />
anche (vedi il riferimento al Duca) sempre più stile.<br />
Sempre più fashion.<br />
La parabola romantica è sempre al confine col<br />
kitsch, perché se non la si prende sul serio la melancolia<br />
sovrasta chi la canta, eppure quando qualcuno<br />
riporta i remi in barca e sa il fatto suo, allora<br />
si sbanca. Un nome. Kings of Convenience.<br />
Ovvero saper guardare furbescamente a Simon &<br />
Garfunkel, fotografarsi slavati sixties style, apparire<br />
sempre in coppia. Aggiungi qualche color pastello<br />
e qualche atmosfera fumè, l’aria distaccata di chi<br />
sa far parlare di sé entrando di diritto nel magma<br />
pop, magari con qualche esotismo nerdy che ricorda<br />
la canzone d’autore ed è fatta, specie se la metà<br />
della coppia di Bergen è il citato Øye, uno che da<br />
solo si è consacrato ‘The Voice’ in fatto di singing<br />
disco pop, salvo ora ritrovare una sua dimensione<br />
suonata con Whitest Boy Alive. Sempre nerd ma<br />
indie soul appalla.<br />
E poi, continuando la passerella, ancora gli Air e gli<br />
esperimenti di eccellenza di Darkel. La francesità<br />
che non è solo confinata al touch da ballare, ma che<br />
sforna icone che stanno in piedi da sole sul palco.<br />
Gente che fa (la) scena. Giacca e occhiali uberchic<br />
che si fanno chiamare Sebastien Tellier. Le sue<br />
rimembranze che pescano (ancora) dall’immaginario<br />
gainsbourghiano ma alle quali s’aggiungono<br />
glitch e tastiere, una tradizione vieppiù rivisitata di<br />
macchine e cuori che chiamale se vuoi emo perché<br />
parliamo di una combriccola eterogenea di personaggi<br />
che puntano altezza petto e vivono senza<br />
troppi bassi, senza il fumo dei tombini NYC. E sono<br />
gli artisti più posh di tutta la ciurmaglia soul d’oltreoceano,<br />
prescindono dalla street culture e amano<br />
lo studio di registrazione. A molti piace questo<br />
atteggiamento snob. Un po’ retrò, un po’ cool che<br />
appunto ‘fa fico’, sicuro di accaparrarsi la copertina<br />
o la prossima passerella di turno. A parte Wolf e<br />
18 / Tune In Tune In / 19
Øye, vecchi artisticamente ma non di passaporto,<br />
l’età anagrafica va sotto il ’76 e, a guardar bene, di<br />
nuovi adepti non ce ne sono poi molti.<br />
Fino a ieri. Oggi infatti giriamo tra le dita la confezione<br />
cd di nuovo ragazzo dal cuore d’oro. Jeremy<br />
Shaw in arte Circlesquare.<br />
Qua d r a r e il ce r c h i o<br />
È la !K7 del benemerito Herbert a portare sulla<br />
bocca di tutti questo ragazzo canadese. L’etichetta<br />
berlinese torna sulle orme del mid-tempo e ci fa<br />
ricordare in un deja vu estraniante le mitiche Sessions<br />
di Kruder & Dorfmeister. Paragonare il nuovo<br />
pupillo ai due DJ non è esagerato. Anche loro<br />
ci davano di elettronica e di digitale, ma sapevano<br />
distillare l’essenza che punta allo stile direttamente<br />
dalle menti dei remixatori. Quelle tracce che trasudavano<br />
un calore mai provato e che stavano bene<br />
nei salotti dei parties più patinati.<br />
Dopo quasi 10 anni, lasciamo da parte il piatto e ci<br />
andiamo di analogico. Si torna in studio ma si suona<br />
e si canta. Perché Jeremy non fa il solito disco<br />
impostato sul 4. Jeremy ci fa respirare con vocalizzi<br />
fluidi, senza salti, una melodia cullante e piena di<br />
riferimenti dark-gothic in stile Close To Me. I Cure<br />
pop delle basi synth lanciate all’immortalità.<br />
Lui arriva dal Canada e si racconta al telefono dalla<br />
capitale tedesca. “ho vissuto a Vancouver per quasi<br />
tutta la mia vita dove era molto difficile per la mia band<br />
andare in tour. A Berlino ho avuto piena libertà d’azione”.<br />
E infatti, in Europa, si tuffa mani e braccia in un<br />
ricordo post Modest Mouse filtrato con l’electro.<br />
Di fatto un ripristino degli strumenti in chiave minimal<br />
ma con radici non proprio indie. “La mia è<br />
una minimal con elementi acustici, ma penso che l’influenza<br />
maggiore provenga dalla musica folk. Gente come Leonard<br />
Cohen, più che gruppi indie. Forse qualcosa di minimal<br />
techno e di drum’n’bass, ma il riferimento principale<br />
è sempre Cohen. Più folk che elettronica”. E la trama si<br />
infittisce: Shaw viaggia infatti attraverso i territori<br />
più disparati, elettronica e mesh innestati nella<br />
post-minimal. Un cuore che pulsa dark-folk e tutto<br />
ciò si riflette nella produzione di Songs About<br />
Dancing And Drugs (SA N°50), un album nato<br />
dalla collaborazione triennale con Colin Stewart.<br />
“Lui ha uno studio a Vancouver (The Hive). Ha lavorato<br />
con i Black Mountains, i New Pornographers e altre<br />
band valide. Visto che volevo usare molti suoni di batteria e<br />
di chitarra registrati dal vivo nel mio ultimo album, lavorare<br />
con lui è stata la scelta più ovvia. Lo conosco perché ho un<br />
amico che stava in una band negli anni 90 (i Beans, una<br />
band post-rock) a Vancouver. Loro registravano sempre in<br />
quello studio, così l’ho incontrato”.<br />
Acustico barra elettro sembrano essere il marchio<br />
di fabbrica delle produzioni Circlesquare. Già in<br />
Pre-Earthquake Anthem (Output Recordings,<br />
2003) senza troppo clamore aveva mescolato Badalamenti<br />
e Joy Division, eppure nel lavoro a sorprendere<br />
è la semplicità e la freschezza.<br />
“Non so se sono più minimal o acustico. Dipende dal giorno<br />
della settimana [ride]. Ascolto sicuramente più rock’n’roll.<br />
Se dovessi fare la top ten dei dischi di sempre, penso ci metterei<br />
solo un album di elettronica pura. Ma penso che dal<br />
punto di vista estetico, visto che lavoro molto con tools elettronici,<br />
sono più orientato verso l’electro. Non so, in fondo<br />
quello che mi piace sono le belle canzoni”. L’ago della<br />
bilancia, insomma. Tanto per capire cosa ha in testa<br />
ci dice che ultimamente sta ascoltando molto<br />
“i Deerhunter, Conrad Black e dei remix di Patrick<br />
Wolf ”. Un bel miscuglio di electro mutante<br />
ma sempre con le canzoni là a farla da padrone.<br />
Si torna a cantare gli diciamo e lui risponde sicuro<br />
sul fatto che corsi e riscorsi tra disco e non disco<br />
dell’elettronica cantata sono normali. Del resto<br />
le pietre miliari restano i grandi gruppi. “Sono un<br />
grande fan dei Depeche Mode. E penso di avere una strategia<br />
simile agli Apparat o B. Fleischmann. In poche parole<br />
usare lo sile techno nella musica pop”.<br />
Avremo modo di vederlo anche in Italia (sarà probabilmente<br />
da supporto ai Junior Boys) e di sentirlo<br />
in un prossimo remix per Matthew Johnson e<br />
Patrick Wolf a cui sta lavorando.<br />
Insomma, da quanto abbiamo capito questo SADAD<br />
è uno dei punti di svolta per la Berlino minimal. Basta<br />
con le tastierine. Torniamo a quei cari e vecchi<br />
amplificatori analogici e rilassiamoci. La lampada<br />
in copertina ci ricorda il modo di aspirare la metanfetamina,<br />
che appunto molti ragazzi americani inalano<br />
usando pezzi di lampada rotta. Un ritorno al<br />
sintetico da camera. Per il nuovo sballo ritorniamo<br />
tutti a sognare sul materasso. Songs… è la miccia che<br />
scatenerà la rivoluzione. Ne siamo sicuri. Segnatevi<br />
l’appuntamento al Fabric, il 24 gennaio.<br />
20 / Tune In Tune In / 21
mi m e s of Wi n e<br />
im m a g i n i in m o v i m e n t o<br />
- Stefano Solventi<br />
Il pianoforte e la voce di Laura Loriga tornano a casa portando in testa e nel cuore immagini di altri tempi e altri spazi.<br />
La California, Parigi, Bologna: un triangolo tanto improbabile quanto plausibile oggi che nulla è incolmabile, che tutto è<br />
mobile, in ogni direzione/dimensione. Una sfida difficile ed esaltante per chiunque abbia voglia di catturare queste immagini<br />
in movimento.<br />
Un fantasma si aggira nell’occidente globalizzato,<br />
atomizzato, apolide. E’ un’inquietudine<br />
febbrile, è un andare avanti comunque anche se di<br />
colpo non riesci a vedere la strada, è un voltarsi che<br />
spedisce i rimpianti e le angosce in un futuro che<br />
sai irrinunciabile. Irreversibile. Forme e movenze<br />
antiche imbastiscono teatrini di sconcertante modernità.<br />
Di cui senti l’urgenza ora e qui. Lo hanno<br />
chiamato pre-war folk, ma è un’etichetta che<br />
si è presto rivelata angusta rispetto alla ricchezza<br />
espressiva di una Joanna Newsom, dell’immancabile<br />
Devendra Banhart, delle ineffabili Cocorosie<br />
e persino di una PJ Harvey inaspettatamente<br />
– ma emblematicamente - gothic.<br />
Pensavo questo ascoltando l’ep d’esordio dei <strong>Mimes</strong><br />
<strong>Of</strong> <strong>Wine</strong>, moniker dietro cui agisce Laura Loriga,<br />
pianista e cantante, nata a Bologna (dove ha<br />
fatto parte dei post-rockers Lanark) ma con base<br />
anche a Parigi e in California (dove ha dato vita al<br />
trio elettroacustico While They Sleep..).<br />
Impressiona la forza e la complessità ammaliante<br />
dei pezzi, di cui lei stessa è autrice. Il piano e la<br />
voce si dannano in un’interpretazione senza sconti,<br />
strattonati tra allucinazioni folk-blues da camera,<br />
perniciose fatamorgane post-jazz, in un frullare<br />
di percussioni e ottoni, tra imprendibili folate elettroniche,<br />
nell’andirivieni di corde che ghignano e<br />
carezzano. Un sound notevole, sviluppato dall’incontro<br />
con Enzo Cimino dei Mariposa e Adriano<br />
Modica (un altro di cui varrebbe la pena parlare),<br />
quindi con Francesco Begnoni e Zeus<br />
Ferrari, già Juniper Band e You Should Play<br />
In A Band. Soprattutto, c’è la sensazione di qualcosa<br />
che sta ancora crescendo, in bilico tra antico<br />
insopprimibile e futuro prossimo. Non potevamo<br />
lasciarci sfuggire l’occasione di intervistarla.<br />
<strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong> è un modo per nasconder-<br />
ti dietro ad un progetto o unprogetto da<br />
perseguire oltre al tuo essere musicista e<br />
cantante?<br />
Una cosa ha portato all’altra. Nascondermi dietro<br />
ad un nome che non è il mio ha forse messo<br />
la musica un po’ in primo piano rispetto alla mia<br />
persona, e questo mi ha aiutato perché volevo che<br />
chi avrebbe fatto parte di <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong> con me<br />
si potesse sentire libero di giocare con forme ed<br />
elementi quanto me. “<strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong>, apocalypse sets<br />
in..” sono i primi due versi di una poesia scritta da<br />
un mio amico, Amir, e ancora adesso mi piacciono<br />
ogni volta che li penso.<br />
Francesco e Zeus della Juniper Band sono<br />
oggi con te nei M.O.W., in passato hai lavorato<br />
con Enzo Cimino dei Mariposa e<br />
Adriano Modica: tutta gente in cerca di<br />
sonorità desuete però non estreme, selvatiche<br />
ma ad altezza d’uomo, tra frugale e<br />
sperimentale. Quanto sono stati difficili, e<br />
perciò preziosi, questi incontri?<br />
Tutti questi sono stati e sono ancora incontri preziosi.<br />
Per quanto diversi possano essere l’approccio<br />
di Francesco e Zeus da quello di Enzo o Adriano,<br />
tutti loro sono stati disposti ad ascoltare molto fin<br />
dal principio, e a venirmi incontro ognuno a modo<br />
suo moderando a volte le mie scelte, e a volte rendendole<br />
meno consuete. Con Enzo ed Adriano ho<br />
cominciato ad apprezzare il suono di ogni singolo<br />
campanellino, corda, respiro, rumore, e a mettere<br />
insieme le cose partendo da elementi piccoli, a<br />
volte a malapena udibili. Questa parte mi ha appassionato<br />
molto, infatti anche ora quando compongo<br />
da sola utilizzo lo stesso metodo.<br />
Con Francesco e Zeus invece ho imparato come si<br />
possono creare delle atmosfere che accompagnino<br />
ogni pezzo dall’inizio alla fine, come creare soli-<br />
22 / Tune In Tune In / 23
dità, e come sentire strati di suoni diversi influenzarsi<br />
a vicenda e impregnarsi l’uno dell’altro come<br />
spugne una sull’altra. Non ci sono state grandi<br />
difficoltà in nessuna di queste circostanze, forse<br />
perchè abbiamo sempre cercato subito un punto<br />
di comunicazione da cui partire. Il fatto che tutti<br />
questi musicisti siano sempre pronti a cercare il<br />
suono giusto per ogni particolare, avendo anche<br />
cura del significato che questi possono assumere<br />
a livello di ascolto immediato, credo abbia aiutato<br />
nella creazione di zone d’intersezione con il lavoro<br />
che io avevo fatto da sola.<br />
Credo ci sia ancora molto da poter fare con ognuno<br />
di loro, in un futuro più o meno prossimo..<br />
Hai vissuto a Parigi, a Santa Barbara in<br />
California, a Bologna. Che conseguenze ci<br />
sono sulle tue coordinate artistiche?<br />
In California ho incontrato musicisti che sono anche<br />
ora molto importanti per me a fianco di quelli<br />
italiani, e che mi supportano anche quando sono<br />
qui. Se ho imparato un po’ a stare su un palco, a<br />
trasmettere tutto il possibile, a farlo con semplicità<br />
e poca paura lo devo a questo strano paese, a San<br />
Francisco e Los Angeles, che negli ultimi due anni<br />
mi ha fatto impazzire dandomi però tantissimo. L’<br />
ottimismo, la creatività, e l’apertura dei musicisti<br />
che ho ascoltato e conosciuto hanno influenzato<br />
ogni cosa che ho scritto, e buona parte dell’album<br />
è stato pensato lì.<br />
A Parigi ho fatto molti meno concerti ma ho camminato<br />
molto. Mi veniva voglia di fermarmi e<br />
scrivere tutto il tempo, pensando a tutti quelli che<br />
sono passati per quelle strade prima di me. Infine<br />
ho portato via con me un pochino di swing... Bologna<br />
è casa, e credo che in fondo parta tutto da qui,<br />
dalla decisione di comporre cose mie, fino al tipo<br />
di sonorità che finora ho scelto. Non ho raggiunto<br />
una grande saggezza, però ho cominciato a pensare<br />
che forse la musica davvero può non avere territorio<br />
e che può diventare davvero quello che si<br />
vuole, almeno in parte.<br />
Nel tempo mi è venuta la voglia di scrivere mille<br />
cose vicine a generi, posti e persone diverse, e <strong>Mimes</strong><br />
of <strong>Wine</strong> è il risultato della combinazione di<br />
alcuni di questi tentativi.<br />
Le canzoni del tuo ep mettono il dito nella<br />
piaga tra avanguardia e tradizione, con<br />
tutto quel che sta nel mezzo. C’è margine<br />
di manovra per sentirsi popular? Ovvero:<br />
quando fai musica ti rivolgi al più vasto<br />
auditorio possibile o ti senti destinata ad<br />
un pubblico di nicchia?<br />
Spero che questa piaga non sia così dolorosa, e che<br />
ci sia molto spazio tra questi due estremi per me<br />
come per molti altri. Non riesco a immaginare un<br />
pubblico di nicchia, forse perché non saprei bene<br />
con che criteri definirlo. Mi piace pensare che ci<br />
sia ancora voglia di ascoltare (anche perché questo<br />
mi da molta più voglia di scrivere e di fare del mio<br />
meglio) e ho fiducia nelle orecchie altrui, come<br />
credo ne abbiamo avuta tutti i musicisti che ammiro<br />
di più, cercando di creare la musica che volevano<br />
sentire.<br />
Tra le Newsom e le Hyvonen, lanci evidenti<br />
allusioni alle performance saturnine della<br />
Galas e della prima Harvey. Poi c’è quella<br />
fregola jazz venata bossa che ammicca al<br />
post moderno di una Cibelle. Cosa ho azzeccato?<br />
Cosa ho colpevolmente lasciato<br />
fuori?<br />
Vedo anche io alcune di queste somiglianze che<br />
perciò mi sembrano azzeccate, però la maggior<br />
parte delle mie allusioni sono tuttora inconsapevoli.<br />
Di alcune mi sono accorta dopo aver scritto,<br />
su altre mi stai facendo riflettere ora tu... Mi<br />
sono riseduta al piano dopo anni passati piuttosto<br />
lontano da strumenti acustici e voci femminili (PJ<br />
Harvey è una delle eccezioni, con Kim Gordon,<br />
Patti Smith, Kazu Makino), e ho cercato di rielaborare<br />
i suoni e i ritmi a me familiari con piano<br />
e voce, usando soprattutto la seconda nel modo<br />
più naturale possibile.<br />
Anche ora se invento una linea di basso mi capita<br />
di pensare più che altro ai Morphine o ai June<br />
of ’ 44. Da allora però, continuando a cercare,<br />
trovando di più, e ascoltando in particolare Nico,<br />
Nina Simone, Mary Timony, Lotte Lenya,<br />
Vashti Bunyan, Meredith Monk, e ancora PJ<br />
Harvey (White Chalk mi piace molto e lo sento<br />
effettivamente vicino a me) la mia prospettiva si è<br />
arricchita. Di Diamanda Galas ammiro molto<br />
la forza sia sonora che di presenza e la capacità<br />
di trasmettere, di Cibelle l’inventiva e la capacità<br />
di incollare insieme mille cose diverse con totale<br />
naturalezza.<br />
L’immediato futuro sarà targato M.O.W. o<br />
ci sono altri progetti in cantiere?<br />
Come prima cosa vorrei portare <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong><br />
in giro dal vivo il più possibile, e portare avanti il<br />
materiale che sto scrivendo ora e che mi piacerebbe<br />
presentare. Da poco mi è stato proposto come<br />
“side project” di scrivere piccole colonne sonore<br />
a quattro mani per cortometraggi e piccole compagnie<br />
di danza. Sono curiosa di vedere che cosa<br />
può venire fuori lavorando a contatto con altri e<br />
con le loro parole, gesti e luci, con immagini in<br />
movimento.<br />
24 / Tune In Tune In / 25
Nuovi<br />
Corrieri<br />
CosmiCi<br />
Non è la prima volta che la Grande Musica Cosmica diventa oggetto di revival. Oggi ci sono però differenze sostanziali.<br />
Quei suoni, quelle tecniche, quelle atmosfere risuonano nei dischi degli ultimi mesi senza che necessariamente si tratti<br />
di tributi. È diventato uno stilema, un linguaggio trasversale, come tutto il krautrock. Non si tratta di rielaborazioni<br />
del prototipo Irrlicht; ecco a voi i Nuovi Corrieri Cosmici che parlano come quelli di ieri.<br />
- Gaspare Caliri, Antonello Comunale, Stefano Pifferi; con contributi di Gianni Avella<br />
Kr a u t r o c K -re s a M p l e r<br />
Cos’è il krautrock? È la musica tedesca dei<br />
primi anni Settanta. Definizione pacifica,<br />
palese, paleontologica, parziale. Eppure<br />
la sua diffusione non ha una storia limitata a quegli<br />
anni. Il suo modus operandi, anzi, come vedre-<br />
mo, i suoi due modi principali di fare musica, si<br />
sono raddensati attorno a certa musica degli anni<br />
Novanta, da un lato nel post rock che lo ha rivalutato<br />
esplicitamente, dall’altro negli usi e nelle strumentazioni<br />
dell’ondata elettronica che fece capo<br />
al suono Warp.<br />
Di fatto conosciamo le prime vicende del genere<br />
anche grazie ad alcuni contributi ad hoc, come<br />
il sempre citato Krautrocksampler di Julian<br />
Cope, che da giovane, come si legge nel libro, era<br />
un “avvertito”, uno di quegli eletti – neanche troppo<br />
pochi, in realtà – che in Inghilterra, nel passaggio<br />
tra Sessanta e Settanta, seguivano la scena<br />
di quello strano rock tedesco che non tutti reggevano,<br />
a fianco del quale solo alcuni riuscivano a<br />
stare, senza annoiarsi o cercare il calore dei suoni<br />
tradizionalmente blu.<br />
In realtà il krautrock ebbe in Inghilterra una diffusione<br />
nient’affatto limitata, selezionò cioè parecchi<br />
“avvertiti” – spesso adolescenti - che compravano<br />
le nuove uscite Polydor a scatola chiusa; successe<br />
persino che alcuni dischi – i Faust siano da<br />
esempio – uscirono prima in Inghilterra e poi in<br />
Germania, cioè prima in quel paese che era diventato<br />
il “mercato” principale e poi nella “madrepatria”.<br />
Questo per dire che il rapporto tra apertura<br />
e chiusura nella diffusione del krautrock – dentro<br />
e fuori il territorio tedesco - ha una storia lunga;<br />
anzi, ha una storia che inizia assieme a quella stessa<br />
del krautrock, e che forse dovremmo abituarci a<br />
considerare sovrapponibili.<br />
Se volessimo proprio mettere una conclusione parziale<br />
di quella liaison anglo-tedesca citeremmo con<br />
rapidissima sicumera la vicenda dei This Heat,<br />
che importarono ad Albione il krautrock più industriale,<br />
macchinino e meccanico, e finirono per<br />
essere a tutti gli effetti dei krautrocker, anni dopo<br />
le prime note della kosmische, nonostante la mancata<br />
provenienza tedesca. Tutti appena sentono il<br />
loro nome pensano al kraurock. Abbiamo con loro<br />
il primo esempio forse dell’inesattezza dell’equivalenza<br />
kraut uguale Germania. E però a dirla tutta<br />
tale fatto non è neanche particolarmente rilevante<br />
26 / Drop Out Drop Out / 27
o interessante.<br />
Il sampler krautrock di Cope è in realtà la narrazione<br />
dell’avvicinamento alla musica tedesca, cosa<br />
che poi si è riflessa nella stessa produzione dell’exleader<br />
dei Teardrop Explodes, non a caso proprio<br />
negli anni Novanta. L’articolo che state iniziando<br />
a leggere parla invece di una bolla musicale - negli<br />
ultimi mesi sempre più presente e tangibile - che<br />
è innegabilmente legata al krautrock di inizio Settanta.<br />
Vale come sempre la nostra prova del nove:<br />
quante volte è comparso negli ultimi mesi il termine<br />
“kraut” nelle recensioni e nelle riflessioni di<br />
SA? Tante. È allora la quantità di occorrenze del<br />
genere ad averci messo sotto gli occhi la necessità<br />
di un approfondimento; ma non solo. È la crescita,<br />
i cui primi passi sono datati a più di due anni fa, di<br />
una lettura critica che ci ha fatto pensare al “revival”<br />
krautrock odierno come qualcosa di diverso<br />
rispetto agli atteggiamenti del decennio precedente.<br />
Per capire la bolla di quello che oggi finisce nella<br />
casella “krautrock” siamo dovuti tornare indietro<br />
perché sembra quasi che le evoluzioni – a partire dal<br />
krautrock – che hanno avuto corso nei ’90 siano state<br />
quasi rimosse nella memoria storica del novello<br />
“avvertito” del 2008. Ovviamente non può essere<br />
del tutto così; ecco la ragione di un approfondimento<br />
che tocca sì le origini, ma soprattutto gli<br />
esempi concreti della Musica Cosmica datata fine<br />
Duemila; le ricognizioni spaziali di Emeralds,<br />
Cloudland Canyon e Be Invisible Now!,<br />
nonché le gesta dei californiani di Frisco The Arp<br />
e Jonas Reinhardt, ci hanno aiutato a nutrire le<br />
nostre argomentazioni di dischi da ascoltare; con<br />
la parabola e con la discografia (nutritissima) di<br />
<strong>Expo</strong> ’70 abbiamo poi sviscerato, discutendo con<br />
il diretto interessato, il rapporto con quella musica<br />
molto ben localizzabile di quasi quattro decenni<br />
fa. [g.c.]<br />
pa s s a g g i di s c a l a<br />
Quando si parla di krautrock si intendono certamente<br />
almeno due cose, secondo una tradizionale<br />
divaricazione critica. Da una parte si parla di<br />
quell’atteggiamento “macchinico”, percussivo<br />
che prese corpo a partire dalla produzione dei<br />
Neu! e per certi versi dei Faust, e proseguita,<br />
come si diceva sopra, senza ombra di dubbio geografico,<br />
dai britannici This Heat. Parliamo naturalmente<br />
del “motorik” di Michael Rother e<br />
Klaus Dinger, e qui citiamo ancora Julian Cope,<br />
che nel suo libro confessa che il momento in cui<br />
più di ogni altra circostanza ebbe la sensazione<br />
netta di ascoltare qualcosa di semplicemente<br />
nuovo, sconvolgente, rivoluzionario nel suo essere<br />
freschissima “acqua calda” del rock, fu quando,<br />
nel 1972, il suo giradischi riprodusse per la<br />
prima volta Hallogallo, cavalcata motoristica per<br />
eccellenza e primo brano di Neu!.<br />
D’altra parte di krautrock si parla anche quando<br />
si accenna a quella musica stellare che venne<br />
immediatamente ribattezzata con l’appellativo<br />
di Kosmische Musik; la fascinazione degli astri<br />
non era novità squisitamente appannaggio delle<br />
fredde menti tedesche di quegli anni; il probabile<br />
vero esordio in ambito “rock” fu il gioco dei pianeti<br />
di quella Astronomy Dominé di The Piper At<br />
The Gates <strong>Of</strong> Dawn; e però non è un caso che<br />
il sottotitolo di Krautrocksampler, per rifarcisi<br />
per l’ultima volta, si appellava alla volontà di fare<br />
da guida alla “Grande Musica Cosmica”. In effetti<br />
dopo le vicende tedesche di fine Sessanta-inizio<br />
Settanta a quell’espressione si associano immancabilmente<br />
alcuni stilemi, alcune tecniche musicali,<br />
alcune atmosfere propri degli iniziatori krauti, soprattutto<br />
il Klaus Schulze di Irrlicht, i Tangerine<br />
Dream, i Popol Vuh, gli Amon Duul II.<br />
Questi ultimi furono particolarmente esemplari<br />
per il fatto che espressero musicalmente il prodotto<br />
di un’aggregazione quasi da comune hippie, e che<br />
veicolarono in un certo senso la reazione politica<br />
attraverso la colonna sonora dei pianeti.<br />
È una chiave di lettura forse grossolana, ma sociologicamente<br />
sottolineata a più riprese; e, soprattutto,<br />
ci mette di fronte a una fondamentale<br />
differenza tra quel krautrock e tutti momenti in<br />
cui si ebbe a parlare, successivamente, del gene-<br />
popol vuh 1972<br />
re. Pensiamo al post-rock, alla sua concentrazione<br />
sulla struttura musicale e sulla capacità che ebbe,<br />
a partire da presupposti squisitamente musicali, di<br />
far tornare in auge i corrieri cosmici – e tutto il<br />
krautrock. Pensiamo però anche alla disinvoltura -<br />
anche questa tutta Novanta – con cui i pionieri di<br />
quello che sarebbe diventato il suono Warp ripreso<br />
strumenti analogici e vintage propri del krautrock<br />
cosmico per una rielaborazione attaccata da più lati,<br />
tattica, della musica cosmica. Con gli inizi Warp<br />
abbiamo assistito a qualcosa di nuovo; ma come<br />
per il post rock vi si arrivava attraverso una ripresa,<br />
una riflessione su quel passato; niente filologia,<br />
questo no, ma un ragionamento tecnologico.<br />
I Nuovi Corrieri Cosmici, ci pare di poter dire,<br />
hanno un atteggiamento diverso, che viene appresso<br />
a un cambiamento di statuto del kraut. Oggi<br />
come dicevamo il krautrock è stabilizzato in un<br />
.linguaggio, che si è isolato dai precedenti tentativi<br />
di ripristino creativo. Un formato quasi autonomo.<br />
Un insieme di stilemi che vanno ad affiancarsi con<br />
quelli dei Sessanta e Settanta anglosassoni, per cui<br />
oggi si fa blues-rock senza necessariamente mettere<br />
in discussione la distanza dalle fonti.<br />
Veniamo a oggi, anzi a pochi giorni fa. Siamo a<br />
Netmage, festival bolognese di “arti elettroniche”,<br />
rumorista e dronico per eccellenza. Ascoltiamo<br />
nella giornata di giovedì, la prima del festival, il<br />
live degli statunitensi Pete Swanson, John Wiese,<br />
Liz Harris. Noise a cui siamo sempre più abituati,<br />
fin troppo piatto nella sua capacità di far vibrare<br />
pericolosamente i timpani. Subito dopo assistiamo<br />
alla performance degli Emeralds, e lì la pulce<br />
nell’orecchio si sfoga. Una presa di peso di Schulze<br />
e dei Tangerine Dream, fino a Cluster e ai<br />
Popol Vuh. John Eliott, Steve Hauschildt, Mark<br />
McGuire suonano con una chitarra in secondissima<br />
linea, arpeggiata e astrale, ma soprattutto con<br />
un miniMoog, e portano nel tempio dell’elettronica<br />
sposata all’arte visual quel linguaggio una volta<br />
prodotto dalle comuni tedesche.<br />
La kosmische musik è insomma entrata persino<br />
nell’arte contemporanea, nella sofisticazione dei<br />
28 / Drop Out Drop Out / 29
droni e delle ultime linee tracciate dall’esercito ambientale,<br />
che a volte vanno allo spazio effettuando<br />
un passaggio di scala, descrivendoci come il vuoto<br />
di una stanza sia omotetico, come in un frattale,<br />
a quello dello spazio. In questo contesto, il nuovo<br />
krautrock dei circuiti dell’elettronica contemporanea<br />
si scarta da alcune associazioni assodate per<br />
tornare al passato del sogno al mandarino.<br />
La musica astrale è infatti diventata quasi un gioco,<br />
un lavoro sull’opinione collettiva dello spazio e<br />
dei suoi suoni, sui pregiudizi musicali fantascientifici<br />
che lega a determinati effetti sonori la rotazione<br />
dei pianeti; si legga a tal proposito – altrove su<br />
questo stesso numero di SA - l’epopea di Rafael<br />
Toral, portatore esplicito di “spazitudine” estetizzata<br />
– in un gioco al rialzo rispetto allo sci-fi. Ci<br />
sono aziende, come la ditta americana “Yuzoz”,<br />
che hanno registrato per anni i suoni dello spazio<br />
dai loro satelliti che esse possiedono; altri siti<br />
web dove è possibile scaricare tracce audio di una<br />
gigante rossa; spazi virtuali che non fanno che alimentare<br />
il comune senso di curiosità e la catacresi<br />
della metafora sonica del viaggio cosmico e delle<br />
relative tecniche di reporting immaginario del fischio<br />
dell’astro.<br />
I corrieri cosmici producevano invece un senso musicale<br />
che toccava direttamente l’umano, nella fuga<br />
da esso. Come esempio classico, citiamo il solito<br />
Schulze, la cui musica veniva associata agli umori<br />
di Wagner, di quella magnificenza celebrale.<br />
EMEralds<br />
Torniamo allora a capire gli ancoraggi effettivi coi<br />
maestri. Ci concentreremo poi a leggere la parabola<br />
di una band che oggi indaga quei rapporti<br />
che le comuni tedesche sperimentavano. Hanno<br />
il nome dell’esposizione universale che avuto luogo<br />
a Osaka nel 1970. Era periodo di architetture<br />
megastrutturali, di spazi apertissimi, di progetti di<br />
scala enorme. Ma qui – anche grazie agli <strong>Expo</strong><br />
’70 - ci occupiamo di una scala ancora più ampia,<br />
evidentemente.<br />
Del viaggiare verso lo spazio alla ricerca degli effetti<br />
sul terreno. Della geografia della musica cosmica.<br />
A partire dal caposaldo che fece da discrimine tra<br />
un prima e un dopo, magnifica asserzione da e per<br />
la musica tedesca al passaggio di decennio ’60-’70,<br />
al passaggio definitivo tra lo sballo (alla Agitation<br />
Free) e la pesantissima levitazione verso lassù, a<br />
sud di Irrlicht. [g.c.]<br />
il Mo n d o a su d di ir r l i c h t<br />
C’è una grande differenza tra guardare il mondo<br />
in cui viviamo, sia pure con occhi trasognati e alterati,<br />
e agognare le stelle che ci sovrastano. Il mood<br />
per forza di cose si tinge di liturgico e l’esperienza<br />
non può che tradursi in un romanticismo dalle<br />
tinte apocalittiche. Klaus Schulze lo sapeva bene.<br />
Non si inventa la musica cosmica di Irrlicht semplicemente<br />
svegliandosi un giorno, come illuminati<br />
sulla via per Antares. Basta ascoltare i primi dischi<br />
dei Tangerine Dream e confrontarli con quelli più<br />
tardi e “schulziani”<br />
come Alpha Centauri<br />
e Zeit. Irrlicht<br />
potrebbe essere<br />
preso come un metodico<br />
sistema per misurare<br />
la distanza tra<br />
l’uomo e le stelle. Il<br />
metro di questo intervallo<br />
tradotto nelle folate<br />
d’organo di questa<br />
“Quadrophonische<br />
Symphonie für Orchester<br />
und E-Maschinen”. D’altronde ridurre l’intera esperienza<br />
e genesi della musica cosmica tedesca alla<br />
sola figura di Schulze sarebbe riduttivo. Ci dimenticheremmo<br />
di compagni di viaggio fondamentali<br />
come Manuel Göttsching, Sergius Golowin o<br />
Walter Wegmüller. Ma qui non si vuol tracciare<br />
un profilo storico di un periodo musicale o costruire<br />
un albero genealogico di una comune visione.<br />
Come sempre più spesso siamo condannati a fare,<br />
guardiamo al passato per tradurre il presente, ed<br />
è in questo senso che possiamo fermarci a parlare<br />
di musiche così attuali e al tempo stesso così tradizionali<br />
come quelle dei nuovissimi corrieri cosmici<br />
dei giorni nostri. Sul finire della prima decade del<br />
nuovo millennio quasi tutti quelli che decidono di<br />
trafficare con drones e moods dell’estasi cosmica<br />
tedesca vivono una sorta di dopo sbornia da post<br />
rock. Il suono dei questi anni si rivela così assai più<br />
integralista della commistione di generi e sottogeneri<br />
che infuriava negli anni ’90. Quello che contributi<br />
a codificare il marchio Kranky, depurato<br />
dei suoi elementi eterogenei e ridotto all’osso della<br />
tradizione. Un percorso in qualche modo simile a<br />
quanto accaduto in ambito folk con il ricorso alle<br />
radici più tarde e vere del pre-war.<br />
La musica cosmica dei primi anni del nuovo millennio<br />
si allinea alle coordinate stellari dei maestri<br />
di sempre. Stabilisce ponti e fusioni tra Tangerine<br />
Dream e Ash Ra Tempel, con la stella polare<br />
di Irrlicht a condurre il viaggio. E’ questo il<br />
caso degli Emeralds, tra i migliori esemplari del<br />
nuovo corso. Trio proveniente da Cleveland, Ohio,<br />
costituito da Mark McGuire, John Elliott e Steve<br />
Hauschildt. I documenti migliori del trio prendono<br />
il nome di Allegory <strong>Of</strong> Allergies e Solar<br />
Bridge. La loro è una sintesi illuminata dell’estasi<br />
cosmica tedesca. Le chitarre liquide e oniriche di<br />
Göttsching riprendono vita in brani sostenuti sulle<br />
nuvole come Nereus (Spirit Over The Lake), Lawn <strong>Of</strong><br />
Mirrors, Snores. Il trio è poi abile a traghettare queste<br />
corde liquide e oniriche nei gorghi a base di synth<br />
e organo di tradizione schulziana che costituiscono<br />
il loro trademark. Gli Emeralds non ci pro-<br />
josEph raglani<br />
vano neppure a trovare nuovi modi di coniugare<br />
il verbo. Il loro è un modus operandi quanto mai<br />
classico. Fasci e fasci di drones d’organo e synth<br />
inframmezzati da reticoli di chitarra riverberata.<br />
Il loro viaggio è il classico anelito verso l’infinito<br />
fatto con cattedrali costruite tra quasar e supernova.<br />
L’unico aggiornamento che concedono all’aria<br />
dei tempi è un generalizzato sentore d’apocalisse<br />
che adombra la maggior parte dell’anelito mistico<br />
degli corrieri cosmici originali. Quello degli Emeralds<br />
è un ponte costruito verso un sole nero. Meno<br />
dark, ma non meno tortuoso il percorso di un altro<br />
caso eccellente che risponde al nome di Joseph<br />
Raglani. Altro americano, del Midwest, cresciuto<br />
tra college, comic books e krautrock. Come sempre<br />
accade in questi anni, anche Joe è un autar-<br />
30 / Drop Out Drop Out / 31<br />
©jamie bayer
chico self-made-music<br />
e quindi si prodiga<br />
nell’ordinaria amministrazione<br />
di una varia<br />
e disordinata produzione<br />
discografica<br />
a base di microlabel<br />
e formati per feticisti<br />
(cdr, cassette, edizioni<br />
limitate). Per usare le<br />
parole di Brad Rose,<br />
Joe Raglani “segna la<br />
linea di separazione tra la<br />
bellezza e il caos”. Una<br />
definizione altisonante<br />
ma stranamente<br />
centrata e giustifica-<br />
BE invisiBlE now!<br />
ta. Tra i capi d’opera<br />
dell’artista troviamo<br />
infatti cose come Oneism Una cassetta che parte<br />
con un ronzio da synth valvolare e che arriva a<br />
due passi dall’harsh noise. Ma il vero trademark<br />
di Raglani è l’eden scomposto e variopinto di episodi<br />
come Living Room, Web <strong>Of</strong> Light e quell’<br />
<strong>Of</strong> Sirens Born ristampato in fretta e furia dalla<br />
Kranky l’anno scorso. L’attacco di Web <strong>Of</strong> Light<br />
non lascia dubbi. Dice di un autore che prende in<br />
prestito da Cluster e Tangerine Dream e in misura<br />
ancora maggiore da Ash Ra Tempel, e questo<br />
tradotto in soluzioni musicali significa erigere<br />
costruzioni animate da fasci reticolari di note d’organo<br />
e synth. Episodi più caotici e originali come<br />
Bardophasing vanno per altro a flirtare con i riferimenti<br />
quarto mondisti di Hassell, ma come filtrati<br />
attraverso un fitto intrico di riferimenti noise. <strong>Of</strong><br />
Sirens Born si rivela quindi come il disco che fa<br />
maggiore sintesi delle diverse sfaccettature del musicista,<br />
mettendo dentro di tutto. Dalla quieta stasi<br />
onirica di Rivers al caos estetizzante e imperioso di<br />
Washed Astore. Volendo però prendere in esame un<br />
casus belli esemplificativo al massimo della nuova<br />
stagione, anche in virtù dell’umore prettamente<br />
passatista dell’operazione, il duo americano-tede-<br />
sco dei Cloudland Canyon diventa il simbolo<br />
perfetto del nostro discorso. Non che Kip Uhlhorn<br />
e Simon Wojan siano deficitari di un gusto proprio<br />
e di una capacità di rielaborare in modo nuovo la<br />
vecchia grammatica tedesca, ma sta di fatto che<br />
nel corso di due dischi e mezzo (due lp e un ep…)<br />
e di una collaborazione con Lichens, i due abbiano<br />
praticamente inscenato un perfetto revival<br />
kraut, che non da spazi a dubbi o incertezze. Da<br />
qui a titolare quindi il primo brano dell’ultimo disco<br />
partorito su Kranky, Lie In Light, con il titolo<br />
ammiccante di Krautwerk il passo è breve.<br />
È un piccolo duopolio, invece, quello stanziatosi<br />
dalle parti di San Francisco.<br />
Jonas Reinhardt e The Arp – questi noto all’anagrafe<br />
come Alexis Georgopoulos - sono amici di<br />
vecchia data armati di soli synth, e dai loro lavori<br />
si evince una forma mentis oltremodo trance.<br />
Reinhardt in particolare ci sembra quello più<br />
ispirato. Nel debutto omonimo targato Kranky, il<br />
Nostro, che alla maniera dei corrieri cosmici di un<br />
tempo azzera - a suo dire - il gap spazio/epidermico<br />
tra uomo e macchina, sciorina tredici istanze<br />
dove lo spauracchio dei Cluster addomesticati<br />
dalla cura Michael Rother,<br />
Modern By Nature’s Reward,<br />
risolve senza indugi, come<br />
naturale evoluzione della<br />
specie, nelle architetture<br />
a là Harmonia di How To<br />
Adjust People.<br />
Nel mentre, di contro ai<br />
palesi richiami teutonici,<br />
si tagliano rimandi a Wendy<br />
Carlos (la prima parte<br />
di Blue CutawayTore Earth<br />
Clinke) e peculiari appeal<br />
cinematici a piè pari tra<br />
i Goblin di Dawn of the<br />
Dead (Every Terminal Evening)<br />
e il John Carpenter di<br />
Fuga Da New York (Tandem<br />
Suns).<br />
Contrariamente, Alexis<br />
Georgopoulos, dopo la<br />
breve parentesi in seno al<br />
combo punk funk Tussle,<br />
al proprio nome preferisce,<br />
dal 2006, il moniker<br />
thE arp<br />
The Arp.<br />
La first release griffata<br />
Smalltown Supersound In Light gravita, anch’essa,<br />
nell’interregno sito tra Cluster, St Tropez, e Harmonia,<br />
Potentialities, parimenti a digressioni Brian<br />
Eno, The Rising Sun.<br />
Ciò che lascia perplessi è il mancato effetto sorpresa.<br />
Non che sia necessario, ma contrariamente al<br />
dirimpettaio Jonas Reinhardt il canovaccio vive di<br />
pochi scossoni; e alla luce delle palesi qualità tocca<br />
attenderlo fiduciosi al secondo step.<br />
Ma il revival sei suoni cosmici anni ’70 non è soltanto<br />
materiale per geek americani. Anche in Italia<br />
qualcuno sta provando a rispolverare i vecchi suoni,<br />
i vecchi immaginari valvolari, e questo qualcuno<br />
è Be Invisibile Now! al secolo Marco Giotto.<br />
Nel suo primo disco, sorta di concept album<br />
dedicato ai neutrini, Giotto riprende a trafficare<br />
con strumentazioni e soluzioni d’antan. Tastiere<br />
Roland e Korg d’epoca e sintetizzatori valvolari,<br />
per una generale atmosfera retro-futirista anni ’70<br />
che collide in egual misura con Klaus Schulze e<br />
John Carpenter. In brani come Antiparticella e Sarin<br />
il Nostro non fa mistero dei suoi riferimenti arrivando<br />
addirittura ad una sorta di “mimetismo sonoro”,<br />
cercando a tutti i costi di suonare come un<br />
vecchio corriere d’epoca, piuttosto che come un<br />
epigono degli anni 2000. Un approccio a tal punto<br />
simile a quello dell’americano <strong>Expo</strong> ’70, che i due<br />
non hanno potuto fare a meno di incrociarsi e di<br />
condividere uno split ep, uscito l’anno scorso per<br />
Kill Shaman. Musica minacciosa, brumosa, in perenne<br />
stato di ansiosa sospensione. Tutte le liturgie<br />
della nuova epoca hanno in comune un pathos ca-<br />
32 / Drop Out Drop Out / 33
<strong>Expo</strong> ‘70<br />
rico d’angoscia che stride platealmente con l’anelito<br />
mistico e libertario dell’epoca che fu. I padri<br />
hanno lasciato ai figli un mondo in disfacimento<br />
e il testimone viene passato con un anelito sempre<br />
più pronunciato verso la fine di tutte le epoche. I<br />
nuovi corrieri cosmici tendono al nero e al caos.<br />
Questo oggi ci resta di tanta speme… [a.c., g.a.]<br />
un infinito oh M ne r o pe c e<br />
Una discografia sterminata per un uomo solo.<br />
Ma anche e soprattutto una discografia sterminata<br />
per un suono solo. Justin Wright, l’uomo nero<br />
e solo dietro <strong>Expo</strong> ’70, propone da pochi anni e<br />
tantissimi dischi un singolo, unico, ossessivo e dilatato<br />
suono che si perpetua in eterno: quello di<br />
un drone nero-pece di matrice chitarristica, debitore<br />
tanto del minimalismo più astratto quanto del<br />
kraut-rock più lisergico e liquido. Una esperienza<br />
del limite, quella dell’artista di Kansas City; di<br />
quelle in cui l’apparente staticità del suono è simile<br />
a quella dello spazio profondo, in cui l’assenza di<br />
gravità rende i movimenti sospesi, quasi impercettibili,<br />
rallentati al punto da poterne quasi vedere<br />
la scia.<br />
La metafora spacey non è scelta a caso. La musica<br />
targata <strong>Expo</strong> ’70 si inserisce, infatti, nel solco di<br />
altre esperienze, spesso sotterranee, protagoniste<br />
della parziale carrellata offerta da queste pagine<br />
e dedite più che a una infruttuosa e emulativa<br />
riscoperta, ad una sorta di comunione spirituale<br />
con l’ala più libera e droning del kraut dei ’70. C’è<br />
però nelle musiche (nella musica?) di <strong>Expo</strong> ’70 e<br />
nell’uomo dietro questa sigla una coesione forte,<br />
una filosofia verrebbe da dire, che ci impone di<br />
approfondirne l’evoluzione attraverso la discografia<br />
– in gran parte sconosciuta da noi – e con una<br />
breve ma intensa intervista.<br />
Procediamo però con ordine. Rubato il nome alla<br />
prima expo mondiale tenutasi in Giappone (nella<br />
regione di Osaka, tra il marzo e il settembre del<br />
1970, il cui tema era Progresso e armonia per il genere<br />
umano), l’entità <strong>Expo</strong> ‘70 mosse i primi passi quando<br />
Wright era ancora parte integrante del gruppo<br />
losangelino Living Science Foundation (Psychedelic<br />
dub post-rock, nelle parole dello stesso chitarrista).<br />
Sulle prime non un solo-project, ad esser precisi,<br />
ma una collaborazione aperta, dato che della<br />
partita erano anche i due cofondatori della Kill<br />
Shaman: Paul Kneejie, del noise-duo The Pope,<br />
e Bryan Levine di Bipolar Bear. Un paio di cd-r<br />
(lo split con l’altro progetto di Kneejie, SXBRS<br />
del 2003 e il live in studio July 18 2004, entrambi<br />
su Kill Shaman) e, causa lo scioglimento di LSF,<br />
Wright se ne ritorna nel Midwest.<br />
Prende così consistenza l’idea di una musica da<br />
sviluppare in solitaria, anche se nella natia Kansas<br />
City Wright/<strong>Expo</strong> ‘70 inizia a collaborare con lo<br />
spirito affine – si veda la discografia in proprio per<br />
conferme – McKinley Jones a.k.a. Cantus Firmus.<br />
L’ottimo album Surfaces (2005), seppur in<br />
cd-r, è il vero e proprio esordio lungo per la sigla<br />
e non fa che confermare l’affinità tra i due: l’aggiunta<br />
delle folate di synth e degli ambient noise<br />
sounds di McKinley rendono il suono ancor più<br />
space-oriented nel loro sovrapporsi alle dilatazioni<br />
guitar-drone, peculiarità del progetto di Wright<br />
sin dai primi passi. Musica che rimanda da subito<br />
alle suggestioni kraute più liquide ed evanescenti<br />
di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel per le<br />
dilatazioni strumentali che la pervade e per l’afflato<br />
cosmico cui rimanda.<br />
L’album successivo è sempre un cd-r: Exquisite<br />
Lust, impreziosito da una cover soft-lesbo anni<br />
70, sposta radicalmente le sonorità dell’accoppiata<br />
Wright-McKinley verso un approccio più minimalista<br />
– specie nella strumentazione ridotta a<br />
corde, synth ed effettistica varia – che fonde loop<br />
e drones in un magma sonoro evocativo. Link perfetto<br />
tra atmosfere kraute e ambient-music sempre<br />
made in Deutschland, Exquisite Lust è il primo<br />
vero capolavoro di Wright e sembra attualizzare<br />
gli impro-drones di un leggendario gruppo proveniente<br />
da tutt’altri lidi geografici: i giapponesi Taj<br />
Mahal Travellers.<br />
Sciolto il sodalizio con McKinley, è il turno di<br />
34 / Drop Out Drop Out / 35
Centre <strong>Of</strong> The Earth, primo disco che vede<br />
Wright agire in completa solitudine. Le 4 lunghe<br />
tracce che lo compongono – che, tanto per sottolineare<br />
il continuum delle musiche di <strong>Expo</strong> ’70,<br />
iniziano con lo stesso drone montante che apre il<br />
recente e definitivo Black Ohms – sono pervase<br />
da una sensazione di assoluto romitaggio, qualcosa<br />
che rimanda ad un vagabondaggio psichico<br />
che scaturisce dall’atmosfera notturna in cui sono<br />
state composte. Quattro pezzi untitled per una suite<br />
di quasi un’ora di tensione ascensionale simile<br />
ad una marea montante e in cui le stratificazioni<br />
del suono sono apparentemente impercettibili ma<br />
presenti. Le aperture psichedeliche dei 5 minuti<br />
del pezzo conclusivo – Come osservare una tempesta<br />
di fulmini sopra l’oceano, ricorda Wright – fanno da<br />
ideale testa di ponte con i dischi a venire.<br />
Da lì in poi, l’universo sonoro targato <strong>Expo</strong> ’70 si<br />
fa più coeso così come più densa si fa la poetica<br />
visionaria di Wright. Le atmosfere si sbriciolano<br />
in pulviscolo spaziale, i toni si fanno più riflessivi e<br />
cupi, l’andazzo generale si riduce ancora di più intorno<br />
alla ieratica figura dell’uomo in nero e delle<br />
sue chitarre elettriche e acustiche.<br />
I pezzi del cd-r Mystical Amplification, dell’ottimo<br />
esordio in cd ufficiale Animism ma soprattutto<br />
del recente Black Ohms (per l’ossianica<br />
Beta-Lactam Ring) si avvicinano a certo riduzionismo<br />
minimalista ripetitivo alla Riley e traggono<br />
il loro senso più compiuto dalle stratificazioni<br />
dei suoni di una chitarra dilatata, trattata, apparentemente<br />
statica fino a sfiorare l’immobilismo.<br />
Eppure quel suono – ché di un unico suono, un<br />
ohm primordiale e magico, si tratta – è sempre<br />
mobile, mutevole, in un viaggio siderale per certi<br />
versi molto simile a quello dei kosmische kurier da<br />
cui – come vedremo più avanti – trae direttamente<br />
e esplicitamente ispirazione. Musiche ascensionali,<br />
verrebbe da dire, che puntano indistintamente lo<br />
spazio più profondo dell’io e quello dell’universo.<br />
Space is the place; I am the space.<br />
Prima di proporre uno stralcio dalla fluviale conversazione<br />
avuta con Justin, giusto qualche anno-<br />
tazione su altre uscite degne di menzione dalla<br />
ampia discografia <strong>Expo</strong> ‘70. La Audio Archive<br />
series, soprattutto, giunta ora al suo terzo volume,<br />
evidenzia l’aspetto più personale ed intimo<br />
dell’operato di Wright. Sorta di progetto di divulgazione<br />
in divenire della ricerca sonora wrightiana,<br />
la serie, come suggerisce il sottotitolo al primo<br />
volume, Music from Inaudible Depths, rende<br />
appieno l’idea di costante crescita di un suono<br />
che sembra scaturire dal più profondo dell’animo<br />
umano e da lì muoversi verso l’infinito dello spazio<br />
profondo. Non da meno sono alcuni momenti<br />
dalla discografia “minore” – solo per formato e/o<br />
durata – come il cd-r 3” Illusive Landscaping<br />
o l’edizione limitata per un matrimonio di The<br />
Wedding Album, così come gli split con gente<br />
del calibro di Radhunes (il 12” per Kill Shaman),<br />
I Am Sea Monster (7” + cd-r 3” per Small Doses),<br />
il nostro Be Invisibile Now! (in collaborazione<br />
Kill Shaman/Boring Machines) e il 3 Way<br />
Split cd-r con spiriti affini, nonché collaboratori<br />
estemporanei di <strong>Expo</strong> ‘70, Matt Hill e Duane Pitre.<br />
[s.p.]<br />
int e r v i s t a co n ex p o ’70<br />
Mi piacerebbe sapere qual è il tuo rapporto<br />
col fronte più psichedelico del kraut-rock,<br />
I cosiddetti corrieri cosmici…<br />
Tutto è cominciato nei tardi anni 90 quando iniziai<br />
ad ascoltare i Can; suonavo in una band e<br />
stavo cercando di sperimentare con pedali ed effetti.<br />
Ero affascinato dai Can e pochi anni dopo,<br />
quando un amico mi introdusse ad Ash Ra Tempel,<br />
scattò qualcosa tra me e la loro musica. Era<br />
fluttuante e molto più viva delle band rock dei ‘70.<br />
Sembravano rendere vivo lo spirito di Hendrix o<br />
dei Cream, superandone i confini. Più tardi scoprii<br />
Cosmic Jokers e Tangerine Dream. Mi piace il fatto<br />
che queste band abbiano preso il concetto del<br />
free-jazz e incorporato l’elettronica, tanto che credo<br />
Stockhausen e il minimalismo siano stati una<br />
influenza per loro. Ho sempre preferito l’analogico<br />
al digitale e questi gruppi sono stati pionieri di<br />
un certo tipo di musica “elettronica”.<br />
L’amore per la psichedelia viene da Pink Floyd e<br />
Hawkwind, ma è stato l’incontro con un live di<br />
Acid Mothers Temple ad influenzarmi realmente.<br />
Vedere Kawabata Makoto al Knitting Factory di<br />
Los Angeles ai primi del 2000, mi ha costretto a<br />
riflettere ancor di più su quella musica e sulla sua<br />
provenienza.<br />
<strong>Expo</strong> 70 sembra legato agli aspetti improvvisativi<br />
di un’altra grande band: Taj Mahal<br />
Travellers…sappiamo che l’improvvisazione<br />
è il tuo metodo di composizione<br />
preferito…<br />
Inizialmente ho dato vita alla band per suonare<br />
come i Taj Mahal Travellers; li ascoltavo moltissimo<br />
quando July 18, 2004 fu registrato. All’epoca<br />
avevo cominciato ad interessarmi all’improvvisazione<br />
con uno dei membri con cui suonavo allora<br />
e con Paul Kneejie che poi fondò la Kill Shaman.<br />
Condividevamo l’interesse per soundscapes e sperimentazioni<br />
sui pedali, che divennero fondamentali<br />
nella prima incarnazione di <strong>Expo</strong> 70. Suonammo<br />
una manciata di show a LA prima che decidessi di<br />
tornarmene a Kansas City verso la fine del 2004.<br />
<strong>Expo</strong> ‘70 nasce come fuga verso l’improvvisazione,<br />
esperienza aperta all’esplorazione di suoni e<br />
