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Mimes Of Wine - Expo '70

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SENTIREASCOLTARE<br />

digital magazine febbraio 2009 N.52<br />

<strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong><br />

immagini in movimento<br />

Nuovi Corrieri Cosmici, Lo Spazio del Suono<br />

The Smiths, Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic313 Jem<br />

Cohen, Action Beat, Hjaltalìn, Dälek, Circlesquare Flaming<br />

Lips


nuovi corrieri cosmici<br />

expo‘70<br />

emeralds<br />

j o n a s<br />

reinhardt<br />

News p. 4-5<br />

Turn On p. 6-13<br />

Raccoo-oo-oon, Zomby, Harmonic 313, Jem Cohen,<br />

Action Beat, Hjaltalìn<br />

Tune In p. 14-25<br />

Dälek, <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong>, Circlesquare<br />

Drop Out p. 26-43<br />

Nuovi Corrieri Cosmici (<strong>Expo</strong>’70, Emeralds, Reinhart...)<br />

Lo Spazio del Suono (Ralph Steinbruchel)<br />

recensioni p. 46-101<br />

Svarte Greiner, Andrew Bird, zZz, Mi Ami.....<br />

We are Demo p. 102-103<br />

Rearview Mirror p. 104-121<br />

The Smiths - New Order...<br />

la sera della prima p. 122-128<br />

Christmas on Mars, Tony Manero, Milk<br />

a night at the opera p. 130-131<br />

I Puritani<br />

i “cosiddetti contemporanei” p. 132-135<br />

Shostakovich<br />

Di r e t t o r e : edoardo bridda<br />

Co o r D i n a m e n t o : Teresa Greco<br />

Co n s u l e n t i a l l a r e D a z i o n e : Daniele follero, Stefano Solventi<br />

sta f f : Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, antonello Comunale<br />

Ha n n o C o l l a b o r at o : Leonardo amico, Gianni avella, Sara bracco, Marco braggion, Luca Collepiccolo, alessandro<br />

Grassi, andrea Napoli, francesca Marongiu, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, andrea Provinciali,<br />

antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, fabrizio Zampighi.<br />

Gu i D a s p i r i t ua l e : adriano Trauber (1966-2004)<br />

Gr a f i C a e im pa G i n a z i o n e : Nicolas Campagnari<br />

in C o p e r t i n a : Mines of <strong>Wine</strong>s<br />

SentireAscoltare online music magazine<br />

Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05<br />

Editore: Edoardo Bridda<br />

Direttore responsabile: Antonello Comunale<br />

Provider NGI S.p.A.<br />

Copyright © 2008 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare<br />

SENTIREASCOLTARE<br />

digital magazine febbraio 2009 N.52<br />

Sommario / 3


Necrologio cumulativo questo mese: il 22 gennaio<br />

è scomparso Charlie Wesley Cooper metà dei<br />

Telefon Tel Aviv a pochissimo dall’uscita dell’album<br />

Immolate Yourself; se n’è andato anche Bill<br />

Powell, tastierista dei Lynard Skynard; Powell<br />

e Gary Rossington erano gli unici sopravvissuti<br />

dell’incidente aereo del 1977 in cui erano morti<br />

gli altri componenti Ronnie Van Zant, Steve Gaines<br />

e la corista Cassie Gaines. E ancora se ne va a<br />

60 anni Ron Asheton, chitarrista degli Stooges; il<br />

musicista è stato trovato morto il 6 gennaio scorso<br />

nella sua casa in Michigan. A 76 anni muore<br />

il 27 gennaio per un cancro al polmone lo scrittore<br />

americano John Updike. E per ultimo il 29<br />

gennaio ci lascia a 60 anni il folk singer scozzese<br />

John Martyn. Ancora una scomparsa: il 4 febbraio<br />

muore in California a 62 anni per problemi cardiaci<br />

Lux Interior (Erick Purkhiser) dei Cramps,<br />

fondati insieme alla moglie Poison Ivy nel 1975 a<br />

New York, dove entrarono a far parte della scena<br />

punk rock gravitante intorno al CBGB.<br />

Nuovo album per Bill Callahan, a due anni da<br />

Woke On A Whaleheart. Sometimes I Wish<br />

We Were An Eagle uscirà come i precedenti su<br />

Drag City, in aprile…<br />

Tornano i gallesi Super Furry Animals con<br />

un’uscita ancora senza titolo, che appare prima<br />

in forma digitale sul loro sito ufficiale superfurry.<br />

com dal 16 marzo e poi dal 21 aprile fisicamente<br />

su Rough Trade; l’album vede titoli quali The Very<br />

Best of Neil Diamond e Crazy Naked Girls…<br />

Franz Ferdinand,<br />

Kings of Leon, Oasis e Paul<br />

Weller sono i primi headliner dell’edizione 2009<br />

del FIB Heineken 09 che si terrà a Benicàssim<br />

(Spagna) il 16, 17, 18 e 19 luglio 2009. Il resto<br />

della programmazione sara’ svelato non appena<br />

gli artisti confermeranno le proprie apparizioni.<br />

Maggiori informazioni su fiberfib.com…<br />

Nuovi dischi in arrivo tra febbraio e marzo per<br />

Odawas, Julie Doiron e Swan Lake, tutti su<br />

Jagjaguwar; gli Odawas sono al terzo album, The<br />

Blue Depths previsto per fine febbraio, la Doiron<br />

torna a marzo con Can Wonder What You<br />

Did With Your Day, così come Swan Lake, con<br />

Enemy Mine. Quest’ultimo progetto di Daniel<br />

Bejar (già con Destroyer e New Pornographers),<br />

Spencer Krug (di Sunset Rubdown e Wolf Parade)<br />

e Carey Mercer (di Frog Eyes e Blackout Beach)…<br />

Dopo cinque anni tornano i chicagoani Tortoise<br />

con un disco ancora senza titolo che uscirà<br />

il prossimo aprile…<br />

Ristampe in vista per i Monks e il loro garage<br />

rock su Light In the Attic: The Early Years e<br />

Black Monk Time in arrivo a marzo con distribuzione<br />

Goodfellas. Nel 1967 il gruppo si scioglie<br />

lasciando un album – Black Monk Time – oggetto<br />

di culto, causa la sua irreperibilità. Nel 1994<br />

il bassista Eddie Shaw pubblica l’autobiografia<br />

Black Monk Time; il gruppo si riunisce nel 1999<br />

durante il festival americano Cavestomp e poi in<br />

Spagna nel 2004 ed in occasione del tour in Germania<br />

ed Austria del 2007…<br />

Dopo ben quindici anni dall’ultima uscita con<br />

la sua band, That’s The Way It Should Be, Booker<br />

T pubblicherà su Anti il 20 aprile il nuovo<br />

album Potato Hole, L’artista leader dei Booker<br />

T & the MG’s (session band della Stax Records di<br />

Memphis), ha collaborato con Neil Young, chitarrista<br />

in nove canzoni, e con i Drive By Truckers<br />

come turnisti. Nel disco sono presenti tre<br />

cover, Hey Ya degli Outkast, Get Behind the Mule di<br />

Tom Waits e Space City dei Drive By Truckers…<br />

Sarà pubblicato il 14 aprile Fantasies, quarto<br />

album dei Metric, il primo ad essere venduto direttamente<br />

dalla band canadese, acquistabile dal<br />

sito ufficiale Ilovemetric.com. Sarà preordinabile<br />

dal 2 marzo. In Canada e Messico sarà anche distribuito<br />

regolarmente dalla Arts & Crafts…<br />

I Black Dice pubblicheranno Repo, il loro<br />

quinto disco, il 7 aprile su Paw Tracks…<br />

Novità per gli electroloopers svedesi The Field.<br />

Il nuovo album - che segue il successo del 2007<br />

Here We Go Sublime - verrà pubblicato probabilmente<br />

intorno al 16 maggio prossimo sempre<br />

sulla tedesca Kompakt. Axel Willner è stato affiancato<br />

in fase di composizione di alcuni ritocchi sonori<br />

dal batterista dei Battles John Stainer…<br />

I Depeche Mode tornano con un nuovo disco,<br />

Sounds <strong>Of</strong> The Universe, previsto per il<br />

20 aprile su Mute, anticipato dal singolo Wrong<br />

e prodotto da Ben Hillier (già in Playing the Angel<br />

del 2005). Secondo quanto da loro dichiarato,<br />

prevede l’uso di synth analogici e drum machine<br />

che bilanciano il sound retro futurista dell’allbum;<br />

come già annunciato saranno nel nostro paese per<br />

due date, il 16 giugno a Roma e il 18 a Milano…<br />

Frank Black torna con l’incarnazione Grand<br />

Duchy, insieme alla moglie Violet Clark: il debutto<br />

del duo si chiama Petit Fours e sarà pubblicato<br />

in aprile su Cooking Vinyl…<br />

4 / News a cura di Teresa Greco<br />

News / 5


RACCOO-OO-OON<br />

Dei defunti, almeno in Italia, si tende a parlare<br />

sempre bene. Anche se la cosa solitamente non<br />

corrisponde alla realtà della vita vissuta, nel caso<br />

dei Raccoo-oo-oon è inevitabile. Così come inevitabilmente<br />

la memoria ritorna alla famosa frase di<br />

Steve Albini, secondo il quale l’idea di sciogliersi<br />

è venuta troppo spesso ai gruppi sbagliati. Il (fu)<br />

quartetto di Iowa City rientra appieno in questa<br />

categoria, come dimostra il canto del cigno appena<br />

uscito col benemerito placet del logo Release<br />

The Bats, eclettica etichetta svedese nel cui catalogo<br />

confluiscono weirdità a profusione, Robedoor<br />

e Warmer Milks giusto per fare due nomi. In<br />

tono col ruolo sommesso giocato dal quartetto nel<br />

corso della sua esistenza, anche lo split è passato<br />

sotto silenzio. Cosa privata era e tale è rimasta,<br />

come conferma Shawn Reed: Si, Raccoo-oo-oon ha<br />

chiuso i battenti l’anno scorso ma non l’abbiamo mai annunciato;<br />

è semplicemente successo, abbiamo vissuto la band<br />

intensamente per più di 4 anni ed era tempo che ognuno seguisse<br />

la propria via, le proprie cose…è stato naturale, come<br />

se avessimo inconsciamente realizzato che avevamo fatto tutto<br />

quello che dovevamo fare e che fosse saggio così.<br />

Così mentre la diaspora del procione è in atto spingendo<br />

i 4 membri ai quattro angoli degli States<br />

Il canto del procione<br />

come in una dispersione così fortemente a stelle e<br />

strisce (Andy è ora a Los Angeles, impegnato a tempo pieno<br />

nella scena artistica cittadina; Daren voleva trasferirsi a NY<br />

e ora l’ha fatto; io e Ryan Garbes viviamo ancora a Iowa<br />

City) non resta che ascoltare i 74 minuti pieni del<br />

personale swansong e da lì intraprendere un percorso<br />

a ritroso alla ricerca delle uscite precedenti e soprattutto<br />

minori del gruppo, come i 5 volumi della serie<br />

Mythos Folkways. Suddivisi equamente tra vinili<br />

e cassette mostrano il lato più selvaggio e sperimentale<br />

dei quattro; in alcuni casi con registrazioni in<br />

sede live devastanti – il Vol. IV, sottotitolato Future<br />

Visions – in altri in condivisione con spiriti<br />

affini, come nel caso del Vol. II – Pre-American<br />

Lands, pubblicato in vinile per Not Not Fun e splittato<br />

coi Woods. Oppure non resta che attendere<br />

le pubblicazioni del nuovo progetto di Shawn, da<br />

poco raggiunto da Garbes, a nome Wet Hair – più<br />

ossessivamente synth-drone-oriented – di cui testimonianze<br />

sono uscite (il 12” one-sided, la cassetta<br />

Irifi) e usciranno per Night People, etichetta di casa<br />

Reed con un catalogo che più strambo non si può.<br />

I Raccoo-oo-oon non esistono più. Lunga vita ai<br />

Raccoo-oo-oon.<br />

stEfano piffEri<br />

Nel giro dubstep c’è una spia che parla il verbo più tamarro<br />

e rinnegato della storia degli ultimi anni, l’ardekore. You<br />

know the score? Era l’anticristo di ogni afrofuturista techno<br />

che si rispetti e ora rivive in un album che punta dritto<br />

alla scienza del breakbeat… ma attenzione, in camuffa. La<br />

scorza è anche italo house e technotronik.<br />

Prendete uno del giro dubstep<br />

e fatelo andare in fissa<br />

con l’ardkore primi Novanta.<br />

Esatto. Proprio l’hardcore tamarrissima<br />

decantata da<br />

Reynolds, quella che ha ZOMBy<br />

ispirato al critico la famosa<br />

teoria del continuum secondo<br />

il quale il più vituperato<br />

genere dalla scena alla luce<br />

dei fatti era poi la chiave per<br />

mutare e reinventarsi come<br />

l’araba fenice. Fategli incidere<br />

un disco furbissimo che prende<br />

il meglio (o il peggio) di quei<br />

rush analogici e appiccicateci<br />

sopra un’etichetta che più<br />

paracula non ce n’è: dov’eri<br />

nel novantadue? La risposta<br />

è facile. Ero lì, proprio come<br />

lì c’era James Murphy nella<br />

famosa canzone e proprio<br />

come qui tra le mie mani c’è<br />

questo dischetto uscito a novembre<br />

2008 (Where Were<br />

You In ‘92?) che è una chicca<br />

assurda.<br />

Dentro, dice Mr Zomby, contattato<br />

istantaneamente via fido myspace, c’è tutta<br />

la jungle techno from u.k, o meglio il suo ombrellone chiamato<br />

‘old skool hardcore’. E se sei brit come dice lui non<br />

c’è scampo: jungle garage, hardcore, dubstep ecc. e tutto<br />

quel che c’è in mezzo, anche se il focus del disco è<br />

su gente mirata e da addetti ai lavori come Manix,<br />

Acen, 2 Bad Mice,Origination, Noise Factory, Hackney<br />

Hardcore, Lennie De Ice e etichette come Formation,<br />

Ibiza e Music House. Del resto dj o no tutti ci ri-<br />

troveranno qualcosa, dato che ci ascolti gli Orbital<br />

e i Nightmares On Wax laser verdi annessi, e gli<br />

LFO in gara per il basso più sismico come l’umidità<br />

colata dagli specchi mescolata alle deformazioni<br />

della cassa al girar di manopola. Quelle voci brekkate<br />

prese dall’hip-hop che credevamo trashy nella<br />

poco esclusiva accezione<br />

Snap! Technotronik e l’irritantissima<br />

balbuzie messa<br />

lì, da bambini cerebrolesi.<br />

E poi pure gli Orb, gli speaker<br />

KLF e le sirene Acid<br />

Nation. Tante sirene ein<br />

zwei polizei in remember<br />

degli scontri e delle retate<br />

del ‘92: l’anno della crociata<br />

governativa inglese antirave,<br />

l’act che avrebbe stangato<br />

tutti e riportato tutto<br />

nei club istituzionalizzando<br />

il suono di una generazione.<br />

Ci sono pure le tastieracce,<br />

quelle dei Black Box<br />

nella variante taglia e cuci<br />

di vocal che volgarizzavano<br />

per sempre il romanticismo<br />

di Derrick May, ficcandoci<br />

come un coltello in cuore la<br />

disco music di dieci e passa<br />

anni prima. Supercafona<br />

‘sta musica<br />

che puzza di<br />

club scalcinato;<br />

ma più dentro puzza<br />

di ghetto, di negroni New York old skool (sentitevi<br />

la compila di Van Helden - New York A Mix<br />

Odyssey 2). Quel kitsch che diede agli inglesi<br />

e agli europei tutti la voglia di sporcarsi le mani<br />

mentre oltreoceano gli intellettuali di Detroit atterrivano.<br />

Una nuova via per reinventare lo step<br />

inglese è tracciata.<br />

‘ardekore you know what i mean<br />

Edoardo Bridda E Marco Braggion<br />

6 / Turn On Turn On / 7


HARMONIC 313<br />

Grazie all’one man project 313, la Warp si riappropria<br />

dell’ambient che la fece conoscere al mondo intero con una<br />

sorpresa, l’hip hop. E tutti quei bass e break tornano a casa<br />

grazie a un magico brit finora rimasto in penombra.<br />

Sono anni che SA manda missive agli Autechre.<br />

Parola chiave e diktat: reinventarsi, hip hop, ripartire.<br />

Rasare daccapo. Via i vicoli ciechi del robo<br />

Cunningham. Via i rebus e i millennium bug. E sì,<br />

pure quel cazzo di snobismo oramai storicizzato e<br />

anni Ottanta che nessuno vuole. Oltrepiù è l’unica<br />

scelta artistica seria possibile, da artisti con le palle<br />

come direbbero i critics di Arte Fiera e Netmage,<br />

un ritorno a casa che non sappia di ripiego a seguire<br />

certi ritorni stimolanti, come l‘ardkore per il<br />

misterioso Zomby. Ma poi loro, gli Aut- li ricordate?<br />

Nacquero b-boy graffiti e skate. Sangue e pane<br />

del ghetto for real. Krautismo breakbeat stampo<br />

Warp. Label che ora fuori dal mucchio del pure<br />

electro ripesca magicamente le origini, si ricompone<br />

e anticipa un revival proprio sulle sue cose,<br />

prima che qualcuno soffi. Ma dicevamo hip-hop.<br />

Che sarebbero stati gli Autechre di Amber tra metalli<br />

e sincopi pre-dubstep senza il prezzemolo del<br />

battito? Già, ce lo dicevano pure gli Amari che sul<br />

prototipo del Bbeat si fondano tutti i Novanta. Ce<br />

lo diceva il Dariella prima B e ora electro-pop: “è<br />

tutta trasfigurazione (break)beat”. Da tutto questo<br />

e dalle sacrosante sentenze, attacchiamo anche un<br />

Quando le macchine spaccano<br />

piccolo rewind con un riflettore puntato Beastie<br />

Boys periodo tuta gialla robo, importante quanto<br />

il sottobosco 8bit che non buca la notizia ma non<br />

molla e si reinventa continuamente come il Virtumonde<br />

che infesta i PC. Poi voci. Vocoder grezzi,<br />

kraft senza werk lontani dalle sofisticazioni francofone.<br />

Voci tirate in grana grossa come i pixelloni<br />

che si vedono nelle pubblicità. E pure l’internet<br />

tutt’uno con il suono. Fateci un giro nella home di<br />

Harmonic. C’è il segmento del loro pezzo chiave<br />

in animazione grafica stile graffiti Warp. Sincopi<br />

che vanno lette come basic beat. Tonde e sorde.<br />

Giochino di voci I/O. Biglietto da visita di mr.<br />

Mark Pritchard, ovvero le palle di reinventarsi<br />

come uno dei più intelligenti hip-hopper strumentali.<br />

Lui che ha un passato di ½ Global Comunication<br />

e che giustamente si merita un bel riflettore<br />

puntato a fianco di Tom Middleton quello di Lifetracks.<br />

Non ci si era soffermati più di tanto in<br />

occasione del paio di EP usciti nel 2008 (EP One<br />

e Dirtbox 12) ma rimediare è facile con un disco<br />

come When Machines Exceed Human Intelligence,<br />

uno di quei lavori che reinventano il<br />

Warp sound più tech, rinfocolano il bbeat con dosi<br />

controllate di 8bit e ambient autistica. E per i più<br />

vibertiani c’è pure l’acid. 09=90. E pure la noia<br />

buona del bit quadrato.<br />

Edoardo Bridda E Marco Braggion<br />

Da anni l’americano Jem Cohen rappresenta un esempio di<br />

cinematografia “sul serio” indipendente che pare aver trovato<br />

ennesima conferma nell’uscita in dvd della riflessione sullo<br />

stato dell’unione Evening’s Civil Twilight In Empires <strong>Of</strong><br />

Tin.<br />

Chissà se c’è un nesso tra l’insediarsi di Barack<br />

Obama alla Casa Bianca e la quasi contemporanea<br />

uscita del dvd Evening’s Civil Twilight In<br />

Empires <strong>Of</strong> Tin. E chissà che in qualche modo<br />

serva a chiudere il capitolo su un decennio tra i<br />

più tristi in politica estera per gli Stati Uniti, col<br />

suo evidenziare errori e decadenza del (fu?) paese<br />

più importante del mondo. Anche così non fosse,<br />

si tratta in fondo di uno tra gli innumerevoli livelli<br />

di lettura di un’opera che fonde musica, letteratura<br />

e politica come in poche altre è dato sentire.<br />

Non poteva che essere altrimenti, visti i pezzi da<br />

novanta impegnati e cioè il regista fieramente indipendente<br />

Jem Cohen, il cantautore Vic Chesnutt,<br />

i post-apocalittici rockers A Silver Mt. Zion e l’ex<br />

Fugazi Guy Picciotto. L’ensemble che già si era<br />

trovato in sala per il meraviglioso North Star Deserter<br />

e che qui si trova a fornire - con l’ausilio dei<br />

newyorchesi Quavers - adeguato commento sonoro<br />

alle immagini. Basata liberamente sul romanzo<br />

The Radetzky March di Joseph Roth (propostagli<br />

dal “montanaro d’argento” Efrim Menuck:<br />

“La ragione autentica dell’interesse del libro stava<br />

nel fatto che questi sono tempi assai duri, special-<br />

JEM COHEN<br />

mente in America, sotto l’amministrazione Bush<br />

e dopo il 9/11.”) e commissionata dal Festival del<br />

Cinema di Vienna, la pellicola veniva proiettata<br />

a chiusura dell’edizione 2007 della rassegna. La<br />

sera stessa Cohen filmava l’esibizione ed eccoci<br />

oggi con in mano un dvd pesante come un mattone<br />

gettato dentro una vetrata; qualcosa che demolisce<br />

la barriera tra rockumentary e film d’autore<br />

attraverso metafore sociopolitiche aguzze e dolorose,<br />

secondo le quali il kaiser Francesco Giuseppe<br />

e “Mr. Dabliù” incarnano lo stesso timoniere di<br />

un vascello alla deriva. A tale scopo la macchina<br />

da presa indaga tra le pieghe della Vienna di oggi<br />

e che fu e lo stesso vale per New York, restituendo<br />

una metropoli-simbolo percorsa da ectoplasmi.<br />

L’uso del rallentatore e della velocizzazione tipici<br />

di Cohen congelano le emozioni per restituirle<br />

intatte nel loro potenziale evocativo e simbolico,<br />

siano esse sgranate istantanee prebelliche, seppiate<br />

intrusioni tra il centro città o panorami restituiti<br />

alle tinte vitali di ogni giorno. L’architettura si fa<br />

narrazione, pagina da indagare per leggere passato,<br />

presente e futuro. Sperando che quest’ultimo<br />

non sia come quella bandiera americana che, ridotta<br />

uno straccio di brandelli, sventolava sopra il<br />

“ground zero” nei giorni seguenti l’undici settembre<br />

di otto anni fa.<br />

giancarlo turra<br />

8 / Turn On Turn On / 9


ACTION BEAT<br />

Viene da Bletchley, nord-est di Londra, una delle<br />

sensazioni più vivide dell’attuale panorama indie<br />

del Regno Unito. Una appartenenza sentita che<br />

viene sbandierata sin dal titolo del comeback The<br />

Noise Band From Bletchley appena uscito per<br />

la neonata Truth Cult, sussidiaria della più nota<br />

Southern.<br />

Non una band in senso stretto, però, quanto piuttosto<br />

un collettivo piuttosto ampio e mobile che<br />

fluttua intorno ad un nucleo tutto sommato standard<br />

di almeno cinque membri. Quando però si<br />

tratta di salire su un palco, la formazione base si<br />

moltiplica fino a prevedere come minimo 3 chitarristi,<br />

un bassista e da 1 a 4 batterie. Intorno a<br />

questo core ruota di volta in volta una marea di<br />

collaboratori più o meno occasionali tra cui anche<br />

il drum-kit del nostro Bruno Dorella. Tanto per<br />

rendere l’idea, nelle sessions del nuovo album se<br />

ne contano almeno 10 tra chitarre, bassi, batterie,<br />

sax e trombe, come ci conferma Don McLean,<br />

col quale abbiamo fatto una lunga chiacchierata:<br />

«Non siamo una band classica, dato che ci adattiamo<br />

a situazioni differenti. Non abbiamo bisogno<br />

di un nucleo di membri, così se qualche membro<br />

regolare non può suonare un live è molto semplice<br />

farlo lo stesso. Nel nostro ultimo tour il nostro van<br />

si è rotto in Germania e abbiamo affittato un’auto<br />

suonando lo show successivo in Belgio. Quando<br />

però il van fu riparato, alcuni di noi dovettero tornare<br />

a recuperarlo a Leipzig e così abbiamo dovuto<br />

suonare l’ultimo show ad Amsterdam senza<br />

mezza band. È stato grande lo stesso!»<br />

Totale libertà, dunque. Approccio punk che si materializza<br />

in un assoluto distacco da canoni e codici.<br />

Libertà, una parola che tornerà spesso durante<br />

la conversazione e che si nasconde in ogni pezzo<br />

del collettivo: «Chiunque può suonare con AB e<br />

questo ci permette grande libertà e indipendenza.<br />

Per questo così tante persone hanno suonato con<br />

noi e permesso una così ampia libertà di suono»..<br />

Date queste premesse – collettivo aperto + attitudine<br />

free – sarebbe facile attendersi una potenza<br />

di fuoco impressionante. E invece ciò che stupisce<br />

maggiormente all’ascolto di The Noise Band<br />

From Bletchley è che cotanta artiglieria non si<br />

dedica, almeno in studio, ad un parossistico assalto<br />

sonico stordente e cacofonico come sarebbe lecito<br />

aspettarsi, bensì ad uno sviluppo focalizzato, controllato,<br />

quasi ragionato delle strutture che però<br />

nasce spesso in circostanze pressoché improvvisa-<br />

te: «Per il nuovo album abbiamo precedentemente<br />

jammato 3 pezzi in sede live (i pezzi sono High Action,<br />

Meat Head e Manic Face suonati nel live ripreso<br />

nell’artwork, nda) in modo da sapere cosa stavamo<br />

facendo. Le altre 9 canzoni sono totalmente improvvisate<br />

e assemblate in studio, anche se sono<br />

più corte, veloci e “song-oriented” rispetto alle<br />

precedenti. Considera che come AB non abbiamo<br />

mai provato; facciamo canzoni solo quando suoniamo<br />

live».<br />

Un discorso valido anche per il precedente<br />

1977-2007: Thirty Years of Hurt, then us<br />

Cunts Exploded, nei cui 6 pezzi l’aspetto improvvisativo<br />

è ancor più evidente; in virtù soprattutto<br />

di un atteggiamento più jam-oriented che<br />

genera un sound libero, informe, dilatato, ben rappresentato<br />

dalle cacofonie e dai vuoti cosmici dei<br />

16 minuti di Maximum Bletchley.<br />

Nel percorso sonoro del collettivo sono però riconoscibili<br />

un paio di capisaldi piuttosto evidenti:<br />

Sonic Youth e Glenn Branca «Siamo completamente<br />

fan di Sonic Youth e Glenn Branca; da lì<br />

proviene l’idea di accordare le chitarre in maniera<br />

differente». Le dissonanti accordature dei primi e<br />

i vortici ascensionali del secondo sono parte integrante<br />

del dna degli sgherri di Bletchley: l’ascendenza<br />

Daydream Nation cala come fall-out<br />

post-atomico sugli incastri strumentali solo apparentemente<br />

elementari di cui le partiture del collettivo<br />

sono piene; le ramificazioni ascensionali di<br />

Branca sfruttano la stratificazione delle chitarre<br />

per creare piccoli tornado noise, senza mai scivolare<br />

nell’accademico.<br />

Quello degli AB è però un percorso non circoscritto<br />

alla riproposizione, seppur personale, del sound<br />

di quelle pietre miliari; da quelle che sono le vere<br />

e proprie chiavi di volta per l’architettura sonica<br />

del collettivo, il suono di AB si allarga fino ad inglobare<br />

quanto di più rumoroso gli States abbiano<br />

prodotto nell’ultimo trentennio abbondante (scorre<br />

nelle parole di Don un bignami delle musiche<br />

rumorose Usa: «Stooges, Black Flag, Fugazi, Nirvana,<br />

Jesus Lizard, Swans, Big Black»). Il tutto, ov-<br />

viamente, suonato con strafottenza e supponenza<br />

tipicamente british alla Fall «Amiamo molto i Fall,<br />

specialmente quelli degli esordi…Live At The<br />

Witch Trials con la splendida Rebellious Jukebox»<br />

ma memore anche di altri momenti dimenticati e<br />

apparentemente fuori contesto, come Stone Roses<br />

e EMF «Cosa? You’re Unbelievable??? Unbeliev- Unbelievably<br />

Shite!!!»<br />

Nonostante le grasse risate di Don, l’ascolto della<br />

prima metà di Master Beat sembrerebbe dire il contrario.<br />

Cioè che a stratificarsi nel background di<br />

gruppi come questo sia una infinità di riferimenti<br />

più o meno consci agli stessi autori e che si riverberano<br />

in maniera latente nelle loro composizioni.<br />

Ecco così che dalle impalcature noise-rock in sovrapposizione<br />

emergono moloch apparentemente<br />

estranei come le aperture jazzy, i fiati che impreziosiscono<br />

e screziano il suono rendendolo schizoide,<br />

il motorik krauto che si accende all’improvviso<br />

oppure sorprendenti fascinazioni per drum’n’bass<br />

e musica africana. Se la prima trova giustificazione<br />

nelle parole di Don «tempo e ritmo sono controllati<br />

dal basso e dalla/dalle batterie…puntiamo<br />

sempre a beat dancey, un po’ come la d’n’b made<br />

in UK» la seconda sottolinea l’aspetto sciamanico<br />

che alcuni momenti più dilatati sembrano evocare:<br />

«Fondamentalmente siamo rockers che ascoltano<br />

underground noise shit e punk, ma amiamo ballare<br />

con James Brown, soul music, Motown e non è una<br />

novità dire che la musica nera, africana è la migliore<br />

musica sulla terra. […] Mi piace ascoltare musica<br />

africana come Konono N.1, e recentemente l’etiope<br />

Mahmoud Ahmed. C’è così tanta musica africana<br />

che devo ascoltare che spero, col tempo, possa influenzare<br />

gli AB».<br />

stEfano piffEri<br />

10 / Turn On Turn On / 11


©Leo Stefansson<br />

HJALTALíN<br />

Leggerezza e ironia, chamber indie pop e catchyness le caratteristiche<br />

degli Hjaltalín, nuova scoperta islandese.<br />

La definizione di sleepdrunk in slang inglese così<br />

recita: “Lo stato, dovuto alla mancanza di sonno, in<br />

cui si è talmente stanchi che le inibizioni si abbassano<br />

e i processi cerebrali si affievoliscono, proprio come se si<br />

fosse ubriachi”. E Sleepdrunk Seasons è il nome<br />

dell’album di debutto<br />

degli islandesi Hjaltalín,<br />

disco che ben<br />

fotografa la condizione<br />

di ebbrezza cui sopra,<br />

anche da un punto di<br />

vista musicale. Ci si<br />

trova allora davanti, in<br />

quest’album, a canzoni<br />

con massime variazioni<br />

in tempi e mood, uso<br />

di ampia strumentazione<br />

tra indie rock e pop<br />

orchestrale, e insieme<br />

un senso di estrema rilassatezza<br />

da festa tra<br />

amici, in cui si passa<br />

agevolmente da uno<br />

stato a un altro, dall’euforia<br />

alla rilassatezza<br />

alcolica e così via. Con<br />

una leggerezza piacevole<br />

e easy derivata dallo<br />

stare bene insieme, anche<br />

musicalmente. E in<br />

questo, una non scontata<br />

complessità musicale.<br />

D’altronde, l’apparente<br />

facilità del pop è cosa<br />

difficilissima da ottenere,<br />

si sa, frutto di intuizioni<br />

e talento nonché<br />

di fortunate e magiche<br />

alchimie. Chi sono allora<br />

questi newcomers del<br />

chamber pop nordico lo andremo scoprendo man<br />

mano, basti dire intanto, per ribadire il carattere<br />

di loro (apparente) easyness, che il gruppo messo<br />

su nel 2006 da Hogni Egilsson, fresco di studi di<br />

composizione, songwriter cantante e chitarrista di<br />

Reykjavik, nonché deus ex-machina del gruppo,<br />

è in origine destinato a un’unica esibizione. Evidentemente<br />

le cose vanno meglio del previsto e il<br />

Sleepdrunk Pop<br />

combo variegato, che oscilla dalle otto alle dieci<br />

persone, prosegue la sua attività. Accanto ai tradizionali<br />

chitarra basso batteria piano e tastiere,<br />

si affiancano i meno usuali fagotto, tromba, trombone,<br />

corno francese e clarinetto, e i più consueti<br />

violino, violoncello, fisarmonica, harmonium,<br />

banjo. E la voce imperfetta ma efficace di Hogni,<br />

un misto di Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens<br />

Lekman, doppiata dal lato femminile di Sigga (Sigríður<br />

Thorlacius), contribuisce a creare una definita<br />

alchimia di gruppo nonché un vero e proprio<br />

tratto distintivo armonico. Siamo dalle parti di un<br />

chamber pop impetuoso ma lirico molto vicino ai<br />

primi Arcade Fire, ai quali cominciano a essere<br />

ben presto paragonati. Il solito passaparola su Internet<br />

fa il resto, anche se il gruppo oggi non ama<br />

definirsi, con il senno di poi e con una certa punta<br />

di snobismo, “una internet band tipica”.<br />

L’incontro con il Morr-iano Benedikt Hermann<br />

Hermannsson alias Benni Hemm Hemm segue di<br />

lì a poco (e non si possono non notare le più che<br />

evidenti affinità tra le due band), mentre si cominciano<br />

a porre le basi per il disco d’esordio.<br />

Intanto il gruppo si tempra massicciamente dal<br />

vivo, e qui la formazione varia di numero a seconda<br />

delle esigenze e delle occasioni. Una mini orchestra<br />

la loro, che fa musica ben presto definita<br />

dalla critica locale “beautiful eclectic powerpop”,<br />

con descrizioni del tipo“suonano come se i Teletubbies<br />

avessero deciso di formare una band”, per<br />

il loro aspetto elfico e il potere immaginifico ma<br />

d’impatto delle liriche.<br />

A dicembre 2007 esce in Islanda il debutto Sleepdrunk<br />

Seasons, prodotto da Hermannsson insieme<br />

a Gunnar Tynes dei Múm, ed è da subito<br />

la consacrazione in patria, dove ricevono nel corso<br />

del 2008 numerosi riconoscimenti. Album d’esordio<br />

che nei primi mesi del 2009 è pubblicato nel<br />

resto d’Europa.<br />

Accade così che le fredde brume dei ghiacci nordici<br />

producono calde melodie laddove non ti aspetteresti,<br />

un equilibrio perfetto tra una base melodico<br />

ritmica beachboysiana e un’orchestrazione<br />

variegata, con uso massivo di cambio di tempi, alla<br />

maniera di mini suite tematiche (Goodbye July,<br />

cantata per metà in inglese e per metà in islandese)<br />

o colonne sonore classico-orchestrali (Kveldúlfur).<br />

Una passione nemmeno troppo nascosta per Bacharach<br />

e Hazelwood così come per la musica colta<br />

traspare da subito. Ed ecco ancora Jens Lekman<br />

e i Decemberists incontrare le voci e le variegate<br />

orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic Music),<br />

mentre gli ultimi Sigur Ros pop si uniscono alla<br />

sensibilità Antony (The Boy Next Door). Non sorprende<br />

quindi incrociare anche il barocco meno<br />

melodrammatico dei canadesi Stars (Debussy,<br />

Selur) e dei Belle & Sebastian più malinconici<br />

alla Drake (nell’intensa e melodica The Trees Don’t<br />

Like The Smoke). Nonché il pop eclettico degli Hidden<br />

Cameras e la complessità dell’immancabile<br />

(da citare in questi casi) Sufjan Stevens.<br />

L’unità tematica si ritrova anche a livello contenutistico;<br />

Sleepdrunk Seasons può essere definito<br />

un “concept album” atipico, ricco com’è di spunti<br />

ecologisti espressi anche in modo giocoso e non<br />

forzato (così in The Trees Don’t Like The Smoke: “Put<br />

that cigarette out for the trees/ and if you’re so sure that it’s<br />

alright, then why don’t you say it out loud to the trees?”),<br />

dettagli cinematici ed impressionistici alla maniera<br />

di una soundtrack, anche se molto spesso, più<br />

che le parole, piuttosto centellinate, è il carattere<br />

prettamente evocativo della musica ad esprimersi<br />

pienamente.<br />

Un gruppo potenzialmente in grado di dare molto<br />

e ce lo dirà il tempo a questo punto. Intanto non<br />

si può non godere, ancora una volta, delle melodie<br />

cristalline e della magia del loro pop.<br />

tErEsa grEco<br />

12 / Turn On Turn On / 13


dälek<br />

- Marco Braggion<br />

<strong>Of</strong> f -HO p<br />

Il ritorno del doom per due degli hip-hoppers più duri del momento. L’uscita del nuovo album<br />

e qualche riflessione sulla contemporaneità direttamente dalla strada. dälek: il nuovo<br />

incubo dal New Jersey.<br />

Cos’è diventato l’hip-hop? I Dälek ne parlano<br />

nel loro nuovo album Gutter Tactics (recensito<br />

in questo numero): il genere è un magma<br />

ribollente che attinge da qualsiasi fonte sonora o<br />

linguistica. La voglia di innovare non si è affievolita.<br />

Il duo -formato dall’MC Will Brooks e dal<br />

produttore Oktopus (coadiuvati nella prima parte<br />

del loro percorso dal turntablista Still)- è attivo dal<br />

1998. I due si trovano immersi fino alla gola nella<br />

pre-millennium tension profetizzata dal santone<br />

Tricky. Era la stagione del doom: etichette che<br />

proponevano un hip-hop ‘sperimentale’, avant. I<br />

nomi sulle copertine dei giornali musicali erano<br />

Anticon, El-P e cLOUDDEAD. I drones del rock<br />

e dell’elettronica, che avrebbero fatto la fortuna dei<br />

Radiohead, sfociavano improvvisamente nel ritmo<br />

urban per eccellenza. Oggi che di mesh ne siamo<br />

pieni, queste estetiche suonano normali, a tratti<br />

scontate. E non ci sorprendiamo più degli accostamenti<br />

inusuali. Il problema è uscire dal binario pur<br />

restando vicini all’ortodossia del genere. Senza ovviamente<br />

perdere la reputazione. Fedeli alla staticità<br />

che premia solo i più decisi, i più ‘massicci’, come si<br />

dice in gergo.<br />

Il duo da Newark (New Jersey) esordisce con una<br />

pletora di collaborazioni ed EP. Il primo è Negro,<br />

Necro, Nekros EP (1998). Un esperimento che<br />

esce dalla stagione post-hardcore e che si fonde<br />

con le estetiche cut’n’paste della Mo’ Wax e con lo<br />

Shadow più illuminato. Ma è in combo con Tech-<br />

no Animal nel Megaton & Classical Homicide<br />

EP (2002) che si avverte un segnale forte. Quattro<br />

tracce che mostrano la ‘shape of hip-hop to come’,<br />

la visione futurista che è ancor oggi il loro biglietto<br />

da visita: suoni lunghi, drones alieni mescolati a<br />

ritmiche old school. Vecchio e nuovo che collidono<br />

per far avanzare lo stile. Lo stesso anno, dopo<br />

quell’antipasto che ci aveva fatto venire l’acquolina<br />

in bocca, arriva il botto.<br />

L’album sulla lunga distanza si chiama From Filthy<br />

Tongue of Gods and Griots. Divinità e cantori<br />

africani sono la giusta cornice per entrare in<br />

una visione che ancor oggi spaventa per la potenza<br />

e per la freschezza del suono. Bordate del calibro di<br />

Spiritual Healing hanno la cattiveria del metal melvinsiano<br />

e la grazia della strada, tracce lunghe come<br />

l’incubo Black Smoke Rises ci fanno capire che non<br />

c’è compromesso. Il duo ha già il suono in tasca.<br />

Ha già in mente le visioni electro-ambient dei Boards<br />

of Canada, mescolate a suoni industriali à la<br />

Nurse With Wound e a un vago sapore etnico che<br />

non si eclissa in sterili elitarismi. L’esordio li lancia<br />

sull’olimpo delle classifiche; li si cataloga come hiphoppers<br />

solo perché vengono usate le basi in quattro.<br />

Ma sotto il vestito (ritmico) c’è molto di più.<br />

Due anni dopo li troviamo infatti al fianco dei<br />

Faust. Il combo krauto che va oltre la storia del<br />

rock. In Derbe Respect, Alder (2004) esplode<br />

la visione affine al sentire europeo. E non sai chi<br />

stia facendo cosa, se i maghi della psichedelia si<br />

stiano prendendo gioco dei pischelli americani o<br />

se proprio qui l’hip-hop si stia rivoluzionando nello<br />

sgretolamento di tutte le certezze; perché non<br />

c’è un pattern ritmico che segni la strada, non c’è<br />

un minuto in cui possiamo sentirci sicuri di quello<br />

che succederà. Più che un disco, questo split ci<br />

conferma il fatto che i ragazzi non scherzano. Da<br />

qui in poi non è più solo old school. Si passa alla<br />

maturità.<br />

Absence (2005). Il disco che fa i conti con i classici.<br />

La pietra che scava nella storia hip-hop e che<br />

inserisce la freschezza degli esperimenti sonori.<br />

Un lavoro coraggioso: proprio quando l’attenzio-<br />

ne sta calando sulla scena, la crew si fa notare con<br />

l’arte della calibratura perfetta di vecchio e nuovo.<br />

Il rapping incazzato dell’MC che si districa attraverso<br />

muri chitarristici in Asylum e i sample cupi<br />

nell’inno che è Culture for Dollars; le cronache dal<br />

dopobomba narrate nell’ambient sinuosa della titletrack<br />

o nei paesaggi glitch di Koner ci fanno capire<br />

la qualità di un combo che non ha mollato la<br />

corda davanti al compromesso e che sa di poter<br />

scuotere ancora per molto il pianeta del ritmo.<br />

Poi la strada è tutta in discesa. Nel 2007 Abandoned<br />

Language e la raccolta di B-sides Deadverse<br />

Massive consacrano il gruppo come alfiere di<br />

una ortodossia creata sul campo e sul palco. Gente<br />

che si è costruita faticosamente un seguito, senza<br />

aver bisogno di sponsor o di raccomandazioni.<br />

Scostanti, scivolosi e sfuggenti. Data l’impossibilità<br />

della catalogazione, l’anarchia nella scelta della<br />

proposta sonora è ormai d’obbligo. Loro sanno di<br />

dover fare quello che sentono senza dover rendere<br />

conto a produttori o a etichette. Solo a se stessi e a<br />

noi che li seguiamo. A noi, fan stupiti che ci siano<br />

ancora delle sorprese dietro la grancassa e l’hi-hat.<br />

Per toglierci gli ultimi dubbi siamo andati a sentire<br />

direttamente uno dei protagonisti. L’intervista<br />

telefonica con l’MC Will Brooks in esclusiva per<br />

SentireAscoltare.<br />

Con il tuo lavoro hai cambiato la prospettiva<br />

che guarda all’hip-hop. Il genere oggi<br />

è difficilmente definibile dai critici. Pensi<br />

di aver spostato il limite musicale o di aver<br />

mantenuto le radici?<br />

Per me l’hip-hop è quello che faccio, quello con cui<br />

sono nato e cresciuto, è la mia cultura. Scelgo suoni<br />

differenti rispetto ad altri artisti, ma l’hip-hop è<br />

sempre stato questo, è sempre stato così: spostare i<br />

limiti e usare suoni nuovi. Poi è anche diventato un<br />

affare commerciale, ma sicuramente queste operazioni<br />

non servono a creare cose nuove.<br />

L’hip-hop è nato come una cosa di strada e<br />

-come dici tu- poi è passato anche al com-<br />

14 / Tune In Tune In / 15


merciale. Sì è persa definitivamente la realness?<br />

No. C’è ancora. Penso che l’hip-hop rimanga comunque<br />

hip-hop, cioè questa evoluzione non mi<br />

sorprende. Puoi trovare buona musica anche nella<br />

parte commerciale,<br />

e anche ovviamente<br />

nella parte<br />

underground.<br />

In Europa ci<br />

sono molte crew<br />

che stanno mescolando<br />

suoni<br />

diversi: banghra,<br />

hip-hop,<br />

electro, etc.<br />

pensi che questo<br />

mix di suoni<br />

sia la next-bigthing?<br />

Mixare i suoni è<br />

quello che io chiamo<br />

hip-hop! Non<br />

c’è niente di nuovo.<br />

Scoprire nuovi suoni<br />

e metterli assieme<br />

in una canzone. Il<br />

cuore dell’hip-hop<br />

è sempre stata la<br />

scoperta di sample<br />

da dischi o da film<br />

e il loro riassemblaggio.<br />

Pensa alle<br />

prime canzoni. Venivano usati anche samples dei<br />

Kraftwerk: è la mentalità che sta da sempre dietro<br />

l’hip-hop.<br />

Il mood che sta sotto alle tue canzoni è<br />

sempre molto oscuro.<br />

Secondo te si connette con il dubstep?<br />

Ascolti dubstep?<br />

No, non molto.<br />

Pensi che questo modo che hai di descrivere<br />

la realtà sia condizionato dai tempi in<br />

cui vivi?<br />

È una domanda soggettiva, dipende sempre<br />

dall’esperienza di ognuno, da che tipo di vita vivi,<br />

da dove provieni.<br />

Ascoltando il tuo<br />

nuovo album ho<br />

percepito due<br />

prospettive diverse.<br />

Una più<br />

focalizzata sul<br />

suono e l’altra<br />

sui testi. Come<br />

lavori? Che cosa<br />

influenza cosa?<br />

Dipende da canzone<br />

a canzone.<br />

Ma comunque<br />

non è il suono che<br />

influenza i testi o<br />

viceversa. Si tratta<br />

di costruire una<br />

canzone nel suo<br />

complesso. I testi<br />

e la musica si influenzano<br />

a vicenda.<br />

Ovviamente i<br />

testi sono importanti,<br />

ma allo stesso<br />

tempo riflettono<br />

il mood dei suoni.<br />

Nessuna delle due<br />

componenti prevale sull’altra. Non ci sono regole<br />

ben definite.<br />

L’album è su Ipecac, l’etichetta di Mike<br />

Patton. Perché hai scelto questa etichetta?<br />

Conosci Patton o lavori con lui?<br />

Non ho mai lavorato con lui ma penso che la sua<br />

etichetta sia “open minded”, dà all’artista tutta<br />

la libertà che vuole. Puoi fare ciò che vuoi, quin-<br />

di penso sia una buona opportunità lavorare con<br />

un’etichetta del genere.<br />

Nei tuoi album parli spesso anche di politica.<br />

Scusa l’ovvietà della domanda, ma<br />

cosa ne pensi di Obama? Pensi che ci sarà<br />

davvero un cambiamento?<br />

Probabilmente è significativo. Penso sia grande<br />

che sia stato eletto Obama. Ma nello stesso tempo<br />

non penso che un presidente possa cambiare così<br />

tanto in 4 anni. Sono felice e orgoglioso, ma non<br />

sono stupido. Non penso che una persona possa<br />

cambiare l’intero sistema.<br />

Pensi che la tua musica ‘politica’ possa<br />

cambiare qualcosa? Perché scrivi se il sistema<br />

non cambierà?<br />

Non la vedo come musica ‘politica’. La ragione per<br />

cui scrivo musica è perché ho bisogno di qualcosa<br />

per esprimere le mie frustrazioni, i miei sogni o<br />

altro. Non penso che con questa musica cambierà<br />

qualcosa, Se la gente cambia ascoltandola certo<br />

sono il primo ad essere contento, e questa è una<br />

delle qualità della musica, ma non è lo scopo con<br />

cui la scrivo.<br />

Verrai in Italia per un tour?<br />

Certo, ci sono stato qualche mese fa e di sicuro ci<br />

tornerò! Non so ancora quando, ma sta sicuro che<br />

tornerò.<br />

Molte delle tue canzoni sembrano musica<br />

adatta per qualche film. Hai mai pensato<br />

di scrivere colonne sonore?<br />

Certo! Abbiamo già fatto qualcosina e probabilmente<br />

nel futuro scriveremo qualcos’altro per<br />

film.<br />

Hai qualche progetto per il futuro? Un nuovo<br />

album?<br />

Abbiamo due album su cui stiamo lavorando, ma<br />

adesso siamo in tour, quindi torneremo a lavorarci<br />

da marzo fino alla fine dell’anno.<br />

16 / Tune In Tune In / 17<br />

© Alexandra Momin


CirClesquare<br />

Be r l i n em o t r o n i c a<br />

- Marco Braggion<br />

MoM e n t s in lo v e<br />

La lacrimuccia sul dancefloor ci mancava. Che<br />

siano le tonnellate di break o di acidità ad averci<br />

un po’ saturato le notti sul dancefloor non lo possiamo<br />

dimostrare, ma il riprendere in mano le briglie<br />

della melodia di tanto in tanto ce lo possiamo<br />

pure concedere. Dopo essere stati prigionieri delle<br />

camere dubstep e dell’ambient da decompressione<br />

ci mancava l’emozione. Ovvero il sentimento tutto<br />

80 che due decadi fa veniva sprimacciato con tonnellate<br />

di paillettes sulle classifiche del pianeta e sugli<br />

aperitivi della Milano da bere. Quella sensazione<br />

è mutata dopo il crollo del muro, nelle camerette<br />

che la Morr ha abilmente nutrito con le sue sonorità;<br />

il cuore pulsante che nella disco di classe è sempre<br />

stato soul (vedi l’ultimo paladino Erlend Øye),<br />

nella bianchissima Europa da un po’ di tempo non<br />

trovava più casa se non in qualche uscita infelice e<br />

ripetitiva.<br />

Gli alfieri di quelle cavalcate epiche sono gli Apparat<br />

e i Röyksopp (nord e ancora nord). La loro è<br />

una visione che colpisce la pancia e che punta sulla<br />

voce. Con i primi si recuperano le lezioni tecniche<br />

di warpiana memoria, remiscelate nelle vocals che<br />

bilanciano il diabolico battito in quattro. Un intimismo<br />

che non si guarda le scarpe, ma che alza la<br />

testa e fa vibrare. Cose che scuotono, come l’Arcadia<br />

(nella storica versione remiscelata dai Telefon<br />

Tel Aviv), un mondo ideale da cui non vogliamo<br />

scendere, o quell’inno che è da sempre uno dei capisaldi<br />

del minimalismo: Queer Fellow (magari nella<br />

versione con Ellen Allien). Con i secondi invece<br />

andiamo in direzione pop, quella perfezione che<br />

ci annienta perché non ha una direzione, bensì la<br />

sensazione romantica delle pianure sconfinate, gli<br />

abissi che solo dal nord Europa si possono ammaestrare.<br />

I vuoti e i silenzi di una terra che non ti regala<br />

niente. La meditazione che ti porta a cercare<br />

nuovi universi nel tuo io.<br />

Dopo i fondatori, lo scettro passa a quel Patrick<br />

Wolf, il nuovo Bowie, che qualche anno fa ha<br />

sorpreso le piste da ballo e le passerelle di mezzo<br />

mondo. Un’estetica fatta di synth pop almon-<br />

diano remiscelato rave e dunque step che guarda<br />

furbescamente al rock mentre dal taschino spunta<br />

l’electro da cameretta che fa zero zero come non<br />

mai. Cose che fanno innamorare le girls e che fanno<br />

arrossire i boys (ma anche no). E da qui sarà<br />

anche (vedi il riferimento al Duca) sempre più stile.<br />

Sempre più fashion.<br />

La parabola romantica è sempre al confine col<br />

kitsch, perché se non la si prende sul serio la melancolia<br />

sovrasta chi la canta, eppure quando qualcuno<br />

riporta i remi in barca e sa il fatto suo, allora<br />

si sbanca. Un nome. Kings of Convenience.<br />

Ovvero saper guardare furbescamente a Simon &<br />

Garfunkel, fotografarsi slavati sixties style, apparire<br />

sempre in coppia. Aggiungi qualche color pastello<br />

e qualche atmosfera fumè, l’aria distaccata di chi<br />

sa far parlare di sé entrando di diritto nel magma<br />

pop, magari con qualche esotismo nerdy che ricorda<br />

la canzone d’autore ed è fatta, specie se la metà<br />

della coppia di Bergen è il citato Øye, uno che da<br />

solo si è consacrato ‘The Voice’ in fatto di singing<br />

disco pop, salvo ora ritrovare una sua dimensione<br />

suonata con Whitest Boy Alive. Sempre nerd ma<br />

indie soul appalla.<br />

E poi, continuando la passerella, ancora gli Air e gli<br />

esperimenti di eccellenza di Darkel. La francesità<br />

che non è solo confinata al touch da ballare, ma che<br />

sforna icone che stanno in piedi da sole sul palco.<br />

Gente che fa (la) scena. Giacca e occhiali uberchic<br />

che si fanno chiamare Sebastien Tellier. Le sue<br />

rimembranze che pescano (ancora) dall’immaginario<br />

gainsbourghiano ma alle quali s’aggiungono<br />

glitch e tastiere, una tradizione vieppiù rivisitata di<br />

macchine e cuori che chiamale se vuoi emo perché<br />

parliamo di una combriccola eterogenea di personaggi<br />

che puntano altezza petto e vivono senza<br />

troppi bassi, senza il fumo dei tombini NYC. E sono<br />

gli artisti più posh di tutta la ciurmaglia soul d’oltreoceano,<br />

prescindono dalla street culture e amano<br />

lo studio di registrazione. A molti piace questo<br />

atteggiamento snob. Un po’ retrò, un po’ cool che<br />

appunto ‘fa fico’, sicuro di accaparrarsi la copertina<br />

o la prossima passerella di turno. A parte Wolf e<br />

18 / Tune In Tune In / 19


Øye, vecchi artisticamente ma non di passaporto,<br />

l’età anagrafica va sotto il ’76 e, a guardar bene, di<br />

nuovi adepti non ce ne sono poi molti.<br />

Fino a ieri. Oggi infatti giriamo tra le dita la confezione<br />

cd di nuovo ragazzo dal cuore d’oro. Jeremy<br />

Shaw in arte Circlesquare.<br />

Qua d r a r e il ce r c h i o<br />

È la !K7 del benemerito Herbert a portare sulla<br />

bocca di tutti questo ragazzo canadese. L’etichetta<br />

berlinese torna sulle orme del mid-tempo e ci fa<br />

ricordare in un deja vu estraniante le mitiche Sessions<br />

di Kruder & Dorfmeister. Paragonare il nuovo<br />

pupillo ai due DJ non è esagerato. Anche loro<br />

ci davano di elettronica e di digitale, ma sapevano<br />

distillare l’essenza che punta allo stile direttamente<br />

dalle menti dei remixatori. Quelle tracce che trasudavano<br />

un calore mai provato e che stavano bene<br />

nei salotti dei parties più patinati.<br />

Dopo quasi 10 anni, lasciamo da parte il piatto e ci<br />

andiamo di analogico. Si torna in studio ma si suona<br />

e si canta. Perché Jeremy non fa il solito disco<br />

impostato sul 4. Jeremy ci fa respirare con vocalizzi<br />

fluidi, senza salti, una melodia cullante e piena di<br />

riferimenti dark-gothic in stile Close To Me. I Cure<br />

pop delle basi synth lanciate all’immortalità.<br />

Lui arriva dal Canada e si racconta al telefono dalla<br />

capitale tedesca. “ho vissuto a Vancouver per quasi<br />

tutta la mia vita dove era molto difficile per la mia band<br />

andare in tour. A Berlino ho avuto piena libertà d’azione”.<br />

E infatti, in Europa, si tuffa mani e braccia in un<br />

ricordo post Modest Mouse filtrato con l’electro.<br />

Di fatto un ripristino degli strumenti in chiave minimal<br />

ma con radici non proprio indie. “La mia è<br />

una minimal con elementi acustici, ma penso che l’influenza<br />

maggiore provenga dalla musica folk. Gente come Leonard<br />

Cohen, più che gruppi indie. Forse qualcosa di minimal<br />

techno e di drum’n’bass, ma il riferimento principale<br />

è sempre Cohen. Più folk che elettronica”. E la trama si<br />

infittisce: Shaw viaggia infatti attraverso i territori<br />

più disparati, elettronica e mesh innestati nella<br />

post-minimal. Un cuore che pulsa dark-folk e tutto<br />

ciò si riflette nella produzione di Songs About<br />

Dancing And Drugs (SA N°50), un album nato<br />

dalla collaborazione triennale con Colin Stewart.<br />

“Lui ha uno studio a Vancouver (The Hive). Ha lavorato<br />

con i Black Mountains, i New Pornographers e altre<br />

band valide. Visto che volevo usare molti suoni di batteria e<br />

di chitarra registrati dal vivo nel mio ultimo album, lavorare<br />

con lui è stata la scelta più ovvia. Lo conosco perché ho un<br />

amico che stava in una band negli anni 90 (i Beans, una<br />

band post-rock) a Vancouver. Loro registravano sempre in<br />

quello studio, così l’ho incontrato”.<br />

Acustico barra elettro sembrano essere il marchio<br />

di fabbrica delle produzioni Circlesquare. Già in<br />

Pre-Earthquake Anthem (Output Recordings,<br />

2003) senza troppo clamore aveva mescolato Badalamenti<br />

e Joy Division, eppure nel lavoro a sorprendere<br />

è la semplicità e la freschezza.<br />

“Non so se sono più minimal o acustico. Dipende dal giorno<br />

della settimana [ride]. Ascolto sicuramente più rock’n’roll.<br />

Se dovessi fare la top ten dei dischi di sempre, penso ci metterei<br />

solo un album di elettronica pura. Ma penso che dal<br />

punto di vista estetico, visto che lavoro molto con tools elettronici,<br />

sono più orientato verso l’electro. Non so, in fondo<br />

quello che mi piace sono le belle canzoni”. L’ago della<br />

bilancia, insomma. Tanto per capire cosa ha in testa<br />

ci dice che ultimamente sta ascoltando molto<br />

“i Deerhunter, Conrad Black e dei remix di Patrick<br />

Wolf ”. Un bel miscuglio di electro mutante<br />

ma sempre con le canzoni là a farla da padrone.<br />

Si torna a cantare gli diciamo e lui risponde sicuro<br />

sul fatto che corsi e riscorsi tra disco e non disco<br />

dell’elettronica cantata sono normali. Del resto<br />

le pietre miliari restano i grandi gruppi. “Sono un<br />

grande fan dei Depeche Mode. E penso di avere una strategia<br />

simile agli Apparat o B. Fleischmann. In poche parole<br />

usare lo sile techno nella musica pop”.<br />

Avremo modo di vederlo anche in Italia (sarà probabilmente<br />

da supporto ai Junior Boys) e di sentirlo<br />

in un prossimo remix per Matthew Johnson e<br />

Patrick Wolf a cui sta lavorando.<br />

Insomma, da quanto abbiamo capito questo SADAD<br />

è uno dei punti di svolta per la Berlino minimal. Basta<br />

con le tastierine. Torniamo a quei cari e vecchi<br />

amplificatori analogici e rilassiamoci. La lampada<br />

in copertina ci ricorda il modo di aspirare la metanfetamina,<br />

che appunto molti ragazzi americani inalano<br />

usando pezzi di lampada rotta. Un ritorno al<br />

sintetico da camera. Per il nuovo sballo ritorniamo<br />

tutti a sognare sul materasso. Songs… è la miccia che<br />

scatenerà la rivoluzione. Ne siamo sicuri. Segnatevi<br />

l’appuntamento al Fabric, il 24 gennaio.<br />

20 / Tune In Tune In / 21


mi m e s of Wi n e<br />

im m a g i n i in m o v i m e n t o<br />

- Stefano Solventi<br />

Il pianoforte e la voce di Laura Loriga tornano a casa portando in testa e nel cuore immagini di altri tempi e altri spazi.<br />

