descrivere e spiegare: l'ininterrotto continuum diagnostico - Brinkster
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Versión electrónica a cargo de Álvaro T. Quiñones Bergeret. Editado por: Grupo de investigación en psicoterapia cognitiva de orientación<br />
postracionalista (GIP).<br />
www33.brinkster.com/gipsicoterapia<br />
Publicado con autorización<br />
Alcini, S. (2004). Descrivere e <strong>spiegare</strong>: l’ininterrotto <strong>continuum</strong> <strong>diagnostico</strong>. Quaderni di<br />
Psicoterapia Cognitiva 14, Vol. 7 n°1.<br />
DESCRIVERE E SPIEGARE: L’ININTERROTTO CONTINUUM<br />
DIAGNOSTICO<br />
di Stefano Alcini<br />
Il presente vuole essere un tentativo di integrare due modelli psicopatologici troppo spesso considerati antitetici a livello<br />
tanto formale che contenutistico. La trattazione dell’approccio descrittivo prima ed esplicativo poi, dei quali l’aspetto<br />
psicopatologico è soltanto una loro componente, evolverà pertanto lungo un ininterrotto <strong>continuum</strong> secondo un costante<br />
rimando tra livelli logici diversi. Partendo così dal presupposto che non si può <strong>spiegare</strong> ciò che prima non si è descritto,<br />
si formalizzerà la diagnosi quale atto composito costituito da momenti diversi che esemplificativamente, anche da un<br />
punto di vista grafico, saranno rappresentati conseguenti.<br />
Parole chiave: Psicopatologia, Diagnosi, Costruttivismo.<br />
1 - ALCUNE CONSIDERAZIONI STORICHE<br />
Nel campo del disagio psichico, della Psicologia e Psichiatria in generale – riconosciute da Dilthey<br />
come scienze specificamente “idiografiche”: centrate cioè su aspetti unici e non facilmente<br />
generalizzabili dell’esperienza umana – la concezione stessa di “malattia mentale” è un costrutto<br />
tutt’altro che scevro da controversie clinico-accademiche, difficile quindi da operazionalizzare in<br />
variabili fenomenologicamente osservabili ed empiricamente rilevabili. In proposito Gaston (1987)<br />
sottolinea come la stessa medicina non si occupi che “di singole persone, di singoli fatti, di<br />
espressioni isolate ed uniche, di particolarità non solo singolari ma addirittura irripetibili”. Di<br />
fatto in tale scienza sanitaria l’identificazione e la valutazione dei sintomi vengono desunte da una<br />
serie di metodiche atte a distinguere, a livello anatomo-fisiologico, eventuali disfunzioni strutturali<br />
e/o funzionali dei vari organi ed apparati. Nel campo del “mentale” invece, tralasciando un numero<br />
piuttosto esiguo di malattie a base organica, la diagnosi in sé viene solitamente eseguita mediante<br />
una descrizione sintomatologica la cui stessa validità di criterio è resa alquanto problematica “dalla<br />
mancanza di riferimenti su quello che dovremmo definire un funzionamento normale dei sistemi<br />
emotivi, cognitivi e comportamentali di un essere umano” (Reda, 1988).<br />
LE ENTITA’ NOSOGRAFICHE DI KRAEPELIN<br />
Intorno alla seconda metà del secolo scorso discipline quali la Psichiatria e la Psicopatologia clinica<br />
hanno definito i loro status operativi con modalità conformi a quelli già in uso in altre scienze<br />
mediche. Per tali branche del moderno sistema sanitario valsero quindi gli imperanti principi del<br />
Naturalismo “sia per quanto concerne il significato da attribuirsi ai fatti psichici e psicopatologici,<br />
sia in relazione al concetto medico di malattia” (Giacomini, 2001a). Questa concezione della<br />
patologia mentale, tipicamente teorizzata da Kraepelin – considerato a ragione il fondatore della<br />
psichiatria clinica moderna col ben noto modello delle entità nosografiche – ritiene addirittura<br />
inesatto a livello terminologico parlare di malattie della psiche: “Sono invece le<br />
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alterazioni del substrato corporeo della nostra vita mentale quelle sulle quali noi dobbiamo, dal<br />
punto di vista medico, dirigere la nostra attività e i nostri sforzi terapeutici” (Kraepelin, 1901).<br />
Su un versante medico il disagio psichico viene così considerato espressione di una sottostante<br />
alterazione strutturale dell’organismo biologico (la psiche), un mero sintomo quindi interessante<br />
un’alterazione delle strutture neurobiologiche dell’organismo fisico: vera e propria causa del<br />
“malessere”. Data tale premessa risulta ovvio come per questo Autore, al fine di studiare con la<br />