textures in collaborazione con altre persone openminded.<br />
Per me, essere in grado di prendere un<br />
qualsiasi strumento e creare qualcosa di organico<br />
è molto più soddisfacente del fare prove e suonare<br />
e risuonare qualcosa di continuo. È l’atto del momento,<br />
l’immediatezza, il lasciare che l’ambiente<br />
circostante interagisca col corpo ad essere creativo<br />
ed artistico.<br />
Nella tua musica molto presente è l’aspetto<br />
mistico, trascendente…c’è un intento<br />
trance-inducing in <strong>Expo</strong> ’70?<br />
C’è del misticismo, indubbiamente; puoi trovare<br />
del ritmo in natura o nel corpo umano tramite<br />
la meditazione. Da bambino mi piaceva passare<br />
molto tempo immerso nella natura, tanto che in<br />
un certo senso creo questa musica come una via di<br />
fuga, un qualcosa che mi permetta di distaccarmi,<br />
di dissociarmi da ciò che mi circonda e dalla cultura<br />
pop. Amo l’estetica di questo suono e credo<br />
che questo sia il modo in cui la mia musica viene<br />
creata. Ho una fascinazione per quei vecchi tipi di<br />
musica che sono in grado di creare un regno in cui<br />
i concetti si fondono insieme.<br />
L’aspetto mistico scaturisce dalla sensazione di<br />
essere profondamente engaged nel regno dei suoni<br />
che sono solito creare esplorando la mia psiche,<br />
componendo inconsciamente questa musica organica<br />
e “sentendola” dal di dentro. Questo crea<br />
un aspetto trance-inducing, un feeling di “longevità”<br />
con la musica in grado di lasciarsi andare a ciò che<br />
sta succedendo e non focalizzandosi su un beat o<br />
un ritmo che cerca di imporsi, ma in una maniera<br />
meditativa.<br />
Cosa significa per te la parola spazio? Mi<br />
spiego meglio: taj mahal tangerine dream<br />
ash ra tempel erano artisti con un mood<br />
spacey che è facile ritrovare nelle tue musiche:<br />
quella capacità di porre chi ascolta<br />
nella condizione di perdersi, nello stesso<br />
tempo, in se stesso e nelle inaudibili profondità<br />
dello spazio…<br />
Sono sempre stato affascinato dallo spazio così<br />
come dalla fantascienza, ma non credo che influenzino<br />
la musica. Credo che il genere umano sia<br />
attratto dallo spazio e che le culture antiche, molto<br />
più delle moderne, pensassero allo spazio come<br />
ad una entità superiore…i suoni che creiamo non<br />
sono che l’infinita gamma di frequenze e toni presenti<br />
in tutta la musica e perciò nello spazio stesso,<br />
e quando li dilatiamo, li facciamo durare molto a<br />
lungo, rendendoli ripetitivi, essi diventano meditativi<br />
per il corpo umano… [s.p.]<br />
36 / Drop Out Drop Out / 37
Lo spazio del<br />
suono<br />
- Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo<br />
Ci sono almeno due motivi per i quali a partire da questo mese vi proporremo una serie di articoli<br />
dedicati a Lo Spazio del Suono, ossia ad una serie di artisti che hanno focalizzato la propria attenzione<br />
sulla proprietà spaziale del suono.<br />
Innanzi tutto per via del proliferare di giovani leve che affollano la scena della cosiddetta “nuova<br />
musica” animando il dibattito su questo argomento, e in secondo luogo, per cercare di ragionare su<br />
quella che a nostro avviso da semplice attitudine stilistica sta trasformandosi gradualmente in una vera e<br />
propria koinè linguistica.<br />
Alcune premesse ci sembrano dovute: consideriamo innegabile l’affinità che interfaccia l’arte sonora<br />
alla disciplina scientifica che va sotto il nome di acustica, come innegabile è il fatto che si possano<br />
rintracciare modalità estetiche proprie ad installazioni e a performance sonore - proprie cioè, di eventi<br />
sonori che avvengono in uno spazio, di qualunque tipo esso sia.<br />
Come, ancora, si possono considerare similari certe espressioni legate alla sound-art o lezioni care ad<br />
artisti qual Rolf Julius, John Duncan e Carl Michael Von Hausswolff (per citarne alcuni) che in un certo<br />
senso hanno dato il via ai primi dibattiti sulla questione.<br />
Questa materia d’indagine è ancora parzialmente inesplorata, e fonte tutt’oggi di discussione e<br />
produzione a firma dei maggiori artisti ed interpreti dell’elettronica che operano in direzioni affini.<br />
Artisti la cui matrice d’esplorazione consiste in una lettura sonora che va oltre il territorio dell’ascolto,<br />
che conduce la forma e il divenire attraverso lo spazio. Uno spazio immaginato, sommesso o al limite<br />
dell’ architettonico, uno spazio reale, uno spazio nello spazio, legato al luogo o ad esso distante. Uno<br />
spazio organico, effimero, assente o vividamente sommesso.<br />
E’ questo il motivo della nostre indagine strutturata in brevi monografie spesso corredate di interviste,<br />
un momento di riflessione ormai dovuto a fronte del proliferare di pubblicazioni e di artisti.<br />
Ralph<br />
Steinbruchel<br />
Un’arte preziosa quella dello svizzero Ralph Steinbruchel,<br />
noto agli assidui frequentatori delle zone<br />
limite dell’elettronica come uno dei più quotati<br />
sperimentatori sulla piazza.<br />
Classe 1969, una carriera costantemente in bilico<br />
tra musica e grafica che trova consacrazione ufficiale<br />
dapprima nel 2002 con il conferimento del<br />
premio “Max Brand Award for Electronic Music”<br />
(phono TAKTIK 2002, New York), grazie<br />
alla composizione Zwischen.raum (Domizil),<br />
poi con la borsa di studio “Pro Helvetia” ricevuta<br />
dall’ Art Council of Switzerland che gli permetterà<br />
di lavorare a una delle sue prime uscite firmate<br />
LINE.<br />
Ma andiamo con ordine. Ralph Steinbruchel è<br />
senza dubbio un figlio dell’elettronica anni ’90. I<br />
suoi primi esperimenti sonori risalgono al ’96 con<br />
l’lp Stockwerk, il 7” On3 End e il cd-r Sinus,<br />
tutti lavori che si lasciavano già notare per le austere<br />
letture sonore che contenevano. Gli esordi<br />
38 / Drop Out Drop Out / 39
dichiarano apertamente un’estetica riduzionista<br />
fortemente legata all’utilizzo del digitale, grazie al<br />
quale l’artista riesce a catturare l’essenza spaziale<br />
di luoghi reali od immaginari e ad immergere<br />
l’ascoltatore in ambientazioni sature di suono.<br />
Ambientazioni glitch come quelle di Circa (Line,<br />
2003), che prendono forma dall’installazione Zeit<br />
, esposta qualche anno prima presso il Parco Platzspitz<br />
di Zurigo, un evento importante che oltre a<br />
confermare l’interdisciplinarità della ricerca dello<br />
svizzero, segna l’avvio di una serie di collaborazioni<br />
con le maggiori etichette del settore e di uscite<br />
discografiche che lo renderanno celebre al pubblico<br />
dell’elettronica. Dalla 12k di Taylor Deupree<br />
e Richard Chartier - in particolare la sussidaria<br />
LINE, nota per il suo prezioso roster d’artisti au-<br />
dio e visuali - alla parentesi con l’etichetta Bine<br />
(Skizzen, del 2005), dalla Room40 alla più recente<br />
Koyuki, saranno molte le etichette a contendersi<br />
i lavori di Steinbruchel.<br />
Tornando al 2005, è da segnalare Status, progetto<br />
a quattro mani con Frank Bretschneider,<br />
collaborazione tanto differente dallo stile-Steinbruchel<br />
quanto proficua, riuscita a pieni voti grazie<br />
alla sua personale identità stilistica che regge<br />
il gioco di dodici tracce in equilibrio tra concrete<br />
astrazioni e relazioni micro-ritmiche.<br />
D’obbligo fermarsi alla tappa con la Room40 nella<br />
collezione estemporanea di Opaque (+Re)<br />
(Room40, 2005), o sostare ad ammirare le dieci<br />
scene di Stage (Line, 2006), raccolta di musica per<br />
la performance di danza interattiva Hybridome.<br />
La scrittura di Steinbruchel presta attenzione agli<br />
spazi immaginati e alle elaborate letture minimali,<br />
esibendone elementi o frazioni, assemblandoli con<br />
calibrata avanguardie e liberata intensità.<br />
Non importa quale sia la materia da plasmare.<br />
Drones, i glitch, le microscopiche particelle elettroacustiche,<br />
i contributi di chitarra, pianoforte, le<br />
dissonanze o le risonanze: a fare la differenza è la<br />
deliberata trasformazione della massa sonora che<br />
viene frammentata con una tecnica che ha qualcosa<br />
del puntillismo. Flussi sonori che si prende<br />
gioco del tempo creando sospensioni o stasi ricche<br />
di dettagli infinitesimali (si ascolti Staub a firma<br />
Steinbruchel&Macinefabriek, minicd-r 2008). O<br />
ancora, spazi sonori microscopici come istantanee<br />
di paesaggi (Sustain, Koyuki 2008).<br />
Attenzioni proprie dell’estetica, che non dimenticano<br />
le esperienze dell’universo percettivo, ne<br />
è un esempio il recente Mit Ohme (12k, 2008)<br />
che prende spunto dall’installazione audio-visuale<br />
di Yves Netzhammer, la cui chiave di lettura è<br />
sicuramente quell’aggraziata semplicità di forma<br />
che Steinbruchel riesce a tradurre abilmente tra le<br />
superfici in tonalismi e i panorami di dettaglio.<br />
Volevamo proprio saperne di più e quale migliore<br />
occasione per un ‘intervista.<br />
Hai girato il mondo grazie alle tue installazioni:<br />
da Zurigo a New York, da Parigi a<br />
Los Angeles e Seoul. Com’è cambiato il tuo<br />
approccio al suono nelle live performance<br />
con il tempo, l’esperienza e i recenti progressi<br />
tecnologici?<br />
Attualmente non sto lavorando a nessuna installazione,<br />
ed è da tempo che non sono impegnato in<br />
questo senso. La maggior parte delle mie installazioni<br />
sono state collaborazioni con artisti visuli (o<br />
programmatori), o con altri musicisti.Le installazioni<br />
mi hanno dato la possiblità di lavorare in profondità<br />
con la tridimensionalità del suono, dal momento<br />
che erano tutte concepite per performance<br />
multicanale. Per definirle mi sono sempre servito<br />
della dizione audiosculture. Oggi come oggi, mi<br />
piacerebbe esibirmi dal vivo in performance multicanale,<br />
laddove possibile tecnicamente, per creare<br />
una performance che si situi esattamente a metà<br />
strada tra installazione e live performance. Una<br />
sorta di “performance installativa”.Non credo che<br />
il mio approccio al suono o alla composizione sia<br />
cambiato a causa del progresso tecnologico, o per<br />
simili ragioni. Fermo restando che il progresso nel<br />
campo della spazializzazione del suono e della tecnologia<br />
multicanale hanno aperto la porta a nuove<br />
possibilità, che sono ben felice di integrare nel mio<br />
lavoro se conciliabili con la mia estetica.<br />
Il legame tra spazio e suono è al centro del<br />
dibattito musicologico dagli inizi del XX<br />
secolo. Qual è il tuo concetto di sound-art?<br />
Ti senti più legato al filone purista legato<br />
alla materia sonora o a quello più contestualizzante<br />
d’indagine sonora e di lettura<br />
del contesto?<br />
A nessuno dei due in particolare. Non mi considero<br />
un sound-artist perché quello che faccio è lavorare<br />
sulla composizione di musica che mi smuova<br />
emotivamente e che all’atto dell’ascolto risulti piacevole.<br />
Nel mio fare artistico c’è meno concetto e<br />
senso della struttura di quanto potrebbe sembrare<br />
ad un primo sguardo. Naturalmente mi servo di<br />
un approccio concettuale se questo può servire<br />
alla resa finale, se il concetto è al servizio di ciò che<br />
senti ed ascolti. Ma sono molto più interessato al<br />
risultato finale che al processo in sè.<br />
Con o senza l’utilizzo dell’elettronica la<br />
tua scrittura sembra plasmarsi in ognuna<br />
delle tue esperienze produttive attraverso<br />
una sorta di naturale “manierismo estetico”.<br />
Qual è, se ne esiste uno, il tuo personale<br />
concetto di estetica del suono?<br />
Molto difficile rispondere a parole. Come ti ho già<br />
detto, la maggior parte delle mie musiche deve<br />
agire su di me da un punto di vista emozionale,<br />
interagire con me in una qualche maniera. Cerco<br />
di appropriarmi di un mio linguaggio sonoro specifico<br />
che sottopongo ad aggiustamenti continui,<br />
com’è ovvio che sia, dato che cambio giorno per<br />
40 / Drop Out Drop Out / 41
giorno come persona grazie alle esperienze della<br />
mia vita quotidiana. Naturalmente alcuni di questi<br />
cambiamenti avvengono quasi impercettibilmente<br />
e potrebbero rimanere inavvertiti o risultare illogici<br />
quando percepiti dall’ascoltatore.<br />
Tra le tue innumerevoli collaborazioni vorremmo<br />
ci parlassi di quella uscita per la<br />
12K di Taylor Deupree con Frank Bretschneider,<br />
Status. Com’è nata e come siete riusciti<br />
a far combaciare due stili così differenti<br />
senza perdere l’identità?<br />
Ho incontrato Frank Breschneider qualche anno<br />
fa, in occasione di alcuni festival e performance. Ci<br />
siamo subito piaciuti e abbiamo scoperto di avere<br />
interessi comuni nell’estetica del suono (pur pervenendo<br />
l’uno a risultati molto diversi dall’altro).<br />
Entrambi avevamo appena dato alle stampe un cd<br />
e avevamo voglia di lavorare su qualcosa di più<br />
“aperto” e diverso dalle solite cose. Decidemmo di<br />
scambiarci dei suoni di partenza e di vedere cosa<br />
accadeva se il mio approccio “si scontrava” con il<br />
suo. Questi suoni hanno così iniziato a rimbalzare<br />
da un computer all’altro - il mio ed il suo. Ognuno<br />
dei due ha lavorato sulle sequenze di suono fino<br />
a quando la resa finale non fosse risultata del tutto<br />
soddisfacente. L’obiettivo era realizzare musica<br />
che nessuno dei due avrebbe mai concepito lavorando<br />
in solitaria.<br />
Spesso la tua musica viene comparata al<br />
filone Neomodernista di Richard Chartier<br />
e Ryoji Ikeda che cosa ne pensi? Ti rivedi<br />
in qualche modo nel loro linguaggio sonoro?<br />
In genere sono contrario ai paragoni. Non capisco<br />
perché debbano essere necessariamente fatti, dal<br />
momento che ogni artista – o quasi – segue la sua<br />
propria strada.Mi piace il lavoro di Ryoji Ikeda e<br />
lo rispetto molto, soprattutto quando consiste in<br />
una commistione di sonoro e visuale, così come<br />
rispetto il suo approccio – molto concettuale ma<br />
dotato di un altissimo senso della musica. Potrei<br />
anche concedere che in alcune sue declinazioni mi<br />
ha influenzato - soprattutto in passato. Ma credo<br />
permangano fondamentali differenze tra il mio lavoro<br />
ed il suo. Ryoji ha creato ex novo un linguaggio<br />
musicale e mi piacerebbe davvero poter dire<br />
lo stesso di me - chissà che un giorno io non possa<br />
davvero farlo!<br />
Puoi parlarci di queste ultime esperienze<br />
che potremmo definire concrete, quasi<br />
scultoree: Sustain, uscito per la Koyuki e<br />
Home per la Slaapwel? Come nascono questi<br />
due progetti?<br />
Mentre lavoravo al mio contributo per una compilation<br />
dell’etichetta and-oar una serie di suoni da<br />
esso “fuoriusciti” mi hanno ispirato un’altra composizione...così<br />
è nata Sustain. Ero già in contatto<br />
da molti anni con David Sani (dell’eccellente<br />
mailorder Microsuoni), che mi chiese se avevo a<br />
disposizione del materiale per una uscita sulla label<br />
Koyuki, che gestisce con Luigi Turra. Fui ben<br />
lieto di affidargli Sustain. Home è stata creata su<br />
invito di Wim di Slaapwel Records. Sono entrato<br />
in contatto con lui perché cercavo un disco appartenente<br />
al catalogo di quell’etichetta, e così abbiamo<br />
iniziato a scambiarci delle mail. Mi è subito<br />
piaciuta l’idea di comporre un brano di musica che<br />
concilii il sonno. Per usare le parole dell’etichetta,<br />
«music which is interesting enough to listen to, but<br />
boring enough to fall asleep to». Un’idea davvero<br />
meravigliosa!<br />
Mit Ohne è il documento sonoro di un’installazione<br />
audio/video di Yves Netzhammer<br />
intitolata “The feeling of precise instability<br />
when holding things”, ed esposta<br />
al Museum für Gestaltung di Zurigo. Puoi<br />
parlarcene? Che ruolo ha avuto il suono<br />
nel suo funzionamento?<br />
Yves Netzhammer è uno dei miei artisti visuali<br />
preferiti. É in grado di creare animazioni ed illustrazioni<br />
3-D molto belle e poetiche. Aveva ricevuto<br />
un invito a creare un lavoro sul futuro dei living<br />
spaces e voleva aggiungere un elemento musicale<br />
alla sua installazione. Così ha pensato di allargare<br />
l’invito anche a me. Mi ha inviato una serie di<br />
animazioni che ho sincronizzato a dei suoni. Ho<br />
poi composto sette brevi frammenti di musica che<br />
ora è possibile ascoltare nella recente uscita 12k<br />
Mit Ohne. Durante l’esibizione, le animazioni di<br />
Yves venivano proiettate su tre schermi a loro volta<br />
riflessi da specchi posizionati sotto di essi. Un nuovo<br />
spazio prendeva forma grazie a questo sapiente<br />
utilizzo delle leggi di riflessione. Il suono era irradiato<br />
grazie ad un sistema multicanale: ogni schermo<br />
era dotato di uno speaker che permetteva allo<br />
spettatore un’esperienza spaziale e sonora davvero<br />
uniche.<br />
La tua musica ha la capacità di catturare lo<br />
spazio immergendo l’ascoltatore all’interno<br />
stesso del suono e mettendo profondamente<br />
in gioco il concetto di “percezione<br />
sonora”. Sei d’accordo? Qual è il tuo personale<br />
punto di vista?<br />
In un certo senso è vero, ma non c’è nulla di programmato<br />
da un punto di vista teoretico o concettuale.<br />
Per me lo spazio in sè funziona come<br />
strumento addizionale. Ecco perché quando mi<br />
esibisco dal vivo è molto importante per me disporre<br />
del tempo necessario - solitamente durante<br />
il soundcheck - per entrare in sintonia con lo spazio<br />
fisico nel quale sono situato; per capire come<br />
i suoni interagiranno con quello spazio. L’attenzione<br />
che riservo al concetto di spazio in sè e alla<br />
percezione del suono nello spazio mi spinge inoltre<br />
a preferire il multicanale, laddove possibile.<br />
Cosa pensi dell’attuale stato di salute della<br />
musica sperimentale?<br />
C’è tanta buona musica, ma anche tanta pessima<br />
musica. Artisti validi e artisti meno validi. Etichette<br />
coraggiose ed etichette che non lo sono. Per<br />
quanto mi riguarda, il mio gusto varia giorno per<br />
giorno, dato che quotidianamente scopro nuova<br />
musica. Può piacermi come non piacermi: se non<br />
mi è piaciuta quest’anno, probabilmente imparero’ad<br />
aprezzarla l’anno prossimo, o forse no. E viceversa.
►►►►recensioni ►► ►► febbraio<br />
adriano Modica andrEw Bird Mi aMi<br />
2 novEMBrE – BEllorio (ElEvator / jEstrai,<br />
2 novEMBrE 2008)<br />
gen e r e: g r u n g e -st o n e r<br />
Stoner e grunge, Kyuss e Melvins, a banchettare<br />
amorevolmente tra testi in italiano pieni di buoni<br />
sentimenti (“Merda! Merda! Te lo dico in faccia, Muori!!”)<br />
e titoli che alludono ai progenitori senza rivelarli<br />
(King Buzzo). Il terreno è fertile per far crescere<br />
chitarre elettriche a profusione, toni angoscianti,<br />
muri di bassi e batterie dispari, con lo scopo di rinverdire<br />
i fasti di un’epopea musicale che – ahimè<br />
- se non è morta e sepolta, pare per lo meno in<br />
fin di vita, attaccata com’è al polmone d’acciaio<br />
del tempo. Se è vero, infatti, che pochi tra i reduci<br />
dei Novanta continuano a sfornare operette<br />
dignitose e nuove leve autoctone, come i milanesi<br />
Grenouille, ci illudono che in Italia possa nascere<br />
una new wave della musica di Kurt Cobain e Josh<br />
Homme, è vero anche che i 2 Novembre illustrano<br />
loro malgrado quali siano i rischi per chi si aggiri<br />
senza bussola tra pedalini Boss e flanger assortiti.<br />
Nello specifico, confondere l’ispirazione con la didascalia,<br />
il mal di vivere con il machismo più pacchiano,<br />
l’impeto e la claustrofobia con la noia. In<br />
un’ora di musica che piace solo a tratti e pare fin<br />
troppo abbondante, considerata la quantità di carne<br />
messa al fuoco.<br />
E dire che ai tre musicisti genovesi le doti tecniche<br />
non mancherebbero come non manca un certo<br />
buon gusto, tanto che in qualche frangente ci si<br />
diverte non poco ripensando a quei diciottenni capelloni<br />
che eravamo una quindicina di anni fa (gli<br />
otto minuti dell’ottima GMB). Eppure, sono momenti<br />
sporadici. L’impressione generale, invece, è<br />
che molto si faccia e poco si sia – originali, personali,<br />
consapevoli –, che il nichilismo esistenzialista<br />
dei padri si sia trasformato in oltraggio gratuito,<br />
che lo scarto tra opera di finzione e disco pregevole<br />
sia fin troppo ampio. (5.5/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
action BEat – thE noisE Band froM<br />
BlEtchlEy (truth cult, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: n o i s e -ro c K<br />
È magma bollente quello che fuoriesce dagli strumenti<br />
– tanti, tantissimi – del combo più atteso<br />
d’oltremanica. Altro che cazzate brit-pop o sbruffonate<br />
nu-rave; quello del collettivo spavaldamente<br />
fiero delle proprie origini provinciali è un vero<br />
e proprio assalto al calor bianco come non se ne<br />
sentiva da tempo, specialmente dalla perfida Albione.<br />
Chitarre, chitarre e ancora chitarre; batterie<br />
a profusione; un basso; trombe e sassofoni più o<br />
meno occasionali. Il tutto in quantità variabile ma<br />
in qualità costante, a sfiorare in alcuni momenti<br />
l’eccellenza. Avete presente Glenn Branca? Beh,<br />
fatelo tornare adolescente nella grigia provincia<br />
inglese, clonatelo moltiplicandolo per 5, 6 o 10 e<br />
lasciatelo libero di suonare noise-rock in modalità<br />
impro. Oppure prendete gli olandesi The Ex e<br />
la loro etica/estetica fieramente punk nell’umore<br />
prima che nei suoni e fateli viaggiare indietro nel<br />
tempo all’altezza di Daydream Nation; mandateli<br />
a rubare il master di quel disco e fateglielo risuonare<br />
tutto. The Noise Band From Bletchley<br />
inanella 12 pezzi pressoché strumentali, costruiti<br />
per stratificazione di suoni e distorsioni di chitarra,<br />
con echi tribaloidi e sovrappiù di energia adolescenziale<br />
grezza e coinvolgente. Un muro di suono<br />
che – diversamente da come potrebbe immaginarsi<br />
– non tocca picchi parossistici, né si piega su<br />
se stesso, ma piuttosto lascia presagire una certa<br />
maturità compositiva nelle aperture quasi trance<br />
e ridisegna il concetto troppo spesso abusato di<br />
noise-rock. A breve dalle nostre parti, perciò, siete<br />
avvisati. (7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
adaM paynE – organ (holy Mountain,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie po w e r ro c K<br />
E’ davvero un bell’esempio di rinfrancante e rinfrescante<br />
melting pot, Adam Payne dalla Florida:<br />
figlio di un’italiana e un afroamericano, mostra un<br />
talento musicale assai precoce nutrito dai cartoni<br />
animati del sabato mattina. Polistrumentista, maneggia<br />
lui tutti gli strumenti di questo suo (crediamo)<br />
esordio - mini piuttosto corposo che un tempo<br />
sarebbe stato un album: trentasei minuti - e appese<br />
sul muro vanta quel paio di lauree in statistica<br />
e psicologia. Impossibile per uno così fare<br />
brutta musica, ma vatti a fidare in quest’epoca di<br />
intellettuali emaciati o megalomani: tocca invece<br />
ricredersi, perché Organ è disco frizzante e agile,<br />
arguto e ricco d’idee e melodie. Mettete da parte<br />
le ipotetiche influenze soul - dovrete tuttavia tirarle<br />
fuori per giustificare le cadenze a costante rischio<br />
d’inciampo e impennata della tenera In Hell - e<br />
immaginatevi un power pop corretto dalle sottili<br />
sconnessioni “nerd” dei Pavement. Altrimenti<br />
dei Replacements che preferiscono la Red Bull<br />
alla Budweiser e sono di conseguenza cioè iperattivi<br />
e non sbronzi, in ogni caso ferrati tanto in math<br />
rock e low-fi (gli otto e passa minuti di Incidental Ar-<br />
44 / recensioni recensioni / 45
Hi gH l i gH t<br />
aa. vv. - EvEning’s civil twilight in EMpirEs of tin (dvd, constEllation<br />
/ widE, 26 gEnnaio 2009)<br />
p o s t ro c K<br />
Ci sono svariati modi di fare politica attraverso l’arte e, in chi<br />
scrive, il comizio dal palco non ha mai incontrato gran favori. Nel<br />
limitarsi a declamare slogan, sfuggono alla visione quelle intercapedini<br />
in cui la gente comune finisce per cadere. dimenticata<br />
dai più. Ad esempio le masse di derelitti che marciano dritte nel<br />
tritacarne bellico, per le quali - causa i corsi e ricorsi della natura<br />
distruttiva umana - non esiste differenza tra la Marna e Bassora,<br />
il gas nervino e le bombe al fosforo bianco. Questo pare volerci In<br />
sostanza dire il regista Jem Cohen tramite questa splendida pellicola,<br />
emozionante e leggibile a più livelli: che la Storia si ripete<br />
e gli imperi sull’orlo del collasso generano un nuovo ordine mondiale. Cadeva l’autunno<br />
del 2007 allorché Cohen - tra le tante cose autore del fantastico Instrument dei Fugazi e di<br />
alcuni video dei giovani R.e.m. - venne chiamato a concludere l’International Film Festival<br />
di Vienna con Evening’s Civil Twilight In Empires <strong>Of</strong> Tin. L’opera, ispirata in parte al romanzo<br />
The Radetsky March di Joseph Roth, sovrapponeva a immagini della Vienna antecedente<br />
il primo conflitto mondiale visioni contemporanee della capitale austriaca e di New York.<br />
L’impero americano come quello austro-ungarico ne uscivano come due Titanic in cui l’orchestra<br />
seguita a suonare mentre si cola a picco, tutti insieme inesorabilmente. Un’affermazione<br />
“politica” netta e tagliente, offerta sommando in modo indistinguibile letteratura,<br />
musica e coscienza sociale. Il commento sonoro alle immagini lo offrirono nientemeno che<br />
gli artefici del capolavoro North Star Deserter, al tempo fresco di pubblicazione: Vic Chesnutt<br />
e i Silver Mt Zion, più Guy Picciotto e l’ensemble sperimentale Quavers. Tra ondate<br />
di rumore controllato e una decostruzione anticata e ondeggiante della straussiana Marcia<br />
di Radetzky, si dipanano i fili di un folk cameristico da tregenda nelle immense Distortion e<br />
Sponge, in una What He Is And What He Ain’t degna del Tom Waits più luciferino e nella riassuntiva<br />
Coward composta per l’occasione. Le immagini alternano sapientemente consunti<br />
fotogrammi d’epoca a paesaggi urbani qui avvolti in un granuloso grigio seppia, là riconsegnati<br />
ai propri cromatismi; sono simboli e scheletri di luoghi in cui le persone si aggirano<br />
come fossero brandelli di vita, velocizzate e rallentate secondo lo stile tipico di Cohen. Il<br />
quale si sofferma poi sui volti dei musicisti a coglierne il particolare rivelatore da un gesto,<br />
un’espressione del viso rubata durante l’esecuzione live, in tal modo abbattendo il muro tra<br />
il tema e la sua rappresentazione. Oltre il rockumentary e la denuncia, oltre il film d’autore e<br />
la sperimentazione sonora, camminiamo in una terra a sé stante. Rabbrividente e veritiera<br />
per come riassume un decennio di avvenimenti americani e pertanto anche mondiali che<br />
speriamo destinati a essere definitivamente archiviati. Si resta in quest’ora e quaranta minuti,<br />
al contempo incollati alla sedia e al muro. Necessario esporsi a tanta penetrante bellezza,<br />
oggi più che mai. (8.0/10)<br />
giancarlo turra<br />
rangement si snodano torpidamente acidi e jazzy, un<br />
po’ Polvo e un po’ Storm & Stress; la cavalcata<br />
wave Wind, Wind, Wind/Take A Look) quanto nello<br />
stile stradaiolo e meticcio canonizzato da Exile On<br />
Main Street (The One After Eyes). Non contento, Payne<br />
si ricorda di avere sullo scaffale un lp dei Big<br />
Star e uno dei Dinosaur Jr. e una sera gli viene<br />
in mente che sarebbe una bella idea farli convivere<br />
sotto una patina glam autoironica, facciamo simile<br />
a quella dei primi Urge Overkill (Never See You<br />
Anymore); infine, prima di coricarsi per il meritato<br />
riposo quotidiano, estrae dal cilindro una Fruzstration<br />
che - a passo di ballata cupa e sgasata - conduce<br />
i Jacobites al ranch dei Crazy Horse. Penserete<br />
di ascoltare una compilation, un condominio abitato<br />
da gente che non si parla e manco si guarda.<br />
Un accidente: c’è il robusto filo conduttore di creatività<br />
a ruota libera e calligrafia convincente a<br />
tenere insieme tutto. Ci sono canzoni che canticchierete<br />
in men che non si dica e alle quali sarà<br />
impossibile non affezionarvi. T<br />
anta carne al fuoco, mai scotta o bruciata: complimenti<br />
al cuoco. (7.0/10)<br />
giancarlo turra<br />
aidan Moffat & thE BEst ofs – how to<br />
gEt to hEavEn froM scotland (chEMikal<br />
undErground / audiogloBE, fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: f o l K , s o n g w r i t i n g , indie<br />
La sfida di Aidan Moffat all’appuntamento ufficiale<br />
post-Arab Strap? Scrivere un disco di canzoni<br />
d’amore… felici. E, in effetti, gli umori di cui si<br />
nutre il suo debutto con i Best <strong>Of</strong>s - più che una<br />
band, una duttile compagine di accompagnatori,<br />
fra cui l’ex Delgado Alun Woodward – appaiono<br />
lontani dalla malinconia del duo di provenienza,<br />
alla ricerca di diverse aperture e forme espressive.<br />
Se I Can Hear Your Heart, pubblicato un anno<br />
fa come Aidan John Moffat, era più un esperimento<br />
di poesia (porno, ovviamente, con le sue buone<br />
dosi di sarcasmo e crudeltà), adesso si tratta di riprendere<br />
in mano la canzone con nuove consape-<br />
volezze e nuovi intenti, anche poetici. Nonostante<br />
orfano dell’amico Malcolm Middleton, che ormai<br />
veleggia sicuro in solitaria, l’autore e cantante<br />
sembra già sguazzare in una dimensione ideale,<br />
grazie anche a musicisti che ne assecondano ogni<br />
capriccio e, soprattutto, a buone idee.<br />
Come ad esempio riscoprire le proprie radici folk,<br />
e partire da esse per raccontare storie d’amore sicuramente<br />
agrodolci, irrimediabilmente ubriache,<br />
ma sincere e – in primis - a lieto fine.<br />
Ci vorrebbe un capitolo a sé, ma basti l’esempio<br />
di Living With You Now, in cui Aidan riesce a cavare<br />
fuori romanticismo anche da un rapporto che si<br />
esprime, primariamente, nell’azzuffarsi. Sarebbe<br />
bello se prima o poi si riconoscesse universalmente<br />
la statura di Moffat non solo come musicista –<br />
sull’apporto del suo vecchio gruppo ci sono pochi<br />
dubbi, crediamo -, ma anche come uno dei poeti<br />
più personali della sua generazione; uno capace<br />
di portarti in posti precisi soltanto con la sua voce<br />
storta, con la maniera inequivocabile di storpiare<br />
e cantilenare frasi e parole.<br />
Quanto ai suoni, il tappeto è il più vario possibile,<br />
in un riuscito amalgama acustico-elettronico sempre<br />
adatto a ciò che il brano richiede, sia l’indie<br />
folk di classe del singolo Big Blonde, i sentori etilici<br />
Pogues di Oh Men, That’s Just Love e The Last Kiss<br />
o i semplici a cappella di Lover’s Song e My Goodbye.<br />
Qua e là le suggestioni Arab Strap non mancano,<br />
certo (A Scenic Route To The Isle <strong>Of</strong> Ewe, Now I Know<br />
I’m Right); ma How To Get To Heaven From<br />
Scotland (un plauso al titolo, ça va sans dire) somiglia<br />
più al lavoro di un cantautore dall’impronta<br />
già inconfondibile che al tentativo di un ex di trovare<br />
la propria strada - il riferimento a Middleton<br />
è puramente voluto, anche se ce ne duole. Vogliamo<br />
infine aggiungere un dettaglio tutt’altro che<br />
trascurabile: l’album viene pubblicato il giorno di<br />
San Valentino. Che sia un po’ di sano romanticismo<br />
alcolico l’antidoto ai tempi grigi che stiamo<br />
attraversando? (7.3/10)<br />
antonio puglia<br />
46 / recensioni recensioni / 47
alEla dianE – to BE still (naivE /<br />
sElf, 20 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: f o l K bl u e s<br />
Dallo scarno folk blues acustico del disco d’esordio<br />
The Pirate’s Gospel (2007) sembra passato<br />
un bel po’ di tempo in fatto di produzione: To Be<br />
Still è infatti tutto fuorché minimale. Realizzato<br />
al solito con un ampio gruppo di amici-musicisti e<br />
con la collaborazione del sempre presente padrino<br />
Michael Hurley (qui alla voce nella struggente<br />
Age Old Blue), vede<br />
le composizioni,<br />
cantate con il solito<br />
trasporto dalla<br />
Nostra, riempirsi<br />
di strumenti ed arrangiamenti,<br />
che<br />
danno profondità ai<br />
pezzi. Echi di Will<br />
Oldham e spettralità dolenti, nonché desertiche<br />
echeggiano per tutto l’album, come nella splendida<br />
title track country con la pedal steel a dominare,<br />
nella già citata Age Old Blue con echi di Karen Dalton.<br />
Altrove mandolini (Tatted Lace), archi (Take Us<br />
Back) violini (White As Diamonds) e le solite voci doppiate<br />
sua caratteristica, per un suono pieno e tradizionale<br />
che ricorda del resto l’ultimissima Larkin<br />
Grimm. Di inquietudine, contemplazione e<br />
solitudine qui si tratta, cantati con trasporto lirico<br />
ma senza eccessivi fronzoli. Il salto dal precedente<br />
disco si sente in fatto quindi di coesione e composizioni,<br />
segno di avvenuta maturità. (7.1/10)<br />
tErEsa grEco<br />
ando – haBitat (BinE, 2008)<br />
gen e r e: M i n i M a l /da n c e f l o o r<br />
Il percorso di Taylor Deupree (Ando) è multiforme,<br />
non è certo una novità per chi lo segue da tempo,<br />
semmai per chi ne ha apprezzato le ultime opere<br />
in bilanciato rapporto tra acustico e sintetico.<br />
Le premesse c’erano già nella scuola anni ‘80 che<br />
ha segnato le sue inclinazioni all’elettronica più<br />
sperimentale, nelle prime collaborazioni con Sav-<br />
vas Ysatis sotto il nome ARC o Unit Park se parliamo<br />
di Schoenemann. Assistiamo così ad un cambio<br />
di registro, non un vero e proprio volta pagina,<br />
ma una ponderata analisi di forma che per questa<br />
uscita firmata Bine Music si fa espressione di configurate<br />
radici techno. Dimenticate per un attimo,<br />
per quanto nitida ne permanga la memoria, le iterate<br />
texture di Northen e il Taylor Deupree più<br />
introspettivo, per fare un passo indietro verso gli<br />
esordi e le energie giovanili. Un dichiarato 4/4 che<br />
funge da filo conduttore di filtrazioni, introduzioni,<br />
battiti e linearità. Ma Habitat non è solo questo,<br />
è matura esperienza che intreccia elettronica<br />
con miniature-sonore, con la risaputa eleganza di<br />
stile che lo rende brillante. Giocano con il tempo<br />
e con il ritmo, queste quattro tracce, lavorano con<br />
il multiplo, le relazioni, il ripetitivismo e le pause,<br />
senza spogliarsi delle fluenze techno, senza mai diventarne<br />
schiave.<br />
Per molti magari un azzardo, sicuramente l’ennesima<br />
conferma della innegabile potenza sonora di<br />
Deupree. (7.0/10)<br />
sara Bracco<br />
andrEy kiritchEnko – MistErrious<br />
(spEkk, 2008)<br />
g e n e r e: M i n i M a l i s M i -aM b i e n t<br />
Per la seconda prova con la Spekk dopo True Delusion,<br />
A. Kiritchenko dimentica per un attimo<br />
le astrazioni in micro-suoni di Kinga Skazok o<br />
l’elettronica “pop” di There Was No End per<br />
condurre la sua creatività verso visionari territori<br />
di confine.<br />
Artista di punta della scena ucraina e fondatore<br />
dell’etichetta Nexsound, con Misterrious l’autore<br />
porta avanti le sovrapposizioni di Stuffed<br />
With senza dimenticare l’eredità della passata<br />
collaborazione con Courtis-Moglass.Un capitolo<br />
fondamentale per Kiritchenko, che non si lascia<br />
condizionare dal registrio elettronico per dedicarsi<br />
a partiture decisamente più acustiche. Si mettono<br />
in circolo gerarchie soliste di un pianoforte<br />
(Let oneself in) dal sapore minimalista (Sparkling early<br />
mornings) che si lascia divorare dalle ridondanze in<br />
percussioni per poi imporsi come forma portante<br />
(Wounded by love). Mentre all’elettronica spetta il<br />
puntualismo di Your thoughts in scary forest, trai voluti<br />
eclettismi di batteria o i siderali contributi ambient<br />
(Evening lights wrap me softly). Decisamente riuscite<br />
le formule acustiche in loop di Persistent visions o i<br />
timori in pellicole che trasudano attesa (Untitled inquietudes).<br />
Una dinamica che dirige le frequenze, il<br />
cui trait d’union è la scelta di quella voce narrante<br />
sotto forma di pianoforte che muta l’approccio<br />
pur mantenendo quella coerenza sintetica di linguaggio<br />
concreto. Il tutto eseguito secondo il naturale<br />
ordine delle cose proprio dell’improvvisazione,<br />
tra attitudini e feeling di delicata morbidezza.<br />
(6.7/10)<br />
sara Bracco<br />
asoBi sEksu – hush (onE littlE indian,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: p o p<br />
Terzo disco per il gruppo nippoamericano di Yuki<br />
Chikudate. Ci si aspettava qualcosa di più di uno<br />
scimmiottamento di movenze soniche trite e ritrite<br />
come gli accenni pastorali dell’iniziale Layers che<br />
fa un po’ Enya un po’ Cranberries, le progressività<br />
naïve di Familiar<br />
Light, i tastieroni<br />
à la Organ di Sing<br />
Tomorrow’s Praise e le<br />
stanze lounge di stereolabiana<br />
memoria<br />
(Gliss). Le atmosfere<br />
hanno sorpassato il<br />
citazionismo shoegaze<br />
e si sono invischiate<br />
in un emo che ha poca intraprendenza<br />
indie e che in fondo è pop di normale amministrazione.<br />
La voce della leader fa il suo mestiere, ma<br />
non stupisce. Peccato. Lo spleen si è bruciato nel<br />
giro di due anni. Ritroveranno la scintilla? Staremo<br />
a vedere. Intanto basta e avanza un (5.0/10).<br />
Marco Braggion<br />
Barzin – notEs to an aBsEnt lovEr<br />
(MonotrEME, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: s a d sl o w co r e<br />
Bisognerebbe rettificare il glossario musicale così<br />
che al posto di “intima ballata strappalacrime” si<br />
potesse inserire Barzin, solamente Barzin. Perché<br />
sì, con il cantautore canadese abbiamo a che fare<br />
sempre con la ricerca della canzone d’amore perfetta,<br />
sofferta e straziante. E il suo terzo album già<br />
dal titolo, Notes To An Absent Lover, non fa che<br />
confermarlo, non cambiando assolutamente niente<br />
rispetto ai due lavori precedenti. E ciò, in questo<br />
caso, è senz’ombra di dubbio un merito: la sua<br />
sommessa ma suggestiva voce fa esplodere struggenti<br />
mondi fatti di carezze, assenze, solitudini,<br />
sguardi e intermittenze emozionali, che un attento<br />
e mai invasivo impianto sonoro asseconda dolcemente,<br />
ora con ricercati saliscendi strumentali ora<br />
con uno scarno incedere. Il suo è un morbido slow<br />
core cantautorale, affine a quello dei Dakota Suite,<br />
che esce direttamente dal cuore. Insomma, l’estetica<br />
dello struggimento amoroso passa sicuramente<br />
da qua. Magari non se ne sentirà il bisogno di accederci,<br />
ma mai dire mai. (7.0/10)<br />
andrEa provinciali<br />
Bastion – sElf titlEd (intErrEgnuM,<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: f r e e -dr o n e<br />
Pratica corrente quella del dialogo a distanza tra<br />
artisti più o meno lontani geograficamente e stilisticamente.<br />
Quasi comune verrebbe da dire, con<br />
un po’ di puzza sotto al naso. Senonché incroci<br />
tanto inimmaginabili quanto entusiasmanti come<br />
quello che ha dato i natali al progetto Bastion, ci<br />
fanno tornare in mente che tanto comuni dopotutto<br />
non sono. Almeno nell’accezione di banali,<br />
semplici, normali. Jukka Reverberi nelle sue vesti<br />
più sperimentali (il versante in solitaria die stadt<br />
der romantische punks) e Valerio Cosi nelle<br />
sue vesti più incredibilmente camaleontiche sono i<br />
protagonisti dietro Bastion e intessono per l’omonimo<br />
esordio un denso 4pieces evocativo quanto<br />
48 / recensioni recensioni / 49
Hi gH l i gH t<br />
adriano Modica - annanna (trovaroBato, dicEMBrE 2008)<br />
a v a n t fo l K ro c K<br />
L’attesa per il nuovo album di Adriano Modica viene<br />
spezzata e ravvivata dalla pubblicazione di Annanna, il<br />
primo capitolo finora inedito della trilogia di cui Il fantasma<br />
ha paura era il secondo e La sedia sarà il conclusivo.<br />
Trattasi del cosiddetto album di stoffa, perché - come<br />
dichiara lo stesso Modica - rimanda al senso di calore,<br />
sofficità e protezione in cui avvolgiamo l’infanzia, cui le<br />
nove tracce in scaletta si rivolgono come su una voragine<br />
mnemonica. Rispetto al successore, è album più intenso<br />
ed essenziale, di un lirismo crudo sorretto da immagini sconcertanti dall’odore minacciosamente<br />
familiare, capace di attraversare con lieve autorevolezza una terra di nessuno<br />
tra folk, psych, prog e post-cantautoriale. Soprattutto: è bello. Tanto che non ti spieghi<br />
come sia potuto rimanere ad ammuffire per tre anni, da non crederci che oggi te lo puoi<br />
scaricare gratis direttamente dal sito dell’artista reggino. Il quale ti conduce come un<br />
Virgilio sotto benzedrina tra flash di ricordi, aprendo vecchi cassetti che è “come rubare<br />
ciò che è tuo”, col passo sognante e irrequieto di un Gazzé via Radiohead (in Le sirene<br />
dello Stretto) o contagiato da emulsioni cosmiche Tiromancino (tolte le fregole festivaliere,<br />
come in Sapone Verde e nella title track), tra fiabesche apprensioni Barrett e frastagliati<br />
tremori Marco Parente (Primo volo, Cassetti chiusi a chiave), sbrigandosela tra spasimi<br />
acustici finché la spinta visionaria non spinge su terreni acidi (il flamenco ghignante de Il<br />
settenano di pietra e soprattutto A.C.N.E., mitraglie di sfondo e passo robotico tra il primo<br />
Dalla, i Kuntz e i CSI). Da restare senza parole. Di nuovo in attesa. (7.5/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
lugubre. Non una citazione casuale quella del progetto<br />
privato drone-ambient di Reverberi in vece<br />
del più plausibile e rinomato GDM di postrockiana<br />
memoria, perché proprio da lì prende il via Bastion.<br />
Oltre che dalle musiche, qui più “corpose”<br />
e screziate grazie alla sensibilità di Cosi, anche da<br />
un rimando postato in un commento sul suo blog<br />
in tempi non sospetti, in cui ad essere direttamente<br />
tirato in ballo è l’immaginario Blade Runner:<br />
le mie non sono lacrime nella pioggia. anche se con questo<br />
progetto vorrei vedere i bastioni a largo di orione.... Proprio<br />
come nelle musiche, nelle cui architetture di textures,<br />
miscrosuoni, rumori bianchi e sfarfallii vari,<br />
ad essere evocato è quel cielo plumbeo, quel clima<br />
soffocante, quel senso di ottundente claustrofobia<br />
da jungla post-urbana. E se la caratteristica intrinseca<br />
fondante di Bastion è la distanza (apparente)<br />
tra i due bastioni, la resa è quella di una materia<br />
magmatica che ingloba l’ascoltatore fino a farlo<br />
precipitare nei suoi meandri. (7.2/10)<br />
stEfano piffEri<br />
ashlEy BEEdlE/horacE andy – inspiration<br />
inforMation, vol. 2 (strut /<br />
audiogloBE, 2 Marzo 2009)<br />
gen e r e: e l e c t r o re g g a e<br />
Sulla carta è non poco stimolante l’idea alla base<br />
di questa serie di uscite della Strut, qui giunta al<br />
secondo tomo: similmente alla collana In The Fishtank<br />
edita tempo addietro della Konkurrent, si<br />
riuniscono un paio di artisti in studio di registrazione<br />
per pubblicare poi i risultati della collaborazione.<br />
Che è una moneta estemporanea e con<br />
due facce, sulla quale grava il rischio latente che il<br />
materiale possa suonare “tirato via” a causa della<br />
fretta o dell’eccesso di entusiasmo. Va a finire in<br />
parte così tra la leggendaria ugola reggae Horace<br />
Andy e il produttore Ashley Beedle, già con X-<br />
Press 2, Ballistic Brothers e Black Science<br />
Orchestra. Sono comprensibilmente i Caraibi<br />
a rappresentare il terreno comune, anche in virtù<br />
del fatto che Beedle - suddito di Sua Maestà Elisabetta<br />
- vanta in parte origini nelle Barbados; un<br />
fattore anagrafico che spiega l’agio col quale si è<br />
in passato accostasto alla battuta in levare e il suo<br />
remixare e “mash-uppare” alcuni classici di Bob<br />
Marley nel 2005. Detto che la forma delle corde<br />
vocali di Andy ha tuttora dello stupefacente, non<br />
possiamo esimerci dal rilevare l’esito altalenante<br />
del disco, che finisce per afflosciarsi nella seconda<br />
metà. Prima di una inqualificabile cover della stoniana<br />
Angie - un orrore nell’originale, figuratevi voi<br />
riletta con passo tra reggae e mariachi - sfilano il<br />
martellare militante di Rasta Don’t, una solare e arguta<br />
Hypocrite Dog, le cadenze percussive di latinità<br />
modernista in When The Rain Falls. Altrove è una<br />
concezione morbida e “conscious” del reggae a<br />
elargire il frutto in assoluto migliore con The Light,<br />
sviluppo melodico speziato di aromi arabeggianti,<br />
mentre soluzioni prossime a un agile dub elettronico<br />
(Watch We) e prossime a intuizioni di scuola<br />
bristoliana (2-Way Traffic) chiudono il cerchio col<br />
passato recente di entrambi. Non disprezzabile il<br />
rimanente, a parte una Hot Hot Hot ruffianotta e<br />
col fiatone, che però scorre senza imprimersi nella<br />
memoria. Nonostante il talento e la sintonia, un<br />
controllo qualità più approfondito avrebbe senz’altro<br />
giovato. (6.5/10)<br />
giancarlo turra<br />
BEirut – March of thE zapotEc &<br />
rEalpEoplE – holland (Ba da Bing! /<br />
audiogloBE, 16 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie fo l K ba l c a n i c o<br />
Dopo aver annullato il tour europeo per troppo<br />
perfezionismo, Zach Condon cerca di consolare i<br />
fan con questa nuova uscita, che in qualche modo<br />
prosegue sulla linea della “stranezza” che contraddistingue<br />
il percorso del cantante: non di un nuovo<br />
album si tratta, infatti, benché la durata alla fine<br />
sia quasi quella, ma di due EP pubblicati insieme,<br />
col secondo attribuito a Realpeople, lo pseudonimo<br />
con cui il nostro pubblicava musica elettronica.<br />
Due facce dell’autore, quindi, rese in teoria ancora<br />
più distanti dal fatto che Zapotec è stato registrato<br />
in Messico utilizzando una tipica banda da funerali<br />
locale, i Jimenez, inizialmente contattata per<br />
la colonna sonora di un film poi annullato. In realtà,<br />
non solo le due facce si somigliano più di quanto<br />
le premesse farebbero pensare, perché Condon<br />
dimostra ancora una volta di saper piegare le sue<br />
fonti a sfumature del suo inconfondibile stile, limitando<br />
di molto le differenze tra il materiale costruito<br />
con 17 elementi e quello fatto col laptop; ma<br />
scopriamo anche che il Messico e i Balcani non<br />
sono nemmeno così distanti.<br />
Eccettuata la breve intro di Zocalo e qualche sfumatura<br />
qua e là (My Wife, The Akara in cui l’ukulele<br />
mal si distingue da un charango), l’orchestra<br />
suona infatti per lo più come le sue omologhe<br />
della terra di Bregovic, il cui gruppo si definisce<br />
“orchestra per matrimoni e funerali”: una tradizione<br />
che attraversa Mediterraneo e Atlantico che<br />
Condon armonizza grazie anche a partiture che,<br />
come composizione e ritmi (dolenti melodie spesso<br />
a tempo di valzer), hanno risentito poco della trasferta<br />
pur lasciando più volte ai Jimenez spazi per<br />
esprimersi.<br />
50 / recensioni recensioni / 51
Anche nel secondo cd la penna di Condon mantiene<br />
la rotta sulle proprie coordinate (tutto sommato<br />
dividere in due il disco non era nemmeno<br />
indispensabile), ma l’elettronica si fa sentire un po’<br />
più del Messico: nel finale di No Dice, uno scherzo-omaggio<br />
un po’ allunga-brodo, più seriamente<br />
nei riverberi Yorkiani della suggestiva, splendida<br />
Venice, nei quasi-<strong>Of</strong>flaga di My Wife… e nell’iniziale<br />
My Night… dove si oscilla tra la riconoscibilità<br />
dello stile e una rinfrescata sonora ottenuta<br />
curiosamente riandando alle sue origini di manipolatore<br />
elettronico. Un disco -o due- che vanno<br />
avanti tornando indietro, che ritrovano le origini<br />
allontanandosi: non tutto è splendido, ma il talento<br />
per fare un piccolo miracolo come questo c’è.<br />
(6.9/10)<br />
giulio pasquali<br />
BEn nash / nautilus – split (BlackEst<br />
rainBow, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: d r o n e /fo l K<br />
Mi ero letteralmente perso dietro ai ghirigori elettro-acustici<br />
di The Seventh Goodbye, edito la<br />
scorsa primavera in versione digitale da Aurora<br />
Borealis, marchio solitamente dedito ad esplorazioni<br />
in ambiti metal più prossimi al decadentismo<br />
ambient od al teatro della musica eterna. Ben Nash<br />
è cavallo di razza, già da quel confortante album<br />
si coglievano i segni di un’ispirazione quasi divina.<br />
Musica da western da fine del mondo, un senso<br />
inedito di sfida e attesa, pellicole polverose ed una<br />
chitarra sempre protagonista. Un po’ Ry Cooder,<br />
un po’ Morricone, va da sé, ma con ovvi rimandi<br />
a quello che è il cosiddetto movimento weird<br />
folk. Perchè i paragoni contemporanei più prossimi<br />
non ingannano: in questa spettrale coltre strumentale<br />
ci avviciniamo al senso onirico di un Ben<br />
Chasny o di un Alexander Tucker. Con l’ovvio<br />
desiderio di travalicare l’epopea folk attraverso<br />
vibranti escrescenze soniche ed un’ovvia dedizione<br />
per il drone. Delle due tracce presentate Plymouth<br />
Bredren Blues spicca suprema, affacciandosi anche<br />
in maniera mefitica verso il delta e convogliando<br />
anomale melodie flamenco. Non male nemmeno<br />
Interloper/Latch, materia che ufficialmente sarebbe<br />
potuta finire negli ultimi dischi di Fahey. Nautilus<br />
è invece il progetto solista di Heidi Diehl dei<br />
Vanishing Voice/Time Life (siamo nella Brooklyn<br />
limitrofa alle storie cantautorali off di Wooden<br />
Wand), anche qui arabeschi drone, conditi da una<br />
rilevante componente krauta in area Amon Duul<br />
II/Popol Vuh. Tre brani, di cui Still Rings appare<br />
come personale capolavoro: una psichedelia dei<br />
sensi che lascia ben sperare per prove più estese.<br />
Vinile limitato a 269 copie. (7.0/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
BEn kwEllEr - changing horsEs (ato,<br />
2 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: a l t co u n t r y<br />
Ricordo Ben Kweller ragazzino al debutto con<br />
Sha Sha (ATO, 2002), quella vena balzana e indolenzita,<br />
i guizzi genialoidi lo-fi e una certa versatilità<br />