La California, Parigi, Bologna: un triangolo tanto improbabile quanto plausibile oggi che nulla è incolmabile, che tutto è<br />

mobile, in ogni direzione/dimensione. Una sfida difficile ed esaltante per chiunque abbia voglia di catturare queste immagini<br />

in movimento.<br />

Un fantasma si aggira nell’occidente globalizzato,<br />

atomizzato, apolide. E’ un’inquietudine<br />

febbrile, è un andare avanti comunque anche se di<br />

colpo non riesci a vedere la strada, è un voltarsi che<br />

spedisce i rimpianti e le angosce in un futuro che<br />

sai irrinunciabile. Irreversibile. Forme e movenze<br />

antiche imbastiscono teatrini di sconcertante modernità.<br />

Di cui senti l’urgenza ora e qui. Lo hanno<br />

chiamato pre-war folk, ma è un’etichetta che<br />

si è presto rivelata angusta rispetto alla ricchezza<br />

espressiva di una Joanna Newsom, dell’immancabile<br />

Devendra Banhart, delle ineffabili Cocorosie<br />

e persino di una PJ Harvey inaspettatamente<br />

– ma emblematicamente - gothic.<br />

Pensavo questo ascoltando l’ep d’esordio dei <strong>Mimes</strong><br />

<strong>Of</strong> <strong>Wine</strong>, moniker dietro cui agisce Laura Loriga,<br />

pianista e cantante, nata a Bologna (dove ha<br />

fatto parte dei post-rockers Lanark) ma con base<br />

anche a Parigi e in California (dove ha dato vita al<br />

trio elettroacustico While They Sleep..).<br />

Impressiona la forza e la complessità ammaliante<br />

dei pezzi, di cui lei stessa è autrice. Il piano e la<br />

voce si dannano in un’interpretazione senza sconti,<br />

strattonati tra allucinazioni folk-blues da camera,<br />

perniciose fatamorgane post-jazz, in un frullare<br />

di percussioni e ottoni, tra imprendibili folate elettroniche,<br />

nell’andirivieni di corde che ghignano e<br />

carezzano. Un sound notevole, sviluppato dall’incontro<br />

con Enzo Cimino dei Mariposa e Adriano<br />

Modica (un altro di cui varrebbe la pena parlare),<br />

quindi con Francesco Begnoni e Zeus<br />

Ferrari, già Juniper Band e You Should Play<br />

In A Band. Soprattutto, c’è la sensazione di qualcosa<br />

che sta ancora crescendo, in bilico tra antico<br />

insopprimibile e futuro prossimo. Non potevamo<br />

lasciarci sfuggire l’occasione di intervistarla.<br />

<strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong> è un modo per nasconder-<br />

ti dietro ad un progetto o unprogetto da<br />

perseguire oltre al tuo essere musicista e<br />

cantante?<br />

Una cosa ha portato all’altra. Nascondermi dietro<br />

ad un nome che non è il mio ha forse messo<br />

la musica un po’ in primo piano rispetto alla mia<br />

persona, e questo mi ha aiutato perché volevo che<br />

chi avrebbe fatto parte di <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong> con me<br />

si potesse sentire libero di giocare con forme ed<br />

elementi quanto me. “<strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong>, apocalypse sets<br />

in..” sono i primi due versi di una poesia scritta da<br />

un mio amico, Amir, e ancora adesso mi piacciono<br />

ogni volta che li penso.<br />

Francesco e Zeus della Juniper Band sono<br />

oggi con te nei M.O.W., in passato hai lavorato<br />

con Enzo Cimino dei Mariposa e<br />

Adriano Modica: tutta gente in cerca di<br />

sonorità desuete però non estreme, selvatiche<br />

ma ad altezza d’uomo, tra frugale e<br />

sperimentale. Quanto sono stati difficili, e<br />

perciò preziosi, questi incontri?<br />

Tutti questi sono stati e sono ancora incontri preziosi.<br />

Per quanto diversi possano essere l’approccio<br />

di Francesco e Zeus da quello di Enzo o Adriano,<br />

tutti loro sono stati disposti ad ascoltare molto fin<br />

dal principio, e a venirmi incontro ognuno a modo<br />

suo moderando a volte le mie scelte, e a volte rendendole<br />

meno consuete. Con Enzo ed Adriano ho<br />

cominciato ad apprezzare il suono di ogni singolo<br />

campanellino, corda, respiro, rumore, e a mettere<br />

insieme le cose partendo da elementi piccoli, a<br />

volte a malapena udibili. Questa parte mi ha appassionato<br />

molto, infatti anche ora quando compongo<br />

da sola utilizzo lo stesso metodo.<br />

Con Francesco e Zeus invece ho imparato come si<br />

possono creare delle atmosfere che accompagnino<br />

ogni pezzo dall’inizio alla fine, come creare soli-<br />

22 / Tune In Tune In / 23


dità, e come sentire strati di suoni diversi influenzarsi<br />

a vicenda e impregnarsi l’uno dell’altro come<br />

spugne una sull’altra. Non ci sono state grandi<br />

difficoltà in nessuna di queste circostanze, forse<br />

perchè abbiamo sempre cercato subito un punto<br />

di comunicazione da cui partire. Il fatto che tutti<br />

questi musicisti siano sempre pronti a cercare il<br />

suono giusto per ogni particolare, avendo anche<br />

cura del significato che questi possono assumere<br />

a livello di ascolto immediato, credo abbia aiutato<br />

nella creazione di zone d’intersezione con il lavoro<br />

che io avevo fatto da sola.<br />

Credo ci sia ancora molto da poter fare con ognuno<br />

di loro, in un futuro più o meno prossimo..<br />

Hai vissuto a Parigi, a Santa Barbara in<br />

California, a Bologna. Che conseguenze ci<br />

sono sulle tue coordinate artistiche?<br />

In California ho incontrato musicisti che sono anche<br />

ora molto importanti per me a fianco di quelli<br />

italiani, e che mi supportano anche quando sono<br />

qui. Se ho imparato un po’ a stare su un palco, a<br />

trasmettere tutto il possibile, a farlo con semplicità<br />

e poca paura lo devo a questo strano paese, a San<br />

Francisco e Los Angeles, che negli ultimi due anni<br />

mi ha fatto impazzire dandomi però tantissimo. L’<br />

ottimismo, la creatività, e l’apertura dei musicisti<br />

che ho ascoltato e conosciuto hanno influenzato<br />

ogni cosa che ho scritto, e buona parte dell’album<br />

è stato pensato lì.<br />

A Parigi ho fatto molti meno concerti ma ho camminato<br />

molto. Mi veniva voglia di fermarmi e<br />

scrivere tutto il tempo, pensando a tutti quelli che<br />

sono passati per quelle strade prima di me. Infine<br />

ho portato via con me un pochino di swing... Bologna<br />

è casa, e credo che in fondo parta tutto da qui,<br />

dalla decisione di comporre cose mie, fino al tipo<br />

di sonorità che finora ho scelto. Non ho raggiunto<br />

una grande saggezza, però ho cominciato a pensare<br />

che forse la musica davvero può non avere territorio<br />

e che può diventare davvero quello che si<br />

vuole, almeno in parte.<br />

Nel tempo mi è venuta la voglia di scrivere mille<br />

cose vicine a generi, posti e persone diverse, e <strong>Mimes</strong><br />

of <strong>Wine</strong> è il risultato della combinazione di<br />

alcuni di questi tentativi.<br />

Le canzoni del tuo ep mettono il dito nella<br />

piaga tra avanguardia e tradizione, con<br />

tutto quel che sta nel mezzo. C’è margine<br />

di manovra per sentirsi popular? Ovvero:<br />

quando fai musica ti rivolgi al più vasto<br />

auditorio possibile o ti senti destinata ad<br />

un pubblico di nicchia?<br />

Spero che questa piaga non sia così dolorosa, e che<br />

ci sia molto spazio tra questi due estremi per me<br />

come per molti altri. Non riesco a immaginare un<br />

pubblico di nicchia, forse perché non saprei bene<br />

con che criteri definirlo. Mi piace pensare che ci<br />

sia ancora voglia di ascoltare (anche perché questo<br />

mi da molta più voglia di scrivere e di fare del mio<br />

meglio) e ho fiducia nelle orecchie altrui, come<br />

credo ne abbiamo avuta tutti i musicisti che ammiro<br />

di più, cercando di creare la musica che volevano<br />

sentire.<br />

Tra le Newsom e le Hyvonen, lanci evidenti<br />

allusioni alle performance saturnine della<br />

Galas e della prima Harvey. Poi c’è quella<br />

fregola jazz venata bossa che ammicca al<br />

post moderno di una Cibelle. Cosa ho azzeccato?<br />

Cosa ho colpevolmente lasciato<br />

fuori?<br />

Vedo anche io alcune di queste somiglianze che<br />

perciò mi sembrano azzeccate, però la maggior<br />

parte delle mie allusioni sono tuttora inconsapevoli.<br />

Di alcune mi sono accorta dopo aver scritto,<br />

su altre mi stai facendo riflettere ora tu... Mi<br />

sono riseduta al piano dopo anni passati piuttosto<br />

lontano da strumenti acustici e voci femminili (PJ<br />

Harvey è una delle eccezioni, con Kim Gordon,<br />

Patti Smith, Kazu Makino), e ho cercato di rielaborare<br />

i suoni e i ritmi a me familiari con piano<br />

e voce, usando soprattutto la seconda nel modo<br />

più naturale possibile.<br />

Anche ora se invento una linea di basso mi capita<br />

di pensare più che altro ai Morphine o ai June<br />

of ’ 44. Da allora però, continuando a cercare,<br />

trovando di più, e ascoltando in particolare Nico,<br />

Nina Simone, Mary Timony, Lotte Lenya,<br />

Vashti Bunyan, Meredith Monk, e ancora PJ<br />

Harvey (White Chalk mi piace molto e lo sento<br />

effettivamente vicino a me) la mia prospettiva si è<br />

arricchita. Di Diamanda Galas ammiro molto<br />

la forza sia sonora che di presenza e la capacità<br />

di trasmettere, di Cibelle l’inventiva e la capacità<br />

di incollare insieme mille cose diverse con totale<br />

naturalezza.<br />

L’immediato futuro sarà targato M.O.W. o<br />

ci sono altri progetti in cantiere?<br />

Come prima cosa vorrei portare <strong>Mimes</strong> of <strong>Wine</strong><br />

in giro dal vivo il più possibile, e portare avanti il<br />

materiale che sto scrivendo ora e che mi piacerebbe<br />

presentare. Da poco mi è stato proposto come<br />

“side project” di scrivere piccole colonne sonore<br />

a quattro mani per cortometraggi e piccole compagnie<br />

di danza. Sono curiosa di vedere che cosa<br />

può venire fuori lavorando a contatto con altri e<br />

con le loro parole, gesti e luci, con immagini in<br />

movimento.<br />

24 / Tune In Tune In / 25


Nuovi<br />

Corrieri<br />

CosmiCi<br />

Non è la prima volta che la Grande Musica Cosmica diventa oggetto di revival. Oggi ci sono però differenze sostanziali.<br />

Quei suoni, quelle tecniche, quelle atmosfere risuonano nei dischi degli ultimi mesi senza che necessariamente si tratti<br />

di tributi. È diventato uno stilema, un linguaggio trasversale, come tutto il krautrock. Non si tratta di rielaborazioni<br />

del prototipo Irrlicht; ecco a voi i Nuovi Corrieri Cosmici che parlano come quelli di ieri.<br />

- Gaspare Caliri, Antonello Comunale, Stefano Pifferi; con contributi di Gianni Avella<br />

Kr a u t r o c K -re s a M p l e r<br />

Cos’è il krautrock? È la musica tedesca dei<br />

primi anni Settanta. Definizione pacifica,<br />

palese, paleontologica, parziale. Eppure<br />

la sua diffusione non ha una storia limitata a quegli<br />

anni. Il suo modus operandi, anzi, come vedre-<br />

mo, i suoi due modi principali di fare musica, si<br />

sono raddensati attorno a certa musica degli anni<br />

Novanta, da un lato nel post rock che lo ha rivalutato<br />

esplicitamente, dall’altro negli usi e nelle strumentazioni<br />

dell’ondata elettronica che fece capo<br />

al suono Warp.<br />

Di fatto conosciamo le prime vicende del genere<br />

anche grazie ad alcuni contributi ad hoc, come<br />

il sempre citato Krautrocksampler di Julian<br />

Cope, che da giovane, come si legge nel libro, era<br />

un “avvertito”, uno di quegli eletti – neanche troppo<br />

pochi, in realtà – che in Inghilterra, nel passaggio<br />

tra Sessanta e Settanta, seguivano la scena<br />

di quello strano rock tedesco che non tutti reggevano,<br />

a fianco del quale solo alcuni riuscivano a<br />

stare, senza annoiarsi o cercare il calore dei suoni<br />

tradizionalmente blu.<br />

In realtà il krautrock ebbe in Inghilterra una diffusione<br />

nient’affatto limitata, selezionò cioè parecchi<br />

“avvertiti” – spesso adolescenti - che compravano<br />

le nuove uscite Polydor a scatola chiusa; successe<br />

persino che alcuni dischi – i Faust siano da<br />

esempio – uscirono prima in Inghilterra e poi in<br />

Germania, cioè prima in quel paese che era diventato<br />

il “mercato” principale e poi nella “madrepatria”.<br />

Questo per dire che il rapporto tra apertura<br />

e chiusura nella diffusione del krautrock – dentro<br />

e fuori il territorio tedesco - ha una storia lunga;<br />

anzi, ha una storia che inizia assieme a quella stessa<br />

del krautrock, e che forse dovremmo abituarci a<br />

considerare sovrapponibili.<br />

Se volessimo proprio mettere una conclusione parziale<br />

di quella liaison anglo-tedesca citeremmo con<br />

rapidissima sicumera la vicenda dei This Heat,<br />

che importarono ad Albione il krautrock più industriale,<br />

macchinino e meccanico, e finirono per<br />

essere a tutti gli effetti dei krautrocker, anni dopo<br />

le prime note della kosmische, nonostante la mancata<br />

provenienza tedesca. Tutti appena sentono il<br />

loro nome pensano al kraurock. Abbiamo con loro<br />

il primo esempio forse dell’inesattezza dell’equivalenza<br />

kraut uguale Germania. E però a dirla tutta<br />

tale fatto non è neanche particolarmente rilevante<br />

26 / Drop Out Drop Out / 27


o interessante.<br />

Il sampler krautrock di Cope è in realtà la narrazione<br />

dell’avvicinamento alla musica tedesca, cosa<br />

che poi si è riflessa nella stessa produzione dell’exleader<br />

dei Teardrop Explodes, non a caso proprio<br />

negli anni Novanta. L’articolo che state iniziando<br />

a leggere parla invece di una bolla musicale - negli<br />

ultimi mesi sempre più presente e tangibile - che<br />

è innegabilmente legata al krautrock di inizio Settanta.<br />

Vale come sempre la nostra prova del nove:<br />

quante volte è comparso negli ultimi mesi il termine<br />

“kraut” nelle recensioni e nelle riflessioni di<br />

SA? Tante. È allora la quantità di occorrenze del<br />

genere ad averci messo sotto gli occhi la necessità<br />

di un approfondimento; ma non solo. È la crescita,<br />

i cui primi passi sono datati a più di due anni fa, di<br />

una lettura critica che ci ha fatto pensare al “revival”<br />

krautrock odierno come qualcosa di diverso<br />

rispetto agli atteggiamenti del decennio precedente.<br />

Per capire la bolla di quello che oggi finisce nella<br />

casella “krautrock” siamo dovuti tornare indietro<br />

perché sembra quasi che le evoluzioni – a partire dal<br />

krautrock – che hanno avuto corso nei ’90 siano state<br />

quasi rimosse nella memoria storica del novello<br />

“avvertito” del 2008. Ovviamente non può essere<br />

del tutto così; ecco la ragione di un approfondimento<br />

che tocca sì le origini, ma soprattutto gli<br />

esempi concreti della Musica Cosmica datata fine<br />

Duemila; le ricognizioni spaziali di Emeralds,<br />

Cloudland Canyon e Be Invisible Now!,<br />

nonché le gesta dei californiani di Frisco The Arp<br />

e Jonas Reinhardt, ci hanno aiutato a nutrire le<br />

nostre argomentazioni di dischi da ascoltare; con<br />

la parabola e con la discografia (nutritissima) di<br />

<strong>Expo</strong> ’70 abbiamo poi sviscerato, discutendo con<br />

il diretto interessato, il rapporto con quella musica<br />

molto ben localizzabile di quasi quattro decenni<br />

fa. [g.c.]<br />

pa s s a g g i di s c a l a<br />

Quando si parla di krautrock si intendono certamente<br />

almeno due cose, secondo una tradizionale<br />

divaricazione critica. Da una parte si parla di<br />

quell’atteggiamento “macchinico”, percussivo<br />

che prese corpo a partire dalla produzione dei<br />

Neu! e per certi versi dei Faust, e proseguita,<br />

come si diceva sopra, senza ombra di dubbio geografico,<br />

dai britannici This Heat. Parliamo naturalmente<br />

del “motorik” di Michael Rother e<br />

Klaus Dinger, e qui citiamo ancora Julian Cope,<br />

che nel suo libro confessa che il momento in cui<br />

più di ogni altra circostanza ebbe la sensazione<br />

netta di ascoltare qualcosa di semplicemente<br />

nuovo, sconvolgente, rivoluzionario nel suo essere<br />

freschissima “acqua calda” del rock, fu quando,<br />

nel 1972, il suo giradischi riprodusse per la<br />

prima volta Hallogallo, cavalcata motoristica per<br />

eccellenza e primo brano di Neu!.<br />

D’altra parte di krautrock si parla anche quando<br />

si accenna a quella musica stellare che venne<br />

immediatamente ribattezzata con l’appellativo<br />

di Kosmische Musik; la fascinazione degli astri<br />

non era novità squisitamente appannaggio delle<br />

fredde menti tedesche di quegli anni; il probabile<br />

vero esordio in ambito “rock” fu il gioco dei pianeti<br />

di quella Astronomy Dominé di The Piper At<br />

The Gates <strong>Of</strong> Dawn; e però non è un caso che<br />

il sottotitolo di Krautrocksampler, per rifarcisi<br />

per l’ultima volta, si appellava alla volontà di fare<br />

da guida alla “Grande Musica Cosmica”. In effetti<br />

dopo le vicende tedesche di fine Sessanta-inizio<br />

Settanta a quell’espressione si associano immancabilmente<br />

alcuni stilemi, alcune tecniche musicali,<br />

alcune atmosfere propri degli iniziatori krauti, soprattutto<br />

il Klaus Schulze di Irrlicht, i Tangerine<br />

Dream, i Popol Vuh, gli Amon Duul II.<br />

Questi ultimi furono particolarmente esemplari<br />

per il fatto che espressero musicalmente il prodotto<br />

di un’aggregazione quasi da comune hippie, e che<br />

veicolarono in un certo senso la reazione politica<br />

attraverso la colonna sonora dei pianeti.<br />

È una chiave di lettura forse grossolana, ma sociologicamente<br />

sottolineata a più riprese; e, soprattutto,<br />

ci mette di fronte a una fondamentale<br />

differenza tra quel krautrock e tutti momenti in<br />

cui si ebbe a parlare, successivamente, del gene-<br />

popol vuh 1972<br />

re. Pensiamo al post-rock, alla sua concentrazione<br />

sulla struttura musicale e sulla capacità che ebbe,<br />

a partire da presupposti squisitamente musicali, di<br />

far tornare in auge i corrieri cosmici – e tutto il<br />

krautrock. Pensiamo però anche alla disinvoltura -<br />

anche questa tutta Novanta – con cui i pionieri di<br />

quello che sarebbe diventato il suono Warp ripreso<br />

strumenti analogici e vintage propri del krautrock<br />

cosmico per una rielaborazione attaccata da più lati,<br />

tattica, della musica cosmica. Con gli inizi Warp<br />

abbiamo assistito a qualcosa di nuovo; ma come<br />

per il post rock vi si arrivava attraverso una ripresa,<br />

una riflessione su quel passato; niente filologia,<br />

questo no, ma un ragionamento tecnologico.<br />

I Nuovi Corrieri Cosmici, ci pare di poter dire,<br />

hanno un atteggiamento diverso, che viene appresso<br />

a un cambiamento di statuto del kraut. Oggi<br />

come dicevamo il krautrock è stabilizzato in un<br />

.linguaggio, che si è isolato dai precedenti tentativi<br />

di ripristino creativo. Un formato quasi autonomo.<br />

Un insieme di stilemi che vanno ad affiancarsi con<br />

quelli dei Sessanta e Settanta anglosassoni, per cui<br />

oggi si fa blues-rock senza necessariamente mettere<br />

in discussione la distanza dalle fonti.<br />

Veniamo a oggi, anzi a pochi giorni fa. Siamo a<br />

Netmage, festival bolognese di “arti elettroniche”,<br />

rumorista e dronico per eccellenza. Ascoltiamo<br />

nella giornata di giovedì, la prima del festival, il<br />

live degli statunitensi Pete Swanson, John Wiese,<br />

Liz Harris. Noise a cui siamo sempre più abituati,<br />

fin troppo piatto nella sua capacità di far vibrare<br />

pericolosamente i timpani. Subito dopo assistiamo<br />

alla performance degli Emeralds, e lì la pulce<br />

nell’orecchio si sfoga. Una presa di peso di Schulze<br />

e dei Tangerine Dream, fino a Cluster e ai<br />

Popol Vuh. John Eliott, Steve Hauschildt, Mark<br />

McGuire suonano con una chitarra in secondissima<br />

linea, arpeggiata e astrale, ma soprattutto con<br />

un miniMoog, e portano nel tempio dell’elettronica<br />

sposata all’arte visual quel linguaggio una volta<br />

prodotto dalle comuni tedesche.<br />

La kosmische musik è insomma entrata persino<br />

nell’arte contemporanea, nella sofisticazione dei<br />

28 / Drop Out Drop Out / 29


droni e delle ultime linee tracciate dall’esercito ambientale,<br />

che a volte vanno allo spazio effettuando<br />

un passaggio di scala, descrivendoci come il vuoto<br />

di una stanza sia omotetico, come in un frattale,<br />

a quello dello spazio. In questo contesto, il nuovo<br />

krautrock dei circuiti dell’elettronica contemporanea<br />

si scarta da alcune associazioni assodate per<br />

tornare al passato del sogno al mandarino.<br />

La musica astrale è infatti diventata quasi un gioco,<br />

un lavoro sull’opinione collettiva dello spazio e<br />

dei suoi suoni, sui pregiudizi musicali fantascientifici<br />

che lega a determinati effetti sonori la rotazione<br />

dei pianeti; si legga a tal proposito – altrove su<br />

questo stesso numero di SA - l’epopea di Rafael<br />

Toral, portatore esplicito di “spazitudine” estetizzata<br />

– in un gioco al rialzo rispetto allo sci-fi. Ci<br />

sono aziende, come la ditta americana “Yuzoz”,<br />

che hanno registrato per anni i suoni dello spazio<br />

dai loro satelliti che esse possiedono; altri siti<br />

web dove è possibile scaricare tracce audio di una<br />

gigante rossa; spazi virtuali che non fanno che alimentare<br />

il comune senso di curiosità e la catacresi<br />

della metafora sonica del viaggio cosmico e delle<br />

relative tecniche di reporting immaginario del fischio<br />

dell’astro.<br />

I corrieri cosmici producevano invece un senso musicale<br />

che toccava direttamente l’umano, nella fuga<br />

da esso. Come esempio classico, citiamo il solito<br />

Schulze, la cui musica veniva associata agli umori<br />

di Wagner, di quella magnificenza celebrale.<br />

EMEralds<br />

Torniamo allora a capire gli ancoraggi effettivi coi<br />

maestri. Ci concentreremo poi a leggere la parabola<br />

di una band che oggi indaga quei rapporti<br />

che le comuni tedesche sperimentavano. Hanno<br />

il nome dell’esposizione universale che avuto luogo<br />

a Osaka nel 1970. Era periodo di architetture<br />

megastrutturali, di spazi apertissimi, di progetti di<br />

scala enorme. Ma qui – anche grazie agli <strong>Expo</strong><br />

’70 - ci occupiamo di una scala ancora più ampia,<br />

evidentemente.<br />

Del viaggiare verso lo spazio alla ricerca degli effetti<br />

sul terreno. Della geografia della musica cosmica.<br />

A partire dal caposaldo che fece da discrimine tra<br />

un prima e un dopo, magnifica asserzione da e per<br />

la musica tedesca al passaggio di decennio ’60-’70,<br />

al passaggio definitivo tra lo sballo (alla Agitation<br />

Free) e la pesantissima levitazione verso lassù, a<br />

sud di Irrlicht. [g.c.]<br />

il Mo n d o a su d di ir r l i c h t<br />

C’è una grande differenza tra guardare il mondo<br />

in cui viviamo, sia pure con occhi trasognati e alterati,<br />

e agognare le stelle che ci sovrastano. Il mood<br />

per forza di cose si tinge di liturgico e l’esperienza<br />

non può che tradursi in un romanticismo dalle<br />

tinte apocalittiche. Klaus Schulze lo sapeva bene.<br />

Non si inventa la musica cosmica di Irrlicht semplicemente<br />

svegliandosi un giorno, come illuminati<br />

sulla via per Antares. Basta ascoltare i primi dischi<br />

dei Tangerine Dream e confrontarli con quelli più<br />

tardi e “schulziani”<br />

come Alpha Centauri<br />

e Zeit. Irrlicht<br />

potrebbe essere<br />

preso come un metodico<br />

sistema per misurare<br />

la distanza tra<br />

l’uomo e le stelle. Il<br />

metro di questo intervallo<br />

tradotto nelle folate<br />

d’organo di questa<br />

“Quadrophonische<br />

Symphonie für Orchester<br />

und E-Maschinen”. D’altronde ridurre l’intera esperienza<br />

e genesi della musica cosmica tedesca alla<br />

sola figura di Schulze sarebbe riduttivo. Ci dimenticheremmo<br />

di compagni di viaggio fondamentali<br />

come Manuel Göttsching, Sergius Golowin o<br />

Walter Wegmüller. Ma qui non si vuol tracciare<br />

un profilo storico di un periodo musicale o costruire<br />

un albero genealogico di una comune visione.<br />

Come sempre più spesso siamo condannati a fare,<br />

guardiamo al passato per tradurre il presente, ed<br />

è in questo senso che possiamo fermarci a parlare<br />

di musiche così attuali e al tempo stesso così tradizionali<br />

come quelle dei nuovissimi corrieri cosmici<br />

dei giorni nostri. Sul finire della prima decade del<br />

nuovo millennio quasi tutti quelli che decidono di<br />

trafficare con drones e moods dell’estasi cosmica<br />

tedesca vivono una sorta di dopo sbornia da post<br />

rock. Il suono dei questi anni si rivela così assai più<br />

integralista della commistione di generi e sottogeneri<br />

che infuriava negli anni ’90. Quello che contributi<br />

a codificare il marchio Kranky, depurato<br />

dei suoi elementi eterogenei e ridotto all’osso della<br />

tradizione. Un percorso in qualche modo simile a<br />

quanto accaduto in ambito folk con il ricorso alle<br />

radici più tarde e vere del pre-war.<br />

La musica cosmica dei primi anni del nuovo millennio<br />

si allinea alle coordinate stellari dei maestri<br />

di sempre. Stabilisce ponti e fusioni tra Tangerine<br />

Dream e Ash Ra Tempel, con la stella polare<br />

di Irrlicht a condurre il viaggio. E’ questo il<br />

caso degli Emeralds, tra i migliori esemplari del<br />

nuovo corso. Trio proveniente da Cleveland, Ohio,<br />

costituito da Mark McGuire, John Elliott e Steve<br />

Hauschildt. I documenti migliori del trio prendono<br />

il nome di Allegory <strong>Of</strong> Allergies e Solar<br />

Bridge. La loro è una sintesi illuminata dell’estasi<br />

cosmica tedesca. Le chitarre liquide e oniriche di<br />

Göttsching riprendono vita in brani sostenuti sulle<br />

nuvole come Nereus (Spirit Over The Lake), Lawn <strong>Of</strong><br />

Mirrors, Snores. Il trio è poi abile a traghettare queste<br />

corde liquide e oniriche nei gorghi a base di synth<br />

e organo di tradizione schulziana che costituiscono<br />

il loro trademark. Gli Emeralds non ci pro-<br />

josEph raglani<br />

vano neppure a trovare nuovi modi di coniugare<br />

il verbo. Il loro è un modus operandi quanto mai<br />

classico. Fasci e fasci di drones d’organo e synth<br />

inframmezzati da reticoli di chitarra riverberata.<br />

Il loro viaggio è il classico anelito verso l’infinito<br />

fatto con cattedrali costruite tra quasar e supernova.<br />

L’unico aggiornamento che concedono all’aria<br />

dei tempi è un generalizzato sentore d’apocalisse<br />

che adombra la maggior parte dell’anelito mistico<br />

degli corrieri cosmici originali. Quello degli Emeralds<br />

è un ponte costruito verso un sole nero. Meno<br />

dark, ma non meno tortuoso il percorso di un altro<br />

caso eccellente che risponde al nome di Joseph<br />

Raglani. Altro americano, del Midwest, cresciuto<br />

tra college, comic books e krautrock. Come sempre<br />

accade in questi anni, anche Joe è un autar-<br />

30 / Drop Out Drop Out / 31<br />

©jamie bayer


chico self-made-music<br />

e quindi si prodiga<br />

nell’ordinaria amministrazione<br />

di una varia<br />

e disordinata produzione<br />

discografica<br />

a base di microlabel<br />

e formati per feticisti<br />

(cdr, cassette, edizioni<br />

limitate). Per usare le<br />

parole di Brad Rose,<br />

Joe Raglani “segna la<br />

linea di separazione tra la<br />

bellezza e il caos”. Una<br />

definizione altisonante<br />

ma stranamente<br />

centrata e giustifica-<br />

BE invisiBlE now!<br />

ta. Tra i capi d’opera<br />

dell’artista troviamo<br />

infatti cose come Oneism Una cassetta che parte<br />

con un ronzio da synth valvolare e che arriva a<br />

due passi dall’harsh noise. Ma il vero trademark<br />

di Raglani è l’eden scomposto e variopinto di episodi<br />

come Living Room, Web <strong>Of</strong> Light e quell’<br />

<strong>Of</strong> Sirens Born ristampato in fretta e furia dalla<br />

Kranky l’anno scorso. L’attacco di Web <strong>Of</strong> Light<br />

non lascia dubbi. Dice di un autore che prende in<br />

prestito da Cluster e Tangerine Dream e in misura<br />

ancora maggiore da Ash Ra Tempel, e questo<br />

tradotto in soluzioni musicali significa erigere<br />

costruzioni animate da fasci reticolari di note d’organo<br />

e synth. Episodi più caotici e originali come<br />

Bardophasing vanno per altro a flirtare con i riferimenti<br />

quarto mondisti di Hassell, ma come filtrati<br />

attraverso un fitto intrico di riferimenti noise. <strong>Of</strong><br />

Sirens Born si rivela quindi come il disco che fa<br />

maggiore sintesi delle diverse sfaccettature del musicista,<br />

mettendo dentro di tutto. Dalla quieta stasi<br />

onirica di Rivers al caos estetizzante e imperioso di<br />

Washed Astore. Volendo però prendere in esame un<br />

casus belli esemplificativo al massimo della nuova<br />

stagione, anche in virtù dell’umore prettamente<br />

passatista dell’operazione, il duo americano-tede-<br />

sco dei Cloudland Canyon diventa il simbolo<br />

perfetto del nostro discorso. Non che Kip Uhlhorn<br />

e Simon Wojan siano deficitari di un gusto proprio<br />

e di una capacità di rielaborare in modo nuovo la<br />

vecchia grammatica tedesca, ma sta di fatto che<br />

nel corso di due dischi e mezzo (due lp e un ep…)<br />

e di una collaborazione con Lichens, i due abbiano<br />

praticamente inscenato un perfetto revival<br />

kraut, che non da spazi a dubbi o incertezze. Da<br />

qui a titolare quindi il primo brano dell’ultimo disco<br />

partorito su Kranky, Lie In Light, con il titolo<br />

ammiccante di Krautwerk il passo è breve.<br />

È un piccolo duopolio, invece, quello stanziatosi<br />

dalle parti di San Francisco.<br />

Jonas Reinhardt e The Arp – questi noto all’anagrafe<br />

come Alexis Georgopoulos - sono amici di<br />

vecchia data armati di soli synth, e dai loro lavori<br />

si evince una forma mentis oltremodo trance.<br />

Reinhardt in particolare ci sembra quello più<br />

ispirato. Nel debutto omonimo targato Kranky, il<br />

Nostro, che alla maniera dei corrieri cosmici di un<br />

tempo azzera - a suo dire - il gap spazio/epidermico<br />

tra uomo e macchina, sciorina tredici istanze<br />

dove lo spauracchio dei Cluster addomesticati<br />

dalla cura Michael Rother,<br />

Modern By Nature’s Reward,<br />

risolve senza indugi, come<br />

naturale evoluzione della<br />

specie, nelle architetture<br />

a là Harmonia di How To<br />

Adjust People.<br />

Nel mentre, di contro ai<br />

palesi richiami teutonici,<br />

si tagliano rimandi a Wendy<br />

Carlos (la prima parte<br />

di Blue CutawayTore Earth<br />

Clinke) e peculiari appeal<br />

cinematici a piè pari tra<br />

i Goblin di Dawn of the<br />

Dead (Every Terminal Evening)<br />

e il John Carpenter di<br />

Fuga Da New York (Tandem<br />

Suns).<br />

Contrariamente, Alexis<br />

Georgopoulos, dopo la<br />

breve parentesi in seno al<br />

combo punk funk Tussle,<br />

al proprio nome preferisce,<br />

dal 2006, il moniker<br />

thE arp<br />

The Arp.<br />

La first release griffata<br />

Smalltown Supersound In Light gravita, anch’essa,<br />

nell’interregno sito tra Cluster, St Tropez, e Harmonia,<br />

Potentialities, parimenti a digressioni Brian<br />

Eno, The Rising Sun.<br />

Ciò che lascia perplessi è il mancato effetto sorpresa.<br />

Non che sia necessario, ma contrariamente al<br />

dirimpettaio Jonas Reinhardt il canovaccio vive di<br />

pochi scossoni; e alla luce delle palesi qualità tocca<br />

attenderlo fiduciosi al secondo step.<br />

Ma il revival sei suoni cosmici anni ’70 non è soltanto<br />

materiale per geek americani. Anche in Italia<br />

qualcuno sta provando a rispolverare i vecchi suoni,<br />

i vecchi immaginari valvolari, e questo qualcuno<br />

è Be Invisibile Now! al secolo Marco Giotto.<br />

Nel suo primo disco, sorta di concept album<br />

dedicato ai neutrini, Giotto riprende a trafficare<br />

con strumentazioni e soluzioni d’antan. Tastiere<br />

Roland e Korg d’epoca e sintetizzatori valvolari,<br />

per una generale atmosfera retro-futirista anni ’70<br />

che collide in egual misura con Klaus Schulze e<br />

John Carpenter. In brani come Antiparticella e Sarin<br />

il Nostro non fa mistero dei suoi riferimenti arrivando<br />

addirittura ad una sorta di “mimetismo sonoro”,<br />

cercando a tutti i costi di suonare come un<br />

vecchio corriere d’epoca, piuttosto che come un<br />

epigono degli anni 2000. Un approccio a tal punto<br />

simile a quello dell’americano <strong>Expo</strong> ’70, che i due<br />

non hanno potuto fare a meno di incrociarsi e di<br />

condividere uno split ep, uscito l’anno scorso per<br />

Kill Shaman. Musica minacciosa, brumosa, in perenne<br />

stato di ansiosa sospensione. Tutte le liturgie<br />

della nuova epoca hanno in comune un pathos ca-<br />

32 / Drop Out Drop Out / 33


<strong>Expo</strong> ‘70<br />

rico d’angoscia che stride platealmente con l’anelito<br />

mistico e libertario dell’epoca che fu. I padri<br />

hanno lasciato ai figli un mondo in disfacimento<br />

e il testimone viene passato con un anelito sempre<br />

più pronunciato verso la fine di tutte le epoche. I<br />

nuovi corrieri cosmici tendono al nero e al caos.<br />

Questo oggi ci resta di tanta speme… [a.c., g.a.]<br />

un infinito oh M ne r o pe c e<br />

Una discografia sterminata per un uomo solo.<br />

Ma anche e soprattutto una discografia sterminata<br />

per un suono solo. Justin Wright, l’uomo nero<br />

e solo dietro <strong>Expo</strong> ’70, propone da pochi anni e<br />

tantissimi dischi un singolo, unico, ossessivo e dilatato<br />

suono che si perpetua in eterno: quello di<br />

un drone nero-pece di matrice chitarristica, debitore<br />

tanto del minimalismo più astratto quanto del<br />

kraut-rock più lisergico e liquido. Una esperienza<br />

del limite, quella dell’artista di Kansas City; di<br />

quelle in cui l’apparente staticità del suono è simile<br />

a quella dello spazio profondo, in cui l’assenza di<br />

gravità rende i movimenti sospesi, quasi impercettibili,<br />

rallentati al punto da poterne quasi vedere<br />

la scia.<br />

La metafora spacey non è scelta a caso. La musica<br />

targata <strong>Expo</strong> ’70 si inserisce, infatti, nel solco di<br />

altre esperienze, spesso sotterranee, protagoniste<br />

della parziale carrellata offerta da queste pagine<br />

e dedite più che a una infruttuosa e emulativa<br />

riscoperta, ad una sorta di comunione spirituale<br />

con l’ala più libera e droning del kraut dei ’70. C’è<br />

però nelle musiche (nella musica?) di <strong>Expo</strong> ’70 e<br />

nell’uomo dietro questa sigla una coesione forte,<br />

una filosofia verrebbe da dire, che ci impone di<br />

approfondirne l’evoluzione attraverso la discografia<br />

– in gran parte sconosciuta da noi – e con una<br />

breve ma intensa intervista.<br />

Procediamo però con ordine. Rubato il nome alla<br />

prima expo mondiale tenutasi in Giappone (nella<br />

regione di Osaka, tra il marzo e il settembre del<br />

1970, il cui tema era Progresso e armonia per il genere<br />

umano), l’entità <strong>Expo</strong> ‘70 mosse i primi passi quando<br />

Wright era ancora parte integrante del gruppo<br />

losangelino Living Science Foundation (Psychedelic<br />

dub post-rock, nelle parole dello stesso chitarrista).<br />

Sulle prime non un solo-project, ad esser precisi,<br />

ma una collaborazione aperta, dato che della<br />

partita erano anche i due cofondatori della Kill<br />

Shaman: Paul Kneejie, del noise-duo The Pope,<br />

e Bryan Levine di Bipolar Bear. Un paio di cd-r<br />

(lo split con l’altro progetto di Kneejie, SXBRS<br />

del 2003 e il live in studio July 18 2004, entrambi<br />

su Kill Shaman) e, causa lo scioglimento di LSF,<br />

Wright se ne ritorna nel Midwest.<br />

Prende così consistenza l’idea di una musica da<br />

sviluppare in solitaria, anche se nella natia Kansas<br />

City Wright/<strong>Expo</strong> ‘70 inizia a collaborare con lo<br />

spirito affine – si veda la discografia in proprio per<br />

conferme – McKinley Jones a.k.a. Cantus Firmus.<br />

L’ottimo album Surfaces (2005), seppur in<br />

cd-r, è il vero e proprio esordio lungo per la sigla<br />

e non fa che confermare l’affinità tra i due: l’aggiunta<br />

delle folate di synth e degli ambient noise<br />

sounds di McKinley rendono il suono ancor più<br />

space-oriented nel loro sovrapporsi alle dilatazioni<br />

guitar-drone, peculiarità del progetto di Wright<br />

sin dai primi passi. Musica che rimanda da subito<br />

alle suggestioni kraute più liquide ed evanescenti<br />

di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel per le<br />

dilatazioni strumentali che la pervade e per l’afflato<br />

cosmico cui rimanda.<br />

L’album successivo è sempre un cd-r: Exquisite<br />

Lust, impreziosito da una cover soft-lesbo anni<br />

70, sposta radicalmente le sonorità dell’accoppiata<br />

Wright-McKinley verso un approccio più minimalista<br />

– specie nella strumentazione ridotta a<br />

corde, synth ed effettistica varia – che fonde loop<br />

e drones in un magma sonoro evocativo. Link perfetto<br />

tra atmosfere kraute e ambient-music sempre<br />

made in Deutschland, Exquisite Lust è il primo<br />

vero capolavoro di Wright e sembra attualizzare<br />

gli impro-drones di un leggendario gruppo proveniente<br />

da tutt’altri lidi geografici: i giapponesi Taj<br />

Mahal Travellers.<br />

Sciolto il sodalizio con McKinley, è il turno di<br />

34 / Drop Out Drop Out / 35


Centre <strong>Of</strong> The Earth, primo disco che vede<br />

Wright agire in completa solitudine. Le 4 lunghe<br />

tracce che lo compongono – che, tanto per sottolineare<br />

il continuum delle musiche di <strong>Expo</strong> ’70,<br />

iniziano con lo stesso drone montante che apre il<br />

recente e definitivo Black Ohms – sono pervase<br />

da una sensazione di assoluto romitaggio, qualcosa<br />

che rimanda ad un vagabondaggio psichico<br />

che scaturisce dall’atmosfera notturna in cui sono<br />

state composte. Quattro pezzi untitled per una suite<br />

di quasi un’ora di tensione ascensionale simile<br />

ad una marea montante e in cui le stratificazioni<br />

del suono sono apparentemente impercettibili ma<br />

presenti. Le aperture psichedeliche dei 5 minuti<br />

del pezzo conclusivo – Come osservare una tempesta<br />

di fulmini sopra l’oceano, ricorda Wright – fanno da<br />

ideale testa di ponte con i dischi a venire.<br />

Da lì in poi, l’universo sonoro targato <strong>Expo</strong> ’70 si<br />

fa più coeso così come più densa si fa la poetica<br />

visionaria di Wright. Le atmosfere si sbriciolano<br />

in pulviscolo spaziale, i toni si fanno più riflessivi e<br />

cupi, l’andazzo generale si riduce ancora di più intorno<br />

alla ieratica figura dell’uomo in nero e delle<br />

sue chitarre elettriche e acustiche.<br />

I pezzi del cd-r Mystical Amplification, dell’ottimo<br />

esordio in cd ufficiale Animism ma soprattutto<br />

del recente Black Ohms (per l’ossianica<br />

Beta-Lactam Ring) si avvicinano a certo riduzionismo<br />

minimalista ripetitivo alla Riley e traggono<br />

il loro senso più compiuto dalle stratificazioni<br />

dei suoni di una chitarra dilatata, trattata, apparentemente<br />

statica fino a sfiorare l’immobilismo.<br />

Eppure quel suono – ché di un unico suono, un<br />

ohm primordiale e magico, si tratta – è sempre<br />

mobile, mutevole, in un viaggio siderale per certi<br />

versi molto simile a quello dei kosmische kurier da<br />

cui – come vedremo più avanti – trae direttamente<br />

e esplicitamente ispirazione. Musiche ascensionali,<br />

verrebbe da dire, che puntano indistintamente lo<br />

spazio più profondo dell’io e quello dell’universo.<br />

Space is the place; I am the space.<br />

Prima di proporre uno stralcio dalla fluviale conversazione<br />

avuta con Justin, giusto qualche anno-<br />

tazione su altre uscite degne di menzione dalla<br />

ampia discografia <strong>Expo</strong> ‘70. La Audio Archive<br />

series, soprattutto, giunta ora al suo terzo volume,<br />

evidenzia l’aspetto più personale ed intimo<br />

dell’operato di Wright. Sorta di progetto di divulgazione<br />

in divenire della ricerca sonora wrightiana,<br />

la serie, come suggerisce il sottotitolo al primo<br />

volume, Music from Inaudible Depths, rende<br />

appieno l’idea di costante crescita di un suono<br />

che sembra scaturire dal più profondo dell’animo<br />

umano e da lì muoversi verso l’infinito dello spazio<br />

profondo. Non da meno sono alcuni momenti<br />

dalla discografia “minore” – solo per formato e/o<br />

durata – come il cd-r 3” Illusive Landscaping<br />

o l’edizione limitata per un matrimonio di The<br />

Wedding Album, così come gli split con gente<br />

del calibro di Radhunes (il 12” per Kill Shaman),<br />

I Am Sea Monster (7” + cd-r 3” per Small Doses),<br />

il nostro Be Invisibile Now! (in collaborazione<br />

Kill Shaman/Boring Machines) e il 3 Way<br />

Split cd-r con spiriti affini, nonché collaboratori<br />

estemporanei di <strong>Expo</strong> ‘70, Matt Hill e Duane Pitre.<br />

[s.p.]<br />

int e r v i s t a co n ex p o ’70<br />

Mi piacerebbe sapere qual è il tuo rapporto<br />

col fronte più psichedelico del kraut-rock,<br />

I cosiddetti corrieri cosmici…<br />

Tutto è cominciato nei tardi anni 90 quando iniziai<br />

ad ascoltare i Can; suonavo in una band e<br />

stavo cercando di sperimentare con pedali ed effetti.<br />

Ero affascinato dai Can e pochi anni dopo,<br />

quando un amico mi introdusse ad Ash Ra Tempel,<br />

scattò qualcosa tra me e la loro musica. Era<br />

fluttuante e molto più viva delle band rock dei ‘70.<br />

Sembravano rendere vivo lo spirito di Hendrix o<br />

dei Cream, superandone i confini. Più tardi scoprii<br />

Cosmic Jokers e Tangerine Dream. Mi piace il fatto<br />

che queste band abbiano preso il concetto del<br />

free-jazz e incorporato l’elettronica, tanto che credo<br />

Stockhausen e il minimalismo siano stati una<br />

influenza per loro. Ho sempre preferito l’analogico<br />

al digitale e questi gruppi sono stati pionieri di<br />

un certo tipo di musica “elettronica”.<br />

L’amore per la psichedelia viene da Pink Floyd e<br />

Hawkwind, ma è stato l’incontro con un live di<br />

Acid Mothers Temple ad influenzarmi realmente.<br />

Vedere Kawabata Makoto al Knitting Factory di<br />

Los Angeles ai primi del 2000, mi ha costretto a<br />

riflettere ancor di più su quella musica e sulla sua<br />

provenienza.<br />

<strong>Expo</strong> 70 sembra legato agli aspetti improvvisativi<br />

di un’altra grande band: Taj Mahal<br />

Travellers…sappiamo che l’improvvisazione<br />

è il tuo metodo di composizione<br />

preferito…<br />

Inizialmente ho dato vita alla band per suonare<br />

come i Taj Mahal Travellers; li ascoltavo moltissimo<br />

quando July 18, 2004 fu registrato. All’epoca<br />

avevo cominciato ad interessarmi all’improvvisazione<br />

con uno dei membri con cui suonavo allora<br />

e con Paul Kneejie che poi fondò la Kill Shaman.<br />

Condividevamo l’interesse per soundscapes e sperimentazioni<br />

sui pedali, che divennero fondamentali<br />

nella prima incarnazione di <strong>Expo</strong> 70. Suonammo<br />

una manciata di show a LA prima che decidessi di<br />

tornarmene a Kansas City verso la fine del 2004.<br />

<strong>Expo</strong> ‘70 nasce come fuga verso l’improvvisazione,<br />

esperienza aperta all’esplorazione di suoni e<br />

textures in collaborazione con altre persone openminded.<br />

Per me, essere in grado di prendere un<br />

qualsiasi strumento e creare qualcosa di organico<br />

è molto più soddisfacente del fare prove e suonare<br />

e risuonare qualcosa di continuo. È l’atto del momento,<br />

l’immediatezza, il lasciare che l’ambiente<br />

circostante interagisca col corpo ad essere creativo<br />

ed artistico.<br />

Nella tua musica molto presente è l’aspetto<br />

mistico, trascendente…c’è un intento<br />

trance-inducing in <strong>Expo</strong> ’70?<br />

C’è del misticismo, indubbiamente; puoi trovare<br />

del ritmo in natura o nel corpo umano tramite<br />

la meditazione. Da bambino mi piaceva passare<br />

molto tempo immerso nella natura, tanto che in<br />

un certo senso creo questa musica come una via di<br />

fuga, un qualcosa che mi permetta di distaccarmi,<br />

di dissociarmi da ciò che mi circonda e dalla cultura<br />

pop. Amo l’estetica di questo suono e credo<br />

che questo sia il modo in cui la mia musica viene<br />

creata. Ho una fascinazione per quei vecchi tipi di<br />

musica che sono in grado di creare un regno in cui<br />

i concetti si fondono insieme.<br />

L’aspetto mistico scaturisce dalla sensazione di<br />

essere profondamente engaged nel regno dei suoni<br />

che sono solito creare esplorando la mia psiche,<br />

componendo inconsciamente questa musica organica<br />

e “sentendola” dal di dentro. Questo crea<br />

un aspetto trance-inducing, un feeling di “longevità”<br />

con la musica in grado di lasciarsi andare a ciò che<br />

sta succedendo e non focalizzandosi su un beat o<br />

un ritmo che cerca di imporsi, ma in una maniera<br />

meditativa.<br />

Cosa significa per te la parola spazio? Mi<br />

spiego meglio: taj mahal tangerine dream<br />

ash ra tempel erano artisti con un mood<br />

spacey che è facile ritrovare nelle tue musiche:<br />

quella capacità di porre chi ascolta<br />

nella condizione di perdersi, nello stesso<br />

tempo, in se stesso e nelle inaudibili profondità<br />

dello spazio…<br />

Sono sempre stato affascinato dallo spazio così<br />

come dalla fantascienza, ma non credo che influenzino<br />

la musica. Credo che il genere umano sia<br />

attratto dallo spazio e che le culture antiche, molto<br />

più delle moderne, pensassero allo spazio come<br />

ad una entità superiore…i suoni che creiamo non<br />

sono che l’infinita gamma di frequenze e toni presenti<br />

in tutta la musica e perciò nello spazio stesso,<br />

e quando li dilatiamo, li facciamo durare molto a<br />

lungo, rendendoli ripetitivi, essi diventano meditativi<br />

per il corpo umano… [s.p.]<br />

36 / Drop Out Drop Out / 37


Lo spazio del<br />

suono<br />

- Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo<br />

Ci sono almeno due motivi per i quali a partire da questo mese vi proporremo una serie di articoli<br />

dedicati a Lo Spazio del Suono, ossia ad una serie di artisti che hanno focalizzato la propria attenzione<br />

sulla proprietà spaziale del suono.<br />

Innanzi tutto per via del proliferare di giovani leve che affollano la scena della cosiddetta “nuova<br />

musica” animando il dibattito su questo argomento, e in secondo luogo, per cercare di ragionare su<br />

quella che a nostro avviso da semplice attitudine stilistica sta trasformandosi gradualmente in una vera e<br />

propria koinè linguistica.<br />

Alcune premesse ci sembrano dovute: consideriamo innegabile l’affinità che interfaccia l’arte sonora<br />

alla disciplina scientifica che va sotto il nome di acustica, come innegabile è il fatto che si possano<br />

rintracciare modalità estetiche proprie ad installazioni e a performance sonore - proprie cioè, di eventi<br />

sonori che avvengono in uno spazio, di qualunque tipo esso sia.<br />

Come, ancora, si possono considerare similari certe espressioni legate alla sound-art o lezioni care ad<br />

artisti qual Rolf Julius, John Duncan e Carl Michael Von Hausswolff (per citarne alcuni) che in un certo<br />

senso hanno dato il via ai primi dibattiti sulla questione.<br />

Questa materia d’indagine è ancora parzialmente inesplorata, e fonte tutt’oggi di discussione e<br />

produzione a firma dei maggiori artisti ed interpreti dell’elettronica che operano in direzioni affini.<br />

Artisti la cui matrice d’esplorazione consiste in una lettura sonora che va oltre il territorio dell’ascolto,<br />

che conduce la forma e il divenire attraverso lo spazio. Uno spazio immaginato, sommesso o al limite<br />

dell’ architettonico, uno spazio reale, uno spazio nello spazio, legato al luogo o ad esso distante. Uno<br />

spazio organico, effimero, assente o vividamente sommesso.<br />

E’ questo il motivo della nostre indagine strutturata in brevi monografie spesso corredate di interviste,<br />

un momento di riflessione ormai dovuto a fronte del proliferare di pubblicazioni e di artisti.<br />

Ralph<br />

Steinbruchel<br />

Un’arte preziosa quella dello svizzero Ralph Steinbruchel,<br />

noto agli assidui frequentatori delle zone<br />

limite dell’elettronica come uno dei più quotati<br />

sperimentatori sulla piazza.<br />

Classe 1969, una carriera costantemente in bilico<br />

tra musica e grafica che trova consacrazione ufficiale<br />

dapprima nel 2002 con il conferimento del<br />

premio “Max Brand Award for Electronic Music”<br />

(phono TAKTIK 2002, New York), grazie<br />

alla composizione Zwischen.raum (Domizil),<br />

poi con la borsa di studio “Pro Helvetia” ricevuta<br />

dall’ Art Council of Switzerland che gli permetterà<br />

di lavorare a una delle sue prime uscite firmate<br />

LINE.<br />

Ma andiamo con ordine. Ralph Steinbruchel è<br />

senza dubbio un figlio dell’elettronica anni ’90. I<br />

suoi primi esperimenti sonori risalgono al ’96 con<br />

l’lp Stockwerk, il 7” On3 End e il cd-r Sinus,<br />

tutti lavori che si lasciavano già notare per le austere<br />

letture sonore che contenevano. Gli esordi<br />

38 / Drop Out Drop Out / 39


dichiarano apertamente un’estetica riduzionista<br />

fortemente legata all’utilizzo del digitale, grazie al<br />

quale l’artista riesce a catturare l’essenza spaziale<br />

di luoghi reali od immaginari e ad immergere<br />

l’ascoltatore in ambientazioni sature di suono.<br />

Ambientazioni glitch come quelle di Circa (Line,<br />

2003), che prendono forma dall’installazione Zeit<br />

, esposta qualche anno prima presso il Parco Platzspitz<br />

di Zurigo, un evento importante che oltre a<br />

confermare l’interdisciplinarità della ricerca dello<br />

svizzero, segna l’avvio di una serie di collaborazioni<br />

con le maggiori etichette del settore e di uscite<br />

discografiche che lo renderanno celebre al pubblico<br />

dell’elettronica. Dalla 12k di Taylor Deupree<br />

e Richard Chartier - in particolare la sussidaria<br />

LINE, nota per il suo prezioso roster d’artisti au-<br />

dio e visuali - alla parentesi con l’etichetta Bine<br />

(Skizzen, del 2005), dalla Room40 alla più recente<br />

Koyuki, saranno molte le etichette a contendersi<br />

i lavori di Steinbruchel.<br />

Tornando al 2005, è da segnalare Status, progetto<br />

a quattro mani con Frank Bretschneider,<br />

collaborazione tanto differente dallo stile-Steinbruchel<br />

quanto proficua, riuscita a pieni voti grazie<br />

alla sua personale identità stilistica che regge<br />

il gioco di dodici tracce in equilibrio tra concrete<br />

astrazioni e relazioni micro-ritmiche.<br />

D’obbligo fermarsi alla tappa con la Room40 nella<br />

collezione estemporanea di Opaque (+Re)<br />

(Room40, 2005), o sostare ad ammirare le dieci<br />

scene di Stage (Line, 2006), raccolta di musica per<br />

la performance di danza interattiva Hybridome.<br />

La scrittura di Steinbruchel presta attenzione agli<br />

spazi immaginati e alle elaborate letture minimali,<br />

esibendone elementi o frazioni, assemblandoli con<br />

calibrata avanguardie e liberata intensità.<br />

Non importa quale sia la materia da plasmare.<br />

Drones, i glitch, le microscopiche particelle elettroacustiche,<br />

i contributi di chitarra, pianoforte, le<br />

dissonanze o le risonanze: a fare la differenza è la<br />

deliberata trasformazione della massa sonora che<br />

viene frammentata con una tecnica che ha qualcosa<br />

del puntillismo. Flussi sonori che si prende<br />

gioco del tempo creando sospensioni o stasi ricche<br />

di dettagli infinitesimali (si ascolti Staub a firma<br />

Steinbruchel&Macinefabriek, minicd-r 2008). O<br />

ancora, spazi sonori microscopici come istantanee<br />

di paesaggi (Sustain, Koyuki 2008).<br />

Attenzioni proprie dell’estetica, che non dimenticano<br />

le esperienze dell’universo percettivo, ne<br />

è un esempio il recente Mit Ohme (12k, 2008)<br />

che prende spunto dall’installazione audio-visuale<br />

di Yves Netzhammer, la cui chiave di lettura è<br />

sicuramente quell’aggraziata semplicità di forma<br />

che Steinbruchel riesce a tradurre abilmente tra le<br />

superfici in tonalismi e i panorami di dettaglio.<br />

Volevamo proprio saperne di più e quale migliore<br />

occasione per un ‘intervista.<br />

Hai girato il mondo grazie alle tue installazioni:<br />

da Zurigo a New York, da Parigi a<br />

Los Angeles e Seoul. Com’è cambiato il tuo<br />

approccio al suono nelle live performance<br />

con il tempo, l’esperienza e i recenti progressi<br />

tecnologici?<br />

Attualmente non sto lavorando a nessuna installazione,<br />

ed è da tempo che non sono impegnato in<br />

questo senso. La maggior parte delle mie installazioni<br />

sono state collaborazioni con artisti visuli (o<br />

programmatori), o con altri musicisti.Le installazioni<br />

mi hanno dato la possiblità di lavorare in profondità<br />

con la tridimensionalità del suono, dal momento<br />

che erano tutte concepite per performance<br />

multicanale. Per definirle mi sono sempre servito<br />

della dizione audiosculture. Oggi come oggi, mi<br />

piacerebbe esibirmi dal vivo in performance multicanale,<br />

laddove possibile tecnicamente, per creare<br />

una performance che si situi esattamente a metà<br />

strada tra installazione e live performance. Una<br />

sorta di “performance installativa”.Non credo che<br />

il mio approccio al suono o alla composizione sia<br />

cambiato a causa del progresso tecnologico, o per<br />

simili ragioni. Fermo restando che il progresso nel<br />

campo della spazializzazione del suono e della tecnologia<br />

multicanale hanno aperto la porta a nuove<br />

possibilità, che sono ben felice di integrare nel mio<br />

lavoro se conciliabili con la mia estetica.<br />

Il legame tra spazio e suono è al centro del<br />

dibattito musicologico dagli inizi del XX<br />

secolo. Qual è il tuo concetto di sound-art?<br />

Ti senti più legato al filone purista legato<br />

alla materia sonora o a quello più contestualizzante<br />

d’indagine sonora e di lettura<br />

del contesto?<br />

A nessuno dei due in particolare. Non mi considero<br />

un sound-artist perché quello che faccio è lavorare<br />

sulla composizione di musica che mi smuova<br />

emotivamente e che all’atto dell’ascolto risulti piacevole.<br />

Nel mio fare artistico c’è meno concetto e<br />

senso della struttura di quanto potrebbe sembrare<br />

ad un primo sguardo. Naturalmente mi servo di<br />

un approccio concettuale se questo può servire<br />

alla resa finale, se il concetto è al servizio di ciò che<br />

senti ed ascolti. Ma sono molto più interessato al<br />

risultato finale che al processo in sè.<br />

Con o senza l’utilizzo dell’elettronica la<br />

tua scrittura sembra plasmarsi in ognuna<br />

delle tue esperienze produttive attraverso<br />

una sorta di naturale “manierismo estetico”.<br />

Qual è, se ne esiste uno, il tuo personale<br />

concetto di estetica del suono?<br />

Molto difficile rispondere a parole. Come ti ho già<br />

detto, la maggior parte delle mie musiche deve<br />

agire su di me da un punto di vista emozionale,<br />

interagire con me in una qualche maniera. Cerco<br />

di appropriarmi di un mio linguaggio sonoro specifico<br />

che sottopongo ad aggiustamenti continui,<br />

com’è ovvio che sia, dato che cambio giorno per<br />

40 / Drop Out Drop Out / 41


giorno come persona grazie alle esperienze della<br />

mia vita quotidiana. Naturalmente alcuni di questi<br />

cambiamenti avvengono quasi impercettibilmente<br />

e potrebbero rimanere inavvertiti o risultare illogici<br />

quando percepiti dall’ascoltatore.<br />

Tra le tue innumerevoli collaborazioni vorremmo<br />

ci parlassi di quella uscita per la<br />

12K di Taylor Deupree con Frank Bretschneider,<br />

Status. Com’è nata e come siete riusciti<br />

a far combaciare due stili così differenti<br />

senza perdere l’identità?<br />

Ho incontrato Frank Breschneider qualche anno<br />

fa, in occasione di alcuni festival e performance. Ci<br />

siamo subito piaciuti e abbiamo scoperto di avere<br />

interessi comuni nell’estetica del suono (pur pervenendo<br />

l’uno a risultati molto diversi dall’altro).<br />

Entrambi avevamo appena dato alle stampe un cd<br />

e avevamo voglia di lavorare su qualcosa di più<br />

“aperto” e diverso dalle solite cose. Decidemmo di<br />

scambiarci dei suoni di partenza e di vedere cosa<br />

accadeva se il mio approccio “si scontrava” con il<br />

suo. Questi suoni hanno così iniziato a rimbalzare<br />

da un computer all’altro - il mio ed il suo. Ognuno<br />

dei due ha lavorato sulle sequenze di suono fino<br />

a quando la resa finale non fosse risultata del tutto<br />

soddisfacente. L’obiettivo era realizzare musica<br />

che nessuno dei due avrebbe mai concepito lavorando<br />

in solitaria.<br />

Spesso la tua musica viene comparata al<br />

filone Neomodernista di Richard Chartier<br />

e Ryoji Ikeda che cosa ne pensi? Ti rivedi<br />

in qualche modo nel loro linguaggio sonoro?<br />

In genere sono contrario ai paragoni. Non capisco<br />

perché debbano essere necessariamente fatti, dal<br />

momento che ogni artista – o quasi – segue la sua<br />

propria strada.Mi piace il lavoro di Ryoji Ikeda e<br />

lo rispetto molto, soprattutto quando consiste in<br />

una commistione di sonoro e visuale, così come<br />

rispetto il suo approccio – molto concettuale ma<br />

dotato di un altissimo senso della musica. Potrei<br />

anche concedere che in alcune sue declinazioni mi<br />

ha influenzato - soprattutto in passato. Ma credo<br />

permangano fondamentali differenze tra il mio lavoro<br />

ed il suo. Ryoji ha creato ex novo un linguaggio<br />

musicale e mi piacerebbe davvero poter dire<br />

lo stesso di me - chissà che un giorno io non possa<br />

davvero farlo!<br />

Puoi parlarci di queste ultime esperienze<br />

che potremmo definire concrete, quasi<br />

scultoree: Sustain, uscito per la Koyuki e<br />

Home per la Slaapwel? Come nascono questi<br />

due progetti?<br />

Mentre lavoravo al mio contributo per una compilation<br />

dell’etichetta and-oar una serie di suoni da<br />

esso “fuoriusciti” mi hanno ispirato un’altra composizione...così<br />

è nata Sustain. Ero già in contatto<br />

da molti anni con David Sani (dell’eccellente<br />

mailorder Microsuoni), che mi chiese se avevo a<br />

disposizione del materiale per una uscita sulla label<br />

Koyuki, che gestisce con Luigi Turra. Fui ben<br />

lieto di affidargli Sustain. Home è stata creata su<br />

invito di Wim di Slaapwel Records. Sono entrato<br />

in contatto con lui perché cercavo un disco appartenente<br />

al catalogo di quell’etichetta, e così abbiamo<br />

iniziato a scambiarci delle mail. Mi è subito<br />

piaciuta l’idea di comporre un brano di musica che<br />

concilii il sonno. Per usare le parole dell’etichetta,<br />

«music which is interesting enough to listen to, but<br />

boring enough to fall asleep to». Un’idea davvero<br />

meravigliosa!<br />

Mit Ohne è il documento sonoro di un’installazione<br />

audio/video di Yves Netzhammer<br />

intitolata “The feeling of precise instability<br />

when holding things”, ed esposta<br />

al Museum für Gestaltung di Zurigo. Puoi<br />

parlarcene? Che ruolo ha avuto il suono<br />

nel suo funzionamento?<br />

Yves Netzhammer è uno dei miei artisti visuali<br />

preferiti. É in grado di creare animazioni ed illustrazioni<br />

3-D molto belle e poetiche. Aveva ricevuto<br />

un invito a creare un lavoro sul futuro dei living<br />

spaces e voleva aggiungere un elemento musicale<br />

alla sua installazione. Così ha pensato di allargare<br />

l’invito anche a me. Mi ha inviato una serie di<br />

animazioni che ho sincronizzato a dei suoni. Ho<br />

poi composto sette brevi frammenti di musica che<br />

ora è possibile ascoltare nella recente uscita 12k<br />

Mit Ohne. Durante l’esibizione, le animazioni di<br />

Yves venivano proiettate su tre schermi a loro volta<br />

riflessi da specchi posizionati sotto di essi. Un nuovo<br />

spazio prendeva forma grazie a questo sapiente<br />

utilizzo delle leggi di riflessione. Il suono era irradiato<br />

grazie ad un sistema multicanale: ogni schermo<br />

era dotato di uno speaker che permetteva allo<br />

spettatore un’esperienza spaziale e sonora davvero<br />

uniche.<br />

La tua musica ha la capacità di catturare lo<br />

spazio immergendo l’ascoltatore all’interno<br />

stesso del suono e mettendo profondamente<br />

in gioco il concetto di “percezione<br />

sonora”. Sei d’accordo? Qual è il tuo personale<br />

punto di vista?<br />

In un certo senso è vero, ma non c’è nulla di programmato<br />

da un punto di vista teoretico o concettuale.<br />

Per me lo spazio in sè funziona come<br />

strumento addizionale. Ecco perché quando mi<br />

esibisco dal vivo è molto importante per me disporre<br />

del tempo necessario - solitamente durante<br />

il soundcheck - per entrare in sintonia con lo spazio<br />

fisico nel quale sono situato; per capire come<br />

i suoni interagiranno con quello spazio. L’attenzione<br />

che riservo al concetto di spazio in sè e alla<br />

percezione del suono nello spazio mi spinge inoltre<br />

a preferire il multicanale, laddove possibile.<br />

Cosa pensi dell’attuale stato di salute della<br />

musica sperimentale?<br />

C’è tanta buona musica, ma anche tanta pessima<br />

musica. Artisti validi e artisti meno validi. Etichette<br />

coraggiose ed etichette che non lo sono. Per<br />

quanto mi riguarda, il mio gusto varia giorno per<br />

giorno, dato che quotidianamente scopro nuova<br />

musica. Può piacermi come non piacermi: se non<br />

mi è piaciuta quest’anno, probabilmente imparero’ad<br />

aprezzarla l’anno prossimo, o forse no. E viceversa.