massima accuratezza le leggi di dipendenza che esistono tra fatti fisici e psichici, si ci debba basare<br />
sulla conoscenza delle dinamiche che connettono l’anatomia patologica con l’eziologia e la<br />
sintomatologia; solo così si è in grado di costituire categorie, formare gruppi morbosi con relative<br />
cause, manifestazioni e decorsi “ben certi e sicuri” (Kraepelin, 1904) (1). Da quanto detto appare<br />
chiaro come il naturalismo ricerchi e valorizzi l’oggettività fenomenica che, nel mito<br />
dell’insindacabilità fisiologica, trova la sua unica, autentica, realtà investigativa. E’ indubbio che<br />
nel perseguire tale ideale esso rappresenti la negazione stessa della soggettività ed unicità del<br />
singolo paziente, le cui autodescrizioni vengono qui ignorate e sottovalutate, considerandole del<br />
tutto inattendibili, se non addirittura inutili (Kraepelin, 1920).<br />
LA FENOMENOLOGIA DI JASPERS<br />
Su un versante totalmente opposto la prospettiva Fenomenologica si è invece interessata al vissuto<br />
esperienziale riportato dal paziente sofferente il sintomo; di questo si è quindi ricercato il senso<br />
specifico, qui inteso quale “segno” che rimanda continuamente ad altro in qualità di una traccia di<br />
un mondo marcato antropologicamente. La relativa psicopatologia ha comportato un ricercare le<br />
discontinuità nei diversi agglomerati sindromici, leggendole nell’ottica di una “continuità narrativa”<br />
interrotta, capace di comprendere storie, eventi e trame di vita.<br />
Così facendo la psicopatologia clinica legata a Jaspers (1959) ha riconsegnato scientificità alla vita<br />
interiore dei pazienti, alla loro irripetibile soggettività che, mediante la decifrazione dei segni dotati<br />
di senso, porta ad una conoscenza dei modi di essere di ogni esperienza psichica tanto nevrotica che<br />
psicotica. Lo stesso Jaspers (1913) definisce ed estende così il concetto di psicopatologia generale<br />
“a tutto lo psichico che possa essere colto in concetti di valore immutabile e comunicabile (...).<br />
L’oggetto della psicopatologia è l'accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che<br />
cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono, vogliamo conoscere le<br />
dimensioni delle realtà psichiche”.<br />
LE UNITA’ CLINICHE DI SCHNEIDER<br />
Ad un livello intermedio tra questi due estremi – anche se non troppo dissimile da una prospettiva<br />
nosografica – si situa infine la psicopatologia clinica concepita da Schneider (1967) che, secondo le<br />
stesso Autore, “si occupa dell’abnorme psichico guardando alle unità cliniche”. Il concetto qui di<br />
“unità clinica” individua sostanzialmente la possibilità di poter comunque definire una sorta di<br />
proto-configurazione sindromica in cui il sintomo diventa un tratto, si caratteristico del soggetto che<br />
lo manifesta, ma sempre ed ugualmente reperibile in un quadro di stato o di decorso.<br />
LA RIVOLUZIONE COSTRUTTIVISTA<br />
Il Costruttivismo radicale, al cui più ampio paradigma certa psicopatologia esplicativa appartiene,<br />
ha originalmente operato un “sostanzioso” cambiamento nell’ambito delle scienze cognitive. La sua<br />
versione “forte” ha messo in discussione il concetto di “oggettività”, di verità assoluta, di sapere<br />
esaustivo rappresentante una realtà esterna indipendente dall’osservatore che l’esperisce (Giordano<br />
e Arciero, 2002). In questa ottica la conoscenza non è più assimilabile ad una concezione di realtà<br />
quale essa è (rappresentazione), ma come appare (costruzione) ad un osservatore che la esamina in<br />
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base un proprio assetto esperienziale, al suo specifico modo d’essere. Particolare enfasi viene quindi<br />
posta sull’esperienza soggettiva, sulla necessità di dover comprendere la messe di significati che la<br />
persona le attribuisce dal momento che “non possiamo mai percepire nessun ordine indipendente<br />
da noi stessi.” (Guidano, 1989) dato che “non riflette in alcun modo un ordine esterno ma è un<br />
prodotto della nostra mente.” (Hayek, 1952). Di pari passo le stesse impressioni, convinzioni,<br />
credenze di un soggetto esperiente una propria realtà, da sé stesso significata, non possono che<br />
riferirsi all’esperienza che questi stesso ne fa (Mannino, 2002). Un’ottica così articolata sulla<br />