che scomodarono link più o meno immediati<br />
con Badly Drawn Boy, paragone illustro visto<br />
che all’epoca il buon Damon Gough veleggiava<br />
alto tra i favori e le<br />
aspettative di pubblico<br />
e critica. Accolgo<br />
quindi questo<br />
Changing Horses<br />
- quarto lavoro per<br />
Mr. Kweller - con la<br />
colpevole mancanza<br />
di aver saltato a pié<br />
pari l’omonimo terzo lavoro del 2006, forse inconsciamente<br />
scoraggiato dal discreto sophomore On<br />
My Way (ATO 2004) che lo consegnò al rango<br />
dei più, ovvero ad una medietà carina, a tratti intrigante<br />
ma abbastanza ovviabile.<br />
Scopro così con un pizzico di sorpresa che l’ex<br />
giovane Ben - oramai ventisettenne, praticamente<br />
decrepito - tenta la carta del country, col fare<br />
inevitabilmente “alt” che proviene da un approccio<br />
vagamente sbarazzino alla materia. Fermo restando<br />
il rispetto di norme e forme, a partire dalla<br />
line-up, composta da lui a chitarra, piano e voce,<br />
dai fedeli Chris Morrissey e Mark Stepro a basso<br />
e batteria (drums), più il bravo Kitt Kitterman ai<br />
ricami di dobro e pedal steel. Insomma, diavolo<br />
d’un Ben: è ovvio che così mi frega. Per forza finisco<br />
con l’affezionarmi ad una Old Hat col suo<br />
ciondolare struggente Wilco, al rigurgito vaudeville<br />
di una Sawdust Man, ai languori spersi di Ballad<br />
<strong>Of</strong> Wendy Baker (stiepiditi da un refolo d’archi),<br />
all’asciuttezza Dylan di Wantin’ Her Again o ancora<br />
a quella Hurtin’ You come potrebbe un Malkmus<br />
qualora lo cogliesse il morbo Gram Parsons.<br />
Detto ciò, Kwelle è lungi dal sembrarmi un artista<br />
imprescindibile. Facciamo che ha saputo muovere<br />
con genuina arguzia le pedine giuste. Nulla da<br />
rimproverargli. (6.4/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
Black EyEd dog - rhaianulEdada<br />
(songs to sissy) (ghost rEcords /<br />
audiogloBE, 22 gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: c a n t a u t o r a t o fo l K -bl u e s<br />
Non nascondo di provare una certa curiosità per<br />
Fabio Parrinello, cosmopolita o apolide non saprei<br />
bene (nato a Varese, cresciuto tra Londra e Los<br />
Angeles, attualmente domiciliato a Palermo), uno<br />
che si nasconde dietro ad un moniker sfacciatamente<br />
drakeiano salvo poi disimpegnarsi più che<br />
altro in direzione Tim Buckley, uno che dopo<br />
i consensi ricevuti dall’esordio Love Is A Dog<br />
From Hell (Ghost Records / Audioglobe, aprile<br />
2007) si è mediaticamente eclissato, magari per<br />
covare con le dovute attenzioni il qui presente successore<br />
Rhaianuledada. Nel quale vengono perlopiù<br />
abbandonati i buckleismi vagamente freak<br />
dell’esordio in favore d’un cantautorato intimista,<br />
cupo e appassionato, sorta di versione schiva di un<br />
Goodmorningboy oppure un Josh Ritter problematico.<br />
Da un certo punto di vista si tratta di<br />
un’implosione, un rifugio morbidamente claustrofobico,<br />
però non fai in tempo a sentirti soffocare<br />
che le melodie e l’essenziale lirismo degli arrangiamenti<br />
tracciano feritoie da cui soffiano refoli<br />
romantici e tutto sommato consolatori. Capita nel<br />
passo frugale di All 4 You, dove la fisarmonica è<br />
una carezza frugale, oppure tra le brume tenere di<br />
I Got You In con la tiepida benedizione del violino,<br />
e ancora nel soffice guaire dell’armonica nella dolciastra<br />
Daly Suicide, nella lunare The Way To My Heart<br />
con quei cori da Will Oldham cherubino, per<br />
non dire di quella Salina’s che tra pianoforte e clarinetto<br />
sbriglia un piglio da Lanegan ingentilito e<br />
controcanto efebico quasi Rufus Wainwright. Il<br />
tessuto s’increspa complicandosi in Honeysuckle Gal<br />
(delirio piratesco da Devendra Banhart waitsiano),<br />
concedendosi fregole jazzy nell’iniziale Roses<br />
(con un piano quasi Paolo Conte) e masticando<br />
certe ugge inafferrabili<br />
vagamente<br />
Peter Hammill<br />
nella notevole Drink<br />
Me (le elettroniche a<br />
perturbare la trama<br />
di chitarre, piano e<br />
percussioni).<br />
Alla fine resti appeso<br />
ad un senso di sedazione<br />
emotiva che appiana ogni escursione, allestendo<br />
un giaciglio forse un po’ monotono e schivo<br />
ma ugualmente - e stranamente - affettuoso. Non<br />
parlerei di una crescita, ma di un riposizionamento<br />
poetico che conferma Black Eyed Dog tra le più<br />
interessanti realtà indie nostrane. (7.1/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
Boozoo Bajou - grains (!k7/audiogloBE,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: p o s t do w n t e M p o<br />
L’effetto che restituisce l’ascolto di questa nuova<br />
fatica della coppia tedesca ha del paradossale: richiama<br />
alla memoria la breve e felice stagione in<br />
cui esplosero trip-hop e downtempo, che prima di<br />
trasformarsi in salottiero sottofondo buono per i<br />
centri estetici qualche bel disco fecero in tempo a<br />
consegnarcelo. Sembra, insomma, di leggere oggi<br />
una missiva che doveva esser spedita un decennio e<br />
52 / recensioni recensioni / 53
otti or sono per avere reale consistenza, per suscitare<br />
le emozioni che chi la scrisse aveva in mente.<br />
Alla prova dei fatti risulta difatti interessante il loro<br />
approccio moderatamente trasversale alla materia<br />
volto a fare cosa sola di elettronica e jazz, soul e<br />
latinità, slarghi dub e inquietudini post: il problema<br />
sorge nel momento in cui realizzi che di calendari<br />
dal muro ne hai frattanto staccati un bel po’. Va difatti<br />
benissimo omaggiare e in parte aggiornare gli<br />
Everything But The Girl di Eden tramite la delicata<br />
Messengers e genuflettersi ai Michael Brook e<br />
Daniel Lanois del caso nel sentire cinematico di<br />
Fuersattel e nelle tensioni “noir” di Kinder Ohne Strom<br />
e Big Nicks; assai meno l’aver trattenuto di Isaac<br />
Hayes la buccia e non il frutto, oppure perdersi<br />
dentro talune eccessive gassosità del tipo che l’ambiente<br />
lo riempiono senza riuscire a crearselo intorno.<br />
Accade giusto in un paio di episodi e si deve<br />
tenerne conto, frattanto aggiungendo sul piatto le<br />
title-track e le Same Sun più realiste del re nel loro<br />
rifarsi ai primi Air. Se poi tra gli invitati alla festa<br />
sbucano fuori anche Kruder & Dorfmeister<br />
e sotto bracci recano la glassa sinuosa e suadente<br />
che li fece famosi, converrete che Boozoo Bajou<br />
di talento puro non ne hanno poi molto. Piuttosto<br />
abbiamo a che fare con artigiani valenti e moderatamente<br />
abili, dal discreto gusto e tecnica adeguata.<br />
Prendendo spunto dai “what if ” resi celebri<br />
da Philip K. Dick, viene da pensare cosa sarebbe<br />
accaduto se Grains avesse visto la luce nel 1998. In<br />
questa epoca confusa e indecifrabile, pur convincendoci<br />
abbastanza, ci diciamo certi che non potrà<br />
lasciare segni di rilievo. (6.6/10)<br />
giancarlo turra<br />
BrucE springstEEn - working on a<br />
drEaM (coluMBia, 27 gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: f o l K ro c K<br />
Non è certo per mera convenienza che il Boss si sta<br />
prestando ad uscite tanto… sconvenienti. Perché -<br />
lo dico subito - Working on a Dream è un brutto<br />
disco. Spompa e confusa l’ispirazione, affogata<br />
tra arrangiamenti che tendono inevitabilmente a<br />
“stroppiare”, pensando bene di sconcertarti fin<br />
dall’iniziale Outlaw Pete coi suoi scivoloni morriconiani.<br />
No, l’onestà dell’uomo e dell’artista non la<br />
metterei in discussione neanche sotto tortura. Se<br />
Bruce inciampa in questo presenzialismo frettoloso<br />
credo sia per generosità, un volerci essere ad<br />
ogni costo in un momento tanto critico ma anche<br />
esaltante per il Paese che da sempre è sfondo, premessa<br />
e struttura della sua poetica. Accadde già<br />
con quel The Rising (2002) che spezzò l’astinenza<br />
discografica in vigore dall’ottimo The Ghost<br />
<strong>Of</strong> Tom Joad<br />
(1995), affogando<br />
nello tsunami retoricopost-undicisettembre<br />
malgrado<br />
una scrittura tutto<br />
sommato energica,<br />
intensa, vibrante.<br />
Oggi, nel ventre cetaceo<br />
della depressione,<br />
Springsteen chiama a sé i ragazzi della E<br />
Street Band per soffiare tutti assieme sul fuoco della<br />
speranza Obama. Anzi, più che una speranza<br />
un sogno, scenografia e orizzonte che ahinoi non<br />
possiede bordi abbastanza robusti per contenere<br />
l’esondazione appiccicaticcia del sentimentalismo<br />
canzonettaro buonista e proattivo (Kingdom <strong>Of</strong><br />
Days, la title track, Surprise Surprise, Queen <strong>Of</strong> The<br />
Supermarket...). Quando ti va bene ti becchi una<br />
My Lucky Day che potrebbe essere la sorellina di<br />
My Love Will Not Let You Down, una Tomorrow Never<br />
Knows rannicchiata tra placidi vapori mariachi<br />
e quella The Wrestler (bonus track che avrete già<br />
sentito nei titoli di coda dell’omonimo film) che<br />
sgrana una dignitosa ballad a fari bassi e cuore<br />
pieno delle sue, mentre Good Eye è degna di nota<br />
giusto perché anomala con la sua robotica frenesia<br />
country-blues. Insomma, sembra la soundtrack di<br />
una terapia di recupero collettiva. Mi fa venire il<br />
disagio, voglia di alzarmi e salutare. Speriamo almeno<br />
che serva a qualcosa. (4.5/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
Burning hEarts - aBoa slEEping<br />
(shElflifE, 10 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie po p<br />
Supponiamo ordunque che l’electro-pop malinconico,<br />
garbato, trepido, nostalgico ma a suo modo<br />
ostinatamente proiettato in avanti, possieda proprieta<br />
terapeutiche. Un lenitivo per il malanimo<br />
che sempre più spesso accompagna i nostri giorni<br />
saturi di troppe cose a perdere. Supponiamolo.<br />
Ecco, casomai oserei dire che i Burning Hearts -<br />
duo finnico formato dalla cantante Jessika Rapo e<br />
da Henry Ojala, polistrumentista già nei Cats On<br />
Fire - stemperano nel debutto Aboa Sleeping il<br />
suddetto principio attivo, con la competenza un<br />
po’ scostante dei farmaci generici, cui comunque<br />
finisci per tributare la giusta fiducia.<br />
Del resto, la confezione calda ed essenziale testimonia<br />
l’onestà del contenuto, che l’infermiera Jessika<br />
ci propina con setosa autorevolezza, mentre<br />
il dottor Ojala si disimpegna tra scaffali Stereolab<br />
(A Peasant’s Dream) e provette New Order (I<br />
Lost My Color Vision), distillando morbidezze Lali<br />
Puna via Belle And Sebastian (Iris), concedendosi<br />
omeopatie Bowie (una We Walked Among the<br />
Trees che ammicca Ashes To Ashes) e Kraftwerk<br />
(l’angelicamente frigida The Galloping Horse), per<br />
poi planare su una title track col passo delle ballad<br />
importanti, coprendo d’amblé la distanza tra certe<br />
ugge Delgados alle utopiche elevazioni Air.<br />
Un disco non esaltante ma buono. Io comunque lo<br />
preferisco al Prozac. (6.7/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
caMEra 237 – inspiration is not hErE<br />
(foolica, 13 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: p o s t -ro c K<br />
Verrebbe da parafrasare il titolo del disco per tagliar<br />
corto sulle scelte stilistiche “un po’ attempate”<br />
e in qualche caso prevedibili dei Camera 237.<br />
Verrebbe da parafrasarlo ma sarebbe non rendere<br />
merito a musicisti che sanno comunque come<br />
suonare credibili e almeno in qualche frangente,<br />
spiccano per lucidità. Un paradosso? Forse, ma<br />
che riteniamo di poter risolvere in questa sede, in<br />
primis passando in rassegna i principali caratteri<br />
della proposta musicale della band cosentina. Su<br />
tutti, quelli tipici di un “dopo-rock” corposo e<br />
solido che tornano alla ribalta ciclicamente, negli<br />
arpeggi insistiti, nelle porzioni strumentali elaborate,<br />
nelle complessità dei fraseggi. Una formula<br />
che come da ultimo aggiornamento del Prontuario<br />
del perfetto post-rocker, vive di veloci cambi di passo,<br />
contempla qualche sprint al fotofinish, cerca di<br />
rinnovarsi richiamando estetiche che poco hanno<br />
a che vedere con l’ortodossia e molto con il<br />
carattere, per lo meno nelle intenzioni. Nei fatti ci<br />
si imbatte in episodi elettro-acustici di pregevole<br />
fattura (la title-track) come in ampollose lentezze in<br />
saturazione (If You Are Tired, Don’t Risk), apprezzabili<br />
progressioni in controtempo (New Song) e<br />
derive strumentali lasciate alla corrente (elettrica)<br />
(Caracol), in un tira e molla che ha certo il pregio<br />
di non annoiare ma anche il difetto di non suscitare<br />
sbalzi emotivi significativi. Mestiere e entusiasmo<br />
rendono il prodotto finale apprezzabile e<br />
tutto sommato onesto, pur correndo il rischio di<br />
farlo passare in più di un’occasione per un esercizio<br />
di stile che piace alla gente che piace, gratifica<br />
chi ci si è impegnato – al secondo episodio discografico<br />
della carriera - ma fatica a lasciare un<br />
segno profondo. (6.7/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
caMouflagE - livE in drEsdEn (synthEtic<br />
syMphony / audiogloBE, 19<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: t e c h n o po p<br />
Esiste da sempre un pregiudizio di fondo nei confronti<br />
del techno-pop, che nemmeno gli sdoganamenti<br />
ripetuti di Depeche Mode, Pet Shop<br />
Boys, Heaven 17 e chicchessia tra i maestri del<br />
genere non sono ancora riusciti a scalfire fino in<br />
fondo. Che, insomma, si tratti di materiale vacuo<br />
e “commerciale”, privo di spessore e peso specifico.<br />
Come se, attenendoci al rock duro e chitarre,<br />
Bon Jovi e i Queens <strong>Of</strong> The Stone Age<br />
54 / recensioni recensioni / 55
fossero la stessa cosa. Non è per fortuna così e lo<br />
sappiamo bene, benché talvolta incappiamo in<br />
personaggi che poco (cioè molto) fanno per procurare<br />
ai detrattori prove a carico della loro tesi.<br />
I tedeschi Camouflage traggono il nome da una<br />
canzone dei Yellow Magic Orchestra, e pare<br />
rappresentino da anni una delle band di synthpop<br />
più importanti sulle scene. Devono avere un<br />
pubblico comunque folto se si permettono il lusso<br />
di uscire con un mammut come questo - cd audio<br />
più dvd con più brani e ulteriore dischetto con<br />
tutti i video - oppure, in caso contrario, nessuno<br />
si è premurato di dirgli che sulla carta d’identità<br />
non hanno scritto Gahan o Gore. Eh, sì, perché<br />
quello è grossomodo l’ambito in cui ci si muove:<br />
quello per l’appunto di un techno pop che vorrebbe<br />
avere impatto rock senza epica e ridondanza.<br />
Il problema del quintetto è che tra le sue fila non<br />
vanta un’ugola carismatica, uno scrittore capace<br />
di conciliare immediatezza ed eleganza, uno che<br />
arrangi i brani senza che gli anni Ottanta sfocino<br />
nel 1993. Finisce che afferri l’apparenza e del genere<br />
restituisci un’idea tra stadio e alternative club<br />
di provincia, al cui confronto i Subsonica paiono<br />
gente da prendere tuttora sul serio. Arrivare alla<br />
fine della maratona è stata fatica che al sottoscritto<br />
ha richiesto numerosi e ripetuti passaggi di The<br />
Luxury Gap e The Hurting per ossigenare i polmoni.<br />
(5.0/10)<br />
giancarlo turra<br />
charlottE hathErlEy – thE dEEp BluE<br />
(littlE sistEr, 2007– rEd housE rEcordings,<br />
2009)<br />
gen e r e: p o p -ro c K<br />
Ultimamente sono sempre di più le musiciste che<br />
si cimentano in una rielaborazione del pop in<br />
chiave personale e innovativa. Vengono in mente,<br />
solo per fare un paio di nomi, St. Vincent e My<br />
Brightest Diamond, entrambe capaci di unire<br />
una vena melodica suadente ad arrangiamenti<br />
strutturati e difficilmente etichettabili. Charlotte<br />
Hatherley, pur essendo inglese e tecnicamente<br />
meno virtuosa delle due artiste citate in apertura,<br />
potrebbe rientrare a grandi linee in questa tradizione,<br />
visto che con The Deep Blue confeziona<br />
un disco fortemente interessato alle stratificazioni<br />
sonore (Behave), attratto dalle linee armoniche<br />
inconsuete (Roll Over), affezionato alle vaghezze<br />
soffici della voce (Dawn Treader). Con in più il<br />
geneticamente modificato delle chitarre elettriche<br />
(I Wan’t You To Know e Very Young) e della psichedelia<br />
(Love’s Young e Dream, Be Thankful), a vergare a<br />
caratteri cubitali un proposta finemente arrangiata<br />
e, in qualche caso, piuttosto energica. Del resto<br />
non potrebbe essere altrimenti, visto che stiamo<br />
parlando dell’ex chitarrista degli Ash, qui al<br />
secondo disco della sua neo-carriera solista. Una<br />
che oltre ad aver già le idee chiare sulla direzione<br />
da prendere, coinvolge in fase di produzione figure<br />
d’alto profilo come Rob Ellis e Eric Drew<br />
Feldman (ex Captain Beefheart’s Magic Band)<br />
e sceglie come co-autore in Dawn Treader Andy<br />
Partridge degli XTC. Tutti segnali da interpretare,<br />
per un’opera che arriva in Italia soltanto ora<br />
nonostante una pubblicazione inglese risalente al<br />
2007. (7.1/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
childrEn’s hospital – alonE togEth-<br />
Er (sacrEd BonEs, dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: w a v e industriale<br />
La transizione della scena tradizionalmente definita<br />
garage-punk, americana quanto europea, verso certe<br />
sonorità anni ’80 è ormai cosa consolidata. Se ce<br />
ne fosse bisogno, ecco qui un’ulteriore prova di questo<br />
passaggio di testimone. Molte band e progetti<br />
solisti si sono prodigati negli ultimi tempi nella produzione<br />
di materiale dai connotati smaccatamente<br />
e volutamente wave: Mike dei DC Snipers con Blank<br />
Dogs, gli Homostupids con Factory Man (tra l’altro<br />
artefici di un ottimo 7’’ su My Mind’s Eye) fino al<br />
nuovo progetto di Erin Sullivan (cantante e chitarrista<br />
negli A-Frames) a nome Rodent Plague, il cui<br />
singolo d’esordio è uscito da poco su Kill Shaman. E<br />
proprio dal famigerato asse A-Frames/Intelligence/<br />
Hi gH l i gH t<br />
andrEw Bird - noBlE BEast (fat possuM / BElla union/ coopErativE<br />
Music, 13 fEBBraio 2009)<br />
a r t fo l K<br />
La continuità dell’incanto, più che la sua intensità, ci<br />
convince del fatto che Noble Beast è - e probabilmente<br />
sarà - il capolavoro di Andrew Bird. Col quinto album<br />
da solista non fa che raccogliere quanto seminato nel suo<br />
frugale orticello, e siccome il nostro musicista chicagoano<br />
da sempre professa il culto della biodiversità sonora, ne<br />
viene fuori un raccolto variegato, ricco, persino robusto<br />
nella generale morbidezza del tono. Rispetto alle prove<br />
del passato sembra semmai più accorta la gestione del canto, tenuto al guinzaglio delle<br />
necessità espressive che pezzo dopo pezzo indagano con frugale gravità il mistero, la meraviglia<br />
e la miseria del fattore umano. La scrittura invece è di quelle... nobili, sposandosi<br />
alla misurata brillantezza di arrangiamenti che, innervati su mai eccessive evoluzioni di<br />
violino, conferiscono abiti trepidi e setosi, un carosello discreto e ipnotico di fiabesche<br />
tensioni (Anonanimal e Nomenclature, con le apprensioni acustiche Kozelek contagiate di<br />
languori Rufus Wainwright), di bucolico abbandono (la fatamorgana Al Stewart/<br />
Brian Wilson di Oh No), di esotismi fragranti (l’incalzante Fitz And The Dizzyspells) e randagi<br />
(la bossa onirica di Masterswarm, lo sdilinquimento post moderno di Not A Robot, But<br />
A Ghost). Altrove predomina il battito traditional, appena carezzato da una verve freak,<br />
come in quella Tenuousness come potrebbe il nipotino garbato e arguto di Paul Simon,<br />
come in una Effigy scaldata dal tepore Gram Parsons (con la brava Kelly Hogan a fare<br />
la Emmylou Harris della situazione), o come quella Natural Disaster che incede docile e<br />
grave come il Beck di Sea Change. Volendo individuare l’apice della scaletta, punteremmo<br />
l’indice verso Souverian, sorta di mini suite che parte come milonga da front porch<br />
e poi trascolora in un camerismo pervaso di languori coloniali, magnifico il ritornello,<br />
ineffabili le ambientazioni all’insegna di scenografie incantevoli e spossate. Inevitabile<br />
tirare in ballo il luogo comune della maturità, che Andrew Bird sta vivendo con la pienezza<br />
tipica di chi ha molto da dire. (7.5/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
AFCGT giunge, inevitabilmente su Sacred Bones, il<br />
primo LP dei Children’s Hospital, nuova formazione<br />
nata sotto il grigio cielo di Seattle; accantonate le<br />
chitarre, o almeno poggiate momentaneamente in<br />
un angolo, si estraggono synth, tastiere e archeologia<br />
tecnologica avariata per dar vita a meccaniche nostalgie<br />
analogiche, salvo di tanto in tanto riesumare<br />
il fantasma del proprio passato con riff che lasciano<br />
intravedere una minima continuità (Unseen). Il passaggio,<br />
va detto, è indolore e in alcuni punti è anche<br />
56 / recensioni recensioni / 57
decisamente compiuto (Preschool <strong>Of</strong> Atonement, If You<br />
Find Me I’m Here); tuttavia a volte tuttavia alle volte i<br />
nostri si lasciano sedurre da scorciatoie compositive<br />
che, più che agevolare, rallentano il percorso (After<br />
the Aftermath, Blue/Green Algae). Certo è che<br />
questo è solo il primo lungo passo nella direzione di<br />
quella wave-proto-industriale di cui furono, a loro<br />
tempo, fulgidi testimoni atti come Cabaret Voltaire,<br />
Throbbing Gristle e Factrix e i pezzi posti a chiusura<br />
di entrambi i lati lo dimostrano egregiamente.<br />
Tuttavia , pensando ad esperienze più navigate in<br />
questo ambito, si insinua il dubbio che non si sia voluto<br />
tentare troppo in fretta un traghettamento non<br />
sempre così naturale come si potrebbe presupporre.<br />
(7.0/10)<br />
andrEa napoli<br />
circus dEvils – ataxia (static caravan,<br />
2008)<br />
gen e r e: l o w -fi<br />
Oltre alla prolifica e discutibile carriera solista, Robert<br />
Pollard continua a portare avanti, più o meno<br />
con lo stesso ritmo (ma con esiti senz’altro più interessanti)<br />
il progetto Circus Devils. Se c’è qualcosa<br />
ancora degno del passato dell’ex Guided By Voices,<br />
va cercato proprio nelle uscite di questa band<br />
che, seppure con qualche riserva, è riuscita ad<br />
esprimere finora le sue (attualmente) migliori idee<br />
musicali. La caratteristica del musicista dell’Ohio<br />
(quando è in forma) è quella di riuscire a comporre<br />
su due piani, navigando nell’underground rock<br />
americano senza tuttavia esimersi dallo strizzare<br />
un occhio a piacevoli melodie. Quando riesce a<br />
mantenere il giusto equilibrio tra questi due diversi<br />
approcci alla composizione, Pollard dimostra di<br />
meritare le lodi del passato.<br />
Ataxia è un disco complesso, ma anche molto coerente<br />
del suo predecessore. C’è qui un’intenzione<br />
di osare mai ascoltata prima, di spingersi fino alle<br />
soglie della psichedelica, del noise rock (Nets At Very<br />
Angle) e della new wave , sfociando addirittura nel<br />
dark ambient di I Found The Black Mind e Fuzz In<br />
The Street. Se evitasse le sdolcinatezze alla He Had<br />
All Day e qualche tocco di banalità, sarebbe proprio<br />
un gran bel disco (7.0/10)<br />
daniElE follEro<br />
cristophEr Mcfall – thE city of al-<br />
Most (sourdinE, 2008)<br />
gen e r e: M i n i M a l i s M o -aM b i e n t<br />
Andando oltre l’hic et nunc dell’aneddoto, i fields recordings<br />
di Cristopher McFall si fanno strumento di<br />
rilevazioni urbane. Linee narrative in quattro tracce<br />
ed un’unica direzione di studio, una città del Kansas<br />
un tempo molto prospera colpita con il passare<br />
dei decenni da un evidente stato di degrado urbano.<br />
Una lettura sonora che cela l’origine di registrazione<br />
sul campo per concedersi ad un elegante estetica<br />
digitale, deteriorata in claustrofobiche stratificazioni<br />
(Slow Containment) o esposta agli oscuri temi centrali<br />
di drones (One of several possible endings). A colpire è<br />
l’accostamento al luogo, documentato dalle partiture<br />
che restituiscono l’evolversi del luogo dispensando<br />
di esso immagini vivide. E’ tangibile l’essenza<br />
temporale, nelle ariose decostruzioni in interferenze<br />
di Requiem for Troost (dovuto omaggio al quartiere e al<br />
suo centrale Viale Troost) o tra le estensioni in fondali<br />
dal sapore vinilico che accompagnano trame<br />
oblique e microcosmi campionati (Al parts contained).<br />
Disco figlio dell’era post-industriale, a metà strada<br />
tra antropologia sonora e soundscape. (6.8/10)<br />
sara Bracco<br />
dälEk – guttEr tactics (ipEcac, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: d o o M -ho p<br />
Dopo che certe fasce dubstep hanno virato verso<br />
il modernismo techno, ci mancava un po’ di realness.<br />
Se i generi subiscono inevitabilmente il destino<br />
dell’eterno ritorno, il duo composto da MC Dälek<br />
e dal produttore Octopus torna a parlare di doom<br />
ed è come una risposta alle fascinazioni banghra di<br />
gente come Dusk+Blackdown, a tutte quegli etno<br />
velluti escapisti ai quali occorre un fermo no con la<br />
crisi a caldo che ci brucia ogni giorno più il culo. Poi<br />
è come se fosse la prima volta, come se la Anticon<br />
non ci fosse mai stata, come se i cLOUDDEAD non<br />
fossero mai esistiti. Rivisitando si cresce, si tirano<br />
fuori quei drones cupi ereditati dai Sunn O))) e dai<br />
Melvins e il deja vù sorprende. In poche parole:<br />
hip-hop is here to stay. Ovviamente mutato da una<br />
sensibilità trasversale che dal 2002 accompagna il<br />
percorso compositivo dei rappers dal New Jersey e<br />
che ancora una volta ci fa capire come il mesh sia<br />
d’obbligo. Ma non solo suono. Cavalcando le roots<br />
ci si va anche di scalpello<br />
sul testo. In direzione<br />
contraria al<br />
mainstream, che si<br />
dimentica del sociale<br />
e del politico, in<br />
un momento come<br />
questo è sempre più<br />
doveroso ripescare<br />
la lezione dei sempreverdi<br />
Public Enemy. Parola d’ordine: cattiveria.<br />
Già dall’iniziale Blessed Are… si parla di quello<br />
che sta accadendo da sempre: conquiste in nome<br />
del dio denaro che non guardano in faccia a niente<br />
e a nessuno, travalicando confini e diritti. La verve<br />
engagé risuona poi nei colpi apocalittici di Los Macheteros<br />
e nelle bordate che attraversano in stile Wu<br />
Tang Clan l’intero album. Cose che non si sentono<br />
più, dischi come questo ci fanno stare male, ci fanno<br />
incazzare. Senza sballo, una cosa che viene dall’anima,<br />
un sentimento che nel rock avevamo sperimentato<br />
nei pogo dei RATM. Qui l’hip-hop ritrova la<br />
sua possibilità di riscatto con una straightedgeness<br />
che suona nuova, sporcata da mille effetti e disorsioni,<br />
imperfezioni che arricchiscono e che sono sempre<br />
più necessarie per descrivere la (vita di) strada.<br />
Respect.(7.5/10)<br />
Marco Braggion<br />
dan auErBach - kEEp it hid (nonEsuch,<br />
10 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: b l u e s ro c K<br />
La formula Black Keys - tanto collaudata quanto<br />
efficace, ma invero un po’ ripetitiva - probabilmente<br />
iniziava a stare stretta al caro Dan Auerbach, al cui<br />
estro solistico ha quindi giustamente pensato di concedere<br />
un po’ di spazio. Debutta quindi in solitario<br />
con questo buon Keep It Hid, fedele al verbo dei<br />
Keys coi contorni lasciati però sfumare, così come<br />
la direzione delle parabole espressive, che si rannicchiano<br />
tra folk ballad acidule e si spampanano tra<br />
svaporate psych, ora tirando per la giacca i fantasmi<br />
del blues col ghigno elettrico (I Want Some More),<br />
salvo poi grattare la pancia alle fatamorgane della<br />
nostalgia fifties. La calligrafia è diretta come da copione<br />
(arrangiamenti essenziali, col piccolo aiuto di<br />
pochi amici), prevedibile come da rituale, credibile<br />
perché convinta fino al midollo di fare quel che fa,<br />
ragion per cui piuttosto che lasciar prevalere l’effetto<br />
sferzante ma catchy alla maniera di certi White<br />
Stripes, lo senti vicino al piglio roccioso d’un Lanegan<br />
(Street Walkin, The Prowl, la quasi waitsiana<br />
title track), anche per la tenerezza (Whispered Worlds,<br />
canzone scritta dal padre) e l’obliquità (When I Left<br />
The Room) con cui rimastica certe situazioni Gun<br />
Club. Certo che quando Dan spinge sul pedale del<br />
white soul (come una Real Desire che è quasi i Creedence<br />
di Long As i Can See The Light) o della ballata<br />
carezzevole (una When The Night Comes cantata assieme<br />
a Jessica Lea Mayfield) il discorso cambia, per<br />
non dire di quando si disimpegna sbrigliato e lirico<br />
rammentando il Devendra Banahrt ultima versione<br />
(My Last Mistake) e quello delle reminiscenze arcaiche<br />
(Goin’ Home). Come dire, siamo chiaramente<br />
in presenza di un autore versatile e versato in quella<br />
che per semplificare chiameremo Americana, come<br />
già chiarisce in apertura quella Trouble Weighs A Ton<br />
che non sfigurerebbe nel repertorio d’un Will Oldham,<br />
così per dire. Non un disco sorprendente, ma<br />
comunque una bella sorpresa. (7.0/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
dEad lEttErs spEll out dEad words<br />
– lost in rEflEctions (rElEasE thE<br />
Bats, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: p o s t -ro c K /sh o e g a z e /el e t t r o n i c a<br />
Dead Letters Spell Out Dead Words è lo pseudo-<br />
58 / recensioni recensioni / 59
nimo dietro cui si nasconde Thomas Ekelund, artista<br />
visuale e musicista di Gothenburg, e Lost in<br />
Reflections è il suo ultimo disco. I luoghi esplorati<br />
nelle sue composizioni sono le stesse terre gelide<br />
e brumose che hanno fatto la fortuna di gruppi<br />
come Sigur Ros. Ma se la musica degli islandesi<br />
sembra essere soltanto una sfocata concessione del<br />
loro mondo – troppo alieno da capire, troppo distante<br />
da descrivere in titoli o parole – Ekelund<br />
vuole invece condividersi apertamente, sin dalle<br />
Hi gH l i gH t<br />
dichiarazioni riguardanti il ruolo avuto dalla sua<br />
malattia (un disturbo della personalità) nella gestazione<br />
dell’album. Anche la sua musica in qualche<br />
modo vuole mostrarsi vicina. I lunghi tappeti<br />
ambientali, gli sconfinati riverberi, sono graffiati<br />
da piccoli suoni, glitches digitali, sfrigolii elettrici<br />
di vinili polverosi, come se volesse mostrarci i suoi<br />
luoghi attraverso le diapositive di un vecchio proiettore<br />
scrostato. Riducendo cioè il viaggio a una<br />
dimensione più domestica, quindi più accessibile.<br />
harMonic 313 – whEn MachinEs ExcEEd huMan intElligEncE<br />
(warp, fEBBraio 2009)<br />
g l i t c h -el e c t r o-ho p<br />
Mark Pritchard ritorna su Warp. L’uomo mezzo GloGlobal Communication si rifà il trucco e fa parlare di sé. Con<br />
questo album che è un tornare alla meccanizzazione, alla<br />
visione kraftwerkiana (guardate i video e gli artwork del<br />
sito) tutto però sporcato di break nero. E quindi di storia<br />
hip-hop. Una cosa così non te l’aspetti. Non ti aspetti che<br />
la proposta sia coinvolgente e a tratti squassante. Perché<br />
il ritorno sulla scena molte volte è un riproporre cose già<br />
dette senza pensare alla patina di polvere che hai davanti<br />
agli occhi. Qui si ripropone, ma con uno stile che è da archeologia 90. E in questo inizio<br />
anno capiamo che più avanti si va, più gli occhi sono rivolti all’indietro. Ce l’avevano già<br />
detto su altri lidi gli O.R.B. e gli Autechre. I vecchi suoni sono lì, ma chi saprà usarli a<br />
dovere? C’è ancora qualcuno che riesce a cavalcare le sterminate praterie ambient senza<br />
copiare Aphex T.? Sì, ascolta Köln e poi dimmi se il mago del synth ci ha spiazzato o<br />
no. C’è ancora qualcuno che sa parlarti col vocoder e distruggerti con una base glitch à<br />
la Space Invaders? Sì, ascolta Word Problems. Che lesson. Ci sono ancora quei bei break<br />
che sentivamo dalle parti dei Beastie Boys? Vediti il riff di Battlestar e poi muori. C’è<br />
ancora qualcuno che ricorda in modo degno la cultura a 8 bit? Cyclotron C64 SID sì. E<br />
avanti così. I rimandi sono infiniti, ma non sono nostalgia sterile. Qui si riparte per nuove<br />
avventure nella matrix gibsoniana. Le guerre stellari le vedremo tra un po’ di tempo,<br />
quando capiremo che i teen del dubstep sono troppo concentrati a sfornare singoli che<br />
durano solo una notte di nerdy videogaming sfrenato. Chi invece ha la forza di prevedere<br />
il futuro va oltre il tempo. E questo, cari amici, è uno di quei dischi. Che voi siate Bad o<br />
no.(7.7/10)<br />
Marco Braggion<br />
Ad introdurre il disco è la semidensa progressione<br />
chitarristica di This Room Seems Empty Without You,<br />
ma nei brani successivi le atmosfere si fanno più<br />
rarefatte, le strutture sempre ascensionali, ma la<br />
tensione non arriva mai a sciogliersi come accade<br />
ad esempio nelle distensioni tipiche del post-rock<br />
di Mogwai o Explosions in the Sky. A chiudere<br />
Himmelschreibenden Herzen, la traccia più cupa,<br />
forse quella che meglio trasmette la frustrazione<br />
di cui Ekelund fa riferimento nelle sue dichiarazioni.<br />
Le parti più riuscite sono però quelle che<br />
fanno da cornice al nucleo dei pezzi: le lunghe scie<br />
di elettronica statica che introducono o concludono<br />
i brani. Quando a prevalere sono piccoli suoni<br />
quasi quotidiani, in cui riconosciamo l’intimo silenzio<br />
dei luoghi domestici. Fruscii, sospiri, magri<br />
feedback, hum di elettrodomestici, dettagli spesso<br />
ignorati o sommersi da conversazioni futili, televisori<br />
prepotenti, decibel sprecati nel chiasso degli<br />
spazi affollati. Non so se riesce appieno a comunicare<br />
le sue sensazioni, ma sicuramente riesce a<br />
creare il miglior luogo possibile in cui si è disposti<br />
ad ascoltare. (6.8/10)<br />
lEonardo aMico<br />
dEntE – l’aMorE non è BEllo (ghost,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: c a n z o n e d’a u t o r e<br />
Quale data migliore del 14 febbraio per uscire con<br />
un album intitolato L’amore non è bello? Già da<br />
questa bizzarra scelta, intuiamo fin da subito che la<br />
vena ironico-lessicale di Dente, ben espressa anche<br />
nei suoi primi due album, è lungi dall’inaridirsi,<br />
anzi. Ciò che invece viene smarrito per strada, per<br />
una volontaria scelta artistica, è quell’approccio<br />
lo-fi che faceva da perfetto contraltare alle liriche<br />
del Nostro. Dobbiamo ammettere che infatti questa<br />
sua terza fatica ne risente non poco di siffatta<br />
virata stilistica, perdendo in spensieratezza. Però<br />
dobbiamo dargli atto del suo coraggio di non ripetersi:<br />
molto probabilmente un clone di Non c’è<br />
due senza te avrebbe stancato e non gli avrebbe<br />
permesso di fare il salto di qualità. Cosa che non<br />
succede neanche con L’amore non è bello, però<br />
almeno esso è da considerarsi come un album di<br />
transizione che lascia speranze per il futuro. I riferimenti<br />
sono sempre i medesimi: Battisti e tutta la<br />
canzone d’autore pop anni Sessanta. Alcuni brani<br />
risultano fin troppo monotoni e piatti nella loro<br />
nuova e più elegante veste strumentale, altri invece<br />
incidono sublimi e delicate linee melodiche che si<br />
conficcano in testa senza più uscirne, grazie anche<br />
a delle liriche sempre ironiche e suggestive. Dente<br />
avrà tutto il tempo di maturare, per ora un più che<br />
meritato (6.5/10)<br />
andrEa provinciali<br />
El cijo – Bonjour My lovE (still<br />
fizzy, ottoBrE 2008)<br />
gen e r e: f o l K -bl u e s<br />
Se non ti conoscono che quattro gatti e te ne esci<br />
con un disco d’esordio con sedici tracce in scaletta,<br />
o sei un giocatore d’azzardo o sei uno che<br />
crede che le “logiche di mercato” siano una delle<br />
ultime punk band al femminile scoperte da Pitchfork.<br />
Non ci sono mezze misure. In tempi in cui<br />
anche un Ep sembra troppo lungo, in un’era discografica<br />
logorroica e dispersiva come la nostra,<br />
spiattellare in un’ora di musica micro-frammenti<br />
da un minuto come divagazioni da sei sperando di<br />
farsi apprezzare da scribacchini perennemente in<br />
ritardo sulla tabella di marcia, equivale a puntarsi<br />
una rivoltella alla tempia. Basta un nonnulla per<br />
far partire il colpo. Gli El Cijo ne sono consapevoli,<br />
dimostrano una fiducia incrollabile nelle loro<br />
capacità, fanno per un po’ gli equilibristi sul filo<br />
ma alla fine se la cavano piuttosto bene, se è vero<br />
che questo Bonjour My Love non solo non è tempo<br />
perso, ma acchiappa pure. Con un tripudio di<br />
folk in bassa fedeltà (Blackbird Messenger), blues<br />
acustico (Every Woman), vaghezze jazz riconducibili<br />
al Tim Buckley più etereo (The Guy <strong>Of</strong><br />
Yellow Grain), morbidi strumentali (Calamari in<br />
frack) che si fa apprezzare da subito, regalando nel<br />
contempo raffinate incursioni musicali in territori<br />
di confine. Ancona la città di provenienza della<br />
60 / recensioni recensioni / 61
formazione, chitarre, contrabbasso, kazoo, piano<br />
elettrico, fiati e chissà cos’altro la strumentazione,<br />
Memphis (Tennessee) il quartier generale per queste<br />
registrazioni, per un disco che stupisce e non<br />
stanca, nemmeno alla lunga. Le idee, del resto,<br />
non mancano, il linguaggio è forbito, la maturità<br />
davvero a un passo. (7.0/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
EnaBlErs – tundra (ExilE on MainstrEaM,<br />
26 gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: s p o K e n wo r d -po s t ro c K<br />
È il 2009 e sembra davvero fuori tempo massimo<br />
proporre uno spoken word che declama sopra del<br />
post rock Novanta. È il 2009 e Tundra è il terzo<br />
lavoro del progetto Enablers, ideato da Pete Simonelli<br />
– alla voce - e accettato di buon grado dal<br />
chitarrista Kevin Thompson.<br />
A noi che ci abbiamo tanto riflettuto e scritto sopra<br />
il progetto non può che ricordare i Massimo<br />
Volume, con la differenza che allora i riferimenti<br />
del post oltreoceano erano – diciamo – coscritti,<br />
mentre ora sono storicizzati per tutti. Lo si capisce<br />
notando l’esperienza e la competenza calibrata<br />
di Carriage, con la sua riuscita struttura angolare.<br />
Mentre la parentela con la tecnica di Mimì e soci<br />
è dirompente, ossimorica rispetto alla riflessività<br />
slow-core del pezzo, nella title-track; e non manca<br />
nemmeno la catarsi, su cui abbiamo tanto insistito<br />
parlando dei MV. È un vortice che ci porterebbe<br />
solo a parlare solo della band italiana, non per deplorevole<br />
campanilismo, ma per un debito critico<br />
che sembra sgorgare come linfa e sangue insieme.<br />
Sono però fortunatamente questi i casi in cui prediligiamo<br />
le differenze al di là delle somiglianze, e<br />
che spesso le differenze sono quelle che “salvano”<br />
i nostri ascolti. In questo caso parliamo della caratteristica<br />
vocale di Simonelli, un crooning parlato<br />
che per occasioni selezionate riesce a trovare<br />
un’espressività che non può che giovare al combo<br />
post-rocckettaro. I momenti migliori, a tal proposito<br />
e dal punto di vista di chi scrive, sono quando<br />
il teatro baritonale della cassa toracica di Pete si<br />
trasforma nel tono imprecatorio di un Allen Ginsberg<br />
che legge in pubblico (Februaries) o sopra, a<br />
sua volta, una band; un tono perentorio ma stralunato<br />
nella sua aggressività; come in Bells, dove<br />
notiamo quell’intensità di accordo tra carica strumentale<br />
e vocale. E tra un voto che inizia per 5 e<br />
uno che iniza per 6 propendiamo per il numero<br />
più alto. (6.3/10)<br />
gasparE caliri<br />
fauna – rain (aurora BorEalis /<br />
southErn, 2008)<br />
gen e r e: bl a c K Me t a l<br />
Si cela dietro un alone di mistero, questa band<br />
americana, giusto per far perdere un po’ di tempo<br />
prezioso a chi cerca informazioni su Rain, capitolo<br />
primo dei Fauna, ovvero il duo formato da Echtra<br />
e Vines (tanto per rimanere in tema di storie ed<br />
eroi nordici, quando<br />
si parla di Black<br />
Metal), provenienti<br />
dal nordest del Pacifico.<br />
Una sola traccia<br />
lunga sessantatrè<br />
minuti (!). A parte i<br />
neanche troppo velati<br />
riferimenti alla<br />
simbologia nazista<br />
e ariana, Rain è la dilatazione estrema di tutti gli<br />
stereotipi del black metal di stampo nord europeo:<br />
arpeggi in tonalità minore lenti e scheletrici<br />
alternati a velocissime accelerazioni, saturazione<br />
sonora ai limiti della distorsione, voce strozzata e<br />
macabra. Tutto sommato, questo concept album<br />
non è il peggio che possa capitare tra le mani: meglio<br />
ascoltare il black metal in forma di suite che<br />
in un album con 15 brani tutti uguali. Per carità, i<br />
contenuti non si discostano molto dalla brodaglia<br />
di genere, a parte qualche lunga apertura al doom<br />
dei primi My Dying Bride, ma almeno l’intenzione<br />
di fare un passo oltre lo stereotipo c’è e si<br />
vede. (5.8/10)<br />
daniElE follEro<br />
franz fErdinand – tonight: franz<br />
fErdinand (doMino, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: r o c K po s t -p-fu n K<br />
I Ferdinandi alla terza e fatidica prova. Come al<br />
solito ci si aspetta qualcosa dal numero perfetto.<br />
Poi per le band che escono dal nu-rave quest’attesa<br />
è ancora più ricca di curiosità, dato che molti<br />
emul-baronetti stanno perdendo mordente (vedi<br />
per dirne due Kaiser Chiefs e Interpol). Già.<br />
Smalto da irresistibili dandy, brit fab-four style<br />
virato amfetamina, mod di ieri e domani cosa? I<br />
ragazzi, già vecchi anagraficamente agli esordi<br />
stanno riproponendo la più classica delle parabole<br />
rock: ci fanno vedere la dark side del loro successo<br />
in Ulysses, e ci ricordano la diaspora Beatles-letit-be.<br />
Across the Universe non c’è qui, ma nel rifare<br />
le origini con i soliti ritmi in levare e qualche aggiunta<br />
elettronica di tastiera che varia la ricetta, la<br />
dinamica con tutti i se e i ma del caso è la stessa,<br />
come in un disco di Bowie metà Ottanta.<br />
Capitalizzare il successo è ancora l’obiettivo principale<br />
e i singoletti del duca di allora ci piacquero<br />
tanto quanto ci piaceranno per un po’ quelli del<br />
quartetto di Glasgow. Del resto ci hanno stuzzicato<br />
il basso e i synth che pompano uptempo funk<br />
nella citata Ulysses e No You Girls. Mica male il ricordo<br />
northern soul con gli Hammond in Send Him<br />
Away, le atmosfere 80 di Live Alone e - per la prima<br />
volta - un accenno di psichedelia mescolata alla<br />
acid disco nella sorprendente Lucid Dreams. Tutti<br />
ingredienti che ci fanno fare i soliti proseliti per<br />
un prossimo disco spiazzante proprio come quello<br />
dei Supergrass. L’uso dell’elettronica probabilmente<br />
agevolerà i remixatori a sfornare singoletti<br />
riempi pista, ma Alex, invece di fare il fighetto,<br />
stupiscici la prossima volta. Ne sei ancora capace.<br />
(6.3/10)<br />
Marco Braggion E Edoardo Bridda<br />
john frusciantE – thE EMpyrEan<br />
(adrEnalinE Music, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: s o n g w r i t e r<br />
Fa sempre notizia John Frusciante in uscita dal<br />
gruppo, e dire che con The Empyrean colleziona<br />
il suo undicesimo disco in solo, un bottino<br />
niente male per un musicista che avrebbe potuto<br />
comodamente adagiarsi sugli allori. Che il gruppo<br />
madre sia un’attrazione<br />
per scolaresche<br />
in libera uscita<br />
non è mistero, ma<br />
non dimentichiamo<br />
che prima della<br />
penosa svolta arena<br />
rock i Red Hot Chili<br />
Peppers hanno pur<br />
sempre occupato un<br />
ruolo di primissimo piano nella cultura alternativa<br />
americana. Del resto l’emblematico white funk<br />
di dischi come Freaky Styley e Uplift Mofo<br />
Party Plan non è cosa da liquidare in due battute.<br />
Chi è il Frusciante solista quindi? Un uomo<br />
sicuramente innamorato delle sue origini, ma anche<br />
un impensabile ed impenetrabile songwriter.<br />
Detto che Eddie Hazel dei Funkadelic e Shuggie<br />
Otis rimangono quasi un punto fermo nel suo stile,<br />
sorprendono la sottile interpretazione di Dark/<br />
Light quasi un’ outtake dal Pacific Ocean Blue<br />
di Dennis Wilson; ancor più coraggioso il confronto<br />
con uno dei più grandi di tutti i tempi: Tim<br />
Buckley. Accedere alle arcane e celestiali volte<br />
di Song To The Siren non è esattamente un’impresa<br />
trascurabile, oltre al fegato ci vuole il buon gusto,<br />
ben intesi. Quando scorre l’apertura psichedelica<br />
di Before The Beginning, ci chiediamo davvero se i<br />
Funkadelic di Maggot Brain, siano dietro ad una<br />
colonna ad osservare in disparte, tanta è l’assonanza<br />
col periodo più lisergico della gang di George<br />
Clinton. Idee ed intuizioni che al gruppo madre<br />
sono venute a mancare in un sol colpo, anche se<br />
il commilitone storico Flea è a dar manforte sul<br />
disco, sciorinando le consuete ed avvolgenti linee<br />
di basso. Non è l’unico ospite di rilievo, visto che<br />
Johnny Marr degli Smiths si affaccia con discrezione,<br />
forse a causa dei suoi nuovi interessi americani<br />
(ha sbancato con i Modest Mouse come ri-<br />
62 / recensioni recensioni / 63
portano le recenti cronache). Di impatto anche la<br />
presenza del quartetto d’archi Sonus Quartet che<br />
di recente è stato ospite in studio di Sparklehorse<br />
e Gnarls Barkley. Lontano è il tempestoso e realmente<br />
‘drogato’ Frusciante del secondo album –<br />
Smile From The Street You Hold, sospeso tra<br />
fantasmi di Butthole Surfers e Jandek – il chitarrista<br />
californiano trova nuovamente la quadratura<br />
del cerchio con uno dei suoi più compiuti album<br />
di sempre. Chapeau! (6.8/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
gadaMEr - sElf titlEd (altrisuoni,<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: e l e c t r o/av a n t /ja z z<br />
Il violoncellista (con fregole elettriche) Zeno Gabaglio<br />
e il pianista (con tentazioni sintetiche) Andrea<br />
Manzoni avviano questo progetto di avant-fusion<br />
omaggiando nella ragione sociale uno dei padri<br />
dell’ermeneutica, il filosofo tedesco Hans-Georg<br />
Gadamer, morto nel 2002 ultracentenario non<br />
prima però di averci regalato concetti straordinariamente<br />
post-moderni come il circolo ermeneutico e<br />
la fusione degli orizzonti.<br />
Bene, ringraziamo wikipedia e proseguiamo tessendo<br />
lodi non sperticate ma abbastanza lusinghiere<br />
su un disco che riesce nell’impresa di fondere le<br />
allucinazioni cosmiche-ambientali del kraut (Gate)<br />
e le palpitazioni avant-jazz di Esbjorn Svensson<br />
Trio (Impro 14, Chiara), la fusion davisiana<br />
e la techno in odor di IDM (Methode), suonando<br />
torva e suggestiva, misteriosa e immediata come<br />
la soundtrack di un lungometraggio suburbano, in<br />
attesa che il miracolo della natura ci assolva dagli<br />
squallidi residui (materiali e spirituali) della ipertecnologia.<br />
Tra scenografie assorte e claustrofobiche (Impro 01)<br />
e carezzevoli ossessioni sbocciate tra loop e fremiti<br />
di violoncello (Orizzonte), tra deep bass ipnotizzati<br />
da un impertinente minimoog e barbagli romantici<br />
nella caligine androide, ti capita di ipotizzare una<br />
situazione in cui Popol Vuh, Brian Eno, Fennesz<br />
e Zawinul rilasciano spore semantiche da<br />
interpretare impastandone il senso attuale, quelli<br />
passati e - casomai - quelli futuri.<br />
Talora le escursioni danzerecce suonano un pizzico<br />
inopportune - come quando in Martinsson scompaginano<br />
un assolo cameristico di violoncello, un<br />
po’ come servire un limoncello dopo un sassicaia<br />
– senza però rovinare la buona impressione complessiva.<br />
(6.8/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
grandMastEr flash - thE BridgE<br />
(strut / audiogloBE, 23 fEBBraio<br />
2009)<br />
gen e r e: h i p ho p<br />
Operati i dovuti distinguo di compressione stilistico-temporale,<br />
l’effetto è lo stesso.<br />
Quello di ascoltare un disco di Jerry Lee Lewis,<br />
meglio se circondato da ospiti prestigiosi, in pieno<br />
nuovo secolo e con ciò misurare quanto e come il<br />
Pioniere di un genere musicale possa ancora dirsi<br />
al passo coi tempi. Basterebbe in fondo trovare il<br />
Nostro in condizioni dignitose e non ridotto alla<br />
patetica macchietta di se stesso, ma pensateci: c’è<br />
gente che arriva al primo disco ed già suona risaputa,<br />
prevedibile, stantia e non importa se fa rock<br />
o hip-hop.<br />
Quindi tocca azzerare tutto e cancellare gli appunti<br />
dalla lavagna, ascoltare questo disco come<br />
fosse un album come gli altri. Chi sia Grandmaster<br />
Flash (che come ricordava Deborah Harry<br />
in Rapture “is fast”) lo sa chiunque abbia un minimo<br />
di infarinatura nel rap e dunque eviteremo di<br />
esibirci in scienza dell’ovvio.<br />
Quel che ci preme semmai sottolineare è come<br />
The Bridge sia - non senza una certa sorpresa - mediamente<br />
fresco e godibile, capace di esibire smalto<br />
ed equilibrio che difettano a tanti campioni<br />
del crasso e del botteghino. Sarà che il parterre è<br />
più che semplicemente adeguato (citiamo quasi a<br />
caso Q-Tip, Busta Rhymes, KRS-One, Big Daddy<br />
Kane…) e i suoni si adeguano, ma una gommosa e<br />
subliminalmente krauta Bounce Back, il caramello di<br />
Shine All Day e la squadrata però sexy Swagger non<br />
Hi gH l i gH t<br />
hjaltalín - slEEpdrunk sEasons (kiMi, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: c h a M b e r po p<br />
Sensibilità pop all’ennesima potenza, chamber e orchestrazioni,<br />
apparente facilità delle melodie e leggerezza, con lo<br />
zampino di Benni Hemmm Hemm e Mum: arriva in Europa<br />
a inizio 2009 la band che tanto entusiasmo ha suscitato<br />
l’anno scorso nella patria Islanda. L’esordio sulla lunga<br />
distanza Sleepdrunk Seasons, che già dal nome (ebbrezza<br />
derivata dalla mancanza prolungata di sonno) evoca facilità<br />
e rilassatezza, star bene insieme e piacevolezza, non<br />