►►►►recensioni ►► ►► febbraio<br />

adriano Modica andrEw Bird Mi aMi<br />

2 novEMBrE – BEllorio (ElEvator / jEstrai,<br />

2 novEMBrE 2008)<br />

gen e r e: g r u n g e -st o n e r<br />

Stoner e grunge, Kyuss e Melvins, a banchettare<br />

amorevolmente tra testi in italiano pieni di buoni<br />

sentimenti (“Merda! Merda! Te lo dico in faccia, Muori!!”)<br />

e titoli che alludono ai progenitori senza rivelarli<br />

(King Buzzo). Il terreno è fertile per far crescere<br />

chitarre elettriche a profusione, toni angoscianti,<br />

muri di bassi e batterie dispari, con lo scopo di rinverdire<br />

i fasti di un’epopea musicale che – ahimè<br />

- se non è morta e sepolta, pare per lo meno in<br />

fin di vita, attaccata com’è al polmone d’acciaio<br />

del tempo. Se è vero, infatti, che pochi tra i reduci<br />

dei Novanta continuano a sfornare operette<br />

dignitose e nuove leve autoctone, come i milanesi<br />

Grenouille, ci illudono che in Italia possa nascere<br />

una new wave della musica di Kurt Cobain e Josh<br />

Homme, è vero anche che i 2 Novembre illustrano<br />

loro malgrado quali siano i rischi per chi si aggiri<br />

senza bussola tra pedalini Boss e flanger assortiti.<br />

Nello specifico, confondere l’ispirazione con la didascalia,<br />

il mal di vivere con il machismo più pacchiano,<br />

l’impeto e la claustrofobia con la noia. In<br />

un’ora di musica che piace solo a tratti e pare fin<br />

troppo abbondante, considerata la quantità di carne<br />

messa al fuoco.<br />

E dire che ai tre musicisti genovesi le doti tecniche<br />

non mancherebbero come non manca un certo<br />

buon gusto, tanto che in qualche frangente ci si<br />

diverte non poco ripensando a quei diciottenni capelloni<br />

che eravamo una quindicina di anni fa (gli<br />

otto minuti dell’ottima GMB). Eppure, sono momenti<br />

sporadici. L’impressione generale, invece, è<br />

che molto si faccia e poco si sia – originali, personali,<br />

consapevoli –, che il nichilismo esistenzialista<br />

dei padri si sia trasformato in oltraggio gratuito,<br />

che lo scarto tra opera di finzione e disco pregevole<br />

sia fin troppo ampio. (5.5/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

action BEat – thE noisE Band froM<br />

BlEtchlEy (truth cult, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: n o i s e -ro c K<br />

È magma bollente quello che fuoriesce dagli strumenti<br />

– tanti, tantissimi – del combo più atteso<br />

d’oltremanica. Altro che cazzate brit-pop o sbruffonate<br />

nu-rave; quello del collettivo spavaldamente<br />

fiero delle proprie origini provinciali è un vero<br />

e proprio assalto al calor bianco come non se ne<br />

sentiva da tempo, specialmente dalla perfida Albione.<br />

Chitarre, chitarre e ancora chitarre; batterie<br />

a profusione; un basso; trombe e sassofoni più o<br />

meno occasionali. Il tutto in quantità variabile ma<br />

in qualità costante, a sfiorare in alcuni momenti<br />

l’eccellenza. Avete presente Glenn Branca? Beh,<br />

fatelo tornare adolescente nella grigia provincia<br />

inglese, clonatelo moltiplicandolo per 5, 6 o 10 e<br />

lasciatelo libero di suonare noise-rock in modalità<br />

impro. Oppure prendete gli olandesi The Ex e<br />

la loro etica/estetica fieramente punk nell’umore<br />

prima che nei suoni e fateli viaggiare indietro nel<br />

tempo all’altezza di Daydream Nation; mandateli<br />

a rubare il master di quel disco e fateglielo risuonare<br />

tutto. The Noise Band From Bletchley<br />

inanella 12 pezzi pressoché strumentali, costruiti<br />

per stratificazione di suoni e distorsioni di chitarra,<br />

con echi tribaloidi e sovrappiù di energia adolescenziale<br />

grezza e coinvolgente. Un muro di suono<br />

che – diversamente da come potrebbe immaginarsi<br />

– non tocca picchi parossistici, né si piega su<br />

se stesso, ma piuttosto lascia presagire una certa<br />

maturità compositiva nelle aperture quasi trance<br />

e ridisegna il concetto troppo spesso abusato di<br />

noise-rock. A breve dalle nostre parti, perciò, siete<br />

avvisati. (7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

adaM paynE – organ (holy Mountain,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie po w e r ro c K<br />

E’ davvero un bell’esempio di rinfrancante e rinfrescante<br />

melting pot, Adam Payne dalla Florida:<br />

figlio di un’italiana e un afroamericano, mostra un<br />

talento musicale assai precoce nutrito dai cartoni<br />

animati del sabato mattina. Polistrumentista, maneggia<br />

lui tutti gli strumenti di questo suo (crediamo)<br />

esordio - mini piuttosto corposo che un tempo<br />

sarebbe stato un album: trentasei minuti - e appese<br />

sul muro vanta quel paio di lauree in statistica<br />

e psicologia. Impossibile per uno così fare<br />

brutta musica, ma vatti a fidare in quest’epoca di<br />

intellettuali emaciati o megalomani: tocca invece<br />

ricredersi, perché Organ è disco frizzante e agile,<br />

arguto e ricco d’idee e melodie. Mettete da parte<br />

le ipotetiche influenze soul - dovrete tuttavia tirarle<br />

fuori per giustificare le cadenze a costante rischio<br />

d’inciampo e impennata della tenera In Hell - e<br />

immaginatevi un power pop corretto dalle sottili<br />

sconnessioni “nerd” dei Pavement. Altrimenti<br />

dei Replacements che preferiscono la Red Bull<br />

alla Budweiser e sono di conseguenza cioè iperattivi<br />

e non sbronzi, in ogni caso ferrati tanto in math<br />

rock e low-fi (gli otto e passa minuti di Incidental Ar-<br />

44 / recensioni recensioni / 45


Hi gH l i gH t<br />

aa. vv. - EvEning’s civil twilight in EMpirEs of tin (dvd, constEllation<br />

/ widE, 26 gEnnaio 2009)<br />

p o s t ro c K<br />

Ci sono svariati modi di fare politica attraverso l’arte e, in chi<br />

scrive, il comizio dal palco non ha mai incontrato gran favori. Nel<br />

limitarsi a declamare slogan, sfuggono alla visione quelle intercapedini<br />

in cui la gente comune finisce per cadere. dimenticata<br />

dai più. Ad esempio le masse di derelitti che marciano dritte nel<br />

tritacarne bellico, per le quali - causa i corsi e ricorsi della natura<br />

distruttiva umana - non esiste differenza tra la Marna e Bassora,<br />

il gas nervino e le bombe al fosforo bianco. Questo pare volerci In<br />

sostanza dire il regista Jem Cohen tramite questa splendida pellicola,<br />

emozionante e leggibile a più livelli: che la Storia si ripete<br />

e gli imperi sull’orlo del collasso generano un nuovo ordine mondiale. Cadeva l’autunno<br />

del 2007 allorché Cohen - tra le tante cose autore del fantastico Instrument dei Fugazi e di<br />

alcuni video dei giovani R.e.m. - venne chiamato a concludere l’International Film Festival<br />

di Vienna con Evening’s Civil Twilight In Empires <strong>Of</strong> Tin. L’opera, ispirata in parte al romanzo<br />

The Radetsky March di Joseph Roth, sovrapponeva a immagini della Vienna antecedente<br />

il primo conflitto mondiale visioni contemporanee della capitale austriaca e di New York.<br />

L’impero americano come quello austro-ungarico ne uscivano come due Titanic in cui l’orchestra<br />

seguita a suonare mentre si cola a picco, tutti insieme inesorabilmente. Un’affermazione<br />

“politica” netta e tagliente, offerta sommando in modo indistinguibile letteratura,<br />

musica e coscienza sociale. Il commento sonoro alle immagini lo offrirono nientemeno che<br />

gli artefici del capolavoro North Star Deserter, al tempo fresco di pubblicazione: Vic Chesnutt<br />

e i Silver Mt Zion, più Guy Picciotto e l’ensemble sperimentale Quavers. Tra ondate<br />

di rumore controllato e una decostruzione anticata e ondeggiante della straussiana Marcia<br />

di Radetzky, si dipanano i fili di un folk cameristico da tregenda nelle immense Distortion e<br />

Sponge, in una What He Is And What He Ain’t degna del Tom Waits più luciferino e nella riassuntiva<br />

Coward composta per l’occasione. Le immagini alternano sapientemente consunti<br />

fotogrammi d’epoca a paesaggi urbani qui avvolti in un granuloso grigio seppia, là riconsegnati<br />

ai propri cromatismi; sono simboli e scheletri di luoghi in cui le persone si aggirano<br />

come fossero brandelli di vita, velocizzate e rallentate secondo lo stile tipico di Cohen. Il<br />

quale si sofferma poi sui volti dei musicisti a coglierne il particolare rivelatore da un gesto,<br />

un’espressione del viso rubata durante l’esecuzione live, in tal modo abbattendo il muro tra<br />

il tema e la sua rappresentazione. Oltre il rockumentary e la denuncia, oltre il film d’autore e<br />

la sperimentazione sonora, camminiamo in una terra a sé stante. Rabbrividente e veritiera<br />

per come riassume un decennio di avvenimenti americani e pertanto anche mondiali che<br />

speriamo destinati a essere definitivamente archiviati. Si resta in quest’ora e quaranta minuti,<br />

al contempo incollati alla sedia e al muro. Necessario esporsi a tanta penetrante bellezza,<br />

oggi più che mai. (8.0/10)<br />

giancarlo turra<br />

rangement si snodano torpidamente acidi e jazzy, un<br />

po’ Polvo e un po’ Storm & Stress; la cavalcata<br />

wave Wind, Wind, Wind/Take A Look) quanto nello<br />

stile stradaiolo e meticcio canonizzato da Exile On<br />

Main Street (The One After Eyes). Non contento, Payne<br />

si ricorda di avere sullo scaffale un lp dei Big<br />

Star e uno dei Dinosaur Jr. e una sera gli viene<br />

in mente che sarebbe una bella idea farli convivere<br />

sotto una patina glam autoironica, facciamo simile<br />

a quella dei primi Urge Overkill (Never See You<br />

Anymore); infine, prima di coricarsi per il meritato<br />

riposo quotidiano, estrae dal cilindro una Fruzstration<br />

che - a passo di ballata cupa e sgasata - conduce<br />

i Jacobites al ranch dei Crazy Horse. Penserete<br />

di ascoltare una compilation, un condominio abitato<br />

da gente che non si parla e manco si guarda.<br />

Un accidente: c’è il robusto filo conduttore di creatività<br />

a ruota libera e calligrafia convincente a<br />

tenere insieme tutto. Ci sono canzoni che canticchierete<br />

in men che non si dica e alle quali sarà<br />

impossibile non affezionarvi. T<br />

anta carne al fuoco, mai scotta o bruciata: complimenti<br />

al cuoco. (7.0/10)<br />

giancarlo turra<br />

aidan Moffat & thE BEst ofs – how to<br />

gEt to hEavEn froM scotland (chEMikal<br />

undErground / audiogloBE, fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: f o l K , s o n g w r i t i n g , indie<br />

La sfida di Aidan Moffat all’appuntamento ufficiale<br />

post-Arab Strap? Scrivere un disco di canzoni<br />

d’amore… felici. E, in effetti, gli umori di cui si<br />

nutre il suo debutto con i Best <strong>Of</strong>s - più che una<br />

band, una duttile compagine di accompagnatori,<br />

fra cui l’ex Delgado Alun Woodward – appaiono<br />

lontani dalla malinconia del duo di provenienza,<br />

alla ricerca di diverse aperture e forme espressive.<br />

Se I Can Hear Your Heart, pubblicato un anno<br />

fa come Aidan John Moffat, era più un esperimento<br />

di poesia (porno, ovviamente, con le sue buone<br />

dosi di sarcasmo e crudeltà), adesso si tratta di riprendere<br />

in mano la canzone con nuove consape-<br />

volezze e nuovi intenti, anche poetici. Nonostante<br />

orfano dell’amico Malcolm Middleton, che ormai<br />

veleggia sicuro in solitaria, l’autore e cantante<br />

sembra già sguazzare in una dimensione ideale,<br />

grazie anche a musicisti che ne assecondano ogni<br />

capriccio e, soprattutto, a buone idee.<br />

Come ad esempio riscoprire le proprie radici folk,<br />

e partire da esse per raccontare storie d’amore sicuramente<br />

agrodolci, irrimediabilmente ubriache,<br />

ma sincere e – in primis - a lieto fine.<br />

Ci vorrebbe un capitolo a sé, ma basti l’esempio<br />

di Living With You Now, in cui Aidan riesce a cavare<br />

fuori romanticismo anche da un rapporto che si<br />

esprime, primariamente, nell’azzuffarsi. Sarebbe<br />

bello se prima o poi si riconoscesse universalmente<br />

la statura di Moffat non solo come musicista –<br />

sull’apporto del suo vecchio gruppo ci sono pochi<br />

dubbi, crediamo -, ma anche come uno dei poeti<br />

più personali della sua generazione; uno capace<br />

di portarti in posti precisi soltanto con la sua voce<br />

storta, con la maniera inequivocabile di storpiare<br />

e cantilenare frasi e parole.<br />

Quanto ai suoni, il tappeto è il più vario possibile,<br />

in un riuscito amalgama acustico-elettronico sempre<br />

adatto a ciò che il brano richiede, sia l’indie<br />

folk di classe del singolo Big Blonde, i sentori etilici<br />

Pogues di Oh Men, That’s Just Love e The Last Kiss<br />

o i semplici a cappella di Lover’s Song e My Goodbye.<br />

Qua e là le suggestioni Arab Strap non mancano,<br />

certo (A Scenic Route To The Isle <strong>Of</strong> Ewe, Now I Know<br />

I’m Right); ma How To Get To Heaven From<br />

Scotland (un plauso al titolo, ça va sans dire) somiglia<br />

più al lavoro di un cantautore dall’impronta<br />

già inconfondibile che al tentativo di un ex di trovare<br />

la propria strada - il riferimento a Middleton<br />

è puramente voluto, anche se ce ne duole. Vogliamo<br />

infine aggiungere un dettaglio tutt’altro che<br />

trascurabile: l’album viene pubblicato il giorno di<br />

San Valentino. Che sia un po’ di sano romanticismo<br />

alcolico l’antidoto ai tempi grigi che stiamo<br />

attraversando? (7.3/10)<br />

antonio puglia<br />

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alEla dianE – to BE still (naivE /<br />

sElf, 20 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: f o l K bl u e s<br />

Dallo scarno folk blues acustico del disco d’esordio<br />

The Pirate’s Gospel (2007) sembra passato<br />

un bel po’ di tempo in fatto di produzione: To Be<br />

Still è infatti tutto fuorché minimale. Realizzato<br />

al solito con un ampio gruppo di amici-musicisti e<br />

con la collaborazione del sempre presente padrino<br />

Michael Hurley (qui alla voce nella struggente<br />

Age Old Blue), vede<br />

le composizioni,<br />

cantate con il solito<br />

trasporto dalla<br />

Nostra, riempirsi<br />

di strumenti ed arrangiamenti,<br />

che<br />

danno profondità ai<br />

pezzi. Echi di Will<br />

Oldham e spettralità dolenti, nonché desertiche<br />

echeggiano per tutto l’album, come nella splendida<br />

title track country con la pedal steel a dominare,<br />

nella già citata Age Old Blue con echi di Karen Dalton.<br />

Altrove mandolini (Tatted Lace), archi (Take Us<br />

Back) violini (White As Diamonds) e le solite voci doppiate<br />

sua caratteristica, per un suono pieno e tradizionale<br />

che ricorda del resto l’ultimissima Larkin<br />

Grimm. Di inquietudine, contemplazione e<br />

solitudine qui si tratta, cantati con trasporto lirico<br />

ma senza eccessivi fronzoli. Il salto dal precedente<br />

disco si sente in fatto quindi di coesione e composizioni,<br />

segno di avvenuta maturità. (7.1/10)<br />

tErEsa grEco<br />

ando – haBitat (BinE, 2008)<br />

gen e r e: M i n i M a l /da n c e f l o o r<br />

Il percorso di Taylor Deupree (Ando) è multiforme,<br />

non è certo una novità per chi lo segue da tempo,<br />

semmai per chi ne ha apprezzato le ultime opere<br />

in bilanciato rapporto tra acustico e sintetico.<br />

Le premesse c’erano già nella scuola anni ‘80 che<br />

ha segnato le sue inclinazioni all’elettronica più<br />

sperimentale, nelle prime collaborazioni con Sav-<br />

vas Ysatis sotto il nome ARC o Unit Park se parliamo<br />

di Schoenemann. Assistiamo così ad un cambio<br />

di registro, non un vero e proprio volta pagina,<br />

ma una ponderata analisi di forma che per questa<br />

uscita firmata Bine Music si fa espressione di configurate<br />

radici techno. Dimenticate per un attimo,<br />

per quanto nitida ne permanga la memoria, le iterate<br />

texture di Northen e il Taylor Deupree più<br />

introspettivo, per fare un passo indietro verso gli<br />

esordi e le energie giovanili. Un dichiarato 4/4 che<br />

funge da filo conduttore di filtrazioni, introduzioni,<br />

battiti e linearità. Ma Habitat non è solo questo,<br />

è matura esperienza che intreccia elettronica<br />

con miniature-sonore, con la risaputa eleganza di<br />

stile che lo rende brillante. Giocano con il tempo<br />

e con il ritmo, queste quattro tracce, lavorano con<br />

il multiplo, le relazioni, il ripetitivismo e le pause,<br />

senza spogliarsi delle fluenze techno, senza mai diventarne<br />

schiave.<br />

Per molti magari un azzardo, sicuramente l’ennesima<br />

conferma della innegabile potenza sonora di<br />

Deupree. (7.0/10)<br />

sara Bracco<br />

andrEy kiritchEnko – MistErrious<br />

(spEkk, 2008)<br />

g e n e r e: M i n i M a l i s M i -aM b i e n t<br />

Per la seconda prova con la Spekk dopo True Delusion,<br />

A. Kiritchenko dimentica per un attimo<br />

le astrazioni in micro-suoni di Kinga Skazok o<br />

l’elettronica “pop” di There Was No End per<br />

condurre la sua creatività verso visionari territori<br />

di confine.<br />

Artista di punta della scena ucraina e fondatore<br />

dell’etichetta Nexsound, con Misterrious l’autore<br />

porta avanti le sovrapposizioni di Stuffed<br />

With senza dimenticare l’eredità della passata<br />

collaborazione con Courtis-Moglass.Un capitolo<br />

fondamentale per Kiritchenko, che non si lascia<br />

condizionare dal registrio elettronico per dedicarsi<br />

a partiture decisamente più acustiche. Si mettono<br />

in circolo gerarchie soliste di un pianoforte<br />

(Let oneself in) dal sapore minimalista (Sparkling early<br />

mornings) che si lascia divorare dalle ridondanze in<br />

percussioni per poi imporsi come forma portante<br />

(Wounded by love). Mentre all’elettronica spetta il<br />

puntualismo di Your thoughts in scary forest, trai voluti<br />

eclettismi di batteria o i siderali contributi ambient<br />

(Evening lights wrap me softly). Decisamente riuscite<br />

le formule acustiche in loop di Persistent visions o i<br />

timori in pellicole che trasudano attesa (Untitled inquietudes).<br />

Una dinamica che dirige le frequenze, il<br />

cui trait d’union è la scelta di quella voce narrante<br />

sotto forma di pianoforte che muta l’approccio<br />

pur mantenendo quella coerenza sintetica di linguaggio<br />

concreto. Il tutto eseguito secondo il naturale<br />

ordine delle cose proprio dell’improvvisazione,<br />

tra attitudini e feeling di delicata morbidezza.<br />

(6.7/10)<br />

sara Bracco<br />

asoBi sEksu – hush (onE littlE indian,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: p o p<br />

Terzo disco per il gruppo nippoamericano di Yuki<br />

Chikudate. Ci si aspettava qualcosa di più di uno<br />

scimmiottamento di movenze soniche trite e ritrite<br />

come gli accenni pastorali dell’iniziale Layers che<br />

fa un po’ Enya un po’ Cranberries, le progressività<br />

naïve di Familiar<br />

Light, i tastieroni<br />

à la Organ di Sing<br />

Tomorrow’s Praise e le<br />

stanze lounge di stereolabiana<br />

memoria<br />

(Gliss). Le atmosfere<br />

hanno sorpassato il<br />

citazionismo shoegaze<br />

e si sono invischiate<br />

in un emo che ha poca intraprendenza<br />

indie e che in fondo è pop di normale amministrazione.<br />

La voce della leader fa il suo mestiere, ma<br />

non stupisce. Peccato. Lo spleen si è bruciato nel<br />

giro di due anni. Ritroveranno la scintilla? Staremo<br />

a vedere. Intanto basta e avanza un (5.0/10).<br />

Marco Braggion<br />

Barzin – notEs to an aBsEnt lovEr<br />

(MonotrEME, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: s a d sl o w co r e<br />

Bisognerebbe rettificare il glossario musicale così<br />

che al posto di “intima ballata strappalacrime” si<br />

potesse inserire Barzin, solamente Barzin. Perché<br />

sì, con il cantautore canadese abbiamo a che fare<br />

sempre con la ricerca della canzone d’amore perfetta,<br />

sofferta e straziante. E il suo terzo album già<br />

dal titolo, Notes To An Absent Lover, non fa che<br />

confermarlo, non cambiando assolutamente niente<br />

rispetto ai due lavori precedenti. E ciò, in questo<br />

caso, è senz’ombra di dubbio un merito: la sua<br />

sommessa ma suggestiva voce fa esplodere struggenti<br />

mondi fatti di carezze, assenze, solitudini,<br />

sguardi e intermittenze emozionali, che un attento<br />

e mai invasivo impianto sonoro asseconda dolcemente,<br />

ora con ricercati saliscendi strumentali ora<br />

con uno scarno incedere. Il suo è un morbido slow<br />

core cantautorale, affine a quello dei Dakota Suite,<br />

che esce direttamente dal cuore. Insomma, l’estetica<br />

dello struggimento amoroso passa sicuramente<br />

da qua. Magari non se ne sentirà il bisogno di accederci,<br />

ma mai dire mai. (7.0/10)<br />

andrEa provinciali<br />

Bastion – sElf titlEd (intErrEgnuM,<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: f r e e -dr o n e<br />

Pratica corrente quella del dialogo a distanza tra<br />

artisti più o meno lontani geograficamente e stilisticamente.<br />

Quasi comune verrebbe da dire, con<br />

un po’ di puzza sotto al naso. Senonché incroci<br />

tanto inimmaginabili quanto entusiasmanti come<br />

quello che ha dato i natali al progetto Bastion, ci<br />

fanno tornare in mente che tanto comuni dopotutto<br />

non sono. Almeno nell’accezione di banali,<br />

semplici, normali. Jukka Reverberi nelle sue vesti<br />

più sperimentali (il versante in solitaria die stadt<br />

der romantische punks) e Valerio Cosi nelle<br />

sue vesti più incredibilmente camaleontiche sono i<br />

protagonisti dietro Bastion e intessono per l’omonimo<br />

esordio un denso 4pieces evocativo quanto<br />

48 / recensioni recensioni / 49


Hi gH l i gH t<br />

adriano Modica - annanna (trovaroBato, dicEMBrE 2008)<br />

a v a n t fo l K ro c K<br />

L’attesa per il nuovo album di Adriano Modica viene<br />

spezzata e ravvivata dalla pubblicazione di Annanna, il<br />

primo capitolo finora inedito della trilogia di cui Il fantasma<br />

ha paura era il secondo e La sedia sarà il conclusivo.<br />

Trattasi del cosiddetto album di stoffa, perché - come<br />

dichiara lo stesso Modica - rimanda al senso di calore,<br />

sofficità e protezione in cui avvolgiamo l’infanzia, cui le<br />

nove tracce in scaletta si rivolgono come su una voragine<br />

mnemonica. Rispetto al successore, è album più intenso<br />

ed essenziale, di un lirismo crudo sorretto da immagini sconcertanti dall’odore minacciosamente<br />

familiare, capace di attraversare con lieve autorevolezza una terra di nessuno<br />

tra folk, psych, prog e post-cantautoriale. Soprattutto: è bello. Tanto che non ti spieghi<br />

come sia potuto rimanere ad ammuffire per tre anni, da non crederci che oggi te lo puoi<br />

scaricare gratis direttamente dal sito dell’artista reggino. Il quale ti conduce come un<br />

Virgilio sotto benzedrina tra flash di ricordi, aprendo vecchi cassetti che è “come rubare<br />

ciò che è tuo”, col passo sognante e irrequieto di un Gazzé via Radiohead (in Le sirene<br />

dello Stretto) o contagiato da emulsioni cosmiche Tiromancino (tolte le fregole festivaliere,<br />

come in Sapone Verde e nella title track), tra fiabesche apprensioni Barrett e frastagliati<br />

tremori Marco Parente (Primo volo, Cassetti chiusi a chiave), sbrigandosela tra spasimi<br />

acustici finché la spinta visionaria non spinge su terreni acidi (il flamenco ghignante de Il<br />

settenano di pietra e soprattutto A.C.N.E., mitraglie di sfondo e passo robotico tra il primo<br />

Dalla, i Kuntz e i CSI). Da restare senza parole. Di nuovo in attesa. (7.5/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

lugubre. Non una citazione casuale quella del progetto<br />

privato drone-ambient di Reverberi in vece<br />

del più plausibile e rinomato GDM di postrockiana<br />

memoria, perché proprio da lì prende il via Bastion.<br />

Oltre che dalle musiche, qui più “corpose”<br />

e screziate grazie alla sensibilità di Cosi, anche da<br />

un rimando postato in un commento sul suo blog<br />

in tempi non sospetti, in cui ad essere direttamente<br />

tirato in ballo è l’immaginario Blade Runner:<br />

le mie non sono lacrime nella pioggia. anche se con questo<br />

progetto vorrei vedere i bastioni a largo di orione.... Proprio<br />

come nelle musiche, nelle cui architetture di textures,<br />

miscrosuoni, rumori bianchi e sfarfallii vari,<br />

ad essere evocato è quel cielo plumbeo, quel clima<br />

soffocante, quel senso di ottundente claustrofobia<br />

da jungla post-urbana. E se la caratteristica intrinseca<br />

fondante di Bastion è la distanza (apparente)<br />

tra i due bastioni, la resa è quella di una materia<br />

magmatica che ingloba l’ascoltatore fino a farlo<br />

precipitare nei suoi meandri. (7.2/10)<br />

stEfano piffEri<br />

ashlEy BEEdlE/horacE andy – inspiration<br />

inforMation, vol. 2 (strut /<br />

audiogloBE, 2 Marzo 2009)<br />

gen e r e: e l e c t r o re g g a e<br />

Sulla carta è non poco stimolante l’idea alla base<br />

di questa serie di uscite della Strut, qui giunta al<br />

secondo tomo: similmente alla collana In The Fishtank<br />

edita tempo addietro della Konkurrent, si<br />

riuniscono un paio di artisti in studio di registrazione<br />

per pubblicare poi i risultati della collaborazione.<br />

Che è una moneta estemporanea e con<br />

due facce, sulla quale grava il rischio latente che il<br />

materiale possa suonare “tirato via” a causa della<br />

fretta o dell’eccesso di entusiasmo. Va a finire in<br />

parte così tra la leggendaria ugola reggae Horace<br />

Andy e il produttore Ashley Beedle, già con X-<br />

Press 2, Ballistic Brothers e Black Science<br />

Orchestra. Sono comprensibilmente i Caraibi<br />

a rappresentare il terreno comune, anche in virtù<br />

del fatto che Beedle - suddito di Sua Maestà Elisabetta<br />

- vanta in parte origini nelle Barbados; un<br />

fattore anagrafico che spiega l’agio col quale si è<br />

in passato accostasto alla battuta in levare e il suo<br />

remixare e “mash-uppare” alcuni classici di Bob<br />

Marley nel 2005. Detto che la forma delle corde<br />

vocali di Andy ha tuttora dello stupefacente, non<br />

possiamo esimerci dal rilevare l’esito altalenante<br />

del disco, che finisce per afflosciarsi nella seconda<br />

metà. Prima di una inqualificabile cover della stoniana<br />

Angie - un orrore nell’originale, figuratevi voi<br />

riletta con passo tra reggae e mariachi - sfilano il<br />

martellare militante di Rasta Don’t, una solare e arguta<br />

Hypocrite Dog, le cadenze percussive di latinità<br />

modernista in When The Rain Falls. Altrove è una<br />

concezione morbida e “conscious” del reggae a<br />

elargire il frutto in assoluto migliore con The Light,<br />

sviluppo melodico speziato di aromi arabeggianti,<br />

mentre soluzioni prossime a un agile dub elettronico<br />

(Watch We) e prossime a intuizioni di scuola<br />

bristoliana (2-Way Traffic) chiudono il cerchio col<br />

passato recente di entrambi. Non disprezzabile il<br />

rimanente, a parte una Hot Hot Hot ruffianotta e<br />

col fiatone, che però scorre senza imprimersi nella<br />

memoria. Nonostante il talento e la sintonia, un<br />

controllo qualità più approfondito avrebbe senz’altro<br />

giovato. (6.5/10)<br />

giancarlo turra<br />

BEirut – March of thE zapotEc &<br />

rEalpEoplE – holland (Ba da Bing! /<br />

audiogloBE, 16 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie fo l K ba l c a n i c o<br />

Dopo aver annullato il tour europeo per troppo<br />

perfezionismo, Zach Condon cerca di consolare i<br />

fan con questa nuova uscita, che in qualche modo<br />

prosegue sulla linea della “stranezza” che contraddistingue<br />

il percorso del cantante: non di un nuovo<br />

album si tratta, infatti, benché la durata alla fine<br />

sia quasi quella, ma di due EP pubblicati insieme,<br />

col secondo attribuito a Realpeople, lo pseudonimo<br />

con cui il nostro pubblicava musica elettronica.<br />

Due facce dell’autore, quindi, rese in teoria ancora<br />

più distanti dal fatto che Zapotec è stato registrato<br />

in Messico utilizzando una tipica banda da funerali<br />

locale, i Jimenez, inizialmente contattata per<br />

la colonna sonora di un film poi annullato. In realtà,<br />

non solo le due facce si somigliano più di quanto<br />

le premesse farebbero pensare, perché Condon<br />

dimostra ancora una volta di saper piegare le sue<br />

fonti a sfumature del suo inconfondibile stile, limitando<br />

di molto le differenze tra il materiale costruito<br />

con 17 elementi e quello fatto col laptop; ma<br />

scopriamo anche che il Messico e i Balcani non<br />

sono nemmeno così distanti.<br />

Eccettuata la breve intro di Zocalo e qualche sfumatura<br />

qua e là (My Wife, The Akara in cui l’ukulele<br />

mal si distingue da un charango), l’orchestra<br />

suona infatti per lo più come le sue omologhe<br />

della terra di Bregovic, il cui gruppo si definisce<br />

“orchestra per matrimoni e funerali”: una tradizione<br />

che attraversa Mediterraneo e Atlantico che<br />

Condon armonizza grazie anche a partiture che,<br />

come composizione e ritmi (dolenti melodie spesso<br />

a tempo di valzer), hanno risentito poco della trasferta<br />

pur lasciando più volte ai Jimenez spazi per<br />

esprimersi.<br />

50 / recensioni recensioni / 51


Anche nel secondo cd la penna di Condon mantiene<br />

la rotta sulle proprie coordinate (tutto sommato<br />

dividere in due il disco non era nemmeno<br />

indispensabile), ma l’elettronica si fa sentire un po’<br />

più del Messico: nel finale di No Dice, uno scherzo-omaggio<br />

un po’ allunga-brodo, più seriamente<br />

nei riverberi Yorkiani della suggestiva, splendida<br />

Venice, nei quasi-<strong>Of</strong>flaga di My Wife… e nell’iniziale<br />

My Night… dove si oscilla tra la riconoscibilità<br />

dello stile e una rinfrescata sonora ottenuta<br />

curiosamente riandando alle sue origini di manipolatore<br />

elettronico. Un disco -o due- che vanno<br />

avanti tornando indietro, che ritrovano le origini<br />

allontanandosi: non tutto è splendido, ma il talento<br />

per fare un piccolo miracolo come questo c’è.<br />

(6.9/10)<br />

giulio pasquali<br />

BEn nash / nautilus – split (BlackEst<br />

rainBow, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: d r o n e /fo l K<br />

Mi ero letteralmente perso dietro ai ghirigori elettro-acustici<br />

di The Seventh Goodbye, edito la<br />

scorsa primavera in versione digitale da Aurora<br />

Borealis, marchio solitamente dedito ad esplorazioni<br />

in ambiti metal più prossimi al decadentismo<br />

ambient od al teatro della musica eterna. Ben Nash<br />

è cavallo di razza, già da quel confortante album<br />

si coglievano i segni di un’ispirazione quasi divina.<br />

Musica da western da fine del mondo, un senso<br />

inedito di sfida e attesa, pellicole polverose ed una<br />

chitarra sempre protagonista. Un po’ Ry Cooder,<br />

un po’ Morricone, va da sé, ma con ovvi rimandi<br />

a quello che è il cosiddetto movimento weird<br />

folk. Perchè i paragoni contemporanei più prossimi<br />

non ingannano: in questa spettrale coltre strumentale<br />

ci avviciniamo al senso onirico di un Ben<br />

Chasny o di un Alexander Tucker. Con l’ovvio<br />

desiderio di travalicare l’epopea folk attraverso<br />

vibranti escrescenze soniche ed un’ovvia dedizione<br />

per il drone. Delle due tracce presentate Plymouth<br />

Bredren Blues spicca suprema, affacciandosi anche<br />

in maniera mefitica verso il delta e convogliando<br />

anomale melodie flamenco. Non male nemmeno<br />

Interloper/Latch, materia che ufficialmente sarebbe<br />

potuta finire negli ultimi dischi di Fahey. Nautilus<br />

è invece il progetto solista di Heidi Diehl dei<br />

Vanishing Voice/Time Life (siamo nella Brooklyn<br />

limitrofa alle storie cantautorali off di Wooden<br />

Wand), anche qui arabeschi drone, conditi da una<br />

rilevante componente krauta in area Amon Duul<br />

II/Popol Vuh. Tre brani, di cui Still Rings appare<br />

come personale capolavoro: una psichedelia dei<br />

sensi che lascia ben sperare per prove più estese.<br />

Vinile limitato a 269 copie. (7.0/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

BEn kwEllEr - changing horsEs (ato,<br />

2 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: a l t co u n t r y<br />

Ricordo Ben Kweller ragazzino al debutto con<br />

Sha Sha (ATO, 2002), quella vena balzana e indolenzita,<br />

i guizzi genialoidi lo-fi e una certa versatilità<br />

che scomodarono link più o meno immediati<br />

con Badly Drawn Boy, paragone illustro visto<br />

che all’epoca il buon Damon Gough veleggiava<br />

alto tra i favori e le<br />

aspettative di pubblico<br />

e critica. Accolgo<br />

quindi questo<br />

Changing Horses<br />

- quarto lavoro per<br />

Mr. Kweller - con la<br />

colpevole mancanza<br />

di aver saltato a pié<br />

pari l’omonimo terzo lavoro del 2006, forse inconsciamente<br />

scoraggiato dal discreto sophomore On<br />

My Way (ATO 2004) che lo consegnò al rango<br />

dei più, ovvero ad una medietà carina, a tratti intrigante<br />

ma abbastanza ovviabile.<br />

Scopro così con un pizzico di sorpresa che l’ex<br />

giovane Ben - oramai ventisettenne, praticamente<br />

decrepito - tenta la carta del country, col fare<br />

inevitabilmente “alt” che proviene da un approccio<br />

vagamente sbarazzino alla materia. Fermo restando<br />

il rispetto di norme e forme, a partire dalla<br />

line-up, composta da lui a chitarra, piano e voce,<br />

dai fedeli Chris Morrissey e Mark Stepro a basso<br />

e batteria (drums), più il bravo Kitt Kitterman ai<br />

ricami di dobro e pedal steel. Insomma, diavolo<br />

d’un Ben: è ovvio che così mi frega. Per forza finisco<br />

con l’affezionarmi ad una Old Hat col suo<br />

ciondolare struggente Wilco, al rigurgito vaudeville<br />

di una Sawdust Man, ai languori spersi di Ballad<br />

<strong>Of</strong> Wendy Baker (stiepiditi da un refolo d’archi),<br />

all’asciuttezza Dylan di Wantin’ Her Again o ancora<br />

a quella Hurtin’ You come potrebbe un Malkmus<br />

qualora lo cogliesse il morbo Gram Parsons.<br />

Detto ciò, Kwelle è lungi dal sembrarmi un artista<br />

imprescindibile. Facciamo che ha saputo muovere<br />

con genuina arguzia le pedine giuste. Nulla da<br />

rimproverargli. (6.4/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

Black EyEd dog - rhaianulEdada<br />

(songs to sissy) (ghost rEcords /<br />

audiogloBE, 22 gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: c a n t a u t o r a t o fo l K -bl u e s<br />

Non nascondo di provare una certa curiosità per<br />

Fabio Parrinello, cosmopolita o apolide non saprei<br />

bene (nato a Varese, cresciuto tra Londra e Los<br />

Angeles, attualmente domiciliato a Palermo), uno<br />

che si nasconde dietro ad un moniker sfacciatamente<br />

drakeiano salvo poi disimpegnarsi più che<br />

altro in direzione Tim Buckley, uno che dopo<br />

i consensi ricevuti dall’esordio Love Is A Dog<br />

From Hell (Ghost Records / Audioglobe, aprile<br />

2007) si è mediaticamente eclissato, magari per<br />

covare con le dovute attenzioni il qui presente successore<br />

Rhaianuledada. Nel quale vengono perlopiù<br />

abbandonati i buckleismi vagamente freak<br />

dell’esordio in favore d’un cantautorato intimista,<br />

cupo e appassionato, sorta di versione schiva di un<br />

Goodmorningboy oppure un Josh Ritter problematico.<br />

Da un certo punto di vista si tratta di<br />

un’implosione, un rifugio morbidamente claustrofobico,<br />

però non fai in tempo a sentirti soffocare<br />

che le melodie e l’essenziale lirismo degli arrangiamenti<br />

tracciano feritoie da cui soffiano refoli<br />

romantici e tutto sommato consolatori. Capita nel<br />

passo frugale di All 4 You, dove la fisarmonica è<br />

una carezza frugale, oppure tra le brume tenere di<br />

I Got You In con la tiepida benedizione del violino,<br />

e ancora nel soffice guaire dell’armonica nella dolciastra<br />

Daly Suicide, nella lunare The Way To My Heart<br />

con quei cori da Will Oldham cherubino, per<br />

non dire di quella Salina’s che tra pianoforte e clarinetto<br />

sbriglia un piglio da Lanegan ingentilito e<br />

controcanto efebico quasi Rufus Wainwright. Il<br />

tessuto s’increspa complicandosi in Honeysuckle Gal<br />

(delirio piratesco da Devendra Banhart waitsiano),<br />

concedendosi fregole jazzy nell’iniziale Roses<br />

(con un piano quasi Paolo Conte) e masticando<br />

certe ugge inafferrabili<br />

vagamente<br />

Peter Hammill<br />

nella notevole Drink<br />

Me (le elettroniche a<br />

perturbare la trama<br />

di chitarre, piano e<br />

percussioni).<br />

Alla fine resti appeso<br />

ad un senso di sedazione<br />

emotiva che appiana ogni escursione, allestendo<br />

un giaciglio forse un po’ monotono e schivo<br />

ma ugualmente - e stranamente - affettuoso. Non<br />

parlerei di una crescita, ma di un riposizionamento<br />

poetico che conferma Black Eyed Dog tra le più<br />

interessanti realtà indie nostrane. (7.1/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

Boozoo Bajou - grains (!k7/audiogloBE,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: p o s t do w n t e M p o<br />

L’effetto che restituisce l’ascolto di questa nuova<br />

fatica della coppia tedesca ha del paradossale: richiama<br />

alla memoria la breve e felice stagione in<br />

cui esplosero trip-hop e downtempo, che prima di<br />

trasformarsi in salottiero sottofondo buono per i<br />

centri estetici qualche bel disco fecero in tempo a<br />

consegnarcelo. Sembra, insomma, di leggere oggi<br />

una missiva che doveva esser spedita un decennio e<br />

52 / recensioni recensioni / 53


otti or sono per avere reale consistenza, per suscitare<br />

le emozioni che chi la scrisse aveva in mente.<br />

Alla prova dei fatti risulta difatti interessante il loro<br />

approccio moderatamente trasversale alla materia<br />

volto a fare cosa sola di elettronica e jazz, soul e<br />

latinità, slarghi dub e inquietudini post: il problema<br />

sorge nel momento in cui realizzi che di calendari<br />

dal muro ne hai frattanto staccati un bel po’. Va difatti<br />

benissimo omaggiare e in parte aggiornare gli<br />

Everything But The Girl di Eden tramite la delicata<br />

Messengers e genuflettersi ai Michael Brook e<br />

Daniel Lanois del caso nel sentire cinematico di<br />

Fuersattel e nelle tensioni “noir” di Kinder Ohne Strom<br />

e Big Nicks; assai meno l’aver trattenuto di Isaac<br />

Hayes la buccia e non il frutto, oppure perdersi<br />

dentro talune eccessive gassosità del tipo che l’ambiente<br />

lo riempiono senza riuscire a crearselo intorno.<br />

Accade giusto in un paio di episodi e si deve<br />

tenerne conto, frattanto aggiungendo sul piatto le<br />

title-track e le Same Sun più realiste del re nel loro<br />

rifarsi ai primi Air. Se poi tra gli invitati alla festa<br />

sbucano fuori anche Kruder & Dorfmeister<br />

e sotto bracci recano la glassa sinuosa e suadente<br />

che li fece famosi, converrete che Boozoo Bajou<br />

di talento puro non ne hanno poi molto. Piuttosto<br />

abbiamo a che fare con artigiani valenti e moderatamente<br />

abili, dal discreto gusto e tecnica adeguata.<br />

Prendendo spunto dai “what if ” resi celebri<br />

da Philip K. Dick, viene da pensare cosa sarebbe<br />

accaduto se Grains avesse visto la luce nel 1998. In<br />

questa epoca confusa e indecifrabile, pur convincendoci<br />

abbastanza, ci diciamo certi che non potrà<br />

lasciare segni di rilievo. (6.6/10)<br />

giancarlo turra<br />

BrucE springstEEn - working on a<br />

drEaM (coluMBia, 27 gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: f o l K ro c K<br />

Non è certo per mera convenienza che il Boss si sta<br />

prestando ad uscite tanto… sconvenienti. Perché -<br />

lo dico subito - Working on a Dream è un brutto<br />

disco. Spompa e confusa l’ispirazione, affogata<br />

tra arrangiamenti che tendono inevitabilmente a<br />

“stroppiare”, pensando bene di sconcertarti fin<br />

dall’iniziale Outlaw Pete coi suoi scivoloni morriconiani.<br />

No, l’onestà dell’uomo e dell’artista non la<br />

metterei in discussione neanche sotto tortura. Se<br />

Bruce inciampa in questo presenzialismo frettoloso<br />

credo sia per generosità, un volerci essere ad<br />

ogni costo in un momento tanto critico ma anche<br />

esaltante per il Paese che da sempre è sfondo, premessa<br />

e struttura della sua poetica. Accadde già<br />

con quel The Rising (2002) che spezzò l’astinenza<br />

discografica in vigore dall’ottimo The Ghost<br />

<strong>Of</strong> Tom Joad<br />

(1995), affogando<br />

nello tsunami retoricopost-undicisettembre<br />

malgrado<br />

una scrittura tutto<br />

sommato energica,<br />

intensa, vibrante.<br />

Oggi, nel ventre cetaceo<br />

della depressione,<br />

Springsteen chiama a sé i ragazzi della E<br />

Street Band per soffiare tutti assieme sul fuoco della<br />

speranza Obama. Anzi, più che una speranza<br />

un sogno, scenografia e orizzonte che ahinoi non<br />

possiede bordi abbastanza robusti per contenere<br />

l’esondazione appiccicaticcia del sentimentalismo<br />

canzonettaro buonista e proattivo (Kingdom <strong>Of</strong><br />

Days, la title track, Surprise Surprise, Queen <strong>Of</strong> The<br />

Supermarket...). Quando ti va bene ti becchi una<br />

My Lucky Day che potrebbe essere la sorellina di<br />

My Love Will Not Let You Down, una Tomorrow Never<br />

Knows rannicchiata tra placidi vapori mariachi<br />

e quella The Wrestler (bonus track che avrete già<br />

sentito nei titoli di coda dell’omonimo film) che<br />

sgrana una dignitosa ballad a fari bassi e cuore<br />

pieno delle sue, mentre Good Eye è degna di nota<br />

giusto perché anomala con la sua robotica frenesia<br />

country-blues. Insomma, sembra la soundtrack di<br />

una terapia di recupero collettiva. Mi fa venire il<br />

disagio, voglia di alzarmi e salutare. Speriamo almeno<br />

che serva a qualcosa. (4.5/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

Burning hEarts - aBoa slEEping<br />

(shElflifE, 10 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie po p<br />

Supponiamo ordunque che l’electro-pop malinconico,<br />

garbato, trepido, nostalgico ma a suo modo<br />

ostinatamente proiettato in avanti, possieda proprieta<br />

terapeutiche. Un lenitivo per il malanimo<br />

che sempre più spesso accompagna i nostri giorni<br />

saturi di troppe cose a perdere. Supponiamolo.<br />

Ecco, casomai oserei dire che i Burning Hearts -<br />

duo finnico formato dalla cantante Jessika Rapo e<br />

da Henry Ojala, polistrumentista già nei Cats On<br />

Fire - stemperano nel debutto Aboa Sleeping il<br />

suddetto principio attivo, con la competenza un<br />

po’ scostante dei farmaci generici, cui comunque<br />

finisci per tributare la giusta fiducia.<br />

Del resto, la confezione calda ed essenziale testimonia<br />

l’onestà del contenuto, che l’infermiera Jessika<br />

ci propina con setosa autorevolezza, mentre<br />

il dottor Ojala si disimpegna tra scaffali Stereolab<br />

(A Peasant’s Dream) e provette New Order (I<br />

Lost My Color Vision), distillando morbidezze Lali<br />

Puna via Belle And Sebastian (Iris), concedendosi<br />

omeopatie Bowie (una We Walked Among the<br />

Trees che ammicca Ashes To Ashes) e Kraftwerk<br />

(l’angelicamente frigida The Galloping Horse), per<br />

poi planare su una title track col passo delle ballad<br />

importanti, coprendo d’amblé la distanza tra certe<br />

ugge Delgados alle utopiche elevazioni Air.<br />

Un disco non esaltante ma buono. Io comunque lo<br />

preferisco al Prozac. (6.7/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

caMEra 237 – inspiration is not hErE<br />

(foolica, 13 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: p o s t -ro c K<br />

Verrebbe da parafrasare il titolo del disco per tagliar<br />

corto sulle scelte stilistiche “un po’ attempate”<br />

e in qualche caso prevedibili dei Camera 237.<br />

Verrebbe da parafrasarlo ma sarebbe non rendere<br />

merito a musicisti che sanno comunque come<br />

suonare credibili e almeno in qualche frangente,<br />

spiccano per lucidità. Un paradosso? Forse, ma<br />

che riteniamo di poter risolvere in questa sede, in<br />

primis passando in rassegna i principali caratteri<br />

della proposta musicale della band cosentina. Su<br />

tutti, quelli tipici di un “dopo-rock” corposo e<br />

solido che tornano alla ribalta ciclicamente, negli<br />

arpeggi insistiti, nelle porzioni strumentali elaborate,<br />

nelle complessità dei fraseggi. Una formula<br />

che come da ultimo aggiornamento del Prontuario<br />

del perfetto post-rocker, vive di veloci cambi di passo,<br />

contempla qualche sprint al fotofinish, cerca di<br />

rinnovarsi richiamando estetiche che poco hanno<br />

a che vedere con l’ortodossia e molto con il<br />

carattere, per lo meno nelle intenzioni. Nei fatti ci<br />

si imbatte in episodi elettro-acustici di pregevole<br />

fattura (la title-track) come in ampollose lentezze in<br />

saturazione (If You Are Tired, Don’t Risk), apprezzabili<br />

progressioni in controtempo (New Song) e<br />

derive strumentali lasciate alla corrente (elettrica)<br />

(Caracol), in un tira e molla che ha certo il pregio<br />

di non annoiare ma anche il difetto di non suscitare<br />

sbalzi emotivi significativi. Mestiere e entusiasmo<br />

rendono il prodotto finale apprezzabile e<br />

tutto sommato onesto, pur correndo il rischio di<br />

farlo passare in più di un’occasione per un esercizio<br />

di stile che piace alla gente che piace, gratifica<br />

chi ci si è impegnato – al secondo episodio discografico<br />

della carriera - ma fatica a lasciare un<br />

segno profondo. (6.7/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

caMouflagE - livE in drEsdEn (synthEtic<br />

syMphony / audiogloBE, 19<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: t e c h n o po p<br />

Esiste da sempre un pregiudizio di fondo nei confronti<br />

del techno-pop, che nemmeno gli sdoganamenti<br />

ripetuti di Depeche Mode, Pet Shop<br />

Boys, Heaven 17 e chicchessia tra i maestri del<br />

genere non sono ancora riusciti a scalfire fino in<br />

fondo. Che, insomma, si tratti di materiale vacuo<br />

e “commerciale”, privo di spessore e peso specifico.<br />

Come se, attenendoci al rock duro e chitarre,<br />

Bon Jovi e i Queens <strong>Of</strong> The Stone Age<br />

54 / recensioni recensioni / 55


fossero la stessa cosa. Non è per fortuna così e lo<br />

sappiamo bene, benché talvolta incappiamo in<br />

personaggi che poco (cioè molto) fanno per procurare<br />

ai detrattori prove a carico della loro tesi.<br />

I tedeschi Camouflage traggono il nome da una<br />

canzone dei Yellow Magic Orchestra, e pare<br />

rappresentino da anni una delle band di synthpop<br />

più importanti sulle scene. Devono avere un<br />

pubblico comunque folto se si permettono il lusso<br />

di uscire con un mammut come questo - cd audio<br />

più dvd con più brani e ulteriore dischetto con<br />

tutti i video - oppure, in caso contrario, nessuno<br />

si è premurato di dirgli che sulla carta d’identità<br />

non hanno scritto Gahan o Gore. Eh, sì, perché<br />

quello è grossomodo l’ambito in cui ci si muove:<br />

quello per l’appunto di un techno pop che vorrebbe<br />

avere impatto rock senza epica e ridondanza.<br />

Il problema del quintetto è che tra le sue fila non<br />

vanta un’ugola carismatica, uno scrittore capace<br />

di conciliare immediatezza ed eleganza, uno che<br />

arrangi i brani senza che gli anni Ottanta sfocino<br />

nel 1993. Finisce che afferri l’apparenza e del genere<br />

restituisci un’idea tra stadio e alternative club<br />

di provincia, al cui confronto i Subsonica paiono<br />

gente da prendere tuttora sul serio. Arrivare alla<br />

fine della maratona è stata fatica che al sottoscritto<br />

ha richiesto numerosi e ripetuti passaggi di The<br />

Luxury Gap e The Hurting per ossigenare i polmoni.<br />

(5.0/10)<br />

giancarlo turra<br />

charlottE hathErlEy – thE dEEp BluE<br />

(littlE sistEr, 2007– rEd housE rEcordings,<br />

2009)<br />

gen e r e: p o p -ro c K<br />

Ultimamente sono sempre di più le musiciste che<br />

si cimentano in una rielaborazione del pop in<br />

chiave personale e innovativa. Vengono in mente,<br />

solo per fare un paio di nomi, St. Vincent e My<br />

Brightest Diamond, entrambe capaci di unire<br />

una vena melodica suadente ad arrangiamenti<br />

strutturati e difficilmente etichettabili. Charlotte<br />

Hatherley, pur essendo inglese e tecnicamente<br />

meno virtuosa delle due artiste citate in apertura,<br />

potrebbe rientrare a grandi linee in questa tradizione,<br />

visto che con The Deep Blue confeziona<br />

un disco fortemente interessato alle stratificazioni<br />

sonore (Behave), attratto dalle linee armoniche<br />

inconsuete (Roll Over), affezionato alle vaghezze<br />

soffici della voce (Dawn Treader). Con in più il<br />

geneticamente modificato delle chitarre elettriche<br />

(I Wan’t You To Know e Very Young) e della psichedelia<br />

(Love’s Young e Dream, Be Thankful), a vergare a<br />

caratteri cubitali un proposta finemente arrangiata<br />

e, in qualche caso, piuttosto energica. Del resto<br />

non potrebbe essere altrimenti, visto che stiamo<br />

parlando dell’ex chitarrista degli Ash, qui al<br />

secondo disco della sua neo-carriera solista. Una<br />

che oltre ad aver già le idee chiare sulla direzione<br />

da prendere, coinvolge in fase di produzione figure<br />

d’alto profilo come Rob Ellis e Eric Drew<br />

Feldman (ex Captain Beefheart’s Magic Band)<br />

e sceglie come co-autore in Dawn Treader Andy<br />

Partridge degli XTC. Tutti segnali da interpretare,<br />

per un’opera che arriva in Italia soltanto ora<br />

nonostante una pubblicazione inglese risalente al<br />

2007. (7.1/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

childrEn’s hospital – alonE togEth-<br />

Er (sacrEd BonEs, dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: w a v e industriale<br />

La transizione della scena tradizionalmente definita<br />

garage-punk, americana quanto europea, verso certe<br />

sonorità anni ’80 è ormai cosa consolidata. Se ce<br />

ne fosse bisogno, ecco qui un’ulteriore prova di questo<br />

passaggio di testimone. Molte band e progetti<br />

solisti si sono prodigati negli ultimi tempi nella produzione<br />

di materiale dai connotati smaccatamente<br />

e volutamente wave: Mike dei DC Snipers con Blank<br />

Dogs, gli Homostupids con Factory Man (tra l’altro<br />

artefici di un ottimo 7’’ su My Mind’s Eye) fino al<br />

nuovo progetto di Erin Sullivan (cantante e chitarrista<br />

negli A-Frames) a nome Rodent Plague, il cui<br />

singolo d’esordio è uscito da poco su Kill Shaman. E<br />

proprio dal famigerato asse A-Frames/Intelligence/<br />

Hi gH l i gH t<br />

andrEw Bird - noBlE BEast (fat possuM / BElla union/ coopErativE<br />

Music, 13 fEBBraio 2009)<br />

a r t fo l K<br />

La continuità dell’incanto, più che la sua intensità, ci<br />

convince del fatto che Noble Beast è - e probabilmente<br />

sarà - il capolavoro di Andrew Bird. Col quinto album<br />

da solista non fa che raccogliere quanto seminato nel suo<br />

frugale orticello, e siccome il nostro musicista chicagoano<br />

da sempre professa il culto della biodiversità sonora, ne<br />

viene fuori un raccolto variegato, ricco, persino robusto<br />

nella generale morbidezza del tono. Rispetto alle prove<br />

del passato sembra semmai più accorta la gestione del canto, tenuto al guinzaglio delle<br />

necessità espressive che pezzo dopo pezzo indagano con frugale gravità il mistero, la meraviglia<br />

e la miseria del fattore umano. La scrittura invece è di quelle... nobili, sposandosi<br />

alla misurata brillantezza di arrangiamenti che, innervati su mai eccessive evoluzioni di<br />

violino, conferiscono abiti trepidi e setosi, un carosello discreto e ipnotico di fiabesche<br />

tensioni (Anonanimal e Nomenclature, con le apprensioni acustiche Kozelek contagiate di<br />

languori Rufus Wainwright), di bucolico abbandono (la fatamorgana Al Stewart/<br />

Brian Wilson di Oh No), di esotismi fragranti (l’incalzante Fitz And The Dizzyspells) e randagi<br />

(la bossa onirica di Masterswarm, lo sdilinquimento post moderno di Not A Robot, But<br />

A Ghost). Altrove predomina il battito traditional, appena carezzato da una verve freak,<br />

come in quella Tenuousness come potrebbe il nipotino garbato e arguto di Paul Simon,<br />

come in una Effigy scaldata dal tepore Gram Parsons (con la brava Kelly Hogan a fare<br />

la Emmylou Harris della situazione), o come quella Natural Disaster che incede docile e<br />

grave come il Beck di Sea Change. Volendo individuare l’apice della scaletta, punteremmo<br />

l’indice verso Souverian, sorta di mini suite che parte come milonga da front porch<br />

e poi trascolora in un camerismo pervaso di languori coloniali, magnifico il ritornello,<br />

ineffabili le ambientazioni all’insegna di scenografie incantevoli e spossate. Inevitabile<br />

tirare in ballo il luogo comune della maturità, che Andrew Bird sta vivendo con la pienezza<br />

tipica di chi ha molto da dire. (7.5/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