soggettività del singolo trova perfetta consonanza con l’evoluzione in campo epistemologico delle<br />
scienze moderne in quanto “più che descrittive sono esplicative. La spiegazione consiste nel<br />
rendere comprensibile come e perché i fenomeni appartenenti ad un dato campo di esperienza<br />
constano di tutte quelle proprietà che, descrittivamente, essi esibiscono.” (Weimer, 1982).<br />
2 - L’APPROCCIO ATEORICO-DESCRITTIVO<br />
In accordo con un impianto psicopatologico di tipo eminentemente descrittivo, focalizzato sul<br />
sintomo manifesto, si è assistito negli ultimi decenni all’enorme diffusione dei manuali diagnostici<br />
costituiti da articolate quanto esaustive classificazioni dei disturbi mentali. Queste possono dirsi<br />
descrittive in quanto le definizioni dei sintomi che se ne danno consistono unicamente (2) nelle<br />
descrizioni appunto degli aspetti clinici, così come appaiono all’osservatore responsabile di eseguire<br />
la diagnosi. Nonostante nei manuali che le contengono si attesti esplicitamente che per la maggior<br />
parte dei disturbi ivi inclusi l’eziologia sia sconosciuta (3) o volutamente non presa in<br />
considerazione (4), queste considerevoli raccolte sintomatologiche hanno trovato ampio uso negli<br />
ambienti più disparati della sanità, della ricerca e della didattica. Un tale successo non può che<br />
essere ricondotto in massima parte all’aver suggerito e promosso la condivisione di una<br />
terminologia ufficialmente accettata, con l’innegabile pregio di permettere un’efficace<br />
comunicazione tra figure di varia estrazione professionale ed epistemologica. In particolare il DSM-<br />
IV si presenta come un classico sistema multiassiale in base al quale la valutazione diagnostica<br />
viene eseguita su cinque diversi assi, ognuno dei quali si riferisce ad una specifica fonte di<br />
informazioni (5). La classificazione dei disturbi mentali in esso contenuta è di tipo categoriale in<br />
quanto suddivide i disturbi mentali sulla base di ben definiti “set di criteri” composti da liste di<br />
singoli sintomi, loro costellazioni, e/o criteri temporali. Nella pratica corrente un tale approccio<br />
classificatorio è funzionale nella misura in cui consente di riconoscere un certo grado di omogeneità<br />
tra tutti i componenti appartenenti ad una classe diagnostica data; ovvero quando vi sono limiti netti<br />
che distinguono con evidenza discriminatoria più classi tra loro in una situazione mutualmente<br />
escludentesi (APA, 1994). Limite di un sistema così pensato ed articolato è la rigidità con la quale<br />
un clinico si deve prima o poi confrontare nel novero dei presunti “distinguo” sottendenti l’assunto<br />
che una qualsiasi categoria di disturbo mentale debba considerarsi un’entità totalmente distinta dalle<br />
altre, delimitata e definita da specifici confini che la discriminino sia dagli altri disturbi mentali che<br />
dallo stesso concetto di “normalità”. Chiunque abbia un minimo di disinvoltura con le forme del<br />
disagio psichico non potrà che riconoscere come un’eccessiva esemplificazione esplicativa,<br />
piuttosto “forzata” nel suo rigore formale, lo sterile incasellamento di questo manuale che porta a<br />
constatare un’evidente mancanza di aderenza con la proteiforme fenomenologia psichiatrica.<br />
Qualsiasi tentativo di fare diagnosi<br />
prendendo spunto da tali premesse è così destinato a centrare le sue attenzioni solo ed unicamente<br />
sulla componente “oggettiva” dell’esperienza clinica. Pregi o limiti delle descrizioni nosografiche<br />
dei manuali DSM – a seconda che ci si riconosca tra gli entusiasti o i detrattori –<br />
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sono fondamentalmente l’ateoricità ed il descrittivismo che, se da una parte hanno rincorso il mito<br />
della neutralità scientifica non viziata da “correnti di pensiero” che rendesse possibile un<br />
ordinamento nosografico universalmente condivisibile, dall’altra hanno relegato in secondo piano,<br />
fino a perdere completamente di vista, la componente eziologia delle manifestazioni<br />
psicopatologiche (Guidano, 1988, Reda, 1986). Ciò ha comportato la diffusione di una pressoché<br />
totale ignoranza riguardo le motivazioni, le cause sottostanti il disturbo psichico di riferimento, i<br />
suoi specifici significati nell’economia personale del paziente che ne soffre (Guidano, 1992). In tal<br />
senso il DSM si configura come niente più che un modo di fare psicopatologia secondo “formalismi<br />