smentisce affatto queste caratteristiche. Immaginate una mini orchestra sinfonica che<br />
arriva fino a dieci elementi, aggiungete strumenti non consuetissimi, quali fagotto, tromba,<br />
trombone, corno francese e clarinetto, oltre all’usuale armamentario di una band del<br />
genere, immettete canzoni con massime variazioni in tempi e mood, strumentali o cantate<br />
a doppia voce, con parti in inglese e islandese, aggiungete un’impetuosità lirica ma<br />
non barocca come i primi Arcade Fire, una facilità alla melodia e una ottima alchimia di<br />
gruppo. Le caratteristiche per creare l’apparente facilità del pop sembrano esserci tutte,<br />
unite a un talento per la composizione, ad opera del leader Hogni Egilsson, vocalmente<br />
un incrocio tra Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens Lekman. Il risultato è un gioiellino<br />
che unisce una base melodico ritmica beachboysiana con un’orchestrazione variegata,<br />
per mini suite orchestrali (Goodbye July) miste a pop song vere e proprie. L’amore per<br />
Bacharach o Hazelwood così come per la musica colta è palese; ecco poi Lekman e i<br />
Decemberists incontrare le voci e le variegate orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic<br />
Music), mentre gli ultimissimi Sigur Ros più pop fanno eco alla sensibilità Antony (The<br />
Boy Next Door), Non sorprende imbattersi anche nel barocco meno melodrammatico<br />
dei canadesi Stars (Debussy, Selur) e nei Belle & Sebastian più malinconici virati Drake<br />
(nell’intensa e melodica The Trees Don’t Like The Smoke). Nonché nel pop eclettico<br />
degli Hidden Cameras. Ed è impossibile da non citare, arrivati a questo punto per gli<br />
Hjaltalín, la complessità di uno come Sufjan Stevens. Se si è già così ben riconoscibili<br />
all’esordio, non dovrebbe essere troppo difficile il proseguimento. (7.2/10)<br />
tErEsa grEco<br />
le ascolti ogni giorno; sarà che lo stesso vale per<br />
l’irruenza controllata di Tribute To The Breakdancer,<br />
per il martello esuberante Here Comes My DJ e per<br />
l’oriente immaginato in Those Chix; sarà che le basi<br />
sono per ogni episodio fantasiose ed elastiche, pos-<br />
senti e ingegnose nonostante l’acqua passata sotto<br />
i ponti. Più di tanto al Maestro del Giradischi non<br />
si può a ragion veduta chiedere, pertanto non lo<br />
faremo. Però, che classe. (6.5/10)<br />
giancarlo turra<br />
64 / recensioni recensioni / 65
hauschka – snowflakEs & carwrEcks<br />
Ep (fat cat/audiogloBE, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: c h a M b e r Mu s i c<br />
Ancora una deliziosa offerta da parte del pianista<br />
tedesco – con base a Düsseldorf - Volker Bertelmann,<br />
compositore a tutto tondo che ha letteralmente<br />
trasposto il suo sapere accademico in contesti<br />
intimamente indie. Un percorso che per certi versi<br />
può rimandarci agli analoghi processi dei Rachel’s<br />
di Music For Egon<br />
Schiele. Volker che<br />
in arte è meglio<br />
conosciuto come<br />
Hauschka lavora da<br />
sempre sulle ampie<br />
possibilità del piano<br />
preparato ed il<br />
nuovo Ep – 7 brani<br />
per quasi 40 minuti<br />
di musica, quasi a rinnegare il formato merceologico-<br />
nasce dalle session del precedente Ferndorf,<br />
un album che pur mantenendo la costante ‘minimalista’<br />
introduceva sottili arrangiamenti d’archi<br />
e piccole profezie ritmiche. Un fascino per nulla<br />
snaturato dal nuovo cimento, che anzi si sposta<br />
ancor più con decisione nei meandri della musica<br />
da camera, mantenendo un’ affatto trascurabile<br />
sobrietà. Prossima alle magie di Penguin Cafè Orchestra<br />
e del più riflessivo Philip Glass, la musica<br />
di Snowflakes & Carwrecks è puro impressionismo<br />
contemporaneo, delizia auditiva che indica al strada<br />
– tutta in discesa – per questo talento germanico,<br />
partito in sordina nemmeno 4 anni or sono<br />
con il debutto – Substantial - per la piccola indipendente<br />
Karaoke Kalk. (6.9/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
kiEran hEBdEn & stEvE rEid – nyc<br />
(doMino, novEMBrE 2008)<br />
gen e r e: j a z z<br />
Terre di mezzo. New York è stata spesso la città<br />
che ha visto nascere ritmi e melodie creoli, la sede<br />
che ha ospitato germinazioni e inseminazioni tra<br />
generi, a volte a coppie, a volte misti e improvvisi<br />
come una discendenza che si manifesta all’ennesima<br />
generazione. La città non può che permeare<br />
il prologo alla recensione di NYC - quarto parto<br />
della coppia formata dal Four Tet Kieran Hebden<br />
e dal batterista jazz Steve Reid -, che a sua<br />
volta del resto probabilmente non può fare a meno<br />
di metafore di filiazioni e incroci. Per un motivo<br />
almeno; i precedenti (tre) dischi del combo erano<br />
sì all’incrocio tra le due musiche degli autori, ma<br />
giocavano sul terreno fertile e per certi versi neutro<br />
del free jazz, dell’impro, e quindi da un certo<br />
punto di vista erano più sbilanciate verso quello<br />
che dei due fa il jazzista di mestiere. NYC invece<br />
cerca altrove; il luogo lo sappiamo dal titolo,<br />
il concetto lo si può desumere senza troppe difficoltà;<br />
è quel genere musicale che può indicare un<br />
punto di tangenza neanche così sottile tra Kieran<br />
e Steve; quella cosa che contiene la pulsazione del<br />
funk di fine Settanta (1St & 1St) che a volte si suole<br />
chiamare mutant-disco, peccando di imprecisione<br />
sineddotica; il sibilo dei synth (Arrival); il ritmo fisso<br />
dei crescendo; il groove sintetico e grasso (Lyman<br />
Place). E pensare che una operazione così chirurgica<br />
è il prodotto di soli due giorni di registrazione.<br />
Ma non può neanche troppo stupirci la cosa; i due<br />
si sono studiati, prestati entrambi a concessioni e<br />
prove – quasi sempre soddisfacenti, peraltro; e ora<br />
hanno scoperto, guardando verso New York, che a<br />
loro due piace anche fare le stesse cose. Né distanti<br />
o più vicine più all’uno o all’altro; semplicemente<br />
spinti dalla percussività che monta fatta da elettronica<br />
e batteria.<br />
E sentite la finale Departure; ritmo, pause e ripartenze<br />
che esaltano le due parti in causa e ne fanno<br />
sentire la reciproca necessità; una sincronia di intenzioni<br />
di impressionante efficacia; il brano meno<br />
newyorkese forse, quasi continentale, si direbbe<br />
qui in Europa; una specie di jazz-motorik four-tetiano;<br />
senza troppi giri di parole, un piccolo capolavoro.<br />
(7.2/10)<br />
gasparE caliri<br />
honEychild colEMan - halo insidE<br />
(coME la luna) (MattEitE / vEnus,<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: c r o s s o v e r -ho p<br />
Inizia come una cuginetta arguta di Erykah<br />
Badu invalvolata della Bjork altezza Enjoy, prosegue<br />
concedendosi fregole indie-rock e strali<br />
drum’n’bass, quindi armeggia dense congetture<br />
dub, devozioni post-wave e setosi impasti folk-soul<br />
come se nulla fosse. E’ il debutto solista di Carolyn<br />
“Honeychild” Coleman, versatile artista originaria<br />
del Kentucky ma cresciuta tra spasmi punk e club<br />
culture nel calderone newyorkese (non stupisce<br />
trovare tra le sue frequentazioni i cari Tv On The<br />
Radio), dove ha fatto la busker nella metropolitana<br />
e la dj, ha dato vita ad una band “afropunk”,<br />
ha strapazzato allucinazioni videoartistiche e organizzato<br />
festival, finché non ha incontrato Matteo<br />
Dainese, già batterista per Ulan Bator, ed è<br />
una specie di colpo di fulmine artistico.<br />
Il nome della Coleman compare tra i credits di<br />
Feed the Dog (Matteite / Venus, 16 febbraio<br />
2007), album di debutto di Dejlight, band allestita<br />
da Dainese col bassista dei Tre Allegri Ragazzi<br />
Morti Enrico Molteni. Assieme a Matteo Carolyn<br />
abbozza l’ipotesi di questo Halo Inside, che vede<br />
oggi finalmente la luce. Album che come dicevamo<br />
esplora le sfaccettature espressive della ragazza col<br />
turgore e la flemma di chi la grinta l’ha smerigliata<br />
in prima linea e sa bene come ci si muove a cavallo<br />
tra underground e popular. Buona anzi buonissima<br />
la prima: grazie ad una scrittura capace di esplorare<br />
con sagacia e disinvoltura le forme in gioco, ad<br />
una produzione (dell’italianissimo Max Stirner, al<br />
secolo Emanuele Fusaroli) che bilancia preziosismi<br />
e misura, ad un variopinto parterre di ospiti che<br />
porta in dote magia senza invadere la scena (oltre<br />
a Dainese, ci sono tra gli altri The Mad Professor<br />
nella fragranza dub di Your Idea <strong>Of</strong> Time, un<br />
ottimo Jim “Natureboy” Kelly nella palpitante<br />
Never Goin’ Home Again e Robyn Gutthrie nientemeno<br />
nell’etera December).<br />
Ma l’ingrediente segreto che tutto avvalora è il pi-<br />
glio di Honeychild, ovvero la sua voce e il modo<br />
in cui la usa per rilasciare un’idea costante di soul<br />
stemperato, smorzato, in agguato tra suggestioni<br />
estrose e astruse, siano il funk-jazz torvo à la<br />
Morphine di Torch Song, sia il folk-psych ombroso<br />
della stupenda Molassess, sia la pop-wave trafelata<br />
e sognante di Inside, sia soprattutto la techno-funk<br />
evoluta di Headlock.<br />
Divertente, intrigante, insidioso: un esordio notevole.<br />
(7.4/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
hot chip with roBErt wyatt and<br />
gEEsE – sElf titlEd (parlophonE<br />
rEcords, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: r e M i x ep<br />
Operazioni del genere, nella maggior parte dei<br />
casi, le si riserva e consiglia - vedi ad esempio il<br />
nuovo 5 track degli of Montreal – ai fan di stretta<br />
osservanza, ma<br />
il novello extended<br />
play accreditato a<br />
Hot Chip, Robert<br />
Wyatt e Geese esula<br />
l’assunto. Made In<br />
The Dark, l’ultimo<br />
e indovinato disco<br />
degli Hot Chip, ritoccato<br />
in quattro<br />
dei suoi episodi migliori per mano del sempreverde<br />
ex Soft Machine e dalla coppia, al secolo<br />
Emma Smith e Vince Sipprell, nota per i servigi<br />
in seno all’Elysian Quartet. L’uomo di Canterbury<br />
impreziosisce, con un cantato ai margini e qualche<br />
orpello di giustezza, la ballad Made In The Dark per<br />
poi intervenire in modo voluminoso nella successiva<br />
- già molto wyatt-iana di suo - Whistle For Will<br />
decorandola di un piano elettrico e di una voce, la<br />
sua, che non smetterà mai di emozionare. Il duo<br />
Geese interviene in corso d’opera convertendo,<br />
ancora con Wyatt presente, We’re Looking For A Lot<br />
<strong>Of</strong> Love in salsa cameristica e privando One Pure<br />
Thought dell’originaria patina dance a favore di un<br />
66 / recensioni recensioni / 67
appeal avant-pop decisamente più accattivante.<br />
Per i quanti lo trovassero difficile da reperire (è<br />
stampato in edizione limitata), sul sito degli Hot<br />
Chip è possibile scaricare gratuitamente le tracce<br />
Made In The Dark e We’re Looking For A Lot <strong>Of</strong><br />
Love.<br />
Quando si dice “non avere attenuanti”. (7.5/10)<br />
gianni avElla<br />
hot gossip – you look fastEr whEn<br />
you’rE young (ghost / audiogloBE,<br />
Marzo 2009)<br />
gen e r e: in d i e ro c K<br />
Gli italiani non lo fanno necessariamente meglio,<br />
nella fattispecie il rock; ma ogni tanto riescono a<br />
pareggiare se non a superare tanti colleghi della<br />
stessa nicchia: è il caso di questo gruppo milanese<br />
che, con un nome azzeccato da next big thing<br />
–apprezzato infatti anche all’estero- e uno stile che<br />
pesca nei classici modelli di questi anni (Devo, in<br />
questo caso, e altra rock-wave assortita), riesce a<br />
tenersi lontano da furberie e facilonerie di tanti<br />
“eroi” (per un giorno, o poco più) d’oltremanica.<br />
Merito di una grinta che, abbandonati certi furori<br />
punk e certe ingenuità del precedente Angles<br />
(2006), viene incanalata nel tocco, nel piglio con<br />
cui la band affronta ed esegue i suoi pezzi, dando<br />
loro quel quid grazie al quale riescono ad usare<br />
in maniera intelligente anche qualche fronzolo<br />
abusato e a inventarne di tali da vivacizzare anche<br />
quelle canzoni apparentemente prive di melodie<br />
o ritornelli memorabili o che indulgono troppo al<br />
già sentito.<br />
Più che il materiale in sé, efficace comunque nelle<br />
iniziali Everybody Else e And Again, nel vaudeville<br />
di You Better Know e soprattutto negli ammiccamenti<br />
Stones-AC/DC della cavalcata Cops<br />
With Telephones, è proprio questo tipo di approccio,<br />
questa baldanza mentre si ritirano dal troppo<br />
ovvio -oltre a una maggiore coerenza e focalizzazione<br />
stilistica- che alza questo disco un po’ al di<br />
sopra della media odierna e che fa ben sperare per<br />
i loro concerti.<br />
E peccato che non abbiano sviluppato ulteriormente<br />
You Name It: finisce, un po’ come il disco,<br />
come se avessero staccato la spina. (6.7/10).<br />
giulio pasquali<br />
huMcrush – rEst at worlds End<br />
(runE graMMofon, dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: j a z z /e l e t t r o n i c a<br />
Del batterista Thomas Strønen, legato alla scena<br />
avant-jazz norvegese, ci è capitato di parlare recentemente<br />
a proposito<br />
dell’ultima uscita<br />
della sua band principale,<br />
i Food. Per<br />
avere notizie su Stale<br />
Storløkken, guardare,<br />
invece, nel<br />
dizionario della musica<br />
scandinava, alla<br />
voce Supersilent.<br />
Un duo ben rodato, con all’attivo, prima di questo<br />
Rest At The Worlds End, già due dischi, entrambi<br />
pubblicati dalla Rune Grammofon. A distanza di<br />
due anni dall’ultimo Hornswoggle e di quattro<br />
dagli esordi, la batteria free di Strønen ritorna ad<br />
incontrare le tastiere di Storløkken, in un binomio<br />
timbrico piuttosto inedito. Nel caso dell’album in<br />
questione, si tratta di una raccolta di registrazioni<br />
dal vivo in giro per la Norvegia, improvvisazioni<br />
mai pubblicate prima e decisamente diverse l’una<br />
dall’altra. I suoni delle tastiere forniscono alla musica<br />
un elemento inconfondibilmente electro, cui<br />
il drumming si associa, in alcuni casi macinando<br />
groove tra il jazz e la fusion (Edingruv; Rest At Worlds<br />
End), in altri liberando il ritmo e creando imprevedibili<br />
impasti sonori con l’altro strumento (Audio<br />
Hydraulic; Creak), impazzendo letteralmente nei<br />
conati spastici di Bullfight. Se queste vibrazioni si<br />
rilassano, possono sfociare nell’ambient di Airport o<br />
nel prog di Solar Sail, in cui le tastiere compiono un<br />
tuffo nel passato di almeno quarant’ anni. La creatività<br />
dei due, quando riescono (quasi sempre, in<br />
realtà) a combinarsi, dimostra di valere per quat-<br />
tro, facendo dimenticare completamente la mancanza<br />
di un supporto ritmico aggiuntivo: ascoltare<br />
la conclusiva Hit per credere. Conclusiva per il cd,<br />
poichè la versione in doppio vinile contiene addirittura<br />
sette brani in più. Un’altra conferma, l’ennesima,<br />
dell’ottimo stato di salute di cui gode la<br />
scena avant norvegese, sia in qualità che in quantità.<br />
(7.2/10)<br />
daniElE follEro<br />
il pan dEl diavolo - il pan dEl diavolo<br />
Ep (800a rEc / MalintEnti, dicEM-<br />
BrE 2008)<br />
gen e r e: f o l K , b l u e s , r o c K a b i l l y<br />
Se è vero che il blues è il “pan del diavolo”, questo<br />
duo palermitano lo mastica che è un piacere.<br />
Non solo: lo metabolizza, lo trasforma in un ibrido<br />
a base principalmente di folk (l’assetto acustico –<br />
chitarre, grancassa, sonaglio - è imperativo) e di<br />
vita vissuta, fatta di disgrazie quotidiane affrontate<br />
con irriverente sberleffo e parodistica, ironica<br />
disperazione. Genuinità, spontaneità e freschezza<br />
sono le armi più affilate dell’arsenale di Pietro<br />
Alessandro Alasi e Gianluca Bartolo: una formula<br />
personale che si riversa prepotente ed esplode<br />
fragorosa nelle quattro tracce di questo dischetto<br />
d’esordio, pubblicazione #1 della neonata 800A<br />
Records, affiliata con quella Malintenti già dietro<br />
le interessanti uscite di Don Settimo e Toti<br />
Poeta. Come nel caso di quei dischi, parlare di<br />
“segnali positivi provenienti dalla Sicilia” è semplicemente<br />
riduttivo: questa è musica che guarda<br />
ben aldilà dello Stretto, pur cibandosi di sensazioni,<br />
attitudini, istinti fieramente locali. Vengono in<br />
mente tanto i Violent Femmes quanto il miglior<br />
Bennato, oltre al quasi ovvio Rino Gaetano (riferimento<br />
obbligato per la visionarietà dei testi, fra<br />
piante cresciute dal ginocchio, volti cancellati con<br />
le mani e così via); il tutto caratterizzato da una<br />
vocalità sopra le righe che galleggia fra toni rock<br />
blues quasi urbani (Coltiverò l’ortica, complice la<br />
mano del produttore Fabio Rizzo, già in Waines<br />
e Second Grace, altre due formazioni in espan-<br />
sione libera dal capoluogo siciliano) e rockabilly<br />
forsennati (I fiori, Stile roberto il maledetto), pestati al<br />
ritmo di una festa di paese.<br />
In attesa di una conferma sulla lunga distanza<br />
consigliamo di tenerli d’occhio, perché quel poco<br />
che queste canzoni promettono varrebbe già tutta<br />
l’attenzione di solito riservata ad altri act indie nostrani<br />
più in vista – a nostro avviso, da qui si possono<br />
sviluppare gli anticorpi contro la depressione<br />
da “anni zero” di Vasco Brondi e delle sue Luci<br />
della centrale elettrica; perché per scacciare<br />
via il blues - chase the blues away, come diceva Tim<br />
Buckley -, in fondo, non c’é niente di meglio di<br />
una sonora pernacchia. (7.2/10)<br />
antonio puglia<br />
jaMEs yuill – turning down watEr<br />
for air (Moshi Moshi / sElf, 6 fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: f o l K t r o n i c a<br />
La generazione glitch-pop dei primi anni duemila<br />
in certi territori si è poi tramutata in folktronica,<br />
ossia quel flirtare di bleeps e beat prodotti dal laptop<br />
di turno con una chitarra acustica e una voce<br />
melodiosa e rattristita quanto basta. Col senno di<br />
poi, viene da ridere a pensare che intere generazioni<br />
di geek musicali abbiano preso quel Give<br />
Up dei Postal Service<br />
totalmente<br />
come monito nonostante<br />
siano passati<br />
sei anni e di acqua<br />
sotto i ponti ne sia<br />
scorsa parecchia. A<br />
scanso d’equivoci,<br />
essendo la formula<br />
del genere arrivata da tempo al ripetere se stessa<br />
nei modi e nell’espressione, l’unico arbitro della<br />
situazione è la compattezza della scrittura e la<br />
presenza di singoli episodi che facciano da traino<br />
all’intero disco. James fa il suo lavoro con passione<br />
e colleziona un buon numero di canzoni riuscite,<br />
dove l’intersecarsi dei soliti ingredienti in gioco<br />
68 / recensioni recensioni / 69
provoca un fluire dell’ascolto molto piacevole (l’hit<br />
da dancefloor alternativo No Pins Allowed, la malinconia<br />
gocciolante di Left Handed Girl, la ballatona<br />
commovente This Sweet Love e la lezione Morr Music<br />
di No Surprise), che però tende alla lunga a mostrare<br />
il fianco quando gli stilemi diventano un limite<br />
da ricalcare senza troppa fantasia. Quindi un<br />
po’ Maximilian Hecker, un po’ Tunng, un po’<br />
tanto Gibbard + Tamborello, il difetto principale<br />
di certe produzioni seppur supportate da un buon<br />
numero di pezzi sopra la media è il fatto di non<br />
spostarsi di un millimetro da territori già esplorati<br />
appieno, stemperando l’entusiasmo appena sopra<br />
la sufficienza. Il talento si avverte, manca solo un<br />
po’ di coraggio. (6.1/10)<br />
alEssandro grassi<br />
jocElyn pulsar - pEnso a sonia Ma<br />
suono pEr la gloria (agos Music -<br />
2009)<br />
gen e r e: l o-fi/po p<br />
Siamo al quarto disco dal 2004 per i Jocelyn Pulsar,<br />
il repertorio comincia a farsi significativo, roba<br />
da fare i conti con una certa maturità. Invece, loro,<br />
niente: stanno lì a palleggiare lo stesso disincanto<br />
ad alzo zero di sempre, indie a bassa fedeltà con<br />
l’ovosodo in gola e quel prurito al basso ventre subito<br />
smorzato da uno spleen frugale, di quelli che<br />
al tempo del telefono fisso finivi per scrivere sulla<br />
paginetta del diario e oggi ti tocca dare in pasto ai<br />
social network e ai telefoni cellulari. L’ingrediente<br />
principale del loro songwriting è una sorta di rammarico<br />
stupefatto per lo scarto insanabile dall’immaginario<br />
degli ottanta, divorato dall’evoluzione<br />
mediatica che significa anche profonda mutazione<br />
esistenziale. Personaggi e situazioni dell’altro ieri -<br />
dal portiere che parava senza mani al whiskey che<br />
invecchiava sette anni e non c’erano cazzi, dalla<br />
grande festa al mobilificio al giocatore di basket<br />
sovradimensionato a fine corsa, dal maggiordomo<br />
spacciatore di delizie all’incredibile forno autopulente<br />
- talmente obsoleti da sembrare di un altro<br />
pianeta, provocando una pellicola di disarmo at-<br />
traverso cui possiamo osservare i tormenti inconfessati<br />
del campione di calcetto, la boria sotto vuoto<br />
spinto del critico musicale di lungo corso, oppure<br />
il melodramma minimale di chi ama malgrado la<br />
sindrome influenzale. Ballate che ciondolano tra<br />
l’acustico e il sintetico concedendosi talora un’elettricità<br />
bonaria, capaci<br />
sì di appiccicarsi<br />
alle orecchie<br />
ma non abbastanza<br />
da arrivarti al cuore.<br />
Questo il difetto<br />
principale del quartetto<br />
romagnolo: la<br />
poetica del pensiero<br />
debole conduce ad una debolezza espressiva oserei<br />
dire fisiologica. Un’impostazione rispettabile e ci<br />
mancherebbe, però si condannano da soli a fare i<br />
nipotini sfigati dei Pavement vita natural durante.<br />
Mi aspetterei - mi augurerei - da parte loro un<br />
guizzo stilistico verso l’alto, un sussulto d’ambizione.<br />
D’altronde, per dipingere una parete grande ci<br />
vuole un pennello grande. O era un grande pennello?<br />
Boh. (6.2/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
kid606 – diE soundBoy diE Ep (vEry<br />
friEndly, dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: d e e p te c h n o<br />
Più che mai attuale questo EP lungo per uno degli<br />
assi della techno deviata come il ragazzo Kid606.<br />
La proposta si situa infatti nel labile confine tra<br />
le esperienze dei maghi Warp prima maniera, le<br />
atmosfere belgiche che stanno rivivendo nelle avventure<br />
di Mr Oizo e inevitabilmente il dubstep.<br />
Come a dire: techno. Come a dire: nord Europa<br />
e raving. Ascoltate ad esempio l’acidità di una<br />
traccia come Loose Noose e sentirete gli echi degli<br />
esordi Chemical Brothers, proseguite poi con Get<br />
In The Way e ditemi se non c’è tutto il clubbing dei<br />
90, con quegli effetti che fanno ancora una volta<br />
’House Nation’ un motto per cui morire col sorriso<br />
plastificato in faccia. Non solo club comunque: You<br />
Can’t Stop A Stepper è l’accenno al dubstep virato<br />
reggae, Bat Manners ripercorre le orme della ambient<br />
di gente come Pole e Gas e per finire Death<br />
Is Pain Leaving The Body è un brivido nero che scuote<br />
come il soul-grime di Burial. Tre quarti d’ora<br />
che ci ricordano come alcuni vecchi maestri siano<br />
ancora capaci di dire la loro e di come l’eterogeneità<br />
sia ormai d’obbligo. Ben fatto, Kid. Ora ci<br />
vuole l’album.(7.0/10)<br />
Marco Braggion<br />
la otracina – Blood Moon ridErs<br />
(holy Mountain, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: h e a v y ps i c h e d e l i a<br />
Ultimo parto, temporalmente parlando, in casa La<br />
Otracina con Ninni Morgia in formazione. Dopo<br />
qualche interlocutorio passaggio minore – meglio<br />
il cd-r Crystal Wizards From The Cosmic Weird uscito<br />
per Sky-fi con ancora la chitarra del siciliano,<br />
che il “casalingo” The Risk <strong>Of</strong> Gravitation per Color<br />
Sounds – esce ora in solo vinile per Holy Mountain<br />
questo 5 pezzi che si pone in scia all’ottimo Tonal<br />
Ellipse <strong>Of</strong> The One. Non per sembrare patriottici,<br />
ma lo scarto essenziale rispetto alle nuove cose<br />
pubblicate dal gruppo – virate verso un versante<br />
più metallico e francamente troppo pacchiano –<br />
sembra risiedere proprio nelle volute chitarristiche<br />
di Morgia. Un suonato in grado di trainare il suono<br />
pachidermico e lieve allo stesso tempo del terzetto,<br />
di farlo proprio, di dettare tempi ed evoluzioni in<br />
maniera anche netta (certe aperture hard-prog di<br />
Inner Mind Journey così come i deliqui mantrici di<br />
Ballad <strong>Of</strong> The Hot Ghost Mama Pt.1) ma mai banale.<br />
Non da meno gli altri due vertici del triangolo<br />
newyorchese, qui ognuno al rispettivo zenith: il<br />
bassista Evan Sobel (anche al piano elettrico) e il<br />
batterista/fondatore Adam Kriney non sono comprimari.<br />
Ma anzi, i supporter perfetti per il lavorio<br />
della chitarra, col loro affiatamento e soprattutto<br />
con l’estrema duttilità: che si tratti di accendere il<br />
motorik o di contrappuntare i frammenti chitarristici,<br />
i due rispondono sempre presente. Il risultato<br />
perciò non può che essere un frullatore di rock<br />
acidissimo, psichedelia krauta corrosiva, jam da<br />
Velvet selvaggi, attitudine free, incubi jodorowskyani,<br />
evanescenze spacey e tanto altro ancora che<br />
si avvicina ai picchi toccati da Tonal…. La qual<br />
cosa ci fa avvertire ancor di più, come una nube<br />
minacciosa, le dimissioni di Morgia. (7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
lars horntvEth – kalEidoscopic<br />
(sMalltown supErsound / faMily affair,<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: c o n t e M p o r a n e a<br />
Lo si era intuito dal debutto Pooka che Lars Horntveth<br />
è personaggio che ama mettersi in gioco.<br />
Kaleidoscopic è una mossa importante, imponente,<br />
per mole e giro di vite implicato. La Latvian<br />
Symphony Orchestra al completo (quarantuno<br />
elementi suddivisi tra archi, percussioni, clarinetto,<br />
flauto, trombone e arpa) diretta dal norvegese<br />
Terje Mikkelsen e impreziosita dallo stesso Horntveth<br />
al piano, fiati e clarinetto. Il canovaccio che<br />
ne viene - una suite di trentasette minuti ispirata,<br />
a detta del suo artefice, a Jim O’Rourke, Robert<br />
Wyatt, Stereolab, Dave Brubeck, Joanna Newson,<br />
Bernanrd Herrmann e l’arrangiatore di archi di<br />
Gainsbourg Jean-Claude Vannier – somiglia ad<br />
una versione high tech di Steve Reich persosi in<br />
un vaudeville venusiano. Lo scorrere dei minuti,<br />
ripresi live in una piccola chiesa di Riga, dal decimo<br />
primo in avanti si leva nel suo essere policromo<br />
alternandosi in incisi cinematici e leggiadrie<br />
da musical post moderno che, secondo i dettami<br />
dell’autore, variano in funzione dell’umore. In<br />
progress insomma. Immaginifico. A suo modo un<br />
genio, Lars Horntveth rischia seriamente di candidarsi<br />
a novello Simon Jeffes. Obbligatorio tenerlo<br />
d’occhio. (7.0/10)<br />
gianni avElla<br />
lEadfingEr – rich kids (Bang! rEcords,<br />
2008)<br />
gen e r e: r o c K Ma i n s t r e a M<br />
A qualcuno che se ne intende un po’ del panorama<br />
70 / recensioni recensioni / 71
pop-rock australiano nomi come Yes Men, Asteroid<br />
B612 e Brother Brick può darsi che dicano<br />
qualcosa. Così come il<br />
nome di Stewart “leadfinger”<br />
Cunningham, chitarrista<br />
delle suddette band,<br />
che stavolta si è messo “in<br />
proprio”, dando vita ad<br />
un trio a sua immagine e<br />
somiglianza (e nome), accompagnato<br />
dal bassista Wayne Stockes e Stephen<br />
O’Brien alla batteria. Le sedicenti premesse potrebbero<br />
anche essere allettanti. Influenze “dichiarate”:<br />
MC5, Stooges, Radio Birdman. Risultato:<br />
un misto tra il southern rock, i Soul Asylum<br />
e gli U2 più recenti. Non riusciamo veramente a<br />
trovare più felice paragone con un rock decisamente<br />
rivolto al mainstream, dagli spigoli limati e<br />
il ritornello facile e scontato, reso leggermente più<br />
maschio da qualche timida distorsione. Speriamo<br />
proprio non sia questo, come qualcuno dice, il<br />
“vero” Sydney r’n’r. (5.0/10)<br />
daniElE follEro<br />
lonEy, dEar – dEar john (polyvinyl,<br />
gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: indie po p<br />
Gli svedesi Loney, Dear giungono con Dear John al<br />
traguardo del terzo album. Si registra il raggiungimento<br />
di una maggiore maturità stilistica, specialmente<br />
nello svilupparsi dell’impianto strumentale –<br />
sempre più stratificato e curato da campioni e suoni<br />
elettronici -, e di una più intensa introspezione della<br />
loro idea di pop. Infatti, essa si fa ancor più leggiadra<br />
e malinconica concedendo più spazio alla riflessione.<br />
Ciò rappresenta simultaneamente un merito<br />
e un difetto: perché sì, le canzoni ora guadagnano<br />
in profondità emotiva, ma finiscono per stancare a<br />
un ascolto intero dell’album. Esclusione fatta per<br />
il buon “tiro” dell’apripista Airport Surroundings,<br />
di Everything Turns To You e di Summers, il resto<br />
dell’album si muove su più quiete e distese suite<br />
musicali, ora intensificandone la drammatizzazio-<br />
ne con ricercate orchestrazioni, ora dilatandole con<br />
eteree sospensioni sonore. Come se i Grandaddy<br />
flirtassero con i Radiohead di Exit Music (For A<br />
Film), tanto per rendere l’idea: su tutte Under A<br />
Silent Sea, ballad lunare che si particolarizza con<br />
aggiunta di vocoder e innesti faithlessiani a contrappuntare,<br />
e Harm, costruita sul celebre e dolente<br />
Adagio di Albinoni. Singolarmente, ogni episodio<br />
piace e persuade ma è la loro concatenazione a non<br />
convincere a pieno. Qualche più sbarazzino intermezzo<br />
avrebbe sicuramente giovato al risultato finale.<br />
Ma, nonostante ciò, Dear John è album coraggioso<br />
da considerarsi, comunque, un passo in avanti<br />
e innovativo nel loro percorso artistico. (6.8/10)<br />
andrEa provinciali<br />
thE lucksMiths - first frost (fortuna<br />
pop!, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie po p<br />
Ci sono gruppi che immancabilmente portano a<br />
riflettere su quanto un certo pop degli ’80 continui<br />
tuttora ad essere seminale nell’indie pop odierno.<br />
Ecco allora che le storie drammatiche e le melodie<br />
degli Smiths, la musicalità dei Go-Betweens e<br />
della Sarah Records tutta affiorano di tanto in<br />
tanto, e quando i riferimenti sia pur così espliciti<br />
sono ben amalgamati e resi intimamente propri,<br />
ecco allora il gruppo che fa la differenza. È giusto<br />
il caso degli australiani The Lucksmiths, sulle<br />
scene da ormai ben più di 15 anni e cult band<br />
tra gli appassionati del genere.First Frost non fa<br />
eccezione alla regola; vi si ritrovano infatti con<br />
equilibrio perfetto gli ingredienti adatti all’occasione:<br />
il giusto amalgama tra melodie e malinconia<br />
suadente, il chitarrismo, la liricità, le storie<br />
sull’ordinarietà e la problematicità dell’everyday life<br />
e le liriche, accluse al libretto della bella edizione<br />
cartonata del CD, impetuose e intense che senza<br />
clamore esprimono il malessere “adolescenziale”<br />
in senso lato così caro alla band. Così si procede<br />
tra ballad smithsiane (Up With The Sun, South-East<br />
Coastal Rendezvous), chitarrismo Aztec Camera<br />
e Housemartins (Good Light, Never And Always),<br />
languori Go Betweens (Song <strong>Of</strong> The Undersea), fiati<br />
e puro B&S (The National Mitten Registry), l’afflato<br />
dei migliori Style Council melodici con moderazione<br />
(Pines). In fondo il segreto ben custodito<br />
di questa musica è nel suo rimanere sottotraccia,<br />
leggera ma significativa per chi coglie l’essenza.<br />
(7.2/10)<br />
tErEsa grEco<br />
Hi gH l i gH t<br />
Mi aMi – watErsports (quartErstick, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: p o s t -du b -tr i b a l -p u n K<br />
Avevamo visto giusto incensandoli dopo la manciata di<br />
minuti racchiusa nel 12” d’esordio African Rhythms.<br />
Non che questo sia merito nostro, anzi, tutt’altro. Il merito<br />
va tutto a Daniel Martin-McCormick (chitarra, voce),<br />
Jacob Long (basso) e Damon Palermo (batteria), al secolo<br />
Mi Ami. Un passato targato Dischord quando si chiamavano<br />
Black Eyes e spaccavano cuori ed orecchie a<br />
suon di epilessie no-(p-funk)-wave; un futuro lucente, se<br />
continueranno a mantenere le promesse come in questo<br />
Watersports. Sì, perché nei suoi 7 pezzi prendono corpo in maniera più compiuta<br />
quelle dichiarazioni d’intenti presenti nel 12”: tensione post-punk e instabilità emotiva,<br />
sfaccettato tribalismo terzomondista e dissonanze noise, isterismi vocali e dilagante attitudine<br />
dance-dub. È il senso di equilibrio, di perfetto incastro, di vicendevole supporto<br />
tra le varie forme musicali masticate dai tre a stupire, fornendo la chiave di volta per la<br />
comprensione di una musica matura ben oltre la relativamente giovane età del progetto.<br />
Gli 8 minuti dell’opener Echononecho stanno lì a dimostrarcelo: un suono nero talmente<br />
smostrato dai bianchi da venirne quasi rinvigorito. In ogni suo elemento, in ogni sua<br />
componente. Le frecce nell’arco di Watersports sono tante e varie. Riduzionismo dub e<br />
suggestioni da jazz libero dei sessanta, disco-music mutante e manipolazione dei ritmi,<br />
apnee strumentali e continue camere di decompressione. Il bello è che quelle frecce colpiscono<br />
sempre il bersaglio. (7.5/10)<br />
stEfano piffEri<br />
M. ward – hold tiME (4 ad, 17 fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: r e t r o fo l K po p<br />
Non ci voleva certo la recente uscita a nome She<br />
& Him (Volume 1, in coppia con l’attrice Zooey<br />
Deschanel) perché ci accorgessimo del talento di<br />
M. Ward, né ci stupisce, in fondo, che in America<br />
il suo sia diventato uno dei nomi più cool da<br />
mettersi in bocca quando si parla di alt-folk (o giù<br />
di lì), al pari dei suoi vecchi compari Bright Eyes<br />
e My Morning Jacket. E’ un nuovo establishment<br />
musicale che, in un certo senso, si sta creando, se<br />
pensiamo che Jim James e i suoi ormai si esibiscono<br />
a Las Vegas e che Conor Oberst è una star sdoganata<br />
già dai tempi del famigerato tour Vote For<br />
Change. Ed è una cosa assolutamente sacrosanta,<br />
perché Ward è e resta musicista, compositore ed<br />
72 / recensioni recensioni / 73
arrangiatore di prima classe, e al bando tutti i giri<br />
di parole. E’ quello che ti ritrovi a pensare quando<br />
stringi tra le mani questo Hold Time, che sin dal<br />
titolo, come l’acclamato Post-War, gioca su certe<br />
inevitabili tendenze<br />
retrò da sempre<br />
presenti nella sua<br />
musica; pre-war e old<br />
time music non si possono<br />
certo sradicare<br />
dal suo dna, ma<br />
adesso ci si è messo<br />
in mezzo anche il<br />
pop dei ’60, e allora<br />
non ce n’è per nessuno. Il punto di partenza in<br />
quella direzione erano già le canzoni del disco con<br />
la Deschanel (peraltro, la ritroviamo come discreta<br />
presenza in un paio di episodi), ma qui è la sostanza<br />
ad essere diversa. La densa pasta spectoriana in<br />
cui si diverte a immergere melodie degne di Brian<br />
Wilson, o meglio ancora del suo idolo dichiarato<br />
Daniel Johnston, è qualcosa di più che un mero<br />
esercizio di stile; l’affascinante veste sonora vintage<br />
non copre, anzi risalta una scrittura sempre più<br />
ferma e forse mai così pop come adesso (For Beginners,<br />
Star <strong>Of</strong> Leo, To Save Me, insieme all’ex Grandaddy<br />
Jason Lytle). Altrove aleggia lo spettro dei<br />
Big Star più disperati virati Scott Walker (la title<br />
track), bilanciati dal treno in corsa rockabilly Johnny<br />
Cash di Fisher <strong>Of</strong> Men. Poi beh, ci sono le<br />
solite fascinazioni legnose alla John Fahey (Shangri-<br />
La), c’è l’eccellente cover che conferma la sapienza<br />
del sarto (un’ombrosa Oh Lonesome Me di Don<br />
Gibson ricalcata dalla versione di Neil Young, con<br />
la voce da reduce di Lucinda Williams a rendere<br />
il tutto ancor più indimenticabile); e se non<br />
bastasse, sui titoli di coda c’è pure la zampata finale:<br />
l’Outro, una malinconica chitarra twang su un<br />
tappeto orchestrale che nemmeno il Jack Nitzsche<br />
più celestiale e irraggiungibile. L’avrete già capito,<br />
saranno in molti a dire che questo è il miglior disco<br />
che M. Ward abbia pubblicato sinora (lo si era<br />
detto per Post-War, d’altronde). Oltre a covare il<br />
legittimo dubbio che ciò sia effettivamente vero, ci<br />
viene anche da pensare che la sua produzione, se<br />
si manterrà su tale livello, sarà difficile da battere<br />
per altri anni ancora. (7.7/10)<br />
antonio puglia<br />
Marissa nadlEr – littlE hElls (kEMado,<br />
3 Marzo 2009)<br />
gen e r e: f o l K -po p ba l l a d s<br />
Definire il nuovo disco di Marissa Nadler è lavoro<br />
assai arduo per chi ne aveva cristallizzato l’immagine<br />
da sirena delle isole Aran destata dai rintocchi<br />
delle campane di The Saga <strong>Of</strong> Mayflower May.<br />
Una voce che figurava come l’ultimo degli echi di<br />
Cathy Berberian e una capacità di scrivere ballad<br />
folk che incantava al primo ascolto. A due anni<br />
di distanza da Song III: Bird On The Water, la<br />
Giunone di Boston fa il salto verso un altrove che<br />
mai ci saremmo aspettati. Saranno stati gli ascolti<br />
giovanili di Throwing Muses e Mazzy Star o<br />
la voglia di sdoganarsi dalla nicchia o ancora la<br />
curiosità di guardare alla propria musica con occhi<br />
nuovi, perché la triade iniziata con Ballads of<br />
Living & Dying non avrebbe potuto perpetuarsi<br />
all’infinito. Da queste parti però ci si attendeva un<br />
salto di qualità sulla via buona, quella che, in almeno<br />
un paio di episodi, Little Hells sembra imboccare:<br />
Heart Paper Lover e Loner, dove la presenza<br />
degli ospiti Farmer Dave Scher (Jenny Lewis,<br />
Beachwood Sparks) ad organo, synth e piano e<br />
Myles Baer (Black Hole Infinity) alle chitarre<br />
assicura un morbida transizione dagli Appalachi<br />
alle atmosfere dreamy e sintetiche di ascendenza<br />
4AD. Il seguito viaggia disomogeneo alla ricerca<br />
di involucri pop, esauditi di volta in volta in un’alchimia<br />
Sandoval-Roback (Rosary) ed incubi alla<br />
Blonde Redhead che affaticano l’ascolto nonostante<br />
l’ammaliante scrittura (Mary Come Alive). E’<br />
che qui una volta era tutta campagna, e probabilmente<br />
la sontuosa produzione di Chris Coady,<br />
già all’opera con i Blonde Redhead, a tratti ha<br />
prevalso sullo stile di Marissa. D’altro canto la parte<br />
centrale del disco rimane ancorata al passato più<br />
che mai (Little Hells, Brittle, Crushed And Torn). Senz’<br />
altro un’opera di transizione, che non tralascia di<br />
nascondere tesori tra le pieghe di un’inaspettata<br />
veste pre-mainstream. Da segnalare la presenza di<br />
Simone Pace dei Blonde Redhead alla batteria.<br />
(7.3/10)<br />
francEsca Marongiu<br />
MassiMo falasconE – works<br />
05-007-2008 (sEtola di MaialE, dicEM-<br />
BrE 2008)<br />
gen e r e: i M p r o -ja z z<br />
Con colpevole ritardo torniamo su un interessante<br />
lavoro che sarebbe stato un peccato lasciar giacere<br />
nel dimenticatoio. Un disco di grande spessore e<br />
maturità, quello imbastito da Massimo Falascone,<br />
sassofonista e sound artist di stanza a Milano. In<br />
Works 05-007-2008 l’artista italiano colleziona<br />
lavori sparsi – lavori in proprio, collaborazioni a<br />
distanza geograficamente e temporalmente, musiche<br />
per piece teatrali, ecc. – tanto eterogenei che il<br />
titolo dell’album avrebbe potuto tranquillamente<br />
fregiarsi del prefisso patch…. A far da contraltare,<br />
oltre che da collante, a tanta frammentazione<br />
c’è però l’omogeneità della cura dei suoni e della<br />
ricerca di Falascone, che unita all’ottima qualità<br />
media degli 8 pezzi, rende questo collected works<br />
un disco immancabile per chi si occupi del versante<br />
più impro del jazz. Perché Falascone unisce elementi<br />
apparentemente distanti – il caldo del suo<br />
strumento e il freddo dei loop – con convinzione e<br />
gioia, senza seriose verbosità ma piuttosto con una<br />
grossa carica auto-ironica.<br />
Per tutti valgano i 7 minuti dell’iniziale Ottovolante.<br />
Vero e proprio bignami del modus operandi di Falascone<br />
e del suo intendere il lavoro di ricerca sui<br />
suoni e sulle possibilità delle interazioni con fonti<br />
e personalità altre, Ottovolante rielabora una composizione<br />
di 8 minuti dell’americano Bob Marsh<br />
tramite cut-up invasivo, aggiunte di plug-ins,<br />
bassi e immancabili contrappunti di sax. Ottimo<br />
(7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
Monno – ghosts (conspiracy, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: dr o n e /sl u d g e<br />
Non basta imbeccare buoni riff e trascinarli oltre<br />
i 10 minuti per fare un buon disco. Ed è questo il<br />
motivo per cui a volte dischi di questo genere vanno<br />
poco oltre la noia. I Monno (duo che maneggia<br />
laptop, basso batteria e sax) per esempio, si sono<br />
spinti molto oltre.<br />
In Ghosts ci mostrano che è possibile scavalcare<br />
il suono caratteristico del drone/sludge, quei bassi<br />
riff che costituiscono il corpo massiccio del genere,<br />
senza abbandonarne i territori densi e neri. I<br />
Monno sembra asportino chirurgicamente quella<br />
precisa porzione di spettro delle frequenze, delimitandone<br />
i contorni<br />
con telluriche<br />
vibrazioni al limite<br />
dell’udibile e graffianti<br />
suoni sintetici<br />
e di sax ultraprocessato.<br />
Quel che resta<br />
è una pesante mancanza,<br />
e una sensazione<br />
di vertigine di<br />
fronte alle enormi bolle di vuoto che restano. Forse<br />
i fantasmi a cui si riferisce il titolo. La prima traccia,<br />
Negative Horizon, prepara il terreno. Introdotta<br />
da innaturali cori si mantiene su un lento incedere<br />
di basso e batteria, poggiandosi interamente su<br />
un cupo accordo immutato per tutta la durata del<br />
pezzo. Ma è dal suono del successivo Troye che crolla<br />
l’intero costrutto del drone. Riferimenti forse se<br />
ne trovano nei Today Is The Day più recenti,<br />
ma in questo caso l’effetto è decisamente più devastante.<br />
Quella che nella band di Steve Austin è soltanto<br />
una strana equalizzazione, qui è un attacco,<br />
dall’interno, ai codici del genere. Merule continua<br />
lungo la stessa linea ma concedendosi un introduzione<br />
quasi jazz. Ormai il danno è stato fatto, e se<br />
in Hull si sale a velocità più tipiche di Naked City<br />
o Zu, nell’ultima Endfall si continua a giocare con<br />
opposti, costruendo abissi e disgragando macigni.<br />
74 / recensioni recensioni / 75
Sicuramente è solo un obiettivo di settore, ma in<br />
Ghosts i Monno segnano un nuovo traguardo in<br />
un genere dove il rischio di finire nel “già sentito”<br />
è sempre molto alto. (7.3/10)<br />
lEonardo aMico<br />
MorrissEy – yEars of rEfusal (dEcca<br />
/ univErsal, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: p o p ro c K<br />
Nella nostra era di download selvaggio la paura di<br />
imbattersi nel nuovo DCFC fake è sempre in agguato.<br />
E questa si fa<br />
quasi concreta non<br />
appena si ascoltano<br />
le prime due canzoni<br />
del nuovo album,<br />
il nono nella sua<br />
carriera solistica, di<br />
Morrissey. Ovviamente<br />
è una provocazione,<br />
perché impossibile<br />
emulare così bene le corde vocali di uno<br />
dei più grandi cantori pop. Ciò, però, va inevitabilmente<br />
a discapito del Nostro: la prima sensazione<br />
che scaturisce all’ascolto di Something Is Squeezing<br />
My Skull e Mama Lay Softly On The Riverbed è<br />
quella di trovarsi dinnanzi una band emocore (da<br />
intendersi nell’accezione più nobile del genere) che<br />
ben scimmiotta gli Smiths. Menomale che Years <strong>Of</strong><br />
Refusal non è tutto cosi, alcuni brani (la malinconica<br />
I’m Throwing My Arms Around Paris e la più<br />
sbarazzina When Last I Spoke To Carol) si rivelano<br />
ben riusciti e con un trainante impatto melodico,<br />
questo sì contraddistintivo di Morrissey, mentre le<br />
due ballad (It’s Not Your Birthday Anymore e You<br />
Were Good In Your Time) riescono finalmente a<br />
rendere al meglio le sue capacità compositive. Ma<br />
nell’insieme, purtroppo, si avverte una certa sua volontà<br />
di mostrarsi fresco e giovane, quando noi invece<br />
l’avremmo preferito stagionato e maturo. Un<br />
rilevante ma non compromettente passo indietro<br />
rispetto ai suoi ultimi due lavori. (6.2/10)<br />
andrEa provinciali<br />
Mt. st. hElEns viEtnaM Band - sElf<br />
titlEd (dEad ocEans / goodfEllas,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie eM o<br />
Di questi tempi basta poco perché un nome divenga<br />
chiacchierato: da più parti si indica infatti il Monte<br />
Sant’Elena come futuro e assai plausibile santino<br />
indie, in ragione di un suono debitore - in parti disuguali<br />
- a At The Drive In, Modest Mouse e<br />
Cursive. Senza tuttavia padroneggiare l’arguzia, la<br />
scioltezza e il senso per la confidenzialità di costoro<br />
ed è facile capire i motivi: ridi e scherza siamo arrivati<br />
al 2009, “emo” è diventata una parolaccia o - nella<br />
migliore (?) delle ipotesi - un’imbarazzante casella di<br />
marketing giovanilista in cui si è infilata gentaglia esecrabile<br />
come 30 Seconds To Mars o Chemical<br />
Romance. Non è colpa di questo quintetto proveniente<br />
da Seattle, qui all’esordio lungo dopo un e.p.<br />
di riscaldamento; il problema pertiene all’attingere<br />
da una vena inaridita, che di uno stile può restituire<br />
solamente la parvenza esteriore. Le motivazioni<br />
originarie sono svanite e chi all’epoca non c’era non<br />
le può ricreare dall’ascolto dei dischi. Di conseguenza,<br />
il suono angolare ma tortuosamente pop dei Mt.<br />
St. Helens ecc. si racconta per lo più un ridondante<br />
teatro di buone intenzioni e padronanza esecutiva,<br />
nel quale la spontaneità soccombe ai cambi di tempo<br />
e atmosfera. Nell’alternanza sin troppo studiata dei<br />
quali il gruppo non impressiona granché e persino<br />
irrita con la pompa magna anni ’70 di Little Red Shoes,<br />
En Fuego e Albatross, Albatross, Albatross. Meglio allora<br />
rivolgersi ad Anchors Dropped, filastrocca prossima agli<br />
Xtc, e all’imbrigliata dolcezza quasi soul di A Year Or<br />
Two per fare chiarezza. Le carte restano comunque<br />
nebulose fino alla fine, allorché i sette minuti di On<br />
The Collar - sensazionale scintillio da qualche parte<br />
tra Forever Changes, Skylarking e Tones <strong>Of</strong> Town - inducono<br />
all’applauso a scena aperta. E’ su tali percorsi<br />
la formazione americana dovrebbe investire il proprio<br />
talento ancora in embrione, più che cercare di<br />
compiacere l’ortodossia nerd che fa capo a Pitchfork e<br />
dintorni. Speriamo. (6.5/10)<br />
giancarlo turra<br />
My Morning jackEt - itunEs livE<br />
froM las vEgas at thE palMs – Ep<br />
(itunEs, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: f o l K , p o p , s o u l<br />
Questa uscita collaterale, in apparenza un approdo<br />
sicuro (appartiene a una serie di EP, esclusivamente<br />
in digitale, che vede band scelte da iTunes<br />
registrare alcune loro canzoni dal vivo in un lussuoso<br />
studio di Las Vegas, presso il casinò At The<br />
Palms), in realtà riconnette i My Morning Jacket<br />
con una parte della loro musica - della loro storia -<br />
che sembrava ormai dimenticata, sepolta com’era<br />
dalla loro fama di roboante live band (e da recenti<br />
uscite discografiche che si concedono a diversioni<br />
stilistiche fra l’azzardato e l’azzeccato). Quando<br />
invece riposava soltanto sottopelle: l’approccio minimale,<br />
narcolettico, sommerso da strati e strati di<br />
riverbero che era tipico del lontano esordio The<br />
Tennessee Fire (1999) lo ritroviamo qui, sia nella<br />
ripresa di rare canzoni del periodo - They Ran,<br />
From Nashville to Kentucky, Tonight I Want to Celebrate<br />
With You, a loro volta iniettate di vibrazioni soul<br />
- sia negli arrangiamenti di cose più recenti. E ci<br />
si accorge sia che Knot Comes Loose (da Z, 2005) e<br />
Thank You Too, uno dei gioiellini del’ultimo Evil<br />
Urges, affondano le radici in un passato mai in<br />
fondo dimenticato, mentre l’inedita Dear Wife giochicchia<br />
tenuemente con easy listening anni ’70<br />
e primi Beatles. Una pubblicazione tutt’altro che<br />
priva d’importanza, a ben vedere. (6.8/10)<br />
antonio puglia<br />
nancy wallacE - old storiEs (Midwich<br />
rEcords / goodfEllas, fEBBraio<br />
2009)<br />
gen e r e: f o l K re v i v a l<br />
Arriva al debutto solista la cantante del combo<br />
folk inglese The Memory Band, e già ospite<br />
l’anno scorso nel primo disco degli Owl Service.<br />
Folk britannico tradizionale che si riallaccia<br />
prepotentemente alla tradizione dei ‘60 e dei ‘70<br />
degli immancabili Steeleye Span, Fairport<br />
Convention, Pentangle. Folk rivisitato all’oggi,<br />
mescolando traditional e composizioni originali e<br />
dotandoli del medesimo afflato melodico, resi con<br />
grazia armonica e strumentale. Voce suadente un<br />
po’ Vashti Bunyan, un po’ Shirley Collins un po’<br />
Anne Briggs a seconda delle occasioni. Album che<br />
si fa ascoltare senza essere niente di trascendentale<br />
e nulla aggiunge fin qui al percorso della Wallace,<br />
che preferiamo a questo punto di gran lunga nel<br />
gruppo di provenienza. (6.4/10)<br />
tErEsa grEco<br />
napalM dEath – tiME waits for no<br />
slavE (cEntury MEdia, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: de a t h -gr i n d<br />
Chi si aspettava di trovarli ancora lì? Chi avrebbe<br />
mai scommesso un euro (una lira dell’epoca, alla<br />
faccia dell’inflazione!) vent’anni fa sul futuro di una<br />
band che nei primi cinque minuti di musica aveva<br />
già portato all’estremo e “macinato” (to grind) tutta<br />
la sua radicale carica innovativa? E invece eccoli<br />
lì, i Napalm Death, a galleggiare, avvalendosi del<br />
loro stato di miti, sui resti di una rivoluzione ormai<br />
quasi del tutto dimenticata. Una rivoluzione consapevole<br />