AFCGT giunge, inevitabilmente su Sacred Bones, il<br />

primo LP dei Children’s Hospital, nuova formazione<br />

nata sotto il grigio cielo di Seattle; accantonate le<br />

chitarre, o almeno poggiate momentaneamente in<br />

un angolo, si estraggono synth, tastiere e archeologia<br />

tecnologica avariata per dar vita a meccaniche nostalgie<br />

analogiche, salvo di tanto in tanto riesumare<br />

il fantasma del proprio passato con riff che lasciano<br />

intravedere una minima continuità (Unseen). Il passaggio,<br />

va detto, è indolore e in alcuni punti è anche<br />

56 / recensioni recensioni / 57


decisamente compiuto (Preschool <strong>Of</strong> Atonement, If You<br />

Find Me I’m Here); tuttavia a volte tuttavia alle volte i<br />

nostri si lasciano sedurre da scorciatoie compositive<br />

che, più che agevolare, rallentano il percorso (After<br />

the Aftermath, Blue/Green Algae). Certo è che<br />

questo è solo il primo lungo passo nella direzione di<br />

quella wave-proto-industriale di cui furono, a loro<br />

tempo, fulgidi testimoni atti come Cabaret Voltaire,<br />

Throbbing Gristle e Factrix e i pezzi posti a chiusura<br />

di entrambi i lati lo dimostrano egregiamente.<br />

Tuttavia , pensando ad esperienze più navigate in<br />

questo ambito, si insinua il dubbio che non si sia voluto<br />

tentare troppo in fretta un traghettamento non<br />

sempre così naturale come si potrebbe presupporre.<br />

(7.0/10)<br />

andrEa napoli<br />

circus dEvils – ataxia (static caravan,<br />

2008)<br />

gen e r e: l o w -fi<br />

Oltre alla prolifica e discutibile carriera solista, Robert<br />

Pollard continua a portare avanti, più o meno<br />

con lo stesso ritmo (ma con esiti senz’altro più interessanti)<br />

il progetto Circus Devils. Se c’è qualcosa<br />

ancora degno del passato dell’ex Guided By Voices,<br />

va cercato proprio nelle uscite di questa band<br />

che, seppure con qualche riserva, è riuscita ad<br />

esprimere finora le sue (attualmente) migliori idee<br />

musicali. La caratteristica del musicista dell’Ohio<br />

(quando è in forma) è quella di riuscire a comporre<br />

su due piani, navigando nell’underground rock<br />

americano senza tuttavia esimersi dallo strizzare<br />

un occhio a piacevoli melodie. Quando riesce a<br />

mantenere il giusto equilibrio tra questi due diversi<br />

approcci alla composizione, Pollard dimostra di<br />

meritare le lodi del passato.<br />

Ataxia è un disco complesso, ma anche molto coerente<br />

del suo predecessore. C’è qui un’intenzione<br />

di osare mai ascoltata prima, di spingersi fino alle<br />

soglie della psichedelica, del noise rock (Nets At Very<br />

Angle) e della new wave , sfociando addirittura nel<br />

dark ambient di I Found The Black Mind e Fuzz In<br />

The Street. Se evitasse le sdolcinatezze alla He Had<br />

All Day e qualche tocco di banalità, sarebbe proprio<br />

un gran bel disco (7.0/10)<br />

daniElE follEro<br />

cristophEr Mcfall – thE city of al-<br />

Most (sourdinE, 2008)<br />

gen e r e: M i n i M a l i s M o -aM b i e n t<br />

Andando oltre l’hic et nunc dell’aneddoto, i fields recordings<br />

di Cristopher McFall si fanno strumento di<br />

rilevazioni urbane. Linee narrative in quattro tracce<br />

ed un’unica direzione di studio, una città del Kansas<br />

un tempo molto prospera colpita con il passare<br />

dei decenni da un evidente stato di degrado urbano.<br />

Una lettura sonora che cela l’origine di registrazione<br />

sul campo per concedersi ad un elegante estetica<br />

digitale, deteriorata in claustrofobiche stratificazioni<br />

(Slow Containment) o esposta agli oscuri temi centrali<br />

di drones (One of several possible endings). A colpire è<br />

l’accostamento al luogo, documentato dalle partiture<br />

che restituiscono l’evolversi del luogo dispensando<br />

di esso immagini vivide. E’ tangibile l’essenza<br />

temporale, nelle ariose decostruzioni in interferenze<br />

di Requiem for Troost (dovuto omaggio al quartiere e al<br />

suo centrale Viale Troost) o tra le estensioni in fondali<br />

dal sapore vinilico che accompagnano trame<br />

oblique e microcosmi campionati (Al parts contained).<br />

Disco figlio dell’era post-industriale, a metà strada<br />

tra antropologia sonora e soundscape. (6.8/10)<br />

sara Bracco<br />

dälEk – guttEr tactics (ipEcac, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: d o o M -ho p<br />

Dopo che certe fasce dubstep hanno virato verso<br />

il modernismo techno, ci mancava un po’ di realness.<br />

Se i generi subiscono inevitabilmente il destino<br />

dell’eterno ritorno, il duo composto da MC Dälek<br />

e dal produttore Octopus torna a parlare di doom<br />

ed è come una risposta alle fascinazioni banghra di<br />

gente come Dusk+Blackdown, a tutte quegli etno<br />

velluti escapisti ai quali occorre un fermo no con la<br />

crisi a caldo che ci brucia ogni giorno più il culo. Poi<br />

è come se fosse la prima volta, come se la Anticon<br />

non ci fosse mai stata, come se i cLOUDDEAD non<br />

fossero mai esistiti. Rivisitando si cresce, si tirano<br />

fuori quei drones cupi ereditati dai Sunn O))) e dai<br />

Melvins e il deja vù sorprende. In poche parole:<br />

hip-hop is here to stay. Ovviamente mutato da una<br />

sensibilità trasversale che dal 2002 accompagna il<br />

percorso compositivo dei rappers dal New Jersey e<br />

che ancora una volta ci fa capire come il mesh sia<br />

d’obbligo. Ma non solo suono. Cavalcando le roots<br />

ci si va anche di scalpello<br />

sul testo. In direzione<br />

contraria al<br />

mainstream, che si<br />

dimentica del sociale<br />

e del politico, in<br />

un momento come<br />

questo è sempre più<br />

doveroso ripescare<br />

la lezione dei sempreverdi<br />

Public Enemy. Parola d’ordine: cattiveria.<br />

Già dall’iniziale Blessed Are… si parla di quello<br />

che sta accadendo da sempre: conquiste in nome<br />

del dio denaro che non guardano in faccia a niente<br />

e a nessuno, travalicando confini e diritti. La verve<br />

engagé risuona poi nei colpi apocalittici di Los Macheteros<br />

e nelle bordate che attraversano in stile Wu<br />

Tang Clan l’intero album. Cose che non si sentono<br />

più, dischi come questo ci fanno stare male, ci fanno<br />

incazzare. Senza sballo, una cosa che viene dall’anima,<br />

un sentimento che nel rock avevamo sperimentato<br />

nei pogo dei RATM. Qui l’hip-hop ritrova la<br />

sua possibilità di riscatto con una straightedgeness<br />

che suona nuova, sporcata da mille effetti e disorsioni,<br />

imperfezioni che arricchiscono e che sono sempre<br />

più necessarie per descrivere la (vita di) strada.<br />

Respect.(7.5/10)<br />

Marco Braggion<br />

dan auErBach - kEEp it hid (nonEsuch,<br />

10 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: b l u e s ro c K<br />

La formula Black Keys - tanto collaudata quanto<br />

efficace, ma invero un po’ ripetitiva - probabilmente<br />

iniziava a stare stretta al caro Dan Auerbach, al cui<br />

estro solistico ha quindi giustamente pensato di concedere<br />

un po’ di spazio. Debutta quindi in solitario<br />

con questo buon Keep It Hid, fedele al verbo dei<br />

Keys coi contorni lasciati però sfumare, così come<br />

la direzione delle parabole espressive, che si rannicchiano<br />

tra folk ballad acidule e si spampanano tra<br />

svaporate psych, ora tirando per la giacca i fantasmi<br />

del blues col ghigno elettrico (I Want Some More),<br />

salvo poi grattare la pancia alle fatamorgane della<br />

nostalgia fifties. La calligrafia è diretta come da copione<br />

(arrangiamenti essenziali, col piccolo aiuto di<br />

pochi amici), prevedibile come da rituale, credibile<br />

perché convinta fino al midollo di fare quel che fa,<br />

ragion per cui piuttosto che lasciar prevalere l’effetto<br />

sferzante ma catchy alla maniera di certi White<br />

Stripes, lo senti vicino al piglio roccioso d’un Lanegan<br />

(Street Walkin, The Prowl, la quasi waitsiana<br />

title track), anche per la tenerezza (Whispered Worlds,<br />

canzone scritta dal padre) e l’obliquità (When I Left<br />

The Room) con cui rimastica certe situazioni Gun<br />

Club. Certo che quando Dan spinge sul pedale del<br />

white soul (come una Real Desire che è quasi i Creedence<br />

di Long As i Can See The Light) o della ballata<br />

carezzevole (una When The Night Comes cantata assieme<br />

a Jessica Lea Mayfield) il discorso cambia, per<br />

non dire di quando si disimpegna sbrigliato e lirico<br />

rammentando il Devendra Banahrt ultima versione<br />

(My Last Mistake) e quello delle reminiscenze arcaiche<br />

(Goin’ Home). Come dire, siamo chiaramente<br />

in presenza di un autore versatile e versato in quella<br />

che per semplificare chiameremo Americana, come<br />

già chiarisce in apertura quella Trouble Weighs A Ton<br />

che non sfigurerebbe nel repertorio d’un Will Oldham,<br />

così per dire. Non un disco sorprendente, ma<br />

comunque una bella sorpresa. (7.0/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

dEad lEttErs spEll out dEad words<br />

– lost in rEflEctions (rElEasE thE<br />

Bats, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: p o s t -ro c K /sh o e g a z e /el e t t r o n i c a<br />

Dead Letters Spell Out Dead Words è lo pseudo-<br />

58 / recensioni recensioni / 59


nimo dietro cui si nasconde Thomas Ekelund, artista<br />

visuale e musicista di Gothenburg, e Lost in<br />

Reflections è il suo ultimo disco. I luoghi esplorati<br />

nelle sue composizioni sono le stesse terre gelide<br />

e brumose che hanno fatto la fortuna di gruppi<br />

come Sigur Ros. Ma se la musica degli islandesi<br />

sembra essere soltanto una sfocata concessione del<br />

loro mondo – troppo alieno da capire, troppo distante<br />

da descrivere in titoli o parole – Ekelund<br />

vuole invece condividersi apertamente, sin dalle<br />

Hi gH l i gH t<br />

dichiarazioni riguardanti il ruolo avuto dalla sua<br />

malattia (un disturbo della personalità) nella gestazione<br />

dell’album. Anche la sua musica in qualche<br />

modo vuole mostrarsi vicina. I lunghi tappeti<br />

ambientali, gli sconfinati riverberi, sono graffiati<br />

da piccoli suoni, glitches digitali, sfrigolii elettrici<br />

di vinili polverosi, come se volesse mostrarci i suoi<br />

luoghi attraverso le diapositive di un vecchio proiettore<br />

scrostato. Riducendo cioè il viaggio a una<br />

dimensione più domestica, quindi più accessibile.<br />

harMonic 313 – whEn MachinEs ExcEEd huMan intElligEncE<br />

(warp, fEBBraio 2009)<br />

g l i t c h -el e c t r o-ho p<br />

Mark Pritchard ritorna su Warp. L’uomo mezzo GloGlobal Communication si rifà il trucco e fa parlare di sé. Con<br />

questo album che è un tornare alla meccanizzazione, alla<br />

visione kraftwerkiana (guardate i video e gli artwork del<br />

sito) tutto però sporcato di break nero. E quindi di storia<br />

hip-hop. Una cosa così non te l’aspetti. Non ti aspetti che<br />

la proposta sia coinvolgente e a tratti squassante. Perché<br />

il ritorno sulla scena molte volte è un riproporre cose già<br />

dette senza pensare alla patina di polvere che hai davanti<br />

agli occhi. Qui si ripropone, ma con uno stile che è da archeologia 90. E in questo inizio<br />

anno capiamo che più avanti si va, più gli occhi sono rivolti all’indietro. Ce l’avevano già<br />

detto su altri lidi gli O.R.B. e gli Autechre. I vecchi suoni sono lì, ma chi saprà usarli a<br />

dovere? C’è ancora qualcuno che riesce a cavalcare le sterminate praterie ambient senza<br />

copiare Aphex T.? Sì, ascolta Köln e poi dimmi se il mago del synth ci ha spiazzato o<br />

no. C’è ancora qualcuno che sa parlarti col vocoder e distruggerti con una base glitch à<br />

la Space Invaders? Sì, ascolta Word Problems. Che lesson. Ci sono ancora quei bei break<br />

che sentivamo dalle parti dei Beastie Boys? Vediti il riff di Battlestar e poi muori. C’è<br />

ancora qualcuno che ricorda in modo degno la cultura a 8 bit? Cyclotron C64 SID sì. E<br />

avanti così. I rimandi sono infiniti, ma non sono nostalgia sterile. Qui si riparte per nuove<br />

avventure nella matrix gibsoniana. Le guerre stellari le vedremo tra un po’ di tempo,<br />

quando capiremo che i teen del dubstep sono troppo concentrati a sfornare singoli che<br />

durano solo una notte di nerdy videogaming sfrenato. Chi invece ha la forza di prevedere<br />

il futuro va oltre il tempo. E questo, cari amici, è uno di quei dischi. Che voi siate Bad o<br />

no.(7.7/10)<br />

Marco Braggion<br />

Ad introdurre il disco è la semidensa progressione<br />

chitarristica di This Room Seems Empty Without You,<br />

ma nei brani successivi le atmosfere si fanno più<br />

rarefatte, le strutture sempre ascensionali, ma la<br />

tensione non arriva mai a sciogliersi come accade<br />

ad esempio nelle distensioni tipiche del post-rock<br />

di Mogwai o Explosions in the Sky. A chiudere<br />

Himmelschreibenden Herzen, la traccia più cupa,<br />

forse quella che meglio trasmette la frustrazione<br />

di cui Ekelund fa riferimento nelle sue dichiarazioni.<br />

Le parti più riuscite sono però quelle che<br />

fanno da cornice al nucleo dei pezzi: le lunghe scie<br />

di elettronica statica che introducono o concludono<br />

i brani. Quando a prevalere sono piccoli suoni<br />

quasi quotidiani, in cui riconosciamo l’intimo silenzio<br />

dei luoghi domestici. Fruscii, sospiri, magri<br />

feedback, hum di elettrodomestici, dettagli spesso<br />

ignorati o sommersi da conversazioni futili, televisori<br />

prepotenti, decibel sprecati nel chiasso degli<br />

spazi affollati. Non so se riesce appieno a comunicare<br />

le sue sensazioni, ma sicuramente riesce a<br />

creare il miglior luogo possibile in cui si è disposti<br />

ad ascoltare. (6.8/10)<br />

lEonardo aMico<br />

dEntE – l’aMorE non è BEllo (ghost,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: c a n z o n e d’a u t o r e<br />

Quale data migliore del 14 febbraio per uscire con<br />

un album intitolato L’amore non è bello? Già da<br />

questa bizzarra scelta, intuiamo fin da subito che la<br />

vena ironico-lessicale di Dente, ben espressa anche<br />

nei suoi primi due album, è lungi dall’inaridirsi,<br />

anzi. Ciò che invece viene smarrito per strada, per<br />

una volontaria scelta artistica, è quell’approccio<br />

lo-fi che faceva da perfetto contraltare alle liriche<br />

del Nostro. Dobbiamo ammettere che infatti questa<br />

sua terza fatica ne risente non poco di siffatta<br />

virata stilistica, perdendo in spensieratezza. Però<br />

dobbiamo dargli atto del suo coraggio di non ripetersi:<br />

molto probabilmente un clone di Non c’è<br />

due senza te avrebbe stancato e non gli avrebbe<br />

permesso di fare il salto di qualità. Cosa che non<br />

succede neanche con L’amore non è bello, però<br />

almeno esso è da considerarsi come un album di<br />

transizione che lascia speranze per il futuro. I riferimenti<br />

sono sempre i medesimi: Battisti e tutta la<br />

canzone d’autore pop anni Sessanta. Alcuni brani<br />

risultano fin troppo monotoni e piatti nella loro<br />

nuova e più elegante veste strumentale, altri invece<br />

incidono sublimi e delicate linee melodiche che si<br />

conficcano in testa senza più uscirne, grazie anche<br />

a delle liriche sempre ironiche e suggestive. Dente<br />

avrà tutto il tempo di maturare, per ora un più che<br />

meritato (6.5/10)<br />

andrEa provinciali<br />

El cijo – Bonjour My lovE (still<br />

fizzy, ottoBrE 2008)<br />

gen e r e: f o l K -bl u e s<br />

Se non ti conoscono che quattro gatti e te ne esci<br />

con un disco d’esordio con sedici tracce in scaletta,<br />

o sei un giocatore d’azzardo o sei uno che<br />

crede che le “logiche di mercato” siano una delle<br />

ultime punk band al femminile scoperte da Pitchfork.<br />

Non ci sono mezze misure. In tempi in cui<br />

anche un Ep sembra troppo lungo, in un’era discografica<br />

logorroica e dispersiva come la nostra,<br />

spiattellare in un’ora di musica micro-frammenti<br />

da un minuto come divagazioni da sei sperando di<br />

farsi apprezzare da scribacchini perennemente in<br />

ritardo sulla tabella di marcia, equivale a puntarsi<br />

una rivoltella alla tempia. Basta un nonnulla per<br />

far partire il colpo. Gli El Cijo ne sono consapevoli,<br />

dimostrano una fiducia incrollabile nelle loro<br />

capacità, fanno per un po’ gli equilibristi sul filo<br />

ma alla fine se la cavano piuttosto bene, se è vero<br />

che questo Bonjour My Love non solo non è tempo<br />

perso, ma acchiappa pure. Con un tripudio di<br />

folk in bassa fedeltà (Blackbird Messenger), blues<br />

acustico (Every Woman), vaghezze jazz riconducibili<br />

al Tim Buckley più etereo (The Guy <strong>Of</strong><br />

Yellow Grain), morbidi strumentali (Calamari in<br />

frack) che si fa apprezzare da subito, regalando nel<br />

contempo raffinate incursioni musicali in territori<br />

di confine. Ancona la città di provenienza della<br />

60 / recensioni recensioni / 61


formazione, chitarre, contrabbasso, kazoo, piano<br />

elettrico, fiati e chissà cos’altro la strumentazione,<br />

Memphis (Tennessee) il quartier generale per queste<br />

registrazioni, per un disco che stupisce e non<br />

stanca, nemmeno alla lunga. Le idee, del resto,<br />

non mancano, il linguaggio è forbito, la maturità<br />

davvero a un passo. (7.0/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

EnaBlErs – tundra (ExilE on MainstrEaM,<br />

26 gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: s p o K e n wo r d -po s t ro c K<br />

È il 2009 e sembra davvero fuori tempo massimo<br />

proporre uno spoken word che declama sopra del<br />

post rock Novanta. È il 2009 e Tundra è il terzo<br />

lavoro del progetto Enablers, ideato da Pete Simonelli<br />

– alla voce - e accettato di buon grado dal<br />

chitarrista Kevin Thompson.<br />

A noi che ci abbiamo tanto riflettuto e scritto sopra<br />

il progetto non può che ricordare i Massimo<br />

Volume, con la differenza che allora i riferimenti<br />

del post oltreoceano erano – diciamo – coscritti,<br />

mentre ora sono storicizzati per tutti. Lo si capisce<br />

notando l’esperienza e la competenza calibrata<br />

di Carriage, con la sua riuscita struttura angolare.<br />

Mentre la parentela con la tecnica di Mimì e soci<br />

è dirompente, ossimorica rispetto alla riflessività<br />

slow-core del pezzo, nella title-track; e non manca<br />

nemmeno la catarsi, su cui abbiamo tanto insistito<br />

parlando dei MV. È un vortice che ci porterebbe<br />

solo a parlare solo della band italiana, non per deplorevole<br />

campanilismo, ma per un debito critico<br />

che sembra sgorgare come linfa e sangue insieme.<br />

Sono però fortunatamente questi i casi in cui prediligiamo<br />

le differenze al di là delle somiglianze, e<br />

che spesso le differenze sono quelle che “salvano”<br />

i nostri ascolti. In questo caso parliamo della caratteristica<br />

vocale di Simonelli, un crooning parlato<br />

che per occasioni selezionate riesce a trovare<br />

un’espressività che non può che giovare al combo<br />

post-rocckettaro. I momenti migliori, a tal proposito<br />

e dal punto di vista di chi scrive, sono quando<br />

il teatro baritonale della cassa toracica di Pete si<br />

trasforma nel tono imprecatorio di un Allen Ginsberg<br />

che legge in pubblico (Februaries) o sopra, a<br />

sua volta, una band; un tono perentorio ma stralunato<br />

nella sua aggressività; come in Bells, dove<br />

notiamo quell’intensità di accordo tra carica strumentale<br />

e vocale. E tra un voto che inizia per 5 e<br />

uno che iniza per 6 propendiamo per il numero<br />

più alto. (6.3/10)<br />

gasparE caliri<br />

fauna – rain (aurora BorEalis /<br />

southErn, 2008)<br />

gen e r e: bl a c K Me t a l<br />

Si cela dietro un alone di mistero, questa band<br />

americana, giusto per far perdere un po’ di tempo<br />

prezioso a chi cerca informazioni su Rain, capitolo<br />

primo dei Fauna, ovvero il duo formato da Echtra<br />

e Vines (tanto per rimanere in tema di storie ed<br />

eroi nordici, quando<br />

si parla di Black<br />

Metal), provenienti<br />

dal nordest del Pacifico.<br />

Una sola traccia<br />

lunga sessantatrè<br />

minuti (!). A parte i<br />

neanche troppo velati<br />

riferimenti alla<br />

simbologia nazista<br />

e ariana, Rain è la dilatazione estrema di tutti gli<br />

stereotipi del black metal di stampo nord europeo:<br />

arpeggi in tonalità minore lenti e scheletrici<br />

alternati a velocissime accelerazioni, saturazione<br />

sonora ai limiti della distorsione, voce strozzata e<br />

macabra. Tutto sommato, questo concept album<br />

non è il peggio che possa capitare tra le mani: meglio<br />

ascoltare il black metal in forma di suite che<br />

in un album con 15 brani tutti uguali. Per carità, i<br />

contenuti non si discostano molto dalla brodaglia<br />

di genere, a parte qualche lunga apertura al doom<br />

dei primi My Dying Bride, ma almeno l’intenzione<br />

di fare un passo oltre lo stereotipo c’è e si<br />

vede. (5.8/10)<br />

daniElE follEro<br />

franz fErdinand – tonight: franz<br />

fErdinand (doMino, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: r o c K po s t -p-fu n K<br />

I Ferdinandi alla terza e fatidica prova. Come al<br />

solito ci si aspetta qualcosa dal numero perfetto.<br />

Poi per le band che escono dal nu-rave quest’attesa<br />

è ancora più ricca di curiosità, dato che molti<br />

emul-baronetti stanno perdendo mordente (vedi<br />

per dirne due Kaiser Chiefs e Interpol). Già.<br />

Smalto da irresistibili dandy, brit fab-four style<br />

virato amfetamina, mod di ieri e domani cosa? I<br />

ragazzi, già vecchi anagraficamente agli esordi<br />

stanno riproponendo la più classica delle parabole<br />

rock: ci fanno vedere la dark side del loro successo<br />

in Ulysses, e ci ricordano la diaspora Beatles-letit-be.<br />

Across the Universe non c’è qui, ma nel rifare<br />

le origini con i soliti ritmi in levare e qualche aggiunta<br />

elettronica di tastiera che varia la ricetta, la<br />

dinamica con tutti i se e i ma del caso è la stessa,<br />

come in un disco di Bowie metà Ottanta.<br />

Capitalizzare il successo è ancora l’obiettivo principale<br />

e i singoletti del duca di allora ci piacquero<br />

tanto quanto ci piaceranno per un po’ quelli del<br />

quartetto di Glasgow. Del resto ci hanno stuzzicato<br />

il basso e i synth che pompano uptempo funk<br />

nella citata Ulysses e No You Girls. Mica male il ricordo<br />

northern soul con gli Hammond in Send Him<br />

Away, le atmosfere 80 di Live Alone e - per la prima<br />

volta - un accenno di psichedelia mescolata alla<br />

acid disco nella sorprendente Lucid Dreams. Tutti<br />

ingredienti che ci fanno fare i soliti proseliti per<br />

un prossimo disco spiazzante proprio come quello<br />

dei Supergrass. L’uso dell’elettronica probabilmente<br />

agevolerà i remixatori a sfornare singoletti<br />

riempi pista, ma Alex, invece di fare il fighetto,<br />

stupiscici la prossima volta. Ne sei ancora capace.<br />

(6.3/10)<br />

Marco Braggion E Edoardo Bridda<br />

john frusciantE – thE EMpyrEan<br />

(adrEnalinE Music, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: s o n g w r i t e r<br />

Fa sempre notizia John Frusciante in uscita dal<br />

gruppo, e dire che con The Empyrean colleziona<br />

il suo undicesimo disco in solo, un bottino<br />

niente male per un musicista che avrebbe potuto<br />

comodamente adagiarsi sugli allori. Che il gruppo<br />

madre sia un’attrazione<br />

per scolaresche<br />

in libera uscita<br />

non è mistero, ma<br />

non dimentichiamo<br />

che prima della<br />

penosa svolta arena<br />

rock i Red Hot Chili<br />

Peppers hanno pur<br />

sempre occupato un<br />

ruolo di primissimo piano nella cultura alternativa<br />

americana. Del resto l’emblematico white funk<br />

di dischi come Freaky Styley e Uplift Mofo<br />

Party Plan non è cosa da liquidare in due battute.<br />

Chi è il Frusciante solista quindi? Un uomo<br />

sicuramente innamorato delle sue origini, ma anche<br />

un impensabile ed impenetrabile songwriter.<br />

Detto che Eddie Hazel dei Funkadelic e Shuggie<br />

Otis rimangono quasi un punto fermo nel suo stile,<br />

sorprendono la sottile interpretazione di Dark/<br />

Light quasi un’ outtake dal Pacific Ocean Blue<br />

di Dennis Wilson; ancor più coraggioso il confronto<br />

con uno dei più grandi di tutti i tempi: Tim<br />

Buckley. Accedere alle arcane e celestiali volte<br />

di Song To The Siren non è esattamente un’impresa<br />

trascurabile, oltre al fegato ci vuole il buon gusto,<br />

ben intesi. Quando scorre l’apertura psichedelica<br />

di Before The Beginning, ci chiediamo davvero se i<br />

Funkadelic di Maggot Brain, siano dietro ad una<br />

colonna ad osservare in disparte, tanta è l’assonanza<br />

col periodo più lisergico della gang di George<br />

Clinton. Idee ed intuizioni che al gruppo madre<br />

sono venute a mancare in un sol colpo, anche se<br />

il commilitone storico Flea è a dar manforte sul<br />

disco, sciorinando le consuete ed avvolgenti linee<br />

di basso. Non è l’unico ospite di rilievo, visto che<br />

Johnny Marr degli Smiths si affaccia con discrezione,<br />

forse a causa dei suoi nuovi interessi americani<br />

(ha sbancato con i Modest Mouse come ri-<br />

62 / recensioni recensioni / 63


portano le recenti cronache). Di impatto anche la<br />

presenza del quartetto d’archi Sonus Quartet che<br />

di recente è stato ospite in studio di Sparklehorse<br />

e Gnarls Barkley. Lontano è il tempestoso e realmente<br />

‘drogato’ Frusciante del secondo album –<br />

Smile From The Street You Hold, sospeso tra<br />

fantasmi di Butthole Surfers e Jandek – il chitarrista<br />

californiano trova nuovamente la quadratura<br />

del cerchio con uno dei suoi più compiuti album<br />

di sempre. Chapeau! (6.8/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

gadaMEr - sElf titlEd (altrisuoni,<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: e l e c t r o/av a n t /ja z z<br />

Il violoncellista (con fregole elettriche) Zeno Gabaglio<br />

e il pianista (con tentazioni sintetiche) Andrea<br />

Manzoni avviano questo progetto di avant-fusion<br />

omaggiando nella ragione sociale uno dei padri<br />

dell’ermeneutica, il filosofo tedesco Hans-Georg<br />

Gadamer, morto nel 2002 ultracentenario non<br />

prima però di averci regalato concetti straordinariamente<br />

post-moderni come il circolo ermeneutico e<br />

la fusione degli orizzonti.<br />

Bene, ringraziamo wikipedia e proseguiamo tessendo<br />

lodi non sperticate ma abbastanza lusinghiere<br />

su un disco che riesce nell’impresa di fondere le<br />

allucinazioni cosmiche-ambientali del kraut (Gate)<br />

e le palpitazioni avant-jazz di Esbjorn Svensson<br />

Trio (Impro 14, Chiara), la fusion davisiana<br />

e la techno in odor di IDM (Methode), suonando<br />

torva e suggestiva, misteriosa e immediata come<br />

la soundtrack di un lungometraggio suburbano, in<br />

attesa che il miracolo della natura ci assolva dagli<br />

squallidi residui (materiali e spirituali) della ipertecnologia.<br />

Tra scenografie assorte e claustrofobiche (Impro 01)<br />

e carezzevoli ossessioni sbocciate tra loop e fremiti<br />

di violoncello (Orizzonte), tra deep bass ipnotizzati<br />

da un impertinente minimoog e barbagli romantici<br />

nella caligine androide, ti capita di ipotizzare una<br />

situazione in cui Popol Vuh, Brian Eno, Fennesz<br />

e Zawinul rilasciano spore semantiche da<br />

interpretare impastandone il senso attuale, quelli<br />

passati e - casomai - quelli futuri.<br />

Talora le escursioni danzerecce suonano un pizzico<br />

inopportune - come quando in Martinsson scompaginano<br />

un assolo cameristico di violoncello, un<br />

po’ come servire un limoncello dopo un sassicaia<br />

– senza però rovinare la buona impressione complessiva.<br />

(6.8/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

grandMastEr flash - thE BridgE<br />

(strut / audiogloBE, 23 fEBBraio<br />

2009)<br />

gen e r e: h i p ho p<br />

Operati i dovuti distinguo di compressione stilistico-temporale,<br />

l’effetto è lo stesso.<br />

Quello di ascoltare un disco di Jerry Lee Lewis,<br />

meglio se circondato da ospiti prestigiosi, in pieno<br />

nuovo secolo e con ciò misurare quanto e come il<br />

Pioniere di un genere musicale possa ancora dirsi<br />

al passo coi tempi. Basterebbe in fondo trovare il<br />

Nostro in condizioni dignitose e non ridotto alla<br />

patetica macchietta di se stesso, ma pensateci: c’è<br />

gente che arriva al primo disco ed già suona risaputa,<br />

prevedibile, stantia e non importa se fa rock<br />

o hip-hop.<br />

Quindi tocca azzerare tutto e cancellare gli appunti<br />

dalla lavagna, ascoltare questo disco come<br />

fosse un album come gli altri. Chi sia Grandmaster<br />

Flash (che come ricordava Deborah Harry<br />

in Rapture “is fast”) lo sa chiunque abbia un minimo<br />

di infarinatura nel rap e dunque eviteremo di<br />

esibirci in scienza dell’ovvio.<br />

Quel che ci preme semmai sottolineare è come<br />

The Bridge sia - non senza una certa sorpresa - mediamente<br />

fresco e godibile, capace di esibire smalto<br />

ed equilibrio che difettano a tanti campioni<br />

del crasso e del botteghino. Sarà che il parterre è<br />

più che semplicemente adeguato (citiamo quasi a<br />

caso Q-Tip, Busta Rhymes, KRS-One, Big Daddy<br />

Kane…) e i suoni si adeguano, ma una gommosa e<br />

subliminalmente krauta Bounce Back, il caramello di<br />

Shine All Day e la squadrata però sexy Swagger non<br />

Hi gH l i gH t<br />

hjaltalín - slEEpdrunk sEasons (kiMi, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: c h a M b e r po p<br />

Sensibilità pop all’ennesima potenza, chamber e orchestrazioni,<br />

apparente facilità delle melodie e leggerezza, con lo<br />

zampino di Benni Hemmm Hemm e Mum: arriva in Europa<br />

a inizio 2009 la band che tanto entusiasmo ha suscitato<br />

l’anno scorso nella patria Islanda. L’esordio sulla lunga<br />

distanza Sleepdrunk Seasons, che già dal nome (ebbrezza<br />

derivata dalla mancanza prolungata di sonno) evoca facilità<br />

e rilassatezza, star bene insieme e piacevolezza, non<br />

smentisce affatto queste caratteristiche. Immaginate una mini orchestra sinfonica che<br />

arriva fino a dieci elementi, aggiungete strumenti non consuetissimi, quali fagotto, tromba,<br />

trombone, corno francese e clarinetto, oltre all’usuale armamentario di una band del<br />

genere, immettete canzoni con massime variazioni in tempi e mood, strumentali o cantate<br />

a doppia voce, con parti in inglese e islandese, aggiungete un’impetuosità lirica ma<br />

non barocca come i primi Arcade Fire, una facilità alla melodia e una ottima alchimia di<br />

gruppo. Le caratteristiche per creare l’apparente facilità del pop sembrano esserci tutte,<br />

unite a un talento per la composizione, ad opera del leader Hogni Egilsson, vocalmente<br />

un incrocio tra Jónsi dei Sigur Ros, Antony e Jens Lekman. Il risultato è un gioiellino<br />

che unisce una base melodico ritmica beachboysiana con un’orchestrazione variegata,<br />

per mini suite orchestrali (Goodbye July) miste a pop song vere e proprie. L’amore per<br />

Bacharach o Hazelwood così come per la musica colta è palese; ecco poi Lekman e i<br />

Decemberists incontrare le voci e le variegate orchestrazioni degli Steely Dan (Traffic<br />

Music), mentre gli ultimissimi Sigur Ros più pop fanno eco alla sensibilità Antony (The<br />

Boy Next Door), Non sorprende imbattersi anche nel barocco meno melodrammatico<br />

dei canadesi Stars (Debussy, Selur) e nei Belle & Sebastian più malinconici virati Drake<br />

(nell’intensa e melodica The Trees Don’t Like The Smoke). Nonché nel pop eclettico<br />

degli Hidden Cameras. Ed è impossibile da non citare, arrivati a questo punto per gli<br />

Hjaltalín, la complessità di uno come Sufjan Stevens. Se si è già così ben riconoscibili<br />

all’esordio, non dovrebbe essere troppo difficile il proseguimento. (7.2/10)<br />

tErEsa grEco<br />

le ascolti ogni giorno; sarà che lo stesso vale per<br />

l’irruenza controllata di Tribute To The Breakdancer,<br />

per il martello esuberante Here Comes My DJ e per<br />

l’oriente immaginato in Those Chix; sarà che le basi<br />

sono per ogni episodio fantasiose ed elastiche, pos-<br />

senti e ingegnose nonostante l’acqua passata sotto<br />

i ponti. Più di tanto al Maestro del Giradischi non<br />

si può a ragion veduta chiedere, pertanto non lo<br />

faremo. Però, che classe. (6.5/10)<br />

giancarlo turra<br />

64 / recensioni recensioni / 65


hauschka – snowflakEs & carwrEcks<br />

Ep (fat cat/audiogloBE, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: c h a M b e r Mu s i c<br />

Ancora una deliziosa offerta da parte del pianista<br />

tedesco – con base a Düsseldorf - Volker Bertelmann,<br />

compositore a tutto tondo che ha letteralmente<br />

trasposto il suo sapere accademico in contesti<br />

intimamente indie. Un percorso che per certi versi<br />

può rimandarci agli analoghi processi dei Rachel’s<br />

di Music For Egon<br />

Schiele. Volker che<br />

in arte è meglio<br />

conosciuto come<br />

Hauschka lavora da<br />

sempre sulle ampie<br />

possibilità del piano<br />

preparato ed il<br />

nuovo Ep – 7 brani<br />

per quasi 40 minuti<br />

di musica, quasi a rinnegare il formato merceologico-<br />

nasce dalle session del precedente Ferndorf,<br />

un album che pur mantenendo la costante ‘minimalista’<br />

introduceva sottili arrangiamenti d’archi<br />

e piccole profezie ritmiche. Un fascino per nulla<br />

snaturato dal nuovo cimento, che anzi si sposta<br />

ancor più con decisione nei meandri della musica<br />

da camera, mantenendo un’ affatto trascurabile<br />

sobrietà. Prossima alle magie di Penguin Cafè Orchestra<br />

e del più riflessivo Philip Glass, la musica<br />

di Snowflakes & Carwrecks è puro impressionismo<br />

contemporaneo, delizia auditiva che indica al strada<br />

– tutta in discesa – per questo talento germanico,<br />

partito in sordina nemmeno 4 anni or sono<br />

con il debutto – Substantial - per la piccola indipendente<br />

Karaoke Kalk. (6.9/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

kiEran hEBdEn & stEvE rEid – nyc<br />

(doMino, novEMBrE 2008)<br />

gen e r e: j a z z<br />

Terre di mezzo. New York è stata spesso la città<br />

che ha visto nascere ritmi e melodie creoli, la sede<br />

che ha ospitato germinazioni e inseminazioni tra<br />

generi, a volte a coppie, a volte misti e improvvisi<br />

come una discendenza che si manifesta all’ennesima<br />

generazione. La città non può che permeare<br />

il prologo alla recensione di NYC - quarto parto<br />

della coppia formata dal Four Tet Kieran Hebden<br />

e dal batterista jazz Steve Reid -, che a sua<br />

volta del resto probabilmente non può fare a meno<br />

di metafore di filiazioni e incroci. Per un motivo<br />

almeno; i precedenti (tre) dischi del combo erano<br />

sì all’incrocio tra le due musiche degli autori, ma<br />

giocavano sul terreno fertile e per certi versi neutro<br />

del free jazz, dell’impro, e quindi da un certo<br />

punto di vista erano più sbilanciate verso quello<br />

che dei due fa il jazzista di mestiere. NYC invece<br />

cerca altrove; il luogo lo sappiamo dal titolo,<br />

il concetto lo si può desumere senza troppe difficoltà;<br />

è quel genere musicale che può indicare un<br />

punto di tangenza neanche così sottile tra Kieran<br />

e Steve; quella cosa che contiene la pulsazione del<br />

funk di fine Settanta (1St & 1St) che a volte si suole<br />

chiamare mutant-disco, peccando di imprecisione<br />

sineddotica; il sibilo dei synth (Arrival); il ritmo fisso<br />

dei crescendo; il groove sintetico e grasso (Lyman<br />

Place). E pensare che una operazione così chirurgica<br />

è il prodotto di soli due giorni di registrazione.<br />

Ma non può neanche troppo stupirci la cosa; i due<br />

si sono studiati, prestati entrambi a concessioni e<br />

prove – quasi sempre soddisfacenti, peraltro; e ora<br />

hanno scoperto, guardando verso New York, che a<br />

loro due piace anche fare le stesse cose. Né distanti<br />

o più vicine più all’uno o all’altro; semplicemente<br />

spinti dalla percussività che monta fatta da elettronica<br />

e batteria.<br />

E sentite la finale Departure; ritmo, pause e ripartenze<br />

che esaltano le due parti in causa e ne fanno<br />

sentire la reciproca necessità; una sincronia di intenzioni<br />

di impressionante efficacia; il brano meno<br />

newyorkese forse, quasi continentale, si direbbe<br />

qui in Europa; una specie di jazz-motorik four-tetiano;<br />

senza troppi giri di parole, un piccolo capolavoro.<br />

(7.2/10)<br />

gasparE caliri<br />

honEychild colEMan - halo insidE<br />

(coME la luna) (MattEitE / vEnus,<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: c r o s s o v e r -ho p<br />

Inizia come una cuginetta arguta di Erykah<br />

Badu invalvolata della Bjork altezza Enjoy, prosegue<br />

concedendosi fregole indie-rock e strali<br />

drum’n’bass, quindi armeggia dense congetture<br />

dub, devozioni post-wave e setosi impasti folk-soul<br />

come se nulla fosse. E’ il debutto solista di Carolyn<br />

“Honeychild” Coleman, versatile artista originaria<br />

del Kentucky ma cresciuta tra spasmi punk e club<br />

culture nel calderone newyorkese (non stupisce<br />

trovare tra le sue frequentazioni i cari Tv On The<br />

Radio), dove ha fatto la busker nella metropolitana<br />

e la dj, ha dato vita ad una band “afropunk”,<br />

ha strapazzato allucinazioni videoartistiche e organizzato<br />

festival, finché non ha incontrato Matteo<br />

Dainese, già batterista per Ulan Bator, ed è<br />

una specie di colpo di fulmine artistico.<br />

Il nome della Coleman compare tra i credits di<br />

Feed the Dog (Matteite / Venus, 16 febbraio<br />

2007), album di debutto di Dejlight, band allestita<br />

da Dainese col bassista dei Tre Allegri Ragazzi<br />

Morti Enrico Molteni. Assieme a Matteo Carolyn<br />

abbozza l’ipotesi di questo Halo Inside, che vede<br />

oggi finalmente la luce. Album che come dicevamo<br />

esplora le sfaccettature espressive della ragazza col<br />

turgore e la flemma di chi la grinta l’ha smerigliata<br />

in prima linea e sa bene come ci si muove a cavallo<br />

tra underground e popular. Buona anzi buonissima<br />

la prima: grazie ad una scrittura capace di esplorare<br />

con sagacia e disinvoltura le forme in gioco, ad<br />

una produzione (dell’italianissimo Max Stirner, al<br />

secolo Emanuele Fusaroli) che bilancia preziosismi<br />

e misura, ad un variopinto parterre di ospiti che<br />

porta in dote magia senza invadere la scena (oltre<br />

a Dainese, ci sono tra gli altri The Mad Professor<br />

nella fragranza dub di Your Idea <strong>Of</strong> Time, un<br />

ottimo Jim “Natureboy” Kelly nella palpitante<br />

Never Goin’ Home Again e Robyn Gutthrie nientemeno<br />

nell’etera December).<br />

Ma l’ingrediente segreto che tutto avvalora è il pi-<br />

glio di Honeychild, ovvero la sua voce e il modo<br />

in cui la usa per rilasciare un’idea costante di soul<br />

stemperato, smorzato, in agguato tra suggestioni<br />

estrose e astruse, siano il funk-jazz torvo à la<br />

Morphine di Torch Song, sia il folk-psych ombroso<br />

della stupenda Molassess, sia la pop-wave trafelata<br />

e sognante di Inside, sia soprattutto la techno-funk<br />

evoluta di Headlock.<br />

Divertente, intrigante, insidioso: un esordio notevole.<br />

(7.4/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

hot chip with roBErt wyatt and<br />

gEEsE – sElf titlEd (parlophonE<br />

rEcords, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: r e M i x ep<br />

Operazioni del genere, nella maggior parte dei<br />

casi, le si riserva e consiglia - vedi ad esempio il<br />

nuovo 5 track degli of Montreal – ai fan di stretta<br />

osservanza, ma<br />

il novello extended<br />

play accreditato a<br />

Hot Chip, Robert<br />

Wyatt e Geese esula<br />

l’assunto. Made In<br />

The Dark, l’ultimo<br />

e indovinato disco<br />

degli Hot Chip, ritoccato<br />

in quattro<br />

dei suoi episodi migliori per mano del sempreverde<br />

ex Soft Machine e dalla coppia, al secolo<br />

Emma Smith e Vince Sipprell, nota per i servigi<br />

in seno all’Elysian Quartet. L’uomo di Canterbury<br />

impreziosisce, con un cantato ai margini e qualche<br />

orpello di giustezza, la ballad Made In The Dark per<br />

poi intervenire in modo voluminoso nella successiva<br />

- già molto wyatt-iana di suo - Whistle For Will<br />

decorandola di un piano elettrico e di una voce, la<br />

sua, che non smetterà mai di emozionare. Il duo<br />

Geese interviene in corso d’opera convertendo,<br />

ancora con Wyatt presente, We’re Looking For A Lot<br />

<strong>Of</strong> Love in salsa cameristica e privando One Pure<br />

Thought dell’originaria patina dance a favore di un<br />

66 / recensioni recensioni / 67


appeal avant-pop decisamente più accattivante.<br />

Per i quanti lo trovassero difficile da reperire (è<br />

stampato in edizione limitata), sul sito degli Hot<br />

Chip è possibile scaricare gratuitamente le tracce<br />

Made In The Dark e We’re Looking For A Lot <strong>Of</strong><br />

Love.<br />

Quando si dice “non avere attenuanti”. (7.5/10)<br />

gianni avElla<br />

hot gossip – you look fastEr whEn<br />

you’rE young (ghost / audiogloBE,<br />

Marzo 2009)<br />

gen e r e: in d i e ro c K<br />

Gli italiani non lo fanno necessariamente meglio,<br />

nella fattispecie il rock; ma ogni tanto riescono a<br />

pareggiare se non a superare tanti colleghi della<br />

stessa nicchia: è il caso di questo gruppo milanese<br />

che, con un nome azzeccato da next big thing<br />

–apprezzato infatti anche all’estero- e uno stile che<br />

pesca nei classici modelli di questi anni (Devo, in<br />

questo caso, e altra rock-wave assortita), riesce a<br />

tenersi lontano da furberie e facilonerie di tanti<br />

“eroi” (per un giorno, o poco più) d’oltremanica.<br />

Merito di una grinta che, abbandonati certi furori<br />

punk e certe ingenuità del precedente Angles<br />

(2006), viene incanalata nel tocco, nel piglio con<br />

cui la band affronta ed esegue i suoi pezzi, dando<br />

loro quel quid grazie al quale riescono ad usare<br />

in maniera intelligente anche qualche fronzolo<br />

abusato e a inventarne di tali da vivacizzare anche<br />

quelle canzoni apparentemente prive di melodie<br />

o ritornelli memorabili o che indulgono troppo al<br />

già sentito.<br />

Più che il materiale in sé, efficace comunque nelle<br />

iniziali Everybody Else e And Again, nel vaudeville<br />

di You Better Know e soprattutto negli ammiccamenti<br />

Stones-AC/DC della cavalcata Cops<br />

With Telephones, è proprio questo tipo di approccio,<br />

questa baldanza mentre si ritirano dal troppo<br />

ovvio -oltre a una maggiore coerenza e focalizzazione<br />

stilistica- che alza questo disco un po’ al di<br />

sopra della media odierna e che fa ben sperare per<br />

i loro concerti.<br />

E peccato che non abbiano sviluppato ulteriormente<br />

You Name It: finisce, un po’ come il disco,<br />

come se avessero staccato la spina. (6.7/10).<br />

giulio pasquali<br />

huMcrush – rEst at worlds End<br />

(runE graMMofon, dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: j a z z /e l e t t r o n i c a<br />

Del batterista Thomas Strønen, legato alla scena<br />

avant-jazz norvegese, ci è capitato di parlare recentemente<br />

a proposito<br />

dell’ultima uscita<br />

della sua band principale,<br />

i Food. Per<br />

avere notizie su Stale<br />

Storløkken, guardare,<br />

invece, nel<br />

dizionario della musica<br />

scandinava, alla<br />

voce Supersilent.<br />

Un duo ben rodato, con all’attivo, prima di questo<br />

Rest At The Worlds End, già due dischi, entrambi<br />

pubblicati dalla Rune Grammofon. A distanza di<br />

due anni dall’ultimo Hornswoggle e di quattro<br />

dagli esordi, la batteria free di Strønen ritorna ad<br />

incontrare le tastiere di Storløkken, in un binomio<br />

timbrico piuttosto inedito. Nel caso dell’album in<br />

questione, si tratta di una raccolta di registrazioni<br />

dal vivo in giro per la Norvegia, improvvisazioni<br />

mai pubblicate prima e decisamente diverse l’una<br />

dall’altra. I suoni delle tastiere forniscono alla musica<br />

un elemento inconfondibilmente electro, cui<br />

il drumming si associa, in alcuni casi macinando<br />

groove tra il jazz e la fusion (Edingruv; Rest At Worlds<br />

End), in altri liberando il ritmo e creando imprevedibili<br />

impasti sonori con l’altro strumento (Audio<br />

Hydraulic; Creak), impazzendo letteralmente nei<br />

conati spastici di Bullfight. Se queste vibrazioni si<br />

rilassano, possono sfociare nell’ambient di Airport o<br />

nel prog di Solar Sail, in cui le tastiere compiono un<br />

tuffo nel passato di almeno quarant’ anni. La creatività<br />

dei due, quando riescono (quasi sempre, in<br />

realtà) a combinarsi, dimostra di valere per quat-<br />

tro, facendo dimenticare completamente la mancanza<br />

di un supporto ritmico aggiuntivo: ascoltare<br />

la conclusiva Hit per credere. Conclusiva per il cd,<br />

poichè la versione in doppio vinile contiene addirittura<br />

sette brani in più. Un’altra conferma, l’ennesima,<br />

dell’ottimo stato di salute di cui gode la<br />

scena avant norvegese, sia in qualità che in quantità.<br />

(7.2/10)<br />

daniElE follEro<br />

il pan dEl diavolo - il pan dEl diavolo<br />

Ep (800a rEc / MalintEnti, dicEM-<br />

BrE 2008)<br />

gen e r e: f o l K , b l u e s , r o c K a b i l l y<br />

Se è vero che il blues è il “pan del diavolo”, questo<br />

duo palermitano lo mastica che è un piacere.<br />

Non solo: lo metabolizza, lo trasforma in un ibrido<br />

a base principalmente di folk (l’assetto acustico –<br />

chitarre, grancassa, sonaglio - è imperativo) e di<br />

vita vissuta, fatta di disgrazie quotidiane affrontate<br />

con irriverente sberleffo e parodistica, ironica<br />

disperazione. Genuinità, spontaneità e freschezza<br />

sono le armi più affilate dell’arsenale di Pietro<br />

Alessandro Alasi e Gianluca Bartolo: una formula<br />

personale che si riversa prepotente ed esplode<br />

fragorosa nelle quattro tracce di questo dischetto<br />

d’esordio, pubblicazione #1 della neonata 800A<br />

Records, affiliata con quella Malintenti già dietro<br />

le interessanti uscite di Don Settimo e Toti<br />

Poeta. Come nel caso di quei dischi, parlare di<br />

“segnali positivi provenienti dalla Sicilia” è semplicemente<br />

riduttivo: questa è musica che guarda<br />

ben aldilà dello Stretto, pur cibandosi di sensazioni,<br />

attitudini, istinti fieramente locali. Vengono in<br />

mente tanto i Violent Femmes quanto il miglior<br />

Bennato, oltre al quasi ovvio Rino Gaetano (riferimento<br />

obbligato per la visionarietà dei testi, fra<br />

piante cresciute dal ginocchio, volti cancellati con<br />

le mani e così via); il tutto caratterizzato da una<br />

vocalità sopra le righe che galleggia fra toni rock<br />

blues quasi urbani (Coltiverò l’ortica, complice la<br />

mano del produttore Fabio Rizzo, già in Waines<br />

e Second Grace, altre due formazioni in espan-<br />

sione libera dal capoluogo siciliano) e rockabilly<br />

forsennati (I fiori, Stile roberto il maledetto), pestati al<br />

ritmo di una festa di paese.<br />

In attesa di una conferma sulla lunga distanza<br />

consigliamo di tenerli d’occhio, perché quel poco<br />

che queste canzoni promettono varrebbe già tutta<br />

l’attenzione di solito riservata ad altri act indie nostrani<br />

più in vista – a nostro avviso, da qui si possono<br />

sviluppare gli anticorpi contro la depressione<br />

da “anni zero” di Vasco Brondi e delle sue Luci<br />

della centrale elettrica; perché per scacciare<br />

via il blues - chase the blues away, come diceva Tim<br />

Buckley -, in fondo, non c’é niente di meglio di<br />

una sonora pernacchia. (7.2/10)<br />

antonio puglia<br />

jaMEs yuill – turning down watEr<br />

for air (Moshi Moshi / sElf, 6 fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: f o l K t r o n i c a<br />

La generazione glitch-pop dei primi anni duemila<br />

in certi territori si è poi tramutata in folktronica,<br />

ossia quel flirtare di bleeps e beat prodotti dal laptop<br />

di turno con una chitarra acustica e una voce<br />

melodiosa e rattristita quanto basta. Col senno di<br />

poi, viene da ridere a pensare che intere generazioni<br />

di geek musicali abbiano preso quel Give<br />

Up dei Postal Service<br />

totalmente<br />

come monito nonostante<br />

siano passati<br />

sei anni e di acqua<br />

sotto i ponti ne sia<br />

scorsa parecchia. A<br />

scanso d’equivoci,<br />

essendo la formula<br />

del genere arrivata da tempo al ripetere se stessa<br />

nei modi e nell’espressione, l’unico arbitro della<br />

situazione è la compattezza della scrittura e la<br />

presenza di singoli episodi che facciano da traino<br />

all’intero disco. James fa il suo lavoro con passione<br />

e colleziona un buon numero di canzoni riuscite,<br />

dove l’intersecarsi dei soliti ingredienti in gioco<br />

68 / recensioni recensioni / 69


provoca un fluire dell’ascolto molto piacevole (l’hit<br />

da dancefloor alternativo No Pins Allowed, la malinconia<br />

gocciolante di Left Handed Girl, la ballatona<br />

commovente This Sweet Love e la lezione Morr Music<br />

di No Surprise), che però tende alla lunga a mostrare<br />

il fianco quando gli stilemi diventano un limite<br />

da ricalcare senza troppa fantasia. Quindi un<br />

po’ Maximilian Hecker, un po’ Tunng, un po’<br />

tanto Gibbard + Tamborello, il difetto principale<br />

di certe produzioni seppur supportate da un buon<br />

numero di pezzi sopra la media è il fatto di non<br />

spostarsi di un millimetro da territori già esplorati<br />

appieno, stemperando l’entusiasmo appena sopra<br />

la sufficienza. Il talento si avverte, manca solo un<br />

po’ di coraggio. (6.1/10)<br />

alEssandro grassi<br />

jocElyn pulsar - pEnso a sonia Ma<br />

suono pEr la gloria (agos Music -<br />

2009)<br />

gen e r e: l o-fi/po p<br />

Siamo al quarto disco dal 2004 per i Jocelyn Pulsar,<br />

il repertorio comincia a farsi significativo, roba<br />

da fare i conti con una certa maturità. Invece, loro,<br />

niente: stanno lì a palleggiare lo stesso disincanto<br />

ad alzo zero di sempre, indie a bassa fedeltà con<br />

l’ovosodo in gola e quel prurito al basso ventre subito<br />

smorzato da uno spleen frugale, di quelli che<br />

al tempo del telefono fisso finivi per scrivere sulla<br />

paginetta del diario e oggi ti tocca dare in pasto ai<br />

social network e ai telefoni cellulari. L’ingrediente<br />

principale del loro songwriting è una sorta di rammarico<br />

stupefatto per lo scarto insanabile dall’immaginario<br />

degli ottanta, divorato dall’evoluzione<br />

mediatica che significa anche profonda mutazione<br />

esistenziale. Personaggi e situazioni dell’altro ieri -<br />

dal portiere che parava senza mani al whiskey che<br />

invecchiava sette anni e non c’erano cazzi, dalla<br />

grande festa al mobilificio al giocatore di basket<br />

sovradimensionato a fine corsa, dal maggiordomo<br />

spacciatore di delizie all’incredibile forno autopulente<br />

- talmente obsoleti da sembrare di un altro<br />

pianeta, provocando una pellicola di disarmo at-<br />

traverso cui possiamo osservare i tormenti inconfessati<br />

del campione di calcetto, la boria sotto vuoto<br />

spinto del critico musicale di lungo corso, oppure<br />

il melodramma minimale di chi ama malgrado la<br />

sindrome influenzale. Ballate che ciondolano tra<br />

l’acustico e il sintetico concedendosi talora un’elettricità<br />

bonaria, capaci<br />

sì di appiccicarsi<br />

alle orecchie<br />

ma non abbastanza<br />

da arrivarti al cuore.<br />

Questo il difetto<br />

principale del quartetto<br />

romagnolo: la<br />

poetica del pensiero<br />

debole conduce ad una debolezza espressiva oserei<br />

dire fisiologica. Un’impostazione rispettabile e ci<br />

mancherebbe, però si condannano da soli a fare i<br />

nipotini sfigati dei Pavement vita natural durante.<br />

Mi aspetterei - mi augurerei - da parte loro un<br />

guizzo stilistico verso l’alto, un sussulto d’ambizione.<br />

D’altronde, per dipingere una parete grande ci<br />

vuole un pennello grande. O era un grande pennello?<br />

Boh. (6.2/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

kid606 – diE soundBoy diE Ep (vEry<br />

friEndly, dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: d e e p te c h n o<br />

Più che mai attuale questo EP lungo per uno degli<br />

assi della techno deviata come il ragazzo Kid606.<br />

La proposta si situa infatti nel labile confine tra<br />

le esperienze dei maghi Warp prima maniera, le<br />

atmosfere belgiche che stanno rivivendo nelle avventure<br />

di Mr Oizo e inevitabilmente il dubstep.<br />

Come a dire: techno. Come a dire: nord Europa<br />

e raving. Ascoltate ad esempio l’acidità di una<br />

traccia come Loose Noose e sentirete gli echi degli<br />

esordi Chemical Brothers, proseguite poi con Get<br />

In The Way e ditemi se non c’è tutto il clubbing dei<br />

90, con quegli effetti che fanno ancora una volta<br />

’House Nation’ un motto per cui morire col sorriso<br />

plastificato in faccia. Non solo club comunque: You<br />

Can’t Stop A Stepper è l’accenno al dubstep virato<br />

reggae, Bat Manners ripercorre le orme della ambient<br />

di gente come Pole e Gas e per finire Death<br />

Is Pain Leaving The Body è un brivido nero che scuote<br />

come il soul-grime di Burial. Tre quarti d’ora<br />

che ci ricordano come alcuni vecchi maestri siano<br />

ancora capaci di dire la loro e di come l’eterogeneità<br />

sia ormai d’obbligo. Ben fatto, Kid. Ora ci<br />

vuole l’album.(7.0/10)<br />

Marco Braggion<br />

la otracina – Blood Moon ridErs<br />

(holy Mountain, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: h e a v y ps i c h e d e l i a<br />

Ultimo parto, temporalmente parlando, in casa La<br />

Otracina con Ninni Morgia in formazione. Dopo<br />

qualche interlocutorio passaggio minore – meglio<br />

il cd-r Crystal Wizards From The Cosmic Weird uscito<br />

per Sky-fi con ancora la chitarra del siciliano,<br />

che il “casalingo” The Risk <strong>Of</strong> Gravitation per Color<br />

Sounds – esce ora in solo vinile per Holy Mountain<br />

questo 5 pezzi che si pone in scia all’ottimo Tonal<br />

Ellipse <strong>Of</strong> The One. Non per sembrare patriottici,<br />

ma lo scarto essenziale rispetto alle nuove cose<br />

pubblicate dal gruppo – virate verso un versante<br />

più metallico e francamente troppo pacchiano –<br />

sembra risiedere proprio nelle volute chitarristiche<br />

di Morgia. Un suonato in grado di trainare il suono<br />

pachidermico e lieve allo stesso tempo del terzetto,<br />

di farlo proprio, di dettare tempi ed evoluzioni in<br />

maniera anche netta (certe aperture hard-prog di<br />

Inner Mind Journey così come i deliqui mantrici di<br />

Ballad <strong>Of</strong> The Hot Ghost Mama Pt.1) ma mai banale.<br />

Non da meno gli altri due vertici del triangolo<br />

newyorchese, qui ognuno al rispettivo zenith: il<br />

bassista Evan Sobel (anche al piano elettrico) e il<br />

batterista/fondatore Adam Kriney non sono comprimari.<br />

Ma anzi, i supporter perfetti per il lavorio<br />

della chitarra, col loro affiatamento e soprattutto<br />

con l’estrema duttilità: che si tratti di accendere il<br />

motorik o di contrappuntare i frammenti chitarristici,<br />

i due rispondono sempre presente. Il risultato<br />

perciò non può che essere un frullatore di rock<br />

acidissimo, psichedelia krauta corrosiva, jam da<br />

Velvet selvaggi, attitudine free, incubi jodorowskyani,<br />

evanescenze spacey e tanto altro ancora che<br />

si avvicina ai picchi toccati da Tonal…. La qual<br />

cosa ci fa avvertire ancor di più, come una nube<br />

minacciosa, le dimissioni di Morgia. (7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

lars horntvEth – kalEidoscopic<br />

(sMalltown supErsound / faMily affair,<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: c o n t e M p o r a n e a<br />