descrittivi” estremamente indicativi e spesso fuorvianti nella necessità di dover inscrivere il “casopaziente”<br />
in una delle celle diagnostiche previste dagli Autori dell’edizione in corso. Una diagnosi<br />
psicologica viene così eseguita in base alla covariazione di più sintomi tra loro connessi – con una<br />
frequenza tale che faccia decadere l’ipotesi di “casualità” di un loro fortuito assemblaggio – e che<br />
vanno così a costituire un “disturbo” riconosciuto come tale ed identificato secondo uso.<br />
Ad oggi una classificazione così definita nella e dalla pratica di “etichettamento” trova<br />
probabilmente la sua unica ragione d’essere nell’ambito di una terapia farmacologica che ignora<br />
per suo statuto una ricostruzione eziologica delle cause o del significato del disturbo (Maselli e<br />
Cheli, 2000). Conseguenza più evidente alla quale si approda usando il DSM quale mappa<br />
d’orientamento nel periglioso mare della malattia mentale consta dell’esasperazione della<br />
descrittività più parcellizzata. La tendenza infatti a scomporre minuziosamente il “malessere” per<br />
un uso e consumo votato all’assemblaggio sintomatologico “di tendenza” secondo maniera,<br />
conduce il clinico o il ricercatore di turno a dover considerare i sintomi come singole tessere di un<br />
puzzle da incastrare tra loro a formare più pattern sindromici, il cui senso è ad essi stesso<br />
immanente: un nonsenso. Tutto ciò negli anni si è istantaneamente tradotto in una marcata<br />
propensione alla frammentazione categoriale rinvenibile nelle diverse edizioni dei DSM (6).<br />
EPISTEMOLOGIA DEI MANUALI DIAGNOSTICI<br />
Da un punto di vista epistemologico il DSM abbraccia le intuizioni del riduzionismo più estremo,<br />
rifacendosi quindi al funzionalismo operazionistico radicale. Tale complesso movimento di critica<br />
del metodo scientifico si inscrisse all’interno della più ampia corrente del neopositivismo logico,<br />
mostrando profonde concordanze sia con l’operazionismo di Bridgman che con il<br />
comportamentismo di Watson; oltre che con diverse formulazioni del neoempirismo riduzionistico<br />
di stampo anglosassone. Da questa breve premessa si può facilmente immaginare come il DSM non<br />
sia affatto immune da una qualsiasi parvenza residuale di teoricità, assumendo invece una visione<br />
meramente utilitaristica ed economicistica della scienza che rende di fatto discutibile la tesi che lo<br />
rappresenta sintesi e felice “superamento” della psicopatologia classica (Giacomini, 2001b).<br />
A partire dalla psichiatria funzionalistica si è messo in evidenza come il criterio di specificità –<br />
tipico delle prime formulazioni kraepeliniane – relativo all’importanza che veniva tributata ai<br />
rapporti di dipendenza ed interconnessione tra sintomatologia, anatomia patologica ed eziologia,<br />
non poteva trovare una reale applicazione clinica. Si osservava infatti come a sindromi<br />
psicopatologiche tipiche (acute e/o croniche) potessero fare riscontro sul piano neurobiologico<br />
condizioni assai differenti in senso tanto anatomopatologico che eziopatogenico; al contrario ad una<br />
specifica condizione di malattia, ben definita dal punto di vista anatomopatologico ed<br />
eziopatogenetico, potevano corrispondere su un versante d’osservazione clinica quadri<br />
psicopatologici assai differenti (Migone, 1995). Sul piano dell’osservazione empirica e della pratica<br />
clinica la psicopatologia classica funzionalistica ha così ritenuto opportuno introdurre il concetto di<br />
“sindromi psicopatologiche”, ponendole in relazione ad altrettanti modelli di risposta ed aspecifico<br />
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adattamento a condizioni patogene di varia natura. Mentre così nello strutturalismo il fondamento<br />
della malattia mentale è rappresentato da una patologia cerebrale localizzabile a livello di substrato<br />
fisiologico (il cui quadro fenomenologico di sintomo è sua diretta conseguenza), dal punto di vista<br />
funzionalistico ciò che caratterizza la cosiddetta malattia mentale è il disadattamento funzionale<br />
dell’organismo biopsichico al proprio ambiente fisico, psichico e sociale. Così facendo la<br />
psicopatologia è pervenuta, evolvendosi nel tempo, ad una rigorosa differenziazione epistemologica<br />
e metodologica dei quadri clinici tanto nell’ambito delle psicosi che delle nevrosi.<br />