di percorrere un binario morto negli sviluppi<br />
della musica, ultimo passo verso la totale devastazione<br />
iniziata un decennio prima con il punk.<br />
Il grindcore, quello “vero”, radicale, anarchico,<br />
è nato e morto subito, ammazzato quasi subito,<br />
proprio da chi lo aveva creato, salvo lasciare qualche<br />
traccia nel metal a venire. L’approdo al death<br />
metal ha rappresentato il percorso di tanti pionieri<br />
del genere (dai Carcass agli stessi Napalm Death)<br />
che lì si sono fermati, travolti da tecnicismi<br />
che solo in rari casi hanno rappresentato un valore<br />
aggiunto nella crisi del metal estremo, sempre più<br />
fagocitato dal mainstream.<br />
Persa ogni valenza artistica, la musica dei Napalm<br />
Death, dopo Harmony Corruption (Earache,<br />
1990) è da ascrivere quasi completamente<br />
alla storia del death metal e dei sui sottogeneri. E<br />
a distanza di tanti anni, la band di Birmingham<br />
continua a vivere di questo, con dignità ma senza<br />
grandi sussulti, sfornando mediamente un album<br />
76 / recensioni recensioni / 77
Hi gH l i gH t<br />
MiMEs of winE – sElf titlEd Ep (MidfingEr, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: a v a n t /ar t /fo l K /bl u e s<br />
Se fosse un biglietto da visita (lo è) ti brucerebbe nel taschino,<br />
dovresti stropicciarlo per sentire se contiene un po’<br />
dell’energia strana, insidiosa, avvolgente, primordiale e<br />
post-atomica che avverti nelle quattro tracce di questo ep<br />
d’esordio. <strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong> è Laura Loriga. Laura suona<br />
il piano anzi lo scuote con risoluta tenerezza, canta come<br />
se ne aspirasse il veleno e l’antidoto assieme, in mezzo a<br />
vortici di chitarre aspre, a vapori di ottoni, a fatamorgane<br />
di tastiere, folate e tramestii percussivi e impalpabili bave<br />
sintetiche. Prova ad incantarti (ci riesce) coi sussurri foschi e le fughe palpitanti, con<br />
l’agnizione tenue e selvatica di K (dove è una Diamanda Galas ingentilita Tori Amos,<br />
intensa ed eterea come la PJ Harvey di White Chalk). Ti sbalordisce coi languori<br />
teatrali, il passo freak marziale e la frenesia cavernosa di Fishes (dove avverti tracce del<br />
lirismo Jeff Buckley, dove ti figuri una Laura Nyro prigioniera dei Grizzly Bear).<br />
Ti strega con la lunare irrequietezza Hyvönen/Newsom di Carnival Scar (misteri folk e<br />
trepidazione post-blues), ti circuisce con lo struggimento jazzy venato bossa di Oberkampf,<br />
come una Cibelle invischiata nelle tossine Billie Holiday, il siparietto swing rurale a<br />
spettinare il ventaglio delle aspettative.<br />
Appunto: cosa attendersi dal full lenght Apocalypse Sets In, previsto per la primavera?<br />
(7.5/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
ogni biennio e proseguendo il turnover di membri,<br />
che la caratterizza sin dagli esordi.<br />
Eppure Time Waits For No Slave non ispira i sentimenti<br />
di pietà o tenerezza che di solito provocano<br />
i dischi di band-Matusalemme, che non vogliono<br />
proprio demordere e si trascinano per i capelli pur<br />
di far uscire qualcosa di nuovo a proprio nome.<br />
Decisamente orientato verso il Thrash, il quindicesimo<br />
album dei Napalm Death dai tempi di<br />
Scum (Earache, 1987) non abbandona del tutto<br />
la violenza esecutiva degli esordi, che però, dopo i<br />
momenti iniziali (Strongarm, Diktat e Work To Rule),<br />
si perde in un suono spurio, a metà tra gli Sla-<br />
yer, i Morbid Angel. Riff consumati dall’abuso,<br />
distorsioni leggermente più pulite e la solita<br />
batteria di Mick Harris a fare la differenza, con<br />
le sue precise variazioni di tempo e i suoi ormai<br />
classici “stacchi” alla velocità della luce. Penose le<br />
escursioni in improbabili territori melodici che gli<br />
sono a dir poco estranei (la Title Track; Downbeat<br />
Clique), e suonano goffi, trasformandoli in un clone<br />
venuto male degli Slipknot. Sì, i Napalm Death<br />
sono vivi. E probabilmente anche il metal d’annata<br />
continua ad avere il suoi seguito. Ma…cui prodprodest? (5.5/10)<br />
daniElE follEro<br />
night horsE – thE dark won’t hidE<br />
you (north atlantic sound, 2008)<br />
gen e r e: h e a v y bl u e s<br />
Per qualcuno il blues è stato un punto di partenza,<br />
per qualcun altro un punto di riferimento stabile.<br />
Ma c’è anche chi dal blues “duro e puro” non<br />
vuole proprio staccarsi. Mi sembra sia il caso di<br />
questi Night Horse, band losangelina, neonata ma<br />
già vecchia.<br />
I suoi membri vengono tutti dal blues rock e non<br />
mostrano alcuna intenzione di mollare la presa.<br />
L’ortodossia non ha limiti e i paragoni scomodi<br />
(e piuttosto datati) si sprecano: i Led Zeppelin<br />
più vicini all’hard rock, i Black Sabbath più<br />
anonimi, l’Alice Cooper meno heavy sono tutti<br />
lì, mescolati nel nome della “purezza” rockettara<br />
più oltranzista. Ma rassegnamoci, perché non<br />
sono né i primi né saranno gli ultimi cloni di una<br />
generazione di rocker ormai giunta alla meritata<br />
pensione. Per avere un idea di ciò che può offrire<br />
quest’album, basta dare un’occhiata alla copertina:<br />
una foto con al centro un teschio tra due candele<br />
e dietro l’immagine di un nativo americano (quelli<br />
che erroneamente vengono chiamati indiani, per<br />
intenderci). Dietro questa iconografia americanissima<br />
e un po’ volgaruccia (se non addirittura ridicola),<br />
si nascondono sei brani scontatissimi, anche<br />
se sinceri e in alcuni casi addirittura vivi ed energici.<br />
La voce di Sam James Velde richiama il tono<br />
semiserio dell’omonima band del Glenn Danzig<br />
post-Misfits e potrebbe anche risultare interessante<br />
se non fosse sostenuta da anonimi riffettoni e<br />
parti di basso e batteria essenziali, come vuole la<br />
tradizione heavy rock. Nota di merito: la durata.<br />
Mezz’ora di heavy blues suonato bene non la si<br />
nega a nessuno. (5.0/10)<br />
daniElE follEro<br />
no nEck BluEs Band – clonEiM (locust,<br />
dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: K r a u t /ps y c h<br />
Riuscire a intrappolare la ghenga di Dave Nuss non<br />
avrebbe molto senso, sarebbe come snaturarne il<br />
valore. Che gli animali siano liberi di scorazzare<br />
ordunque; i sette che arrivano dalla nera Harlem<br />
conoscono il valore dell’improvvisazione ed una<br />
continua – assai poco leziosa – jam appare questo<br />
Clomeim, che registra il numero 100 in catalogo<br />
per Sound @ One, marchio da sempre associato<br />
alla No Neck Blues Band, anche quando si è tratto<br />
di pubblicare tapes e cd-r in tiratura irrisoria.<br />
Il pagano odore di kraut avvolge le spire della zelante<br />
The Coach House, mentre le smorfie tra esoterismi<br />
psych folk e brutali nenie black metal (con ampio<br />
ricollegarsi al progetto satellite Angelsblood) di<br />
Ministry <strong>Of</strong> Voices lasciano pensare ad una band<br />
persa alla propria deriva psicotica. Ancora suoni<br />
sfilacciati ma ovviamente tribali in Salai Widnalas,<br />
dove le urla gutturali assumono ancora il senso di<br />
provocazione estrema.<br />
Non va dunque per il sottile la No Neck Blues<br />
Bland, che di cedere ai crismi della normalità non<br />
ha vaga intenzione. In un consumato rituale la<br />
loro proposta si infiamma, abbandonando i lineamenti<br />
della forma canzone e della composizione<br />
stessa. Un’immersione totale nello stream of consciousness.<br />
Ragion per cui nessuno dei loro dischi in studio<br />
e delle loro performance dal vivo rispecchieranno<br />
una reciproca idea. E’ tutto giocato sul filo del<br />
rasoio, in una rappresentazione spesso isterica,<br />
solo raramente celestiale. Con in dosso I panni<br />
dei sobillatori esistenziali i Nostri marciano verso<br />
un assoluto in musica che si sgretola di continuo,<br />
nell’abbandono delle più terrene certezze.<br />
Una musica che conserva ancora un carattere<br />
iniziatico, cerimonia impalpabile della sofferenza<br />
umana. Mutilando brandelli del catalogo ESP (soprattutto<br />
quello più off, si pensi ai Cro-Magnon o<br />
alla Patty Waters di Black Is The Color <strong>Of</strong> My True<br />
Love’s Hair) ed accedendo alle pagine culto della<br />
musica germanica (Agitation Free e Amon Duul<br />
in cima) con Clomeim fanno un’ulteriore passo<br />
verso l’eternità, quella più scomoda. (7.3/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
78 / recensioni recensioni / 79
of MontrEal – an Eluardian instancE;<br />
jon Brion rEMix Ep (polyvinyl<br />
/ goodfEllas, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: r e M i x ep<br />
Sull’onda lunga del vertiginoso Skeletal Camping,<br />
il combo degli of Montreal pubblica un EP manipolato<br />
da quel Jon Brion conosciuto per i trascorsi<br />
al fianco di Elliott Smith, Kanye West nonché firmatario<br />
di score quali Magnolia e Eternal Sunshine<br />
<strong>Of</strong> The Spotless Mind da noi noto, al solito, col pessimo<br />
titolo de Se Mi Lasci Ti Cancello. Le tracce in esame<br />
sono due, An Eluardian Instance e Gallery Piece, e il<br />
trattamento di Brion consiste nel dare corpo a<br />
materiale già corposo di suo; quindi se First Time<br />
High (nuova ragione sociale, per l’occasione, di An<br />
Eluardian Instance) si impreziosirà, sia per il Reconstructionist<br />
Remix che nella versione acustica,<br />
del mandolino e le backing vocals dell’ospite Chris<br />
Thile dei Nickel Creek, Gallery Piece la si vedrà<br />
sfilare, dancereccia com’è, remixata, allungata e<br />
strumentale.<br />
Operazione, comunque, per i fan di stretta osservanza.<br />
(7.0/10)<br />
gianni avElla<br />
oginoknaus – nuclEarcunt (Marinaio<br />
gaio – valvolarE rEcords - ElEvator<br />
/ jEstrai, ottoBrE 2008)<br />
gen e r e: p o s t p u n K -ne w wa v e<br />
Narcotici come il Lou Reed più indisponente, alla<br />
moda come un contraccettivo scaduto, essenziali<br />
ed efficaci come sa essere soltanto chi vede ancora<br />
le chitarre elettriche, il basso e la batteria al comando<br />
di quel vascello fantasma che è il rock contemporaneo,<br />
gli Oginoknaus tornano a quattro anni<br />
dell’omonimo esordio. E lo fanno impilando una<br />
sull’altra dieci tracce ruvide e ringhianti, pronte a<br />
consacrarne ancora una volta l’estro compositivo.<br />
Nessun effetto speciale a foraggiare la meraviglia,<br />
nessun tono acceso a corroborare il bianco sporco<br />
e il nero pece dei suoni, nessuna facile concessione<br />
alla melodia: solo una guerriglia in piena regola<br />
portata avanti tra post-punk malato e spunti noise,<br />
assalti feroci e ossessioni in stile Ian Curtis. Dalle<br />
lacerazioni profonde che ne conseguono, esce<br />
un’opera immediatamente riconoscibile, dal fascino<br />
ambiguo, claustrofobica e disturbante nella sua<br />
monocorde uniformità, capace di cedere giusto un<br />
paio di parentesi – il sax in bilico tra Morphine<br />
e Gallon Drunk di Breakdance e l’accordian<br />
dell’ospite/produttore Rob Ellis di Rainbow Drive<br />
– a contributi strumentali altri. Per un suono lontano<br />
dal “pop” ma decisamente attraente. (6.9/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
pains of BEing purE at hEart – sElf<br />
titlEd (sluMBErland, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: n o i s e -po p<br />
Rinnova la sua fama la Slumberland con l’esordio<br />
di un quartetto misto dal nome terribilmente adolescenziale.<br />
E rinnova anche i fasti di quel noisepop<br />
zuccherumoroso che trova proprio nel catalogo<br />
della label una delle sue gemme più nascoste:<br />
i Black Tambourine. Alex (basso), Kip (chitarra +<br />
voce), Kurt (batteria) e Peggy (tastiere + voce) –<br />
questi nomi e strumenti del quartetto newyorchese<br />
– sono tre imberbi<br />
fanciulli e una nippo-girl<br />
tutto pepe<br />
in fissa con la musica<br />
più semplice del<br />
mondo, da quando<br />
i fratelli Reid accesero<br />
gli ampli scoperchiando<br />
il vaso<br />
del feedback-pop:<br />
declinare al verbo del rumore le melodie più poppy<br />
e appiccicose del rock. Affogarle in un oceano<br />
di riverberi e delay, quasi a volerle soffocare, nella<br />
consapevolezza che le melodie riemergeranno da<br />
quel marasma come niente fosse. Prendete come<br />
ottimo esempio Contender, l’attacco del disco. Gioca<br />
su accordi che sembrano quelli di I Don’t Wanna<br />
Grow Up di waitsiana memoria, ma è solo una fugace<br />
impressione. Quando entra la voce, catturata<br />
a rimirarsi le scarpe su un tappeto di distorsioni<br />
gentili, esplode il caleidoscopio: reminiscenze Cure<br />
virati shoegaze (This Love Is Fucking Right), trasposizioni<br />
Pastels (Gentle Sons), svisate indie-nostalgiche<br />
(Stay Alive), echi morriseyiani (Everything With You),<br />
immaginario college nei suoi dettagli più apparentemente<br />
insignificanti (A Teenager In Love). Un debutto<br />
coi fiocchi e un disco da avere. Perché ogni<br />
tanto si ha bisogno di tornare adolescenti sognati,<br />
così come ogni tanto si ha bisogno di canzoni. E<br />
qui ne trovate di meravigliose. (7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
phosphorEscEnt – to williE (dEad<br />
ocEans, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: c l a s s i c fo l K<br />
Matthew Houck stavolta mette le carte in regola,<br />
chiarendo una volta per tutte che la sua somiglianza<br />
artistica (perché evidente è anche quella fisica)<br />
con Will Oldham, al quale viene da sempre paragonato,<br />
è soltanto apparenza e sicuramente figlia di<br />
medesimi ascolti. Il quarto album della sua creatura<br />
fosforescente, infatti, non rappresenta altro che un<br />
personale tributo a Willie Nelson, immenso cantore<br />
folk americano esploso musicalmente a cavallo tra i<br />
Sessanta e i Settanta. Proprio a quel periodo, infatti,<br />
sono debitori gli odierni cantautori indie come Phosphorescent<br />
e Bonnie “Prince” Billy, per l’appunto.<br />
Ma la cosa curiosa è che lo stesso guru folk omaggiato<br />
in questo album pubblicò, a suo tempo, nel<br />
’75, un tributo dedicato interamente a Lefty Frizzell<br />
intitolato To Lefty From Willie. Da qui la scelta di<br />
To Willie. E l’album in questione contiene undici<br />
cover (reinterpretazione di canzoni anche minori<br />
del catalogo nelsoniano) che, flirtando con il folk più<br />
classico, mostrano l’ottimo livello di maturità stilistica<br />
raggiunto dal Nostro: abbandona quell’approccio<br />
lo-fi per dedicarsi completamente a una meticolosa<br />
ricerca strumentale, impregnandola però di<br />
profonde e sincere emozioni. Adesso non resta che<br />
attendere il vero salto di qualità con il quinto album,<br />
altrimenti a nessuno tra vent’anni salterà in mente<br />
di intitolare un album “To Matthew”. (7.3/10)<br />
andrEa provinciali<br />
richard pinhas & MErzBow – kEio<br />
linE (cunEiforM, dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: i M p r o -no i s e<br />
Titolo e nomi in ballo permettono di inquadrare<br />
da subito questa ennesima, curatissima edizione<br />
Cuneiform.<br />
Da una parte Richard Pinhas, storico esponente<br />
dell’ala più radicale dell’elettronica rock (o viceversa)<br />
spacey & floating d’oltralpe; dall’altra Masami<br />
Akita, aka Merzbow, incompromissorio violentatore<br />
sonico e riconosciuto padrino del noise (non<br />
solo) giapponese. In mezzo, a far da anello di congiunzione<br />
tra i due,<br />
la Keio Line, linea<br />
metropolitana della<br />
città di Tokyo dove<br />
i due si sono incontrati<br />
per registrare<br />
questo doppio cd.<br />
Proprio il titolo e le<br />
dinamiche relative<br />
alla produzione/<br />
registrazione di questo Keio Line rendono perfettamente<br />
l’idea di collegamento e viaggio tra la<br />
Parigi di Pinhas e la Tokyo di Masami, così come<br />
evidenziano la perfetta coesistenza tra imput sonori<br />
piuttosto differenti: l’elettricità rock dilatata e<br />
estatica del primo e l’elettronica spigolosa e piena<br />
di asperità del secondo. Pinhas fornisce una piattaforma<br />
sonora a base di chitarre e loop systems<br />
sulla quale Merzbow esprime al massimo tutto il<br />
potenziale esplosivo dei suoi synth e dei suoi noise<br />
treatments.<br />
L’effetto, vista anche la mastodontica durata delle<br />
suite – viaggiamo sul quarto d’ora abbondante di<br />
media – è quello di una musica visionaria, estatica,<br />
sciamanica e perfettamente in equilibrio tra<br />
sporcizia digitale – beats, loop, noises vari, folate<br />
di rumore bianco – e flussi dreaming memori del<br />
kraut più evanescente.<br />
Un signor disco, da due signori della sperimentazione.<br />
(7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
80 / recensioni recensioni / 81
pixEl – thE drivE (rastEr-noton,2009)<br />
gen e r e: e l e t t r o n i c a -aM b i e n t<br />
Excursus non convenzionali per il compositore ed<br />
ex-sassofonista Jon Ekeskov in arte Pixel nella<br />
nuova uscita firmata Raster-Norton. Le tessiture<br />
di The Drive si ancorano a saporite eloquenze<br />
contemporanee, per poi incontrare gli orizzonti<br />
decisamente poco ovvi dell’elettronica più sperimentale,<br />
il tutto grazie a quelle controllate matrici<br />
concrete ormai care agli adepti moderni della<br />
sintesi. Sette elementi che dialogano con una improvvisazione<br />
minimale “melodica”, per poi farsi<br />
spazio nelle poliritmiche e nelle oscillate strutture<br />
tra dominata sostanza e accentuato dinamismo.<br />
Gli elementi leggibili dialogano tra glitch o microframmentazioni<br />
che si lasciano scoprire attraverso<br />
un incontaminato sub-bass, le cui maniere si dichiarano<br />
apertamente tra ritmiche in microsuoni,<br />
dualismo e musica puntilista. Rimbalza all’orecchio<br />
un potenziale sicuramente buono anche se a<br />
tratti troppo legato all’esercizio tecnico, a discapito<br />
del fascino comunicativo. (6.9/10)<br />
sara Bracco<br />
plaid – hEavEn’s door (BEat rEcords,<br />
2008)<br />
gen e r e: c o l o n n a s o n o r a<br />
Ed Handley ed Andrew Turner - ex The Black<br />
Dog - ora Plaid, sono un duo britannico che per<br />
uscita discografica firmata Beat Records concedono<br />
le loro propensioni elettroniche ai fotogrammi<br />
del primo live-action dell’animatore americano<br />
Michael Arias. Il loro repertorio sonoro spazia in<br />
album, collaborazioni e remix per innumerevoli<br />
artisti, passando per EP, compilation e colonne<br />
sonore. Heaven’s Door infatti è la seconda prova<br />
in questo campo: attraverso i mezzi tecnici del<br />
cinema sonoro propongono ambientazioni dalle<br />
sognanti dinamiche cinematografiche. E’ l’elettronica<br />
la chiave di lettura di queste sedici tracce,<br />
che si creano il proprio spazio senza perdere in<br />
coerenza ma trascinando con se l’ascolto attraverso<br />
un idilliaco paesaggio che cavalca l’onirico e il<br />
surreale. C’è quella sensibilità post-romantica cara<br />
ad alcuni artisti filo-giapponesi dell’eletronic wave,<br />
le meditate atmosfere glamour e le sonorità chilling<br />
(Masato Shuffle,<br />
K3), l’elettroacustica<br />
isolazionista<br />
(Veisalgia), improvvisata<br />
e sovrapposta<br />
al limite della<br />
robotica (Bata) o<br />
contaminata dalle<br />
ritmiche in levare<br />
(Not Hearing a<br />
Word). E all’acustica spettano gli arpeggi zuccherati<br />
dai colori pastello (Non Hoi), gli archi sottoesposti<br />
(Seizure), le percussioni arabeggianti (Durban Pain)<br />
e le arie cristalline in chiusura (Two Rooms). Frames<br />
sonori a cui qualche particolarità e sfumatura<br />
in meno non avrebbe fatto male specialmente se<br />
si considera il lavoro nel suo insieme. In compenso<br />
alcune tracce risultano decisamente godibili.<br />
(6.7/10)<br />
sara Bracco<br />
quivErs – 2012 (tigErasyluM, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: i M p r o<br />
Quivers tries to have open minds and to open minds, chiosano<br />
i quattro newyorchesi (d’origine o d’adozione,<br />
poco interessa) e come dar loro torto.<br />
Il padrone di casa Jordon Schranz (basso), il presenzialista<br />
Adam Kriney (batteria), l’iperattivo Chris<br />
Welcome (cello) e l’ubiquo Ninni Morgia (chitarra)<br />
imbastiscono, su supporto vinilico, 5 pezzi untitled<br />
che sa di apocalisse impro-rock prossima ventura.<br />
I riferimenti non mancano, come l’esplicito<br />
rimando del titolo alle profezie maya; tanto meno<br />
le evoluzioni da “dopo-rock imbastardito con attitudine<br />
free-jazz” dei 5 pezzi untitled.<br />
A farla da padrona come al solito è la sei corde del<br />
siciliano: nella più totale libertà d’azione frattura<br />
e spezza, cuce e ricama un suono instabile e umorale,<br />
tra gorgoglii e estatici fraseggi. In questa sua<br />
azione di riduzionismo free (termine comprensibile<br />
per chi segue anche le altre incarnazioni del<br />
suo fare musica, La Otracina su tutti), Morgia è<br />
ottimamente sostenuto dalla precisa azione di una<br />
sezione ritmica affiatata ed energica e contrappuntato<br />
dalle intrusioni rumorose di Welcome.<br />
È di nuovo l’impro di matrice jazz che si riversa<br />
nel corpo morto del rock: ne mantiene lo sfogo<br />
liberatorio, estatico e privo di vincoli strutturali,<br />
senza negare però la tensione e la “corposità” del<br />
secondo. (6.7/10)<br />
stEfano piffEri<br />
raccoo-oo-oon – sElf titlEd (rElEasE<br />
thE Bats, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: w e i r d aM e r i c a<br />
Mischiare rock in forma libera e psichedelia sognante,<br />
carcasse da rock krauto maciullato e prog<br />
mutante, tribalismo primitivista, rumorismo e ninnananne<br />
ossessive. Questa la missione dei 4 Raccoo-oo-oon,<br />
di cui purtroppo questo omonimo è<br />
l’inatteso canto del cigno. Musiche ostiche, difficili,<br />
a volte dissonanti, a volte sussurrate, sempre in<br />
modalità improvvisativa e suonate non con piglio e<br />
supponenza arty, ma con semplicità quasi infantile,<br />
giocosa, tanto è facile immaginarseli immersi nei<br />
boschi dell’america rurale, tra amici, impegnati in<br />
sessions più vicine a baccanali orgiastici che a vere<br />
e proprie sedute in sala prove. È proprio nella totale<br />
libertà da schemi e strutture che Raccoo-oo-oon<br />
da il meglio di sé; nel far convivere nello stesso pezzo,<br />
l’una accanto all’altra, cifre stilistiche agli antipodi<br />
come xilofoni cinguettanti e percussività free,<br />
slabbrature synthetiche e chitarre accordate a caso,<br />
stralci della tradizione folk americana e avant-rock<br />
devastato. Forse – ma è solo un pensiero ramingo<br />
– proprio lì risiede(va) il fascino e il miglior pregio<br />
dei Raccoo-oo-oon. Che sia la vastità degli spazi<br />
geografici o quella dei confini di una società culturalmente<br />
mista, resta un mistero per noi europei. Di<br />
certo c’è che mai canto del cigno fu più inaspettato<br />
e triste. Ad memoriam (7.5/10)<br />
stEfano piffEri<br />
rahiM – laughtEr (prEtty activity, 9<br />
sEttEMBrE 2008)<br />
gen e r e: r o c K Me l o d i c o -ca n t a u t o r i a l e<br />
I Rahim fanno canzoni, di quella guisa che innerva<br />
tutto attorno alla melodia, alla costruzione<br />
vocale solista e coristica. Niente virtuosismi, sia<br />
chiaro; ma sulla strada della chiarezza neanche<br />
solo quello, in Laughter. E forse qui sta il problema<br />
maggiore. Primo, le strutture degli accompagnamenti<br />
strumentali fanno spesso il verso a quei<br />
tocchi incrociati batteria-basso-chitarra che furono<br />
del post-rock americano, tanto di Louisville<br />
che di Chicago, declinati qui alla dilatazione e al<br />
pochissimo rumore. E però, secondo, il gioco non<br />
sempre riesce ai quattro di Long Island, al loro secondo<br />
disco.<br />
Non è solo questione di melodie a volte imbarazzanti<br />
(Cities Change); c’è che con la finta destrutturazione<br />
si rischia di spezzare decisamente in due i<br />
brani, con la voce che va da una parte e gli strumenti<br />
che provano a essere più sofisticati negli arrangiamenti.<br />
Meglio le armonie di <strong>Of</strong> Course, che<br />
iniziano a spostare la bussola indietro nel tempo,<br />
o la quasi beatlesiana Dark Harbors; e soprattutto la<br />
title-track, a fine album, che si smarca del tutto dalla<br />
tendenza delle prime tracce del disco, estraendo<br />
dal cilindro sapori di primi Settanta post-acid,<br />
si direbbe jethro-tulliani. Ovunque di positivo – e<br />
raro, per certi versi – c’è che le melodie vocali non<br />
sono mai troppo patemizzate. Ma visto i successi<br />
con i decenni precedenti, facciamo in conclusione<br />
una proposta; Rahim, dimenticatevi i Novanta.<br />
(6.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
rhuMornEro – uMorisMi nEri (arroyo<br />
- MEtaMusic / vEnus, 20 novEMBrE<br />
2008)<br />
gen e r e: r o c K<br />
Banalizzare la spinta centrifuga del rock per tradurne<br />
soltanto gli stereotipi più in uso. Questo è<br />
quello che fanno i Rhumornero con Umorismi<br />
neri, allestendo uno spettacolo dal finale già scritto<br />
82 / recensioni recensioni / 83
Hi gH l i gH t<br />
plastic criMEwavE sound – paintEd shadows (a silEnt placE,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: r o c K<br />
Per capire con un solo colpo d’occhio la filosofia di Steve<br />
Krakow, aka Plastic Crimewave, basta prendere uno dei<br />
suoi Galactic Zoo Dossier. In pratica una vera e propria<br />
fanzine da lui curata (anche se venduta dal mailorder<br />
della Drag City), interamente disegnata a mano e con<br />
argomenti rigorosamente scelti, come – cito a memoria<br />
- articoli sui classici della dark psichedelia, oppure sugli<br />
horror movies hippie e interviste a gente come Clive Palmer<br />
o Ed Askew… Il mondo di Krakow sembra flirtare<br />
da una parte con la psichedelia hard di Julian Cope, dall’altra con lo sballo acido di<br />
Wayne Coyne e dall’altra ancora con qualcosa di completamente inedito ma paragonabile<br />
con il culto feticista per l’exotica. Un personaggio quindi con un senso della musica<br />
e dell’arte che oscilla perennemente tra il retrò e il kitch bello e buono. Che poi la sua<br />
band sia ormai da tre dischi che pesti duro regalandoci alcuni dei migliori nuovi anthem<br />
psych rock non è certo di secondaria importanza. Painted Shadows, quindi, potrebbe<br />
essere un bel lasciapassare per addentrarsi in un mondo come quello di Krakow, in cui<br />
non è certo facile immergersi e per mandare finalmente i Plastic Crimewave Sound<br />
nel patheon dei nuovi psichedelici, da qualche parte tra Black Angels o Indian Jewelry.<br />
Confidiamo quindi nella qualità del disco e nel fatto che per la prima volta non si<br />
dovranno aspettare mesi e mesi per vederlo in formato cd, come accaduto per i precedenti<br />
che hanno vissuto a lungo in esclusiva versione vinile. Painted Shadows prende<br />
il titolo dalla pratica in voga nell’espressionismo tedesco di dipingere le ombre direttamente<br />
sulla pellicola. Come riferimento culturale alla sacra scuola d’arte d’Alemagna, si<br />
fa centro pieno, perché di tutti i dischi pubblicati fino ad ora, questo è certamente quello<br />
dalle vibrazioni meno garage e più cosmiche. L’introduttiva I Feel Evils immerge subito in<br />
una nebbia wave che sembra essere stata filtrata dai Loop di Robert Hampson. Questo,<br />
insieme alla successiva (Can’t) Turn The Key, gli episodi più orecchiabili e “darkwave”. Le<br />
tirata acide non mancano comunque come si capisce quando attaccata la ronzante e febbrile<br />
ritmica (quasi motorik) di The Grip e della successiva Ecstatic Song. Ma il capolavoro<br />
del disco arriva alla fine con la title track: venti minuti di delirio cosmico che suona un po’<br />
come uno scontro tra titani, su una ideale battlefield che frulla di tutto, dagli Hawkwind<br />
ai Pink Floyd, dagli Stooges ai Motorhead passando per quintali di krautrock. E’<br />
questo il suono del più feticista di tutti i messia rock contemporanei. (7.5/10)<br />
antonEllo coMunalE<br />
in cui si recita un hard-rock scuro tutto riff granitici<br />
e lentezze marziali. Roba che neanche i Soundgarden<br />
meno acidi e più sfilacciati si azzardavano<br />
a proporre, per lo meno non con tale semplicistico<br />
slancio creativo. L’ambito di riferimento è una terra<br />
di mezzo tra la band di Chris Cornell e certi Negrita<br />
periodo Reset, anche se in realtà, l’idea che<br />
ci si fa a fine programma, è che il naturale sbocco<br />
per la band pisana sia un immaginario decisamente<br />
più convenzionale, tipo il palcoscenico di Sanremo<br />
rock(?). Per una formula che si accontenta<br />
di collezionare qualche arpeggio in distorsione e<br />
un pugno di fraseggi poco originali, facilonerie<br />
su tempi dispari e temi depressivi da piccola borghesia,<br />
senza oltrepassare gli steccati della buona<br />
creanza. Certo, a cercar bene, qualcosa si salva: si<br />
parla comunque di musicisti preparati – in giro c’è<br />
decisamente di peggio –, capaci di tirar fuori un<br />
suono attraente, talvolta in grado di osare qualche<br />
incursione in territori elettrici urticanti. Ma si tratta<br />
di piccole parentesi, per un disco che vorrebbe<br />
tanto, ma non fa. (5.0/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
roBErt pollard – thE crawling distancE<br />
(guidEd By voicEs inc., 2009)<br />
gen e r e: l o-fi po p -ro c K<br />
Abbiamo già avuto modo di notare come, tra le<br />
tante manifestazioni del Pollard-pensiero, quelle<br />
che portano il suo nome di battesimo, siano le più<br />
scadenti. Rieccoci alla riprova delle nostre supposizioni,<br />
grazie all’uscita quasi parallela dell’ultimo<br />
e più che soddisfacente Circus Devils e di questo<br />
The Crawling Distance, a firma del Nostro.<br />
La prima impressione che si ha ascoltando i due<br />
dischi è che l’autore principale non sia per niente<br />
lo stesso. Lo sbiadito e insipido pop-rock, leggermente<br />
“sporcato” negli arrangiamenti, a metà tra<br />
i Dinosaur Jr. e i R.E.M., del Pollard solista non<br />
ricorda, se non molto lontanamente, né il passato<br />
dei Guided By Voices né il presente dei progetti<br />
collaterali del musicista statunitense.<br />
Troppe le banalità e la retorica pop per farlo ap-<br />
parire un disco credibile. L’attenzione è tutta concentrata<br />
su linee vocali melodiose, arrangiamenti<br />
semplici ed essenzialmente relegati al sostegno armonico<br />
e un uso della forma canzone che, seppure<br />
minimamente esplorata nelle sue possibilità, non<br />
sconfina mai oltre le strutture stereotipate. Qualche<br />
volte ci si spinge fino al punk rock annacquato<br />
di By Silence Be Destroyed, ma a prevalere è quasi<br />
sempre un atteggiamento più soft, che non risparmia<br />
episodi al limite della decenza, robaccia da<br />
radio ultra-generalista come Imaginary Queen Anne.<br />
Neanche le fluttuanti melodie di una ballata raffinata<br />
come No Island o i toni cupi e darkeggianti di<br />
On Shortwave riescono a salvare la barca dal naufragio.<br />
(4.8/10)<br />
daniElE follEro<br />
ryoji ikEda – tEst pattErn (rastErnoton,<br />
2008)<br />
gen e r e: ry o j i iK e d a<br />
Interfacciano sintesi numeriche i composti parametri<br />
di Test Pattern, nuovo progetto dell’artista<br />
giapponese Ryoji Ikeda a tre anni dal sublime radicalismo<br />
di Datamatics.<br />
Portavoci di valori performativi, le sedici tracce di<br />
Test Pattern oltrepassano la frequenza assumendo<br />
ad ogni capo polarità in pattern per poi mutare<br />
identità nell’elettronica di segnale.<br />
Si ritrattano i principi dell’estetica che acquistano<br />
forma e purezza nella geometria contemporanea<br />
del limite; un limite finito che attraversa le regole<br />
dell’imput/output organizzando pulsioni sonore<br />
che difficilmente superano i 5 minuti.<br />
Soggetti in segnali ad alte frequenze, in certi casi al<br />
limite dell’udibile, che si lasciano condizionare dal<br />
ritmo e da governate regolarità, mentre la struttura<br />
composita regola le volute tra sferzati, puntinati<br />
o modulati ripetitivismi.<br />
Geometrie che vanno oltre la minimal-techno e<br />
superano i confini del glitch; che partendo da elementi<br />
primari, arrivano a plasmare masse di flussi<br />
sonori che s’impossessano del limite spaziale a<br />
tratti annientandolo, o radicandosi nel mutamen-<br />
84 / recensioni recensioni / 85
to seriale. Senza mai dimenticare poetica e stato<br />
emotivo dell’ascoltatore, a conferma che i cosiddetti<br />
nuovi suoni esistono ancora, ed hanno ancora<br />
molto da dirci. (7.8/10)<br />
sara Bracco<br />
six organs of adMittancE – rtz<br />
(drag city, 20 gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: p s y c h -fo l K<br />
Return To Zero, lo si evince dal titolo, è un disco<br />
che va a ripescare nel percorso artistico di Ben<br />
Chasny dagli esordi fino agli split con Charalambides,<br />
The Magic Carpathians e Vibracathedral<br />
Orchestra, attingendo a piene mani<br />
tra quei materiali pubblicati in edizione limitata<br />
e pertanto attualmente introvabili. E ad iniziare<br />
dalla lunga suite<br />
Resurrection, divisa<br />
in cinque parti,<br />
ritroviamo tutti i<br />
temi che ricorrono<br />
nei dischi più conosciuti<br />
del chitarrista<br />
folk californiano: la<br />
profonda empatia<br />
con la natura, la<br />
febbrilità di un fingerpicking mai fine a se stesso<br />
e la dimensione corale e intimista della voce. Immancabile<br />
anche l’utilizzo minimale della percussione,<br />
spesso usata solo come contorno ambientale<br />
e, ovviamente, quella chitarra stratificata che<br />
ha scavato a lungo tra le radici di una tradizione<br />
ben consolidata (John Fahey su tutti) e di un’altra<br />
invece, tutta da fare, dove è l’uomo, in buona<br />
solitudine, a immergersi nella visceralità del suono.<br />
Più della metà delle tracce resta sospesa tra il<br />
raga indiano e la psichedelia polverosa dei deserti<br />
dell’ovest, alle sorgenti dell’intera scena neofolk<br />
angloamericana, sulla quale il Nostro, indiscutibilmente,<br />
troneggia. Warm Earth, Which I’ve Been Told,<br />
la seconda long track del primo cd, rispolvera la<br />
componente arcana e oscura dell’ opera dell’ ex-<br />
Comets On Fire, forse la stessa che lo ha avvi-<br />
cinato, negli anni, a David Tibet. Il secondo cd<br />
non si discosta di molto dal primo, richiamando<br />
alla mente la storica controparte inglese di Chasny,<br />
quell’ Alexander Tucker che segue con la<br />
voce le linee della chitarra, fornendo un supporto<br />
non indifferente alla psichedelia selvaggia della sei<br />
corde. E’ forse tardi per gridare al miracolo, ma<br />
contando che si tratta di materiale vecchio è lecito<br />
riportare l’orologio indietro. (7.8/10)<br />
francEsca Marongiu<br />
susuMu yokota– MothEr(lo rEcording<br />
/ fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: (e l e t t r o) p o p , n o i r , d r e a M ec c<br />
Lo avevamo conosciuto poco più di un anno fà con<br />
Love Or die anche se, Susumu Yokota ha già alle<br />
spalle una decina di anni di attività e una trentina<br />
di album.<br />
Tredici tracce e sette collaborazioni tutte al femminile<br />
per la neo uscita firmata Lo Recording ma;<br />
purtroppo in questo caso non sono i numeri a far<br />
la differenza. Mother si lascia controllare e lo si<br />
dichiara apertamente già dai primi minuti dalle<br />
scelte vocali, senza nulla togliere alle preziose opzioni<br />
in talento che reggono il gioco con gradevole<br />
grazia ma, tramano inganno. E sono proprio i pieni<br />
e i vuoti, le identità in pigmenti elettroacustici<br />
e i colori che pagano il pegno, risultando o troppo<br />
accondiscendenti ( A Ray of light ) o decisamente<br />
fuori posto (Meltwater).<br />
Ritornano i residui del Sylvian e gli anni ’90, velati<br />
tra le piste a tre di “Love Tendrilises” o dichiarati<br />
senza timore nei toccati confini d’intro ambienthouse<br />
(The Natural Process) che a suo modo cerca rimedio<br />
nel dovuto giusto ordine delle cose (Breeze),<br />
tra battiti elettronici e le scritture in frequenza.<br />
C’è un po’ di dead can dance, tanto smalto dream<br />
e persino quella new age dai bozzetti angel-chic<br />
che fanno tanto Enya.<br />
Si salvano gli accostamenti in chiaro-scuro trai riff<br />
in chitarra e il grazioso cantato di Nancy Elizabeth<br />
(A Flower White) mentre le multi-tracce in vocalità<br />
dall’approccio forse concreto (Reflect Mind) si<br />
lasciano perdere e confondere.<br />
Congeniale a suo modo l’accostamento in percussioni<br />
e sintesi con le dualità vocali di “Suture”<br />
o le chiusure in pianoforte che nel voluto eco si<br />
lasciano contaminare dall’avanguardia; anime che<br />
sicuramente troveranno rifugio nei salotti per intellettuali<br />
cosmopoliti e stagionati.<br />
Tirando le somme la noia fa da maestro ma, se<br />
volete proprio dirigere l’orecchio e cercare un po’<br />
di sostegno andate verso la fine o centellinate qua<br />
e là l’ascolto dove forse emergono alcune attitudini<br />
migliori. (5.6/10)<br />
sara Bracco<br />
tElEfon tEl aviv – iMMolatE yoursElf<br />
(Bpitch control, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: e l e c t r o-aM b i e n t -po p<br />
Al terzo disco i telefoni approdano sull’etichetta<br />
berlinese di Ellen Aillen e si votano all’electropop,<br />
tralasciando un po’ le atmosfere dilatate che<br />
li avevano contraddistinti sin dall’esordio del 2001.<br />
La svolta a tratti è fruttuosa, soprattutto quando si<br />
punta sui crescendi in stile Apparat (vedi l’opener<br />
The Birds), quando si ricordano in modo estremo<br />
gli Ottanta (le percussioni di Helen <strong>Of</strong> Troy o gli<br />
archi darkettoni di Your Mouth) o quando ci si va<br />
di progressività puramente synth-pop (You Are The<br />
Worst Thing In The<br />
Word). Il disco risente<br />
comunque di<br />
una nostalgia verso<br />
il synth-pop che nel<br />
complesso si rivela<br />
essere troppo melanconica<br />
e in certi<br />
casi zuccherosa.<br />
Se con Maps <strong>Of</strong><br />
What Is Effortless ci avevano fatto capire di<br />
avere qualche colpo in canna ancora da sparare<br />
(che in effetti li avrebbe portati a sfornare dei remix<br />
epici per gli Apparat), qui Curtis e Cooper<br />
entrano nel tunnel del pop in punta di piedi,<br />
spogliandosi dell’anima e non riescono a togliersi<br />
di dosso la patina di uno scopiazzamento dei Depeche<br />
Mode e dei Cure più tastieristici. L’eccellente<br />
minimalismo acustic-pop di Circlesquare è<br />
distante. L’album potrebbe piacere a chi non ha<br />
vissuto a fondo la stagione dell’emotronica, ma i<br />
capolavori sono da tutt’altra parte. Senza infamia<br />
e senza lode, buono per un po’ di chilling e ‘mai<br />
niente di più’. (6.0/10)<br />
Marco Braggion<br />
tElEpathE – dancE MothEr (v2, fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: s y n t h -wa v e ev a n e s c e n t e<br />
Ce le ricordavamo più tribali, robuste e ossessive,<br />
le Telepathe, all’altezza dei primi passi vinilici. Ma<br />
si sa, le corte distanze possono ingannare nella<br />
stessa misura in cui i primi passi non sempre portano<br />
a luoghi (musicalmente) certi. Eccole ora qui,<br />
Busy Gangnes e Melissa Livaudais (synth, beats,<br />
qualche chitarra e tante voci), alle prese con l’esordio<br />
lungo; con quella prova che le metterà spalle<br />
al muro e di fronte al mondo, visti anche i nomi<br />
coinvolti nell’assemblaggio di Dance Mother,<br />
in primis quel Dave Sitek di Tv On The Radio<br />
memoria.C’è da dire subito che per chi le seguiva<br />
da tempo lo scarto è notevole. Il suono si fa meno<br />
corposo, si sfilaccia da quella wave “percussiva”<br />
e così tremendamente newyorchese che caratterizzava<br />
le uscite minori Farewell Forest e Sinister<br />
Militia, per avvicinarsi ad un concentrato<br />
compatto e (quasi) senza fronzoli di synth-wavepop<br />
accattivante e giocosa. Ripetitiva e minimale.<br />
Ossessiva nella sua elementarità. Ma è il senso di<br />
evanescenza al limite dell’ectoplasmico a segnare<br />
sottotraccia i 9 pezzi di Dance Mother. Un senso<br />
di sfuggevolezza che assume di volta in volta forme<br />
diverse a seconda della strumentazione usata e<br />
che fa pensare ad una sorta di haunted-pop songs.<br />
Qualcuno dirà che sono perfette per l’innocuo<br />
pubblico da performance arty che ingolfa certo<br />
sottobosco indie williamsburghiano. Noi risponderemo<br />
che certi dischi, nonostante riferimenti<br />
ovvi e un certo senso di inevitabile dejà-écouté, si<br />
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fanno apprezzare al di fuori di qualsiasi improduttiva<br />
contorsione mentale sull’utilità della musica.<br />
(6.8/10)<br />
stEfano piffEri<br />
john tEjada – faBric 44 (faBric<br />
rEcords, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: c o M p i l a t i o n te c h n o Mi n i M a l<br />
Il DJ californiano torna a concentrarsi sulla sua ristretta<br />
cerchia di amici e sforna un mix degno del<br />
Fabric. Ancora una volta minimal techno a farla<br />
da padrona, dopo lo scherzetto 80 Metro Area (sul<br />
numero precedente della serie del rinomato club<br />
britannico). L’omogeneità della proposta conquista<br />
subito al primo ascolto e man mano che si prosegue<br />
nel viaggio si ricordano le stagioni in cui eravamo<br />
là davanti alle casse a vibrare. Perché questo è clubbismo<br />
distillato techno. Un magma di progressioni<br />
(Subharmonik Atoms) e di laser sonori che fanno tanto<br />
sorriso stampato ibizenco (Colorseries Olive B), i confini<br />
con l’acidità sorpassati nella poderosa WAX10001 e<br />
le due tracce autoreferenziali sono le cose deep che<br />
ti stampano il marchio sui timpani per tutta la notte<br />
(la collaborazione con Arian Leviste in M Track 1<br />
e con Justin Maxwell in Benus Boats). Ma al di là di<br />
troppi tecnicismi, qui si parla di uno che va avanti<br />
per la sua strada underground. Con la sua Palette<br />
Recordings il ragazzone classe ‘74 si sta costruendo<br />
una squadra di adepti che lo seguiranno ancora<br />
per molto tempo. I nomi sono quasi tutti qui, e noi<br />
siamo felici di poterli ascoltare mixati in maniera<br />
ottimale dal loro produttore. Non solo comunque<br />
un ‘piccolo spazio pubblicità’. Ci sono anche delle<br />
chicche da lacrime. La potenza degli Orbital, le<br />
meditazioni di Spooky e il finale in acido con LJ<br />
Kruzer. La techno non muore, finché qualcuno ci<br />
crede. Fabric must go on. (7.0/10)<br />
Marco Braggion<br />
thE hunchEs – Exit drEaMs (in thE<br />
rEd, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: g a r a g e -ro c K<br />
Li davamo per morti, visto lo iato quinquennale<br />
che divide il comeback da Hobo Sunrise (In The<br />
Red, 2004). E molto probabilmente morti (nel senso<br />
di sciolti) lo sono davvero, o magari si sono appena<br />
riformati e festeggiano la rimpatriata con questo<br />
nuovo disco. Con gente del genere non c’è mai<br />
da fidarsi troppo. Di certo al momento c’è questo<br />
Exit Dreams, e tanto basta per rendere felici noi<br />
e chiunque ami quello che genericamente si può<br />
chiamare garage. Se poi quello che stiamo ascoltando<br />
fosse il canto del cigno degli Hunches, o l’inizio<br />
di un’altra sferragliante serie di release, beh, sia<br />
come sia la certezza è che colonna sonora migliore<br />
non potrebbe esserci. Chris Gunn (chitarre), Hart<br />
Gledhill (voce), Sarah Epstein (basso) e Ben Spencer<br />
(batteria) (ri)mettono in scena il loro personale<br />
teatrino garage-rock ad alto tasso di squilibrio, con<br />
un piede nella tradizione e l’altro sui distorsori. Da<br />
una parte la storia americana fatta essenzialmente<br />
di country e blues, dall’altra il lerciume depravato e<br />
iconoclasta del punk-rock. Che è un po’ come dire<br />
le ruvidezze dei Pussy Galore intenti a vivisezionare<br />
il cadavere del rock e la sguaiatezza slabbrata, teatrale,<br />
oscena dei Cramps. Senza mai raggiungere<br />
però né il parossismo distruttivo dei primi, né l’enfasi<br />
caricaturale dei secondi, evidenziando invece<br />
gusto per melodia e perfetto equilibrio formale e<br />
stilistico.<br />
La tradizione è trattata coi guanti mentre viene<br />
seviziata dalla carica irruente dei quattro, fatta<br />
di sporcizia del suono e grezzume dei ritmi. Perle<br />
come la conclusiva Swim Hole con quell’annegare<br />
una melodia infantile e irresistibile in un’orgia cacofonica<br />
esaltante, e l’opener Actors col suo stomprock<br />
robotico, lo dimostrano appieno. Volume a<br />
palla è quello che si merita un disco del genere.<br />
(7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
thE vickErs – kEEp clEar (foolica /<br />
halidon, 13 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: indie-po p<br />
Ai tempi dell’EP autoprodotto che finì tra le grinfie<br />
del nostro We Are Demo guadagnandosi un quasi<br />
sette, li paragonammo a Pavement, Libertines e Radiohead.<br />
Una scelta su cui ritorniamo ora - a disco<br />
d’esordio acquisito - non senza qualche perplessità,<br />
dal momento che se è vero che qualcosa delle<br />
formazioni citate la si ritrova ancora nella musica<br />
dei Vickers, è vero anche che ben altro si nasconde<br />
sotto la superficie. Nel nostro outing di inizio anno<br />
potremmo comunque coinvolgere anche illustri<br />
scrivani di altri “lidi”, dal momento che il ventaglio<br />
di riferimenti scomodato per definire il sound del<br />
gruppo toscano è stato ed è tutt’ora, ampio e variegato:<br />
Thrills, Coral, Turin Brakes, Bluetones, Charlatans,<br />
Oasis, Blur,<br />
ancora Pavement,<br />
solo per fare qualche<br />
nome. Una tendenza<br />
che, al di là delle<br />
facili battute di spirito,<br />
la dice lunga sul<br />
valore di una formula<br />
ricca e ambivalente,<br />
per certi versi<br />
riconoscibile ma anche sufficientemente originale<br />
da svincolarsi dalle facili categorizzazioni formali.<br />
Ancora di più in questo Keep Clear, deciso passo<br />
in avanti rispetto al passato recente oltre che – lo<br />
diciamo subito – disco di assoluto di valore. Dodici<br />
tracce per lo più chitarra, batteria, basso, tastiere,<br />
il cui maggior pregio è forse il naturale appeal melodico,<br />
unito ad un’orecchiabilità virata seppia familiare<br />
quanto spumeggiante. Una scrittura rubata<br />
al brit-pop meno banale come all’incedere energico<br />
di Pete Doherty e colleghi - Here Again -, al Dylan<br />
più sboccato - I’ve Got You On My Mind - come<br />
alle indolenze di Neil Young - I’ll wait -, che riesce<br />
a entusiasmare senza svilire i modelli originali. Collezionando<br />
invece piccole gemme con stupefacente<br />
semplicità, giocando con gli arrangiamenti, concedendo<br />
a musica e testi il giusto spazio, facendo apparire<br />
semplice un lavoro di rifinitura, invece, puntuale.<br />
Niente di trascendentale, verrebbe da dire,<br />
ma ce ne fossero di musicisti così. (7.1/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
thE fElicE BrothErs – sElf titlEd<br />
(tEaM lovE rEcords, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: aM e r i c a n a<br />
Capita, è capitato, capiterà ancora. Capiterà sempre.<br />
Che un guizzo di tradizione Americana (folk,<br />
blues, swing...) s’incarni in una situazione contemporanea,<br />
di cui senti con chiarezza la forza, l’estro<br />
risaputo ma necessario delle cose maturate a contatto<br />
con la vita vera. Simone, James e Ian Felice da<br />
Catskill, stato di New York, misero assieme la band<br />
come uno scherzo<br />
della passione nel<br />
non troppo lontano<br />
2006, finendo per<br />
fare i busker nella<br />
metropolitana della<br />
Grande Mela, cogliendoapprezzamenti<br />
e strappando<br />
entusiasmi che li<br />
portarono di lì a poco ad un tour in terra d’Albione,<br />
laddove licenziarono per la Loose Music il<br />
debutto Tonight At The Arizona (2007). I pochi<br />
che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo (tipico<br />
caso di distribuzione a singhiozzo) ne sono usciti<br />
elettrizzati, una di quelle scariche valvolari d’una<br />
volta, che non lasciano in pace nessun nervo o capello.<br />
Le esibizioni live, alcune prestigiose come al<br />
Folk Festival di Newport, ribadirono il concetto.<br />
Ed eccoci a questa sorta di secondo debutto, giustamente<br />
omonimo, per la Team Love Records.<br />
Un gran disco, quindici pezzi in cui l’estro roots<br />
sprizza uno sghembo, irresistibile vitalismo, come<br />
una scorribanda Tom Waits nella famosa cantina<br />
della famosa Casa Rosa, con Dylan e The<br />
Band felici di impastare ebbrezza e arcaicismi,<br />
smarrimento ed eccitazione, sacro e profano. Rag<br />
dinoccolati nella taverna dei buoni sentimenti alcolici,<br />
tenerezze country, storie spietate e impietose,<br />
violini e fisarmoniche, pianoforti e banjo, il<br />
conforto sbruffoncello della sezione fiati, voci che<br />
ammiccano, sproloquiano, ti consolano e si consolano.<br />
Canzoni come agili liturgie sconsacrate, gra-<br />
88 / recensioni recensioni / 89
vi e asprigne come la stupenda Helen Fry, argute e<br />
struggenti come Greatest Show On Earth (venata di infingarda<br />
flemma Lambchop), colme di indomita<br />
apprensione come Murder By Mistletoe (di quelle ballad<br />
che Grant Lee Phillips non ci regala più da<br />
tempo), trascinanti e scombiccherate come Frankie’s<br />
Gun!, languide e distese come Don’t Wake The Scarecrow.<br />
E lì in mezzo Goddamn You, Jim, a fungere da<br />
formidabile anomalia, con la sua gravità degna dei<br />
Low più funerei. Certo, siccome la veridicità è un<br />
lusso che la finzione non sempre può permettersi,<br />
capita di avvertire un vago senso di artificio, di inevitabile<br />
edulcorazione, un po’ come accadeva con<br />
gli I Am Kloot (ex busker pure loro), se ricordate.<br />
Ma, vi assicuro, non è un prezzo caro da pagare.<br />
(7.3/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
thEsE arE powErs – all aBoard futurE<br />
(dEad ocEans, 17 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: e l e c t r o<br />
Questo è quello che vorremmo da un genere.<br />
Esplorare i confini – in questo caso dell’electro - ma<br />
mantenere riconoscibili i riferimenti classici. Creare<br />
accostamenti inediti. Riprovare strade che si sono<br />
dimostrate pericolose – pensiero fisso alla parabola<br />
post-El Guapo, e ogni esempio di ciò che sarebbero<br />
potuti diventare scegliendo altre strade mette amarezza<br />
da un lato e speranza (per il nuovo) dall’altro.<br />