Lo si era intuito dal debutto Pooka che Lars Horntveth<br />

è personaggio che ama mettersi in gioco.<br />

Kaleidoscopic è una mossa importante, imponente,<br />

per mole e giro di vite implicato. La Latvian<br />

Symphony Orchestra al completo (quarantuno<br />

elementi suddivisi tra archi, percussioni, clarinetto,<br />

flauto, trombone e arpa) diretta dal norvegese<br />

Terje Mikkelsen e impreziosita dallo stesso Horntveth<br />

al piano, fiati e clarinetto. Il canovaccio che<br />

ne viene - una suite di trentasette minuti ispirata,<br />

a detta del suo artefice, a Jim O’Rourke, Robert<br />

Wyatt, Stereolab, Dave Brubeck, Joanna Newson,<br />

Bernanrd Herrmann e l’arrangiatore di archi di<br />

Gainsbourg Jean-Claude Vannier – somiglia ad<br />

una versione high tech di Steve Reich persosi in<br />

un vaudeville venusiano. Lo scorrere dei minuti,<br />

ripresi live in una piccola chiesa di Riga, dal decimo<br />

primo in avanti si leva nel suo essere policromo<br />

alternandosi in incisi cinematici e leggiadrie<br />

da musical post moderno che, secondo i dettami<br />

dell’autore, variano in funzione dell’umore. In<br />

progress insomma. Immaginifico. A suo modo un<br />

genio, Lars Horntveth rischia seriamente di candidarsi<br />

a novello Simon Jeffes. Obbligatorio tenerlo<br />

d’occhio. (7.0/10)<br />

gianni avElla<br />

lEadfingEr – rich kids (Bang! rEcords,<br />

2008)<br />

gen e r e: r o c K Ma i n s t r e a M<br />

A qualcuno che se ne intende un po’ del panorama<br />

70 / recensioni recensioni / 71


pop-rock australiano nomi come Yes Men, Asteroid<br />

B612 e Brother Brick può darsi che dicano<br />

qualcosa. Così come il<br />

nome di Stewart “leadfinger”<br />

Cunningham, chitarrista<br />

delle suddette band,<br />

che stavolta si è messo “in<br />

proprio”, dando vita ad<br />

un trio a sua immagine e<br />

somiglianza (e nome), accompagnato<br />

dal bassista Wayne Stockes e Stephen<br />

O’Brien alla batteria. Le sedicenti premesse potrebbero<br />

anche essere allettanti. Influenze “dichiarate”:<br />

MC5, Stooges, Radio Birdman. Risultato:<br />

un misto tra il southern rock, i Soul Asylum<br />

e gli U2 più recenti. Non riusciamo veramente a<br />

trovare più felice paragone con un rock decisamente<br />

rivolto al mainstream, dagli spigoli limati e<br />

il ritornello facile e scontato, reso leggermente più<br />

maschio da qualche timida distorsione. Speriamo<br />

proprio non sia questo, come qualcuno dice, il<br />

“vero” Sydney r’n’r. (5.0/10)<br />

daniElE follEro<br />

lonEy, dEar – dEar john (polyvinyl,<br />

gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: indie po p<br />

Gli svedesi Loney, Dear giungono con Dear John al<br />

traguardo del terzo album. Si registra il raggiungimento<br />

di una maggiore maturità stilistica, specialmente<br />

nello svilupparsi dell’impianto strumentale –<br />

sempre più stratificato e curato da campioni e suoni<br />

elettronici -, e di una più intensa introspezione della<br />

loro idea di pop. Infatti, essa si fa ancor più leggiadra<br />

e malinconica concedendo più spazio alla riflessione.<br />

Ciò rappresenta simultaneamente un merito<br />

e un difetto: perché sì, le canzoni ora guadagnano<br />

in profondità emotiva, ma finiscono per stancare a<br />

un ascolto intero dell’album. Esclusione fatta per<br />

il buon “tiro” dell’apripista Airport Surroundings,<br />

di Everything Turns To You e di Summers, il resto<br />

dell’album si muove su più quiete e distese suite<br />

musicali, ora intensificandone la drammatizzazio-<br />

ne con ricercate orchestrazioni, ora dilatandole con<br />

eteree sospensioni sonore. Come se i Grandaddy<br />

flirtassero con i Radiohead di Exit Music (For A<br />

Film), tanto per rendere l’idea: su tutte Under A<br />

Silent Sea, ballad lunare che si particolarizza con<br />

aggiunta di vocoder e innesti faithlessiani a contrappuntare,<br />

e Harm, costruita sul celebre e dolente<br />

Adagio di Albinoni. Singolarmente, ogni episodio<br />

piace e persuade ma è la loro concatenazione a non<br />

convincere a pieno. Qualche più sbarazzino intermezzo<br />

avrebbe sicuramente giovato al risultato finale.<br />

Ma, nonostante ciò, Dear John è album coraggioso<br />

da considerarsi, comunque, un passo in avanti<br />

e innovativo nel loro percorso artistico. (6.8/10)<br />

andrEa provinciali<br />

thE lucksMiths - first frost (fortuna<br />

pop!, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie po p<br />

Ci sono gruppi che immancabilmente portano a<br />

riflettere su quanto un certo pop degli ’80 continui<br />

tuttora ad essere seminale nell’indie pop odierno.<br />

Ecco allora che le storie drammatiche e le melodie<br />

degli Smiths, la musicalità dei Go-Betweens e<br />

della Sarah Records tutta affiorano di tanto in<br />

tanto, e quando i riferimenti sia pur così espliciti<br />

sono ben amalgamati e resi intimamente propri,<br />

ecco allora il gruppo che fa la differenza. È giusto<br />

il caso degli australiani The Lucksmiths, sulle<br />

scene da ormai ben più di 15 anni e cult band<br />

tra gli appassionati del genere.First Frost non fa<br />

eccezione alla regola; vi si ritrovano infatti con<br />

equilibrio perfetto gli ingredienti adatti all’occasione:<br />

il giusto amalgama tra melodie e malinconia<br />

suadente, il chitarrismo, la liricità, le storie<br />

sull’ordinarietà e la problematicità dell’everyday life<br />

e le liriche, accluse al libretto della bella edizione<br />

cartonata del CD, impetuose e intense che senza<br />

clamore esprimono il malessere “adolescenziale”<br />

in senso lato così caro alla band. Così si procede<br />

tra ballad smithsiane (Up With The Sun, South-East<br />

Coastal Rendezvous), chitarrismo Aztec Camera<br />

e Housemartins (Good Light, Never And Always),<br />

languori Go Betweens (Song <strong>Of</strong> The Undersea), fiati<br />

e puro B&S (The National Mitten Registry), l’afflato<br />

dei migliori Style Council melodici con moderazione<br />

(Pines). In fondo il segreto ben custodito<br />

di questa musica è nel suo rimanere sottotraccia,<br />

leggera ma significativa per chi coglie l’essenza.<br />

(7.2/10)<br />

tErEsa grEco<br />

Hi gH l i gH t<br />

Mi aMi – watErsports (quartErstick, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: p o s t -du b -tr i b a l -p u n K<br />

Avevamo visto giusto incensandoli dopo la manciata di<br />

minuti racchiusa nel 12” d’esordio African Rhythms.<br />

Non che questo sia merito nostro, anzi, tutt’altro. Il merito<br />

va tutto a Daniel Martin-McCormick (chitarra, voce),<br />

Jacob Long (basso) e Damon Palermo (batteria), al secolo<br />

Mi Ami. Un passato targato Dischord quando si chiamavano<br />

Black Eyes e spaccavano cuori ed orecchie a<br />

suon di epilessie no-(p-funk)-wave; un futuro lucente, se<br />

continueranno a mantenere le promesse come in questo<br />

Watersports. Sì, perché nei suoi 7 pezzi prendono corpo in maniera più compiuta<br />

quelle dichiarazioni d’intenti presenti nel 12”: tensione post-punk e instabilità emotiva,<br />

sfaccettato tribalismo terzomondista e dissonanze noise, isterismi vocali e dilagante attitudine<br />

dance-dub. È il senso di equilibrio, di perfetto incastro, di vicendevole supporto<br />

tra le varie forme musicali masticate dai tre a stupire, fornendo la chiave di volta per la<br />

comprensione di una musica matura ben oltre la relativamente giovane età del progetto.<br />

Gli 8 minuti dell’opener Echononecho stanno lì a dimostrarcelo: un suono nero talmente<br />

smostrato dai bianchi da venirne quasi rinvigorito. In ogni suo elemento, in ogni sua<br />

componente. Le frecce nell’arco di Watersports sono tante e varie. Riduzionismo dub e<br />

suggestioni da jazz libero dei sessanta, disco-music mutante e manipolazione dei ritmi,<br />

apnee strumentali e continue camere di decompressione. Il bello è che quelle frecce colpiscono<br />

sempre il bersaglio. (7.5/10)<br />

stEfano piffEri<br />

M. ward – hold tiME (4 ad, 17 fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: r e t r o fo l K po p<br />

Non ci voleva certo la recente uscita a nome She<br />

& Him (Volume 1, in coppia con l’attrice Zooey<br />

Deschanel) perché ci accorgessimo del talento di<br />

M. Ward, né ci stupisce, in fondo, che in America<br />

il suo sia diventato uno dei nomi più cool da<br />

mettersi in bocca quando si parla di alt-folk (o giù<br />

di lì), al pari dei suoi vecchi compari Bright Eyes<br />

e My Morning Jacket. E’ un nuovo establishment<br />

musicale che, in un certo senso, si sta creando, se<br />

pensiamo che Jim James e i suoi ormai si esibiscono<br />

a Las Vegas e che Conor Oberst è una star sdoganata<br />

già dai tempi del famigerato tour Vote For<br />

Change. Ed è una cosa assolutamente sacrosanta,<br />

perché Ward è e resta musicista, compositore ed<br />

72 / recensioni recensioni / 73


arrangiatore di prima classe, e al bando tutti i giri<br />

di parole. E’ quello che ti ritrovi a pensare quando<br />

stringi tra le mani questo Hold Time, che sin dal<br />

titolo, come l’acclamato Post-War, gioca su certe<br />

inevitabili tendenze<br />

retrò da sempre<br />

presenti nella sua<br />

musica; pre-war e old<br />

time music non si possono<br />

certo sradicare<br />

dal suo dna, ma<br />

adesso ci si è messo<br />

in mezzo anche il<br />

pop dei ’60, e allora<br />

non ce n’è per nessuno. Il punto di partenza in<br />

quella direzione erano già le canzoni del disco con<br />

la Deschanel (peraltro, la ritroviamo come discreta<br />

presenza in un paio di episodi), ma qui è la sostanza<br />

ad essere diversa. La densa pasta spectoriana in<br />

cui si diverte a immergere melodie degne di Brian<br />

Wilson, o meglio ancora del suo idolo dichiarato<br />

Daniel Johnston, è qualcosa di più che un mero<br />

esercizio di stile; l’affascinante veste sonora vintage<br />

non copre, anzi risalta una scrittura sempre più<br />

ferma e forse mai così pop come adesso (For Beginners,<br />

Star <strong>Of</strong> Leo, To Save Me, insieme all’ex Grandaddy<br />

Jason Lytle). Altrove aleggia lo spettro dei<br />

Big Star più disperati virati Scott Walker (la title<br />

track), bilanciati dal treno in corsa rockabilly Johnny<br />

Cash di Fisher <strong>Of</strong> Men. Poi beh, ci sono le<br />

solite fascinazioni legnose alla John Fahey (Shangri-<br />

La), c’è l’eccellente cover che conferma la sapienza<br />

del sarto (un’ombrosa Oh Lonesome Me di Don<br />

Gibson ricalcata dalla versione di Neil Young, con<br />

la voce da reduce di Lucinda Williams a rendere<br />

il tutto ancor più indimenticabile); e se non<br />

bastasse, sui titoli di coda c’è pure la zampata finale:<br />

l’Outro, una malinconica chitarra twang su un<br />

tappeto orchestrale che nemmeno il Jack Nitzsche<br />

più celestiale e irraggiungibile. L’avrete già capito,<br />

saranno in molti a dire che questo è il miglior disco<br />

che M. Ward abbia pubblicato sinora (lo si era<br />

detto per Post-War, d’altronde). Oltre a covare il<br />

legittimo dubbio che ciò sia effettivamente vero, ci<br />

viene anche da pensare che la sua produzione, se<br />

si manterrà su tale livello, sarà difficile da battere<br />

per altri anni ancora. (7.7/10)<br />

antonio puglia<br />

Marissa nadlEr – littlE hElls (kEMado,<br />

3 Marzo 2009)<br />

gen e r e: f o l K -po p ba l l a d s<br />

Definire il nuovo disco di Marissa Nadler è lavoro<br />

assai arduo per chi ne aveva cristallizzato l’immagine<br />

da sirena delle isole Aran destata dai rintocchi<br />

delle campane di The Saga <strong>Of</strong> Mayflower May.<br />

Una voce che figurava come l’ultimo degli echi di<br />

Cathy Berberian e una capacità di scrivere ballad<br />

folk che incantava al primo ascolto. A due anni<br />

di distanza da Song III: Bird On The Water, la<br />

Giunone di Boston fa il salto verso un altrove che<br />

mai ci saremmo aspettati. Saranno stati gli ascolti<br />

giovanili di Throwing Muses e Mazzy Star o<br />

la voglia di sdoganarsi dalla nicchia o ancora la<br />

curiosità di guardare alla propria musica con occhi<br />

nuovi, perché la triade iniziata con Ballads of<br />

Living & Dying non avrebbe potuto perpetuarsi<br />

all’infinito. Da queste parti però ci si attendeva un<br />

salto di qualità sulla via buona, quella che, in almeno<br />

un paio di episodi, Little Hells sembra imboccare:<br />

Heart Paper Lover e Loner, dove la presenza<br />

degli ospiti Farmer Dave Scher (Jenny Lewis,<br />

Beachwood Sparks) ad organo, synth e piano e<br />

Myles Baer (Black Hole Infinity) alle chitarre<br />

assicura un morbida transizione dagli Appalachi<br />

alle atmosfere dreamy e sintetiche di ascendenza<br />

4AD. Il seguito viaggia disomogeneo alla ricerca<br />

di involucri pop, esauditi di volta in volta in un’alchimia<br />

Sandoval-Roback (Rosary) ed incubi alla<br />

Blonde Redhead che affaticano l’ascolto nonostante<br />

l’ammaliante scrittura (Mary Come Alive). E’<br />

che qui una volta era tutta campagna, e probabilmente<br />

la sontuosa produzione di Chris Coady,<br />

già all’opera con i Blonde Redhead, a tratti ha<br />

prevalso sullo stile di Marissa. D’altro canto la parte<br />

centrale del disco rimane ancorata al passato più<br />

che mai (Little Hells, Brittle, Crushed And Torn). Senz’<br />

altro un’opera di transizione, che non tralascia di<br />

nascondere tesori tra le pieghe di un’inaspettata<br />

veste pre-mainstream. Da segnalare la presenza di<br />

Simone Pace dei Blonde Redhead alla batteria.<br />

(7.3/10)<br />

francEsca Marongiu<br />

MassiMo falasconE – works<br />

05-007-2008 (sEtola di MaialE, dicEM-<br />

BrE 2008)<br />

gen e r e: i M p r o -ja z z<br />

Con colpevole ritardo torniamo su un interessante<br />

lavoro che sarebbe stato un peccato lasciar giacere<br />

nel dimenticatoio. Un disco di grande spessore e<br />

maturità, quello imbastito da Massimo Falascone,<br />

sassofonista e sound artist di stanza a Milano. In<br />

Works 05-007-2008 l’artista italiano colleziona<br />

lavori sparsi – lavori in proprio, collaborazioni a<br />

distanza geograficamente e temporalmente, musiche<br />

per piece teatrali, ecc. – tanto eterogenei che il<br />

titolo dell’album avrebbe potuto tranquillamente<br />

fregiarsi del prefisso patch…. A far da contraltare,<br />

oltre che da collante, a tanta frammentazione<br />

c’è però l’omogeneità della cura dei suoni e della<br />

ricerca di Falascone, che unita all’ottima qualità<br />

media degli 8 pezzi, rende questo collected works<br />

un disco immancabile per chi si occupi del versante<br />

più impro del jazz. Perché Falascone unisce elementi<br />

apparentemente distanti – il caldo del suo<br />

strumento e il freddo dei loop – con convinzione e<br />

gioia, senza seriose verbosità ma piuttosto con una<br />

grossa carica auto-ironica.<br />

Per tutti valgano i 7 minuti dell’iniziale Ottovolante.<br />

Vero e proprio bignami del modus operandi di Falascone<br />

e del suo intendere il lavoro di ricerca sui<br />

suoni e sulle possibilità delle interazioni con fonti<br />

e personalità altre, Ottovolante rielabora una composizione<br />

di 8 minuti dell’americano Bob Marsh<br />

tramite cut-up invasivo, aggiunte di plug-ins,<br />

bassi e immancabili contrappunti di sax. Ottimo<br />

(7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

Monno – ghosts (conspiracy, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: dr o n e /sl u d g e<br />

Non basta imbeccare buoni riff e trascinarli oltre<br />

i 10 minuti per fare un buon disco. Ed è questo il<br />

motivo per cui a volte dischi di questo genere vanno<br />

poco oltre la noia. I Monno (duo che maneggia<br />

laptop, basso batteria e sax) per esempio, si sono<br />

spinti molto oltre.<br />

In Ghosts ci mostrano che è possibile scavalcare<br />

il suono caratteristico del drone/sludge, quei bassi<br />

riff che costituiscono il corpo massiccio del genere,<br />

senza abbandonarne i territori densi e neri. I<br />

Monno sembra asportino chirurgicamente quella<br />

precisa porzione di spettro delle frequenze, delimitandone<br />

i contorni<br />

con telluriche<br />

vibrazioni al limite<br />

dell’udibile e graffianti<br />

suoni sintetici<br />

e di sax ultraprocessato.<br />

Quel che resta<br />

è una pesante mancanza,<br />

e una sensazione<br />

di vertigine di<br />

fronte alle enormi bolle di vuoto che restano. Forse<br />

i fantasmi a cui si riferisce il titolo. La prima traccia,<br />

Negative Horizon, prepara il terreno. Introdotta<br />

da innaturali cori si mantiene su un lento incedere<br />

di basso e batteria, poggiandosi interamente su<br />

un cupo accordo immutato per tutta la durata del<br />

pezzo. Ma è dal suono del successivo Troye che crolla<br />

l’intero costrutto del drone. Riferimenti forse se<br />

ne trovano nei Today Is The Day più recenti,<br />

ma in questo caso l’effetto è decisamente più devastante.<br />

Quella che nella band di Steve Austin è soltanto<br />

una strana equalizzazione, qui è un attacco,<br />

dall’interno, ai codici del genere. Merule continua<br />

lungo la stessa linea ma concedendosi un introduzione<br />

quasi jazz. Ormai il danno è stato fatto, e se<br />

in Hull si sale a velocità più tipiche di Naked City<br />

o Zu, nell’ultima Endfall si continua a giocare con<br />

opposti, costruendo abissi e disgragando macigni.<br />

74 / recensioni recensioni / 75


Sicuramente è solo un obiettivo di settore, ma in<br />

Ghosts i Monno segnano un nuovo traguardo in<br />

un genere dove il rischio di finire nel “già sentito”<br />

è sempre molto alto. (7.3/10)<br />

lEonardo aMico<br />

MorrissEy – yEars of rEfusal (dEcca<br />

/ univErsal, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: p o p ro c K<br />

Nella nostra era di download selvaggio la paura di<br />

imbattersi nel nuovo DCFC fake è sempre in agguato.<br />

E questa si fa<br />

quasi concreta non<br />

appena si ascoltano<br />

le prime due canzoni<br />

del nuovo album,<br />

il nono nella sua<br />

carriera solistica, di<br />

Morrissey. Ovviamente<br />

è una provocazione,<br />

perché impossibile<br />

emulare così bene le corde vocali di uno<br />

dei più grandi cantori pop. Ciò, però, va inevitabilmente<br />

a discapito del Nostro: la prima sensazione<br />

che scaturisce all’ascolto di Something Is Squeezing<br />

My Skull e Mama Lay Softly On The Riverbed è<br />

quella di trovarsi dinnanzi una band emocore (da<br />

intendersi nell’accezione più nobile del genere) che<br />

ben scimmiotta gli Smiths. Menomale che Years <strong>Of</strong><br />

Refusal non è tutto cosi, alcuni brani (la malinconica<br />

I’m Throwing My Arms Around Paris e la più<br />

sbarazzina When Last I Spoke To Carol) si rivelano<br />

ben riusciti e con un trainante impatto melodico,<br />

questo sì contraddistintivo di Morrissey, mentre le<br />

due ballad (It’s Not Your Birthday Anymore e You<br />

Were Good In Your Time) riescono finalmente a<br />

rendere al meglio le sue capacità compositive. Ma<br />

nell’insieme, purtroppo, si avverte una certa sua volontà<br />

di mostrarsi fresco e giovane, quando noi invece<br />

l’avremmo preferito stagionato e maturo. Un<br />

rilevante ma non compromettente passo indietro<br />

rispetto ai suoi ultimi due lavori. (6.2/10)<br />

andrEa provinciali<br />

Mt. st. hElEns viEtnaM Band - sElf<br />

titlEd (dEad ocEans / goodfEllas,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie eM o<br />

Di questi tempi basta poco perché un nome divenga<br />

chiacchierato: da più parti si indica infatti il Monte<br />

Sant’Elena come futuro e assai plausibile santino<br />

indie, in ragione di un suono debitore - in parti disuguali<br />

- a At The Drive In, Modest Mouse e<br />

Cursive. Senza tuttavia padroneggiare l’arguzia, la<br />

scioltezza e il senso per la confidenzialità di costoro<br />

ed è facile capire i motivi: ridi e scherza siamo arrivati<br />

al 2009, “emo” è diventata una parolaccia o - nella<br />

migliore (?) delle ipotesi - un’imbarazzante casella di<br />

marketing giovanilista in cui si è infilata gentaglia esecrabile<br />

come 30 Seconds To Mars o Chemical<br />

Romance. Non è colpa di questo quintetto proveniente<br />

da Seattle, qui all’esordio lungo dopo un e.p.<br />

di riscaldamento; il problema pertiene all’attingere<br />

da una vena inaridita, che di uno stile può restituire<br />

solamente la parvenza esteriore. Le motivazioni<br />

originarie sono svanite e chi all’epoca non c’era non<br />

le può ricreare dall’ascolto dei dischi. Di conseguenza,<br />

il suono angolare ma tortuosamente pop dei Mt.<br />

St. Helens ecc. si racconta per lo più un ridondante<br />

teatro di buone intenzioni e padronanza esecutiva,<br />

nel quale la spontaneità soccombe ai cambi di tempo<br />

e atmosfera. Nell’alternanza sin troppo studiata dei<br />

quali il gruppo non impressiona granché e persino<br />

irrita con la pompa magna anni ’70 di Little Red Shoes,<br />

En Fuego e Albatross, Albatross, Albatross. Meglio allora<br />

rivolgersi ad Anchors Dropped, filastrocca prossima agli<br />

Xtc, e all’imbrigliata dolcezza quasi soul di A Year Or<br />

Two per fare chiarezza. Le carte restano comunque<br />

nebulose fino alla fine, allorché i sette minuti di On<br />

The Collar - sensazionale scintillio da qualche parte<br />

tra Forever Changes, Skylarking e Tones <strong>Of</strong> Town - inducono<br />

all’applauso a scena aperta. E’ su tali percorsi<br />

la formazione americana dovrebbe investire il proprio<br />

talento ancora in embrione, più che cercare di<br />

compiacere l’ortodossia nerd che fa capo a Pitchfork e<br />

dintorni. Speriamo. (6.5/10)<br />

giancarlo turra<br />

My Morning jackEt - itunEs livE<br />

froM las vEgas at thE palMs – Ep<br />

(itunEs, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: f o l K , p o p , s o u l<br />

Questa uscita collaterale, in apparenza un approdo<br />

sicuro (appartiene a una serie di EP, esclusivamente<br />

in digitale, che vede band scelte da iTunes<br />

registrare alcune loro canzoni dal vivo in un lussuoso<br />

studio di Las Vegas, presso il casinò At The<br />

Palms), in realtà riconnette i My Morning Jacket<br />

con una parte della loro musica - della loro storia -<br />

che sembrava ormai dimenticata, sepolta com’era<br />

dalla loro fama di roboante live band (e da recenti<br />

uscite discografiche che si concedono a diversioni<br />

stilistiche fra l’azzardato e l’azzeccato). Quando<br />

invece riposava soltanto sottopelle: l’approccio minimale,<br />

narcolettico, sommerso da strati e strati di<br />

riverbero che era tipico del lontano esordio The<br />

Tennessee Fire (1999) lo ritroviamo qui, sia nella<br />

ripresa di rare canzoni del periodo - They Ran,<br />

From Nashville to Kentucky, Tonight I Want to Celebrate<br />

With You, a loro volta iniettate di vibrazioni soul<br />

- sia negli arrangiamenti di cose più recenti. E ci<br />

si accorge sia che Knot Comes Loose (da Z, 2005) e<br />

Thank You Too, uno dei gioiellini del’ultimo Evil<br />

Urges, affondano le radici in un passato mai in<br />

fondo dimenticato, mentre l’inedita Dear Wife giochicchia<br />

tenuemente con easy listening anni ’70<br />

e primi Beatles. Una pubblicazione tutt’altro che<br />

priva d’importanza, a ben vedere. (6.8/10)<br />

antonio puglia<br />

nancy wallacE - old storiEs (Midwich<br />

rEcords / goodfEllas, fEBBraio<br />

2009)<br />

gen e r e: f o l K re v i v a l<br />

Arriva al debutto solista la cantante del combo<br />

folk inglese The Memory Band, e già ospite<br />

l’anno scorso nel primo disco degli Owl Service.<br />

Folk britannico tradizionale che si riallaccia<br />

prepotentemente alla tradizione dei ‘60 e dei ‘70<br />

degli immancabili Steeleye Span, Fairport<br />

Convention, Pentangle. Folk rivisitato all’oggi,<br />

mescolando traditional e composizioni originali e<br />

dotandoli del medesimo afflato melodico, resi con<br />

grazia armonica e strumentale. Voce suadente un<br />

po’ Vashti Bunyan, un po’ Shirley Collins un po’<br />

Anne Briggs a seconda delle occasioni. Album che<br />

si fa ascoltare senza essere niente di trascendentale<br />

e nulla aggiunge fin qui al percorso della Wallace,<br />

che preferiamo a questo punto di gran lunga nel<br />

gruppo di provenienza. (6.4/10)<br />

tErEsa grEco<br />

napalM dEath – tiME waits for no<br />

slavE (cEntury MEdia, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: de a t h -gr i n d<br />

Chi si aspettava di trovarli ancora lì? Chi avrebbe<br />

mai scommesso un euro (una lira dell’epoca, alla<br />

faccia dell’inflazione!) vent’anni fa sul futuro di una<br />

band che nei primi cinque minuti di musica aveva<br />

già portato all’estremo e “macinato” (to grind) tutta<br />

la sua radicale carica innovativa? E invece eccoli<br />

lì, i Napalm Death, a galleggiare, avvalendosi del<br />

loro stato di miti, sui resti di una rivoluzione ormai<br />

quasi del tutto dimenticata. Una rivoluzione consapevole<br />

di percorrere un binario morto negli sviluppi<br />

della musica, ultimo passo verso la totale devastazione<br />

iniziata un decennio prima con il punk.<br />

Il grindcore, quello “vero”, radicale, anarchico,<br />

è nato e morto subito, ammazzato quasi subito,<br />

proprio da chi lo aveva creato, salvo lasciare qualche<br />

traccia nel metal a venire. L’approdo al death<br />

metal ha rappresentato il percorso di tanti pionieri<br />

del genere (dai Carcass agli stessi Napalm Death)<br />

che lì si sono fermati, travolti da tecnicismi<br />

che solo in rari casi hanno rappresentato un valore<br />

aggiunto nella crisi del metal estremo, sempre più<br />

fagocitato dal mainstream.<br />

Persa ogni valenza artistica, la musica dei Napalm<br />

Death, dopo Harmony Corruption (Earache,<br />

1990) è da ascrivere quasi completamente<br />

alla storia del death metal e dei sui sottogeneri. E<br />

a distanza di tanti anni, la band di Birmingham<br />

continua a vivere di questo, con dignità ma senza<br />

grandi sussulti, sfornando mediamente un album<br />

76 / recensioni recensioni / 77


Hi gH l i gH t<br />

MiMEs of winE – sElf titlEd Ep (MidfingEr, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: a v a n t /ar t /fo l K /bl u e s<br />

Se fosse un biglietto da visita (lo è) ti brucerebbe nel taschino,<br />

dovresti stropicciarlo per sentire se contiene un po’<br />

dell’energia strana, insidiosa, avvolgente, primordiale e<br />

post-atomica che avverti nelle quattro tracce di questo ep<br />

d’esordio. <strong>Mimes</strong> <strong>Of</strong> <strong>Wine</strong> è Laura Loriga. Laura suona<br />

il piano anzi lo scuote con risoluta tenerezza, canta come<br />

se ne aspirasse il veleno e l’antidoto assieme, in mezzo a<br />

vortici di chitarre aspre, a vapori di ottoni, a fatamorgane<br />

di tastiere, folate e tramestii percussivi e impalpabili bave<br />

sintetiche. Prova ad incantarti (ci riesce) coi sussurri foschi e le fughe palpitanti, con<br />

l’agnizione tenue e selvatica di K (dove è una Diamanda Galas ingentilita Tori Amos,<br />

intensa ed eterea come la PJ Harvey di White Chalk). Ti sbalordisce coi languori<br />

teatrali, il passo freak marziale e la frenesia cavernosa di Fishes (dove avverti tracce del<br />

lirismo Jeff Buckley, dove ti figuri una Laura Nyro prigioniera dei Grizzly Bear).<br />

Ti strega con la lunare irrequietezza Hyvönen/Newsom di Carnival Scar (misteri folk e<br />

trepidazione post-blues), ti circuisce con lo struggimento jazzy venato bossa di Oberkampf,<br />

come una Cibelle invischiata nelle tossine Billie Holiday, il siparietto swing rurale a<br />

spettinare il ventaglio delle aspettative.<br />

Appunto: cosa attendersi dal full lenght Apocalypse Sets In, previsto per la primavera?<br />

(7.5/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

ogni biennio e proseguendo il turnover di membri,<br />

che la caratterizza sin dagli esordi.<br />

Eppure Time Waits For No Slave non ispira i sentimenti<br />

di pietà o tenerezza che di solito provocano<br />

i dischi di band-Matusalemme, che non vogliono<br />

proprio demordere e si trascinano per i capelli pur<br />

di far uscire qualcosa di nuovo a proprio nome.<br />

Decisamente orientato verso il Thrash, il quindicesimo<br />

album dei Napalm Death dai tempi di<br />

Scum (Earache, 1987) non abbandona del tutto<br />

la violenza esecutiva degli esordi, che però, dopo i<br />

momenti iniziali (Strongarm, Diktat e Work To Rule),<br />

si perde in un suono spurio, a metà tra gli Sla-<br />

yer, i Morbid Angel. Riff consumati dall’abuso,<br />

distorsioni leggermente più pulite e la solita<br />

batteria di Mick Harris a fare la differenza, con<br />

le sue precise variazioni di tempo e i suoi ormai<br />

classici “stacchi” alla velocità della luce. Penose le<br />

escursioni in improbabili territori melodici che gli<br />

sono a dir poco estranei (la Title Track; Downbeat<br />

Clique), e suonano goffi, trasformandoli in un clone<br />

venuto male degli Slipknot. Sì, i Napalm Death<br />

sono vivi. E probabilmente anche il metal d’annata<br />

continua ad avere il suoi seguito. Ma…cui prodprodest? (5.5/10)<br />

daniElE follEro<br />

night horsE – thE dark won’t hidE<br />

you (north atlantic sound, 2008)<br />

gen e r e: h e a v y bl u e s<br />

Per qualcuno il blues è stato un punto di partenza,<br />

per qualcun altro un punto di riferimento stabile.<br />

Ma c’è anche chi dal blues “duro e puro” non<br />

vuole proprio staccarsi. Mi sembra sia il caso di<br />

questi Night Horse, band losangelina, neonata ma<br />

già vecchia.<br />

I suoi membri vengono tutti dal blues rock e non<br />

mostrano alcuna intenzione di mollare la presa.<br />

L’ortodossia non ha limiti e i paragoni scomodi<br />

(e piuttosto datati) si sprecano: i Led Zeppelin<br />

più vicini all’hard rock, i Black Sabbath più<br />

anonimi, l’Alice Cooper meno heavy sono tutti<br />

lì, mescolati nel nome della “purezza” rockettara<br />

più oltranzista. Ma rassegnamoci, perché non<br />

sono né i primi né saranno gli ultimi cloni di una<br />

generazione di rocker ormai giunta alla meritata<br />

pensione. Per avere un idea di ciò che può offrire<br />

quest’album, basta dare un’occhiata alla copertina:<br />

una foto con al centro un teschio tra due candele<br />

e dietro l’immagine di un nativo americano (quelli<br />

che erroneamente vengono chiamati indiani, per<br />

intenderci). Dietro questa iconografia americanissima<br />

e un po’ volgaruccia (se non addirittura ridicola),<br />

si nascondono sei brani scontatissimi, anche<br />

se sinceri e in alcuni casi addirittura vivi ed energici.<br />

La voce di Sam James Velde richiama il tono<br />

semiserio dell’omonima band del Glenn Danzig<br />

post-Misfits e potrebbe anche risultare interessante<br />

se non fosse sostenuta da anonimi riffettoni e<br />

parti di basso e batteria essenziali, come vuole la<br />

tradizione heavy rock. Nota di merito: la durata.<br />

Mezz’ora di heavy blues suonato bene non la si<br />

nega a nessuno. (5.0/10)<br />

daniElE follEro<br />

no nEck BluEs Band – clonEiM (locust,<br />

dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: K r a u t /ps y c h<br />

Riuscire a intrappolare la ghenga di Dave Nuss non<br />

avrebbe molto senso, sarebbe come snaturarne il<br />

valore. Che gli animali siano liberi di scorazzare<br />

ordunque; i sette che arrivano dalla nera Harlem<br />

conoscono il valore dell’improvvisazione ed una<br />

continua – assai poco leziosa – jam appare questo<br />

Clomeim, che registra il numero 100 in catalogo<br />

per Sound @ One, marchio da sempre associato<br />

alla No Neck Blues Band, anche quando si è tratto<br />

di pubblicare tapes e cd-r in tiratura irrisoria.<br />

Il pagano odore di kraut avvolge le spire della zelante<br />

The Coach House, mentre le smorfie tra esoterismi<br />

psych folk e brutali nenie black metal (con ampio<br />

ricollegarsi al progetto satellite Angelsblood) di<br />

Ministry <strong>Of</strong> Voices lasciano pensare ad una band<br />

persa alla propria deriva psicotica. Ancora suoni<br />

sfilacciati ma ovviamente tribali in Salai Widnalas,<br />

dove le urla gutturali assumono ancora il senso di<br />

provocazione estrema.<br />

Non va dunque per il sottile la No Neck Blues<br />

Bland, che di cedere ai crismi della normalità non<br />

ha vaga intenzione. In un consumato rituale la<br />

loro proposta si infiamma, abbandonando i lineamenti<br />

della forma canzone e della composizione<br />

stessa. Un’immersione totale nello stream of consciousness.<br />

Ragion per cui nessuno dei loro dischi in studio<br />

e delle loro performance dal vivo rispecchieranno<br />

una reciproca idea. E’ tutto giocato sul filo del<br />

rasoio, in una rappresentazione spesso isterica,<br />

solo raramente celestiale. Con in dosso I panni<br />

dei sobillatori esistenziali i Nostri marciano verso<br />

un assoluto in musica che si sgretola di continuo,<br />

nell’abbandono delle più terrene certezze.<br />

Una musica che conserva ancora un carattere<br />

iniziatico, cerimonia impalpabile della sofferenza<br />

umana. Mutilando brandelli del catalogo ESP (soprattutto<br />

quello più off, si pensi ai Cro-Magnon o<br />

alla Patty Waters di Black Is The Color <strong>Of</strong> My True<br />

Love’s Hair) ed accedendo alle pagine culto della<br />

musica germanica (Agitation Free e Amon Duul<br />

in cima) con Clomeim fanno un’ulteriore passo<br />

verso l’eternità, quella più scomoda. (7.3/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

78 / recensioni recensioni / 79


of MontrEal – an Eluardian instancE;<br />

jon Brion rEMix Ep (polyvinyl<br />

/ goodfEllas, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: r e M i x ep<br />

Sull’onda lunga del vertiginoso Skeletal Camping,<br />

il combo degli of Montreal pubblica un EP manipolato<br />

da quel Jon Brion conosciuto per i trascorsi<br />

al fianco di Elliott Smith, Kanye West nonché firmatario<br />

di score quali Magnolia e Eternal Sunshine<br />

<strong>Of</strong> The Spotless Mind da noi noto, al solito, col pessimo<br />

titolo de Se Mi Lasci Ti Cancello. Le tracce in esame<br />

sono due, An Eluardian Instance e Gallery Piece, e il<br />

trattamento di Brion consiste nel dare corpo a<br />

materiale già corposo di suo; quindi se First Time<br />

High (nuova ragione sociale, per l’occasione, di An<br />

Eluardian Instance) si impreziosirà, sia per il Reconstructionist<br />

Remix che nella versione acustica,<br />

del mandolino e le backing vocals dell’ospite Chris<br />

Thile dei Nickel Creek, Gallery Piece la si vedrà<br />

sfilare, dancereccia com’è, remixata, allungata e<br />

strumentale.<br />

Operazione, comunque, per i fan di stretta osservanza.<br />

(7.0/10)<br />

gianni avElla<br />

oginoknaus – nuclEarcunt (Marinaio<br />

gaio – valvolarE rEcords - ElEvator<br />

/ jEstrai, ottoBrE 2008)<br />

gen e r e: p o s t p u n K -ne w wa v e<br />

Narcotici come il Lou Reed più indisponente, alla<br />

moda come un contraccettivo scaduto, essenziali<br />

ed efficaci come sa essere soltanto chi vede ancora<br />

le chitarre elettriche, il basso e la batteria al comando<br />

di quel vascello fantasma che è il rock contemporaneo,<br />

gli Oginoknaus tornano a quattro anni<br />

dell’omonimo esordio. E lo fanno impilando una<br />

sull’altra dieci tracce ruvide e ringhianti, pronte a<br />

consacrarne ancora una volta l’estro compositivo.<br />

Nessun effetto speciale a foraggiare la meraviglia,<br />

nessun tono acceso a corroborare il bianco sporco<br />

e il nero pece dei suoni, nessuna facile concessione<br />

alla melodia: solo una guerriglia in piena regola<br />

portata avanti tra post-punk malato e spunti noise,<br />

assalti feroci e ossessioni in stile Ian Curtis. Dalle<br />

lacerazioni profonde che ne conseguono, esce<br />

un’opera immediatamente riconoscibile, dal fascino<br />

ambiguo, claustrofobica e disturbante nella sua<br />

monocorde uniformità, capace di cedere giusto un<br />

paio di parentesi – il sax in bilico tra Morphine<br />

e Gallon Drunk di Breakdance e l’accordian<br />

dell’ospite/produttore Rob Ellis di Rainbow Drive<br />

– a contributi strumentali altri. Per un suono lontano<br />

dal “pop” ma decisamente attraente. (6.9/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

pains of BEing purE at hEart – sElf<br />

titlEd (sluMBErland, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: n o i s e -po p<br />

Rinnova la sua fama la Slumberland con l’esordio<br />

di un quartetto misto dal nome terribilmente adolescenziale.<br />

E rinnova anche i fasti di quel noisepop<br />

zuccherumoroso che trova proprio nel catalogo<br />

della label una delle sue gemme più nascoste:<br />

i Black Tambourine. Alex (basso), Kip (chitarra +<br />

voce), Kurt (batteria) e Peggy (tastiere + voce) –<br />

questi nomi e strumenti del quartetto newyorchese<br />

– sono tre imberbi<br />

fanciulli e una nippo-girl<br />

tutto pepe<br />

in fissa con la musica<br />

più semplice del<br />

mondo, da quando<br />

i fratelli Reid accesero<br />

gli ampli scoperchiando<br />

il vaso<br />

del feedback-pop:<br />

declinare al verbo del rumore le melodie più poppy<br />

e appiccicose del rock. Affogarle in un oceano<br />

di riverberi e delay, quasi a volerle soffocare, nella<br />

consapevolezza che le melodie riemergeranno da<br />

quel marasma come niente fosse. Prendete come<br />

ottimo esempio Contender, l’attacco del disco. Gioca<br />

su accordi che sembrano quelli di I Don’t Wanna<br />

Grow Up di waitsiana memoria, ma è solo una fugace<br />

impressione. Quando entra la voce, catturata<br />

a rimirarsi le scarpe su un tappeto di distorsioni<br />

gentili, esplode il caleidoscopio: reminiscenze Cure<br />

virati shoegaze (This Love Is Fucking Right), trasposizioni<br />

Pastels (Gentle Sons), svisate indie-nostalgiche<br />

(Stay Alive), echi morriseyiani (Everything With You),<br />

immaginario college nei suoi dettagli più apparentemente<br />

insignificanti (A Teenager In Love). Un debutto<br />

coi fiocchi e un disco da avere. Perché ogni<br />

tanto si ha bisogno di tornare adolescenti sognati,<br />

così come ogni tanto si ha bisogno di canzoni. E<br />

qui ne trovate di meravigliose. (7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

phosphorEscEnt – to williE (dEad<br />

ocEans, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: c l a s s i c fo l K<br />

Matthew Houck stavolta mette le carte in regola,<br />

chiarendo una volta per tutte che la sua somiglianza<br />

artistica (perché evidente è anche quella fisica)<br />

con Will Oldham, al quale viene da sempre paragonato,<br />

è soltanto apparenza e sicuramente figlia di<br />

medesimi ascolti. Il quarto album della sua creatura<br />

fosforescente, infatti, non rappresenta altro che un<br />

personale tributo a Willie Nelson, immenso cantore<br />

folk americano esploso musicalmente a cavallo tra i<br />

Sessanta e i Settanta. Proprio a quel periodo, infatti,<br />

sono debitori gli odierni cantautori indie come Phosphorescent<br />

e Bonnie “Prince” Billy, per l’appunto.<br />

Ma la cosa curiosa è che lo stesso guru folk omaggiato<br />

in questo album pubblicò, a suo tempo, nel<br />

’75, un tributo dedicato interamente a Lefty Frizzell<br />

intitolato To Lefty From Willie. Da qui la scelta di<br />

To Willie. E l’album in questione contiene undici<br />

cover (reinterpretazione di canzoni anche minori<br />

del catalogo nelsoniano) che, flirtando con il folk più<br />

classico, mostrano l’ottimo livello di maturità stilistica<br />

raggiunto dal Nostro: abbandona quell’approccio<br />

lo-fi per dedicarsi completamente a una meticolosa<br />

ricerca strumentale, impregnandola però di<br />

profonde e sincere emozioni. Adesso non resta che<br />

attendere il vero salto di qualità con il quinto album,<br />

altrimenti a nessuno tra vent’anni salterà in mente<br />

di intitolare un album “To Matthew”. (7.3/10)<br />

andrEa provinciali<br />

richard pinhas & MErzBow – kEio<br />

linE (cunEiforM, dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: i M p r o -no i s e<br />

Titolo e nomi in ballo permettono di inquadrare<br />

da subito questa ennesima, curatissima edizione<br />

Cuneiform.<br />

Da una parte Richard Pinhas, storico esponente<br />

dell’ala più radicale dell’elettronica rock (o viceversa)<br />

spacey & floating d’oltralpe; dall’altra Masami<br />

Akita, aka Merzbow, incompromissorio violentatore<br />

sonico e riconosciuto padrino del noise (non<br />

solo) giapponese. In mezzo, a far da anello di congiunzione<br />

tra i due,<br />

la Keio Line, linea<br />

metropolitana della<br />

città di Tokyo dove<br />

i due si sono incontrati<br />

per registrare<br />

questo doppio cd.<br />

Proprio il titolo e le<br />

dinamiche relative<br />

alla produzione/<br />

registrazione di questo Keio Line rendono perfettamente<br />

l’idea di collegamento e viaggio tra la<br />

Parigi di Pinhas e la Tokyo di Masami, così come<br />

evidenziano la perfetta coesistenza tra imput sonori<br />

piuttosto differenti: l’elettricità rock dilatata e<br />

estatica del primo e l’elettronica spigolosa e piena<br />

di asperità del secondo. Pinhas fornisce una piattaforma<br />

sonora a base di chitarre e loop systems<br />

sulla quale Merzbow esprime al massimo tutto il<br />

potenziale esplosivo dei suoi synth e dei suoi noise<br />

treatments.<br />

L’effetto, vista anche la mastodontica durata delle<br />

suite – viaggiamo sul quarto d’ora abbondante di<br />

media – è quello di una musica visionaria, estatica,<br />

sciamanica e perfettamente in equilibrio tra<br />

sporcizia digitale – beats, loop, noises vari, folate<br />

di rumore bianco – e flussi dreaming memori del<br />

kraut più evanescente.<br />

Un signor disco, da due signori della sperimentazione.<br />

(7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

80 / recensioni recensioni / 81


pixEl – thE drivE (rastEr-noton,2009)<br />

gen e r e: e l e t t r o n i c a -aM b i e n t<br />

Excursus non convenzionali per il compositore ed<br />

ex-sassofonista Jon Ekeskov in arte Pixel nella<br />

nuova uscita firmata Raster-Norton. Le tessiture<br />

di The Drive si ancorano a saporite eloquenze<br />

contemporanee, per poi incontrare gli orizzonti<br />

decisamente poco ovvi dell’elettronica più sperimentale,<br />

il tutto grazie a quelle controllate matrici<br />

concrete ormai care agli adepti moderni della<br />

sintesi. Sette elementi che dialogano con una improvvisazione<br />

minimale “melodica”, per poi farsi<br />

spazio nelle poliritmiche e nelle oscillate strutture<br />

tra dominata sostanza e accentuato dinamismo.<br />

Gli elementi leggibili dialogano tra glitch o microframmentazioni<br />

che si lasciano scoprire attraverso<br />

un incontaminato sub-bass, le cui maniere si dichiarano<br />

apertamente tra ritmiche in microsuoni,<br />

dualismo e musica puntilista. Rimbalza all’orecchio<br />

un potenziale sicuramente buono anche se a<br />

tratti troppo legato all’esercizio tecnico, a discapito<br />

del fascino comunicativo. (6.9/10)<br />

sara Bracco<br />

plaid – hEavEn’s door (BEat rEcords,<br />

2008)<br />

gen e r e: c o l o n n a s o n o r a<br />

Ed Handley ed Andrew Turner - ex The Black<br />

Dog - ora Plaid, sono un duo britannico che per<br />

uscita discografica firmata Beat Records concedono<br />

le loro propensioni elettroniche ai fotogrammi<br />

del primo live-action dell’animatore americano<br />

Michael Arias. Il loro repertorio sonoro spazia in<br />

album, collaborazioni e remix per innumerevoli<br />

artisti, passando per EP, compilation e colonne<br />

sonore. Heaven’s Door infatti è la seconda prova<br />

in questo campo: attraverso i mezzi tecnici del<br />

cinema sonoro propongono ambientazioni dalle<br />

sognanti dinamiche cinematografiche. E’ l’elettronica<br />

la chiave di lettura di queste sedici tracce,<br />

che si creano il proprio spazio senza perdere in<br />

coerenza ma trascinando con se l’ascolto attraverso<br />

un idilliaco paesaggio che cavalca l’onirico e il<br />

surreale. C’è quella sensibilità post-romantica cara<br />

ad alcuni artisti filo-giapponesi dell’eletronic wave,<br />

le meditate atmosfere glamour e le sonorità chilling<br />

(Masato Shuffle,<br />

K3), l’elettroacustica<br />

isolazionista<br />

(Veisalgia), improvvisata<br />

e sovrapposta<br />

al limite della<br />

robotica (Bata) o<br />

contaminata dalle<br />

ritmiche in levare<br />

(Not Hearing a<br />

Word). E all’acustica spettano gli arpeggi zuccherati<br />

dai colori pastello (Non Hoi), gli archi sottoesposti<br />

(Seizure), le percussioni arabeggianti (Durban Pain)<br />

e le arie cristalline in chiusura (Two Rooms). Frames<br />

sonori a cui qualche particolarità e sfumatura<br />

in meno non avrebbe fatto male specialmente se<br />

si considera il lavoro nel suo insieme. In compenso<br />

alcune tracce risultano decisamente godibili.<br />

(6.7/10)<br />

sara Bracco<br />

quivErs – 2012 (tigErasyluM, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: i M p r o<br />

Quivers tries to have open minds and to open minds, chiosano<br />

i quattro newyorchesi (d’origine o d’adozione,<br />

poco interessa) e come dar loro torto.<br />

Il padrone di casa Jordon Schranz (basso), il presenzialista<br />

Adam Kriney (batteria), l’iperattivo Chris<br />

Welcome (cello) e l’ubiquo Ninni Morgia (chitarra)<br />

imbastiscono, su supporto vinilico, 5 pezzi untitled<br />

che sa di apocalisse impro-rock prossima ventura.<br />

I riferimenti non mancano, come l’esplicito<br />

rimando del titolo alle profezie maya; tanto meno<br />

le evoluzioni da “dopo-rock imbastardito con attitudine<br />

free-jazz” dei 5 pezzi untitled.<br />

A farla da padrona come al solito è la sei corde del<br />

siciliano: nella più totale libertà d’azione frattura<br />

e spezza, cuce e ricama un suono instabile e umorale,<br />

tra gorgoglii e estatici fraseggi. In questa sua<br />

azione di riduzionismo free (termine comprensibile<br />

per chi segue anche le altre incarnazioni del<br />

suo fare musica, La Otracina su tutti), Morgia è<br />

ottimamente sostenuto dalla precisa azione di una<br />

sezione ritmica affiatata ed energica e contrappuntato<br />

dalle intrusioni rumorose di Welcome.<br />

È di nuovo l’impro di matrice jazz che si riversa<br />

nel corpo morto del rock: ne mantiene lo sfogo<br />

liberatorio, estatico e privo di vincoli strutturali,<br />

senza negare però la tensione e la “corposità” del<br />

secondo. (6.7/10)<br />

stEfano piffEri<br />

raccoo-oo-oon – sElf titlEd (rElEasE<br />

thE Bats, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: w e i r d aM e r i c a<br />

Mischiare rock in forma libera e psichedelia sognante,<br />

carcasse da rock krauto maciullato e prog<br />

mutante, tribalismo primitivista, rumorismo e ninnananne<br />

ossessive. Questa la missione dei 4 Raccoo-oo-oon,<br />

di cui purtroppo questo omonimo è<br />

l’inatteso canto del cigno. Musiche ostiche, difficili,<br />

a volte dissonanti, a volte sussurrate, sempre in<br />

modalità improvvisativa e suonate non con piglio e<br />

supponenza arty, ma con semplicità quasi infantile,<br />

giocosa, tanto è facile immaginarseli immersi nei<br />

boschi dell’america rurale, tra amici, impegnati in<br />

sessions più vicine a baccanali orgiastici che a vere<br />

e proprie sedute in sala prove. È proprio nella totale<br />

libertà da schemi e strutture che Raccoo-oo-oon<br />

da il meglio di sé; nel far convivere nello stesso pezzo,<br />

l’una accanto all’altra, cifre stilistiche agli antipodi<br />

come xilofoni cinguettanti e percussività free,<br />

slabbrature synthetiche e chitarre accordate a caso,<br />

stralci della tradizione folk americana e avant-rock<br />

devastato. Forse – ma è solo un pensiero ramingo<br />

– proprio lì risiede(va) il fascino e il miglior pregio<br />

dei Raccoo-oo-oon. Che sia la vastità degli spazi<br />

geografici o quella dei confini di una società culturalmente<br />

mista, resta un mistero per noi europei. Di<br />

certo c’è che mai canto del cigno fu più inaspettato<br />

e triste. Ad memoriam (7.5/10)<br />

stEfano piffEri<br />

rahiM – laughtEr (prEtty activity, 9<br />

sEttEMBrE 2008)<br />

gen e r e: r o c K Me l o d i c o -ca n t a u t o r i a l e<br />

I Rahim fanno canzoni, di quella guisa che innerva<br />

tutto attorno alla melodia, alla costruzione<br />

vocale solista e coristica. Niente virtuosismi, sia<br />

chiaro; ma sulla strada della chiarezza neanche<br />

solo quello, in Laughter. E forse qui sta il problema<br />

maggiore. Primo, le strutture degli accompagnamenti<br />

strumentali fanno spesso il verso a quei<br />

tocchi incrociati batteria-basso-chitarra che furono<br />

del post-rock americano, tanto di Louisville<br />

che di Chicago, declinati qui alla dilatazione e al<br />

pochissimo rumore. E però, secondo, il gioco non<br />

sempre riesce ai quattro di Long Island, al loro secondo<br />

disco.<br />

Non è solo questione di melodie a volte imbarazzanti<br />

(Cities Change); c’è che con la finta destrutturazione<br />

si rischia di spezzare decisamente in due i<br />

brani, con la voce che va da una parte e gli strumenti<br />

che provano a essere più sofisticati negli arrangiamenti.<br />

Meglio le armonie di <strong>Of</strong> Course, che<br />

iniziano a spostare la bussola indietro nel tempo,<br />

o la quasi beatlesiana Dark Harbors; e soprattutto la<br />

title-track, a fine album, che si smarca del tutto dalla<br />

tendenza delle prime tracce del disco, estraendo<br />

dal cilindro sapori di primi Settanta post-acid,<br />

si direbbe jethro-tulliani. Ovunque di positivo – e<br />

raro, per certi versi – c’è che le melodie vocali non<br />

sono mai troppo patemizzate. Ma visto i successi<br />

con i decenni precedenti, facciamo in conclusione<br />

una proposta; Rahim, dimenticatevi i Novanta.<br />

(6.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

rhuMornEro – uMorisMi nEri (arroyo<br />

- MEtaMusic / vEnus, 20 novEMBrE<br />

2008)<br />

gen e r e: r o c K<br />

Banalizzare la spinta centrifuga del rock per tradurne<br />

soltanto gli stereotipi più in uso. Questo è<br />

quello che fanno i Rhumornero con Umorismi<br />

neri, allestendo uno spettacolo dal finale già scritto<br />

82 / recensioni recensioni / 83


Hi gH l i gH t<br />

plastic criMEwavE sound – paintEd shadows (a silEnt placE,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: r o c K<br />

Per capire con un solo colpo d’occhio la filosofia di Steve<br />

Krakow, aka Plastic Crimewave, basta prendere uno dei<br />

suoi Galactic Zoo Dossier. In pratica una vera e propria<br />

fanzine da lui curata (anche se venduta dal mailorder<br />

della Drag City), interamente disegnata a mano e con<br />

argomenti rigorosamente scelti, come – cito a memoria<br />

- articoli sui classici della dark psichedelia, oppure sugli<br />

horror movies hippie e interviste a gente come Clive Palmer<br />

o Ed Askew… Il mondo di Krakow sembra flirtare<br />

da una parte con la psichedelia hard di Julian Cope, dall’altra con lo sballo acido di<br />

Wayne Coyne e dall’altra ancora con qualcosa di completamente inedito ma paragonabile<br />

con il culto feticista per l’exotica. Un personaggio quindi con un senso della musica<br />

e dell’arte che oscilla perennemente tra il retrò e il kitch bello e buono. Che poi la sua<br />

band sia ormai da tre dischi che pesti duro regalandoci alcuni dei migliori nuovi anthem<br />

psych rock non è certo di secondaria importanza. Painted Shadows, quindi, potrebbe<br />

essere un bel lasciapassare per addentrarsi in un mondo come quello di Krakow, in cui<br />

non è certo facile immergersi e per mandare finalmente i Plastic Crimewave Sound<br />

nel patheon dei nuovi psichedelici, da qualche parte tra Black Angels o Indian Jewelry.<br />

Confidiamo quindi nella qualità del disco e nel fatto che per la prima volta non si<br />

dovranno aspettare mesi e mesi per vederlo in formato cd, come accaduto per i precedenti<br />

che hanno vissuto a lungo in esclusiva versione vinile. Painted Shadows prende<br />

il titolo dalla pratica in voga nell’espressionismo tedesco di dipingere le ombre direttamente<br />

sulla pellicola. Come riferimento culturale alla sacra scuola d’arte d’Alemagna, si<br />

fa centro pieno, perché di tutti i dischi pubblicati fino ad ora, questo è certamente quello<br />

dalle vibrazioni meno garage e più cosmiche. L’introduttiva I Feel Evils immerge subito in<br />

una nebbia wave che sembra essere stata filtrata dai Loop di Robert Hampson. Questo,<br />

insieme alla successiva (Can’t) Turn The Key, gli episodi più orecchiabili e “darkwave”. Le<br />

tirata acide non mancano comunque come si capisce quando attaccata la ronzante e febbrile<br />

ritmica (quasi motorik) di The Grip e della successiva Ecstatic Song. Ma il capolavoro<br />

del disco arriva alla fine con la title track: venti minuti di delirio cosmico che suona un po’<br />

come uno scontro tra titani, su una ideale battlefield che frulla di tutto, dagli Hawkwind<br />

ai Pink Floyd, dagli Stooges ai Motorhead passando per quintali di krautrock. E’<br />

questo il suono del più feticista di tutti i messia rock contemporanei. (7.5/10)<br />

antonEllo coMunalE<br />

in cui si recita un hard-rock scuro tutto riff granitici<br />

e lentezze marziali. Roba che neanche i Soundgarden<br />

meno acidi e più sfilacciati si azzardavano<br />

a proporre, per lo meno non con tale semplicistico<br />

slancio creativo. L’ambito di riferimento è una terra<br />

di mezzo tra la band di Chris Cornell e certi Negrita<br />

periodo Reset, anche se in realtà, l’idea che<br />

ci si fa a fine programma, è che il naturale sbocco<br />

per la band pisana sia un immaginario decisamente<br />

più convenzionale, tipo il palcoscenico di Sanremo<br />

rock(?). Per una formula che si accontenta<br />

di collezionare qualche arpeggio in distorsione e<br />

un pugno di fraseggi poco originali, facilonerie<br />

su tempi dispari e temi depressivi da piccola borghesia,<br />

senza oltrepassare gli steccati della buona<br />

creanza. Certo, a cercar bene, qualcosa si salva: si<br />

parla comunque di musicisti preparati – in giro c’è<br />

decisamente di peggio –, capaci di tirar fuori un<br />

suono attraente, talvolta in grado di osare qualche<br />

incursione in territori elettrici urticanti. Ma si tratta<br />

di piccole parentesi, per un disco che vorrebbe<br />

tanto, ma non fa. (5.0/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

roBErt pollard – thE crawling distancE<br />

(guidEd By voicEs inc., 2009)<br />

gen e r e: l o-fi po p -ro c K<br />

Abbiamo già avuto modo di notare come, tra le<br />

tante manifestazioni del Pollard-pensiero, quelle<br />

che portano il suo nome di battesimo, siano le più<br />

scadenti. Rieccoci alla riprova delle nostre supposizioni,<br />

grazie all’uscita quasi parallela dell’ultimo<br />

e più che soddisfacente Circus Devils e di questo<br />

The Crawling Distance, a firma del Nostro.<br />

La prima impressione che si ha ascoltando i due<br />

dischi è che l’autore principale non sia per niente<br />

lo stesso. Lo sbiadito e insipido pop-rock, leggermente<br />

“sporcato” negli arrangiamenti, a metà tra<br />

i Dinosaur Jr. e i R.E.M., del Pollard solista non<br />

ricorda, se non molto lontanamente, né il passato<br />

dei Guided By Voices né il presente dei progetti<br />

collaterali del musicista statunitense.<br />

Troppe le banalità e la retorica pop per farlo ap-<br />

parire un disco credibile. L’attenzione è tutta concentrata<br />

su linee vocali melodiose, arrangiamenti<br />

semplici ed essenzialmente relegati al sostegno armonico<br />

e un uso della forma canzone che, seppure<br />

minimamente esplorata nelle sue possibilità, non<br />

sconfina mai oltre le strutture stereotipate. Qualche<br />

volte ci si spinge fino al punk rock annacquato<br />

di By Silence Be Destroyed, ma a prevalere è quasi<br />

sempre un atteggiamento più soft, che non risparmia<br />

episodi al limite della decenza, robaccia da<br />

radio ultra-generalista come Imaginary Queen Anne.<br />

Neanche le fluttuanti melodie di una ballata raffinata<br />

come No Island o i toni cupi e darkeggianti di<br />

On Shortwave riescono a salvare la barca dal naufragio.<br />

(4.8/10)<br />

daniElE follEro<br />

ryoji ikEda – tEst pattErn (rastErnoton,<br />

2008)<br />

gen e r e: ry o j i iK e d a<br />

Interfacciano sintesi numeriche i composti parametri<br />

di Test Pattern, nuovo progetto dell’artista<br />

giapponese Ryoji Ikeda a tre anni dal sublime radicalismo<br />

di Datamatics.<br />

Portavoci di valori performativi, le sedici tracce di<br />

Test Pattern oltrepassano la frequenza assumendo<br />

ad ogni capo polarità in pattern per poi mutare<br />

identità nell’elettronica di segnale.<br />

Si ritrattano i principi dell’estetica che acquistano<br />

forma e purezza nella geometria contemporanea<br />

del limite; un limite finito che attraversa le regole<br />

dell’imput/output organizzando pulsioni sonore<br />

che difficilmente superano i 5 minuti.<br />

Soggetti in segnali ad alte frequenze, in certi casi al<br />

limite dell’udibile, che si lasciano condizionare dal<br />

ritmo e da governate regolarità, mentre la struttura<br />

composita regola le volute tra sferzati, puntinati<br />

o modulati ripetitivismi.<br />

Geometrie che vanno oltre la minimal-techno e<br />

superano i confini del glitch; che partendo da elementi<br />

primari, arrivano a plasmare masse di flussi<br />

sonori che s’impossessano del limite spaziale a<br />

tratti annientandolo, o radicandosi nel mutamen-<br />

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to seriale. Senza mai dimenticare poetica e stato<br />

emotivo dell’ascoltatore, a conferma che i cosiddetti<br />

nuovi suoni esistono ancora, ed hanno ancora<br />

molto da dirci. (7.8/10)<br />

sara Bracco<br />

six organs of adMittancE – rtz<br />

(drag city, 20 gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: p s y c h -fo l K<br />

Return To Zero, lo si evince dal titolo, è un disco<br />

che va a ripescare nel percorso artistico di Ben<br />

Chasny dagli esordi fino agli split con Charalambides,<br />

The Magic Carpathians e Vibracathedral<br />

Orchestra, attingendo a piene mani<br />

tra quei materiali pubblicati in edizione limitata<br />

e pertanto attualmente introvabili. E ad iniziare<br />

dalla lunga suite<br />

Resurrection, divisa<br />

in cinque parti,<br />

ritroviamo tutti i<br />

temi che ricorrono<br />

nei dischi più conosciuti<br />

del chitarrista<br />

folk californiano: la<br />

profonda empatia<br />

con la natura, la<br />

febbrilità di un fingerpicking mai fine a se stesso<br />

e la dimensione corale e intimista della voce. Immancabile<br />

anche l’utilizzo minimale della percussione,<br />

spesso usata solo come contorno ambientale<br />

e, ovviamente, quella chitarra stratificata che<br />

ha scavato a lungo tra le radici di una tradizione<br />

ben consolidata (John Fahey su tutti) e di un’altra<br />

invece, tutta da fare, dove è l’uomo, in buona<br />

solitudine, a immergersi nella visceralità del suono.<br />

Più della metà delle tracce resta sospesa tra il<br />

raga indiano e la psichedelia polverosa dei deserti<br />

dell’ovest, alle sorgenti dell’intera scena neofolk<br />

angloamericana, sulla quale il Nostro, indiscutibilmente,<br />

troneggia. Warm Earth, Which I’ve Been Told,<br />

la seconda long track del primo cd, rispolvera la<br />

componente arcana e oscura dell’ opera dell’ ex-<br />

Comets On Fire, forse la stessa che lo ha avvi-<br />

cinato, negli anni, a David Tibet. Il secondo cd<br />

non si discosta di molto dal primo, richiamando<br />

alla mente la storica controparte inglese di Chasny,<br />

quell’ Alexander Tucker che segue con la<br />

voce le linee della chitarra, fornendo un supporto<br />

non indifferente alla psichedelia selvaggia della sei<br />

corde. E’ forse tardi per gridare al miracolo, ma<br />

contando che si tratta di materiale vecchio è lecito<br />

riportare l’orologio indietro. (7.8/10)<br />

francEsca Marongiu<br />

susuMu yokota– MothEr(lo rEcording<br />

/ fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: (e l e t t r o) p o p , n o i r , d r e a M ec c<br />

Lo avevamo conosciuto poco più di un anno fà con<br />

Love Or die anche se, Susumu Yokota ha già alle<br />

spalle una decina di anni di attività e una trentina<br />

di album.<br />

Tredici tracce e sette collaborazioni tutte al femminile<br />

per la neo uscita firmata Lo Recording ma;<br />

purtroppo in questo caso non sono i numeri a far<br />

la differenza. Mother si lascia controllare e lo si<br />

dichiara apertamente già dai primi minuti dalle<br />

scelte vocali, senza nulla togliere alle preziose opzioni<br />

in talento che reggono il gioco con gradevole<br />

grazia ma, tramano inganno. E sono proprio i pieni<br />

e i vuoti, le identità in pigmenti elettroacustici<br />

e i colori che pagano il pegno, risultando o troppo<br />

accondiscendenti ( A Ray of light ) o decisamente<br />

fuori posto (Meltwater).<br />

Ritornano i residui del Sylvian e gli anni ’90, velati<br />

tra le piste a tre di “Love Tendrilises” o dichiarati<br />

senza timore nei toccati confini d’intro ambienthouse<br />

(The Natural Process) che a suo modo cerca rimedio<br />

nel dovuto giusto ordine delle cose (Breeze),<br />

tra battiti elettronici e le scritture in frequenza.<br />

C’è un po’ di dead can dance, tanto smalto dream<br />

e persino quella new age dai bozzetti angel-chic<br />

che fanno tanto Enya.<br />

Si salvano gli accostamenti in chiaro-scuro trai riff<br />

in chitarra e il grazioso cantato di Nancy Elizabeth<br />

(A Flower White) mentre le multi-tracce in vocalità<br />

dall’approccio forse concreto (Reflect Mind) si<br />

lasciano perdere e confondere.<br />

Congeniale a suo modo l’accostamento in percussioni<br />

e sintesi con le dualità vocali di “Suture”<br />

o le chiusure in pianoforte che nel voluto eco si<br />

lasciano contaminare dall’avanguardia; anime che<br />

sicuramente troveranno rifugio nei salotti per intellettuali<br />

cosmopoliti e stagionati.<br />

Tirando le somme la noia fa da maestro ma, se<br />

volete proprio dirigere l’orecchio e cercare un po’<br />

di sostegno andate verso la fine o centellinate qua<br />

e là l’ascolto dove forse emergono alcune attitudini<br />

migliori. (5.6/10)<br />

sara Bracco<br />

tElEfon tEl aviv – iMMolatE yoursElf<br />

(Bpitch control, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: e l e c t r o-aM b i e n t -po p<br />

Al terzo disco i telefoni approdano sull’etichetta<br />

berlinese di Ellen Aillen e si votano all’electropop,<br />

tralasciando un po’ le atmosfere dilatate che<br />

li avevano contraddistinti sin dall’esordio del 2001.<br />

La svolta a tratti è fruttuosa, soprattutto quando si<br />

punta sui crescendi in stile Apparat (vedi l’opener<br />

The Birds), quando si ricordano in modo estremo<br />

gli Ottanta (le percussioni di Helen <strong>Of</strong> Troy o gli<br />

archi darkettoni di Your Mouth) o quando ci si va<br />

di progressività puramente synth-pop (You Are The<br />

Worst Thing In The<br />

Word). Il disco risente<br />

comunque di<br />

una nostalgia verso<br />

il synth-pop che nel<br />

complesso si rivela<br />

essere troppo melanconica<br />

e in certi<br />

casi zuccherosa.<br />

Se con Maps <strong>Of</strong><br />

What Is Effortless ci avevano fatto capire di<br />

avere qualche colpo in canna ancora da sparare<br />

(che in effetti li avrebbe portati a sfornare dei remix<br />

epici per gli Apparat), qui Curtis e Cooper<br />

entrano nel tunnel del pop in punta di piedi,<br />

spogliandosi dell’anima e non riescono a togliersi<br />

di dosso la patina di uno scopiazzamento dei Depeche<br />

Mode e dei Cure più tastieristici. L’eccellente<br />

minimalismo acustic-pop di Circlesquare è<br />

distante. L’album potrebbe piacere a chi non ha<br />

vissuto a fondo la stagione dell’emotronica, ma i<br />

capolavori sono da tutt’altra parte. Senza infamia<br />

e senza lode, buono per un po’ di chilling e ‘mai<br />

niente di più’. (6.0/10)<br />

Marco Braggion<br />

tElEpathE – dancE MothEr (v2, fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: s y n t h -wa v e ev a n e s c e n t e<br />

Ce le ricordavamo più tribali, robuste e ossessive,<br />

le Telepathe, all’altezza dei primi passi vinilici. Ma<br />

si sa, le corte distanze possono ingannare nella<br />

stessa misura in cui i primi passi non sempre portano<br />

a luoghi (musicalmente) certi. Eccole ora qui,<br />

Busy Gangnes e Melissa Livaudais (synth, beats,<br />

qualche chitarra e tante voci), alle prese con l’esordio<br />

lungo; con quella prova che le metterà spalle<br />

al muro e di fronte al mondo, visti anche i nomi<br />

coinvolti nell’assemblaggio di Dance Mother,<br />

in primis quel Dave Sitek di Tv On The Radio<br />

memoria.C’è da dire subito che per chi le seguiva<br />

da tempo lo scarto è notevole. Il suono si fa meno<br />

corposo, si sfilaccia da quella wave “percussiva”<br />

e così tremendamente newyorchese che caratterizzava<br />

le uscite minori Farewell Forest e Sinister<br />

Militia, per avvicinarsi ad un concentrato<br />

compatto e (quasi) senza fronzoli di synth-wavepop<br />

accattivante e giocosa. Ripetitiva e minimale.<br />

Ossessiva nella sua elementarità. Ma è il senso di<br />

evanescenza al limite dell’ectoplasmico a segnare<br />

sottotraccia i 9 pezzi di Dance Mother. Un senso<br />

di sfuggevolezza che assume di volta in volta forme<br />

diverse a seconda della strumentazione usata e<br />

che fa pensare ad una sorta di haunted-pop songs.<br />

Qualcuno dirà che sono perfette per l’innocuo<br />

pubblico da performance arty che ingolfa certo<br />

sottobosco indie williamsburghiano. Noi risponderemo<br />

che certi dischi, nonostante riferimenti<br />

ovvi e un certo senso di inevitabile dejà-écouté, si<br />

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fanno apprezzare al di fuori di qualsiasi improduttiva<br />

contorsione mentale sull’utilità della musica.<br />

(6.8/10)<br />

stEfano piffEri<br />

john tEjada – faBric 44 (faBric<br />

rEcords, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: c o M p i l a t i o n te c h n o Mi n i M a l<br />

Il DJ californiano torna a concentrarsi sulla sua ristretta<br />

cerchia di amici e sforna un mix degno del<br />

Fabric. Ancora una volta minimal techno a farla<br />

da padrona, dopo lo scherzetto 80 Metro Area (sul<br />

numero precedente della serie del rinomato club<br />

britannico). L’omogeneità della proposta conquista<br />

subito al primo ascolto e man mano che si prosegue<br />

nel viaggio si ricordano le stagioni in cui eravamo<br />

là davanti alle casse a vibrare. Perché questo è clubbismo<br />

distillato techno. Un magma di progressioni<br />

(Subharmonik Atoms) e di laser sonori che fanno tanto<br />

sorriso stampato ibizenco (Colorseries Olive B), i confini<br />

con l’acidità sorpassati nella poderosa WAX10001 e<br />

le due tracce autoreferenziali sono le cose deep che<br />

ti stampano il marchio sui timpani per tutta la notte<br />

(la collaborazione con Arian Leviste in M Track 1<br />

e con Justin Maxwell in Benus Boats). Ma al di là di<br />

troppi tecnicismi, qui si parla di uno che va avanti<br />

per la sua strada underground. Con la sua Palette<br />

Recordings il ragazzone classe ‘74 si sta costruendo<br />

una squadra di adepti che lo seguiranno ancora<br />

per molto tempo. I nomi sono quasi tutti qui, e noi<br />

siamo felici di poterli ascoltare mixati in maniera<br />

ottimale dal loro produttore. Non solo comunque<br />

un ‘piccolo spazio pubblicità’. Ci sono anche delle<br />

chicche da lacrime. La potenza degli Orbital, le<br />

meditazioni di Spooky e il finale in acido con LJ<br />

Kruzer. La techno non muore, finché qualcuno ci<br />

crede. Fabric must go on. (7.0/10)<br />

Marco Braggion<br />

thE hunchEs – Exit drEaMs (in thE<br />

rEd, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: g a r a g e -ro c K<br />

Li davamo per morti, visto lo iato quinquennale<br />

che divide il comeback da Hobo Sunrise (In The<br />

Red, 2004). E molto probabilmente morti (nel senso<br />

di sciolti) lo sono davvero, o magari si sono appena<br />

riformati e festeggiano la rimpatriata con questo<br />

nuovo disco. Con gente del genere non c’è mai<br />

da fidarsi troppo. Di certo al momento c’è questo<br />

Exit Dreams, e tanto basta per rendere felici noi<br />

e chiunque ami quello che genericamente si può<br />

chiamare garage. Se poi quello che stiamo ascoltando<br />

fosse il canto del cigno degli Hunches, o l’inizio<br />

di un’altra sferragliante serie di release, beh, sia<br />

come sia la certezza è che colonna sonora migliore<br />

non potrebbe esserci. Chris Gunn (chitarre), Hart<br />

Gledhill (voce), Sarah Epstein (basso) e Ben Spencer<br />

(batteria) (ri)mettono in scena il loro personale<br />

teatrino garage-rock ad alto tasso di squilibrio, con<br />

un piede nella tradizione e l’altro sui distorsori. Da<br />

una parte la storia americana fatta essenzialmente<br />

di country e blues, dall’altra il lerciume depravato e<br />

iconoclasta del punk-rock. Che è un po’ come dire<br />

le ruvidezze dei Pussy Galore intenti a vivisezionare<br />

il cadavere del rock e la sguaiatezza slabbrata, teatrale,<br />

oscena dei Cramps. Senza mai raggiungere<br />

però né il parossismo distruttivo dei primi, né l’enfasi<br />

caricaturale dei secondi, evidenziando invece<br />

gusto per melodia e perfetto equilibrio formale e<br />

stilistico.<br />

La tradizione è trattata coi guanti mentre viene<br />

seviziata dalla carica irruente dei quattro, fatta<br />

di sporcizia del suono e grezzume dei ritmi. Perle<br />

come la conclusiva Swim Hole con quell’annegare<br />

una melodia infantile e irresistibile in un’orgia cacofonica<br />

esaltante, e l’opener Actors col suo stomprock<br />

robotico, lo dimostrano appieno. Volume a<br />

palla è quello che si merita un disco del genere.<br />

(7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

thE vickErs – kEEp clEar (foolica /<br />

halidon, 13 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: indie-po p<br />

Ai tempi dell’EP autoprodotto che finì tra le grinfie<br />

del nostro We Are Demo guadagnandosi un quasi<br />

sette, li paragonammo a Pavement, Libertines e Radiohead.<br />

Una scelta su cui ritorniamo ora - a disco<br />

d’esordio acquisito - non senza qualche perplessità,<br />

dal momento che se è vero che qualcosa delle<br />

formazioni citate la si ritrova ancora nella musica<br />

dei Vickers, è vero anche che ben altro si nasconde<br />

sotto la superficie. Nel nostro outing di inizio anno<br />

potremmo comunque coinvolgere anche illustri<br />

scrivani di altri “lidi”, dal momento che il ventaglio<br />

di riferimenti scomodato per definire il sound del<br />

gruppo toscano è stato ed è tutt’ora, ampio e variegato:<br />

Thrills, Coral, Turin Brakes, Bluetones, Charlatans,<br />

Oasis, Blur,<br />

ancora Pavement,<br />

solo per fare qualche<br />

nome. Una tendenza<br />

che, al di là delle<br />

facili battute di spirito,<br />

la dice lunga sul<br />

valore di una formula<br />

ricca e ambivalente,<br />

per certi versi<br />

riconoscibile ma anche sufficientemente originale<br />

da svincolarsi dalle facili categorizzazioni formali.<br />

Ancora di più in questo Keep Clear, deciso passo<br />

in avanti rispetto al passato recente oltre che – lo<br />

diciamo subito – disco di assoluto di valore. Dodici<br />

tracce per lo più chitarra, batteria, basso, tastiere,<br />

il cui maggior pregio è forse il naturale appeal melodico,<br />

unito ad un’orecchiabilità virata seppia familiare<br />

quanto spumeggiante. Una scrittura rubata<br />

al brit-pop meno banale come all’incedere energico<br />

di Pete Doherty e colleghi - Here Again -, al Dylan<br />

più sboccato - I’ve Got You On My Mind - come<br />

alle indolenze di Neil Young - I’ll wait -, che riesce<br />

a entusiasmare senza svilire i modelli originali. Collezionando<br />

invece piccole gemme con stupefacente<br />

semplicità, giocando con gli arrangiamenti, concedendo<br />

a musica e testi il giusto spazio, facendo apparire<br />

semplice un lavoro di rifinitura, invece, puntuale.<br />

Niente di trascendentale, verrebbe da dire,<br />

ma ce ne fossero di musicisti così. (7.1/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

thE fElicE BrothErs – sElf titlEd<br />

(tEaM lovE rEcords, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: aM e r i c a n a<br />

Capita, è capitato, capiterà ancora. Capiterà sempre.<br />

Che un guizzo di tradizione Americana (folk,<br />

blues, swing...) s’incarni in una situazione contemporanea,<br />

di cui senti con chiarezza la forza, l’estro<br />

risaputo ma necessario delle cose maturate a contatto<br />

con la vita vera. Simone, James e Ian Felice da<br />

Catskill, stato di New York, misero assieme la band<br />

come uno scherzo<br />

della passione nel<br />

non troppo lontano<br />

2006, finendo per<br />

fare i busker nella<br />

metropolitana della<br />

Grande Mela, cogliendoapprezzamenti<br />

e strappando<br />

entusiasmi che li<br />

portarono di lì a poco ad un tour in terra d’Albione,<br />

laddove licenziarono per la Loose Music il<br />

debutto Tonight At The Arizona (2007). I pochi<br />

che hanno avuto il privilegio di ascoltarlo (tipico<br />

caso di distribuzione a singhiozzo) ne sono usciti<br />

elettrizzati, una di quelle scariche valvolari d’una<br />

volta, che non lasciano in pace nessun nervo o capello.<br />

Le esibizioni live, alcune prestigiose come al<br />

Folk Festival di Newport, ribadirono il concetto.<br />

Ed eccoci a questa sorta di secondo debutto, giustamente<br />

omonimo, per la Team Love Records.<br />

Un gran disco, quindici pezzi in cui l’estro roots<br />

sprizza uno sghembo, irresistibile vitalismo, come<br />

una scorribanda Tom Waits nella famosa cantina<br />

della famosa Casa Rosa, con Dylan e The<br />

Band felici di impastare ebbrezza e arcaicismi,<br />

smarrimento ed eccitazione, sacro e profano. Rag<br />

dinoccolati nella taverna dei buoni sentimenti alcolici,<br />

tenerezze country, storie spietate e impietose,<br />

violini e fisarmoniche, pianoforti e banjo, il<br />

conforto sbruffoncello della sezione fiati, voci che<br />

ammiccano, sproloquiano, ti consolano e si consolano.<br />

Canzoni come agili liturgie sconsacrate, gra-<br />

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vi e asprigne come la stupenda Helen Fry, argute e<br />

struggenti come Greatest Show On Earth (venata di infingarda<br />

flemma Lambchop), colme di indomita<br />

apprensione come Murder By Mistletoe (di quelle ballad<br />

che Grant Lee Phillips non ci regala più da<br />

tempo), trascinanti e scombiccherate come Frankie’s<br />

Gun!, languide e distese come Don’t Wake The Scarecrow.<br />

E lì in mezzo Goddamn You, Jim, a fungere da<br />

formidabile anomalia, con la sua gravità degna dei<br />

Low più funerei. Certo, siccome la veridicità è un<br />

lusso che la finzione non sempre può permettersi,<br />

capita di avvertire un vago senso di artificio, di inevitabile<br />

edulcorazione, un po’ come accadeva con<br />

gli I Am Kloot (ex busker pure loro), se ricordate.<br />

Ma, vi assicuro, non è un prezzo caro da pagare.<br />

(7.3/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

thEsE arE powErs – all aBoard futurE<br />

(dEad ocEans, 17 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: e l e c t r o<br />

Questo è quello che vorremmo da un genere.<br />

Esplorare i confini – in questo caso dell’electro - ma<br />

mantenere riconoscibili i riferimenti classici. Creare<br />

accostamenti inediti. Riprovare strade che si sono<br />

dimostrate pericolose – pensiero fisso alla parabola<br />

post-El Guapo, e ogni esempio di ciò che sarebbero<br />

potuti diventare scegliendo altre strade mette amarezza<br />

da un lato e speranza (per il nuovo) dall’altro.<br />

Tanto ci sarebbe bastato per caldeggiare l’ascolto<br />

di All Aboard Future, nuova prova per These<br />

Are Powers. Ad aggiungere interesse nei confronti<br />

di questa uscita c’è poi anche la recente storia della<br />

band, con l’auto-definizione “ghost punk” che,<br />

come si ricordava su SA, i TAP proponevano per<br />

se stessi fino allo scorso Taro Tarot. Va allora sommato<br />

a quanto detto lo scarto qualitativo dei generi;<br />

e pensate a come sia possibile cercare un ancoraggio<br />

(di velcro, naturalmente) a tutto lo spettro dell’electro,<br />

dalla sua declinazione pop all’industrial music<br />

for industrial people, dai Brainiac alle spezie digital<br />

hardcore. Si parte così con una versione più tirata<br />

dei Blow con Easy Answers; drum machine, co-<br />

lori, aperture, niente di risparmiato, nessun lavoro<br />

di sottrazione; si va più in là, rasentando gli Adult,<br />

con Life Ob Boards; si incrociano le due proposte con<br />

Double Double Yolk. Ma che ne è allora del fantasmatico<br />

e scheletrico suonare cui ci ha abituato la formazione?<br />

Proprio qui sta l’asserzione del disco, ci pare.<br />

Sì perché è nella mimesi di Genesis P-Orridge<br />

di Light After Sound riscopriamo il velo oscurantista<br />

della prima industria fatta a musica, e i These Are<br />

Powers sono in grado di metterci dentro un riff tecnologico<br />

ma pur sempre chitarristico, ponte (come<br />

etimo vuole) tra il prima e il dopo, il rock e l’elettronica,<br />

il fantasma, lo scheletro e la carne. Insomma,<br />

pur corpulenta, anche questa elettronica è scarnificata.<br />

Ossimorici i These Are Powers. E, cosa che li<br />

rende ancora più convincenti, gente in grado di far<br />

risbucare la propria ontogenesi nella filogenesi di<br />

questo ultimo lavoro. Non un capolavoro, ma una<br />

prova difficile e superata. (7.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

tiM hEckEr – an iMaginary country<br />

(kranky / goodfEllas, fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: a M b i e n t<br />

L’uomo che compone “musica per stati d’animo da<br />

4.00 del mattino” ritorna in proprio. Dopo la parentesi<br />

in compagnia di Aidan Baker, Tim Hecker<br />

riprende il discorso avviato con Harmony In Ultraviolet<br />

regalandoci un nuovo saggio di allegoria<br />

ambient. An Imaginary Country, volendo smentire<br />

i dettami dell’autore,<br />

lo si può ascoltare in<br />

qualsivoglia fascia<br />

oraria, che sia notte<br />

fonda o l’inizio<br />

di un nuovo giorno,<br />

visto che l’effetto<br />

sarà sempre di totale<br />

trascendenza. Meno<br />

austero del predecessore, il lavoro si stende alla maniera<br />

di un concept il cui soggetto è un immaginario<br />

paese esistito un secolo addietro (100 Years Ago),<br />

bagnato da acque pulsanti (Sea of Pulses, arricchita<br />

da un beat che fa tanto Jetone, il moniker minimal<br />

techno del Nostro) che cingono l’umorale ambiente<br />

(l’elegiaca Borderlands) affinché i corvini orizzonti in<br />

lontananza (Her Black Horizon) vi si possano specchiare<br />

imponenti. Non si esagera se ci considera Tim<br />

Hecker alla pari dei Flying Saucer Attack oppure,<br />

giusto per rimanere nel presente, evocativo quanto<br />

l’ultimo Fennesz. C’è vita dopo Black Sea (<strong>Of</strong> PulsPulses). (8.0/10)<br />

gianni avElla<br />

tony forMichElla & BasEonE – not<br />

too long ago (point of viEw / halidon,<br />

2008)<br />

gen e r e: j a z z<br />

Jazzista d’avanguardia – c’è chi lo paragona, senza<br />

falsi pudori, a Sonny Rollins -, musicista con alle<br />

spalle quarantacinque anni di carriera spesi tra Stati<br />

Uniti e Italia, collaboratore di artisti come Rino<br />

Gaetano – suo l’assolo di sax ne Il cielo è sempre più<br />

blu -, Tony Formichella colleziona con Not Too<br />

Long Ago nove spaccati di raffinato jazz d’autore.<br />

Materiale in bilico tra fascinazioni latine (Africa) e<br />

funk anni settanta (Perverso Blues e Shatto), toni caldi<br />

(Blue Blues) e rielaborazioni della tradizione (Saint<br />

Lawrence), che oltre ad ammaliare con le sue cadenze<br />

misurate, rivela una classe figlia, soprattutto,<br />

dell’esperienza. La si coglie nelle partiture ma anche<br />

nell’estetica ricercata dei suoni, con quel distendersi<br />

pacato del sax su fantasie minimali di batteria,<br />

chitarra, contrabbasso, flauto traverso e ottoni. Una<br />

musicalità che non pretende sforzi di comprensione<br />

fuori dal comune, non nasconde brutte sorprese,<br />

non prevede stravolgimenti, ma vive invece di particolari<br />

e sfumature. (6.9/10)<br />

faBrizio zaMpighi<br />

van Morrison - astral wEEks livE at<br />

thE hollywood Bowl (listEn to thE<br />

lion rEcords / EMi, 10 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: f o l K s o u l<br />

Se Van Morrison non avesse pubblicato Astral Weeks<br />

lo rispetterei moltissimo ma non lo amerei quanto in<br />

effetti lo amo. E la mia vita sarebbe indubbiamente<br />

più vuota. Il primo a rendersene conto è proprio Van<br />

“The Man”, che quaranta anni dopo quel prodigio<br />

di vinile ha deciso di rendergli omaggio rivisitandolo<br />

live per due serate - ovviamente sold out - all’Hollywood<br />

Bowl, in quel di Los Angeles, California.<br />

Durante quei concerti è stato catturato il materiale<br />

per questo Astral Weeks Live at the Hollywood<br />

Bowl, titolo che inaugura l’etichetta personale di<br />

Morrison, la Listen To The Lion. Disco che trasuda<br />

un entusiasmo - va da sé - maturo, dove un disinvolto<br />

delizioso horror vacui riempie gli interstizi con friniti<br />

di viola, svolazzi di fiddle, trilli di mandolino, vampe<br />

di ottoni, palpiti<br />

d’organo. Insomma<br />

tutto un ricamare<br />

sbrigliato e friabile<br />

che non sovraccarica<br />

semmai spampana<br />

i bordi (e i testi) di<br />

quei vecchi gloriosi<br />

pezzi, stemperandone<br />

la densità in un rituale liberatorio, capace di sdilinquirsi<br />

con la disinvoltura del jazz-rock-soul andato<br />

(raggiungendo l’apice in Ballerina e in Listen To The<br />

Lion, una delle due bonus track). In tutto ciò, la voce<br />

del cerimoniere paga impietosamente dazio alle ere<br />

geologiche trascorse, mostrandosi competente (e ci<br />

mancherebbe) ma legnosa nelle movenze, pronta ad<br />

affrontare le dinamiche più impervie ma depauperata<br />

del pazzesco bouquet timbrico che ricordavamo.<br />

Insomma, ho una notizia per voi: la nostalgia è un<br />

gioco tenero e crudele, sia quando finge di credersi<br />

vera sia quando - come in questi casi - s’illude di non<br />

averne bisogno. La differenza è sottile come il filo<br />

delle emozioni, e tenace allo stesso modo. La differenza<br />

la fate voi. (6.9/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

vEtivEr - tight knit (suB pop, 17 fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: f o l K po p<br />

Smaltito ormai del tutto il flirt col prewar fricchet-<br />

90 / recensioni recensioni / 91


Hi gH l i gH t<br />

svartE grEinEr – kappE (typE rEcords,<br />

fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: d a r K aM b i e n t<br />

Ritorniamo in Norvegia. Li dove fa sempre freddo e il<br />

sole è un disco magro che non dà luce né calore. Avevamo<br />

lasciato l’eroe del precedente disco Knive, un kafkiano e<br />

ideale “signor K”, alle prese con boschi neri, flutti paludosi,<br />

corvi minacciosi e uno spirito d’assenza e abbandono,<br />

nella spaesata scenografia d’ambiente architettata da<br />

Erik K. Skodvin. Nel 2009 assistiamo alla seconda parte<br />

di questo immaginario e intangibile excursus. Il signor K è riuscito a tirarsi fuori dalla<br />

selva oscura e pertanto questo sequel cambia buona parte dell’arredo di scena. I suoni<br />

perdono quasi del tutto quel mood onomatopeico che si alimentava a sparsi e disparati<br />

field recordings e inscenava gli andirivieni nella natura minacciosa. L’anelito metafisico verso<br />

l’alto è compiuto e il signor K si ritrova in una serie di malevoli e oscuri arredi interni,<br />

con pesanti tendaggi d’archi e un florilegio di note sostenute nel vuoto. E’ questo il nuovo<br />

trademark di Svarte Greiner: lasciare che le note cerchino una via d’uscita senza apparentemente<br />

trovarla. Da qui una sorta di pesante stasi armonica, costantemente ostile<br />

e intimidatoria. I sette minuti iniziali di Tunnels <strong>Of</strong> Love viaggiano via verso riverberi ed<br />

echi sempre più irraggiungibili e quando ti sembra di aver visto la via di fuga, ti accorgi<br />

che dietro la tenda la finestra è murata. Rispetto al primo disco, Skodvin si è ulteriormente<br />

raffinato come ambiguo esegeta del mistero. Non cerca più di spaventare quanto<br />

proprio di angosciare, calando ogni cosa in una nube di indeterminatezza. Ne sono<br />

testimonianza i sedici minuti abbondanti di Candle Light Dinner Actress forti della mano di<br />

Kjetil Møster degli Ultralyd e dei macabri riverberi d’oltretomba che si animano sulla<br />

scia del Wendy Carlos di Shining, ideali traghettatori verso il climax sinfonico finale<br />

di Last Light. L’ultimo segno di luce prima che arrivi il buio. (7.5/10)<br />

antonEllo coMunalE<br />

tone devendriano - mai troppo conclamato a dire il<br />

vero - il quintetto californiano capitanato da Andy<br />

Cabic torna a mettere in scena la consueta fascinazione<br />

folk, con piglio assieme frugale e alieno,<br />

ovvero spendendosi con le movenze e i modi delle<br />

ballate country rock ostentando la devozione e il<br />

distacco di chi proviene da altrove. Mai come in<br />

questo quarto album il punto di vista è sembrato<br />

- se me lo consentite - british. Difatti, oltre ai noti<br />

rimandi George Harrison (la dolciastra intraprendenza<br />

di Everyday, l’indolenza acidula di Strictly<br />

Rule, lo sperso incanto di Rolling Sea), t’imbatti in<br />

una Through The Front Door come potrebbe Badly<br />

Drawn Boy invaghito Mojave 3, oppure in una<br />

Strictly Rule che sembra i Belle And Sebastian di<br />

Legal Man narcotizzati dal peyote Gomez. Quin-<br />

di - su un altro piano di alterità - ecco scorrerci<br />

davanti una mischia oppiacea Lennon-Flying<br />

Burrito Bros (quella Sister che ricicla con svampita<br />

delicatezza Stand By Me), una fatamorgana<br />

Califone parecchio ingentilita (il mantra folk tra<br />

caligini elettroniche di Down from Above) e una At<br />

Forest che ciondola soffuso abbandono velvettiano<br />

altezza Loaded, per non dire di quella Another Reason<br />

To Go che strascica fiati e chitarrina liquorosa<br />

su disincanto bluesy tipo l’ultima Cat Power. A<br />

parte questa sensazione di riciclaggio tanto affettuoso<br />

quanto subdolamente po-mo, siamo dalle<br />

parti di un intrattenimento ipnotico e carezzevole,<br />

tutto sommato innocuo, con qualche pretesa psych<br />

che ne sfuma in meglio i limiti e gli obiettivi. Da<br />

ascoltarsi quindi come un buon lenitivo. (6.4/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

claro intElEcto – warEhousE sEssions<br />

(ModErn lovE, gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: d e e p te c h n o<br />

Mark Stewart ritorna con l’attesissima compilation<br />

che raccoglie in CD i 5 vinili delle sue famose<br />

sessions berlinesi (e aggiunge pure una postilla).<br />

Se l’anno scorso ci aveva stupito per la sua raffinatezza<br />

ai confini con l’IDM con quel botto che<br />

è stato Metanarrative, oggi questa antologia ci<br />

conferma che il ragazzo ha uno stile. Punto. Anni<br />

fa lo si sentiva poco, nascosto in qualche compilation<br />

o in qualche set che rischiava. Oggi non occorre<br />

più andare a inseguire le uscite in vinile o il<br />

downoad selvaggio. La prova ce l’abbiamo qui. Il<br />

suo moniker è più azzeccato che mai. Fa il furbo:<br />

stare con un piede nella deep e non annoiare il<br />

pubblico techno è dura. Mark ci riesce. Dal 2006<br />

a oggi nelle sue corde sentiamo il compagno di etichetta<br />

Andy Stott e quel Maurizio come ombre<br />

che assistono la darkness e la visione. Tutta gente<br />

hypercool che sbanca con 4 battute e un po’ di<br />

cassa caldissima. E allora via con la giostra fatta di<br />

trance dub sporcata glitch à la Rhythm & Sound<br />

(New Dawn), l’inno uberBerlin che è X (ascoltatevi<br />

il passaggio in eco a metà e ditemi se non siamo<br />

in zona Basic Channel), la spaventosa parata di<br />

effetti di delay e panning in Instinct e per finire Hunt<br />

You Down, 10 minuti che guardano nell’abisso del<br />

minimalismo. Irresistibile e a tratti oscuro. Qui si<br />

esprime la forza del club, senza alcun riguardo per<br />

l’editing da album. Se l’anno scorso c’erano state<br />

le Carl Craig, quest’anno ci sono le Claro Intelecto<br />

Sessions. Altroché. Lasciamolo respirare. Lasciamolo<br />

fare.(7.3/10)<br />

Marco Braggion<br />

wavvEs – wavvvEs (dE stijl, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: l o-fi be a c h -p u n K<br />

Noise-pop in modalità lo-fi dalla assolata California.<br />

Nascondismo di default e isolazionismo fatto<br />

bandiera ideologica. Immaginario retro-futurista<br />

già ben noto – si veda alla voce Blank Dogs – ed<br />

escamotage puerili – raddoppio delle consonanti,<br />

nello specifico – che cominciano a mostrare la corda.<br />

Ce ne sarebbe per dire basta alla terza riga.<br />

Però. Come in tutte le (in)certezze che si rispettino<br />

c’è il fatidico però. Però,si diceva, nonostante<br />

tutti gli indizi giochino a sfavore, sto disco spacca<br />

totalmente. Spacca davvero, e per un semplice fatto:<br />

perché al versante più synth-cold-wave di altre<br />

sensazioni – si veda sempre alla voce di cui sopra<br />

– Wavves oppone un immaginario di riferimento<br />

totalmente bubblegum-pop. Le sue sono proprio<br />

canzonette dalle melodie irresistibili; spinte, sconce,<br />

abbrutite, violate, sia quel che sia ma sempre<br />

e solo canzonette irresistibili sono. Che vengano<br />

totalmente trasfigurate da baccanali di lerciume<br />

elettrostatico o deturpate da ritmiche pestone e<br />

poverissime, beh, poco conta alla fin fine. Anzi,<br />

aggiunge proprio quel nonsochè che porta l’etichetta<br />

a definire questo suono the sound of today’s american<br />

youth e noi a darle ragione. Nathan Williams, classe<br />

1986, da San Diego – perché i misteri, nell’era<br />

del 2.0, non esistono – ha messo su un dischetto,<br />

riedizione della cassetta per Fuck It Tapes, niente,<br />

niente male. (7.0/10)<br />

stEfano piffEri<br />

92 / recensioni recensioni / 93


williaM Elliott whitMorE - aniMals<br />

in thE dark (anti, 17 fEBBraio 2009)<br />

gen e r e: aM e r i c a n a<br />

Dovessi suggerire un disco al mio migliore amico<br />

voglioso di Americana, consigliando questo<br />

Animals In The Dark andrei sul sicuro. Se mi<br />

chiedesse qualche dettaglio, gli direi che col quinto<br />

album William Elliott Whitmore porta il suo<br />

country nella zona franca che separa e unisce il<br />

mainstream dall’alternativo, definendo con sempre<br />

maggiore lucidità quella calligrafia fatta di tradizione<br />

integerrima, basata su un ristretto novero di<br />

segni immediatamente riconoscibili, intensamente<br />

tipizzati. Una fisarmonica, l’hammond, il dobro,<br />

quella voce che sembra appena strappata al ventre<br />

della terra, alle inquietudini e alle speranze covate<br />

sotto al front porch. E la morbidezza, soprattutto<br />

la morbidezza con cui accoglie stemperandola<br />

un’ebbrezza black, tanto che - volendo tagliare<br />

un paragone con l’accetta - sembra posizionarsi<br />

rispetto al soul e al blues come Ben Harper si<br />

pone rispetto al folk-rock. Quale esempio porterei<br />

senz’altro la trepida There’s Hope For You, oppure i<br />

tremori espettorati da Who Stole The Soul e Let the<br />

Rain Come In. Inoltre direi buone cose sulla disarmante<br />

fierezza che pervade l’invettiva corsara di<br />

Mutiny, così come sulla grana redneck fragrante e<br />

priva di boria di Johnny Law e Lifetime Underground.<br />

Infine lo rassicurerei, che in certi casi la genuinità<br />

la senti a pelle, capisci quanto profondamente è<br />

radicata anche dalla serenità con cui si disimpegna<br />

tra un malanimo e l’altro. Questo è uno di quei<br />

casi. (7.0/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

wino – punctuatEd EquiliBriuM<br />

(southErn lord / southErn, gEnnaio<br />

2009)<br />

gen e r e: M e t a l e di n t o r n i<br />

Dopo venticinque anni di carriera, Scott “Wino”<br />

Weinrich, chitarrista dal passato glorioso negli ambienti<br />

metal, ha deciso di fare per la prima volta le<br />

cose da solo. A seguito dello scioglimento della sua<br />

ultima band, Hidden Hand, infatti, l’ex chitarrista<br />

di Obsessed e Saint Vitus, gruppi che hanno<br />

scritto le prime pagine della storia del doom, ha<br />

pensato bene di provare la strada solista, firmandosi<br />

con il solo nomignolo. L’approccio è un po’ disorientante<br />

per la varietà di elementi messi in campo.<br />

L’impronta doom conserva la sua influenza su<br />

un lavoro che accosta con disinvoltura, ma anche<br />

con cognizione di causa, la psichedelia (Wild Blue<br />

Yonder) l’acid blues (Release Me), il funk-metal (Smilin’<br />

Road) e il Thrash<br />

(la Title-Track; The<br />

Woman In The Orange<br />

Pants), mentre un<br />

brano come Eyes<br />

<strong>Of</strong> The Flesh ricorda<br />

quanto siano<br />

debitrici (ieri come<br />

oggi), le correnti più<br />

oscure del metal, ai<br />

primi Black Sabbath. Non mancano le cadute<br />

di stile, come il rock un po’ amorfo di Secret Realm<br />

Devotion, e gli stereotipati momenti di intimità con<br />

la chitarra (Water Crane e i vari assoli-fiume un po’<br />

noiosetti) molto comuni tra i chitarristi metallari.<br />

Ed abbondano le soluzioni scontate e decisamente<br />

retrò, prevedibile richiamo alle migliori cose fatte<br />

in passato da Weinrich. Ma c’è da tenere conto<br />

anche, che non ci troviamo di fronte l’album di<br />

un povero cristo invecchiato e all’ultima spiaggia,<br />

ma di un musicista stagionato che qualcosa da dire<br />

ancora ce l’ha. Al di là di tutti i possibili, probabili<br />

e concepibili momenti revivalistici (6.4/10)<br />

daniElE follEro<br />

yussuf jErusalEM – a hEart full of<br />

sorrow (floridas dying, dicEMBrE<br />

2008)<br />

gen e r e: g a r a g e fo l K no i r<br />

Cosa unisce le tonalità oscure di un certo neo-folknoir<br />

con quelle più ruvide, ma anche più solari, del<br />

garage-country-rock? Il disco di Yussuf Jerusalem<br />

– primo LP di Floridas Dying – da una risposta<br />

ed una testimonianza in questo senso. Questo misterioso<br />

gruppo francese (le foto dei live rappresentano<br />

un trio, ma potrebbe essere una soluzione<br />

solo per i concerti) arriva al debutto con un album<br />

che fa piazza pulita di ogni purismo di sorta, offrendo<br />

in prima battuta una luttuosa copertina che<br />

sembra provenire più dal più tetro e putrido underground<br />

black metal che dai circuiti del garagepunk.<br />

E su quell’asse si continua con l’opener Gille<br />

De Rais che fa subito tornare alla mente i Celtic<br />

Frost nel nome e band ben più estreme come<br />

i primissimi Emperor nel sound. Con il secondo<br />

pezzo, che da il titolo all’album, cambia tutto: chitarre<br />

acustiche celticheggianti si sposano con linee<br />

vocali dal sapore di Midwest statunitense, quella<br />

tradizione americana che arriva fino a Lanegan e<br />

Woven Hand.<br />

Da qui si continua con ballate di alto impatto emotivo<br />

e di lodevole fattura in cui acustica, elettrica<br />

ed elettronica si mischiano alla perfezione, sempre<br />

in un sottile ma mai precario equilibrio; e allora la<br />

tradizione dei cantautori folk americani (The One<br />

You Really Want) si ricongiunge con i suoi esiti<br />

moderni (We Aint Coming Back ricorda i Good-<br />

Night Loving) senza per questo dimenticarsi di un<br />

certa canzone popolare medievale (The End <strong>Of</strong><br />

Tomorrow), il tutto intervallato solo dall’obliquo<br />

interludio pianistico di Jihad. Negli ultimi anni raramente<br />

Death In June e Roky Erickson, Current<br />

93 e Neil Young sono stati così vicini come nei solchi<br />

di questo disco. (7.5/10)<br />

andrEa napoli<br />

zEitkratzEr – volksMusik<br />

(zEitkratzEr rEcords, 2008)<br />

gen e r e: a v a n t -fo l K<br />

Ribalta i canoni cari alla scrittura classica del primo<br />

‘900 l’ensemble berlinese Zeitkratzer, e si concede<br />

alla direzione di Reinhold Friedl, nel tentativo<br />

inesausto di rompere gli schemi.<br />

In Volksmusik è una evidente matrice folk che<br />

attraversa i confini di Austria, Bulgaria e Romania<br />

a dettare i tempi di una musica complessa ma<br />

per nulla cerebrale. Nessun atteggiamento nu-folk<br />

e neppure leziosi orpelli strumentali, ma vere e<br />

propria avanguardia in chiave popolare che sembra<br />

non rinunciare nemmeno alla presa diretta.<br />

L’impatto è notevole, anche se ad alcuni potrebbe<br />

sembrare trasgressivo per le dissonanze da live, tra<br />

ritmi incalzanti, rallentati o trattenuti a mezz’aria.<br />

Con le vibranti danze di Batuta, le ancestrali rivisitazioni<br />

di Picior, la lettura jazz di Mountain e le percussioni<br />

tzigane di Bouchimich si abbattono le frontiere<br />

di un genere ormai ben radicato negli archivi<br />

sonori di Volksmusik, a conferma anche questa<br />

volta che l’originalità premia. (8.0/10)<br />

sara Bracco<br />

zoMBy – whErE wErE you in ‘92?<br />

(wErk discs, novEMBrE 2008)<br />

gen e r e: h a r d c o r e r a v e -st e p<br />

Tempo fa un personaggio senza nome usciva in<br />

sordina e ci sfornava un capolavoro del dubstep.<br />

Si chiamava Burial. Solo dopo qualche tempo si è<br />

capita a fondo la potenza del suo esordio. Oggi un<br />

altro che ama nascondersi esce con un disco che<br />

ha qualcosa in più. Lui dice di chiamarsi Zomby.<br />

E fa hardcore. Fin qua niente di sorprendente. Eh<br />

no, dico io! Fare hardcore oggi è come spararsi addosso.<br />

Bisogna avere le palle quadre per riproporre<br />

ancora una volta le sonorità della generazione<br />

E. Zomby ce la fa e ci sforna il disco che mancava<br />

per iniziare degnamente il 2009. Anche se uscito<br />

alla fine dell’anno appena terminato, questa chicca<br />

entra nel mondo dubstep e lo sfalda in modo inaspettato.<br />

Per cui ce ne freghiamo e lo recensiamo<br />

ora, consapevoli che ne sentiremo riparlare. Ma<br />

che cos’è quest’album? Solo un ricordo del rave?<br />

Come già detto in numerose recensioni e speciali,<br />

la cosa per cui ci si distingue oggi è la capacità di<br />

meshing e di rifrullo della storia. E allora se in certi<br />

punti non si può prescindere dalla cupezza (vedi la<br />

citazione dal monologo più famoso di Blade Runner<br />

in Tears In The Rain), il grosso di queste 14 tracce<br />

esula dalla grimeness e ci riporta direttamente<br />

a contatto con il rave. Tutti quei break spezzati,<br />

94 / recensioni recensioni / 95


quei laser che ci attraversavano la mente e quelle<br />

tastiere robotiche sono di nuovo atterrate. Le<br />

mitiche sirene à la O.R.B. in Get Sorted, le vocine<br />

velocizzate in We Got The Sound, i beatz superblack<br />

con le voci acute che tanto piacciono al popolo del<br />

drum’n’bass (splendide in Float), il trucco nerdy<br />

che non muore mai (il remix dello Street Fighter Theme).<br />

Il resto è un omaggio palese al rave. Ma se il<br />

tributo è fine a se stesso non ci smuove più. Zomby<br />

è invece un vulcano che sta per scoppiare. Perché<br />

con questa mossa disconosce e rifonda in modo<br />

furbissimo le sue origini dubstep. Una mistura intelligente<br />

che colpisce il trentenne e che spopolerà<br />

nel popolo di head bangers che nel 92 non era ancora<br />

nato. We were with you, Zomby.(7.5/10)<br />

Marco Braggion<br />

zu – carBonifErous (ipEcac, 17 fEB-<br />

Braio 2009)<br />

gen e r e: j a z z co r e<br />

Zu non sbaglia un colpo. Non ci pensa neanche<br />

la band romana ad indietreggiare e non pare per<br />

niente propensa a fare passi falsi. Dieci anni di<br />

dischi, critiche positive e tour in tutto il mondo,<br />

non sono riusciti ad appagare il trio romano, che si<br />

tiene distante dalla tentazione di accomodarsi sui<br />

famigerati allori. Dieci anni durante i quali Mai,<br />

Battaglia e Pupillo le hanno provate davvero tutte,<br />

trovando il coraggio, di volta in volta, di ricominciare<br />

da capo, facendo si che ogni esperimento<br />

potesse godere di vita propria. La formula del 3+1<br />

(con il trio a costituire la struttura di svariate collaborazioni)<br />

ha concretizzato questo spirito progressivo,<br />

creando incroci “pericolosi” che di volta in<br />

volta hanno parlato un linguaggio diverso. Thurston<br />

Moore, Steve MacKay degli Stooges, i<br />

jazzisti Ken Vandermark, Han Bennink e<br />

Mats Gustafsson, Nobukazu Takemura, il<br />

violoncellista Fred Lonberg-Holm, la band hip<br />

hop Dälek, sono solo alcuni dei nomi che hanno<br />

vestito i panni del “quarto Zu”, influendo radicalmente<br />

sulle idee del trio ostiense Carboniferous è<br />

un disco importante, un ennesimo punto di svolta.<br />

E per vari motivi. Intanto perché, come prima si è<br />

accennato, piazza la decima candelina sulla torta<br />

di una carriera discografica di tutto rispetto. Poi<br />

perché segna l’inizio<br />

della collaborazione<br />

di Zu per la Ipecac<br />

di Mike Patton,<br />

coronamento di<br />

un incontro musicale<br />

già rodato dal<br />

vivo durante il tour<br />

con la doppia band<br />

Melvins-Fantomas. Terzo, perché per la prima<br />

volta non c’è un “quarto”, almeno in organico.<br />

Già perché di ospiti illustri ce ne sono comunque.<br />

A parte lo stesso Patton, che presta la sua voce<br />

trasformista e un pizzico di Mr. Bungle alla causa<br />

(come definire altrimenti le atmosfere schizofreniche<br />

di Soulympics e Beata Viscera?), si aggiunge<br />

al gruppo anche la chitarra di King Buzzo (Buzz<br />

Osborne) dei Melvins.<br />

Le soluzioni di questa bizzarra equazione sorprenderebbero<br />

anche il più scettico. La durezza metal<br />

e i tempi quasi doom, caratteristici del sound del<br />

trio, che trovano espressione nelle atmosfere dark<br />

di Chthonian e Carbon, lasciano spesso e volentieri il<br />

posto a velocissime cavalcate math-noise (Ostia), a<br />

follie hardcore alla Naked City (Erinys), arrivando<br />

a spingersi fino all’ambient delirante di Orc. Un<br />

pot-pourri coerente, nel quale neanche per un attimo<br />

si perde la bussola dello stile che ormai i Nostri<br />

hanno scolpito nella roccia di un sound granitico,<br />

spigoloso e ormai assolutamente inconfondibile.<br />

(8.0/10)<br />

daniElE follEro<br />

rEcEnsioni a confronto<br />

zzz – running with thE BEast (anti / sElf, dicEMBrE 2008)<br />

gen e r e: w a v e /po s t -p u n K<br />

Mi chiedo dove sia l’hype e soprattutto il buon<br />

gusto. Il duo olandese costituito da Daan (organo)<br />

e Tjess (batteria e voce) varca con imbarazzo<br />

il dancefloor rock degli ‘80 con numeri che sanno<br />

di liofilizzato batcave, scimmiottando dove è lecito<br />

i Sucide, senza chiaramente sfiorare la profondità<br />

ed il fascino del duo Rev/Vega. Del resto se<br />

gruppi “cartoon“ come gli MGMT (visti lo scorso<br />

anno al Primavera Sound di Barcellona meritavano<br />

una simpatica tanica di benzina a bordo palco)<br />

riescono ad ammorbare le fantasie di critici e fruitori<br />

deve pur esserci qualche tarlo.<br />

Il migliore duo con questo tipo di<br />

strumentazione rimangono i Silver<br />

Apples, concedetemelo, una sola<br />

nota per mettere a tacere la prova di<br />

questi pur volenterosi ragazzotti dai<br />

Paesi Bassi. Non posso non pensare<br />

alla schizofrenia dei primi Rah Bras<br />

od alle pur contagiose evoluzioni<br />

dei Dance Disaster Movement, che mai hanno<br />

usufruito di una distribuzione “major“ ed hanno<br />

finito per occupare le poco ambite stanze del dimenticatoio.<br />

Volete ascoltare un organo creepy?<br />

Beh, allora risentitevi il buon vecchio Ray Manzarek,<br />

anche quando si affacciava in Los Angeles degli<br />

X o – se desiderosi di un esempio contemporaneo<br />

– Maya Miller dei Religious Knives. Ammiccanti<br />

e oscuri, su questo binomio costruiscono la loro<br />

fama gli zZz, risultando in ibridi discutibili come<br />

Amanda, un qualcosa tra i Joy Division e l’Iggy<br />

Pop di Cry For Love. Spoil The Party è forse uno dei<br />

brani più spinti e muscolosi con una pressante cassa<br />

in 4, troppo poco per ambire ai luoghi culto<br />

della disco moderna, troppo derivativi per aggiungere<br />

note alla grande tradizione wave britannica.<br />

Da rivedersi. (5.0/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

Sulle prime, il nuovo lavoro degli olandesi Zzz suona<br />

come l’ennesimo gruppetto di maniera neo-wave<br />

preceduto dal suffisso “The” (Departure, Editors<br />

e via discorrendo). Anzi, se ci soffermassimo alla<br />

sola traccia inaugurale, Lover, non potremmo che<br />

pensare ad un clone bramoso di gloria parimenti i<br />

The Killers. Ma Running With The Beast, col<br />

passare degli ascolti, si manifesta disco sinistro e<br />

spigoloso. Prendiamo ad esempio la voce: giocata<br />

su varie tonalità di nero, talvolta evoca lo spauracchio<br />

di Ian Curtis (la ballad finale Islands) e tal’altra<br />

il luciferino baritono di Alan Vega (il<br />

boogie di Grip). La ritmica gravita su<br />

registri post-punk epico alla maniera<br />

dei Simple Minds periodo Empires<br />

and Dance (Spoil The Party) o stile<br />

Psychedelic Furs dei tempi moderni<br />

(Angel, con tanto di sax in coda),<br />

senza lesinare digressioni à la Man<br />

or Astro-Man? (Sign <strong>Of</strong> Love), sortite<br />

swamp-wave (Majeur), acidi pastiche pop tra Beatles<br />

e Beta Band (The Movies) e invettive space-rock<br />

(Sign <strong>Of</strong> Love, Running With The Beast) che, riversate<br />

in ambiti new wave, non possono che mirare ai<br />

mitologici Chrome. Fortunatamente la prima impressione<br />

è stata smentita. L’onda lunga del suono<br />

a cavallo tra ’70 e ’80 non si spegne, e finché non si<br />

intravedono cloni di A Flock <strong>Of</strong> Seagulls all’orizzonte<br />

ci sta bene così. (7.5/10)<br />

gianni avElla<br />

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live report<br />

jaMiE lidEll – livE @ vElvEt, riMini<br />

(24 gEnnaio 2009)<br />

Nessuna band, solo un gregario al piano, all’organo<br />

e ai svariati tricks. In una parola “soul”. Quello di<br />

prim’ordine, quello con anima vibrante e corpo trascinato<br />

al movimento. Quello che si porta dietro la<br />

storia tutta di un genere e non la offende, vedendola<br />

anzi omaggiata da una vocalità fuori dall’ordinario<br />

e da un savoir-faire on stage che elettrizza l’imberbe<br />

ascoltatore che non sa quello che potrà attendersi.<br />

E Jamie, un novello Stevie Wonder bianchissimo,<br />

tiene il palco benissimo con le sue smorfie e le sue<br />

movenze da autistico completamente inebriato dal<br />

proprio senso del ritmo che esterna al meglio facendosi<br />

“human beat box”, basi e bassi grossolani<br />

partoriti dalla bocca ma rigorosamente a tempo che<br />

registra e campiona sul momento per crearsi una<br />

fondamenta da cui sprizzare tutto il suo dilagante<br />

entusiasmo, che è tangibile poiché non filtrato. Certo<br />

la formula “beat campionati + vocalismi” può<br />

allettare (e lo fa eccome) ma alla lunga tende a risultare<br />

un tantinello monotona e la fruizione dei pezzi<br />

(principalmente presi, come ovvio, dall’ultimo Jim)<br />

talvolta richiamano la mancanza di una vera e propria<br />

fullband alle spalle. Tanto basta però per assaporare<br />

qualche brivido e sentirsi per una volta “neri<br />

dentro”, quando soprattutto si arriva ad un finale<br />

da singalong col pubblico sulle note di una “Another<br />

Day” a cappella, di cui prendere e stampare il<br />

testo da esporre sullo specchio come monito positivista<br />

al fine di cominciare al meglio ogni singola<br />

mattina. Insomma un figlio della tradizione e della<br />

bizzarria dell’artista a tutto tondo che per fortuna<br />

è ben attaccato al comunicare le proprie sensazioni,<br />

forse più dal vivo che su disco. E come si dice,<br />

“quando lo spettacolo si fa emozione”…<br />

alEssandro grassi<br />

livE: squartEt + tEstadEporcu –<br />

traffic, roMa (15 gEnnaio 2008)<br />

Rome is burning. Una nebbia padana sorprende<br />

i cieli stellati della capitale e avvolge il Traffic<br />

tutt’intorno. Il locale, dopo il restyling del piano<br />

inferiore, si è assestato in un accogliente mood anglofono<br />

anche su quello superiore. Niente più poster<br />

grindcore, locandine di gruppi emo né gadget<br />

giovanilisti. Siamo adulti e un po’ navigati, quindi<br />

largo all’ordine e alla pulizia. Stasera assisteremo<br />

all’esibizione di due delle costole della Jazzcore<br />

Inc.: Squartet e Testadeporcu. Romani e con un<br />

disco uscito di recente i primi (Uwaga!, Jazzcore<br />

Inc, 2009), bolognesi e in procinto di entrare in<br />

studio i secondi. Come da copione capitolino, il<br />

concerto inizia tardi; i tre Squartet, Manlio Maresca<br />

alla chitarra, Fabiano Marcucci al basso<br />

e Marco Di Gasbarro alla batteria, prendono<br />

possesso del palco mentre dalla consolle fa capolino<br />

la testa rasata di Mr. Jamming (soundman e<br />

componente del gruppo ad honorem). Inaugura la<br />

scaletta Il piccolo samaritano, seguita da vari estratti<br />

da Uwaga! (Perky Pat, L’infame, Sexy Camorra). Il trio,<br />

compattissimo, attacca, sbanca, si ferma, cambia<br />

ritmo, ricomincia. I pezzi scivolano metronomici<br />

e goliardici uno dentro l’altro, supportati dal genio<br />

chitarristico di Maresca che rimanda tanto a certo<br />

virtuosismo pre-war quanto al rock e al punk,<br />

il tutto annegato in un fertile territorio jazz, regno<br />

di febbrili ostinati e cambi di tonalità. Il basso<br />

emette delle bordate sì massicce e armoniche che<br />

quasi non ci si accorge che nei primi pezzi l’ampli<br />

sull’impianto è off. E la batteria è il cuore pulsante<br />

nella corsa scatenata dietro ad un autobus di periferia<br />

che va a tutta velocità. Altro che attitudine<br />

punk, qui si prende il testimone di gruppi come No<br />

Means No, Pak e Victims Family sfoderando<br />

jaMiE lidEll<br />

però un alto tasso di personalità. Musica tosta ma<br />

fruibile, intelligente ma mai leziosa, schietta come<br />

la romanità, energica e contagiosa.<br />

Chiudono il set Radau e un pezzo nuovo, con Carlo<br />

Conti (Neo) al sax e il suo dialogo overlapping<br />

con il funk della sezione ritmica.<br />

Dopo una breve pausa si torna giù e, come per<br />

accoglierci al meglio, partono le basi un po’ losche<br />

dei Testadeporcu aka Diego D’Agata (basso, ex-<br />

Splatterpink) e Claudio Trotta (batteria, già<br />

Deus Ex Machina, storica prog-band che forse<br />

qualcuno, più attempato della sottoscritta, ricorderà).<br />

I Testa sono un monolite spaccato e ricomposto<br />

un’infinità di volte e se la forma e il colore<br />

sono quelli di un grindcore “anomalo”, dalle crepe<br />

fuoriescono gli adorati spettri della contemporaneità.<br />

Non a caso i due definiscono la loro musica<br />

punktemporary, punk-temporanea. Ed è il tempo<br />

il terreno dove si gioca un po’ tutta la partita: pezzi<br />

velocissimi, stoppati all’inverosimile, dove la schi-<br />

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© francesca garattoni


zofrenia jazzcore mostra ora la maschera tecnica<br />

ora quella iconoclasta. Il tutto accompagnato da<br />

un atteggiamento ironico, di metacritica nei confronti<br />

del punk e della musica contemporanea di<br />

matrice intellettuale. Sicuramente meno digeribili<br />

dei romani, ma senz’altro coinvolgenti e da approfondire.<br />

All’uscita seguono rituali di aggregazione,<br />

finchè il Traffic chiude le serrande e un singolare<br />

personaggio con una farfalla in testa cerca di convincerci<br />

ad accompagnarlo a ballare l’house. Vagli<br />

a spiegare che oltre a vivere veloce bisogna morire<br />

vecchi. Vagli a spiegare che Roma brucia.<br />

francEsca Marongiu<br />

adEM (vElvEt, riMini, 29 gEnnaio<br />

2009)<br />

Non ci dovrebbe essere bisogno d’altro che di una<br />

bella voce e di un’atmosfera piacevolmente rilassata,<br />

quando si assiste ad un concerto con pochi<br />

adEM<br />

intimi. Che le corde dell’anima siano toccate in<br />

santa pace senza alcun filtro; poco importa se parte<br />

delle canzoni qui proposte non sono autografe,<br />

ma quando la resa possiede una fedeltà emotiva<br />

tale da riempire il cuore, si ha la netta certezza che<br />

l’obbiettivo prefissato è stato raggiunto, almeno<br />

osservando i volti degli astanti.<br />

Ad accompagnare il simpatico turco-inglese Adem<br />

Ihan ci sono due ospiti d’eccezione che si rivelano<br />

decisive per la resa dell’intenso live: Nancy Elizabeth<br />

– già esordiente per conto della Leaf fra folk<br />

ed incanto un po’ alla Joanna Newsom – allo<br />

xilofono e all’organo e Sarah Jones – batterista dei<br />

new wavers New Young Pony Club e dei “nuovi”<br />

Bat For Lashes – dietro le pelli.<br />

Un inizio in punta di piedi e una voce toccante,<br />

quella del Nostro, che comincia in solitaria prendendo<br />

per mano la sua acustica e la sua timidezza,<br />

e traghettando in soffici momenti sonori sulle onde<br />

di Love And Other Planets e della splendida Long Drive<br />

Home, per poi abbracciare la minuta folla quando<br />

il trio si compie, grazie ad armonie vocali pulite e<br />

veramente rare. Dall’ultimo Takes scorrono le celebri<br />

Hotellounge e Tears Are In Your Eyes che vibrano<br />

di nuova vita nelle corde del gruppo, per poi giungere<br />

alle celestiali derive di Slide di Lisa Germano<br />

e prendere vigore ed energia in Everything You Need<br />

e Launch Yourself. Epico il finale sulle note di Laser<br />

Beam dei migliori Low che dalle mani del terzetto<br />

arriva diretta e pregna di emozione fra un falsetto<br />

di Adem e note solitarie di chitarra. Per una serata<br />

dove l’essenzialità del folk funge da pennello per<br />

dipingere un’atmosfera calda e complice, viene da<br />

sorridere per la gioia, considerando quanto a volte<br />

sia necessaria la semplicità solo stando a guardare<br />

la grazia di Sarah che pacatamente, per tutto il<br />

tempo, ha usato come grancassa una valigia…<br />

alEssandro grassi<br />

giant sand – circolo Magnolia, Milano<br />

02/02/2009<br />

Parafrasando Forrest Gump, assistere a un concerto<br />

dei Giant Sand - o di Howe Gelb, che poco<br />

cambia - equivale ad aprire una scatola di cioccolatini.<br />

Nel senso che non sai mai bene che farà e<br />

come lo farà: un pregio/difetto connaturato al suo<br />

rapportarsi alla musica in modo arruffato, sfruttando<br />

il caso e il momento. Se l’ispirazione c’è e<br />

i sodali sono all’altezza (nello specifico i danesi<br />

Thoger Lund al contrabbasso, l’abile Peter Dombernowsky<br />

dietro la batteria e il chitarrista Anders<br />

Pedersen, più la concittadina di Gelb Lonna Kelley<br />

- sguardo perso degno di David Lynch e incinta di<br />

un paio di mesi - alla seconda voce) può nascere la<br />

serata memorabile, dove si passa come nulla fosse<br />

da rock turgidi e aciduli a siparietti pianistici ragtime,<br />

da ballate country impolverate al jazz-lounge,<br />

talvolta tutto insieme splendidamente. Altrimenti<br />

tocca sorbirsi uno sbraco approssimativo, i cui artefici<br />

paiono vagare autonomamente dietro a una<br />

bussola smagnetizzata.<br />

Come con ogni album cui il Nostro ha messo<br />

mano in venticinque anni di carriera, insomma,<br />

tutto il bello (tanto) e il brutto (poco, per fortuna)<br />

stanno in questo acuto understatement, nel gioco<br />

- tratti somatici e sguardi luciferini ma sornioni inclusi<br />

- con la musica americana, seguendo le regole<br />

peculiari di un enciclopedismo simpaticamente<br />

sconclusionato. Gli ci è voluto del tempo, a Howe,<br />

per riuscire a tramutare questo ipotetico limite in<br />

un tratto caratteristico che lo rende riconoscibile e<br />

addirittura geniale. Anche quando gli impasti vocali<br />

traballano un po’ o, all’inizio del concerto, la<br />

sezione ritmica e l’armonia suonano scollate. Basta<br />

poco per scaldarsi, tuttavia: tra un aneddoto e<br />

un inedito, una toccante The Desperate Kingdom <strong>Of</strong><br />

Love sottratta a P. J. Harvey e il medley prelevato<br />

dal sottovalutato Rock Opera Years, arrivi all’ora e<br />

mezza che manco t’accorgi. Allampanato, baffuto<br />

e di residenza desertica, Gelb ricorda Spike, il fratello<br />

di Snoopy. Rispetto al quale ha contraccambiato<br />

la scalogna con una creatività che scintilla sì<br />

a intermittenza, ma che quando brilla scioglie la<br />

neve nell’anima come poche altre. Lui non se ne<br />

preoccupa, visto che da tempo ha capito di essere<br />

- e difatti ce lo canta pure… - quel che si definisce<br />

un classico.<br />

giancarlo turra<br />

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WE ARE DEMO #33<br />

I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di<br />

S&A. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi.<br />

shaBadà orchEstra - Ep<br />

Quattro tracce per cambiare idea riguardo alla<br />

patchanka, ricettacolo di sonorità parecchio abusate<br />

in chiave combat folk al punto da provocarci l’orticaria<br />

al solo sentirla nominare. Ma, appunto, gli Shabadà<br />

Orchestra arrivano ed è un balsamo, un unguento,<br />

un bicchiere di rhum e polvere da sparo. Aromi mediterranei<br />

imbizzarriti, estro balcanico, sentori marsigliesi<br />

e aspro spasmo black (errebì + Africa), il tutto<br />

cucinato nel calderone partenopeo che non significa<br />

autoghettizzarsi nel dialettale, infatti l’inno tabagista<br />

40 sigarette potrebbe benissimo essere un Capossela<br />

incazzato e sbarazzino, mentre la sordidella e bluesy<br />

Il gabbiano affonda il bisturi nella piaga strattonando<br />

locale e universale come una favola noir. Tutto in loro<br />

è contagioso, dalla voce - a metà strada tra Peppe Voltarelli<br />

e Rocky Roberts - alla foga sferzante della chitarra,<br />

dalla ruspante collusione sax-fisarmonica (con<br />

sorprendenti link a certo jazz etiope) ai nomignoli<br />

che si sono scelti (roba tipo Sdugtmbò e LuAplles). Si<br />

attende a breve l’esordio su lunga distanza. Qualcosa<br />

mi dice che non passerà inosservato.(voto:7.2/10 myspace.com/shabadaorchestra<br />