Tanto ci sarebbe bastato per caldeggiare l’ascolto<br />
di All Aboard Future, nuova prova per These<br />
Are Powers. Ad aggiungere interesse nei confronti<br />
di questa uscita c’è poi anche la recente storia della<br />
band, con l’auto-definizione “ghost punk” che,<br />
come si ricordava su SA, i TAP proponevano per<br />
se stessi fino allo scorso Taro Tarot. Va allora sommato<br />
a quanto detto lo scarto qualitativo dei generi;<br />
e pensate a come sia possibile cercare un ancoraggio<br />
(di velcro, naturalmente) a tutto lo spettro dell’electro,<br />
dalla sua declinazione pop all’industrial music<br />
for industrial people, dai Brainiac alle spezie digital<br />
hardcore. Si parte così con una versione più tirata<br />
dei Blow con Easy Answers; drum machine, co-<br />
lori, aperture, niente di risparmiato, nessun lavoro<br />
di sottrazione; si va più in là, rasentando gli Adult,<br />
con Life Ob Boards; si incrociano le due proposte con<br />
Double Double Yolk. Ma che ne è allora del fantasmatico<br />
e scheletrico suonare cui ci ha abituato la formazione?<br />
Proprio qui sta l’asserzione del disco, ci pare.<br />
Sì perché è nella mimesi di Genesis P-Orridge<br />
di Light After Sound riscopriamo il velo oscurantista<br />
della prima industria fatta a musica, e i These Are<br />
Powers sono in grado di metterci dentro un riff tecnologico<br />
ma pur sempre chitarristico, ponte (come<br />
etimo vuole) tra il prima e il dopo, il rock e l’elettronica,<br />
il fantasma, lo scheletro e la carne. Insomma,<br />
pur corpulenta, anche questa elettronica è scarnificata.<br />
Ossimorici i These Are Powers. E, cosa che li<br />
rende ancora più convincenti, gente in grado di far<br />
risbucare la propria ontogenesi nella filogenesi di<br />
questo ultimo lavoro. Non un capolavoro, ma una<br />
prova difficile e superata. (7.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
tiM hEckEr – an iMaginary country<br />
(kranky / goodfEllas, fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: a M b i e n t<br />
L’uomo che compone “musica per stati d’animo da<br />
4.00 del mattino” ritorna in proprio. Dopo la parentesi<br />
in compagnia di Aidan Baker, Tim Hecker<br />
riprende il discorso avviato con Harmony In Ultraviolet<br />
regalandoci un nuovo saggio di allegoria<br />
ambient. An Imaginary Country, volendo smentire<br />
i dettami dell’autore,<br />
lo si può ascoltare in<br />
qualsivoglia fascia<br />
oraria, che sia notte<br />
fonda o l’inizio<br />
di un nuovo giorno,<br />
visto che l’effetto<br />
sarà sempre di totale<br />
trascendenza. Meno<br />
austero del predecessore, il lavoro si stende alla maniera<br />
di un concept il cui soggetto è un immaginario<br />
paese esistito un secolo addietro (100 Years Ago),<br />
bagnato da acque pulsanti (Sea of Pulses, arricchita<br />
da un beat che fa tanto Jetone, il moniker minimal<br />
techno del Nostro) che cingono l’umorale ambiente<br />
(l’elegiaca Borderlands) affinché i corvini orizzonti in<br />
lontananza (Her Black Horizon) vi si possano specchiare<br />
imponenti. Non si esagera se ci considera Tim<br />
Hecker alla pari dei Flying Saucer Attack oppure,<br />
giusto per rimanere nel presente, evocativo quanto<br />
l’ultimo Fennesz. C’è vita dopo Black Sea (<strong>Of</strong> PulsPulses). (8.0/10)<br />
gianni avElla<br />
tony forMichElla & BasEonE – not<br />
too long ago (point of viEw / halidon,<br />
2008)<br />
gen e r e: j a z z<br />
Jazzista d’avanguardia – c’è chi lo paragona, senza<br />
falsi pudori, a Sonny Rollins -, musicista con alle<br />
spalle quarantacinque anni di carriera spesi tra Stati<br />
Uniti e Italia, collaboratore di artisti come Rino<br />
Gaetano – suo l’assolo di sax ne Il cielo è sempre più<br />
blu -, Tony Formichella colleziona con Not Too<br />
Long Ago nove spaccati di raffinato jazz d’autore.<br />
Materiale in bilico tra fascinazioni latine (Africa) e<br />
funk anni settanta (Perverso Blues e Shatto), toni caldi<br />
(Blue Blues) e rielaborazioni della tradizione (Saint<br />
Lawrence), che oltre ad ammaliare con le sue cadenze<br />
misurate, rivela una classe figlia, soprattutto,<br />
dell’esperienza. La si coglie nelle partiture ma anche<br />
nell’estetica ricercata dei suoni, con quel distendersi<br />
pacato del sax su fantasie minimali di batteria,<br />
chitarra, contrabbasso, flauto traverso e ottoni. Una<br />
musicalità che non pretende sforzi di comprensione<br />
fuori dal comune, non nasconde brutte sorprese,<br />
non prevede stravolgimenti, ma vive invece di particolari<br />
e sfumature. (6.9/10)<br />
faBrizio zaMpighi<br />
van Morrison - astral wEEks livE at<br />
thE hollywood Bowl (listEn to thE<br />
lion rEcords / EMi, 10 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: f o l K s o u l<br />
Se Van Morrison non avesse pubblicato Astral Weeks<br />
lo rispetterei moltissimo ma non lo amerei quanto in<br />
effetti lo amo. E la mia vita sarebbe indubbiamente<br />
più vuota. Il primo a rendersene conto è proprio Van<br />
“The Man”, che quaranta anni dopo quel prodigio<br />
di vinile ha deciso di rendergli omaggio rivisitandolo<br />
live per due serate - ovviamente sold out - all’Hollywood<br />
Bowl, in quel di Los Angeles, California.<br />
Durante quei concerti è stato catturato il materiale<br />
per questo Astral Weeks Live at the Hollywood<br />
Bowl, titolo che inaugura l’etichetta personale di<br />
Morrison, la Listen To The Lion. Disco che trasuda<br />
un entusiasmo - va da sé - maturo, dove un disinvolto<br />
delizioso horror vacui riempie gli interstizi con friniti<br />
di viola, svolazzi di fiddle, trilli di mandolino, vampe<br />
di ottoni, palpiti<br />
d’organo. Insomma<br />
tutto un ricamare<br />
sbrigliato e friabile<br />
che non sovraccarica<br />
semmai spampana<br />
i bordi (e i testi) di<br />
quei vecchi gloriosi<br />
pezzi, stemperandone<br />
la densità in un rituale liberatorio, capace di sdilinquirsi<br />
con la disinvoltura del jazz-rock-soul andato<br />
(raggiungendo l’apice in Ballerina e in Listen To The<br />
Lion, una delle due bonus track). In tutto ciò, la voce<br />
del cerimoniere paga impietosamente dazio alle ere<br />
geologiche trascorse, mostrandosi competente (e ci<br />
mancherebbe) ma legnosa nelle movenze, pronta ad<br />
affrontare le dinamiche più impervie ma depauperata<br />
del pazzesco bouquet timbrico che ricordavamo.<br />
Insomma, ho una notizia per voi: la nostalgia è un<br />
gioco tenero e crudele, sia quando finge di credersi<br />
vera sia quando - come in questi casi - s’illude di non<br />
averne bisogno. La differenza è sottile come il filo<br />
delle emozioni, e tenace allo stesso modo. La differenza<br />
la fate voi. (6.9/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
vEtivEr - tight knit (suB pop, 17 fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: f o l K po p<br />
Smaltito ormai del tutto il flirt col prewar fricchet-<br />
90 / recensioni recensioni / 91
Hi gH l i gH t<br />
svartE grEinEr – kappE (typE rEcords,<br />
fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: d a r K aM b i e n t<br />
Ritorniamo in Norvegia. Li dove fa sempre freddo e il<br />
sole è un disco magro che non dà luce né calore. Avevamo<br />
lasciato l’eroe del precedente disco Knive, un kafkiano e<br />
ideale “signor K”, alle prese con boschi neri, flutti paludosi,<br />
corvi minacciosi e uno spirito d’assenza e abbandono,<br />
nella spaesata scenografia d’ambiente architettata da<br />
Erik K. Skodvin. Nel 2009 assistiamo alla seconda parte<br />
di questo immaginario e intangibile excursus. Il signor K è riuscito a tirarsi fuori dalla<br />
selva oscura e pertanto questo sequel cambia buona parte dell’arredo di scena. I suoni<br />
perdono quasi del tutto quel mood onomatopeico che si alimentava a sparsi e disparati<br />
field recordings e inscenava gli andirivieni nella natura minacciosa. L’anelito metafisico verso<br />
l’alto è compiuto e il signor K si ritrova in una serie di malevoli e oscuri arredi interni,<br />
con pesanti tendaggi d’archi e un florilegio di note sostenute nel vuoto. E’ questo il nuovo<br />
trademark di Svarte Greiner: lasciare che le note cerchino una via d’uscita senza apparentemente<br />
trovarla. Da qui una sorta di pesante stasi armonica, costantemente ostile<br />
e intimidatoria. I sette minuti iniziali di Tunnels <strong>Of</strong> Love viaggiano via verso riverberi ed<br />
echi sempre più irraggiungibili e quando ti sembra di aver visto la via di fuga, ti accorgi<br />
che dietro la tenda la finestra è murata. Rispetto al primo disco, Skodvin si è ulteriormente<br />
raffinato come ambiguo esegeta del mistero. Non cerca più di spaventare quanto<br />
proprio di angosciare, calando ogni cosa in una nube di indeterminatezza. Ne sono<br />
testimonianza i sedici minuti abbondanti di Candle Light Dinner Actress forti della mano di<br />
Kjetil Møster degli Ultralyd e dei macabri riverberi d’oltretomba che si animano sulla<br />
scia del Wendy Carlos di Shining, ideali traghettatori verso il climax sinfonico finale<br />
di Last Light. L’ultimo segno di luce prima che arrivi il buio. (7.5/10)<br />
antonEllo coMunalE<br />
tone devendriano - mai troppo conclamato a dire il<br />
vero - il quintetto californiano capitanato da Andy<br />
Cabic torna a mettere in scena la consueta fascinazione<br />
folk, con piglio assieme frugale e alieno,<br />
ovvero spendendosi con le movenze e i modi delle<br />
ballate country rock ostentando la devozione e il<br />
distacco di chi proviene da altrove. Mai come in<br />
questo quarto album il punto di vista è sembrato<br />
- se me lo consentite - british. Difatti, oltre ai noti<br />
rimandi George Harrison (la dolciastra intraprendenza<br />
di Everyday, l’indolenza acidula di Strictly<br />
Rule, lo sperso incanto di Rolling Sea), t’imbatti in<br />
una Through The Front Door come potrebbe Badly<br />
Drawn Boy invaghito Mojave 3, oppure in una<br />
Strictly Rule che sembra i Belle And Sebastian di<br />
Legal Man narcotizzati dal peyote Gomez. Quin-<br />
di - su un altro piano di alterità - ecco scorrerci<br />
davanti una mischia oppiacea Lennon-Flying<br />
Burrito Bros (quella Sister che ricicla con svampita<br />
delicatezza Stand By Me), una fatamorgana<br />
Califone parecchio ingentilita (il mantra folk tra<br />
caligini elettroniche di Down from Above) e una At<br />
Forest che ciondola soffuso abbandono velvettiano<br />
altezza Loaded, per non dire di quella Another Reason<br />
To Go che strascica fiati e chitarrina liquorosa<br />
su disincanto bluesy tipo l’ultima Cat Power. A<br />
parte questa sensazione di riciclaggio tanto affettuoso<br />
quanto subdolamente po-mo, siamo dalle<br />
parti di un intrattenimento ipnotico e carezzevole,<br />
tutto sommato innocuo, con qualche pretesa psych<br />
che ne sfuma in meglio i limiti e gli obiettivi. Da<br />
ascoltarsi quindi come un buon lenitivo. (6.4/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
claro intElEcto – warEhousE sEssions<br />
(ModErn lovE, gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: d e e p te c h n o<br />
Mark Stewart ritorna con l’attesissima compilation<br />
che raccoglie in CD i 5 vinili delle sue famose<br />
sessions berlinesi (e aggiunge pure una postilla).<br />
Se l’anno scorso ci aveva stupito per la sua raffinatezza<br />
ai confini con l’IDM con quel botto che<br />
è stato Metanarrative, oggi questa antologia ci<br />
conferma che il ragazzo ha uno stile. Punto. Anni<br />
fa lo si sentiva poco, nascosto in qualche compilation<br />
o in qualche set che rischiava. Oggi non occorre<br />
più andare a inseguire le uscite in vinile o il<br />
downoad selvaggio. La prova ce l’abbiamo qui. Il<br />
suo moniker è più azzeccato che mai. Fa il furbo:<br />
stare con un piede nella deep e non annoiare il<br />
pubblico techno è dura. Mark ci riesce. Dal 2006<br />
a oggi nelle sue corde sentiamo il compagno di etichetta<br />
Andy Stott e quel Maurizio come ombre<br />
che assistono la darkness e la visione. Tutta gente<br />
hypercool che sbanca con 4 battute e un po’ di<br />
cassa caldissima. E allora via con la giostra fatta di<br />
trance dub sporcata glitch à la Rhythm & Sound<br />
(New Dawn), l’inno uberBerlin che è X (ascoltatevi<br />
il passaggio in eco a metà e ditemi se non siamo<br />
in zona Basic Channel), la spaventosa parata di<br />
effetti di delay e panning in Instinct e per finire Hunt<br />
You Down, 10 minuti che guardano nell’abisso del<br />
minimalismo. Irresistibile e a tratti oscuro. Qui si<br />
esprime la forza del club, senza alcun riguardo per<br />
l’editing da album. Se l’anno scorso c’erano state<br />
le Carl Craig, quest’anno ci sono le Claro Intelecto<br />
Sessions. Altroché. Lasciamolo respirare. Lasciamolo<br />
fare.(7.3/10)<br />
Marco Braggion<br />
wavvEs – wavvvEs (dE stijl, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: l o-fi be a c h -p u n K<br />
Noise-pop in modalità lo-fi dalla assolata California.<br />
Nascondismo di default e isolazionismo fatto<br />
bandiera ideologica. Immaginario retro-futurista<br />
già ben noto – si veda alla voce Blank Dogs – ed<br />
escamotage puerili – raddoppio delle consonanti,<br />
nello specifico – che cominciano a mostrare la corda.<br />
Ce ne sarebbe per dire basta alla terza riga.<br />
Però. Come in tutte le (in)certezze che si rispettino<br />
c’è il fatidico però. Però,si diceva, nonostante<br />
tutti gli indizi giochino a sfavore, sto disco spacca<br />
totalmente. Spacca davvero, e per un semplice fatto:<br />
perché al versante più synth-cold-wave di altre<br />
sensazioni – si veda sempre alla voce di cui sopra<br />
– Wavves oppone un immaginario di riferimento<br />
totalmente bubblegum-pop. Le sue sono proprio<br />
canzonette dalle melodie irresistibili; spinte, sconce,<br />
abbrutite, violate, sia quel che sia ma sempre<br />
e solo canzonette irresistibili sono. Che vengano<br />
totalmente trasfigurate da baccanali di lerciume<br />
elettrostatico o deturpate da ritmiche pestone e<br />
poverissime, beh, poco conta alla fin fine. Anzi,<br />
aggiunge proprio quel nonsochè che porta l’etichetta<br />
a definire questo suono the sound of today’s american<br />
youth e noi a darle ragione. Nathan Williams, classe<br />
1986, da San Diego – perché i misteri, nell’era<br />
del 2.0, non esistono – ha messo su un dischetto,<br />
riedizione della cassetta per Fuck It Tapes, niente,<br />
niente male. (7.0/10)<br />
stEfano piffEri<br />
92 / recensioni recensioni / 93
williaM Elliott whitMorE - aniMals<br />
in thE dark (anti, 17 fEBBraio 2009)<br />
gen e r e: aM e r i c a n a<br />
Dovessi suggerire un disco al mio migliore amico<br />
voglioso di Americana, consigliando questo<br />
Animals In The Dark andrei sul sicuro. Se mi<br />
chiedesse qualche dettaglio, gli direi che col quinto<br />
album William Elliott Whitmore porta il suo<br />
country nella zona franca che separa e unisce il<br />
mainstream dall’alternativo, definendo con sempre<br />
maggiore lucidità quella calligrafia fatta di tradizione<br />
integerrima, basata su un ristretto novero di<br />
segni immediatamente riconoscibili, intensamente<br />
tipizzati. Una fisarmonica, l’hammond, il dobro,<br />
quella voce che sembra appena strappata al ventre<br />
della terra, alle inquietudini e alle speranze covate<br />
sotto al front porch. E la morbidezza, soprattutto<br />
la morbidezza con cui accoglie stemperandola<br />
un’ebbrezza black, tanto che - volendo tagliare<br />
un paragone con l’accetta - sembra posizionarsi<br />
rispetto al soul e al blues come Ben Harper si<br />
pone rispetto al folk-rock. Quale esempio porterei<br />
senz’altro la trepida There’s Hope For You, oppure i<br />
tremori espettorati da Who Stole The Soul e Let the<br />
Rain Come In. Inoltre direi buone cose sulla disarmante<br />
fierezza che pervade l’invettiva corsara di<br />
Mutiny, così come sulla grana redneck fragrante e<br />
priva di boria di Johnny Law e Lifetime Underground.<br />
Infine lo rassicurerei, che in certi casi la genuinità<br />
la senti a pelle, capisci quanto profondamente è<br />
radicata anche dalla serenità con cui si disimpegna<br />
tra un malanimo e l’altro. Questo è uno di quei<br />
casi. (7.0/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
wino – punctuatEd EquiliBriuM<br />
(southErn lord / southErn, gEnnaio<br />
2009)<br />
gen e r e: M e t a l e di n t o r n i<br />
Dopo venticinque anni di carriera, Scott “Wino”<br />
Weinrich, chitarrista dal passato glorioso negli ambienti<br />
metal, ha deciso di fare per la prima volta le<br />
cose da solo. A seguito dello scioglimento della sua<br />
ultima band, Hidden Hand, infatti, l’ex chitarrista<br />
di Obsessed e Saint Vitus, gruppi che hanno<br />
scritto le prime pagine della storia del doom, ha<br />
pensato bene di provare la strada solista, firmandosi<br />
con il solo nomignolo. L’approccio è un po’ disorientante<br />
per la varietà di elementi messi in campo.<br />
L’impronta doom conserva la sua influenza su<br />
un lavoro che accosta con disinvoltura, ma anche<br />
con cognizione di causa, la psichedelia (Wild Blue<br />
Yonder) l’acid blues (Release Me), il funk-metal (Smilin’<br />
Road) e il Thrash<br />
(la Title-Track; The<br />
Woman In The Orange<br />
Pants), mentre un<br />
brano come Eyes<br />
<strong>Of</strong> The Flesh ricorda<br />
quanto siano<br />
debitrici (ieri come<br />
oggi), le correnti più<br />
oscure del metal, ai<br />
primi Black Sabbath. Non mancano le cadute<br />
di stile, come il rock un po’ amorfo di Secret Realm<br />
Devotion, e gli stereotipati momenti di intimità con<br />
la chitarra (Water Crane e i vari assoli-fiume un po’<br />
noiosetti) molto comuni tra i chitarristi metallari.<br />
Ed abbondano le soluzioni scontate e decisamente<br />
retrò, prevedibile richiamo alle migliori cose fatte<br />
in passato da Weinrich. Ma c’è da tenere conto<br />
anche, che non ci troviamo di fronte l’album di<br />
un povero cristo invecchiato e all’ultima spiaggia,<br />
ma di un musicista stagionato che qualcosa da dire<br />
ancora ce l’ha. Al di là di tutti i possibili, probabili<br />
e concepibili momenti revivalistici (6.4/10)<br />
daniElE follEro<br />
yussuf jErusalEM – a hEart full of<br />
sorrow (floridas dying, dicEMBrE<br />
2008)<br />
gen e r e: g a r a g e fo l K no i r<br />
Cosa unisce le tonalità oscure di un certo neo-folknoir<br />
con quelle più ruvide, ma anche più solari, del<br />
garage-country-rock? Il disco di Yussuf Jerusalem<br />
– primo LP di Floridas Dying – da una risposta<br />
ed una testimonianza in questo senso. Questo misterioso<br />
gruppo francese (le foto dei live rappresentano<br />
un trio, ma potrebbe essere una soluzione<br />
solo per i concerti) arriva al debutto con un album<br />
che fa piazza pulita di ogni purismo di sorta, offrendo<br />
in prima battuta una luttuosa copertina che<br />
sembra provenire più dal più tetro e putrido underground<br />
black metal che dai circuiti del garagepunk.<br />
E su quell’asse si continua con l’opener Gille<br />
De Rais che fa subito tornare alla mente i Celtic<br />
Frost nel nome e band ben più estreme come<br />
i primissimi Emperor nel sound. Con il secondo<br />
pezzo, che da il titolo all’album, cambia tutto: chitarre<br />
acustiche celticheggianti si sposano con linee<br />
vocali dal sapore di Midwest statunitense, quella<br />
tradizione americana che arriva fino a Lanegan e<br />
Woven Hand.<br />
Da qui si continua con ballate di alto impatto emotivo<br />
e di lodevole fattura in cui acustica, elettrica<br />
ed elettronica si mischiano alla perfezione, sempre<br />
in un sottile ma mai precario equilibrio; e allora la<br />
tradizione dei cantautori folk americani (The One<br />
You Really Want) si ricongiunge con i suoi esiti<br />
moderni (We Aint Coming Back ricorda i Good-<br />
Night Loving) senza per questo dimenticarsi di un<br />
certa canzone popolare medievale (The End <strong>Of</strong><br />
Tomorrow), il tutto intervallato solo dall’obliquo<br />
interludio pianistico di Jihad. Negli ultimi anni raramente<br />
Death In June e Roky Erickson, Current<br />
93 e Neil Young sono stati così vicini come nei solchi<br />
di questo disco. (7.5/10)<br />
andrEa napoli<br />
zEitkratzEr – volksMusik<br />
(zEitkratzEr rEcords, 2008)<br />
gen e r e: a v a n t -fo l K<br />
Ribalta i canoni cari alla scrittura classica del primo<br />
‘900 l’ensemble berlinese Zeitkratzer, e si concede<br />
alla direzione di Reinhold Friedl, nel tentativo<br />
inesausto di rompere gli schemi.<br />
In Volksmusik è una evidente matrice folk che<br />
attraversa i confini di Austria, Bulgaria e Romania<br />
a dettare i tempi di una musica complessa ma<br />
per nulla cerebrale. Nessun atteggiamento nu-folk<br />
e neppure leziosi orpelli strumentali, ma vere e<br />
propria avanguardia in chiave popolare che sembra<br />
non rinunciare nemmeno alla presa diretta.<br />
L’impatto è notevole, anche se ad alcuni potrebbe<br />
sembrare trasgressivo per le dissonanze da live, tra<br />
ritmi incalzanti, rallentati o trattenuti a mezz’aria.<br />
Con le vibranti danze di Batuta, le ancestrali rivisitazioni<br />
di Picior, la lettura jazz di Mountain e le percussioni<br />
tzigane di Bouchimich si abbattono le frontiere<br />
di un genere ormai ben radicato negli archivi<br />
sonori di Volksmusik, a conferma anche questa<br />
volta che l’originalità premia. (8.0/10)<br />
sara Bracco<br />
zoMBy – whErE wErE you in ‘92?<br />
(wErk discs, novEMBrE 2008)<br />
gen e r e: h a r d c o r e r a v e -st e p<br />
Tempo fa un personaggio senza nome usciva in<br />
sordina e ci sfornava un capolavoro del dubstep.<br />
Si chiamava Burial. Solo dopo qualche tempo si è<br />
capita a fondo la potenza del suo esordio. Oggi un<br />
altro che ama nascondersi esce con un disco che<br />
ha qualcosa in più. Lui dice di chiamarsi Zomby.<br />
E fa hardcore. Fin qua niente di sorprendente. Eh<br />
no, dico io! Fare hardcore oggi è come spararsi addosso.<br />
Bisogna avere le palle quadre per riproporre<br />
ancora una volta le sonorità della generazione<br />
E. Zomby ce la fa e ci sforna il disco che mancava<br />
per iniziare degnamente il 2009. Anche se uscito<br />
alla fine dell’anno appena terminato, questa chicca<br />
entra nel mondo dubstep e lo sfalda in modo inaspettato.<br />
Per cui ce ne freghiamo e lo recensiamo<br />
ora, consapevoli che ne sentiremo riparlare. Ma<br />
che cos’è quest’album? Solo un ricordo del rave?<br />
Come già detto in numerose recensioni e speciali,<br />
la cosa per cui ci si distingue oggi è la capacità di<br />
meshing e di rifrullo della storia. E allora se in certi<br />
punti non si può prescindere dalla cupezza (vedi la<br />
citazione dal monologo più famoso di Blade Runner<br />
in Tears In The Rain), il grosso di queste 14 tracce<br />
esula dalla grimeness e ci riporta direttamente<br />
a contatto con il rave. Tutti quei break spezzati,<br />
94 / recensioni recensioni / 95
quei laser che ci attraversavano la mente e quelle<br />
tastiere robotiche sono di nuovo atterrate. Le<br />
mitiche sirene à la O.R.B. in Get Sorted, le vocine<br />
velocizzate in We Got The Sound, i beatz superblack<br />
con le voci acute che tanto piacciono al popolo del<br />
drum’n’bass (splendide in Float), il trucco nerdy<br />
che non muore mai (il remix dello Street Fighter Theme).<br />
Il resto è un omaggio palese al rave. Ma se il<br />
tributo è fine a se stesso non ci smuove più. Zomby<br />
è invece un vulcano che sta per scoppiare. Perché<br />
con questa mossa disconosce e rifonda in modo<br />
furbissimo le sue origini dubstep. Una mistura intelligente<br />
che colpisce il trentenne e che spopolerà<br />
nel popolo di head bangers che nel 92 non era ancora<br />
nato. We were with you, Zomby.(7.5/10)<br />
Marco Braggion<br />
zu – carBonifErous (ipEcac, 17 fEB-<br />
Braio 2009)<br />
gen e r e: j a z z co r e<br />
Zu non sbaglia un colpo. Non ci pensa neanche<br />
la band romana ad indietreggiare e non pare per<br />
niente propensa a fare passi falsi. Dieci anni di<br />
dischi, critiche positive e tour in tutto il mondo,<br />
non sono riusciti ad appagare il trio romano, che si<br />
tiene distante dalla tentazione di accomodarsi sui<br />
famigerati allori. Dieci anni durante i quali Mai,<br />
Battaglia e Pupillo le hanno provate davvero tutte,<br />
trovando il coraggio, di volta in volta, di ricominciare<br />
da capo, facendo si che ogni esperimento<br />
potesse godere di vita propria. La formula del 3+1<br />
(con il trio a costituire la struttura di svariate collaborazioni)<br />
ha concretizzato questo spirito progressivo,<br />
creando incroci “pericolosi” che di volta in<br />
volta hanno parlato un linguaggio diverso. Thurston<br />
Moore, Steve MacKay degli Stooges, i<br />
jazzisti Ken Vandermark, Han Bennink e<br />
Mats Gustafsson, Nobukazu Takemura, il<br />
violoncellista Fred Lonberg-Holm, la band hip<br />
hop Dälek, sono solo alcuni dei nomi che hanno<br />
vestito i panni del “quarto Zu”, influendo radicalmente<br />
sulle idee del trio ostiense Carboniferous è<br />
un disco importante, un ennesimo punto di svolta.<br />
E per vari motivi. Intanto perché, come prima si è<br />
accennato, piazza la decima candelina sulla torta<br />
di una carriera discografica di tutto rispetto. Poi<br />
perché segna l’inizio<br />
della collaborazione<br />
di Zu per la Ipecac<br />
di Mike Patton,<br />
coronamento di<br />
un incontro musicale<br />
già rodato dal<br />
vivo durante il tour<br />
con la doppia band<br />
Melvins-Fantomas. Terzo, perché per la prima<br />
volta non c’è un “quarto”, almeno in organico.<br />
Già perché di ospiti illustri ce ne sono comunque.<br />
A parte lo stesso Patton, che presta la sua voce<br />
trasformista e un pizzico di Mr. Bungle alla causa<br />
(come definire altrimenti le atmosfere schizofreniche<br />
di Soulympics e Beata Viscera?), si aggiunge<br />
al gruppo anche la chitarra di King Buzzo (Buzz<br />
Osborne) dei Melvins.<br />
Le soluzioni di questa bizzarra equazione sorprenderebbero<br />
anche il più scettico. La durezza metal<br />
e i tempi quasi doom, caratteristici del sound del<br />
trio, che trovano espressione nelle atmosfere dark<br />
di Chthonian e Carbon, lasciano spesso e volentieri il<br />
posto a velocissime cavalcate math-noise (Ostia), a<br />
follie hardcore alla Naked City (Erinys), arrivando<br />
a spingersi fino all’ambient delirante di Orc. Un<br />
pot-pourri coerente, nel quale neanche per un attimo<br />
si perde la bussola dello stile che ormai i Nostri<br />
hanno scolpito nella roccia di un sound granitico,<br />
spigoloso e ormai assolutamente inconfondibile.<br />
(8.0/10)<br />
daniElE follEro<br />
rEcEnsioni a confronto<br />
zzz – running with thE BEast (anti / sElf, dicEMBrE 2008)<br />
gen e r e: w a v e /po s t -p u n K<br />
Mi chiedo dove sia l’hype e soprattutto il buon<br />
gusto. Il duo olandese costituito da Daan (organo)<br />
e Tjess (batteria e voce) varca con imbarazzo<br />
il dancefloor rock degli ‘80 con numeri che sanno<br />
di liofilizzato batcave, scimmiottando dove è lecito<br />
i Sucide, senza chiaramente sfiorare la profondità<br />
ed il fascino del duo Rev/Vega. Del resto se<br />
gruppi “cartoon“ come gli MGMT (visti lo scorso<br />
anno al Primavera Sound di Barcellona meritavano<br />
una simpatica tanica di benzina a bordo palco)<br />
riescono ad ammorbare le fantasie di critici e fruitori<br />
deve pur esserci qualche tarlo.<br />
Il migliore duo con questo tipo di<br />
strumentazione rimangono i Silver<br />
Apples, concedetemelo, una sola<br />
nota per mettere a tacere la prova di<br />
questi pur volenterosi ragazzotti dai<br />
Paesi Bassi. Non posso non pensare<br />
alla schizofrenia dei primi Rah Bras<br />
od alle pur contagiose evoluzioni<br />
dei Dance Disaster Movement, che mai hanno<br />
usufruito di una distribuzione “major“ ed hanno<br />
finito per occupare le poco ambite stanze del dimenticatoio.<br />
Volete ascoltare un organo creepy?<br />
Beh, allora risentitevi il buon vecchio Ray Manzarek,<br />
anche quando si affacciava in Los Angeles degli<br />
X o – se desiderosi di un esempio contemporaneo<br />
– Maya Miller dei Religious Knives. Ammiccanti<br />
e oscuri, su questo binomio costruiscono la loro<br />
fama gli zZz, risultando in ibridi discutibili come<br />
Amanda, un qualcosa tra i Joy Division e l’Iggy<br />
Pop di Cry For Love. Spoil The Party è forse uno dei<br />
brani più spinti e muscolosi con una pressante cassa<br />
in 4, troppo poco per ambire ai luoghi culto<br />
della disco moderna, troppo derivativi per aggiungere<br />
note alla grande tradizione wave britannica.<br />
Da rivedersi. (5.0/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
Sulle prime, il nuovo lavoro degli olandesi Zzz suona<br />
come l’ennesimo gruppetto di maniera neo-wave<br />
preceduto dal suffisso “The” (Departure, Editors<br />
e via discorrendo). Anzi, se ci soffermassimo alla<br />
sola traccia inaugurale, Lover, non potremmo che<br />
pensare ad un clone bramoso di gloria parimenti i<br />
The Killers. Ma Running With The Beast, col<br />
passare degli ascolti, si manifesta disco sinistro e<br />
spigoloso. Prendiamo ad esempio la voce: giocata<br />
su varie tonalità di nero, talvolta evoca lo spauracchio<br />
di Ian Curtis (la ballad finale Islands) e tal’altra<br />
il luciferino baritono di Alan Vega (il<br />
boogie di Grip). La ritmica gravita su<br />
registri post-punk epico alla maniera<br />
dei Simple Minds periodo Empires<br />
and Dance (Spoil The Party) o stile<br />
Psychedelic Furs dei tempi moderni<br />
(Angel, con tanto di sax in coda),<br />
senza lesinare digressioni à la Man<br />
or Astro-Man? (Sign <strong>Of</strong> Love), sortite<br />
swamp-wave (Majeur), acidi pastiche pop tra Beatles<br />
e Beta Band (The Movies) e invettive space-rock<br />
(Sign <strong>Of</strong> Love, Running With The Beast) che, riversate<br />
in ambiti new wave, non possono che mirare ai<br />
mitologici Chrome. Fortunatamente la prima impressione<br />
è stata smentita. L’onda lunga del suono<br />
a cavallo tra ’70 e ’80 non si spegne, e finché non si<br />
intravedono cloni di A Flock <strong>Of</strong> Seagulls all’orizzonte<br />
ci sta bene così. (7.5/10)<br />
gianni avElla<br />
96 / recensioni recensioni / 97
live report<br />
jaMiE lidEll – livE @ vElvEt, riMini<br />
(24 gEnnaio 2009)<br />
Nessuna band, solo un gregario al piano, all’organo<br />
e ai svariati tricks. In una parola “soul”. Quello di<br />
prim’ordine, quello con anima vibrante e corpo trascinato<br />
al movimento. Quello che si porta dietro la<br />
storia tutta di un genere e non la offende, vedendola<br />
anzi omaggiata da una vocalità fuori dall’ordinario<br />
e da un savoir-faire on stage che elettrizza l’imberbe<br />
ascoltatore che non sa quello che potrà attendersi.<br />
E Jamie, un novello Stevie Wonder bianchissimo,<br />
tiene il palco benissimo con le sue smorfie e le sue<br />
movenze da autistico completamente inebriato dal<br />
proprio senso del ritmo che esterna al meglio facendosi<br />
“human beat box”, basi e bassi grossolani<br />
partoriti dalla bocca ma rigorosamente a tempo che<br />
registra e campiona sul momento per crearsi una<br />
fondamenta da cui sprizzare tutto il suo dilagante<br />
entusiasmo, che è tangibile poiché non filtrato. Certo<br />
la formula “beat campionati + vocalismi” può<br />
allettare (e lo fa eccome) ma alla lunga tende a risultare<br />
un tantinello monotona e la fruizione dei pezzi<br />
(principalmente presi, come ovvio, dall’ultimo Jim)<br />
talvolta richiamano la mancanza di una vera e propria<br />
fullband alle spalle. Tanto basta però per assaporare<br />
qualche brivido e sentirsi per una volta “neri<br />
dentro”, quando soprattutto si arriva ad un finale<br />
da singalong col pubblico sulle note di una “Another<br />
Day” a cappella, di cui prendere e stampare il<br />
testo da esporre sullo specchio come monito positivista<br />
al fine di cominciare al meglio ogni singola<br />
mattina. Insomma un figlio della tradizione e della<br />
bizzarria dell’artista a tutto tondo che per fortuna<br />
è ben attaccato al comunicare le proprie sensazioni,<br />
forse più dal vivo che su disco. E come si dice,<br />
“quando lo spettacolo si fa emozione”…<br />
alEssandro grassi<br />
livE: squartEt + tEstadEporcu –<br />
traffic, roMa (15 gEnnaio 2008)<br />
Rome is burning. Una nebbia padana sorprende<br />
i cieli stellati della capitale e avvolge il Traffic<br />
tutt’intorno. Il locale, dopo il restyling del piano<br />
inferiore, si è assestato in un accogliente mood anglofono<br />
anche su quello superiore. Niente più poster<br />
grindcore, locandine di gruppi emo né gadget<br />
giovanilisti. Siamo adulti e un po’ navigati, quindi<br />
largo all’ordine e alla pulizia. Stasera assisteremo<br />
all’esibizione di due delle costole della Jazzcore<br />
Inc.: Squartet e Testadeporcu. Romani e con un<br />
disco uscito di recente i primi (Uwaga!, Jazzcore<br />
Inc, 2009), bolognesi e in procinto di entrare in<br />
studio i secondi. Come da copione capitolino, il<br />
concerto inizia tardi; i tre Squartet, Manlio Maresca<br />
alla chitarra, Fabiano Marcucci al basso<br />
e Marco Di Gasbarro alla batteria, prendono<br />
possesso del palco mentre dalla consolle fa capolino<br />
la testa rasata di Mr. Jamming (soundman e<br />
componente del gruppo ad honorem). Inaugura la<br />
scaletta Il piccolo samaritano, seguita da vari estratti<br />
da Uwaga! (Perky Pat, L’infame, Sexy Camorra). Il trio,<br />
compattissimo, attacca, sbanca, si ferma, cambia<br />
ritmo, ricomincia. I pezzi scivolano metronomici<br />
e goliardici uno dentro l’altro, supportati dal genio<br />
chitarristico di Maresca che rimanda tanto a certo<br />
virtuosismo pre-war quanto al rock e al punk,<br />
il tutto annegato in un fertile territorio jazz, regno<br />
di febbrili ostinati e cambi di tonalità. Il basso<br />
emette delle bordate sì massicce e armoniche che<br />
quasi non ci si accorge che nei primi pezzi l’ampli<br />
sull’impianto è off. E la batteria è il cuore pulsante<br />
nella corsa scatenata dietro ad un autobus di periferia<br />
che va a tutta velocità. Altro che attitudine<br />
punk, qui si prende il testimone di gruppi come No<br />
Means No, Pak e Victims Family sfoderando<br />
jaMiE lidEll<br />
però un alto tasso di personalità. Musica tosta ma<br />
fruibile, intelligente ma mai leziosa, schietta come<br />
la romanità, energica e contagiosa.<br />
Chiudono il set Radau e un pezzo nuovo, con Carlo<br />
Conti (Neo) al sax e il suo dialogo overlapping<br />
con il funk della sezione ritmica.<br />
Dopo una breve pausa si torna giù e, come per<br />
accoglierci al meglio, partono le basi un po’ losche<br />
dei Testadeporcu aka Diego D’Agata (basso, ex-<br />
Splatterpink) e Claudio Trotta (batteria, già<br />
Deus Ex Machina, storica prog-band che forse<br />
qualcuno, più attempato della sottoscritta, ricorderà).<br />
I Testa sono un monolite spaccato e ricomposto<br />
un’infinità di volte e se la forma e il colore<br />
sono quelli di un grindcore “anomalo”, dalle crepe<br />
fuoriescono gli adorati spettri della contemporaneità.<br />
Non a caso i due definiscono la loro musica<br />
punktemporary, punk-temporanea. Ed è il tempo<br />
il terreno dove si gioca un po’ tutta la partita: pezzi<br />
velocissimi, stoppati all’inverosimile, dove la schi-<br />
98 / recensioni recensioni / 99<br />
© francesca garattoni
zofrenia jazzcore mostra ora la maschera tecnica<br />
ora quella iconoclasta. Il tutto accompagnato da<br />
un atteggiamento ironico, di metacritica nei confronti<br />
del punk e della musica contemporanea di<br />
matrice intellettuale. Sicuramente meno digeribili<br />
dei romani, ma senz’altro coinvolgenti e da approfondire.<br />
All’uscita seguono rituali di aggregazione,<br />
finchè il Traffic chiude le serrande e un singolare<br />
personaggio con una farfalla in testa cerca di convincerci<br />
ad accompagnarlo a ballare l’house. Vagli<br />
a spiegare che oltre a vivere veloce bisogna morire<br />
vecchi. Vagli a spiegare che Roma brucia.<br />
francEsca Marongiu<br />
adEM (vElvEt, riMini, 29 gEnnaio<br />
2009)<br />
Non ci dovrebbe essere bisogno d’altro che di una<br />
bella voce e di un’atmosfera piacevolmente rilassata,<br />
quando si assiste ad un concerto con pochi<br />
adEM<br />
intimi. Che le corde dell’anima siano toccate in<br />
santa pace senza alcun filtro; poco importa se parte<br />
delle canzoni qui proposte non sono autografe,<br />
ma quando la resa possiede una fedeltà emotiva<br />
tale da riempire il cuore, si ha la netta certezza che<br />
l’obbiettivo prefissato è stato raggiunto, almeno<br />
osservando i volti degli astanti.<br />
Ad accompagnare il simpatico turco-inglese Adem<br />
Ihan ci sono due ospiti d’eccezione che si rivelano<br />
decisive per la resa dell’intenso live: Nancy Elizabeth<br />
– già esordiente per conto della Leaf fra folk<br />
ed incanto un po’ alla Joanna Newsom – allo<br />
xilofono e all’organo e Sarah Jones – batterista dei<br />
new wavers New Young Pony Club e dei “nuovi”<br />
Bat For Lashes – dietro le pelli.<br />
Un inizio in punta di piedi e una voce toccante,<br />
quella del Nostro, che comincia in solitaria prendendo<br />
per mano la sua acustica e la sua timidezza,<br />
e traghettando in soffici momenti sonori sulle onde<br />
di Love And Other Planets e della splendida Long Drive<br />
Home, per poi abbracciare la minuta folla quando<br />
il trio si compie, grazie ad armonie vocali pulite e<br />
veramente rare. Dall’ultimo Takes scorrono le celebri<br />
Hotellounge e Tears Are In Your Eyes che vibrano<br />
di nuova vita nelle corde del gruppo, per poi giungere<br />
alle celestiali derive di Slide di Lisa Germano<br />
e prendere vigore ed energia in Everything You Need<br />
e Launch Yourself. Epico il finale sulle note di Laser<br />
Beam dei migliori Low che dalle mani del terzetto<br />
arriva diretta e pregna di emozione fra un falsetto<br />
di Adem e note solitarie di chitarra. Per una serata<br />
dove l’essenzialità del folk funge da pennello per<br />
dipingere un’atmosfera calda e complice, viene da<br />
sorridere per la gioia, considerando quanto a volte<br />
sia necessaria la semplicità solo stando a guardare<br />
la grazia di Sarah che pacatamente, per tutto il<br />
tempo, ha usato come grancassa una valigia…<br />
alEssandro grassi<br />
giant sand – circolo Magnolia, Milano<br />
02/02/2009<br />
Parafrasando Forrest Gump, assistere a un concerto<br />
dei Giant Sand - o di Howe Gelb, che poco<br />
cambia - equivale ad aprire una scatola di cioccolatini.<br />
Nel senso che non sai mai bene che farà e<br />
come lo farà: un pregio/difetto connaturato al suo<br />
rapportarsi alla musica in modo arruffato, sfruttando<br />
il caso e il momento. Se l’ispirazione c’è e<br />
i sodali sono all’altezza (nello specifico i danesi<br />
Thoger Lund al contrabbasso, l’abile Peter Dombernowsky<br />
dietro la batteria e il chitarrista Anders<br />
Pedersen, più la concittadina di Gelb Lonna Kelley<br />
- sguardo perso degno di David Lynch e incinta di<br />
un paio di mesi - alla seconda voce) può nascere la<br />
serata memorabile, dove si passa come nulla fosse<br />
da rock turgidi e aciduli a siparietti pianistici ragtime,<br />
da ballate country impolverate al jazz-lounge,<br />
talvolta tutto insieme splendidamente. Altrimenti<br />
tocca sorbirsi uno sbraco approssimativo, i cui artefici<br />
paiono vagare autonomamente dietro a una<br />
bussola smagnetizzata.<br />
Come con ogni album cui il Nostro ha messo<br />
mano in venticinque anni di carriera, insomma,<br />
tutto il bello (tanto) e il brutto (poco, per fortuna)<br />
stanno in questo acuto understatement, nel gioco<br />
- tratti somatici e sguardi luciferini ma sornioni inclusi<br />
- con la musica americana, seguendo le regole<br />
peculiari di un enciclopedismo simpaticamente<br />
sconclusionato. Gli ci è voluto del tempo, a Howe,<br />
per riuscire a tramutare questo ipotetico limite in<br />
un tratto caratteristico che lo rende riconoscibile e<br />
addirittura geniale. Anche quando gli impasti vocali<br />
traballano un po’ o, all’inizio del concerto, la<br />
sezione ritmica e l’armonia suonano scollate. Basta<br />
poco per scaldarsi, tuttavia: tra un aneddoto e<br />
un inedito, una toccante The Desperate Kingdom <strong>Of</strong><br />
Love sottratta a P. J. Harvey e il medley prelevato<br />
dal sottovalutato Rock Opera Years, arrivi all’ora e<br />
mezza che manco t’accorgi. Allampanato, baffuto<br />
e di residenza desertica, Gelb ricorda Spike, il fratello<br />
di Snoopy. Rispetto al quale ha contraccambiato<br />
la scalogna con una creatività che scintilla sì<br />
a intermittenza, ma che quando brilla scioglie la<br />
neve nell’anima come poche altre. Lui non se ne<br />
preoccupa, visto che da tempo ha capito di essere<br />
- e difatti ce lo canta pure… - quel che si definisce<br />
un classico.<br />
giancarlo turra<br />
100 / recensioni recensioni / 101
WE ARE DEMO #33<br />
I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di<br />
S&A. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi.<br />
shaBadà orchEstra - Ep<br />
Quattro tracce per cambiare idea riguardo alla<br />
patchanka, ricettacolo di sonorità parecchio abusate<br />
in chiave combat folk al punto da provocarci l’orticaria<br />
al solo sentirla nominare. Ma, appunto, gli Shabadà<br />
Orchestra arrivano ed è un balsamo, un unguento,<br />
un bicchiere di rhum e polvere da sparo. Aromi mediterranei<br />
imbizzarriti, estro balcanico, sentori marsigliesi<br />
e aspro spasmo black (errebì + Africa), il tutto<br />
cucinato nel calderone partenopeo che non significa<br />
autoghettizzarsi nel dialettale, infatti l’inno tabagista<br />
40 sigarette potrebbe benissimo essere un Capossela<br />
incazzato e sbarazzino, mentre la sordidella e bluesy<br />
Il gabbiano affonda il bisturi nella piaga strattonando<br />
locale e universale come una favola noir. Tutto in loro<br />
è contagioso, dalla voce - a metà strada tra Peppe Voltarelli<br />
e Rocky Roberts - alla foga sferzante della chitarra,<br />
dalla ruspante collusione sax-fisarmonica (con<br />
sorprendenti link a certo jazz etiope) ai nomignoli<br />
che si sono scelti (roba tipo Sdugtmbò e LuAplles). Si<br />
attende a breve l’esordio su lunga distanza. Qualcosa<br />
mi dice che non passerà inosservato.(voto:7.2/10 myspace.com/shabadaorchestra<br />
) (s.s.)<br />
oMosuMo – proMo Ep<br />
Scartabellando tra i crediti di questi Omosumo finiamo<br />
per scoprire alle chitarre un Roberto Cammarata<br />
già passato per We Are Demo con gli ottimi<br />
Waines e al basso un Settimo Serradifalco, principale<br />
attivista del progetto Donsettimo. Artisti, entrambi,<br />
di buon livello, a cui si aggiungono Giuseppe Megna<br />
alla batteria e un Angelo Sicurella alla voce definito<br />
dalle note stampa come “il miglior cantante rock di<br />
Palermo”. Sia come sia, un fatto è certo: l’EP in oggetto<br />
punta i riflettori su una formazione che mostra<br />
carattere da vendere, pur frequentando compagnie<br />
poco raccomandabili per gli amanti dell’originalità<br />
a tutti i costi. Nello specifico, new wave (Sensazioni di<br />
libertà), post-punk, ma anche blues e hard (quasi) à<br />
la Led Zeppelin (Industriale e Di terra e di me), filtrati<br />
da una scrittura che riesce nell’impresa di mescolare<br />
le carte per suonare, infine, originale. (voto: 7.2/10<br />
myspace.com/omosumo ) (f.z.)<br />
drEsda – wE arE thE supErfunkErs<br />
Più che post-rock, malinconie strumentali concepite<br />
per pellicole struggenti, crescendo umorali su arpeggi<br />
rinsecchiti, stratificazioni in punta di plettro intense<br />
ed evocative. Il nome è Dresda – ripreso dall’insuperabile<br />
Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut – e l’ideologia<br />
che serra le fila pare essere quella di “descrivere ambientazioni<br />
con la musica per rendere i suoni parte<br />
di una scena a più dimensioni”. Tra field recordings<br />
e elettriche urticanti, tastiere e glockenspiel, basso e<br />
theremin, i quattro genovesi riescono nell’impresa,<br />
alternando momenti di stasi a distorsioni violente e<br />
consegnando ai posteri un Ep inquietante e catartico.<br />
(voto: 7.1/10 myspace.com/wearedresda )(f.z.)<br />
giuda Matti - Ep + il trittico dEl<br />
MalE<br />
Quartetto modenese - e non fanno nulla per nasconderlo<br />
- i Giuda Matti vantano un repertorio breve ma<br />
impudente, EP del 2008 e il recentissimo Il trittico<br />
del male. Nel primo fregola punk-pop-folk in guazzo<br />
sixties come dei Blur circuiti da Ivan Cattaneo e<br />
strattonati da mancanza di riguardo Skiantos, nel<br />
secondo uno spurgarsi l’anima in tre atti senza soluzione<br />
di continuità, rievocazioni beat tra il perverso e<br />
lo scazzato (con tanto di pronuncia paraenglish alla<br />
Mal), oppure una versione demenzial-psych e ingrugnita<br />
degli <strong>Of</strong>flaga Disco Pax. Che è un po’ come<br />
cercare nuovi modi di circoscrivere l’ennui periferico<br />
prima della bucolica (falsa) resurrezione finale. In<br />
loro c’è del tragicomico che non posso fare a meno di<br />
adorare.(voto:7.0/10 myspace.com/giudamatti) (s.s.)<br />
sundancE capoEira – a low choicE Ep<br />
C’entrano i Giardini di Miro’ e Il Nucleo, dal momento che in<br />
formazione militano il bassista dei primi, Mirko Venturelli, e il<br />
bassista dei secondi, Mauro Buratti, ma questi Sundance Capoeira,<br />
nonostante alcune analogie nell’approccio alla musica, fanno<br />
storia a sé. Anche perché il post-rock qui si trasforma in digressioni<br />
eteree e inafferrabili, suoni morbidi e ovattati, sulle ali di una voce,<br />
quella della svedese Karin Nygren, che funge da collante armonico<br />
tra gli strumenti. La vena è inaspettatamente pop – nei limiti<br />
concessi da una forma che privilegia le sfumature -, l’incedere lento<br />
e avvolgente, il sentire decisamente godibile, figlio certo dell’esperienza dei musicisti coinvolti<br />
ma anche di un tocco magico che riesce a semplificare una musica per sua natura raffinata e<br />
complessa.<br />
(voto: 7.3/10 web: myspace.com/sundancecapoeira ) (f.z.)<br />
forManta! - f! Ep<br />
Assieme dall’estate del 2008, i romani Formanta!<br />
sono un quartetto col pallino per l’indie pop viziato<br />
wave, roba garrula ma tesa, graffiante ma con una<br />
sua gentilezza di base, informata alla nostalgia degli<br />
anni in cui ti capitava di intercettare nelle radio<br />
e sulle piste da ballo le ultime fatiche di Blondie o<br />
Smiths, di Pretenders o Television, però con quella<br />
disinvoltura che ti regala un approccio autorevole e<br />
sbarazzino alla materia. Ovvero: ci vogliamo seriamente<br />
divertire, secondo la lezione Broken Sovial<br />
Scene e Blonde Redhead per intenderci. In mancanza<br />
di intuizioni davvero geniali - nelle cinque<br />
tracce di questo F! si raggiunge al più un’intrigante<br />
gradevolezza - mi sembra un buon punto di partenza.(voto:6.9/10<br />
myspace.com/formantamusic ) (s.s.)<br />
vicolo Margana - a pErfEct lifE<br />
I Vicolo Margana sono sostanzialmente un duo,<br />
Francesco Antonelli e Fabio Bizzarri, attivi dai primi<br />
anni settanta e quindi non proprio debuttanti<br />
allo sbaraglio, però è fresco questo loro progetto che<br />
esordisce appunto con A Perfect Life, undici tracce<br />
all’insegna di una calda electro ambient in cui<br />
confluiscono i retaggi prog-rock di entrambi. Detto<br />
che ad aiutarli intervengono il basso di Andrea<br />
Castelli e le voci di Elena Antonelli e Alice Bardini,<br />
direi che il risultato finale è un ineffabile ibrido tra<br />
i Massive Attack più atmosferici, un pizzico di Popol<br />
Vuh stregati Cocteau Twins, Steve Roach alle<br />
prese con fregole etno, i Floyd persi in un sogno<br />
industrial-psych. A tratti sfiorano certa deprecabile<br />
effettistica new age, ma in genere riescono a mantenersi<br />
aggrappati ad un’idea estetica abbastanza<br />
precisa, solenne e suggestiva. Malgrado non sia il<br />
mio genere, mi sono piaciuti. Vorrà pur dire qualcosa.(voto:6.8/10www.vicolomargana.it/(s.s.)<br />
102 / recensioni recensioni / 103
th e sm i t h s<br />
te e n Wave Po P<br />
Gli Smiths sono tornati a far parlare di loro: in primis con l’attuale uscita dell’ultimo album di<br />
Morrissey, indirettamente con la pubblicazione della Rhino di un cofanetto contenente tutti i loro<br />
singoli in versione originale, e (forse) direttamente per il vociferare di una loro possibile reunion.<br />
Quale occasione migliore per tornare a parlare della band che ha fatto la storia del pop, brit e non<br />
solo, e del suo mondo “acquatico”?<br />
Testo: Andrea Provinciali<br />
Non avete mai visto fare surf a Manchester, grigia<br />
città del North West dell’Inghilterra? Peccato,<br />
perché un mercoledì (da leoni) di quasi trent’anni<br />
fa l’aria divenne improvvisamente limpida, la<br />
primavera esplose prematuramente e una grande<br />
onda, di dimensioni gigantesche, raggiunse il cuore<br />
metropolitano con il suo incedere irrefrenabile.<br />
In quel momento quattro ragazzi qualunque<br />
si fecero trovare pronti all’appuntamento, e cavalcarono<br />
quell’onda per alcuni anni, disegnando<br />
solchi sublimi che innaffiarono la loro città prima,<br />
l’Europa poi, il mondo intero infine, come se non<br />
avessero fatto altro nella loro vita. Certo, non tutto<br />
dura all’infinito, ma fin quando riuscirono a domare<br />
a loro piacimento quell’incontenibile massa<br />
d’acqua, beh, bisogna ammettere che fecero immedesimare<br />
molti nella loro impresa, portandoli<br />
metaforicamente con loro lassù, su quella cresta<br />
esuberante. Perché quella non era un’onda qualunque,<br />
era quella eterna dell’Adolescenza che da<br />
sempre e ovunque avvolge tutti, lasciando dietro<br />
di sé vortici di rimpianti, ricordi, sogni e illusioni.<br />
Ma, si badi bene, qui adolescenza è da considerarsi<br />
con la A maiuscola. Infatti, in una società dove<br />
i principi e le certezze sono smarriti, questa condizione<br />
vitale si dilata all’infinito perdendo la sua<br />
limitata accezione temporale. E gli Smiths sono<br />
riusciti a formalizzarla e sublimarla perfettamente<br />
in canzoni pop da tre minuti che proprio come il<br />
moto ondoso hanno invaso tutto e tutti, nel tempo<br />
e nello spazio, fino ad oggi.<br />
Questi signor Rossi qualunque, questi ragazzi della<br />
porta accanto, fin dalla pubblicazione del primo<br />
singolo, hanno parlato a generazioni su generazioni,<br />
determinando tuttora il panorama musicale,<br />