) (s.s.)<br />

oMosuMo – proMo Ep<br />

Scartabellando tra i crediti di questi Omosumo finiamo<br />

per scoprire alle chitarre un Roberto Cammarata<br />

già passato per We Are Demo con gli ottimi<br />

Waines e al basso un Settimo Serradifalco, principale<br />

attivista del progetto Donsettimo. Artisti, entrambi,<br />

di buon livello, a cui si aggiungono Giuseppe Megna<br />

alla batteria e un Angelo Sicurella alla voce definito<br />

dalle note stampa come “il miglior cantante rock di<br />

Palermo”. Sia come sia, un fatto è certo: l’EP in oggetto<br />

punta i riflettori su una formazione che mostra<br />

carattere da vendere, pur frequentando compagnie<br />

poco raccomandabili per gli amanti dell’originalità<br />

a tutti i costi. Nello specifico, new wave (Sensazioni di<br />

libertà), post-punk, ma anche blues e hard (quasi) à<br />

la Led Zeppelin (Industriale e Di terra e di me), filtrati<br />

da una scrittura che riesce nell’impresa di mescolare<br />

le carte per suonare, infine, originale. (voto: 7.2/10<br />

myspace.com/omosumo ) (f.z.)<br />

drEsda – wE arE thE supErfunkErs<br />

Più che post-rock, malinconie strumentali concepite<br />

per pellicole struggenti, crescendo umorali su arpeggi<br />

rinsecchiti, stratificazioni in punta di plettro intense<br />

ed evocative. Il nome è Dresda – ripreso dall’insuperabile<br />

Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut – e l’ideologia<br />

che serra le fila pare essere quella di “descrivere ambientazioni<br />

con la musica per rendere i suoni parte<br />

di una scena a più dimensioni”. Tra field recordings<br />

e elettriche urticanti, tastiere e glockenspiel, basso e<br />

theremin, i quattro genovesi riescono nell’impresa,<br />

alternando momenti di stasi a distorsioni violente e<br />

consegnando ai posteri un Ep inquietante e catartico.<br />

(voto: 7.1/10 myspace.com/wearedresda )(f.z.)<br />

giuda Matti - Ep + il trittico dEl<br />

MalE<br />

Quartetto modenese - e non fanno nulla per nasconderlo<br />

- i Giuda Matti vantano un repertorio breve ma<br />

impudente, EP del 2008 e il recentissimo Il trittico<br />

del male. Nel primo fregola punk-pop-folk in guazzo<br />

sixties come dei Blur circuiti da Ivan Cattaneo e<br />

strattonati da mancanza di riguardo Skiantos, nel<br />

secondo uno spurgarsi l’anima in tre atti senza soluzione<br />

di continuità, rievocazioni beat tra il perverso e<br />

lo scazzato (con tanto di pronuncia paraenglish alla<br />

Mal), oppure una versione demenzial-psych e ingrugnita<br />

degli <strong>Of</strong>flaga Disco Pax. Che è un po’ come<br />

cercare nuovi modi di circoscrivere l’ennui periferico<br />

prima della bucolica (falsa) resurrezione finale. In<br />

loro c’è del tragicomico che non posso fare a meno di<br />

adorare.(voto:7.0/10 myspace.com/giudamatti) (s.s.)<br />

sundancE capoEira – a low choicE Ep<br />

C’entrano i Giardini di Miro’ e Il Nucleo, dal momento che in<br />

formazione militano il bassista dei primi, Mirko Venturelli, e il<br />

bassista dei secondi, Mauro Buratti, ma questi Sundance Capoeira,<br />

nonostante alcune analogie nell’approccio alla musica, fanno<br />

storia a sé. Anche perché il post-rock qui si trasforma in digressioni<br />

eteree e inafferrabili, suoni morbidi e ovattati, sulle ali di una voce,<br />

quella della svedese Karin Nygren, che funge da collante armonico<br />

tra gli strumenti. La vena è inaspettatamente pop – nei limiti<br />

concessi da una forma che privilegia le sfumature -, l’incedere lento<br />

e avvolgente, il sentire decisamente godibile, figlio certo dell’esperienza dei musicisti coinvolti<br />

ma anche di un tocco magico che riesce a semplificare una musica per sua natura raffinata e<br />

complessa.<br />

(voto: 7.3/10 web: myspace.com/sundancecapoeira ) (f.z.)<br />

forManta! - f! Ep<br />

Assieme dall’estate del 2008, i romani Formanta!<br />

sono un quartetto col pallino per l’indie pop viziato<br />

wave, roba garrula ma tesa, graffiante ma con una<br />

sua gentilezza di base, informata alla nostalgia degli<br />

anni in cui ti capitava di intercettare nelle radio<br />

e sulle piste da ballo le ultime fatiche di Blondie o<br />

Smiths, di Pretenders o Television, però con quella<br />

disinvoltura che ti regala un approccio autorevole e<br />

sbarazzino alla materia. Ovvero: ci vogliamo seriamente<br />

divertire, secondo la lezione Broken Sovial<br />

Scene e Blonde Redhead per intenderci. In mancanza<br />

di intuizioni davvero geniali - nelle cinque<br />

tracce di questo F! si raggiunge al più un’intrigante<br />

gradevolezza - mi sembra un buon punto di partenza.(voto:6.9/10<br />

myspace.com/formantamusic ) (s.s.)<br />

vicolo Margana - a pErfEct lifE<br />

I Vicolo Margana sono sostanzialmente un duo,<br />

Francesco Antonelli e Fabio Bizzarri, attivi dai primi<br />

anni settanta e quindi non proprio debuttanti<br />

allo sbaraglio, però è fresco questo loro progetto che<br />

esordisce appunto con A Perfect Life, undici tracce<br />

all’insegna di una calda electro ambient in cui<br />

confluiscono i retaggi prog-rock di entrambi. Detto<br />

che ad aiutarli intervengono il basso di Andrea<br />

Castelli e le voci di Elena Antonelli e Alice Bardini,<br />

direi che il risultato finale è un ineffabile ibrido tra<br />

i Massive Attack più atmosferici, un pizzico di Popol<br />

Vuh stregati Cocteau Twins, Steve Roach alle<br />

prese con fregole etno, i Floyd persi in un sogno<br />

industrial-psych. A tratti sfiorano certa deprecabile<br />

effettistica new age, ma in genere riescono a mantenersi<br />

aggrappati ad un’idea estetica abbastanza<br />

precisa, solenne e suggestiva. Malgrado non sia il<br />

mio genere, mi sono piaciuti. Vorrà pur dire qualcosa.(voto:6.8/10www.vicolomargana.it/(s.s.)<br />

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th e sm i t h s<br />

te e n Wave Po P<br />

Gli Smiths sono tornati a far parlare di loro: in primis con l’attuale uscita dell’ultimo album di<br />

Morrissey, indirettamente con la pubblicazione della Rhino di un cofanetto contenente tutti i loro<br />

singoli in versione originale, e (forse) direttamente per il vociferare di una loro possibile reunion.<br />

Quale occasione migliore per tornare a parlare della band che ha fatto la storia del pop, brit e non<br />