pop e non solo, inglese e non solo. A loro devono<br />
moltissimo band come Housemartins e The<br />
Wedding Present prima, The Stone Roses<br />
poi, Suede, Blur e Pulp pochi anni più tardi, ma<br />
anche il college rock e le miriadi di gruppi emocore<br />
oltreoceano sul finire dei Novanta; non solo,<br />
addirittura compagini post-hardcore e post metal<br />
come Quicksand e Deftones hanno dichiarato<br />
104 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 105
tutto il proprio amore per Morrissey e Co.<br />
Le loro canzoni hanno espresso il linguaggio<br />
dell’amore, quello ideale ma disperato perché difficilmente<br />
avverabile, riposizionando l’uomo e la<br />
sua sfera personale al centro di tutto. Una vera e<br />
propria romantica rivoluzione<br />
pop, per i canoni<br />
estetici imperanti<br />
all’alba degli Ottanta.<br />
Per quattro anni, la<br />
loro spinta artistica è<br />
riuscita a tener testa a<br />
quell’onda irrefrenabile,<br />
ma poi - si sa - il successo<br />
forse arricchisce<br />
economicamente ma<br />
spegne interiormente<br />
e quel moto sinusoidale<br />
ha continuato la sua<br />
corsa disarcionandoli<br />
in maniera definitiva.<br />
Giusto così: l’alba e il<br />
tramonto, il giorno e la<br />
notte, la vita e la morte<br />
fanno parte della quotidianità, della natura e<br />
dell’umanità, e chi più della band mancuniana<br />
ha espresso meglio questi concetti? Per cui sentir<br />
vociferare oggi di una loro possibile reunion ci<br />
fa sorridere amaro, perché sappiamo bene che le<br />
canzoni da loro scritte in quegli anni continuano a<br />
propagarsi e a consolarci come lunghe onde infinite.<br />
Non saremmo surfisti, ma quel dolce suono di<br />
risacca ci fa sentire come in cima alla cresta pronti<br />
per l’adrenalinica discesa. E no, non pensiamo che<br />
dei redivivi Smiths possano rievocare ciò che fu,<br />
ciò che è stato e ciò che sarà per sempre.<br />
han d in gl o v e<br />
Manchester, primi anni Ottanta, piena era post<br />
punk. C’è un ragazzo col ciuffo, eccentrico e motivato,<br />
che orbita intorno all’ambito musicale della<br />
città, ne scrive su alcune riviste locali, ma soprattutto<br />
ne incarna lo spirito più fanatico: diviene ad-<br />
dirittura presidente del fan club inglese delle New<br />
York Dolls. Assiste a ogni concerto, aiuta le piccole<br />
case discografiche, cerca in ogni modo di alimentare<br />
quel fermento artistico che sente intorno<br />
a sé, che sente dentro di sé. Si chiama Stephen<br />
Patrick Morrissey<br />
“Moz”, è nato<br />
il 22 maggio 1959<br />
e ha forti e radicate<br />
origini irlandesi.<br />
Questo narrano<br />
le cronache, ma<br />
in realtà tutto si<br />
è originato prima,<br />
molto prima,<br />
quando un timido<br />
ed effeminato ragazzino,<br />
cresciuto<br />
in un duro contesto<br />
sociale, per<br />
fuggire tutto ciò e<br />
dalla sua esterna<br />
apparenza di sfigato<br />
si rinchiude<br />
nella sua cameretta consacrando ogni speranza e<br />
felicità agli idoli immortalati nei poster appesi sulle<br />
sue quattro mura, tra tutti David Bowie, Roxy<br />
Music e New York Dolls. Brama il successo, ma<br />
soprattutto riflette su di sé, sulla sua condizione. E<br />
infatti la struggente poetica degli Smiths non può<br />
prescindere dai dolori del giovane Morrissey.<br />
Chi invece interpreta il mondo su scale armoniche<br />
è John Martin Maher “Marr”. Nato il 31<br />
ottobre 1963, di lui c’è poco da dire sennonché sia<br />
un dotato chitarrista dal gusto melodico superiore<br />
alla norma. I suoi polpastrelli riescono con una facilità<br />
disarmante a far scaturire arcobaleni di note,<br />
a metà tra la pioggia e il sereno, per l’appunto.<br />
Se la poetica degli Smiths è tutta opera di Moz,<br />
non c’è dubbio che l’incisività pop dei brani sia<br />
tutta farina del sacco di Marr: ecco i presupposti<br />
della sintesi perfetta in eterna dualità. Ma come si<br />
incontrano questi poli contrapposti? Tramite mi-<br />
steriosi e segreti bivi del destino, come sempre.<br />
Entrambi orbitanti in band minori cittadine, si<br />
sfiorano in un gruppo chiamato Nosebleed. I<br />
due, buttando giù alcune canzoni insieme, annusano<br />
l’aria, guardano l’orizzonte, sentono il boato<br />
lontano e, nella quiete contratta prima della tempesta,<br />
scambiandosi occhiate complici, decidono<br />
di prepararsi per cavalcare l’onda insieme al<br />
batterista Michael Joyce e al bassista Andrew<br />
Rourke. Alcune prove per testare l’equilibrio e i<br />
quattro sono pronti. L’oceano si allunga ritraendosi,<br />
un’irrefrenabile corrente li risucchia fin sulla<br />
cresta spumeggiante, l’adrenalina è al massimo: è<br />
tempo del carpe diem, non c’è un istante in più per<br />
pensare.<br />
Attorno al gruppo si crea sin da subito un gran movimento<br />
di manager e discografici, perché il primo<br />
demo registrato dai Nostri riluce di predestinazione.<br />
Nel 1982 il verbo degli Smiths inizia così a varcare<br />
i confini mancuniani,<br />
conquistando<br />
e fidelizzando un po’<br />
ovunque in Gran<br />
Bretagna: i concerti<br />
cominciano ad essere<br />
sold out, e addirittura<br />
la EMI si interessa<br />
a loro. Ma è il più<br />
lesto e lungimirante<br />
Simon Edwards<br />
della Rough Trade a<br />
farli firmare, assicurandoseli<br />
per sempre.<br />
L’onda che arriva<br />
è gigantesca e vertiginosa,<br />
e i Nostri<br />
sembrano non aspettare<br />
altro. Balzano<br />
in piedi e in quel giorno di primavera del maggio<br />
1983 scivolano a tutta velocità e a proprio agio nel<br />
ventre cristallino, come se non avessero mai fatto<br />
altro. Il loro primo singolo, Hand In Glove, sono tre<br />
minuti e ventitré secondi di pura incisività melo-<br />
dica, con un impatto pop di sicuro successo. Uno<br />
scheletro essenziale di basso e batteria sul quale si<br />
aggiungono le sei corde di Marr, qui ancora trattenute<br />
in un refrain ripetitivo ma già in grado di<br />
accendere quel virtuoso e intermittente prisma di<br />
colori che le contraddistinguerà splendidamente,<br />
un’armonica a impreziosire, ma soprattutto la<br />
voce di Morrissey a incidere le prime ferite con i<br />
suoi emozionanti saliscendi e con la sua malinconica<br />
forza comunicativa.<br />
Questi i pregi dal punto di vista stilistico-musicale.<br />
Chiari sono i riferimenti allo spleen attitudinale<br />
estrinsecato da band come Joy Division, Television<br />
e Fall, ma gli Smiths trascendono ogni limite<br />
post punk, creando una loro personale e originale<br />
idea pop, guardando ancora più indietro nel tempo,<br />
verso i Sixties. Si canta di un amore idealizzato,<br />
quasi ultraterreno nella sua semplicità, perché<br />
inviso dal perbenismo imperante.<br />
Il booklet del 45 giri,<br />
che in copertina immortala<br />
in una foto<br />
rétro un uomo nudo<br />
di schiena (tratta dal<br />
libro Il maschio nudo<br />
di Margaret Walters<br />
del 1978) ritenuta<br />
scandalosa alla sua<br />
uscita, inizia quella<br />
che sarà l’estetica<br />
iconografica degli<br />
Smiths: provocatoriamente<br />
romantica con<br />
rimandi letterari e cinematografici.<br />
Presa<br />
la decisione di non<br />
effigiare mai la band<br />
o qualche suo componente<br />
nei booklet, è Morrissey stesso a scegliere<br />
le immagini che andranno a identificare ogni singolo<br />
e ogni album della band. Tale decisione, oltre<br />
che alimentare inevitabilmente un alone di mistero<br />
intorno alla band, si fa rivelatrice della ricerca<br />
106 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 107
estetica del cantante: la sua straordinaria “omo”<br />
sensibilità feticistica lo conduce ad esorcizzare<br />
ogni frustrazione esistenziale nell’idealizzazione<br />
del bello trascendentale. Ecco perché le copertine<br />
immortalano star cinematografichedegli<br />
anni Cinquanta<br />
e Sessanta nella loro<br />
pura e spensierata<br />
eleganza: sono i miti,<br />
come Alain Delon o<br />
James Dean, ad aver<br />
segnato per sempre<br />
la sua adolescenza,<br />
catalizzando i suoi<br />
sogni e desideri.<br />
Oppure sono scatti<br />
anticonformisti, pregni<br />
di rimandi androgini,<br />
omosessuali<br />
o antimilitaristici, a<br />
rappresentare il lato<br />
più coraggioso e oltraggioso,<br />
difficile da<br />
esprimere quotidianamente. Proprio per questo<br />
l’impatto grafico degli Smiths fa tutt’uno con la<br />
loro musica, diviene complementare perché si erge<br />
come perfetto contraltare alle canzoni. Mentre veniamo<br />
straziati da testi che cantano delle difficoltà<br />
della vita, di ipocrisie e sogni infranti, si resta affascinati<br />
visivamente desiderando di esser rapiti dal<br />
mondo-copertina.<br />
Ma gli Smiths hanno causato un terremoto socioartistico<br />
non solo per la loro iconografia. Il fatto<br />
è che in quegli anni il pubblico non era abituato<br />
a tanta sensibilità estetica: erano tempi in cui il<br />
punk e il suo post avevano innalzato l’oscurità, il<br />
nichilismo e la dissonanza a paradigmi estetici, il<br />
nascondere e il decolorare le emozioni e le frustrazioni<br />
dietro un atteggiamento iconoclasta. Con gli<br />
Smiths tutto ciò viene ribaltato romanticamente<br />
nel segno della naturalezza e della spontaneità: se i<br />
problemi ci sono essi devono sbocciare luccicanti e<br />
colorati come fiori, non più celati. Fanno tutto ciò<br />
con leggiadri arpeggi sixties, con falsetti femminei<br />
sopra le righe, con maglioncini a collo alto, con liriche<br />
sofferte ma giocose, romantiche ma pensose.<br />
Certo, anche tutte le<br />
band inglesi orbitanti<br />
intorno alla Sarah<br />
Records, con tutte<br />
le loro delicate intermittenze<br />
pop, si muovevanoparallelamente<br />
ai Nostri, causando<br />
simili scosse sismiche<br />
al contesto musicale<br />
preesistente. Ma<br />
non di pari intensità<br />
e potenza mediatiche<br />
di quelle smithsiane:<br />
Morrissey e<br />
Co., infatti, unendo<br />
autenticità, genio e,<br />
soprattutto, carisma<br />
sono riusciti a farsi<br />
trovare nel posto giusto<br />
al momento giusto, e la Storia li ha innalzati<br />
e mitizzati, azzerandogli apparentemente la concorrenza.<br />
Lo stesso motivo per cui l’amore dei fan<br />
nei loro confronti è infinito quanto l’odio provocato<br />
dai loro detrattori. Cose che capitano solo alle<br />
grandi band, purtroppo.<br />
the s e ch a r M i n g Me n<br />
La pubblicazione di altri due 45 giri, This Charming<br />
Man - allegro e sbarazzino riff chitarristico,<br />
sul quale il melodioso falsettare di Moz declama<br />
una storia sulla ricerca di maturità di un ragazzo<br />
seduto in un auto affianco ad un uomo affascinante<br />
- e What Difference Does It Make?, fa degli Smiths<br />
il nome nuovo su cui puntare. I quattro sembrano<br />
danzare a proprio piacimento su quell’onda vorticante,<br />
ora lambendone la cresta con manovre radicali,<br />
ora scivolando lineari col sole negli occhi.<br />
Dopo un trittico di singoli capolavoro come que-<br />
sto, l’attesa del vero debutto discografico su grande<br />
formato si fa a dir poco spasmodica. Ma l’uscita di<br />
The Smiths slitta continuamente fino a febbraio<br />
del 1984.<br />
Eccolo qua l’esordio ufficiale: copertina impeccabile<br />
e di forte impatto e undici canzoni che hanno<br />
veramente poco da farsi recriminare. Si va da<br />
melense ballate bucoliche (Reel Around The Fountain)<br />
a giovanili frenesie umorali (Still Ill), fino a malinconiche<br />
introspezioni (Suffer Little Children e I Don’t<br />
Owe You Anything). Da evidenziare come Marr sembri<br />
apparentemente soltanto accompagnare, con<br />
giri di chitarra quasi ossessivi nel suo ripetersi, la<br />
voce di Morrissey, salvo poi constatare che proprio<br />
questo loro duettare a distanza si elevi sopra il più<br />
monotono schema post punk da cui prendevano<br />
le mosse, dando vita a ciò che sarà il loro personale<br />
sound. Troppa però la differenza tra l’album e<br />
quei tre preziosi 45 giri. E questo sarà un “difetto”<br />
che i Nostri mai perderanno: saranno sempre più<br />
incisivi e a proprio agio nel piccolo formato che<br />
non negli album veri e propri.<br />
Dimostrazione di ciò giunge sul finire del 1984 con<br />
l’uscita di due nuovi singoli, nei quali una glassa<br />
pop multicolore ricopre un cuore tenero e dolce<br />
di marzapane che al solo assaggio la primavera<br />
sembra esplodere nel palato e tutt’intorno: Heaven<br />
Knows I’m Miserable Now e William, It Was Really Nothing.<br />
Ecco qua tutta l’incisività pop degli Smiths, la loro<br />
dualità che si diverte a intrecciarsi continuamente,<br />
mostrando simultaneamente il dolore e la cura, il<br />
giorno e la notte, il riso e le lacrime, a volte addirittura<br />
divertendosi a scambiare di posto questi<br />
estremi contrapposti. E che sorpresa scoprire<br />
come b side del secondo 45 giri un brano che in<br />
un minuto e cinquantuno secondi provoca intime<br />
rivoluzioni estasianti: Please Please Please Let Me Get<br />
What I Want.<br />
Il 1984 passerà alla storia come l’anno più proficuo<br />
degli Smiths. Infatti, con solo un album e<br />
una manciata di singoli alle spalle, la Rough Trade<br />
decide di pubblicare addirittura la prima rac-<br />
colta della band, Hatful <strong>Of</strong> Hollow. Adesso è<br />
l’etichetta a cavalcare le onde create dal passaggio<br />
di quella smithsiana, e queste profumano di<br />
soldi e di affari. Male di poco, comunque. Perché<br />
la tracklist dell’album è di quelle che passano alla<br />
storia. Ci sono tutti i pezzi più riusciti dai Nostri,<br />
con l’inclusione di b side e riletture di brani iniziali<br />
composte per l’occasione. Un disco che sintetizza<br />
perfettamente tutta la portata pop rivoluzionaria<br />
della band nei suoi primi anni di attività, che per<br />
molti hanno rappresentato la vetta più alta della<br />
loro produzione artistica. Ma non solo, scorrendo<br />
i titoli se ne scorge uno nuovo di zecca, How Soon<br />
Is Now?: canzone devastante, che oltre cambiare la<br />
vita di molti fans, detterà anche il nuovo percorso<br />
artistico-umano del gruppo.<br />
how so o n is no w ?<br />
Il brano viene anche pubblicato come singolo nel<br />
febbraio del 1985. È un vortice di riverberi ed effetti,<br />
ora, a scandire l’incedere chitarristico, l’atmosfera<br />
si fa contratta e umbratile, la sezione ritmica<br />
si fa più pensierosa, in altre parole si perde<br />
quell’innocente andatura naif e spensierata che li<br />
aveva contraddistinti fino ad allora, ma si guadagna<br />
stupendamente in profondità. Il mood è avvolgente,<br />
lisergico, sul quale la voce di un inquieto<br />
Moz non fa che spennellare sfumature ancor più<br />
drammatiche fino a raggiungere un climax emozionale<br />
da lasciare tramortiti. E poi quel testo sulla<br />
debolezza e sulla disperazione umana e sul bisogno<br />
incommensurabile di amore che molto probabilmente<br />
mai arriverà.<br />
Se fino adesso gli Smiths piroettavano su quell’onda<br />
indomabile da nessuno se non da loro, con How<br />
Soon Is Now? si intubano nel suo ventre buio e materno<br />
per uscirne maturati e più consapevoli dei<br />
propri mezzi. Ma si sa, quando si cresce, quando<br />
il successo ci conquista totalmente, a volte è facile<br />
disconnettersi da quel mondo che fino a poco<br />
prima ci era familiare, seppur ostile: l’adolescenza.<br />
È come quando un bravo surfista troppo sicuro<br />
diminuisce l’attenzione e viene travolto. Ecco, gli<br />
108 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 109
Smiths hanno rischiato di fare la stessa fine, e menomale<br />
che il loro secondo album, Meat Is Murder,<br />
ne risentirà solamente in parte, continuando<br />
però a confermare la teoria della loro predisposizione<br />
al piccolo formato.<br />
Il disco pur rappresentando un mezzo passo falso,<br />
racchiude in sé buoni episodi,soprattutto per le liriche<br />
sempre più pungenti e intelligentemente impegnate<br />
di Morrissey. Bellissimo booklet, come sempre,<br />
che avvolge dieci<br />
tracce che prendono<br />
in qualche modo le<br />
distanze da quella<br />
spontanea semplicità<br />
dei trascorsi recenti.<br />
Emblematico di ciò<br />
è il minutaggio delle<br />
canzoni che aumentaconsiderevolmente<br />
la propria media<br />
rispetto ai tre minuti<br />
pop. Non dispiacciono<br />
i virtuosismi<br />
musicalmente acidi<br />
e liricamente violenti<br />
di Barbarism Begins<br />
At Home, la melodica<br />
circolarità pop di The<br />
Headmaster Ritual e le<br />
quiete dilatazioni sonore delle title track e del singolo<br />
That Joke Isn´T Funny Anymore. Ma How Soon<br />
Is Now?, però, resta l’unica a toccare certi picchi<br />
artistici, e dunque l’unica vera grande canzone<br />
dell’album.<br />
Stavolta, neanche il successivo singolo pubblicato,<br />
Shakespeare’s Sister, riesce nell’impresa dei suoi predecessori.<br />
Il successo di pubblico è sempre tanto,<br />
oramai i due volti trainanti la band, Moz e Marr,<br />
sono considerati alla stregua di vere e proprie icone:<br />
il fanatismo che li circonda ha raggiunto livelli<br />
esorbitanti e la loro coppia è già entrata a far parte<br />
della storia della musica. Ma gli Smiths sono in una<br />
fase di stanca, tengono ancora l’onda ma adesso le<br />
loro manovre virtuose sono limitate al minimo indispensabile.<br />
E un cielo livido oltremodo si staglia<br />
sopra le loro teste. Che sia l’inizio della fine?<br />
the r e is a li g h t th a t (ne v e r) go e s<br />
out<br />
Tutto sembra andare per il peggio, nonostante<br />
l’incetta di premi che i Nostri fanno un po’ ovunque:<br />
saltano i manager, i rapporti interni si fanno<br />
sempre più tesi. Ma a<br />
far quasi degenerare<br />
il tutto è Morrissey.<br />
Rinchiusosi nella propria<br />
torre d’avorio,<br />
sembra guardare tutti<br />
dall’alto della sua<br />
spocchia, fino a saltare<br />
presentazioni televisive<br />
della band senza<br />
avvisare nessuno.<br />
Nemmeno la pubblicazione<br />
di un nuovo<br />
singolo, The Boy With<br />
The Thorn In His Side<br />
(con una splendida<br />
copertina raffigurante<br />
Truman Capote),<br />
riesce a stemperare<br />
gli animi. E sì, che<br />
dentro questi poco più di tre minuti ci sono tutti<br />
gli ingredienti giusti: solari e sbarazzini fraseggi<br />
chitarristici, ritmiche vigorose, e il solito falsettare<br />
malinconico e prodigioso a declamare la cecità di<br />
un mondo che non riesce a capire l’amore sofferto<br />
del ragazzo con una spina nel fianco. La primavera<br />
sembra germogliare rigogliosa ascoltando il<br />
brano, e invece tutto all’interno della band sembra<br />
appassire inevitabilmente.<br />
Ma forse è proprio vero che nei momenti di difficoltà<br />
il genio che si cela dentro ognuno di noi, dentro<br />
l’uomo qualsiasi, trova sempre la via migliore<br />
per diradare l’aria malsana intorno.<br />
Il terzo album degli Smiths, uscito nel 1986 dopo<br />
esser rimasto parcheggiato per molti mesi senza<br />
alcun motivo, è la riprova empirica della loro peculiarità<br />
artistica. E chi l’avrebbe mai detto che<br />
in una situazione che si apprestava a collassare<br />
definitivamente, i Nostri avessero calato il poker<br />
d’assi vincente, fin già dal titolo e dalla copertina:<br />
The Queen Is Dead impresso in una suggestiva<br />
immagine di Alain Delon. In queste dieci canzoni<br />
il sole sembra esser tornato a baciare di luce abbacinante<br />
quella cresta spumeggiante sulla quale<br />
i Nostri, con i virtuosismi da polpastrelli di Marr<br />
e le impennate e le invenzioni vocali di Moz, piroettano<br />
armoniosi e veloci con il primo singolo<br />
estratto Bigmouth Strikes Again: canzone ironica e<br />
arrabbiata che ci narra di una Giovanna D’Arco<br />
“lingualunga” contemporanea, con tanto di cuffiette,<br />
che “non ha diritto di avere un posto nel genere<br />
umano”.<br />
Ecco, proprio le liriche colpiscono nella loro intelligente<br />
commistione di cinismo, ironia romanticismo<br />
e giochi lessicali, trattando temi ora impegnati<br />
ora frivoli, ma sempre anticonformisti anche<br />
quando è una “semplice” storia d’amore ad esser<br />
cantata. Proprio come accade nella ballad dal titolo<br />
folgorante, There Is A Light That Never Goes Out:<br />
emblematica sintesi<br />
di quello spirito adolescenziale<br />
con la A<br />
maiuscola. Non da<br />
meno è la title track<br />
che nella sua antiistituzionalità,<br />
in<br />
questo caso monarchica,<br />
fonde insieme<br />
poeticamente immagini<br />
rabbiose, disincantate<br />
e disperate.<br />
Oppure l’umorismo<br />
dileggiante in Frankly,<br />
Mr Shankly, il malinconico<br />
decadimento<br />
in I Know It’s Over e<br />
l’emozionante pas-<br />
seggiata al cimitero “un terribile giorno di sole”<br />
tra rimandi letterari in Cemetry Gates.<br />
The Queen Is Dead è senza ombra di dubbio<br />
l’album più riuscito degli Smiths: il suono è maturo<br />
ma il minutaggio medio delle canzoni difficilmente<br />
oltrepassa i tre minuti, si alternano passaggi<br />
frenetici e immediati ad atmosfere dilatate ed intimistiche<br />
senza mai cadere nel banale o nel melenso.<br />
Ma veramente quella luce mai si spegnerà?<br />
the sM i t h s in an un d e r w a t e r dr e a M<br />
Ora tutto fa pensare che le cose vadano veramente<br />
per il meglio: un nuovo singolo viene pubblicato<br />
e immediato è il successo, forse il più grande dal<br />
punto di vista commerciale. Si tratta di Panic: un<br />
riuscito lavoro di spontaneità, in cui la chitarra di<br />
Marr, ben coadiuvata dalla sezione ritmica, crea<br />
un tappeto sinuoso in cui la voce di Moz declama<br />
ripetutamente il famoso verso “Hang the Dj” (impicca<br />
il Dj). Per la prima volta in assoluto i mancuniani<br />
decidono di promuovere il brano anche con<br />
un video. Il lavoro viene assegnato al talentuoso<br />
regista Derek Jarman, che ne costruisce un vero e<br />
proprio cortometraggio di una ventina di minuti<br />
da non perdere, con l’inserimento anche di There<br />
Is A Light That Never<br />
Goes Out e The Queen<br />
Is Dead.<br />
Inoltre nel 1987 viene<br />
pubblicata dalla<br />
Rough Trade anche<br />
la seconda raccolta di<br />
materiale, intitolata<br />
The World Won’t<br />
Listen, che tra singoli<br />
e b-side racchiude<br />
il secondo periodo<br />
della band. Di essa<br />
l’etichetta inglese ne<br />
stampa anche una<br />
versione alternativa<br />
ed estesa, Louder<br />
Than Bombs, sol-<br />
110 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 111
tanto per il mercato statunitense.<br />
Ma altre e più compatte nubi arrivano improvvise<br />
e minacciose ad oscurare il cielo sotto il quale<br />
gli Smiths sembravano finalmente vorticare senza<br />
problemi. Il tour americano, appena intrapreso<br />
sull’entusiasmo dei buoni riscontri dell’album, diviene<br />
esperienza disastrosa se non traumatica: la<br />
carovana si interrompe senza portare a termine<br />
tutte le date in programma. Il gruppo viene corteggiato<br />
pressantemente dalle major, e la Rough<br />
Trade è sul punto di capitolare. Tutto ciò riacutizza<br />
ferite mai rimarginate, provocando un’emorragia,<br />
stavolta difficile da tamponare.<br />
Ci provano con il successivo singolo Ask: il brano<br />
ha tutte le carte per sfondare e infatti così è, ma<br />
non riesce ad arginare i malumori che circondano<br />
la band. Quel ritornello che si incunea inesorabilmente<br />
nelle orecchie, che fa battere le mani, con<br />
quello zucchero filato che esce direttamente dalla<br />
chitarra, conquista il pubblico, ma non fa tornare<br />
il sole, neanche un raggio. Infatti gli altri due 45<br />
giri, Shoplifters <strong>Of</strong> The World Unite e Sheila Take A<br />
Bow, che dovrebbero allietare l’attesa per il nuovo<br />
album in registrazione, risultano essere puro manierismo,<br />
niente di più.<br />
L’onda si sta avviluppando sugli Smiths incamerandoli<br />
nel proprio ventre ora freddo e scurissimo.<br />
Dall’esterno si potrebbe avere l’erronea impressione<br />
che il gruppo si stia preparando all’ennesimo<br />
prodigio, dato che si trovano in studio a preparare<br />
quello che invece sarà il loro ultimo album in studio.<br />
Strangeways, Here We Come uscirà, infatti,<br />
postumo nel 1987, sempre sotto l’egida della<br />
Rough Trade, nonostante la EMI avesse oramai in<br />
pugno la band. Il primo ad abbandonare è Marr,<br />
stufato ed estenuato dall’ennesimo capriccio del<br />
suo vocale alter ego. Disorientati, Rourke e Joyce<br />
non attendono altro che sia proprio un irato Moz<br />
ad ufficializzare la resa nel settembre del 1987.<br />
L’album, con Richard Davalos in copertina (dal<br />
film La valle dell’Eden), rappresenta così il loro testamento<br />
artistico, e forse proprio questo alone mistico<br />
che lo circonda, questa consapevolezza che esso<br />
fosse l’ultimo omaggio al mondo, lo valorizza più<br />
di quello che realmente vale.<br />
La verità è che esso è un lavoro dignitoso, che alterna<br />
ottimi episodi, ma non memorabili canzoni,<br />
ad altri davvero trascurabili. Certo quella magia<br />
pop a cui ci avevano abituati è lungi dall’essere<br />
evocata, ma l’onda si è chiusa su di loro e questi<br />
sono soltanto gli spruzzi e i riverberi delle ultime<br />
virate multicolori. Girlfriend In A Coma, A Rush And<br />
A Push And The Land, Last Night I Dreamt That Somebody<br />
Loved Me, Death <strong>Of</strong> A Disco Dancer e I Started<br />
Something I Couldn’t Finish gli episodi migliori. Passa<br />
appena un anno e la Rough Trade pone il suo sigillo<br />
sulla carriera della band con la pubblicazione<br />
dell’immancabile live: Rank contiene la registrazione<br />
del concerto tenutosi al National Ballroom<br />
di Londra nel 1986.<br />
Ma ormai gli Smiths hanno terminato la loro caleidoscopica<br />
corsa e la fine è stata autistica: silenziosa<br />
e incomunicabile. Il fatto è che nessuno, esternamente,<br />
ha potuto registrare la loro caduta da quella<br />
mastodontica massa d’acqua che fino a quel<br />
momento avevano padroneggiato: non si sono visti<br />
corpi mulinare nella schiuma e soprattutto non<br />
si sono scorte teste riemergere in superficie, come<br />
se loro non fossero mai stati lì, come se tutto fosse<br />
stato un sogno, un bellissimo e confortante sogno.<br />
Oppure, come se avessero deciso di non riemergere<br />
mai più, restando confinati per sempre nell’abisso,<br />
e magari lì continuare a suonare e cantare<br />
dell’adolescenza dei pesci, delle alghe, dei cavallucci<br />
e delle stelle marine. Ma sappiamo bene che<br />
non è andata così. E tutto quello che è successo<br />
dopo è un’altra storia, ché qui abbiamo narrato di<br />
onde e primavera, di surf e adolescenza.<br />
“Life is very long, when you’re lonely” (The Queen<br />
Is Dead).<br />
112 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 113
Ristampe<br />
Boohoos – hErE coMEs thE hoo (spit/<br />
firE, novEMBrE 2008)<br />
gen e r e: g l a M ro c K<br />
In Germania i musicisti locali ascoltarono il r’n’r<br />
e ne trassero il krautrock. In Italia quando arrivò<br />
la new wave fu gara a chi riuscisse a somigliare<br />
di più ai modelli anglosassoni. E via dicendo. Può<br />
essere, ma i Boohoos furono una mezza stagione.<br />
Mettersi a fare glam rock nella seconda metà degli<br />
anni Ottanta deve aver significato qualcosa come<br />
battere il pungo sul<br />
tavolo per spazzare<br />
via le tappe obbligate,<br />
per rincorrere<br />
la rincorsa di cui<br />
sopra – benché alcuni<br />
membri della<br />
band fecero gavetta<br />
nell’hc nostrano.<br />
Ne vennero fuori un<br />
demo (Bloody Mary, 1986), un LP (Moonshiner,<br />
1987), un EP (The Sun, The Snake And<br />
The Hoo, 1987) e una buona risonanza a livello<br />
nazionale, con qualche puntata tattica lassù, nel<br />
mainstream. Qualche mese fa Spit/Fire (divisione<br />
Spittle, e come poteva non esserlo) ha stampato<br />
una sorta di summa/selezione delle tre produzioni<br />
della band, e la intitola Here Comes The Hoo.<br />
Bisogna ammettere che quel rockaccio fatto di riff<br />
e urla d’Iguana (Downtown Train), solo all’apparenza<br />
dannato e melmoso, in realtà divertito e diven-<br />
terete, conserva anche oggi la sua freschezza. Si<br />
sente che la band amava allo stesso modo tanto<br />
Black Sabbath (vi ricordano niente ritmo e riff<br />
delle strofe di Meet Us?) quanto New York Dolls.<br />
Si sente la determinazione. Si sente Detroit ma anche<br />
un pizzico di Pesaro. Nella sfacciataggine forse,<br />
chi lo sa, magari menefreghismo; insisto: è determinazione;<br />
e coinvolge come la cover di Search And<br />
Destroy, o, ancora meglio, come Bloody Mary – voodoobilly<br />
manualistico, forse, però che spasso.<br />
(7.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
thE gynEcologists – hoosiEr psychopaths<br />
1981-1994: thE official rEcordings<br />
(gulchEr, 2008)<br />
gen e r e: p u n K<br />
Ripercorrere le oscillazioni. Fare una ristampa di<br />
tutta la carriera di una band significa soprattutto<br />
questo. Vuol dire accostare le cose più famose a<br />
quelle meno note, persino mettere nelle condizioni<br />
di far risuonare i brani meno riusciti in quelli più<br />
convincenti. E viceversa.<br />
Viceversa c’è del buono e proattivamente marcio<br />
anche in Jimmy Jones, e in analoghe canzoni punkbanalizzate<br />
dei The Gynecologists; l’esempio è<br />
We’re An American Band, sporcatura di qualcosa che<br />
è semplicemente banale, pur se forse il titolo denuncia<br />
una certa ironia attorno al pezzo. C’è però<br />
anche di molto meglio nelle trenta tracce di Hoosier<br />
Psychopaths 1981-1994: The <strong>Of</strong>ficial<br />
Recordings, album-ristampa-culto edito da Gulcher<br />
per recuperare le gesta della band di Indiana,<br />
che in realtà constava delle fibrillazioni del solo<br />
Tommy Afterbirth – inquieto e repubblicanamente<br />
ambiguo, ma capace di essere genuinamente<br />
dirompente, come in Leper Colony, o in Infant Doe,<br />
dove il suo timbro vocale ricorda un misto tra gli<br />
scimmiottamenti cartoonati dei Residents di Not<br />
Available e l’ugola sgraziata di Ian McKaye<br />
C’è tutta la produzione del gruppo in questa raccolta,<br />
e l’ascolto fa sentire l’odore acre di scoppiettanti<br />
aneddoti; come quella volta che Tommy inviò<br />
Faces & Psycopaths, primo EP della band<br />
(qui presente nelle<br />
prime 4 tracce), al<br />
New Yorker per ottenere<br />
una recensione,<br />
che gli fu negata<br />
motivando il rifiuto<br />
col fatto che c’era<br />
già troppa roba disgustosa,<br />
in giro. In<br />
effetti gli esordi erano assimilabili al punk, specie<br />
nella sua proto-versione stooges-iana – citiamo<br />
a testimone il cavallo di battaglia (nonché primo<br />
pezzo scritto dall’Afterbirth), Dog Face; e però indicavano<br />
già le tastiere come strada di differenziazione.<br />
Ricordate gli Stranglers?<br />
La cavalcata prosegue con un altro EP (Kinder,<br />
Gentler Nation) e due cassette (A Goat...You<br />
Geek e Auto-Erotica Asphyxia & Various<br />
Moldy Turds), dove, come si sottolineava sopra,<br />
si toccano alti e bassi; ma è nella sezione finale della<br />
compila che crediamo di aver sentito le cose migliori;<br />
sono B-Side e rarità soprattutto live, come<br />
Fart Speak / Fucking Wench, la traccia finale, che<br />
ricorda i Chrome, spettro industriale percussivo<br />
e sporchissimo; dal vivo, dove pare proprio che<br />
Tommy desse il suo meglio. Secondo chi scrive<br />
soprattutto i suoi musicisti. Per una volta le rarità<br />
fanno da vero compimento di una ristampa.<br />
(7.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
MarlEnE kuntz - BEst of (virgin /<br />
EMi, 23 gEnnaio 2009)<br />
gen e r e: r o c K ca n t a u t o r i a l e<br />
Come giudicare un “Best <strong>Of</strong> ”? Diciamo la verità:<br />
è un dilemma che ci risparmieremmo volentieri,<br />
tanto ci sembra evitabile questo raccogliere il già<br />
raccolto, questo rituale che celebra una (vana)gloria<br />
postuma di se stessa, col prosaico seppur lecito<br />
scopo di raggranellar grana. Tuttavia, son vizietti<br />
cui nessuno o quasi sfugge, quindi perché biasimare<br />
i Marlene Kuntz se a tre lustri dal debutto si<br />
concedono questo peccatuccio veniale? Tanto vale<br />
entrare nel merito, che in casi del genere significa<br />
spesso fare l’appello e inarcare le sopracciglia per<br />
le “clamorose assenze”. E’ presto detto: tra i titoli<br />
in programma non figurano tracce come Lieve, Sonica,<br />
Ape Regina e Le putte, pezzi che ogni fedelissimo<br />
non toglierebbe dalla playlist kuntziana neanche<br />
sotto la tortura di un redivivo Bellarmino tra i deliziosi<br />
confort di Bolzaneto. Ma il fedelissimo se ne<br />
faccia una ragione, perché a mio modo di vedere è<br />
una scelta giustificata.<br />
Difatti, la selezione sembra voler porre un deciso<br />
accento sulla cifra autoriale che negli ultimi<br />
lavori ha preso il sopravvento sulle intemperanze<br />
soniche, quasi ad indicarvi un approdo naturale,<br />
l’immancabile evoluzione di un discorso che anche<br />
nell’asprezza degli esordi tirava in ballo situazioni<br />
e modi dai palpabili rimandi letterari. Un<br />
“messaggio” reso ancora più pregnante da episodi<br />
come La libertà, capolavoro firmato Gaber di cui<br />
Godano e soci s’impadroniscono con impeto e naturalezza,<br />
rimarcando assieme alle altre due cover<br />
- quella Impressioni di settembre presenza fissa nei live<br />
recenti e una sordidella Non gioco più - link sempre<br />
più saldi con la tradizione canzonettistica (in senso<br />
alto) e finanche progressiva italiana.<br />
Se l’interpretazione fosse giusta, se - in altre parole<br />
- la stesura della scaletta riflettesse l’immagine<br />
che la band oggi ha di se stessa (e chissà quanto ha<br />
realmente pesato la volontà di Godano e soci nel<br />
redigerla), questa compilazione raggiungerebbe<br />
appieno lo scopo: tirare in ballo più o meno equa-<br />
114 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 115
mente tutti i sette album disegnando una parabola<br />
che decolla sui furori sonici per avvitarsi via via nei<br />
tormenti acri e pensosi della canzone rock adulta.<br />
Non a caso, ecco che nel bel mezzo del cammin<br />
spunta Il pregiudizio, pezzo inedito - gioia e dannazione<br />
del fedelissimo<br />
di cui sopra - che<br />
sintetizza egregiamente<br />
quanto detto<br />
confezionando una<br />
ficcante e trepida<br />
invettiva in aspra<br />
vestigia rock.<br />
Tirate le somme,<br />
alla fine più che<br />
un’antologia rivolta al neofita bramoso di “farsi<br />
un’idea” - cui consiglierei semmai i due gustosi<br />
live H.U.P. del ‘99 e S-Low del 2006 - sembra un<br />
buon pretesto per farsi una ponderazione su passato,<br />
presente e (forse) futuro di una band che - la<br />
si apprezzi o meno - in Italia ha scavato un solco<br />
ancora parecchio trafficato. (6.8/10)<br />
stEfano solvEnti<br />
jEunEssE d’ivoirE, la Maison, othEr<br />
sidE, statE of art – Milano nEw wavE<br />
1980-83 (spittlE, 2008)<br />
gen e r e: n e w wa v e<br />
Milano New Wave 1980-83. Quattro band dei<br />
primi anni Ottanta milanesi – Jeunesse D’Ivoire,<br />
La Maison, Other Side, State <strong>Of</strong> Art -<br />
che la solita Spittle Records decide di pubblicare,<br />
compilate da Fred Ventura (sì, quello della italodisco),<br />
per dare loro un corpo stampato (su cd) che<br />
spesso non hanno mai avuto; un invito a nozze per<br />
ovvi giudizi circa la dervivatività dei detti gruppi<br />
nei confronti dei modelli stranieri allora in auge.<br />
Fatto che in realtà sussiste, specie nei confronti dei<br />
Contortions-pensiero (onnipresente ovunque si<br />
palesi un sax o una base funk) e della miriade di<br />
esempi goth-punk inglesi – a loro volta poco originali,<br />
nella maggior parte dei casi.<br />
Eppure c’è qualcosa che al di là di questo imprezio-<br />
sisce questo cartonato – oltre alle apprezzate scelte<br />
grafiche. È un concetto che sembra scontato ma<br />
solo senza la profondità del tempo; si tratta della<br />
questione della selezione all’interno di un contesto;<br />
cioè dell’importanza di queste band come selettori<br />
e “importatori” in Italia delle proprie fonti che a<br />
loro volta saranno quelle dei successori. Sono decisioni<br />
come queste che diventarono “condizioni di<br />
possibilità” per il post punk italiano; e lo dimostrano,<br />
a creare peso specifico, le sovrapposizioni tra<br />
quest’album e le compile tratte da Rockerilla che<br />
poco tempo fa la stessa Spittle ha ristampato, nelle<br />
primissime file del suo catalogo della rinascita.<br />
In fin dei conti questo è il mestiere della Spittle; la<br />
ricostruzione – sotto un qualche criterio di pertinenza,<br />
qui locale e geografico, per esempio - di un<br />
tentativo di costruire una scena. È una questione<br />
di taglio, più che di riscoperta. E non è operazione<br />
semplice.(7.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
royal trux – twin infinitivEs (drag<br />
city, gEnnaio 2009)<br />
genere: psych/deMentia<br />
A distanza di quasi vent’anni dalla sua originale<br />
messa in circolo – anno di grazia 1990, per la stessa<br />
Drag City - Twin Infinitives non appare più come<br />
quel mostro informe<br />
che in origine fece<br />
gridare – a seconda<br />
degli schieramenti<br />
– al miracolo od<br />
allo scandalo. Con<br />
questo non intendo<br />
ridimensionare<br />
l’opera eroinomane<br />
dei due, che prima<br />
di passare al metadone e ad una forma canzone in<br />
odor di Rolling Stones (l’ottimo debutto per Virgin,<br />
Thank You, e l’altrettanto riuscito Accelerator<br />
per la ritrovata Drag City) seppero inscenare un<br />
tributo sincero alle brutture del rock’n’roll tutto.<br />
Restando ovviamente fuori dal circo. Che in que-<br />
gli anni significava rinunciare all’ottica esistenzialista<br />
del lo-fi e alle dorate volte delle multinazionali<br />
alla caccia di nuovi rockers dal Northwest. Jennifer<br />
Herrema e l’ex-Pussy Galore Neil Hagerty muovevano<br />
in tutt’altra direzione, pur ammaliati da una<br />
dimensione casalinga. Tra squassanti drum machines,<br />
blues al fulmicotone, litanie d’altri tempi e<br />
psicotiche frequenze proto-folk, i nostri realizzavano<br />
il loro capolavoro errato. Che Drag City ripubblica<br />
nel formato doppio vinile, proprio per ribadire<br />
l’importanza dell’ingombrante disco nero. Un<br />
doppio album proprio come in origine, un grosso<br />
punto interrogativo nell’evoluzione dell’indie-rock<br />
dei primi novanta, con una coppia di junkie che<br />
soffriva dei propri incubi musicali, rispondessero<br />
al nome di Captain Beefheart, Wild Man Fischer,<br />
Throbbing Gristle o King Tubby (per godere<br />
dell’estatica componente dub del gruppo consigliamo<br />
il postumo Hand <strong>Of</strong> Glory). Mistificatori o<br />
no con Twin Infinitives sbeffeggiarono – ed anche<br />
sonoramente – il rock più pantofolaio, in una ressa<br />
di idee e screzi affatto calcolati (7.2/10)<br />
luca collEpiccolo<br />
ryoji ikEda – 1000 fragMEnts<br />
(rastEr-noton / 2008)<br />
gen e r e: ry o j i iK e d a<br />
Il primo incontro con l’universo creativo di Ryoji<br />
Ikeda risale al 1995, anno che battezzò la sua carriera<br />
artistica con il nome 1000 Fragments.<br />
A distanza di più di dieci anni, la seconda edizione<br />
dell’omonimo disco firmata Raster-Norton diventa<br />
quasi necessaria a consolidare il dovuto merito<br />
all’artista giapponese. Bisogna allora ancora una<br />
volta fare i conti con quella che è stata definita e<br />
continuerà ad essere definita un’uscita decisamente<br />
influente, che lascia intravedere, leggere per la<br />
prima volta, o riscoprire inclinazioni e anticipazioni.<br />
La differenza la fa proprio la distanza,il tempo<br />
che ha legato e tutt’ora lega gli ormai assodati risultati<br />
di perle sonore quali +/-, 0°C o Matrix.<br />
La materia si divide in tre principali composizioni<br />
che risalgono a tre periodi differenti e dichiarano<br />
apertamente gli interessi e gli intenti dell’artista.<br />
I nove elementi di Channel X (1985-95) utilizzano<br />
la forma breve per dar voce alla frammentazione<br />
elettronica e al collage sonoro fatto d’incisioni<br />
d’eventi e disparate altre fonti sonore. Dalle interferenze<br />
in trasmissioni radio alle voci tagliate,<br />
le tracce mutano<br />
forma e spazio per<br />
poi diventare parte<br />
unitaria di una sorta<br />
di conversazione<br />
universale: il tutto<br />
ottenuto grazie a<br />
quella personale tenuta<br />
d’insieme fatta<br />
d’elettronica di segnale e di drones. Alle cinque<br />
Zones (1994-1995) spettano invece le meditazioni<br />
più profonde, quelle di borbotti atonali, matrici<br />
minimali, astrazioni elettroacustiche e incisioni<br />
sintetiche che entrano in perfetta sintonia con riletture<br />
che si sarebbero dette ambient.<br />
Ed infine Luxus (1993), dalle concretezze decisamente<br />
attuali, che dialogano rarefacendosi, tra<br />
passaggi di luce in voci ed archi, astrazioni in glissato<br />
e basse frequenze.<br />
A fine ascolto 1000 Fragments vince l’ostacolo<br />
del tempo e conquista ancora oggi con quel suo<br />
naturale senso d’appartenenza al suono che in pochi<br />
sanno catturare come Ikeda. (7.9/10)<br />
sara Bracco<br />
nEw ordEr – MovEMEnt / powEr corruption<br />
and liEs / low lifE / Broth-<br />
Erhood / tEcniquE ristaMpE (rhino<br />
rEcords, 2008)<br />
I quattro Joy Division avevano già deciso che se<br />
qualcuno avesse lasciato il gruppo, i restanti avrebbero<br />
continuato con un altro nome. Dal maggio<br />
1980 quindi c’è stato un dipanarsi temporale che<br />
ha portato la band di Manchester ad una rinascita<br />
personale, che avrebbe fatto perdere la stima dei<br />
fan della prima ora per acquisire un largo seguito,<br />
e che ha consegnato agli ‘80 alcune delle miglio-<br />
116 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 117
i contaminazioni fra musica di ispirazione pop e<br />
nuove frontiere dance.<br />
Siamo alla fine del 1981. Movement come la migliore<br />
elaborazione del lutto possibile. E infatti le<br />
trame tribaloidi del fu singolo Atmosphere dei Joy<br />
Division, accompagnamento definitivo del feretro<br />
di Ian, diventano il leitmotiv per entrare nei<br />
chiaroscuri di questo<br />
primo disco<br />
New Order. Sentori<br />
dark per un’introspezioneopprimente<br />
e scomoda, dove<br />
a sgambettare sono<br />
gli spettri di Closer<br />
a braccetto con un<br />
più oculato utilizzo dei synth, ma con il tremendo<br />
errore di un Bernard Sumner che tenta di<br />
scimmiottare la voce di Ian invano. C’è ancora il<br />
post punk che talvolta diventa arresa inconsistenza<br />
(Dreams Never End), primordiale sincronizzazione di<br />
synth e chitarra (Chosen Time) o sfogo da rigettare<br />
in decibel di frustrazione (la coda di The Him), ma<br />
c’è soprattutto tutta un’estetica dark, ovviamente<br />
desolata e nichilista (la marcia per organo e percussioni<br />
di Denial, i beats elettronici e il basso sottopelle<br />
di Truth). Un primo passo che sa di sguardo malinconico<br />
indietro, che paga dazio all’ombra lunga<br />
del poeta maledetto e alle sue ultime atmosfere.<br />
La ristampa ridimensiona il voto aggiungendo un<br />
mezzo punto in più alla luce principalmente della<br />
ballata post punk per eccellenza, quella Ceremony<br />
(primo singolo) di bellezza sopraffina e grazie alle<br />
prime avvisaglie “dancey” di Everything’s Gone Green<br />
e della Temptation che traghetta i Nostri in quello<br />
che verrà dopo ossia negli umori dancefloor, cifra<br />
stilistica imprescindibile del dopo 1982. (6.8/10)<br />
Prima di tutto in Power, Corruption And Lies<br />
Sumner prende coscienza della propria vocalità<br />
e inonda le vibrazioni che fuoriescono dalle casse<br />
con il suo timbro post-adolescenziale tendente<br />
all’etereo. In secondo luogo la mutazione avvenuta<br />
con Temptation diventa fonte di ispirazione su cui<br />
costruire numeri di brioso dance/synth-pop (The<br />
Village, Ecstasy, 586), malinconiche canzoni da<br />
spiaggia a fine estate (Leave Me Alone), meravigliose<br />
derive di synth e sequencer in media battuta che<br />
marchieranno a fuoco tutti gli ’80 (Your Silent Face,<br />
Ultraviolence) e non fosse altro (grazie al secondo<br />
cd) per traghettarci nel manifesto di prima “dance<br />
grandeur” che è Blue Monday. Altre chicche risiedono<br />
nella ballad languida in chiave synth-pop di<br />
Thieves Like Us e nei beat quadrati della poliedrica<br />
Confusion. (8.0/10)<br />
Low-Life è l’esternazione completa e matura<br />
del senso pop che il gruppo si porterà dietro<br />
fino agli ultimi dischi e soprattutto la quadratura<br />
di un cerchio electro-pop che sarà cannibalizzato<br />
e depredato largamente dalla dance da classifica<br />
tutta fino ai primi ’90. The Perfect Kiss è lì a dimostrarlo<br />
in tutta la sua fulgida grandiosità: il basso<br />
di Hooky come centro attrattivo e un tripudio di<br />
synth e chitarre a divagare melodia su beat che<br />
sono storia. Love Vigilantes che è canovaccio pop su<br />
cui plasmare mille epigoni, Sub-Culture che ha dato<br />
un perché al suono dei Pet Shop Boys (e di tanti<br />
altri) e This Time <strong>Of</strong> Night che è bignami di “quel”<br />
tipico romanticismo mitteleuropeo. A impreziosire<br />
la presenza di versioni “lunghe” e remix dei singoli<br />
e una Shame <strong>Of</strong> The Nation, prima mattonella sulla<br />
costruzione del successivo singolo State <strong>Of</strong> The Nation.<br />
(8.2/10)<br />
Brotherhood è stato il Republic degli anni ’80,<br />
i New Order che fanno con un filo di gas quello<br />
dove sono diventati più “automatizzati”, la loro dimensione<br />
più pop e commerciale. Non un album<br />
brutto, perché esempi come Weirdo, Paradise e Way<br />
<strong>Of</strong> Life veleggiano tutti sopra la sufficienza con il<br />
loro appeal profumatamente catchy, ma è nella<br />
malinconia romantica di Angel Dust e nello “strike<br />
out” di Bizarre Love Triangle che sono ravvisabili le<br />
componenti interessanti di un lavoro che si siede<br />
sugli allori, compiacendosi. Alza di parecchio il<br />
giudizio il secondo cd che contiene l’indispensabile<br />
State <strong>Of</strong> The Nation, un piacevole remix (abbastanza<br />
fedele all’originale) del “powerseller” True Faith,<br />
il delizioso mid-tempo di Touched By The Hand <strong>Of</strong><br />
God e il nuovo mix (velocizzato e pericolosamente<br />
iperfarcito) di Blue Monday. (7.0/10)<br />
Gli ultimi New Order degli ‘80 sono quelli che si<br />
radunano nel 1988 a Ibiza per registrare il nuovo<br />
disco e che ci hanno buttato dentro l’l’atmosfeta<br />
esta(sia)tica della fatidica “summer of love”. Beat<br />
prorompenti e basi quasi techno per un profluvio<br />
di sequenze da dancefloor che fanno di Fine Time,<br />
Round & Round e Vanishing Point un culmine dance<br />
che non tornerà mai più così limpido. A braccetto<br />
con la loro vena pista-orientata c’è la dimensione<br />
pop che riscopre la brillantezza di Low-Life in All<br />
The Way, nella circolarità perfetta di Dream Attack<br />
e nell’electro-pop sopraffino di Mr. Disco. Il già ottimo<br />
Tecnique originale è infarcito nel secondo<br />
disco del buon singolo Run 2, da un remix di World<br />
In Motion e dalle versioni in 12 pollici dei singoli<br />
estratti dal disco. (7.8/10)<br />
alEssandro grassi<br />
zEro Boys – hystory of / vicious<br />
circlE (sEcrEtly canadian, 2 Marzo<br />
2009)<br />
gen e r e: p u n K<br />
Era la primavera del 1980 quando gli Zero Boys,<br />
band di Indianapolis nata l’anno prima, resgitrarono<br />
otto brani di filata in una sola notte, nel<br />
“basement” di un amico. Nacque così il corpus di<br />
Living In The ‘80s, EP con cui esordì quello che<br />
oggi viene presentato come il miglior gruppo hc<br />
del Midwest di allora.<br />
La canzone che diede titolo al mini era un inno<br />
primo-punk speziato di Nuggets e di garage, in<br />
maniera midollare; ma anche dimostrava un gusto<br />
per la scrittura davvero più saporito della media –<br />
ribadito nella combinazione melodica voce-chitarra<br />
di Stick In Your Guns. Gli Zero Boys durarono fino<br />
al 1983, mutando in un hard core vero e proprio<br />
(Seen That Movie Before), nel punk hc melodico di<br />
Positive Change, fino a sbucare in Amerika, brano che<br />
li collegò, all’atterraggio della parabola, persino al<br />
rock hard-garagista di Stooges e MC5.<br />
Di mezzo, l’episodio centrale della storia, dove si<br />
scopre che l’assassino è il maggiordomo e l’arma<br />
l’attizzatoio, è Vicious Circle, l’album di vero<br />
esordio sulla lunga durata (più o meno, date le abitudini<br />
del genere) e di vera raccolta dei frutti di<br />
Ramones – già peraltro abbondantemente citati<br />
a fonte in Piece <strong>Of</strong> Me, ultima traccia di Living…<br />
-, Germs, Circle Jerks. Magistrale nel disco era<br />
la brevitas della title-track, il gioco strofa-refrain<br />
di Amphetamine Addiction – che strania nel momento<br />
in cui ci si accorge che usa la struttura armonica<br />
di The Other Window<br />
degli Wire.<br />
Tutto questo – EP,<br />
album e tracce di<br />
quel potenziale secondo<br />
album che<br />
non vide mai la luce<br />
– va a comporre<br />
una coppia di uscite<br />
Secretly Canadian<br />
– meritevole da tutti i punti di vista più ovvi, ma<br />
anche per la completezza storica delle note di copertina;<br />
oppure solo per lo sforzo discografico di<br />
riscoperta. Basta quello, ad ascolto avvenuto. Le<br />
ovvietà diventano più interessanti, se giustificate.<br />
(7.0/10)<br />
gasparE caliri<br />
118 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 119
(GI)Ant Steps #24<br />
Freddie Hubbard<br />
opEn sEsaME (BluE notE rEcords, giugno 1960)<br />
Entrò dalla porta principale, accese tutte le luci della stanza,<br />
si pose al centro della scena. Sembrava mosso da una frenesia<br />
incandescente, il talento spedito a mille per colmare il ritardo<br />
anagrafico rispetto alla Storia. Spese molto, e ci riuscì. Ma<br />
non ebbe indietro il resto.<br />
Freddie Hubbard ha lasciato questa valle di lacrime<br />
sul finire del 2008, settantenne, solo un lustro<br />
più anziano d’un Mick Jagger, tanto per dire. La<br />
notizia mi ha ovviamente intristito, obbligandomi a<br />
fare i conti con questo trombettista che mi sembra<br />
incarnare la parabola dell’hard bop come pochi altri.<br />
Nato nel ‘38 a Indianapolis, era un ragazzino<br />
quando Miles, Dizzy e Bird palleggiavano be bop<br />
nei locali più torridi della Grande Mela, città che<br />
raggiunse ventenne portando in dote l’esperienza<br />
coi fratelli Montgomery (tra cui l’immenso chitarrista<br />
Wes) e un talento che scomodò subito paragoni<br />
col compianto Clifford Brown. Suonò tra gli altri<br />
con Sonny Rollins, con Philly Joe Jones ed Eric<br />
Dolphy, persuadendo i luminari della Blue Note a<br />
concedergli subito una chance da leader. L’occhiuto<br />
Alfred Lion pensò bene di mettergli a fianco una<br />
miscela di esperienza e brio giovane: alla flessuosa<br />
autorevolezza delle quattro corde di Sam Jones faceva<br />
eco ai tamburi un Clifford Jarvis neanche ventenne<br />
ma già all’opera con Chet Baker e Curtis<br />
Fuller, e se al pianoforte sedeva un McCoy Tyner<br />
sul punto di decollare in orbita Coltrane, del sax si<br />
occupava il ventottenne Tina Brooks, uno che smerigliò<br />
l’ancia incidendo assieme a Jimmy Smith e<br />
Kenny Burrel, vantando altresì un album come<br />
leader alle spalle (Minor Move del ‘58).<br />
Di Brooks, straordinario compositore ed interprete,<br />
riparleremo presto. Quanto a Open Sesame, facciamo<br />
subito: disco stupendo, swingante con impu-<br />
denza generosa,<br />
languidamente<br />
declinato latin tinge, insomma il frutto perfetto di<br />
quella cuspide tra cinquanta e sessanta quando il<br />
jazz era una tensione urbana e un brivido liberatorio,<br />
un sogno esotico e il lasciapassare per la modernità.<br />
A testimoniare il talento fuori dal comune<br />
di Freddie basti il suo assolo in All Or Nothing At All,<br />
standard spedito a cento all’ora col fraseggio della<br />
tromba a centrifugare dinamiche come una turbina,<br />
la calligrafia pastosa spinta in avanti come un prodigio,<br />
uno sbattimento festoso d’illuminazioni così rapide<br />
da spingere l’improvvisazione sull’orlo del free<br />
(non a caso di lì a poco Hubbard sarà chiamato da<br />
Ornette Coleman a far parte dell’impresa Free<br />
Jazz). Detto ciò, il mio amore per Hubbard ha dei<br />
limiti: lo sento come un suono troppo preoccupato<br />
a manifestarsi nella propria tempestosa epifania, superandosi<br />
di evoluzione in evoluzione, lasciando indietro<br />
così il dramma, quel peso specifico che sfida<br />
l’inconsistenza materiale – assieme rasserenante e<br />
carnefice - nei Davis e nei Baker. Così mi pare vadano<br />
le cose in questo riuscitissimo debutto e un po’<br />
lungo tutti i ruggenti sixties, passando dalla sbandata<br />
fusion alle peripezie che ne smarriranno via<br />
via la brillantezza, fino al brutto incidente che nel<br />
’93 danneggerà le preziose labbra. Infine, l’attacco<br />
di cuore, atto senza ritorno, chiusura dello scrigno.<br />
Hubbard mi è sempre sembrato uno che sale al volo<br />
sul treno già in corsa, se ne sbatte dei macchinisti,<br />
del cuore infernale della belva e armeggia per guadagnarsi<br />
un buon posto magari in prima. Però che<br />
fantastico compagno di viaggio che eri, Frederick<br />
Dewayne.<br />
stEfano solvEnti<br />
classic album rev<br />
Bruce Springsteen<br />
tunnEl of lovE (coluMBia, 1987)<br />
Fin dalla copertina Tunnel <strong>Of</strong> Love rappresentò<br />
uno scarto netto, spiazzante: Bruce vi compare in<br />
stolido piano americano (guarda un po’…), giacca<br />
nera su camicia immacolata, algida cravattina texana,<br />
l’espressione così vaga e imbiechita che non<br />
sembra neanche lui, al più un cugino spacciatore<br />
di auto usate. Coi primi ascolti, la drammatica evidenza:<br />
ruggito innodico? Piglio blue collar? Epica<br />
rockista? Niente di tutto ciò. Ne discutevamo con<br />
sconcerto, chi imprecando sulla fuoriuscita di Little<br />
Steven dall’entourage - peraltro sostituito dal valido<br />
Nils Lofgren - e chi maledicendo il matrimonio del<br />
Boss con la modella Julianne Philipps. Insomma,<br />
all’epoca questo disco suonò come un mesto doposbronza.<br />
Una roba dimenticabile. Lo riascolto oggi<br />
e trovo che sia un disco emblematico. A suo modo<br />
importante. Perché parla del tempo e nel tempo da<br />
cui proviene, errori e orrori compresi, raccontandoci<br />
di quando Springsteen (l’uomo e l’artista) volle<br />
spingersi ancora una volta all’indietro, smarcandosi<br />
dalla valanga rock da egli stesso provocata (e<br />
dalla band, parcellizzata brano per brano) per non<br />
esserne travolto. Certo, Tunnel <strong>Of</strong> Love non può<br />
competere con l’intensità di titoli quali Nebraska<br />
o Darkness On The Edge <strong>Of</strong> Town. Ma è l’intensità<br />
di uno sguardo dietro una maschera di cera.<br />
Una “freddezza” - quel posarsi della melodia su<br />
emulsioni algide di tastiera – necessaria, adattissima<br />
a rappresentare quell’intimismo tormentato in cui<br />
Springsteen sentì di doversi rifugiare. Da qui la scelta,<br />
consapevolissima, di eleggere a modello melodico<br />
la vecchia Stolen Car, concentrando l’obiettivo sui<br />
pochi metri quadri in cui si consuma tanta parte della<br />
vita dei più, sul riflesso sfrangiato di mille esistenze<br />
regolari. Certo, le tastiere di Walk Like A Man e Two<br />
Faces sono viscide<br />
come ranocchi<br />
di plastilina, per non dire degli sciagurati “sound<br />
effects” messi in testa alla title track, del drumming<br />
polimerizzato e di tanti sciocchi coretti a cura<br />
dell’ineffabile Patti Scialfa. Ma tant’è, erano tempi<br />
in cui l’arte della produzione andava organizzandosi<br />
in rigidi e frigidi format, sintetica mattanza da cui in<br />
pochi usciranno veramente indenni (non Lou Reed,<br />
non Neil Young...). Si potrebbe inoltre cavillare sul<br />
piglio tra l’inane e il tronfio di Tougher Than The Rest,<br />
ma - per quanto mi riguarda - le critiche finiscono<br />
qui. Sinceramente, trovo ragguardevole l’impeto<br />
di Spare Parts, la cui rabbia ancestrale supera (e di<br />
gran lunga) quella “volumetrica” di Born In The<br />
USA, mentre Brilliant Disguise ha semplicemente il<br />
passo delle ballate di razza. Inoltre, se Cautious Man<br />
anticipa di un decennio l’uggia insidiosa del Tom<br />
Joad, One Step Up sa rendere con cruda nitidezza la<br />
resa dei sentimenti al disincanto del quotidiano. In<br />
chiusura, poi, t’imbatti nella leggerezza stagionata<br />
di When You’re Alone e Valentine’s Day, dolci trepidazioni<br />
country-folk sull’ultima luce che bagna l’asfalto,<br />
quello stesso che un tempo - irreversibile - era pur<br />
sempre Thunder Road. Oggi, dopo oltre vent’anni di<br />
passi falsi, resurrezioni, recuperi d’archivio e flirt<br />
hollywoodiani, il Boss tenta con ostinazione ammirevole<br />
di porre se stesso e la propria musica al<br />
servizio dell’amato Paese. La cruda tenerezza senza<br />
scampo di quei racconti in prima persona è diventato<br />
un “noi” saturo di sensazionalismo emotivo ad<br />
alto tasso retorico. Rispetto al quale, quanto più sangue,<br />
ossa, tremori, penombre e luce in Tunnel <strong>Of</strong><br />
Love. E quanta America: quella più fragile e vera.<br />
stEfano solvEnti<br />
120 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 121
The FlaMing lips<br />
ChrisTMas On Mars<br />
A FAntAsticAl Film FreAkout<br />
L’ultima fatica del delirante lunapark lipsiano è un viaggio in versione celluloide nei meandri<br />
della coscienza e della vita umana, un dramma tragico venato di humour nero e surreale.<br />
Ben sette anni sono trascorsi dall’inizio delle riprese<br />
di Christmas On Mars, ovvero Flaming Lips<br />
on film, impresa cominciata a girare nel 2001, terminata<br />
nel 2005 e il resto in post-produzione fino<br />
a metà 2008; a novembre dello stesso anno risale<br />
l’uscita in DVD. Nello stile autarchico della band,<br />
la pellicola è naturalmente artigianale, low budget<br />
e autoprodotta, con cast prevalentemente fai<br />
da te (band, staff, parenti, ad esclusione di qualche<br />
amico attore, come Adam Goldberg, il comico di<br />
Saturday Night Live Fred Armisen e Steve Burns),<br />
alla regia c’è Wayne Coyne aiutato da Bradley Beesley,<br />
documentarista e co-regista dei video della<br />
band di Oklahoma City.<br />
Cosa aspettarsi allora dall’ennesimo delirante lunapark<br />
lipsiano in versione celluloide? Niente di<br />
troppo diverso in fondo, per chi li ha sempre frequentati,<br />
dal loro stile psych freak. L’ambizioso ed<br />
elaborato (concettualmente) loro ultimo parto si<br />
può definire l’approdo ultimo di un percorso che<br />
ha fatto da sempre della tenacia, della tensione<br />
morale e dell’ottimismo venato di humour surreale<br />
e caustico la loro cifra stilistica. A chiudere un<br />
cerchio, forse, e riaprire, chissà una nuova fase in<br />
un prossimo futuro.<br />
Ossessione è la parola chiave per entrare in Christmas<br />
On Mars. La storia che fa da collante al<br />
film si svolge nel futuro, su uno spettrale pianeta<br />
Marte colonizzato dai terrestri; siamo alla vigilia<br />
del primo loro Natale passato lì, in una stazione<br />
spaziale ormai quasi in avaria, dove si verificano<br />
strane allucinazioni, blocchi psichici, suicidi e<br />
paranoie da isolamento, mentre nel frattempo si<br />
sta cercando di riparare le macchine e di dare un<br />
senso di ottimismo, celebrando la festività, anche<br />
in occasione della nascita del primo bambino lì;<br />
nascita artificiale che simboleggia l’inizio della<br />
colonizzazione marziana. L’arrivo di un bizzarro<br />
superessere, Coyne stesso, che ripara il generatore<br />
d’ossigeno, infonde speranza alla crew tutta e<br />
si riesce anche a risolvere un problema di gravità.<br />
“It’s magic and hard work that really gets the job done”, la<br />
filosofia coyniana sottesa in questo esprime compiutamente<br />
il suo credo (“siamo artefici della nostra<br />
felicità”). In altre parole, ottimismo e realismo. E<br />
un pragmatismo assoluto su tutto.<br />
Ossessione si diceva poc’anzi. La genesi di Christmas<br />
parte da lontano e mette insieme alcuni<br />
nuclei tematici delle personali ossessioni della mente<br />
di uno come Wayne Coyne. L’inconscio e i ricordi<br />
dell’infanzia, la differenza tra ciò che ricordiamo a<br />
posteriori e ciò che rimane sepolto nel subconscio,<br />
la parte infantile di noi tutti a cui da adulti difficilmente<br />
si riesce più ad accedere. In altre parole, i<br />
nostri viaggi interiori nel tempo. E la capacità difficilissima,<br />
che hanno pochi, di riuscire ad accedervi<br />
anche da adulti. Questo il punto di partenza che<br />
ha dato vita all’idea del film, cristallizzatasi dopo<br />
la morte del padre di Coyne, avvenuta nel 1997.<br />
C’è anche la fascinazione per l’oscurità e il senso<br />
del magico e dell’imprevedibile, presente negli<br />
anni formativi infantili, insieme al senso di luci ed<br />
ombre, così importante per un graphic designer<br />
qual è anche il Nostro. Luce ed ombra così correlate<br />
alle paure infantili del resto.<br />
Ancora la sensazione claustrofobica dell’isolamento<br />
e della relativa conseguente paranoia, così dominante<br />
in alcuni characters del film, i quali rappresentano<br />
la parte psichica che è rimasta intrappolata in<br />
un meccanismo e contro cui altri personaggi oppongono<br />
di contro il loro humour surreale e una<br />
certa dose deterrente di ottimismo. C’è in tutto ciò<br />
anche la percezione evidente della nostra fragilità,<br />
pur in un mondo ipertecnologizzato qual è quello<br />
attuale. And the fight for our sanity will be the fight of our<br />
lives. La paranoia da isolamento è anche quella che<br />
circolava nei Settanta intorno a una favoleggiata<br />
conquista USA del pianeta Marte non andata a<br />
buon fine e di conseguenza mai rivelata al mondo.<br />
Leggenda che fa un po’ il paio con la (supposta)<br />
conquista della Luna nel 1969. Teorie cospirative<br />
sul loro governo che tanto piacciono e continuano<br />
a piacere agli americani del resto.<br />
E su tutto, ritorna il senso della comunità e della<br />
famiglia, del clan così tipico dell’universo Lips. A<br />
proposto di ricordi, Coyne rivela come la storia si<br />
basi essenzialmente su di un (falso) ricordo della<br />
madre che, rimasta di notte sveglia davanti alla<br />
televisione - siamo a metà degli anni ’70 - aveva<br />
rielaborato, addormentandosi, qualcosa che credeva<br />
di aver visto in un film. La storia appunto che<br />
si svolgeva in una pellicola degli anni’40 su di uno<br />
122 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 123
sperduto avamposto, tipo sottomarino o astronave,<br />
dove una ciurma ormai alla deriva per guasti meccanici<br />
e convinta di dover morire, nel momento in<br />
cui affronta la morte e la accetta, viene visitata da<br />
un’entità sovrannaturale e si trova così cambiata<br />
positivamente dall’evento. Che è quel che succede<br />
in Christmas d’altra parte. Inutile dire che il film<br />
oggetto del sogno-ricordo si rivelò poi difficile da<br />
trovare nel corso del tempo e che sia stata maturata<br />
da Coyne la convinzione che non fosse mai<br />
esistito.<br />
Se la genesi di Christmas ha avuto le radici fin<br />
qui esaminate, quali sono state invece le influenze<br />
filmiche e tematiche che ne hanno determinato il<br />
risultato finale? Si è già detto della sua lunga elaborazione<br />
e postproduzione, frammista alla lavorazione<br />
degli album da fine ‘90 ad oggi. In mezzo<br />
alle riprese anche la dipendenza, poi vinta, da<br />
eroina del protagonista del film, il batterista Steve<br />
Drozd (alias Major Syrtis) tra le altre cose. “Forse<br />
Eraserhead o Dead Man misti a fantasia e aspetti spaziali,<br />
come Il mago di Oz e probabilmente 2001-Odissea nello<br />
spazio, ma realizzati senza veri attori o budget e ambientati<br />
durante il periodo natalizio. La storia che si svolge possiede<br />
della magia infantile mista a una situazione tragica e realistica”.<br />
E’ Coyne stesso ad offrirci suggerimenti<br />
sulle alcune delle influenze, dal commento a Christmas<br />
On Mars sul sito ufficiale flaminglips.<br />
com. Certamente essenziali sono stati Kubrick,<br />
la magia e la speranza di un film come Il mago di<br />
Oz di Victor Fleming, l’artigianalità, il paesaggio<br />
industriale ed emotivo desolante di Eraserhead<br />
di David Lynch (ma il bambino dell’allucinazione<br />
in Christmas è più tranquillizzante!), il senso del<br />
surreale e del parodistico del Dark Star di John<br />
Carpenter, frammisti a spruzzate di Solaris e<br />
Tetsuo. Senza dimenticare però la science fiction<br />
più popolare di fumetti, b-movies e serie TV, quali<br />
Star Trek, e uno z-movie scombinato quale Santa<br />
Claus Conquers The Martians (di Nicholas<br />
Webster,1964) che fa il paio con i film del famigerato<br />
Ed Wood. Un immaginario fertilissimo per<br />
chi cresceva negli psichedelici Sessanta-Settanta<br />
tra hippismo e controculture. E il senso del citazionismo<br />
diffuso da sempre nei Lips.<br />
Girato in 16 mm con prevalenza del bianco e nero<br />
(il colore viene associato al suono in scene topiche,<br />
come le disturbanti visioni del Major Syrtis o l’ap-<br />
parizione del marziano verdissimo e ipercolorato<br />
Coyne), Christmas On Mars è di base un film<br />
puramente artigianale - girato per la maggior parte<br />
nel giardino di casa - ma con ambizioni “arty”:<br />
ritmo rallentato, esplosioni soniche, pellicola invecchiata<br />
e via dicendo. Sarebbe un errore considerarlo<br />
unicamente come prodotto a sé stante -<br />
prodotto di modesta caratura, in verità. Altra cosa<br />
è immetterlo contestualmente nell’universo lipsiano,<br />
da dove scaturiscono, come si è già visto, una<br />
miriade di sensi compiuti, che partono da lontano<br />
nel tempo e chiudono completando il cerchio di<br />
un’esperienza più o meno trentennale all’insegna<br />
dell’immaginazione e della psichedelica più sfrenata<br />
e liberatoria.<br />
Si diceva dell’irruzione della musica in alcune scene;<br />
la colonna sonora viene acclusa all’edizione<br />
speciale di questo DVD, ed alcuni estratti erano<br />
già stati pubblicati negli anni scorsi; la composizione<br />
risale alle session di quello che sarebbe poi<br />
diventato Yoshimi Battles The Pink Robots<br />
(2002). Lo score strumentale, che irrompe sonicamente<br />
a maggior volume in alcune delle scene più<br />
deraglianti, ha derivazione prettamente ambient<br />
con inserti kraut orchestrali: Drozd negli extra del<br />
DVD cita non a caso Bernard Hermann, Brian<br />
Eno e Stravinskji come maggiori influenze compositive.<br />
E Coyne parla di tono drammatico della<br />
musica che ben si adatta e amplifica la tragicità e<br />
l’amarezza di fondo della pellicola.<br />
Ultimo paradosso e humour nero dei Nostri, la<br />
mancanza di sottotitoli - inglese compreso - se si<br />
escludono i soli presenti, in cirillico (!). Ad un esame<br />
degli stessi nei titoli di coda di Christmas, è<br />
stato sottolineato che la traduzione non è neanche<br />
letterale, ma immette dell’altro, come ad esempio<br />
commenti sulla ricerca della felicità nella vita e via<br />
discorrendo. Ennesimo detour di senso. Ma non ci<br />
aspettavamo davvero niente di diverso.<br />
“La vita è dura per lo più priva di senso. Ma sta a noi renderla<br />
migliore. Sta a noi cercarne il magico e il senso di meraviglia<br />
sotteso. E nel significato più profondo, scoprire cosa<br />
sia il sublime. Ce la possiamo fare, al di là delle sofferenze,<br />
a creare la nostra gioia e la nostra felicità. Questo è il Natale<br />
di cui parliamo”. (Wayne Coyne, 2008)<br />
tErEsa grEco<br />
124 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 125<br />
credits:<br />
• Titolo originale: The Flaming lips - Christmas On<br />
Mars (DVD & CD - Warner, novembre 2008)<br />
• Regia: Wayne Coyne con Bradley Beesley e George<br />
Salisbury<br />
• Sceneggiatura: Wayne Coyne<br />
• Fotografia: Jeremy Lasky<br />
• Musica: The Flaming Lips<br />
•<br />
•<br />
•<br />
•<br />
Cast: Steven Drozd, Wayne Coyne, Adam Goldberg,<br />
Fred Armisen, Steve Burns, Michael Ivins, Kliph<br />
Scurlock, J. Michelle Martin-Coyne<br />
Genere: Fantastico, drammatico<br />
Nazionalità: USA<br />
Durata: 1h 22’
tony ManEro (di paBlo larrain - cilE<br />
2009)<br />
Abbiamo visto più volte sul grande schermo la<br />
storia tragica delle dittature sudamericane, ma un<br />
film il cui protagonista non è il buono ma risulta<br />
persino sgradevole non ce lo ricordavamo. E neanche<br />
un tema all’apparenza frivolo come il ballo,<br />
ma così rivelatorio in realtà della condizione della<br />
popolazione cilena degli anni ’70 alle prese con la<br />
dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Popolazione<br />
rassegnata e stanca, che vede la violenza<br />
per strada giorno per giorno, gente abbrutita, coprifuochi,<br />
esercito e soprusi.<br />
Chi si ribella e chi per sfuggire alla sordida real-<br />
tà evade, con il cinema “straniero”, americano in<br />
particolare, con il ballo, anche questo importato.<br />
Siamo nel 1978, che vide la “febbre del sabato sera”<br />
di travoltiana memoria (Saturday Night Fever,<br />
1977) diventare globalmente febbre di tutti. O<br />
quasi. E la disco massiccio fenomeno di costume.<br />
Ci troviamo alla periferia di Santiago del Cile.<br />
Raúl Peralta (Alfredo Castro, anche sceneggiatore<br />
del film) è un ballerino cinquantenne che<br />
sbarca il lunario arrangiandosi come può, con l’ossessione<br />
per questo film, che va a rivedere in sala<br />
in continuazione.<br />
È a capo di un gruppo di ballerini che si esibiscono<br />
in un piccolo bar di periferia, e anche loro sognano<br />
il successo e l’evasione. Ma a<br />
differenza di chi lo circonda, il protagonista<br />
non esita a fare qualsiasi cosa<br />
per perseguire i propri scopi di affermazione,<br />
anche rubare, ingannare,<br />
uccidere. Indifferente a tutto quello<br />
che ha attorno, se non lo tocca da vicino<br />
per i suoi scopi primari. Tutto<br />
pur di migliorare le sue performance<br />
di ballo e cercare di vincere dei soldi<br />
e la gloria a un concorso in televisione,<br />
presentandosi come sosia di John<br />
Travolta alias Tony Manero.<br />
Pablo Larrain, qui al secondo film<br />
dopo Fuga del 2005, affronta il film<br />
realizzandolo con stile documentaristico,<br />
incollandosi quasi ai personaggi<br />
e seguendoli strettamente, con alcune<br />
scene anche in fuorifuoco. Assistiamo<br />
così passo dopo passo all’amoralità<br />
di Raúl, fino alle estreme conseguenze;<br />
Larrain lascia il finale in sospeso,<br />
dopo averci fatto assistere attoniti alla<br />
vicenda. E l’altra storia parallela, il<br />
cui epilogo è in sottofinale (la figlia<br />
della sua convivente e il suo ragazzo<br />
arrestati dalla polizia per opposizione<br />
clandestina al regime) che era la normalità<br />
tragica in anni come quelli, è<br />
vista con gli occhi del protagonista, che al momento<br />
dell’irruzione nella casa in cui anche lui vive, trova<br />
il modo per fuggire, anzi è come un fantasma, coperto<br />
come se non fosse mai esistito. Un no man’s<br />
land, uno spettro che si aggira nei meandri di una<br />
dittatura approfittando dell’amoralità generale e<br />
usandola a suo favore.<br />
E il senso di continua tensione in Tony Manero<br />
è avvertibile sin da subito, quando dopo le scene<br />
iniziali in cui il protagonista sembrava solo una povera<br />
vittima che cerca di farcela in qualche modo,<br />
si rivela bruscamente per quel che è. Momento rivelatore<br />
da cui si procede poi in discesa negativa<br />
per tutto la pellicola.<br />
L’ultima fatica di Larrain si conferma quindi come<br />
un crudissimo spaccato della perdita di valori e di<br />
identità di una società, ormai rassegnata a tutto.<br />
Un fallimento dei personaggi che è quello di tutto il<br />
Cile di allora. E un film estremamente politico.<br />
Vincitore del premio per il miglior film e per il miglior<br />
attore al Festival di Torino 2008, premio meritato<br />
dall’ottimo Castro, che con la sua mimica, i<br />
silenzi, la gestualità minimale ha reso al meglio la<br />
mancanza di morale del tragico Raúl.<br />
tErEsa grEco<br />
Milk (di gus van sant – usa, 2009)<br />
“Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti”.<br />
Gus Van Sant alle prese con un biopic? Non proprio,<br />
anzi non solo.<br />
Nel portare sullo schermo un progetto accarezzato<br />
già da un po’ di anni e mai riuscito a realizzare finora,<br />
si avvicina abbastanza a suoi film “regolari”<br />
quali Will Hunting (1997) Psycho (1998) e Scoprendo<br />
Forrester (2000). La libertà che offre una<br />
storia del genere non è invero moltissima, anche se<br />
pensando al suo recente Last Days (2005) ispirato<br />
a Cobain, i margini di deragliamento ci sarebbero<br />
potuti benissimo stare. Invece il regista sceglie<br />
apparentemente un impianto narrativo classico per<br />
raccontare parte della vita dell’attivista Harvey<br />
Milk (1930-1978), il primo americano omosessuale<br />
dichiarato a riuscire a ricoprire una carica pubblica,<br />
quella di consigliere comunale nell’America<br />
126 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 127
omofoba di fine anni ’70, a San Francisco, e tragicamente<br />
assassinato da un suo collega.<br />
Prendendo spunto dalle centinaia di taccuini e registrazioni<br />
audio che Milk aveva lasciato, in particolare<br />
da un lungo nastro rievocativo della sua<br />
carriera da rendere pubblico in caso di assassinio,<br />
Van Sant usa questo espediente narrativo, partendo<br />
dalla decisione del coming out personale e politico<br />
del personaggio dopo anni di vita regolare<br />
e conformistica. Si comincia quindi da un disvelamento,<br />
iniziando a rivelare se stessi.<br />
“Lo stile più rivoluzionario che mi sembrava giusto seguire<br />
per raccontare la vita di un gay era proprio quello classico,<br />
per lasciare spazio alla storia e a tutto quello che di importante<br />
Milk ha fatto, e mettere l’etica prima dell’estetica. Non<br />
volevo che fosse considerato un eroe ma un grande uomo, che<br />
si preoccupava dei diritti di tutti gli esseri umani. Comunque<br />
non penso assolutamente di avere rinunciato al mio personale<br />
modo di girare”. Così dalle parole dello stesso autore.<br />
Il tocco di Van Sant c’è comunque tutto: i lunghi<br />
pianosequenza, la fotografia minimale, la cura dei<br />
particolari, alcuni dei quali appena appena insistiti.<br />
Come il riflesso del fischietto che è inquadrato<br />
durante una manifestazione di protesta, a simboleggiare<br />
il movimento tutto, o l’inquadratura in<br />
prefinale, durante l’assassinio, con Josh Brolin<br />
nei corridoi del Comune, inquadrato di spalle alla<br />
maniera di Elephant mentre meccanicamente<br />
dà vita al massacro di Milk e del sindaco che lo<br />
appoggiava. Viene in mente un altro grande alle<br />
prese con film più apparentemente regolari della<br />
sua carriera, il Cronenberg di A History <strong>Of</strong><br />
Violence (2005).<br />
E non c’è solo in scena quasi il protagonista, come<br />
in genere nei biopic. Van Sant è Van Sant ed ecco<br />
coralmente la sua massa di diseredati, hobo, adolescenti,<br />
emarginati di tutti i suoi film, il popolo gay<br />
di San Francisco, qui al centro dell’attenzione per<br />
combattere e affermare i propri diritti. Contro la<br />
Proposition 6, una proposta di legge che chiedeva<br />
tra le altre cose l’allontanamento degli omosessuali<br />
dalle scuole pubbliche della California e che per<br />
mesi infiammò il dibattito politico e sociale americano.<br />
L’abbattimento di catene che imprigionavano<br />
la vita sociale degli omosessuali, e di riflesso<br />
anche la loro vita privata, il togliersi le maschere e<br />
rivelarsi per quel che si era: ecco uno dei capisaldi<br />
del pensiero di Milk (“dì a tutti chi sei”, rivolto a<br />
chiunque, non solo alla comunità gay).<br />
E per ultimo non si può non citare il gran lavoro<br />
sul e del cast tutto: Sean Penn si cuce letteralmente<br />
addosso i panni di Milk, conferendo al<br />
personaggio una nota dolente e malinconica da<br />
grande istrione; così anche i tre co-protagonisti,<br />
Emile Hirsch che interpreta l’attivista Cleve Jones,<br />
già visto l’anno scorso in Into The Wild, James<br />
Franco il compagno di Milk e il tormentato<br />
Brolin, l’assassino Dan White.<br />
tErEsa grEco<br />
THE FIREMAN<br />
(Paul McCartney & Youth)<br />
“Electric Arguments” MPL<br />
FUCK BUTTONS<br />
“Street Horrrsing”<br />
ATP Recordings<br />
DEERHOOF<br />
“<strong>Of</strong>fend Maggie!”<br />
Kill Rock Star<br />
DAVID BYRNE & BRIAN ENO<br />
“Everything That Happens Will<br />
Happen Today”<br />
VIC CHESNUTT/ELF POWER<br />
“Dark Developments”<br />
Orange Twin<br />
MURCOF<br />
“Versailles Sessions”<br />
Leaf Label<br />
ROSE KEMP<br />
“Unholy Majesty”<br />
One Little Indian<br />
BLACK MOUNTAIN<br />
“In The Future”<br />
Jagjaguwar<br />
PETE MOLINARI<br />
“A Virtual Landslide”<br />
Damaged Goods<br />
BENGA<br />
“Diary <strong>Of</strong> An Afro Warrior”<br />
Tempa<br />
WILDBIRDS & PEACEDRUMS<br />
“Heartcore”<br />
Leaf<br />
THE BLACK CROWES<br />
“Warpaint”<br />
Silver Arrow<br />
ELI PAPERBOY REED<br />
“Roll With You”<br />
Q Division<br />
EARTH<br />
“The Bees Made Honey In The<br />
Lion’s Skull”<br />
Southern Lord<br />
MY BRIGHTEST DIAMOND<br />
“Thousand Shark’s Teeth”<br />
Asthmatic Kitty<br />
XIU XIU<br />
“Women As Lovers”<br />
Kill Rock Star<br />
128 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 129<br />
SEUN KUTI<br />
“Many Thing”<br />
Tout Ou Tard<br />
JULIAN COPE<br />
“Black Sheep”<br />
Head Heritage<br />
BEST OF 2008<br />
WIRE<br />
“Object 47”<br />
Pink Flag<br />
THE MELVINS<br />
“Nude With Boots”<br />
Ipecac<br />
DISTRIBUZIONE / PROMOZIONE / EDIZIONI<br />
via Fortebraccio 20/A, 00176 Roma (Pigneto) Tel. 06 21700139 Fax: 06 2148346 - e-mail: info@goodfellas.it<br />
www.goodfellas.it - www.myspace.com/goodfellasdistribution - news sempre aggiornate su goodfellasblogspot.com<br />
ALBOROSIE<br />
“Soul Pirate”<br />
Forward<br />
JESSE MALIN<br />
“Mercury Retrograde”<br />
One Little Indian<br />
VENDITA PER CORRISPONDENZA: Ordini telefonici: +39 06 90286578 - Ordini via e-mail: mail@goodfellas.it<br />
RODRIGUEZ<br />
“Cold Fact”<br />
Light In The Attic<br />
PATTI SMITH & KEVIN SHIELDS<br />
“The Coral Sea”<br />
Pask<br />
A SILVER MT. ZION<br />
“13 Blues For Thirteen Moons”<br />
Constellation<br />
RADIATION RECORDS<br />
Circ.ne Casilina 44 (Pigneto) 00176 ROMA
l’incantevole voce<br />
di florez<br />
Dopo sei anni ritorna al Comunale di Bologna I Puritani di Vincenzo Bellini, ancora una volta con la regia e le scene di<br />
Pier’Alli, che, per la quarta volta consecutiva mette in scena l’ultima opera di Bellini nel teatro della città petroniana. Un<br />
allestimento bello, anche se non eccezionale, nel quale la splendida voce del tenore Juan Diego Florez ha fatto la differenza..<br />
Testo: Daniele Follero<br />
i pu r i t a n i di vi n c e n z o be l l i n i – te a t r o co M u n a l e di bo l o g n a (8 – 17 ge n n a i o 2009)<br />
I Puritani: Opera seria in tre atti su libretto di Carlo Pepoli.<br />
Musica di Vincenzo Bellini. Regia e scene: Pier’Alli. Orchestra<br />
del Teatro Comunale di Bologna, direttore Michele<br />
Mariotti<br />
Al di là dei meriti stilistici e di quelli storici, imprescindibili<br />
nel caso di un’opera rimasta saldamente<br />
legata al repertorio per 150 anni, ciò che conferisce<br />
un’aura quasi mitica ai Puritani di Bellini, è<br />
la stretta relazione che essa ha avuto con la morte<br />
del compositore siciliano, scomparso giovanissimo<br />
e nel pieno del suo successo internazionale, una<br />
manciata di mesi dopo la Prima parigina di quella<br />
che sarebbe stata la sua ultima partitura per il teatro.<br />
La morte prematura di un artista che dimostra<br />
di avere ancora molto da dire, ha sempre destato<br />
un certo fascino, orientando la critica verso un giudizio<br />
sbilanciato verso ciò che sarebbe diventato,<br />
quell’artista, se il fato non avesse deciso anzitempo<br />
la sua scomparsa. E’ successo con molti musicisti<br />
del passato e succede ancora oggi nei più svariati<br />
ambiti musicali: cosa sarebbe diventato Mozart<br />
se avesse vissuto i primi fermenti romantici, lui<br />
che in anticipo su tutti aveva già impregnato le sue<br />
ultime opere di una drammaticità anticipatrice<br />
dello spirito beethoveniano? cosa sarebbe stata la<br />
musica del Settecento se Pergolesi avesse potuto<br />
esprimere la sua maturità invece di essere stroncato<br />
a 27 anni dalla tisi? e come sarebbe il rock aves-<br />
se potuto godere ancora qualche anno della presenza<br />
di icone viventi come Jimi Hendrix, Jim<br />
Morrison e Kurt Cobain? E Verdi? Il Verdi<br />
popolare, di Traviata e Rigoletto, il musicista<br />
risorgimentale per eccellenza, avrebbe avuto una<br />
carriera così limpida se la vita avesse permesso a<br />
Bellini di andare oltre I Puritani?<br />
Domande inutili, forse, ma che aprono a un ventaglio<br />
di ipotesi ampio e suggestivo, che condiziona<br />
inevitabilmente il giudizio storico sull’arte e le sue<br />
espressioni.<br />
L’ultima opera del compositore catanese, pur mantenendo<br />
alcune caratteristiche tipicamente belcantiste<br />
(non manca il lirismo che aveva reso grandi<br />
due grandi capolavori precedenti come Norma e<br />
La Sonnambula) segna anche un superamento<br />
dello stile belliniano, verso tecniche e atmosfere che<br />
ben presto diverranno caratteristiche fondamentali<br />
del melodramma romantico: maggiore espressività<br />
e colore dell’orchestra; uno sviluppo musicale sempre<br />
più intimamente legato all’azione drammatica;<br />
cantanti ai quali è sempre più richiesta la capacità<br />
di interpretazione attoriale a scapito del virtuosismo;<br />
argomento patriottico. L’estetismo lascia il<br />
posto alla funzione drammatica della musica, che<br />
culminerà nella concezione totalizzante del teatro<br />
di Wagner, per il quale musica, testo e azione diventano<br />
un tutt’uno inscindibile.<br />
Il conflitto tra i Puritani seguaci di Cromwell e gli<br />
Stuart assume, nel libretto dell’esule patriota bolognese<br />
Carlo Pepoli, toni che preannunciano già il<br />
risorgimento italiano, divenendo un esempio di lotta<br />
per la libertà trasferibile idealmente nello spirito<br />
nazionalista italiano dell’epoca. Da questo punto<br />
di vista l’opera di Bellini non acquistò la fama e il<br />
rango di vero e proprio “inno alla Patria” di alcune<br />
musiche verdiane, anche se passi dei Puritani come<br />
“Suona La Tromba, Intrepido” già esprimevano<br />
quel complesso di valori liberali di cui il compositore<br />
di Busseto sarebbe diventato, di lì a poco, la più<br />
evidente espressione.<br />
Non sarà la Norma in quanto a successo popolare<br />
e posizione nella particolare gerarchia del repertorio,<br />
ma I Puritani è entrata di diritto tra le opere<br />
più eseguite di Bellini e, più in generale, del teatro<br />
musicale della prima metà dell’Ottocento e, con<br />
una certa continuità, sin dai suoi esordi, è arrivato<br />
fino a noi, come dimostrano le rappresentazioni<br />
ospitate dal Teatro Comunale di Bologna, che dal<br />
1836 e prima di questo nuovo allestimento, arrivavano<br />
fino al 2002. Nella memoria bolognese<br />
resterà senz’altro la grande interpretazione di un<br />
Pavarotti già maturo, ma non ancora divissimo,<br />
del 1969, accompagnato da Mirella Freni, subentrata<br />
a un’indisponibile Joan Southerland<br />
(come dire, calcisticamente, che esce Maradona<br />
ed entra Platini!).<br />
Altri tempi, direbbe qualche nostalgico del belcanto.<br />
“Tiempe Belle ‘E ‘Na Vota…E Pecchè Nun Turnate”,<br />
come recita una nota canzone napoletana, con<br />
nostalgia e pessimismo. Domanda legittima per il<br />
melomane. Che forse però, ascoltando la voce di<br />
Juan Diego Florez, qualche speranza l’avrà covata,<br />
dentro di sé, come il tifoso (sempre per rimanere<br />
in tema calcistico) che solleva speranze nella nuova<br />
promessa, sognando il ritorno dei grandi campioni<br />
del passato. La voce di Florez, tenore peruviano ancora<br />
giovane ma già maturo musicalmente e di notevole<br />
fama internazionale, è, secondo la mia ancor<br />
più giovane conoscenza della lirica, la più espressiva<br />
e limpida voce tenorile che abbia mai ascoltato dal<br />
vivo. Una voce che prende la scena con una natu-<br />
ralezza e una chiarezza che oltrepassano il livello<br />
medio delle altre presenze, che riesce a svolazzare<br />
tra le note alte, ma è capace anche di vestirsi di toni<br />
cupi e drammatici senza perdere vigore. In alcuni<br />
tratti il ruolo di Lord Arturo Talbo, sembra cucito<br />
perfettamente per la plasticità della sua voce, ancor<br />
più che i ruoli mozartiani, grazie ai quali si è imposto<br />
sulla scena internazionale.<br />
L’allestimento, una collaborazione a tre tra il Comunale,<br />
il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari è<br />
stato, per il teatro bolognese il quarto consecutivo a<br />
portare la firma del regista fiorentino Pier’ Alli, del<br />
quale avevamo potuto apprezzare, lo scorso anno,<br />
la messinscena multimediale del Requiem di Verdi.<br />
Niente video, stavolta, ma predilezione per scene<br />
mastodontiche e spigolose, a contatto con le quali<br />
la luce fioca crea un’atmosfera cupamente gotica.<br />
Enormi spade, a mo’ di colonne doriche disegnano<br />
la scena, tenendo ben presente per tutto il dramma<br />
l’idea del conflitto, della lotta a testimonianza della<br />
grande attenzione ai simboli caratteristica dello stile<br />
scenografico di Pier’Alli.<br />
Sul podio, Michele Mariotti, ormai sempre più<br />
lontano dalla qualifica di “giovane” vista la sua<br />
sicurezza nel dirigere, ha interpretato in maniera<br />
decisa e accentuata i chiaroscuri presenti nella<br />
partitura, dimostrandosi un dignitoso erede di<br />
Daniele Gatti, pur avendo caratteristiche diverse<br />
dal direttore milanese.<br />
Quando le cose stanno così, quando la regia funziona<br />
e dialoga bene con la musica e con cantanti<br />
“sopra la media” come Florez, è un bene per tutti.<br />
Anche per chi la lode non la meriterebbe.<br />
a night at the opera / 131
dmitri shostakovich<br />
Fino all’ultima sinfonia<br />
Stretta tra la voglia di aprirsi ai nuovi linguaggi delle avanguardie europee, la fedeltà agli ideali del socialismo sovietico e le<br />
censure del regime, la carriera artisica di Dmitri Schostakovich ha coinciso del tutto con la vita dell’U.R.S.S., dalla morte<br />
di Lenin alla “normalizzazione” di Breznev, assorbendone tutte le contraddizioni. Personaggio schivo, introverso, amico di<br />
Majakovskij, comunista convinto, ma spesso avversato dal regime, Mitja, come veniva chiamato dai più intimi, rappresenta,<br />
nel bene e nel male il compositore sovietico per eccellenza. Testo: Daniele Follero<br />
“Quando un uomo è disperato vuol dire che crede ancora in<br />
qualcosa”<br />
Dmitri Schostakovich<br />
Affrontare e, talvolta, giudicare la storia e l’opera<br />
di artisti vissuti all’ombra dei regimi totalitari non<br />
è mai cosa facile. In società dove la cultura è controllata<br />
da istituzioni create ad hoc e le espressioni<br />
artistiche sono censurate ogni qualvolta non si allineino<br />
alle direttive del regime, le soluzioni sono<br />
due, non si scappa: emigrare (laddove si possa) o<br />
adattarsi, reprimendo, in maniera un po’ schizofrenica,<br />
gli istinti creativi che rischiano di trasbordare<br />
verso libertà non concesse. Molti artisti del<br />
Novecento (ma anche scienziati, come Freud e<br />
Einstein), nati in Germania, Italia o Russia e sensibili<br />
ai cambiamenti radicali delle avanguardie<br />
“storiche” (che coincisero, cronologicamente, con<br />
il periodo delle grandi dittature del XX secolo) optarono<br />
per la prima soluzione, con la conseguenza<br />
di apparire come degli eroi, pur avendo scelto la<br />
via più semplice (per modo di dire, ovviamente)<br />
ma, in ogni caso, più coerente con le proprie idee,<br />
politiche e culturali.<br />
Una scelta quasi obbligata per evitare di scendere<br />
a compromessi umilianti, che qualcuno non<br />
ha avuto il coraggio o la semplice intenzione di<br />
compiere, con conseguenze spesso devastanti per<br />
la propria carriera o, quantomeno, con il rischio<br />
sempre incombente di sacrificare, fino all’insop-<br />
portabile, l’arte alla vita politica. Non lo fece Mascagni,<br />
adattatosi senza vergogna alle esigenze<br />
populiste del fascismo e caduto presto nel dimenticatoio;<br />
e lo fece solo a metà Prokofiev, prendendo<br />
le distanze dalla rivoluzione leninista per ritornare<br />
in U.R.S.S. all’apice del regime stalinista.<br />
Per Shostakovich, invece, che con gli ideali della<br />
Rivoluzione di Ottobre si era alimentato e credeva<br />
nel socialismo sovietico, restare a vivere in patria<br />
fu atto dovuto, un motivo d’orgoglio, manifestato<br />
attraverso la piena adesione agli ideali del nuovo<br />
potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar.<br />
Ci credette a lungo, nonostante percepisse che<br />
qualcosa non quadrava. Ci credette, almeno fino<br />
a quando, nel 1935, la Pravda non pubblicò quel<br />
maledetto articolo sulla sua Lady Machbeth, dal<br />
titolo: “Caos anziché musica”. A cui seguì il marchio<br />
definitivo di formalismo apposto dal regime<br />
alla sua Quarta Sinfonia, Da quel momento, la<br />
contraddizione tra lo Shostakovich artista e il cittadino<br />
sovietico cominciò a diventare incolmabile e<br />
a rappresentare un ostacolo sempre più insormontabile<br />
per il carattere mansueto e debole (come la<br />
sua salute) del compositore di San Pietroburgo.<br />
la ri v o l u z i o n e di Mi t j a<br />
Nato a San Pietroburgo nel 1906, ma vissuto a<br />
Leningrado (il nome che assunse la sua città natale<br />
dopo il 1917) Shostakovich è figlio legittimo,<br />
sia per ragioni anagrafiche sia ideologiche, della<br />
rivoluzione bolscevica. Il clima familiare nel quale<br />
cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai<br />
parenti e dagli amici più intimi) risente molto delle<br />
idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il<br />
suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona<br />
(è stato per molto tempo membro dell’Unione<br />
dei Compositori). Durante gli anni giovanili dei<br />
primi studi musicali, viene in contatto con Prokofiev,<br />
di qualche anno più grande,e con Majakovskij,<br />
personaggi che influenzeranno non poco la prima<br />
sua prima fase compositiva, anche se i rapporti tra<br />
lui e il compositore ucraino non saranno mai idilliaci<br />
e si limiteranno ad una cortesia di maniera<br />
non priva di critiche reciproche. Già nella Prima<br />
Sinfonia, che lo impone all’attenzione internazio-<br />
nale all’età di appena 19 anni, il “modernismo”<br />
del primo Prokofiev è presente in tutta la sua carica<br />
dirompente, espressa con sonorità spigolose<br />
e ritmi sferzanti, trame melodico-armoniche che<br />
alternano atonalità e politonalità e un particolare<br />
interesse per l’organizzazione timbrica. Ma non<br />
mancano le influenze mitteleuropee, che si concretizzano,<br />
nei primi lavori sinfonici di S.(almeno<br />
fino alla Quarta Sinfonia), soprattutto nella figura<br />
di Paul Hindemith e del suo neo-oggettivismo.<br />
Pungente, sarcastico, nel complesso uno stile non<br />
certo facile da digerire, per un ambiente musicale<br />
come quello russo, ancora strettamente legato al<br />
sinfonismo tardo-romantico.<br />
Se lo stile guarda all’occidente, però, le intenzioni,<br />
i cosiddetti contemporanei / 133
i messaggi, sono tutti rivolti al socialismo sovietico.<br />
Spesso le composizioni di S. sono dedicate ai<br />
miti della rivoluzione o scritte per particolari celebrazioni<br />
(ne è un esempio la Seconda Sinfonia,<br />
denominata “Ottobre” e composta per il decimo<br />
anniversario della Rivoluzione, nel 1927).<br />
Anche nell’opera lo stile di S. si mostra ricco di<br />
sfumature ed evidenzia una forte carica ironica,<br />
espressa attraverso un linguaggio musicale a volte<br />
parodistico, altre esasperato, con l’orchestra che assume<br />
un ruolo determinante nell’effetto complessivo.<br />
Nasce con queste caratteristiche il suo primo<br />
lavoro teatrale, Il Naso (1930), tratto dall’omonimo<br />
racconto di Gogol’. La personale elaborazione dei<br />
linguaggi delle avanguardie europee (Stravinskij,<br />
Hindemith, Berg) e la deformazione di timbri e<br />
voci che assume toni talvolta ironici, talvolta grotteschi,<br />
rendono quest’opera assolutamente eccezionale<br />
nel mondo in cui prende vita.<br />
il re a l i s M o so c i a l i s t a , sh o s t a K o v i c h e<br />
l’u.r.s.s.: u n a st o r i a di ce n s u r e<br />
Il dibattito culturale su un’arte che esprimesse la realtà<br />
della società post-rivoluzionaria e sovietica era<br />
già ampiamente avviato all’epoca, ma la censura<br />
non aveva ancora colpito il compagno Mitja che,<br />
seppure in maniera troppo “occidentale” (a quei<br />
tempi sinonimo di borghese e quindi di nemico<br />
politico e culturale) aveva dimostrato di aderire ai<br />
precetti della nuova arte russa. Un’adesione ad un<br />
linguaggio che fosse il più possibile comunicativo,<br />
celebrativo e funzionale al cambiamento radicale<br />
della società. E che S. interpreta a suo modo attraverso<br />
una raffinatezza compositiva che gli permette<br />
di esprimersi a più livelli, senza per questo cadere<br />
nelle grinfie della critica più ortodossa e intransigente.<br />
Ma questo equilibrio riesce a durare ancora<br />
qualche anno, anche perché sempre più stretta si fa<br />
la morsa del potere politico (che culminerà dopo la<br />
seconda guerra mondiale negli “editti” di Ždanov,<br />
il plenipotenziario “colonnello” di Stalin) sulla cultura<br />
e l’accusa di “formalismo” (cioè di un supposto<br />
interesse per la forma in sé a scapito della comuni-<br />
cazione) diventa lo strumento più in voga per “scomunicare”<br />
un artista. Una recensione sulla Pravda<br />
critica aspramente la seconda opera teatrale di S.,<br />
Lady Macbeth Del Distretto di Mcensk (rivisitata<br />
poi nel 1963 con il nome della protagonista femminile,<br />
Katerina Ismailova), che pure voleva interpretare<br />
il delitto di Macbeth come gesto di rivolta antiborghese,<br />
bollandola come “caos” e, addirittura,<br />
parlando di “pornofonia” nel caso della descrizione<br />
musicale dell’amplesso tra Katerina e Sergej. Segue<br />
a ruota la stroncatura della sua Quarta Sinfonia. E<br />
in meno di un anno uno dei più grandi compositori<br />
della Russia Sovietica, viene messo al bando e<br />
costretto a ritrattare le sue idee artistiche (firmando<br />
addirittura una poco convinta condanna critica alla<br />
figura di Schoenberg), con lo scopo di fornire solide<br />
garanzie al controllo del regime. E’ da questo momento<br />
che la contraddizione che covava nel mite<br />
S. esplode in maniera irruenta nella sua vita. Una<br />
condizione sì dell’uomo, ma che si può estendere a<br />
tutta la società sovietica, stretta tra parole di libertà<br />
e un atteggiamento del potere che esprime l’esatto<br />
contrario<br />
Si spiega così la virata improvvisa di S., dalla Quinta<br />
Sinfonia in poi, verso uno stile più sobrio e lirico,<br />
che abbandona i radicalismi avanguardisti e<br />
si riavvicina al tonalismo. L’orchestra viene ridotta,<br />
il linguaggio si accosta di più a Mahler e al poema<br />
sinfonico e spesso e volentieri vengono utilizzati<br />
testi, come nel caso della celebre Settima Sinfonia<br />
“Leningrado”, scritta durante la battaglia del 1941.<br />
La vitalità compositiva di S. non si spegne neanche<br />
durante gli anni della guerra, ma ben presto un altro<br />
colpo, un’altra confessione strappata con la forza<br />
a seguito del rapporto Ždanov, lo costringe ad<br />
abbandonare qualsiasi benché minima intenzione<br />
innovativa, lasciando cadere la sua musica verso<br />
toni maggiormente celebrativi e un sinfonismo tardo-romantico<br />
alla Tchaikovsky.<br />
rif l e t t e n d o su l l a Mo r t e<br />
La conseguenza di questi colpi bassi, porta un ormai<br />
disilluso S. ad allontanarsi sempre di più dal-<br />
la realtà (ormai irreparabilmente confusa con la<br />
propaganda. Una condizione descritta in maniera<br />
eccellente da Orwell in 1984), spingendosi verso<br />
i territori dell’immaginazione. La riflessione sulla<br />
morte diviene il tema più ricorrente dell’ultima<br />
fase compositiva del compositore di Leningrado,<br />
che si chiude così, in un pessimismo fatalista sempre<br />
più scuro. Proprio lui, che per tanti anni aveva<br />
creduto nell’”uomo nuovo”! Anche la musica si fa<br />
più cupa: abbandonati già da molto tempo i generi<br />
dell’opera e del balletto (altro genere molto<br />
stimato nella Russia sovietica e al quale S. aveva<br />
regalato, prima del ’35 opere di ottimo livello e<br />
“sopra la media” come L’Età Dell’ Oro, Il Bullone<br />
e Il Limpido Fiume, rispettivamente del ’30, ’31 e<br />
’35), S. si concentra sulle sinfonie e sulla musica da<br />
camera, mantenendo costante anche il suo impegno<br />
come compositore per il cinema, reso più prolifico<br />
ma anche meno interessante, artisticamente,<br />
dall’avvento del sonoro (degne di nota sono le musiche<br />
scritte per l’unico film muto musicato da lui,<br />
Nuova Babilonia). Ma se la sinfonia rappresenta<br />
ormai la forma prediletta dal regime per la sua autocelebrazione,<br />
nelle partiture per organici piccoli<br />
e destinata a luoghi d’esecuzione ridotti, MItja riesce<br />
a sviluppare la sua ricerca musicale più sincera,<br />
ancora attratta dai linguaggi della modernità,<br />
dalle avanguardie al jazz. Nei numerosi Quartetti<br />
(15 in tutto) e Quintetti S. può ancora permettersi<br />
di comporre, indisturbato, utilizzando le serie dodecafoniche<br />
e i cromatismi più estremi. Tra questi,<br />
l’Ottavo Quartetto (1960) è senz’altro il più significativo:<br />
una sorta di epitaffio auto celebrativo, nel<br />
quale il tema è ricavato dalle iniziali del nome del<br />
compositore (D.S.C.H., che corrispondono alle<br />
note Re-Sol-Do-Si).<br />
La contrapposizione tra, da un lato, un atteggiamento<br />
celebrativo, sottomesso alle volontà del regime,<br />
espresso attraverso un acceso lirismo e l’uso<br />
costante di elementi folclorici (le Sinfonie n.11,<br />
dedicata alla rivoluzione fallita del 1905 e la n.12,<br />
“in memoria di Lenin”) e, dall’altro la voglia di<br />
confrontarsi con i suoi contemporanei europei<br />
sperimentando a suo modo con i linguaggi della<br />
modernità (la Sinfonia n.13 si testi di Evtušenko,<br />
che gli valse l’ennesima censura nel 1962), ha rappresentato<br />
una costante, assunta a fondamentale<br />
caratteristica stilistica, dello S. compositore. Che<br />
come abbiamo avuto modo di vedere, non era molto<br />
diverso dall’uomo, combattuto in questo eterno<br />
conflitto, rimasto irrisolto fino alla sua morte. Fino<br />
all’ultima sinfonia. Sarebbe stata la Sedicesima.<br />
thE EssEntial dMitri shostakovich<br />
* Sinfonia n.1 in Fa minore (1925)<br />
* Sinfonia n.2 in Si maggiore “Ad Ottobre” (1927)<br />
* 10 Aforismi per Pianoforte (1927)<br />
* Musiche per il film muto “Nuova Babilonia” (1929)<br />
* Sinfonia n.3 in Si bemolle maggiore “Il Primo Maggio”<br />
(1929)<br />
* Il Naso (1930) tratto da un testo di Gogol’<br />
* Suite per Jazz Orchestra n.1 e 2 (1934 e 1938)<br />
* Lady Macbeth Del Distretto Di Mcensk (1934) tratto<br />
da un testo di Leskov<br />
* Sinfonia n.4 in Do minore (1936)<br />
* Sinfonia n.5 in Re minore (1937)<br />
* Sinfonia n. 7 in Do maggiore “Leningrado” (1941)<br />
* Sinfonia n.8 in Do minore (1943)<br />
* Quartetto d’archi n.8 in Do minore (1960)<br />
* Sinfonia n.13 in Si bemolle minore “Babi-Yar”<br />
(1962)<br />
* Quartetto d’archi n.9 in Mi bemolle maggiore<br />
(1964)<br />
* L’Esecuzione Di Stepan Razin (1966) su testo du<br />
Evtušenko<br />
* Quartetto d’archi n. 12 in Re bemolle maggiore<br />
(1968)<br />
* Sinfonia n. 15 in La maggiore (1971)<br />
* Quartetto d’archi n.15 in Mi bemolle minore<br />
(1974)<br />
*<br />
Sonata per Viola (1975)<br />
i cosiddetti contemporanei / 135
sentireascoltare.com<br />
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