solo, e del suo mondo “acquatico”?<br />

Testo: Andrea Provinciali<br />

Non avete mai visto fare surf a Manchester, grigia<br />

città del North West dell’Inghilterra? Peccato,<br />

perché un mercoledì (da leoni) di quasi trent’anni<br />

fa l’aria divenne improvvisamente limpida, la<br />

primavera esplose prematuramente e una grande<br />

onda, di dimensioni gigantesche, raggiunse il cuore<br />

metropolitano con il suo incedere irrefrenabile.<br />

In quel momento quattro ragazzi qualunque<br />

si fecero trovare pronti all’appuntamento, e cavalcarono<br />

quell’onda per alcuni anni, disegnando<br />

solchi sublimi che innaffiarono la loro città prima,<br />

l’Europa poi, il mondo intero infine, come se non<br />

avessero fatto altro nella loro vita. Certo, non tutto<br />

dura all’infinito, ma fin quando riuscirono a domare<br />

a loro piacimento quell’incontenibile massa<br />

d’acqua, beh, bisogna ammettere che fecero immedesimare<br />

molti nella loro impresa, portandoli<br />

metaforicamente con loro lassù, su quella cresta<br />

esuberante. Perché quella non era un’onda qualunque,<br />

era quella eterna dell’Adolescenza che da<br />

sempre e ovunque avvolge tutti, lasciando dietro<br />

di sé vortici di rimpianti, ricordi, sogni e illusioni.<br />

Ma, si badi bene, qui adolescenza è da considerarsi<br />

con la A maiuscola. Infatti, in una società dove<br />

i principi e le certezze sono smarriti, questa condizione<br />

vitale si dilata all’infinito perdendo la sua<br />

limitata accezione temporale. E gli Smiths sono<br />

riusciti a formalizzarla e sublimarla perfettamente<br />

in canzoni pop da tre minuti che proprio come il<br />

moto ondoso hanno invaso tutto e tutti, nel tempo<br />

e nello spazio, fino ad oggi.<br />

Questi signor Rossi qualunque, questi ragazzi della<br />

porta accanto, fin dalla pubblicazione del primo<br />

singolo, hanno parlato a generazioni su generazioni,<br />

determinando tuttora il panorama musicale,<br />

pop e non solo, inglese e non solo. A loro devono<br />

moltissimo band come Housemartins e The<br />

Wedding Present prima, The Stone Roses<br />

poi, Suede, Blur e Pulp pochi anni più tardi, ma<br />

anche il college rock e le miriadi di gruppi emocore<br />

oltreoceano sul finire dei Novanta; non solo,<br />

addirittura compagini post-hardcore e post metal<br />

come Quicksand e Deftones hanno dichiarato<br />

104 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 105


tutto il proprio amore per Morrissey e Co.<br />

Le loro canzoni hanno espresso il linguaggio<br />

dell’amore, quello ideale ma disperato perché difficilmente<br />

avverabile, riposizionando l’uomo e la<br />

sua sfera personale al centro di tutto. Una vera e<br />

propria romantica rivoluzione<br />

pop, per i canoni<br />

estetici imperanti<br />

all’alba degli Ottanta.<br />

Per quattro anni, la<br />

loro spinta artistica è<br />

riuscita a tener testa a<br />

quell’onda irrefrenabile,<br />

ma poi - si sa - il successo<br />

forse arricchisce<br />

economicamente ma<br />

spegne interiormente<br />

e quel moto sinusoidale<br />

ha continuato la sua<br />

corsa disarcionandoli<br />

in maniera definitiva.<br />

Giusto così: l’alba e il<br />

tramonto, il giorno e la<br />

notte, la vita e la morte<br />

fanno parte della quotidianità, della natura e<br />

dell’umanità, e chi più della band mancuniana<br />

ha espresso meglio questi concetti? Per cui sentir<br />

vociferare oggi di una loro possibile reunion ci<br />

fa sorridere amaro, perché sappiamo bene che le<br />

canzoni da loro scritte in quegli anni continuano a<br />

propagarsi e a consolarci come lunghe onde infinite.<br />

Non saremmo surfisti, ma quel dolce suono di<br />

risacca ci fa sentire come in cima alla cresta pronti<br />

per l’adrenalinica discesa. E no, non pensiamo che<br />

dei redivivi Smiths possano rievocare ciò che fu,<br />

ciò che è stato e ciò che sarà per sempre.<br />

han d in gl o v e<br />

Manchester, primi anni Ottanta, piena era post<br />

punk. C’è un ragazzo col ciuffo, eccentrico e motivato,<br />

che orbita intorno all’ambito musicale della<br />

città, ne scrive su alcune riviste locali, ma soprattutto<br />

ne incarna lo spirito più fanatico: diviene ad-<br />

dirittura presidente del fan club inglese delle New<br />

York Dolls. Assiste a ogni concerto, aiuta le piccole<br />

case discografiche, cerca in ogni modo di alimentare<br />

quel fermento artistico che sente intorno<br />

a sé, che sente dentro di sé. Si chiama Stephen<br />

Patrick Morrissey<br />

“Moz”, è nato<br />

il 22 maggio 1959<br />

e ha forti e radicate<br />

origini irlandesi.<br />

Questo narrano<br />

le cronache, ma<br />

in realtà tutto si<br />

è originato prima,<br />

molto prima,<br />

quando un timido<br />

ed effeminato ragazzino,<br />

cresciuto<br />

in un duro contesto<br />

sociale, per<br />

fuggire tutto ciò e<br />

dalla sua esterna<br />

apparenza di sfigato<br />

si rinchiude<br />

nella sua cameretta consacrando ogni speranza e<br />

felicità agli idoli immortalati nei poster appesi sulle<br />

sue quattro mura, tra tutti David Bowie, Roxy<br />

Music e New York Dolls. Brama il successo, ma<br />

soprattutto riflette su di sé, sulla sua condizione. E<br />

infatti la struggente poetica degli Smiths non può<br />

prescindere dai dolori del giovane Morrissey.<br />

Chi invece interpreta il mondo su scale armoniche<br />

è John Martin Maher “Marr”. Nato il 31<br />

ottobre 1963, di lui c’è poco da dire sennonché sia<br />

un dotato chitarrista dal gusto melodico superiore<br />

alla norma. I suoi polpastrelli riescono con una facilità<br />

disarmante a far scaturire arcobaleni di note,<br />

a metà tra la pioggia e il sereno, per l’appunto.<br />

Se la poetica degli Smiths è tutta opera di Moz,<br />

non c’è dubbio che l’incisività pop dei brani sia<br />

tutta farina del sacco di Marr: ecco i presupposti<br />

della sintesi perfetta in eterna dualità. Ma come si<br />

incontrano questi poli contrapposti? Tramite mi-<br />

steriosi e segreti bivi del destino, come sempre.<br />

Entrambi orbitanti in band minori cittadine, si<br />

sfiorano in un gruppo chiamato Nosebleed. I<br />

due, buttando giù alcune canzoni insieme, annusano<br />

l’aria, guardano l’orizzonte, sentono il boato<br />

lontano e, nella quiete contratta prima della tempesta,<br />

scambiandosi occhiate complici, decidono<br />

di prepararsi per cavalcare l’onda insieme al<br />

batterista Michael Joyce e al bassista Andrew<br />

Rourke. Alcune prove per testare l’equilibrio e i<br />

quattro sono pronti. L’oceano si allunga ritraendosi,<br />

un’irrefrenabile corrente li risucchia fin sulla<br />

cresta spumeggiante, l’adrenalina è al massimo: è<br />

tempo del carpe diem, non c’è un istante in più per<br />

pensare.<br />

Attorno al gruppo si crea sin da subito un gran movimento<br />

di manager e discografici, perché il primo<br />

demo registrato dai Nostri riluce di predestinazione.<br />

Nel 1982 il verbo degli Smiths inizia così a varcare<br />

i confini mancuniani,<br />

conquistando<br />

e fidelizzando un po’<br />

ovunque in Gran<br />

Bretagna: i concerti<br />

cominciano ad essere<br />

sold out, e addirittura<br />

la EMI si interessa<br />

a loro. Ma è il più<br />

lesto e lungimirante<br />

Simon Edwards<br />

della Rough Trade a<br />

farli firmare, assicurandoseli<br />

per sempre.<br />

L’onda che arriva<br />

è gigantesca e vertiginosa,<br />

e i Nostri<br />

sembrano non aspettare<br />

altro. Balzano<br />

in piedi e in quel giorno di primavera del maggio<br />

1983 scivolano a tutta velocità e a proprio agio nel<br />

ventre cristallino, come se non avessero mai fatto<br />

altro. Il loro primo singolo, Hand In Glove, sono tre<br />

minuti e ventitré secondi di pura incisività melo-<br />

dica, con un impatto pop di sicuro successo. Uno<br />

scheletro essenziale di basso e batteria sul quale si<br />

aggiungono le sei corde di Marr, qui ancora trattenute<br />

in un refrain ripetitivo ma già in grado di<br />

accendere quel virtuoso e intermittente prisma di<br />

colori che le contraddistinguerà splendidamente,<br />

un’armonica a impreziosire, ma soprattutto la<br />

voce di Morrissey a incidere le prime ferite con i<br />

suoi emozionanti saliscendi e con la sua malinconica<br />

forza comunicativa.<br />

Questi i pregi dal punto di vista stilistico-musicale.<br />

Chiari sono i riferimenti allo spleen attitudinale<br />

estrinsecato da band come Joy Division, Television<br />

e Fall, ma gli Smiths trascendono ogni limite<br />

post punk, creando una loro personale e originale<br />

idea pop, guardando ancora più indietro nel tempo,<br />

verso i Sixties. Si canta di un amore idealizzato,<br />

quasi ultraterreno nella sua semplicità, perché<br />

inviso dal perbenismo imperante.<br />

Il booklet del 45 giri,<br />

che in copertina immortala<br />

in una foto<br />

rétro un uomo nudo<br />

di schiena (tratta dal<br />

libro Il maschio nudo<br />

di Margaret Walters<br />

del 1978) ritenuta<br />

scandalosa alla sua<br />

uscita, inizia quella<br />

che sarà l’estetica<br />

iconografica degli<br />

Smiths: provocatoriamente<br />

romantica con<br />

rimandi letterari e cinematografici.<br />

Presa<br />

la decisione di non<br />

effigiare mai la band<br />

o qualche suo componente<br />

nei booklet, è Morrissey stesso a scegliere<br />

le immagini che andranno a identificare ogni singolo<br />

e ogni album della band. Tale decisione, oltre<br />

che alimentare inevitabilmente un alone di mistero<br />

intorno alla band, si fa rivelatrice della ricerca<br />

106 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 107


estetica del cantante: la sua straordinaria “omo”<br />

sensibilità feticistica lo conduce ad esorcizzare<br />

ogni frustrazione esistenziale nell’idealizzazione<br />

del bello trascendentale. Ecco perché le copertine<br />

immortalano star cinematografichedegli<br />

anni Cinquanta<br />

e Sessanta nella loro<br />

pura e spensierata<br />

eleganza: sono i miti,<br />

come Alain Delon o<br />

James Dean, ad aver<br />

segnato per sempre<br />

la sua adolescenza,<br />

catalizzando i suoi<br />

sogni e desideri.<br />

Oppure sono scatti<br />

anticonformisti, pregni<br />

di rimandi androgini,<br />

omosessuali<br />

o antimilitaristici, a<br />

rappresentare il lato<br />

più coraggioso e oltraggioso,<br />

difficile da<br />

esprimere quotidianamente. Proprio per questo<br />

l’impatto grafico degli Smiths fa tutt’uno con la<br />

loro musica, diviene complementare perché si erge<br />

come perfetto contraltare alle canzoni. Mentre veniamo<br />

straziati da testi che cantano delle difficoltà<br />

della vita, di ipocrisie e sogni infranti, si resta affascinati<br />

visivamente desiderando di esser rapiti dal<br />

mondo-copertina.<br />

Ma gli Smiths hanno causato un terremoto socioartistico<br />

non solo per la loro iconografia. Il fatto<br />

è che in quegli anni il pubblico non era abituato<br />

a tanta sensibilità estetica: erano tempi in cui il<br />

punk e il suo post avevano innalzato l’oscurità, il<br />

nichilismo e la dissonanza a paradigmi estetici, il<br />

nascondere e il decolorare le emozioni e le frustrazioni<br />

dietro un atteggiamento iconoclasta. Con gli<br />

Smiths tutto ciò viene ribaltato romanticamente<br />

nel segno della naturalezza e della spontaneità: se i<br />

problemi ci sono essi devono sbocciare luccicanti e<br />

colorati come fiori, non più celati. Fanno tutto ciò<br />

con leggiadri arpeggi sixties, con falsetti femminei<br />

sopra le righe, con maglioncini a collo alto, con liriche<br />

sofferte ma giocose, romantiche ma pensose.<br />

Certo, anche tutte le<br />

band inglesi orbitanti<br />

intorno alla Sarah<br />

Records, con tutte<br />

le loro delicate intermittenze<br />

pop, si muovevanoparallelamente<br />

ai Nostri, causando<br />

simili scosse sismiche<br />

al contesto musicale<br />

preesistente. Ma<br />

non di pari intensità<br />

e potenza mediatiche<br />

di quelle smithsiane:<br />

Morrissey e<br />

Co., infatti, unendo<br />

autenticità, genio e,<br />

soprattutto, carisma<br />

sono riusciti a farsi<br />

trovare nel posto giusto<br />

al momento giusto, e la Storia li ha innalzati<br />

e mitizzati, azzerandogli apparentemente la concorrenza.<br />

Lo stesso motivo per cui l’amore dei fan<br />

nei loro confronti è infinito quanto l’odio provocato<br />

dai loro detrattori. Cose che capitano solo alle<br />

grandi band, purtroppo.<br />

the s e ch a r M i n g Me n<br />

La pubblicazione di altri due 45 giri, This Charming<br />

Man - allegro e sbarazzino riff chitarristico,<br />

sul quale il melodioso falsettare di Moz declama<br />

una storia sulla ricerca di maturità di un ragazzo<br />

seduto in un auto affianco ad un uomo affascinante<br />

- e What Difference Does It Make?, fa degli Smiths<br />

il nome nuovo su cui puntare. I quattro sembrano<br />

danzare a proprio piacimento su quell’onda vorticante,<br />

ora lambendone la cresta con manovre radicali,<br />

ora scivolando lineari col sole negli occhi.<br />

Dopo un trittico di singoli capolavoro come que-<br />

sto, l’attesa del vero debutto discografico su grande<br />

formato si fa a dir poco spasmodica. Ma l’uscita di<br />

The Smiths slitta continuamente fino a febbraio<br />

del 1984.<br />

Eccolo qua l’esordio ufficiale: copertina impeccabile<br />

e di forte impatto e undici canzoni che hanno<br />

veramente poco da farsi recriminare. Si va da<br />

melense ballate bucoliche (Reel Around The Fountain)<br />

a giovanili frenesie umorali (Still Ill), fino a malinconiche<br />

introspezioni (Suffer Little Children e I Don’t<br />

Owe You Anything). Da evidenziare come Marr sembri<br />

apparentemente soltanto accompagnare, con<br />

giri di chitarra quasi ossessivi nel suo ripetersi, la<br />

voce di Morrissey, salvo poi constatare che proprio<br />

questo loro duettare a distanza si elevi sopra il più<br />

monotono schema post punk da cui prendevano<br />

le mosse, dando vita a ciò che sarà il loro personale<br />

sound. Troppa però la differenza tra l’album e<br />

quei tre preziosi 45 giri. E questo sarà un “difetto”<br />

che i Nostri mai perderanno: saranno sempre più<br />

incisivi e a proprio agio nel piccolo formato che<br />

non negli album veri e propri.<br />

Dimostrazione di ciò giunge sul finire del 1984 con<br />

l’uscita di due nuovi singoli, nei quali una glassa<br />

pop multicolore ricopre un cuore tenero e dolce<br />

di marzapane che al solo assaggio la primavera<br />

sembra esplodere nel palato e tutt’intorno: Heaven<br />

Knows I’m Miserable Now e William, It Was Really Nothing.<br />

Ecco qua tutta l’incisività pop degli Smiths, la loro<br />

dualità che si diverte a intrecciarsi continuamente,<br />

mostrando simultaneamente il dolore e la cura, il<br />

giorno e la notte, il riso e le lacrime, a volte addirittura<br />

divertendosi a scambiare di posto questi<br />

estremi contrapposti. E che sorpresa scoprire<br />

come b side del secondo 45 giri un brano che in<br />

un minuto e cinquantuno secondi provoca intime<br />

rivoluzioni estasianti: Please Please Please Let Me Get<br />

What I Want.<br />

Il 1984 passerà alla storia come l’anno più proficuo<br />

degli Smiths. Infatti, con solo un album e<br />

una manciata di singoli alle spalle, la Rough Trade<br />

decide di pubblicare addirittura la prima rac-<br />

colta della band, Hatful <strong>Of</strong> Hollow. Adesso è<br />

l’etichetta a cavalcare le onde create dal passaggio<br />

di quella smithsiana, e queste profumano di<br />

soldi e di affari. Male di poco, comunque. Perché<br />

la tracklist dell’album è di quelle che passano alla<br />

storia. Ci sono tutti i pezzi più riusciti dai Nostri,<br />

con l’inclusione di b side e riletture di brani iniziali<br />

composte per l’occasione. Un disco che sintetizza<br />

perfettamente tutta la portata pop rivoluzionaria<br />

della band nei suoi primi anni di attività, che per<br />

molti hanno rappresentato la vetta più alta della<br />

loro produzione artistica. Ma non solo, scorrendo<br />

i titoli se ne scorge uno nuovo di zecca, How Soon<br />

Is Now?: canzone devastante, che oltre cambiare la<br />

vita di molti fans, detterà anche il nuovo percorso<br />

artistico-umano del gruppo.<br />

how so o n is no w ?<br />

Il brano viene anche pubblicato come singolo nel<br />

febbraio del 1985. È un vortice di riverberi ed effetti,<br />

ora, a scandire l’incedere chitarristico, l’atmosfera<br />

si fa contratta e umbratile, la sezione ritmica<br />

si fa più pensierosa, in altre parole si perde<br />

quell’innocente andatura naif e spensierata che li<br />

aveva contraddistinti fino ad allora, ma si guadagna<br />

stupendamente in profondità. Il mood è avvolgente,<br />

lisergico, sul quale la voce di un inquieto<br />

Moz non fa che spennellare sfumature ancor più<br />

drammatiche fino a raggiungere un climax emozionale<br />

da lasciare tramortiti. E poi quel testo sulla<br />

debolezza e sulla disperazione umana e sul bisogno<br />

incommensurabile di amore che molto probabilmente<br />

mai arriverà.<br />

Se fino adesso gli Smiths piroettavano su quell’onda<br />

indomabile da nessuno se non da loro, con How<br />

Soon Is Now? si intubano nel suo ventre buio e materno<br />

per uscirne maturati e più consapevoli dei<br />

propri mezzi. Ma si sa, quando si cresce, quando<br />

il successo ci conquista totalmente, a volte è facile<br />

disconnettersi da quel mondo che fino a poco<br />

prima ci era familiare, seppur ostile: l’adolescenza.<br />

È come quando un bravo surfista troppo sicuro<br />

diminuisce l’attenzione e viene travolto. Ecco, gli<br />

108 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 109


Smiths hanno rischiato di fare la stessa fine, e menomale<br />

che il loro secondo album, Meat Is Murder,<br />

ne risentirà solamente in parte, continuando<br />

però a confermare la teoria della loro predisposizione<br />

al piccolo formato.<br />

Il disco pur rappresentando un mezzo passo falso,<br />

racchiude in sé buoni episodi,soprattutto per le liriche<br />

sempre più pungenti e intelligentemente impegnate<br />

di Morrissey. Bellissimo booklet, come sempre,<br />

che avvolge dieci<br />

tracce che prendono<br />

in qualche modo le<br />

distanze da quella<br />

spontanea semplicità<br />

dei trascorsi recenti.<br />

Emblematico di ciò<br />

è il minutaggio delle<br />

canzoni che aumentaconsiderevolmente<br />

la propria media<br />

rispetto ai tre minuti<br />

pop. Non dispiacciono<br />

i virtuosismi<br />

musicalmente acidi<br />

e liricamente violenti<br />

di Barbarism Begins<br />

At Home, la melodica<br />

circolarità pop di The<br />

Headmaster Ritual e le<br />

quiete dilatazioni sonore delle title track e del singolo<br />

That Joke Isn´T Funny Anymore. Ma How Soon<br />

Is Now?, però, resta l’unica a toccare certi picchi<br />

artistici, e dunque l’unica vera grande canzone<br />

dell’album.<br />

Stavolta, neanche il successivo singolo pubblicato,<br />

Shakespeare’s Sister, riesce nell’impresa dei suoi predecessori.<br />

Il successo di pubblico è sempre tanto,<br />

oramai i due volti trainanti la band, Moz e Marr,<br />

sono considerati alla stregua di vere e proprie icone:<br />

il fanatismo che li circonda ha raggiunto livelli<br />

esorbitanti e la loro coppia è già entrata a far parte<br />

della storia della musica. Ma gli Smiths sono in una<br />

fase di stanca, tengono ancora l’onda ma adesso le<br />

loro manovre virtuose sono limitate al minimo indispensabile.<br />

E un cielo livido oltremodo si staglia<br />

sopra le loro teste. Che sia l’inizio della fine?<br />

the r e is a li g h t th a t (ne v e r) go e s<br />

out<br />

Tutto sembra andare per il peggio, nonostante<br />

l’incetta di premi che i Nostri fanno un po’ ovunque:<br />

saltano i manager, i rapporti interni si fanno<br />

sempre più tesi. Ma a<br />

far quasi degenerare<br />

il tutto è Morrissey.<br />

Rinchiusosi nella propria<br />

torre d’avorio,<br />

sembra guardare tutti<br />

dall’alto della sua<br />

spocchia, fino a saltare<br />

presentazioni televisive<br />

della band senza<br />

avvisare nessuno.<br />

Nemmeno la pubblicazione<br />

di un nuovo<br />

singolo, The Boy With<br />

The Thorn In His Side<br />

(con una splendida<br />

copertina raffigurante<br />

Truman Capote),<br />

riesce a stemperare<br />

gli animi. E sì, che<br />

dentro questi poco più di tre minuti ci sono tutti<br />

gli ingredienti giusti: solari e sbarazzini fraseggi<br />

chitarristici, ritmiche vigorose, e il solito falsettare<br />

malinconico e prodigioso a declamare la cecità di<br />

un mondo che non riesce a capire l’amore sofferto<br />

del ragazzo con una spina nel fianco. La primavera<br />

sembra germogliare rigogliosa ascoltando il<br />

brano, e invece tutto all’interno della band sembra<br />

appassire inevitabilmente.<br />

Ma forse è proprio vero che nei momenti di difficoltà<br />

il genio che si cela dentro ognuno di noi, dentro<br />

l’uomo qualsiasi, trova sempre la via migliore<br />

per diradare l’aria malsana intorno.<br />

Il terzo album degli Smiths, uscito nel 1986 dopo<br />

esser rimasto parcheggiato per molti mesi senza<br />

alcun motivo, è la riprova empirica della loro peculiarità<br />

artistica. E chi l’avrebbe mai detto che<br />

in una situazione che si apprestava a collassare<br />

definitivamente, i Nostri avessero calato il poker<br />

d’assi vincente, fin già dal titolo e dalla copertina:<br />

The Queen Is Dead impresso in una suggestiva<br />

immagine di Alain Delon. In queste dieci canzoni<br />

il sole sembra esser tornato a baciare di luce abbacinante<br />

quella cresta spumeggiante sulla quale<br />

i Nostri, con i virtuosismi da polpastrelli di Marr<br />

e le impennate e le invenzioni vocali di Moz, piroettano<br />

armoniosi e veloci con il primo singolo<br />

estratto Bigmouth Strikes Again: canzone ironica e<br />

arrabbiata che ci narra di una Giovanna D’Arco<br />

“lingualunga” contemporanea, con tanto di cuffiette,<br />

che “non ha diritto di avere un posto nel genere<br />

umano”.<br />

Ecco, proprio le liriche colpiscono nella loro intelligente<br />

commistione di cinismo, ironia romanticismo<br />

e giochi lessicali, trattando temi ora impegnati<br />

ora frivoli, ma sempre anticonformisti anche<br />

quando è una “semplice” storia d’amore ad esser<br />

cantata. Proprio come accade nella ballad dal titolo<br />

folgorante, There Is A Light That Never Goes Out:<br />

emblematica sintesi<br />

di quello spirito adolescenziale<br />

con la A<br />

maiuscola. Non da<br />

meno è la title track<br />

che nella sua antiistituzionalità,<br />

in<br />

questo caso monarchica,<br />

fonde insieme<br />

poeticamente immagini<br />

rabbiose, disincantate<br />

e disperate.<br />

Oppure l’umorismo<br />

dileggiante in Frankly,<br />

Mr Shankly, il malinconico<br />

decadimento<br />

in I Know It’s Over e<br />

l’emozionante pas-<br />

seggiata al cimitero “un terribile giorno di sole”<br />

tra rimandi letterari in Cemetry Gates.<br />

The Queen Is Dead è senza ombra di dubbio<br />

l’album più riuscito degli Smiths: il suono è maturo<br />

ma il minutaggio medio delle canzoni difficilmente<br />

oltrepassa i tre minuti, si alternano passaggi<br />

frenetici e immediati ad atmosfere dilatate ed intimistiche<br />

senza mai cadere nel banale o nel melenso.<br />

Ma veramente quella luce mai si spegnerà?<br />

the sM i t h s in an un d e r w a t e r dr e a M<br />

Ora tutto fa pensare che le cose vadano veramente<br />

per il meglio: un nuovo singolo viene pubblicato<br />

e immediato è il successo, forse il più grande dal<br />

punto di vista commerciale. Si tratta di Panic: un<br />

riuscito lavoro di spontaneità, in cui la chitarra di<br />

Marr, ben coadiuvata dalla sezione ritmica, crea<br />

un tappeto sinuoso in cui la voce di Moz declama<br />

ripetutamente il famoso verso “Hang the Dj” (impicca<br />

il Dj). Per la prima volta in assoluto i mancuniani<br />

decidono di promuovere il brano anche con<br />

un video. Il lavoro viene assegnato al talentuoso<br />

regista Derek Jarman, che ne costruisce un vero e<br />

proprio cortometraggio di una ventina di minuti<br />

da non perdere, con l’inserimento anche di There<br />

Is A Light That Never<br />

Goes Out e The Queen<br />

Is Dead.<br />

Inoltre nel 1987 viene<br />

pubblicata dalla<br />

Rough Trade anche<br />

la seconda raccolta di<br />

materiale, intitolata<br />

The World Won’t<br />

Listen, che tra singoli<br />

e b-side racchiude<br />

il secondo periodo<br />

della band. Di essa<br />

l’etichetta inglese ne<br />

stampa anche una<br />

versione alternativa<br />

ed estesa, Louder<br />

Than Bombs, sol-<br />

110 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 111


tanto per il mercato statunitense.<br />

Ma altre e più compatte nubi arrivano improvvise<br />

e minacciose ad oscurare il cielo sotto il quale<br />

gli Smiths sembravano finalmente vorticare senza<br />

problemi. Il tour americano, appena intrapreso<br />

sull’entusiasmo dei buoni riscontri dell’album, diviene<br />

esperienza disastrosa se non traumatica: la<br />

carovana si interrompe senza portare a termine<br />

tutte le date in programma. Il gruppo viene corteggiato<br />

pressantemente dalle major, e la Rough<br />

Trade è sul punto di capitolare. Tutto ciò riacutizza<br />

ferite mai rimarginate, provocando un’emorragia,<br />

stavolta difficile da tamponare.<br />

Ci provano con il successivo singolo Ask: il brano<br />

ha tutte le carte per sfondare e infatti così è, ma<br />

non riesce ad arginare i malumori che circondano<br />

la band. Quel ritornello che si incunea inesorabilmente<br />

nelle orecchie, che fa battere le mani, con<br />

quello zucchero filato che esce direttamente dalla<br />

chitarra, conquista il pubblico, ma non fa tornare<br />

il sole, neanche un raggio. Infatti gli altri due 45<br />

giri, Shoplifters <strong>Of</strong> The World Unite e Sheila Take A<br />

Bow, che dovrebbero allietare l’attesa per il nuovo<br />

album in registrazione, risultano essere puro manierismo,<br />

niente di più.<br />

L’onda si sta avviluppando sugli Smiths incamerandoli<br />

nel proprio ventre ora freddo e scurissimo.<br />

Dall’esterno si potrebbe avere l’erronea impressione<br />

che il gruppo si stia preparando all’ennesimo<br />

prodigio, dato che si trovano in studio a preparare<br />

quello che invece sarà il loro ultimo album in studio.<br />

Strangeways, Here We Come uscirà, infatti,<br />

postumo nel 1987, sempre sotto l’egida della<br />

Rough Trade, nonostante la EMI avesse oramai in<br />

pugno la band. Il primo ad abbandonare è Marr,<br />

stufato ed estenuato dall’ennesimo capriccio del<br />

suo vocale alter ego. Disorientati, Rourke e Joyce<br />

non attendono altro che sia proprio un irato Moz<br />

ad ufficializzare la resa nel settembre del 1987.<br />

L’album, con Richard Davalos in copertina (dal<br />

film La valle dell’Eden), rappresenta così il loro testamento<br />

artistico, e forse proprio questo alone mistico<br />

che lo circonda, questa consapevolezza che esso<br />

fosse l’ultimo omaggio al mondo, lo valorizza più<br />

di quello che realmente vale.<br />

La verità è che esso è un lavoro dignitoso, che alterna<br />

ottimi episodi, ma non memorabili canzoni,<br />

ad altri davvero trascurabili. Certo quella magia<br />

pop a cui ci avevano abituati è lungi dall’essere<br />

evocata, ma l’onda si è chiusa su di loro e questi<br />

sono soltanto gli spruzzi e i riverberi delle ultime<br />

virate multicolori. Girlfriend In A Coma, A Rush And<br />

A Push And The Land, Last Night I Dreamt That Somebody<br />

Loved Me, Death <strong>Of</strong> A Disco Dancer e I Started<br />

Something I Couldn’t Finish gli episodi migliori. Passa<br />

appena un anno e la Rough Trade pone il suo sigillo<br />

sulla carriera della band con la pubblicazione<br />

dell’immancabile live: Rank contiene la registrazione<br />

del concerto tenutosi al National Ballroom<br />

di Londra nel 1986.<br />

Ma ormai gli Smiths hanno terminato la loro caleidoscopica<br />

corsa e la fine è stata autistica: silenziosa<br />

e incomunicabile. Il fatto è che nessuno, esternamente,<br />

ha potuto registrare la loro caduta da quella<br />

mastodontica massa d’acqua che fino a quel<br />

momento avevano padroneggiato: non si sono visti<br />

corpi mulinare nella schiuma e soprattutto non<br />

si sono scorte teste riemergere in superficie, come<br />

se loro non fossero mai stati lì, come se tutto fosse<br />

stato un sogno, un bellissimo e confortante sogno.<br />

Oppure, come se avessero deciso di non riemergere<br />

mai più, restando confinati per sempre nell’abisso,<br />

e magari lì continuare a suonare e cantare<br />

dell’adolescenza dei pesci, delle alghe, dei cavallucci<br />

e delle stelle marine. Ma sappiamo bene che<br />

non è andata così. E tutto quello che è successo<br />

dopo è un’altra storia, ché qui abbiamo narrato di<br />

onde e primavera, di surf e adolescenza.<br />

“Life is very long, when you’re lonely” (The Queen<br />

Is Dead).<br />

112 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 113


Ristampe<br />

Boohoos – hErE coMEs thE hoo (spit/<br />

firE, novEMBrE 2008)<br />

gen e r e: g l a M ro c K<br />

In Germania i musicisti locali ascoltarono il r’n’r<br />

e ne trassero il krautrock. In Italia quando arrivò<br />

la new wave fu gara a chi riuscisse a somigliare<br />

di più ai modelli anglosassoni. E via dicendo. Può<br />

essere, ma i Boohoos furono una mezza stagione.<br />

Mettersi a fare glam rock nella seconda metà degli<br />

anni Ottanta deve aver significato qualcosa come<br />

battere il pungo sul<br />

tavolo per spazzare<br />

via le tappe obbligate,<br />

per rincorrere<br />

la rincorsa di cui<br />

sopra – benché alcuni<br />

membri della<br />

band fecero gavetta<br />

nell’hc nostrano.<br />

Ne vennero fuori un<br />

demo (Bloody Mary, 1986), un LP (Moonshiner,<br />

1987), un EP (The Sun, The Snake And<br />

The Hoo, 1987) e una buona risonanza a livello<br />

nazionale, con qualche puntata tattica lassù, nel<br />

mainstream. Qualche mese fa Spit/Fire (divisione<br />

Spittle, e come poteva non esserlo) ha stampato<br />

una sorta di summa/selezione delle tre produzioni<br />

della band, e la intitola Here Comes The Hoo.<br />

Bisogna ammettere che quel rockaccio fatto di riff<br />

e urla d’Iguana (Downtown Train), solo all’apparenza<br />

dannato e melmoso, in realtà divertito e diven-<br />

terete, conserva anche oggi la sua freschezza. Si<br />

sente che la band amava allo stesso modo tanto<br />

Black Sabbath (vi ricordano niente ritmo e riff<br />

delle strofe di Meet Us?) quanto New York Dolls.<br />

Si sente la determinazione. Si sente Detroit ma anche<br />

un pizzico di Pesaro. Nella sfacciataggine forse,<br />

chi lo sa, magari menefreghismo; insisto: è determinazione;<br />

e coinvolge come la cover di Search And<br />

Destroy, o, ancora meglio, come Bloody Mary – voodoobilly<br />

manualistico, forse, però che spasso.<br />

(7.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

thE gynEcologists – hoosiEr psychopaths<br />

1981-1994: thE official rEcordings<br />

(gulchEr, 2008)<br />

gen e r e: p u n K<br />

Ripercorrere le oscillazioni. Fare una ristampa di<br />

tutta la carriera di una band significa soprattutto<br />

questo. Vuol dire accostare le cose più famose a<br />

quelle meno note, persino mettere nelle condizioni<br />

di far risuonare i brani meno riusciti in quelli più<br />

convincenti. E viceversa.<br />

Viceversa c’è del buono e proattivamente marcio<br />

anche in Jimmy Jones, e in analoghe canzoni punkbanalizzate<br />

dei The Gynecologists; l’esempio è<br />

We’re An American Band, sporcatura di qualcosa che<br />

è semplicemente banale, pur se forse il titolo denuncia<br />

una certa ironia attorno al pezzo. C’è però<br />

anche di molto meglio nelle trenta tracce di Hoosier<br />

Psychopaths 1981-1994: The <strong>Of</strong>ficial<br />

Recordings, album-ristampa-culto edito da Gulcher<br />

per recuperare le gesta della band di Indiana,<br />

che in realtà constava delle fibrillazioni del solo<br />

Tommy Afterbirth – inquieto e repubblicanamente<br />

ambiguo, ma capace di essere genuinamente<br />

dirompente, come in Leper Colony, o in Infant Doe,<br />

dove il suo timbro vocale ricorda un misto tra gli<br />

scimmiottamenti cartoonati dei Residents di Not<br />

Available e l’ugola sgraziata di Ian McKaye<br />

C’è tutta la produzione del gruppo in questa raccolta,<br />

e l’ascolto fa sentire l’odore acre di scoppiettanti<br />

aneddoti; come quella volta che Tommy inviò<br />

Faces & Psycopaths, primo EP della band<br />

(qui presente nelle<br />

prime 4 tracce), al<br />

New Yorker per ottenere<br />

una recensione,<br />

che gli fu negata<br />

motivando il rifiuto<br />

col fatto che c’era<br />

già troppa roba disgustosa,<br />

in giro. In<br />

effetti gli esordi erano assimilabili al punk, specie<br />

nella sua proto-versione stooges-iana – citiamo<br />

a testimone il cavallo di battaglia (nonché primo<br />

pezzo scritto dall’Afterbirth), Dog Face; e però indicavano<br />

già le tastiere come strada di differenziazione.<br />

Ricordate gli Stranglers?<br />

La cavalcata prosegue con un altro EP (Kinder,<br />

Gentler Nation) e due cassette (A Goat...You<br />

Geek e Auto-Erotica Asphyxia & Various<br />

Moldy Turds), dove, come si sottolineava sopra,<br />

si toccano alti e bassi; ma è nella sezione finale della<br />

compila che crediamo di aver sentito le cose migliori;<br />

sono B-Side e rarità soprattutto live, come<br />

Fart Speak / Fucking Wench, la traccia finale, che<br />

ricorda i Chrome, spettro industriale percussivo<br />

e sporchissimo; dal vivo, dove pare proprio che<br />

Tommy desse il suo meglio. Secondo chi scrive<br />

soprattutto i suoi musicisti. Per una volta le rarità<br />

fanno da vero compimento di una ristampa.<br />

(7.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

MarlEnE kuntz - BEst of (virgin /<br />

EMi, 23 gEnnaio 2009)<br />

gen e r e: r o c K ca n t a u t o r i a l e<br />

Come giudicare un “Best <strong>Of</strong> ”? Diciamo la verità:<br />

è un dilemma che ci risparmieremmo volentieri,<br />

tanto ci sembra evitabile questo raccogliere il già<br />

raccolto, questo rituale che celebra una (vana)gloria<br />

postuma di se stessa, col prosaico seppur lecito<br />

scopo di raggranellar grana. Tuttavia, son vizietti<br />

cui nessuno o quasi sfugge, quindi perché biasimare<br />

i Marlene Kuntz se a tre lustri dal debutto si<br />

concedono questo peccatuccio veniale? Tanto vale<br />

entrare nel merito, che in casi del genere significa<br />

spesso fare l’appello e inarcare le sopracciglia per<br />

le “clamorose assenze”. E’ presto detto: tra i titoli<br />

in programma non figurano tracce come Lieve, Sonica,<br />

Ape Regina e Le putte, pezzi che ogni fedelissimo<br />

non toglierebbe dalla playlist kuntziana neanche<br />

sotto la tortura di un redivivo Bellarmino tra i deliziosi<br />

confort di Bolzaneto. Ma il fedelissimo se ne<br />

faccia una ragione, perché a mio modo di vedere è<br />

una scelta giustificata.<br />

Difatti, la selezione sembra voler porre un deciso<br />

accento sulla cifra autoriale che negli ultimi<br />

lavori ha preso il sopravvento sulle intemperanze<br />

soniche, quasi ad indicarvi un approdo naturale,<br />

l’immancabile evoluzione di un discorso che anche<br />

nell’asprezza degli esordi tirava in ballo situazioni<br />

e modi dai palpabili rimandi letterari. Un<br />

“messaggio” reso ancora più pregnante da episodi<br />

come La libertà, capolavoro firmato Gaber di cui<br />

Godano e soci s’impadroniscono con impeto e naturalezza,<br />

rimarcando assieme alle altre due cover<br />

- quella Impressioni di settembre presenza fissa nei live<br />

recenti e una sordidella Non gioco più - link sempre<br />

più saldi con la tradizione canzonettistica (in senso<br />

alto) e finanche progressiva italiana.<br />

Se l’interpretazione fosse giusta, se - in altre parole<br />

- la stesura della scaletta riflettesse l’immagine<br />

che la band oggi ha di se stessa (e chissà quanto ha<br />

realmente pesato la volontà di Godano e soci nel<br />

redigerla), questa compilazione raggiungerebbe<br />

appieno lo scopo: tirare in ballo più o meno equa-<br />

114 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 115


mente tutti i sette album disegnando una parabola<br />

che decolla sui furori sonici per avvitarsi via via nei<br />

tormenti acri e pensosi della canzone rock adulta.<br />

Non a caso, ecco che nel bel mezzo del cammin<br />

spunta Il pregiudizio, pezzo inedito - gioia e dannazione<br />

del fedelissimo<br />

di cui sopra - che<br />

sintetizza egregiamente<br />

quanto detto<br />

confezionando una<br />

ficcante e trepida<br />

invettiva in aspra<br />

vestigia rock.<br />

Tirate le somme,<br />

alla fine più che<br />

un’antologia rivolta al neofita bramoso di “farsi<br />

un’idea” - cui consiglierei semmai i due gustosi<br />

live H.U.P. del ‘99 e S-Low del 2006 - sembra un<br />

buon pretesto per farsi una ponderazione su passato,<br />

presente e (forse) futuro di una band che - la<br />

si apprezzi o meno - in Italia ha scavato un solco<br />

ancora parecchio trafficato. (6.8/10)<br />

stEfano solvEnti<br />

jEunEssE d’ivoirE, la Maison, othEr<br />

sidE, statE of art – Milano nEw wavE<br />

1980-83 (spittlE, 2008)<br />

gen e r e: n e w wa v e<br />

Milano New Wave 1980-83. Quattro band dei<br />

primi anni Ottanta milanesi – Jeunesse D’Ivoire,<br />

La Maison, Other Side, State <strong>Of</strong> Art -<br />

che la solita Spittle Records decide di pubblicare,<br />

compilate da Fred Ventura (sì, quello della italodisco),<br />

per dare loro un corpo stampato (su cd) che<br />

spesso non hanno mai avuto; un invito a nozze per<br />

ovvi giudizi circa la dervivatività dei detti gruppi<br />

nei confronti dei modelli stranieri allora in auge.<br />

Fatto che in realtà sussiste, specie nei confronti dei<br />

Contortions-pensiero (onnipresente ovunque si<br />

palesi un sax o una base funk) e della miriade di<br />

esempi goth-punk inglesi – a loro volta poco originali,<br />

nella maggior parte dei casi.<br />

Eppure c’è qualcosa che al di là di questo imprezio-<br />

sisce questo cartonato – oltre alle apprezzate scelte<br />

grafiche. È un concetto che sembra scontato ma<br />

solo senza la profondità del tempo; si tratta della<br />

questione della selezione all’interno di un contesto;<br />

cioè dell’importanza di queste band come selettori<br />

e “importatori” in Italia delle proprie fonti che a<br />

loro volta saranno quelle dei successori. Sono decisioni<br />

come queste che diventarono “condizioni di<br />

possibilità” per il post punk italiano; e lo dimostrano,<br />

a creare peso specifico, le sovrapposizioni tra<br />

quest’album e le compile tratte da Rockerilla che<br />

poco tempo fa la stessa Spittle ha ristampato, nelle<br />

primissime file del suo catalogo della rinascita.<br />

In fin dei conti questo è il mestiere della Spittle; la<br />

ricostruzione – sotto un qualche criterio di pertinenza,<br />

qui locale e geografico, per esempio - di un<br />

tentativo di costruire una scena. È una questione<br />

di taglio, più che di riscoperta. E non è operazione<br />

semplice.(7.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

royal trux – twin infinitivEs (drag<br />

city, gEnnaio 2009)<br />

genere: psych/deMentia<br />

A distanza di quasi vent’anni dalla sua originale<br />

messa in circolo – anno di grazia 1990, per la stessa<br />

Drag City - Twin Infinitives non appare più come<br />

quel mostro informe<br />

che in origine fece<br />

gridare – a seconda<br />

degli schieramenti<br />

– al miracolo od<br />

allo scandalo. Con<br />

questo non intendo<br />

ridimensionare<br />

l’opera eroinomane<br />

dei due, che prima<br />

di passare al metadone e ad una forma canzone in<br />

odor di Rolling Stones (l’ottimo debutto per Virgin,<br />

Thank You, e l’altrettanto riuscito Accelerator<br />

per la ritrovata Drag City) seppero inscenare un<br />

tributo sincero alle brutture del rock’n’roll tutto.<br />

Restando ovviamente fuori dal circo. Che in que-<br />

gli anni significava rinunciare all’ottica esistenzialista<br />

del lo-fi e alle dorate volte delle multinazionali<br />

alla caccia di nuovi rockers dal Northwest. Jennifer<br />

Herrema e l’ex-Pussy Galore Neil Hagerty muovevano<br />

in tutt’altra direzione, pur ammaliati da una<br />

dimensione casalinga. Tra squassanti drum machines,<br />

blues al fulmicotone, litanie d’altri tempi e<br />

psicotiche frequenze proto-folk, i nostri realizzavano<br />

il loro capolavoro errato. Che Drag City ripubblica<br />

nel formato doppio vinile, proprio per ribadire<br />

l’importanza dell’ingombrante disco nero. Un<br />

doppio album proprio come in origine, un grosso<br />

punto interrogativo nell’evoluzione dell’indie-rock<br />

dei primi novanta, con una coppia di junkie che<br />

soffriva dei propri incubi musicali, rispondessero<br />

al nome di Captain Beefheart, Wild Man Fischer,<br />

Throbbing Gristle o King Tubby (per godere<br />

dell’estatica componente dub del gruppo consigliamo<br />

il postumo Hand <strong>Of</strong> Glory). Mistificatori o<br />

no con Twin Infinitives sbeffeggiarono – ed anche<br />

sonoramente – il rock più pantofolaio, in una ressa<br />

di idee e screzi affatto calcolati (7.2/10)<br />

luca collEpiccolo<br />

ryoji ikEda – 1000 fragMEnts<br />

(rastEr-noton / 2008)<br />

gen e r e: ry o j i iK e d a<br />

Il primo incontro con l’universo creativo di Ryoji<br />

Ikeda risale al 1995, anno che battezzò la sua carriera<br />

artistica con il nome 1000 Fragments.<br />

A distanza di più di dieci anni, la seconda edizione<br />

dell’omonimo disco firmata Raster-Norton diventa<br />

quasi necessaria a consolidare il dovuto merito<br />

all’artista giapponese. Bisogna allora ancora una<br />

volta fare i conti con quella che è stata definita e<br />

continuerà ad essere definita un’uscita decisamente<br />

influente, che lascia intravedere, leggere per la<br />

prima volta, o riscoprire inclinazioni e anticipazioni.<br />

La differenza la fa proprio la distanza,il tempo<br />

che ha legato e tutt’ora lega gli ormai assodati risultati<br />

di perle sonore quali +/-, 0°C o Matrix.<br />

La materia si divide in tre principali composizioni<br />

che risalgono a tre periodi differenti e dichiarano<br />

apertamente gli interessi e gli intenti dell’artista.<br />

I nove elementi di Channel X (1985-95) utilizzano<br />

la forma breve per dar voce alla frammentazione<br />

elettronica e al collage sonoro fatto d’incisioni<br />

d’eventi e disparate altre fonti sonore. Dalle interferenze<br />

in trasmissioni radio alle voci tagliate,<br />

le tracce mutano<br />

forma e spazio per<br />

poi diventare parte<br />

unitaria di una sorta<br />

di conversazione<br />

universale: il tutto<br />

ottenuto grazie a<br />

quella personale tenuta<br />

d’insieme fatta<br />

d’elettronica di segnale e di drones. Alle cinque<br />

Zones (1994-1995) spettano invece le meditazioni<br />

più profonde, quelle di borbotti atonali, matrici<br />

minimali, astrazioni elettroacustiche e incisioni<br />

sintetiche che entrano in perfetta sintonia con riletture<br />

che si sarebbero dette ambient.<br />

Ed infine Luxus (1993), dalle concretezze decisamente<br />

attuali, che dialogano rarefacendosi, tra<br />

passaggi di luce in voci ed archi, astrazioni in glissato<br />

e basse frequenze.<br />

A fine ascolto 1000 Fragments vince l’ostacolo<br />

del tempo e conquista ancora oggi con quel suo<br />

naturale senso d’appartenenza al suono che in pochi<br />

sanno catturare come Ikeda. (7.9/10)<br />

sara Bracco<br />

nEw ordEr – MovEMEnt / powEr corruption<br />

and liEs / low lifE / Broth-<br />

Erhood / tEcniquE ristaMpE (rhino<br />

rEcords, 2008)<br />

I quattro Joy Division avevano già deciso che se<br />

qualcuno avesse lasciato il gruppo, i restanti avrebbero<br />

continuato con un altro nome. Dal maggio<br />

1980 quindi c’è stato un dipanarsi temporale che<br />

ha portato la band di Manchester ad una rinascita<br />

personale, che avrebbe fatto perdere la stima dei<br />

fan della prima ora per acquisire un largo seguito,<br />

e che ha consegnato agli ‘80 alcune delle miglio-<br />

116 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 117


i contaminazioni fra musica di ispirazione pop e<br />

nuove frontiere dance.<br />

Siamo alla fine del 1981. Movement come la migliore<br />

elaborazione del lutto possibile. E infatti le<br />

trame tribaloidi del fu singolo Atmosphere dei Joy<br />

Division, accompagnamento definitivo del feretro<br />

di Ian, diventano il leitmotiv per entrare nei<br />

chiaroscuri di questo<br />

primo disco<br />

New Order. Sentori<br />

dark per un’introspezioneopprimente<br />

e scomoda, dove<br />

a sgambettare sono<br />

gli spettri di Closer<br />

a braccetto con un<br />

più oculato utilizzo dei synth, ma con il tremendo<br />

errore di un Bernard Sumner che tenta di<br />

scimmiottare la voce di Ian invano. C’è ancora il<br />

post punk che talvolta diventa arresa inconsistenza<br />

(Dreams Never End), primordiale sincronizzazione di<br />

synth e chitarra (Chosen Time) o sfogo da rigettare<br />

in decibel di frustrazione (la coda di The Him), ma<br />

c’è soprattutto tutta un’estetica dark, ovviamente<br />

desolata e nichilista (la marcia per organo e percussioni<br />

di Denial, i beats elettronici e il basso sottopelle<br />

di Truth). Un primo passo che sa di sguardo malinconico<br />

indietro, che paga dazio all’ombra lunga<br />

del poeta maledetto e alle sue ultime atmosfere.<br />

La ristampa ridimensiona il voto aggiungendo un<br />

mezzo punto in più alla luce principalmente della<br />

ballata post punk per eccellenza, quella Ceremony<br />

(primo singolo) di bellezza sopraffina e grazie alle<br />

prime avvisaglie “dancey” di Everything’s Gone Green<br />

e della Temptation che traghetta i Nostri in quello<br />

che verrà dopo ossia negli umori dancefloor, cifra<br />

stilistica imprescindibile del dopo 1982. (6.8/10)<br />

Prima di tutto in Power, Corruption And Lies<br />

Sumner prende coscienza della propria vocalità<br />

e inonda le vibrazioni che fuoriescono dalle casse<br />

con il suo timbro post-adolescenziale tendente<br />

all’etereo. In secondo luogo la mutazione avvenuta<br />

con Temptation diventa fonte di ispirazione su cui<br />

costruire numeri di brioso dance/synth-pop (The<br />

Village, Ecstasy, 586), malinconiche canzoni da<br />

spiaggia a fine estate (Leave Me Alone), meravigliose<br />

derive di synth e sequencer in media battuta che<br />

marchieranno a fuoco tutti gli ’80 (Your Silent Face,<br />

Ultraviolence) e non fosse altro (grazie al secondo<br />

cd) per traghettarci nel manifesto di prima “dance<br />

grandeur” che è Blue Monday. Altre chicche risiedono<br />

nella ballad languida in chiave synth-pop di<br />

Thieves Like Us e nei beat quadrati della poliedrica<br />

Confusion. (8.0/10)<br />

Low-Life è l’esternazione completa e matura<br />

del senso pop che il gruppo si porterà dietro<br />

fino agli ultimi dischi e soprattutto la quadratura<br />

di un cerchio electro-pop che sarà cannibalizzato<br />

e depredato largamente dalla dance da classifica<br />

tutta fino ai primi ’90. The Perfect Kiss è lì a dimostrarlo<br />

in tutta la sua fulgida grandiosità: il basso<br />

di Hooky come centro attrattivo e un tripudio di<br />

synth e chitarre a divagare melodia su beat che<br />

sono storia. Love Vigilantes che è canovaccio pop su<br />

cui plasmare mille epigoni, Sub-Culture che ha dato<br />

un perché al suono dei Pet Shop Boys (e di tanti<br />

altri) e This Time <strong>Of</strong> Night che è bignami di “quel”<br />

tipico romanticismo mitteleuropeo. A impreziosire<br />

la presenza di versioni “lunghe” e remix dei singoli<br />

e una Shame <strong>Of</strong> The Nation, prima mattonella sulla<br />

costruzione del successivo singolo State <strong>Of</strong> The Nation.<br />

(8.2/10)<br />

Brotherhood è stato il Republic degli anni ’80,<br />

i New Order che fanno con un filo di gas quello<br />

dove sono diventati più “automatizzati”, la loro dimensione<br />

più pop e commerciale. Non un album<br />

brutto, perché esempi come Weirdo, Paradise e Way<br />

<strong>Of</strong> Life veleggiano tutti sopra la sufficienza con il<br />

loro appeal profumatamente catchy, ma è nella<br />

malinconia romantica di Angel Dust e nello “strike<br />

out” di Bizarre Love Triangle che sono ravvisabili le<br />

componenti interessanti di un lavoro che si siede<br />

sugli allori, compiacendosi. Alza di parecchio il<br />

giudizio il secondo cd che contiene l’indispensabile<br />

State <strong>Of</strong> The Nation, un piacevole remix (abbastanza<br />

fedele all’originale) del “powerseller” True Faith,<br />

il delizioso mid-tempo di Touched By The Hand <strong>Of</strong><br />

God e il nuovo mix (velocizzato e pericolosamente<br />

iperfarcito) di Blue Monday. (7.0/10)<br />

Gli ultimi New Order degli ‘80 sono quelli che si<br />

radunano nel 1988 a Ibiza per registrare il nuovo<br />

disco e che ci hanno buttato dentro l’l’atmosfeta<br />

esta(sia)tica della fatidica “summer of love”. Beat<br />

prorompenti e basi quasi techno per un profluvio<br />

di sequenze da dancefloor che fanno di Fine Time,<br />

Round & Round e Vanishing Point un culmine dance<br />

che non tornerà mai più così limpido. A braccetto<br />

con la loro vena pista-orientata c’è la dimensione<br />

pop che riscopre la brillantezza di Low-Life in All<br />

The Way, nella circolarità perfetta di Dream Attack<br />

e nell’electro-pop sopraffino di Mr. Disco. Il già ottimo<br />

Tecnique originale è infarcito nel secondo<br />

disco del buon singolo Run 2, da un remix di World<br />

In Motion e dalle versioni in 12 pollici dei singoli<br />

estratti dal disco. (7.8/10)<br />

alEssandro grassi<br />

zEro Boys – hystory of / vicious<br />

circlE (sEcrEtly canadian, 2 Marzo<br />

2009)<br />

gen e r e: p u n K<br />

Era la primavera del 1980 quando gli Zero Boys,<br />

band di Indianapolis nata l’anno prima, resgitrarono<br />

otto brani di filata in una sola notte, nel<br />

“basement” di un amico. Nacque così il corpus di<br />

Living In The ‘80s, EP con cui esordì quello che<br />

oggi viene presentato come il miglior gruppo hc<br />

del Midwest di allora.<br />

La canzone che diede titolo al mini era un inno<br />

primo-punk speziato di Nuggets e di garage, in<br />

maniera midollare; ma anche dimostrava un gusto<br />

per la scrittura davvero più saporito della media –<br />

ribadito nella combinazione melodica voce-chitarra<br />

di Stick In Your Guns. Gli Zero Boys durarono fino<br />

al 1983, mutando in un hard core vero e proprio<br />

(Seen That Movie Before), nel punk hc melodico di<br />

Positive Change, fino a sbucare in Amerika, brano che<br />

li collegò, all’atterraggio della parabola, persino al<br />

rock hard-garagista di Stooges e MC5.<br />

Di mezzo, l’episodio centrale della storia, dove si<br />

scopre che l’assassino è il maggiordomo e l’arma<br />

l’attizzatoio, è Vicious Circle, l’album di vero<br />

esordio sulla lunga durata (più o meno, date le abitudini<br />

del genere) e di vera raccolta dei frutti di<br />

Ramones – già peraltro abbondantemente citati<br />

a fonte in Piece <strong>Of</strong> Me, ultima traccia di Living…<br />

-, Germs, Circle Jerks. Magistrale nel disco era<br />

la brevitas della title-track, il gioco strofa-refrain<br />

di Amphetamine Addiction – che strania nel momento<br />

in cui ci si accorge che usa la struttura armonica<br />

di The Other Window<br />

degli Wire.<br />

Tutto questo – EP,<br />

album e tracce di<br />

quel potenziale secondo<br />

album che<br />

non vide mai la luce<br />

– va a comporre<br />

una coppia di uscite<br />

Secretly Canadian<br />

– meritevole da tutti i punti di vista più ovvi, ma<br />

anche per la completezza storica delle note di copertina;<br />

oppure solo per lo sforzo discografico di<br />

riscoperta. Basta quello, ad ascolto avvenuto. Le<br />

ovvietà diventano più interessanti, se giustificate.<br />

(7.0/10)<br />

gasparE caliri<br />

118 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 119


(GI)Ant Steps #24<br />

Freddie Hubbard<br />

opEn sEsaME (BluE notE rEcords, giugno 1960)<br />

Entrò dalla porta principale, accese tutte le luci della stanza,<br />

si pose al centro della scena. Sembrava mosso da una frenesia<br />

incandescente, il talento spedito a mille per colmare il ritardo<br />

anagrafico rispetto alla Storia. Spese molto, e ci riuscì. Ma<br />

non ebbe indietro il resto.<br />

Freddie Hubbard ha lasciato questa valle di lacrime<br />

sul finire del 2008, settantenne, solo un lustro<br />

più anziano d’un Mick Jagger, tanto per dire. La<br />

notizia mi ha ovviamente intristito, obbligandomi a<br />

fare i conti con questo trombettista che mi sembra<br />

incarnare la parabola dell’hard bop come pochi altri.<br />

Nato nel ‘38 a Indianapolis, era un ragazzino<br />

quando Miles, Dizzy e Bird palleggiavano be bop<br />

nei locali più torridi della Grande Mela, città che<br />

raggiunse ventenne portando in dote l’esperienza<br />

coi fratelli Montgomery (tra cui l’immenso chitarrista<br />

Wes) e un talento che scomodò subito paragoni<br />

col compianto Clifford Brown. Suonò tra gli altri<br />

con Sonny Rollins, con Philly Joe Jones ed Eric<br />

Dolphy, persuadendo i luminari della Blue Note a<br />

concedergli subito una chance da leader. L’occhiuto<br />

Alfred Lion pensò bene di mettergli a fianco una<br />

miscela di esperienza e brio giovane: alla flessuosa<br />

autorevolezza delle quattro corde di Sam Jones faceva<br />

eco ai tamburi un Clifford Jarvis neanche ventenne<br />

ma già all’opera con Chet Baker e Curtis<br />

Fuller, e se al pianoforte sedeva un McCoy Tyner<br />

sul punto di decollare in orbita Coltrane, del sax si<br />

occupava il ventottenne Tina Brooks, uno che smerigliò<br />

l’ancia incidendo assieme a Jimmy Smith e<br />

Kenny Burrel, vantando altresì un album come<br />

leader alle spalle (Minor Move del ‘58).<br />

Di Brooks, straordinario compositore ed interprete,<br />

riparleremo presto. Quanto a Open Sesame, facciamo<br />

subito: disco stupendo, swingante con impu-<br />

denza generosa,<br />

languidamente<br />

declinato latin tinge, insomma il frutto perfetto di<br />

quella cuspide tra cinquanta e sessanta quando il<br />

jazz era una tensione urbana e un brivido liberatorio,<br />

un sogno esotico e il lasciapassare per la modernità.<br />

A testimoniare il talento fuori dal comune<br />

di Freddie basti il suo assolo in All Or Nothing At All,<br />

standard spedito a cento all’ora col fraseggio della<br />

tromba a centrifugare dinamiche come una turbina,<br />

la calligrafia pastosa spinta in avanti come un prodigio,<br />

uno sbattimento festoso d’illuminazioni così rapide<br />

da spingere l’improvvisazione sull’orlo del free<br />

(non a caso di lì a poco Hubbard sarà chiamato da<br />

Ornette Coleman a far parte dell’impresa Free<br />

Jazz). Detto ciò, il mio amore per Hubbard ha dei<br />

limiti: lo sento come un suono troppo preoccupato<br />

a manifestarsi nella propria tempestosa epifania, superandosi<br />

di evoluzione in evoluzione, lasciando indietro<br />

così il dramma, quel peso specifico che sfida<br />

l’inconsistenza materiale – assieme rasserenante e<br />

carnefice - nei Davis e nei Baker. Così mi pare vadano<br />

le cose in questo riuscitissimo debutto e un po’<br />

lungo tutti i ruggenti sixties, passando dalla sbandata<br />

fusion alle peripezie che ne smarriranno via<br />

via la brillantezza, fino al brutto incidente che nel<br />

’93 danneggerà le preziose labbra. Infine, l’attacco<br />

di cuore, atto senza ritorno, chiusura dello scrigno.<br />

Hubbard mi è sempre sembrato uno che sale al volo<br />

sul treno già in corsa, se ne sbatte dei macchinisti,<br />

del cuore infernale della belva e armeggia per guadagnarsi<br />

un buon posto magari in prima. Però che<br />

fantastico compagno di viaggio che eri, Frederick<br />

Dewayne.<br />

stEfano solvEnti<br />

classic album rev<br />

Bruce Springsteen<br />

tunnEl of lovE (coluMBia, 1987)<br />

Fin dalla copertina Tunnel <strong>Of</strong> Love rappresentò<br />

uno scarto netto, spiazzante: Bruce vi compare in<br />

stolido piano americano (guarda un po’…), giacca<br />

nera su camicia immacolata, algida cravattina texana,<br />

l’espressione così vaga e imbiechita che non<br />

sembra neanche lui, al più un cugino spacciatore<br />

di auto usate. Coi primi ascolti, la drammatica evidenza:<br />

ruggito innodico? Piglio blue collar? Epica<br />

rockista? Niente di tutto ciò. Ne discutevamo con<br />

sconcerto, chi imprecando sulla fuoriuscita di Little<br />

Steven dall’entourage - peraltro sostituito dal valido<br />

Nils Lofgren - e chi maledicendo il matrimonio del<br />

Boss con la modella Julianne Philipps. Insomma,<br />

all’epoca questo disco suonò come un mesto doposbronza.<br />

Una roba dimenticabile. Lo riascolto oggi<br />

e trovo che sia un disco emblematico. A suo modo<br />

importante. Perché parla del tempo e nel tempo da<br />

cui proviene, errori e orrori compresi, raccontandoci<br />

di quando Springsteen (l’uomo e l’artista) volle<br />

spingersi ancora una volta all’indietro, smarcandosi<br />

dalla valanga rock da egli stesso provocata (e<br />

dalla band, parcellizzata brano per brano) per non<br />

esserne travolto. Certo, Tunnel <strong>Of</strong> Love non può<br />

competere con l’intensità di titoli quali Nebraska<br />

o Darkness On The Edge <strong>Of</strong> Town. Ma è l’intensità<br />

di uno sguardo dietro una maschera di cera.<br />

Una “freddezza” - quel posarsi della melodia su<br />

emulsioni algide di tastiera – necessaria, adattissima<br />

a rappresentare quell’intimismo tormentato in cui<br />

Springsteen sentì di doversi rifugiare. Da qui la scelta,<br />

consapevolissima, di eleggere a modello melodico<br />

la vecchia Stolen Car, concentrando l’obiettivo sui<br />

pochi metri quadri in cui si consuma tanta parte della<br />

vita dei più, sul riflesso sfrangiato di mille esistenze<br />

regolari. Certo, le tastiere di Walk Like A Man e Two<br />

Faces sono viscide<br />

come ranocchi<br />

di plastilina, per non dire degli sciagurati “sound<br />

effects” messi in testa alla title track, del drumming<br />

polimerizzato e di tanti sciocchi coretti a cura<br />

dell’ineffabile Patti Scialfa. Ma tant’è, erano tempi<br />

in cui l’arte della produzione andava organizzandosi<br />

in rigidi e frigidi format, sintetica mattanza da cui in<br />

pochi usciranno veramente indenni (non Lou Reed,<br />

non Neil Young...). Si potrebbe inoltre cavillare sul<br />

piglio tra l’inane e il tronfio di Tougher Than The Rest,<br />

ma - per quanto mi riguarda - le critiche finiscono<br />

qui. Sinceramente, trovo ragguardevole l’impeto<br />

di Spare Parts, la cui rabbia ancestrale supera (e di<br />

gran lunga) quella “volumetrica” di Born In The<br />

USA, mentre Brilliant Disguise ha semplicemente il<br />

passo delle ballate di razza. Inoltre, se Cautious Man<br />

anticipa di un decennio l’uggia insidiosa del Tom<br />

Joad, One Step Up sa rendere con cruda nitidezza la<br />

resa dei sentimenti al disincanto del quotidiano. In<br />

chiusura, poi, t’imbatti nella leggerezza stagionata<br />

di When You’re Alone e Valentine’s Day, dolci trepidazioni<br />

country-folk sull’ultima luce che bagna l’asfalto,<br />

quello stesso che un tempo - irreversibile - era pur<br />

sempre Thunder Road. Oggi, dopo oltre vent’anni di<br />

passi falsi, resurrezioni, recuperi d’archivio e flirt<br />

hollywoodiani, il Boss tenta con ostinazione ammirevole<br />

di porre se stesso e la propria musica al<br />

servizio dell’amato Paese. La cruda tenerezza senza<br />

scampo di quei racconti in prima persona è diventato<br />

un “noi” saturo di sensazionalismo emotivo ad<br />

alto tasso retorico. Rispetto al quale, quanto più sangue,<br />

ossa, tremori, penombre e luce in Tunnel <strong>Of</strong><br />

Love. E quanta America: quella più fragile e vera.<br />

stEfano solvEnti<br />

120 / Rearview Mirror Rearview Mirror / 121


The FlaMing lips<br />

ChrisTMas On Mars<br />

A FAntAsticAl Film FreAkout<br />

L’ultima fatica del delirante lunapark lipsiano è un viaggio in versione celluloide nei meandri<br />

della coscienza e della vita umana, un dramma tragico venato di humour nero e surreale.<br />

Ben sette anni sono trascorsi dall’inizio delle riprese<br />

di Christmas On Mars, ovvero Flaming Lips<br />

on film, impresa cominciata a girare nel 2001, terminata<br />

nel 2005 e il resto in post-produzione fino<br />

a metà 2008; a novembre dello stesso anno risale<br />

l’uscita in DVD. Nello stile autarchico della band,<br />

la pellicola è naturalmente artigianale, low budget<br />

e autoprodotta, con cast prevalentemente fai<br />

da te (band, staff, parenti, ad esclusione di qualche<br />

amico attore, come Adam Goldberg, il comico di<br />

Saturday Night Live Fred Armisen e Steve Burns),<br />

alla regia c’è Wayne Coyne aiutato da Bradley Beesley,<br />

documentarista e co-regista dei video della<br />

band di Oklahoma City.<br />

Cosa aspettarsi allora dall’ennesimo delirante lunapark<br />

lipsiano in versione celluloide? Niente di<br />

troppo diverso in fondo, per chi li ha sempre frequentati,<br />

dal loro stile psych freak. L’ambizioso ed<br />

elaborato (concettualmente) loro ultimo parto si<br />

può definire l’approdo ultimo di un percorso che<br />

ha fatto da sempre della tenacia, della tensione<br />

morale e dell’ottimismo venato di humour surreale<br />

e caustico la loro cifra stilistica. A chiudere un<br />

cerchio, forse, e riaprire, chissà una nuova fase in<br />

un prossimo futuro.<br />

Ossessione è la parola chiave per entrare in Christmas<br />

On Mars. La storia che fa da collante al<br />

film si svolge nel futuro, su uno spettrale pianeta<br />

Marte colonizzato dai terrestri; siamo alla vigilia<br />

del primo loro Natale passato lì, in una stazione<br />

spaziale ormai quasi in avaria, dove si verificano<br />

strane allucinazioni, blocchi psichici, suicidi e<br />

paranoie da isolamento, mentre nel frattempo si<br />

sta cercando di riparare le macchine e di dare un<br />

senso di ottimismo, celebrando la festività, anche<br />

in occasione della nascita del primo bambino lì;<br />

nascita artificiale che simboleggia l’inizio della<br />

colonizzazione marziana. L’arrivo di un bizzarro<br />

superessere, Coyne stesso, che ripara il generatore<br />

d’ossigeno, infonde speranza alla crew tutta e<br />

si riesce anche a risolvere un problema di gravità.<br />

“It’s magic and hard work that really gets the job done”, la<br />

filosofia coyniana sottesa in questo esprime compiutamente<br />

il suo credo (“siamo artefici della nostra<br />

felicità”). In altre parole, ottimismo e realismo. E<br />

un pragmatismo assoluto su tutto.<br />

Ossessione si diceva poc’anzi. La genesi di Christmas<br />

parte da lontano e mette insieme alcuni<br />

nuclei tematici delle personali ossessioni della mente<br />

di uno come Wayne Coyne. L’inconscio e i ricordi<br />

dell’infanzia, la differenza tra ciò che ricordiamo a<br />

posteriori e ciò che rimane sepolto nel subconscio,<br />

la parte infantile di noi tutti a cui da adulti difficilmente<br />

si riesce più ad accedere. In altre parole, i<br />

nostri viaggi interiori nel tempo. E la capacità difficilissima,<br />

che hanno pochi, di riuscire ad accedervi<br />

anche da adulti. Questo il punto di partenza che<br />

ha dato vita all’idea del film, cristallizzatasi dopo<br />

la morte del padre di Coyne, avvenuta nel 1997.<br />

C’è anche la fascinazione per l’oscurità e il senso<br />

del magico e dell’imprevedibile, presente negli<br />

anni formativi infantili, insieme al senso di luci ed<br />

ombre, così importante per un graphic designer<br />

qual è anche il Nostro. Luce ed ombra così correlate<br />

alle paure infantili del resto.<br />

Ancora la sensazione claustrofobica dell’isolamento<br />

e della relativa conseguente paranoia, così dominante<br />

in alcuni characters del film, i quali rappresentano<br />

la parte psichica che è rimasta intrappolata in<br />

un meccanismo e contro cui altri personaggi oppongono<br />

di contro il loro humour surreale e una<br />

certa dose deterrente di ottimismo. C’è in tutto ciò<br />

anche la percezione evidente della nostra fragilità,<br />

pur in un mondo ipertecnologizzato qual è quello<br />

attuale. And the fight for our sanity will be the fight of our<br />

lives. La paranoia da isolamento è anche quella che<br />

circolava nei Settanta intorno a una favoleggiata<br />

conquista USA del pianeta Marte non andata a<br />

buon fine e di conseguenza mai rivelata al mondo.<br />

Leggenda che fa un po’ il paio con la (supposta)<br />

conquista della Luna nel 1969. Teorie cospirative<br />

sul loro governo che tanto piacciono e continuano<br />

a piacere agli americani del resto.<br />

E su tutto, ritorna il senso della comunità e della<br />

famiglia, del clan così tipico dell’universo Lips. A<br />

proposto di ricordi, Coyne rivela come la storia si<br />

basi essenzialmente su di un (falso) ricordo della<br />

madre che, rimasta di notte sveglia davanti alla<br />

televisione - siamo a metà degli anni ’70 - aveva<br />

rielaborato, addormentandosi, qualcosa che credeva<br />

di aver visto in un film. La storia appunto che<br />

si svolgeva in una pellicola degli anni’40 su di uno<br />

122 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 123


sperduto avamposto, tipo sottomarino o astronave,<br />

dove una ciurma ormai alla deriva per guasti meccanici<br />

e convinta di dover morire, nel momento in<br />

cui affronta la morte e la accetta, viene visitata da<br />

un’entità sovrannaturale e si trova così cambiata<br />

positivamente dall’evento. Che è quel che succede<br />

in Christmas d’altra parte. Inutile dire che il film<br />

oggetto del sogno-ricordo si rivelò poi difficile da<br />

trovare nel corso del tempo e che sia stata maturata<br />

da Coyne la convinzione che non fosse mai<br />

esistito.<br />

Se la genesi di Christmas ha avuto le radici fin<br />

qui esaminate, quali sono state invece le influenze<br />

filmiche e tematiche che ne hanno determinato il<br />

risultato finale? Si è già detto della sua lunga elaborazione<br />

e postproduzione, frammista alla lavorazione<br />

degli album da fine ‘90 ad oggi. In mezzo<br />

alle riprese anche la dipendenza, poi vinta, da<br />

eroina del protagonista del film, il batterista Steve<br />

Drozd (alias Major Syrtis) tra le altre cose. “Forse<br />

Eraserhead o Dead Man misti a fantasia e aspetti spaziali,<br />

come Il mago di Oz e probabilmente 2001-Odissea nello<br />

spazio, ma realizzati senza veri attori o budget e ambientati<br />

durante il periodo natalizio. La storia che si svolge possiede<br />

della magia infantile mista a una situazione tragica e realistica”.<br />

E’ Coyne stesso ad offrirci suggerimenti<br />

sulle alcune delle influenze, dal commento a Christmas<br />

On Mars sul sito ufficiale flaminglips.<br />

com. Certamente essenziali sono stati Kubrick,<br />

la magia e la speranza di un film come Il mago di<br />

Oz di Victor Fleming, l’artigianalità, il paesaggio<br />

industriale ed emotivo desolante di Eraserhead<br />

di David Lynch (ma il bambino dell’allucinazione<br />

in Christmas è più tranquillizzante!), il senso del<br />

surreale e del parodistico del Dark Star di John<br />

Carpenter, frammisti a spruzzate di Solaris e<br />

Tetsuo. Senza dimenticare però la science fiction<br />

più popolare di fumetti, b-movies e serie TV, quali<br />

Star Trek, e uno z-movie scombinato quale Santa<br />

Claus Conquers The Martians (di Nicholas<br />

Webster,1964) che fa il paio con i film del famigerato<br />

Ed Wood. Un immaginario fertilissimo per<br />

chi cresceva negli psichedelici Sessanta-Settanta<br />

tra hippismo e controculture. E il senso del citazionismo<br />

diffuso da sempre nei Lips.<br />

Girato in 16 mm con prevalenza del bianco e nero<br />

(il colore viene associato al suono in scene topiche,<br />

come le disturbanti visioni del Major Syrtis o l’ap-<br />

parizione del marziano verdissimo e ipercolorato<br />

Coyne), Christmas On Mars è di base un film<br />

puramente artigianale - girato per la maggior parte<br />

nel giardino di casa - ma con ambizioni “arty”:<br />

ritmo rallentato, esplosioni soniche, pellicola invecchiata<br />

e via dicendo. Sarebbe un errore considerarlo<br />

unicamente come prodotto a sé stante -<br />

prodotto di modesta caratura, in verità. Altra cosa<br />

è immetterlo contestualmente nell’universo lipsiano,<br />

da dove scaturiscono, come si è già visto, una<br />

miriade di sensi compiuti, che partono da lontano<br />

nel tempo e chiudono completando il cerchio di<br />

un’esperienza più o meno trentennale all’insegna<br />

dell’immaginazione e della psichedelica più sfrenata<br />

e liberatoria.<br />

Si diceva dell’irruzione della musica in alcune scene;<br />

la colonna sonora viene acclusa all’edizione<br />

speciale di questo DVD, ed alcuni estratti erano<br />

già stati pubblicati negli anni scorsi; la composizione<br />

risale alle session di quello che sarebbe poi<br />

diventato Yoshimi Battles The Pink Robots<br />

(2002). Lo score strumentale, che irrompe sonicamente<br />

a maggior volume in alcune delle scene più<br />

deraglianti, ha derivazione prettamente ambient<br />

con inserti kraut orchestrali: Drozd negli extra del<br />

DVD cita non a caso Bernard Hermann, Brian<br />

Eno e Stravinskji come maggiori influenze compositive.<br />

E Coyne parla di tono drammatico della<br />

musica che ben si adatta e amplifica la tragicità e<br />

l’amarezza di fondo della pellicola.<br />

Ultimo paradosso e humour nero dei Nostri, la<br />

mancanza di sottotitoli - inglese compreso - se si<br />

escludono i soli presenti, in cirillico (!). Ad un esame<br />

degli stessi nei titoli di coda di Christmas, è<br />

stato sottolineato che la traduzione non è neanche<br />

letterale, ma immette dell’altro, come ad esempio<br />

commenti sulla ricerca della felicità nella vita e via<br />

discorrendo. Ennesimo detour di senso. Ma non ci<br />

aspettavamo davvero niente di diverso.<br />

“La vita è dura per lo più priva di senso. Ma sta a noi renderla<br />

migliore. Sta a noi cercarne il magico e il senso di meraviglia<br />

sotteso. E nel significato più profondo, scoprire cosa<br />

sia il sublime. Ce la possiamo fare, al di là delle sofferenze,<br />

a creare la nostra gioia e la nostra felicità. Questo è il Natale<br />

di cui parliamo”. (Wayne Coyne, 2008)<br />

tErEsa grEco<br />

124 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 125<br />

credits:<br />

• Titolo originale: The Flaming lips - Christmas On<br />

Mars (DVD & CD - Warner, novembre 2008)<br />

• Regia: Wayne Coyne con Bradley Beesley e George<br />

Salisbury<br />

• Sceneggiatura: Wayne Coyne<br />

• Fotografia: Jeremy Lasky<br />

• Musica: The Flaming Lips<br />

•<br />

•<br />

•<br />

•<br />

Cast: Steven Drozd, Wayne Coyne, Adam Goldberg,<br />

Fred Armisen, Steve Burns, Michael Ivins, Kliph<br />

Scurlock, J. Michelle Martin-Coyne<br />

Genere: Fantastico, drammatico<br />

Nazionalità: USA<br />

Durata: 1h 22’


tony ManEro (di paBlo larrain - cilE<br />

2009)<br />

Abbiamo visto più volte sul grande schermo la<br />

storia tragica delle dittature sudamericane, ma un<br />

film il cui protagonista non è il buono ma risulta<br />

persino sgradevole non ce lo ricordavamo. E neanche<br />

un tema all’apparenza frivolo come il ballo,<br />

ma così rivelatorio in realtà della condizione della<br />

popolazione cilena degli anni ’70 alle prese con la<br />

dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990). Popolazione<br />

rassegnata e stanca, che vede la violenza<br />

per strada giorno per giorno, gente abbrutita, coprifuochi,<br />

esercito e soprusi.<br />

Chi si ribella e chi per sfuggire alla sordida real-<br />

tà evade, con il cinema “straniero”, americano in<br />

particolare, con il ballo, anche questo importato.<br />

Siamo nel 1978, che vide la “febbre del sabato sera”<br />

di travoltiana memoria (Saturday Night Fever,<br />

1977) diventare globalmente febbre di tutti. O<br />

quasi. E la disco massiccio fenomeno di costume.<br />

Ci troviamo alla periferia di Santiago del Cile.<br />

Raúl Peralta (Alfredo Castro, anche sceneggiatore<br />

del film) è un ballerino cinquantenne che<br />

sbarca il lunario arrangiandosi come può, con l’ossessione<br />

per questo film, che va a rivedere in sala<br />

in continuazione.<br />

È a capo di un gruppo di ballerini che si esibiscono<br />

in un piccolo bar di periferia, e anche loro sognano<br />

il successo e l’evasione. Ma a<br />

differenza di chi lo circonda, il protagonista<br />

non esita a fare qualsiasi cosa<br />

per perseguire i propri scopi di affermazione,<br />

anche rubare, ingannare,<br />

uccidere. Indifferente a tutto quello<br />

che ha attorno, se non lo tocca da vicino<br />

per i suoi scopi primari. Tutto<br />

pur di migliorare le sue performance<br />

di ballo e cercare di vincere dei soldi<br />

e la gloria a un concorso in televisione,<br />

presentandosi come sosia di John<br />

Travolta alias Tony Manero.<br />

Pablo Larrain, qui al secondo film<br />

dopo Fuga del 2005, affronta il film<br />

realizzandolo con stile documentaristico,<br />

incollandosi quasi ai personaggi<br />

e seguendoli strettamente, con alcune<br />

scene anche in fuorifuoco. Assistiamo<br />

così passo dopo passo all’amoralità<br />

di Raúl, fino alle estreme conseguenze;<br />

Larrain lascia il finale in sospeso,<br />

dopo averci fatto assistere attoniti alla<br />

vicenda. E l’altra storia parallela, il<br />

cui epilogo è in sottofinale (la figlia<br />

della sua convivente e il suo ragazzo<br />

arrestati dalla polizia per opposizione<br />

clandestina al regime) che era la normalità<br />

tragica in anni come quelli, è<br />

vista con gli occhi del protagonista, che al momento<br />

dell’irruzione nella casa in cui anche lui vive, trova<br />

il modo per fuggire, anzi è come un fantasma, coperto<br />

come se non fosse mai esistito. Un no man’s<br />

land, uno spettro che si aggira nei meandri di una<br />

dittatura approfittando dell’amoralità generale e<br />

usandola a suo favore.<br />

E il senso di continua tensione in Tony Manero<br />

è avvertibile sin da subito, quando dopo le scene<br />

iniziali in cui il protagonista sembrava solo una povera<br />

vittima che cerca di farcela in qualche modo,<br />

si rivela bruscamente per quel che è. Momento rivelatore<br />

da cui si procede poi in discesa negativa<br />

per tutto la pellicola.<br />

L’ultima fatica di Larrain si conferma quindi come<br />

un crudissimo spaccato della perdita di valori e di<br />

identità di una società, ormai rassegnata a tutto.<br />

Un fallimento dei personaggi che è quello di tutto il<br />

Cile di allora. E un film estremamente politico.<br />

Vincitore del premio per il miglior film e per il miglior<br />

attore al Festival di Torino 2008, premio meritato<br />

dall’ottimo Castro, che con la sua mimica, i<br />

silenzi, la gestualità minimale ha reso al meglio la<br />

mancanza di morale del tragico Raúl.<br />

tErEsa grEco<br />

Milk (di gus van sant – usa, 2009)<br />

“Sono Harvey Milk e voglio reclutarvi tutti”.<br />

Gus Van Sant alle prese con un biopic? Non proprio,<br />

anzi non solo.<br />

Nel portare sullo schermo un progetto accarezzato<br />

già da un po’ di anni e mai riuscito a realizzare finora,<br />

si avvicina abbastanza a suoi film “regolari”<br />

quali Will Hunting (1997) Psycho (1998) e Scoprendo<br />

Forrester (2000). La libertà che offre una<br />

storia del genere non è invero moltissima, anche se<br />

pensando al suo recente Last Days (2005) ispirato<br />

a Cobain, i margini di deragliamento ci sarebbero<br />

potuti benissimo stare. Invece il regista sceglie<br />

apparentemente un impianto narrativo classico per<br />

raccontare parte della vita dell’attivista Harvey<br />

Milk (1930-1978), il primo americano omosessuale<br />

dichiarato a riuscire a ricoprire una carica pubblica,<br />

quella di consigliere comunale nell’America<br />

126 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 127


omofoba di fine anni ’70, a San Francisco, e tragicamente<br />

assassinato da un suo collega.<br />

Prendendo spunto dalle centinaia di taccuini e registrazioni<br />

audio che Milk aveva lasciato, in particolare<br />

da un lungo nastro rievocativo della sua<br />

carriera da rendere pubblico in caso di assassinio,<br />

Van Sant usa questo espediente narrativo, partendo<br />

dalla decisione del coming out personale e politico<br />

del personaggio dopo anni di vita regolare<br />

e conformistica. Si comincia quindi da un disvelamento,<br />

iniziando a rivelare se stessi.<br />

“Lo stile più rivoluzionario che mi sembrava giusto seguire<br />

per raccontare la vita di un gay era proprio quello classico,<br />

per lasciare spazio alla storia e a tutto quello che di importante<br />

Milk ha fatto, e mettere l’etica prima dell’estetica. Non<br />

volevo che fosse considerato un eroe ma un grande uomo, che<br />

si preoccupava dei diritti di tutti gli esseri umani. Comunque<br />

non penso assolutamente di avere rinunciato al mio personale<br />

modo di girare”. Così dalle parole dello stesso autore.<br />

Il tocco di Van Sant c’è comunque tutto: i lunghi<br />

pianosequenza, la fotografia minimale, la cura dei<br />

particolari, alcuni dei quali appena appena insistiti.<br />

Come il riflesso del fischietto che è inquadrato<br />

durante una manifestazione di protesta, a simboleggiare<br />

il movimento tutto, o l’inquadratura in<br />

prefinale, durante l’assassinio, con Josh Brolin<br />

nei corridoi del Comune, inquadrato di spalle alla<br />

maniera di Elephant mentre meccanicamente<br />

dà vita al massacro di Milk e del sindaco che lo<br />

appoggiava. Viene in mente un altro grande alle<br />

prese con film più apparentemente regolari della<br />

sua carriera, il Cronenberg di A History <strong>Of</strong><br />

Violence (2005).<br />

E non c’è solo in scena quasi il protagonista, come<br />

in genere nei biopic. Van Sant è Van Sant ed ecco<br />

coralmente la sua massa di diseredati, hobo, adolescenti,<br />

emarginati di tutti i suoi film, il popolo gay<br />

di San Francisco, qui al centro dell’attenzione per<br />

combattere e affermare i propri diritti. Contro la<br />

Proposition 6, una proposta di legge che chiedeva<br />

tra le altre cose l’allontanamento degli omosessuali<br />

dalle scuole pubbliche della California e che per<br />

mesi infiammò il dibattito politico e sociale americano.<br />

L’abbattimento di catene che imprigionavano<br />

la vita sociale degli omosessuali, e di riflesso<br />

anche la loro vita privata, il togliersi le maschere e<br />

rivelarsi per quel che si era: ecco uno dei capisaldi<br />

del pensiero di Milk (“dì a tutti chi sei”, rivolto a<br />

chiunque, non solo alla comunità gay).<br />

E per ultimo non si può non citare il gran lavoro<br />

sul e del cast tutto: Sean Penn si cuce letteralmente<br />

addosso i panni di Milk, conferendo al<br />

personaggio una nota dolente e malinconica da<br />

grande istrione; così anche i tre co-protagonisti,<br />

Emile Hirsch che interpreta l’attivista Cleve Jones,<br />

già visto l’anno scorso in Into The Wild, James<br />

Franco il compagno di Milk e il tormentato<br />

Brolin, l’assassino Dan White.<br />

tErEsa grEco<br />

THE FIREMAN<br />

(Paul McCartney & Youth)<br />

“Electric Arguments” MPL<br />

FUCK BUTTONS<br />

“Street Horrrsing”<br />

ATP Recordings<br />

DEERHOOF<br />

“<strong>Of</strong>fend Maggie!”<br />

Kill Rock Star<br />

DAVID BYRNE & BRIAN ENO<br />

“Everything That Happens Will<br />

Happen Today”<br />

VIC CHESNUTT/ELF POWER<br />

“Dark Developments”<br />

Orange Twin<br />

MURCOF<br />

“Versailles Sessions”<br />

Leaf Label<br />

ROSE KEMP<br />

“Unholy Majesty”<br />

One Little Indian<br />

BLACK MOUNTAIN<br />

“In The Future”<br />

Jagjaguwar<br />

PETE MOLINARI<br />

“A Virtual Landslide”<br />

Damaged Goods<br />

BENGA<br />

“Diary <strong>Of</strong> An Afro Warrior”<br />

Tempa<br />

WILDBIRDS & PEACEDRUMS<br />

“Heartcore”<br />

Leaf<br />

THE BLACK CROWES<br />

“Warpaint”<br />

Silver Arrow<br />

ELI PAPERBOY REED<br />

“Roll With You”<br />

Q Division<br />

EARTH<br />

“The Bees Made Honey In The<br />

Lion’s Skull”<br />

Southern Lord<br />

MY BRIGHTEST DIAMOND<br />

“Thousand Shark’s Teeth”<br />

Asthmatic Kitty<br />

XIU XIU<br />

“Women As Lovers”<br />

Kill Rock Star<br />

128 / La Sera della Prima La Sera della Prima / 129<br />

SEUN KUTI<br />

“Many Thing”<br />

Tout Ou Tard<br />

JULIAN COPE<br />

“Black Sheep”<br />

Head Heritage<br />

BEST OF 2008<br />

WIRE<br />

“Object 47”<br />

Pink Flag<br />

THE MELVINS<br />

“Nude With Boots”<br />

Ipecac<br />

DISTRIBUZIONE / PROMOZIONE / EDIZIONI<br />

via Fortebraccio 20/A, 00176 Roma (Pigneto) Tel. 06 21700139 Fax: 06 2148346 - e-mail: info@goodfellas.it<br />

www.goodfellas.it - www.myspace.com/goodfellasdistribution - news sempre aggiornate su goodfellasblogspot.com<br />

ALBOROSIE<br />

“Soul Pirate”<br />

Forward<br />

JESSE MALIN<br />

“Mercury Retrograde”<br />

One Little Indian<br />

VENDITA PER CORRISPONDENZA: Ordini telefonici: +39 06 90286578 - Ordini via e-mail: mail@goodfellas.it<br />

RODRIGUEZ<br />

“Cold Fact”<br />

Light In The Attic<br />

PATTI SMITH & KEVIN SHIELDS<br />

“The Coral Sea”<br />

Pask<br />

A SILVER MT. ZION<br />

“13 Blues For Thirteen Moons”<br />

Constellation<br />

RADIATION RECORDS<br />

Circ.ne Casilina 44 (Pigneto) 00176 ROMA


l’incantevole voce<br />

di florez<br />

Dopo sei anni ritorna al Comunale di Bologna I Puritani di Vincenzo Bellini, ancora una volta con la regia e le scene di<br />

Pier’Alli, che, per la quarta volta consecutiva mette in scena l’ultima opera di Bellini nel teatro della città petroniana. Un<br />

allestimento bello, anche se non eccezionale, nel quale la splendida voce del tenore Juan Diego Florez ha fatto la differenza..<br />

Testo: Daniele Follero<br />

i pu r i t a n i di vi n c e n z o be l l i n i – te a t r o co M u n a l e di bo l o g n a (8 – 17 ge n n a i o 2009)<br />

I Puritani: Opera seria in tre atti su libretto di Carlo Pepoli.<br />

Musica di Vincenzo Bellini. Regia e scene: Pier’Alli. Orchestra<br />

del Teatro Comunale di Bologna, direttore Michele<br />

Mariotti<br />

Al di là dei meriti stilistici e di quelli storici, imprescindibili<br />

nel caso di un’opera rimasta saldamente<br />

legata al repertorio per 150 anni, ciò che conferisce<br />

un’aura quasi mitica ai Puritani di Bellini, è<br />

la stretta relazione che essa ha avuto con la morte<br />

del compositore siciliano, scomparso giovanissimo<br />

e nel pieno del suo successo internazionale, una<br />

manciata di mesi dopo la Prima parigina di quella<br />

che sarebbe stata la sua ultima partitura per il teatro.<br />

La morte prematura di un artista che dimostra<br />

di avere ancora molto da dire, ha sempre destato<br />

un certo fascino, orientando la critica verso un giudizio<br />

sbilanciato verso ciò che sarebbe diventato,<br />

quell’artista, se il fato non avesse deciso anzitempo<br />

la sua scomparsa. E’ successo con molti musicisti<br />

del passato e succede ancora oggi nei più svariati<br />

ambiti musicali: cosa sarebbe diventato Mozart<br />

se avesse vissuto i primi fermenti romantici, lui<br />

che in anticipo su tutti aveva già impregnato le sue<br />

ultime opere di una drammaticità anticipatrice<br />

dello spirito beethoveniano? cosa sarebbe stata la<br />

musica del Settecento se Pergolesi avesse potuto<br />

esprimere la sua maturità invece di essere stroncato<br />

a 27 anni dalla tisi? e come sarebbe il rock aves-<br />

se potuto godere ancora qualche anno della presenza<br />

di icone viventi come Jimi Hendrix, Jim<br />

Morrison e Kurt Cobain? E Verdi? Il Verdi<br />

popolare, di Traviata e Rigoletto, il musicista<br />

risorgimentale per eccellenza, avrebbe avuto una<br />

carriera così limpida se la vita avesse permesso a<br />

Bellini di andare oltre I Puritani?<br />

Domande inutili, forse, ma che aprono a un ventaglio<br />

di ipotesi ampio e suggestivo, che condiziona<br />

inevitabilmente il giudizio storico sull’arte e le sue<br />

espressioni.<br />

L’ultima opera del compositore catanese, pur mantenendo<br />

alcune caratteristiche tipicamente belcantiste<br />

(non manca il lirismo che aveva reso grandi<br />

due grandi capolavori precedenti come Norma e<br />

La Sonnambula) segna anche un superamento<br />

dello stile belliniano, verso tecniche e atmosfere che<br />

ben presto diverranno caratteristiche fondamentali<br />

del melodramma romantico: maggiore espressività<br />

e colore dell’orchestra; uno sviluppo musicale sempre<br />

più intimamente legato all’azione drammatica;<br />

cantanti ai quali è sempre più richiesta la capacità<br />

di interpretazione attoriale a scapito del virtuosismo;<br />

argomento patriottico. L’estetismo lascia il<br />

posto alla funzione drammatica della musica, che<br />

culminerà nella concezione totalizzante del teatro<br />

di Wagner, per il quale musica, testo e azione diventano<br />

un tutt’uno inscindibile.<br />

Il conflitto tra i Puritani seguaci di Cromwell e gli<br />

Stuart assume, nel libretto dell’esule patriota bolognese<br />

Carlo Pepoli, toni che preannunciano già il<br />

risorgimento italiano, divenendo un esempio di lotta<br />

per la libertà trasferibile idealmente nello spirito<br />

nazionalista italiano dell’epoca. Da questo punto<br />

di vista l’opera di Bellini non acquistò la fama e il<br />

rango di vero e proprio “inno alla Patria” di alcune<br />

musiche verdiane, anche se passi dei Puritani come<br />

“Suona La Tromba, Intrepido” già esprimevano<br />

quel complesso di valori liberali di cui il compositore<br />

di Busseto sarebbe diventato, di lì a poco, la più<br />

evidente espressione.<br />

Non sarà la Norma in quanto a successo popolare<br />

e posizione nella particolare gerarchia del repertorio,<br />

ma I Puritani è entrata di diritto tra le opere<br />

più eseguite di Bellini e, più in generale, del teatro<br />

musicale della prima metà dell’Ottocento e, con<br />

una certa continuità, sin dai suoi esordi, è arrivato<br />

fino a noi, come dimostrano le rappresentazioni<br />

ospitate dal Teatro Comunale di Bologna, che dal<br />

1836 e prima di questo nuovo allestimento, arrivavano<br />

fino al 2002. Nella memoria bolognese<br />

resterà senz’altro la grande interpretazione di un<br />

Pavarotti già maturo, ma non ancora divissimo,<br />

del 1969, accompagnato da Mirella Freni, subentrata<br />

a un’indisponibile Joan Southerland<br />

(come dire, calcisticamente, che esce Maradona<br />

ed entra Platini!).<br />

Altri tempi, direbbe qualche nostalgico del belcanto.<br />

“Tiempe Belle ‘E ‘Na Vota…E Pecchè Nun Turnate”,<br />

come recita una nota canzone napoletana, con<br />

nostalgia e pessimismo. Domanda legittima per il<br />

melomane. Che forse però, ascoltando la voce di<br />

Juan Diego Florez, qualche speranza l’avrà covata,<br />

dentro di sé, come il tifoso (sempre per rimanere<br />

in tema calcistico) che solleva speranze nella nuova<br />

promessa, sognando il ritorno dei grandi campioni<br />

del passato. La voce di Florez, tenore peruviano ancora<br />

giovane ma già maturo musicalmente e di notevole<br />

fama internazionale, è, secondo la mia ancor<br />

più giovane conoscenza della lirica, la più espressiva<br />

e limpida voce tenorile che abbia mai ascoltato dal<br />

vivo. Una voce che prende la scena con una natu-<br />

ralezza e una chiarezza che oltrepassano il livello<br />

medio delle altre presenze, che riesce a svolazzare<br />

tra le note alte, ma è capace anche di vestirsi di toni<br />

cupi e drammatici senza perdere vigore. In alcuni<br />

tratti il ruolo di Lord Arturo Talbo, sembra cucito<br />

perfettamente per la plasticità della sua voce, ancor<br />

più che i ruoli mozartiani, grazie ai quali si è imposto<br />

sulla scena internazionale.<br />

L’allestimento, una collaborazione a tre tra il Comunale,<br />

il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari è<br />

stato, per il teatro bolognese il quarto consecutivo a<br />

portare la firma del regista fiorentino Pier’ Alli, del<br />

quale avevamo potuto apprezzare, lo scorso anno,<br />

la messinscena multimediale del Requiem di Verdi.<br />

Niente video, stavolta, ma predilezione per scene<br />

mastodontiche e spigolose, a contatto con le quali<br />

la luce fioca crea un’atmosfera cupamente gotica.<br />

Enormi spade, a mo’ di colonne doriche disegnano<br />

la scena, tenendo ben presente per tutto il dramma<br />

l’idea del conflitto, della lotta a testimonianza della<br />

grande attenzione ai simboli caratteristica dello stile<br />

scenografico di Pier’Alli.<br />

Sul podio, Michele Mariotti, ormai sempre più<br />

lontano dalla qualifica di “giovane” vista la sua<br />

sicurezza nel dirigere, ha interpretato in maniera<br />

decisa e accentuata i chiaroscuri presenti nella<br />

partitura, dimostrandosi un dignitoso erede di<br />

Daniele Gatti, pur avendo caratteristiche diverse<br />

dal direttore milanese.<br />

Quando le cose stanno così, quando la regia funziona<br />

e dialoga bene con la musica e con cantanti<br />

“sopra la media” come Florez, è un bene per tutti.<br />

Anche per chi la lode non la meriterebbe.<br />

a night at the opera / 131


dmitri shostakovich<br />

Fino all’ultima sinfonia<br />

Stretta tra la voglia di aprirsi ai nuovi linguaggi delle avanguardie europee, la fedeltà agli ideali del socialismo sovietico e le<br />

censure del regime, la carriera artisica di Dmitri Schostakovich ha coinciso del tutto con la vita dell’U.R.S.S., dalla morte<br />

di Lenin alla “normalizzazione” di Breznev, assorbendone tutte le contraddizioni. Personaggio schivo, introverso, amico di<br />

Majakovskij, comunista convinto, ma spesso avversato dal regime, Mitja, come veniva chiamato dai più intimi, rappresenta,<br />

nel bene e nel male il compositore sovietico per eccellenza. Testo: Daniele Follero<br />

“Quando un uomo è disperato vuol dire che crede ancora in<br />

qualcosa”<br />

Dmitri Schostakovich<br />

Affrontare e, talvolta, giudicare la storia e l’opera<br />

di artisti vissuti all’ombra dei regimi totalitari non<br />

è mai cosa facile. In società dove la cultura è controllata<br />

da istituzioni create ad hoc e le espressioni<br />

artistiche sono censurate ogni qualvolta non si allineino<br />

alle direttive del regime, le soluzioni sono<br />

due, non si scappa: emigrare (laddove si possa) o<br />

adattarsi, reprimendo, in maniera un po’ schizofrenica,<br />

gli istinti creativi che rischiano di trasbordare<br />

verso libertà non concesse. Molti artisti del<br />

Novecento (ma anche scienziati, come Freud e<br />

Einstein), nati in Germania, Italia o Russia e sensibili<br />

ai cambiamenti radicali delle avanguardie<br />

“storiche” (che coincisero, cronologicamente, con<br />

il periodo delle grandi dittature del XX secolo) optarono<br />

per la prima soluzione, con la conseguenza<br />

di apparire come degli eroi, pur avendo scelto la<br />

via più semplice (per modo di dire, ovviamente)<br />

ma, in ogni caso, più coerente con le proprie idee,<br />

politiche e culturali.<br />

Una scelta quasi obbligata per evitare di scendere<br />

a compromessi umilianti, che qualcuno non<br />

ha avuto il coraggio o la semplice intenzione di<br />

compiere, con conseguenze spesso devastanti per<br />

la propria carriera o, quantomeno, con il rischio<br />

sempre incombente di sacrificare, fino all’insop-<br />

portabile, l’arte alla vita politica. Non lo fece Mascagni,<br />

adattatosi senza vergogna alle esigenze<br />

populiste del fascismo e caduto presto nel dimenticatoio;<br />

e lo fece solo a metà Prokofiev, prendendo<br />

le distanze dalla rivoluzione leninista per ritornare<br />

in U.R.S.S. all’apice del regime stalinista.<br />

Per Shostakovich, invece, che con gli ideali della<br />

Rivoluzione di Ottobre si era alimentato e credeva<br />

nel socialismo sovietico, restare a vivere in patria<br />

fu atto dovuto, un motivo d’orgoglio, manifestato<br />

attraverso la piena adesione agli ideali del nuovo<br />

potere politico che aveva rovesciato l’ultimo zar.<br />

Ci credette a lungo, nonostante percepisse che<br />

qualcosa non quadrava. Ci credette, almeno fino<br />

a quando, nel 1935, la Pravda non pubblicò quel<br />

maledetto articolo sulla sua Lady Machbeth, dal<br />

titolo: “Caos anziché musica”. A cui seguì il marchio<br />

definitivo di formalismo apposto dal regime<br />

alla sua Quarta Sinfonia, Da quel momento, la<br />

contraddizione tra lo Shostakovich artista e il cittadino<br />

sovietico cominciò a diventare incolmabile e<br />

a rappresentare un ostacolo sempre più insormontabile<br />

per il carattere mansueto e debole (come la<br />

sua salute) del compositore di San Pietroburgo.<br />

la ri v o l u z i o n e di Mi t j a<br />

Nato a San Pietroburgo nel 1906, ma vissuto a<br />

Leningrado (il nome che assunse la sua città natale<br />

dopo il 1917) Shostakovich è figlio legittimo,<br />

sia per ragioni anagrafiche sia ideologiche, della<br />

rivoluzione bolscevica. Il clima familiare nel quale<br />

cresce il piccolo Mitja (come veniva chiamato dai<br />

parenti e dagli amici più intimi) risente molto delle<br />

idee leniniste e contribuirà non poco a stimolare il<br />

suo spirito progressista, fino a coinvolgerlo di persona<br />

(è stato per molto tempo membro dell’Unione<br />

dei Compositori). Durante gli anni giovanili dei<br />

primi studi musicali, viene in contatto con Prokofiev,<br />

di qualche anno più grande,e con Majakovskij,<br />

personaggi che influenzeranno non poco la prima<br />

sua prima fase compositiva, anche se i rapporti tra<br />

lui e il compositore ucraino non saranno mai idilliaci<br />

e si limiteranno ad una cortesia di maniera<br />

non priva di critiche reciproche. Già nella Prima<br />

Sinfonia, che lo impone all’attenzione internazio-<br />

nale all’età di appena 19 anni, il “modernismo”<br />

del primo Prokofiev è presente in tutta la sua carica<br />

dirompente, espressa con sonorità spigolose<br />

e ritmi sferzanti, trame melodico-armoniche che<br />

alternano atonalità e politonalità e un particolare<br />

interesse per l’organizzazione timbrica. Ma non<br />

mancano le influenze mitteleuropee, che si concretizzano,<br />

nei primi lavori sinfonici di S.(almeno<br />

fino alla Quarta Sinfonia), soprattutto nella figura<br />

di Paul Hindemith e del suo neo-oggettivismo.<br />

Pungente, sarcastico, nel complesso uno stile non<br />

certo facile da digerire, per un ambiente musicale<br />

come quello russo, ancora strettamente legato al<br />

sinfonismo tardo-romantico.<br />

Se lo stile guarda all’occidente, però, le intenzioni,<br />

i cosiddetti contemporanei / 133


i messaggi, sono tutti rivolti al socialismo sovietico.<br />

Spesso le composizioni di S. sono dedicate ai<br />

miti della rivoluzione o scritte per particolari celebrazioni<br />

(ne è un esempio la Seconda Sinfonia,<br />

denominata “Ottobre” e composta per il decimo<br />

anniversario della Rivoluzione, nel 1927).<br />

Anche nell’opera lo stile di S. si mostra ricco di<br />

sfumature ed evidenzia una forte carica ironica,<br />

espressa attraverso un linguaggio musicale a volte<br />

parodistico, altre esasperato, con l’orchestra che assume<br />

un ruolo determinante nell’effetto complessivo.<br />

Nasce con queste caratteristiche il suo primo<br />

lavoro teatrale, Il Naso (1930), tratto dall’omonimo<br />

racconto di Gogol’. La personale elaborazione dei<br />

linguaggi delle avanguardie europee (Stravinskij,<br />

Hindemith, Berg) e la deformazione di timbri e<br />

voci che assume toni talvolta ironici, talvolta grotteschi,<br />

rendono quest’opera assolutamente eccezionale<br />

nel mondo in cui prende vita.<br />

il re a l i s M o so c i a l i s t a , sh o s t a K o v i c h e<br />

l’u.r.s.s.: u n a st o r i a di ce n s u r e<br />

Il dibattito culturale su un’arte che esprimesse la realtà<br />

della società post-rivoluzionaria e sovietica era<br />

già ampiamente avviato all’epoca, ma la censura<br />

non aveva ancora colpito il compagno Mitja che,<br />

seppure in maniera troppo “occidentale” (a quei<br />

tempi sinonimo di borghese e quindi di nemico<br />

politico e culturale) aveva dimostrato di aderire ai<br />

precetti della nuova arte russa. Un’adesione ad un<br />

linguaggio che fosse il più possibile comunicativo,<br />

celebrativo e funzionale al cambiamento radicale<br />

della società. E che S. interpreta a suo modo attraverso<br />

una raffinatezza compositiva che gli permette<br />

di esprimersi a più livelli, senza per questo cadere<br />

nelle grinfie della critica più ortodossa e intransigente.<br />

Ma questo equilibrio riesce a durare ancora<br />

qualche anno, anche perché sempre più stretta si fa<br />

la morsa del potere politico (che culminerà dopo la<br />

seconda guerra mondiale negli “editti” di Ždanov,<br />

il plenipotenziario “colonnello” di Stalin) sulla cultura<br />

e l’accusa di “formalismo” (cioè di un supposto<br />

interesse per la forma in sé a scapito della comuni-<br />

cazione) diventa lo strumento più in voga per “scomunicare”<br />

un artista. Una recensione sulla Pravda<br />

critica aspramente la seconda opera teatrale di S.,<br />

Lady Macbeth Del Distretto di Mcensk (rivisitata<br />

poi nel 1963 con il nome della protagonista femminile,<br />

Katerina Ismailova), che pure voleva interpretare<br />

il delitto di Macbeth come gesto di rivolta antiborghese,<br />

bollandola come “caos” e, addirittura,<br />

parlando di “pornofonia” nel caso della descrizione<br />

musicale dell’amplesso tra Katerina e Sergej. Segue<br />

a ruota la stroncatura della sua Quarta Sinfonia. E<br />

in meno di un anno uno dei più grandi compositori<br />

della Russia Sovietica, viene messo al bando e<br />

costretto a ritrattare le sue idee artistiche (firmando<br />

addirittura una poco convinta condanna critica alla<br />

figura di Schoenberg), con lo scopo di fornire solide<br />

garanzie al controllo del regime. E’ da questo momento<br />

che la contraddizione che covava nel mite<br />

S. esplode in maniera irruenta nella sua vita. Una<br />

condizione sì dell’uomo, ma che si può estendere a<br />

tutta la società sovietica, stretta tra parole di libertà<br />

e un atteggiamento del potere che esprime l’esatto<br />

contrario<br />

Si spiega così la virata improvvisa di S., dalla Quinta<br />

Sinfonia in poi, verso uno stile più sobrio e lirico,<br />

che abbandona i radicalismi avanguardisti e<br />

si riavvicina al tonalismo. L’orchestra viene ridotta,<br />

il linguaggio si accosta di più a Mahler e al poema<br />

sinfonico e spesso e volentieri vengono utilizzati<br />

testi, come nel caso della celebre Settima Sinfonia<br />

“Leningrado”, scritta durante la battaglia del 1941.<br />

La vitalità compositiva di S. non si spegne neanche<br />

durante gli anni della guerra, ma ben presto un altro<br />

colpo, un’altra confessione strappata con la forza<br />

a seguito del rapporto Ždanov, lo costringe ad<br />

abbandonare qualsiasi benché minima intenzione<br />

innovativa, lasciando cadere la sua musica verso<br />

toni maggiormente celebrativi e un sinfonismo tardo-romantico<br />

alla Tchaikovsky.<br />

rif l e t t e n d o su l l a Mo r t e<br />

La conseguenza di questi colpi bassi, porta un ormai<br />

disilluso S. ad allontanarsi sempre di più dal-<br />

la realtà (ormai irreparabilmente confusa con la<br />

propaganda. Una condizione descritta in maniera<br />

eccellente da Orwell in 1984), spingendosi verso<br />

i territori dell’immaginazione. La riflessione sulla<br />

morte diviene il tema più ricorrente dell’ultima<br />

fase compositiva del compositore di Leningrado,<br />

che si chiude così, in un pessimismo fatalista sempre<br />

più scuro. Proprio lui, che per tanti anni aveva<br />

creduto nell’”uomo nuovo”! Anche la musica si fa<br />

più cupa: abbandonati già da molto tempo i generi<br />

dell’opera e del balletto (altro genere molto<br />

stimato nella Russia sovietica e al quale S. aveva<br />

regalato, prima del ’35 opere di ottimo livello e<br />

“sopra la media” come L’Età Dell’ Oro, Il Bullone<br />

e Il Limpido Fiume, rispettivamente del ’30, ’31 e<br />

’35), S. si concentra sulle sinfonie e sulla musica da<br />

camera, mantenendo costante anche il suo impegno<br />

come compositore per il cinema, reso più prolifico<br />

ma anche meno interessante, artisticamente,<br />

dall’avvento del sonoro (degne di nota sono le musiche<br />

scritte per l’unico film muto musicato da lui,<br />

Nuova Babilonia). Ma se la sinfonia rappresenta<br />

ormai la forma prediletta dal regime per la sua autocelebrazione,<br />

nelle partiture per organici piccoli<br />

e destinata a luoghi d’esecuzione ridotti, MItja riesce<br />

a sviluppare la sua ricerca musicale più sincera,<br />

ancora attratta dai linguaggi della modernità,<br />

dalle avanguardie al jazz. Nei numerosi Quartetti<br />

(15 in tutto) e Quintetti S. può ancora permettersi<br />

di comporre, indisturbato, utilizzando le serie dodecafoniche<br />

e i cromatismi più estremi. Tra questi,<br />

l’Ottavo Quartetto (1960) è senz’altro il più significativo:<br />

una sorta di epitaffio auto celebrativo, nel<br />

quale il tema è ricavato dalle iniziali del nome del<br />

compositore (D.S.C.H., che corrispondono alle<br />

note Re-Sol-Do-Si).<br />

La contrapposizione tra, da un lato, un atteggiamento<br />

celebrativo, sottomesso alle volontà del regime,<br />

espresso attraverso un acceso lirismo e l’uso<br />

costante di elementi folclorici (le Sinfonie n.11,<br />

dedicata alla rivoluzione fallita del 1905 e la n.12,<br />

“in memoria di Lenin”) e, dall’altro la voglia di<br />

confrontarsi con i suoi contemporanei europei<br />

sperimentando a suo modo con i linguaggi della<br />

modernità (la Sinfonia n.13 si testi di Evtušenko,<br />

che gli valse l’ennesima censura nel 1962), ha rappresentato<br />

una costante, assunta a fondamentale<br />

caratteristica stilistica, dello S. compositore. Che<br />

come abbiamo avuto modo di vedere, non era molto<br />

diverso dall’uomo, combattuto in questo eterno<br />

conflitto, rimasto irrisolto fino alla sua morte. Fino<br />

all’ultima sinfonia. Sarebbe stata la Sedicesima.<br />

thE EssEntial dMitri shostakovich<br />

* Sinfonia n.1 in Fa minore (1925)<br />

* Sinfonia n.2 in Si maggiore “Ad Ottobre” (1927)<br />

* 10 Aforismi per Pianoforte (1927)<br />

* Musiche per il film muto “Nuova Babilonia” (1929)<br />

* Sinfonia n.3 in Si bemolle maggiore “Il Primo Maggio”<br />

(1929)<br />

* Il Naso (1930) tratto da un testo di Gogol’<br />

* Suite per Jazz Orchestra n.1 e 2 (1934 e 1938)<br />

* Lady Macbeth Del Distretto Di Mcensk (1934) tratto<br />

da un testo di Leskov<br />

* Sinfonia n.4 in Do minore (1936)<br />

* Sinfonia n.5 in Re minore (1937)<br />

* Sinfonia n. 7 in Do maggiore “Leningrado” (1941)<br />

* Sinfonia n.8 in Do minore (1943)<br />

* Quartetto d’archi n.8 in Do minore (1960)<br />

* Sinfonia n.13 in Si bemolle minore “Babi-Yar”<br />

(1962)<br />

* Quartetto d’archi n.9 in Mi bemolle maggiore<br />

(1964)<br />

* L’Esecuzione Di Stepan Razin (1966) su testo du<br />

Evtušenko<br />

* Quartetto d’archi n. 12 in Re bemolle maggiore<br />

(1968)<br />

* Sinfonia n. 15 in La maggiore (1971)<br />

* Quartetto d’archi n.15 in Mi bemolle minore<br />

(1974)<br />

*<br />

Sonata per Viola (1975)<br />

i cosiddetti contemporanei / 135


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