CRITICA DEI DSM<br />
Ben diversa è stata la “storia” dei manuali DSM (7) e della “filosofia” loro sottostante, che hanno<br />
seguito un andamento addirittura involutivo se paragonato a quanto appena esposto. Il DSM infatti,<br />
partendo nelle sue prime edizioni da un’adesione al modello funzionalistico, è approdato nella III,<br />
III-R e ancor di più IV edizione a posizioni innegabilmente legate all’operazionismo riduzionistico<br />
più estremo. Esempio illuminante di tale tendenza è stata la pretesa di intendere e presentare le<br />
reazioni psicopatologiche aspecifiche quali l’ansia, il panico, le fobie, le ossessioni, le distimie ecc.,<br />
con pieno valore di “diagnosi cliniche” a sé stanti; una posizione del tutto incompatibile con la<br />
psicopatologia classica (tanto strutturalistica che funzionalistica) oltre che con la metodologia<br />
diagnostica della clinica medica. Secondo la psicopatologia classica infatti tale ordine di fenomeni<br />
clinici non possono mai, di per sé, rappresentare autentiche entità nosografiche cui corrispondono<br />
altrettante diagnosi di specificità. Nel caso infatti che tali fenomeni annuncino la presenza di una<br />
malattia cerebrale essi potranno valere come meri sintomi di un più ampio processo<br />
neuropatologico in atto: la reale malattia cui dovrà riferirsi l’opportuna diagnosi. Diversamente tali<br />
sintomi, qualora vengano escluse possibili patologie di ordine neurobiologico, saranno invece<br />
ascrivibili e riferiti a situazioni cliniche che chiameranno in causa l’interiorità soggettiva, rientrando<br />
nella tipologia delle psicopatie più varie.<br />
Nella sua III edizione (APA, 1980) il DSM aveva ancora conservato infatti una distinzione tra la<br />
categoria dei disturbi mentali organici e la categoria delle tipologie nevrotiche e psicopatiche. Una<br />
simile specifica, per le sue implicazioni di ordine patogenetico ed anatomopatologico, consentiva<br />
ancora di adottare soluzioni nosografiche non eccessivamente distanti da quelle in uso nella<br />
psicopatologia classica. Con l’introduzione invece della successiva edizione: il DSM III-R (APA,<br />
1987), tutte le depressioni psicopatiche e “nevrotiche” sono state invece ricondotte ad un’unica<br />
etichetta nosografica: il cosiddetto “disturbo distimico”, privo di qualsiasi giustificazione clinicoteorica<br />
nell’ambito della psicopatologia classica. Brevemente infatti è da rilevare come tale<br />
arbitraria omologazione delle depressioni psicopatiche in un’unica categoria (pseudo)nosografica,<br />
porti ad ignorare le correlazioni tra le depressioni psicopatiche e le specifiche tipologie<br />
personologiche in cui esse si manifestano. Infine, a compimento di tale scotomizzazione dal<br />
modello classico di psicopatologia, la IV edizione (APA, 1994) del DSM, dopo aver già abolito la<br />
categoria funzionalistica delle “nevrosi”, elimina anche quella delle psicosi organiche e delle<br />
sindromi psicorganiche che da sempre hanno rappresentato il pilastro portante della nosografia<br />
“storica”.<br />
3 – L’APPROCCIO SISTEMICO-PROCESSUALE<br />
A partire dagli anni ’80 il mai troppo rimpianto Vittorio F. Guidano (Roma 1944 – Buenos Aires<br />
1999) concepisce un impianto psicopatologico fondato sulla continuità e la coerenza dei processi di<br />
sviluppo, di cui riportiamo un breve quadro sinottico alla fine del presente capitolo. In accordo con<br />
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le teorizzazioni epistemologiche dei cileni Maturana e Varela (1987), inerenti i cosiddetti sistemi<br />
autopoietici, considera l’Uomo ed il suo sistema conoscitivo – al pari di qualsiasi altro “sistema<br />
vivente” – come una complessità organizzata. Nel novero del Costruttivismo più radicale l’uomo<br />
costruisce attivamente la propria identità personale attraverso un ordinamento della realtà che retroagisce<br />
sul senso di sé. Nell’arco di circa un ventennio Guidano elabora il concetto di<br />
“Organizzazione di Significato Personale” quale specifica modalità conoscitiva di ordinare la<br />
propria esperienza – con senso di unicità personale e continuità storica – secondo uno specifico<br />
assemblaggio dei processi cognitivi (ed in prima istanza affettivi) attraverso cui assimilare,<br />
decodificare e riordinare in maniera personale gli eventi esperiti nella quotidiana prassi del vivere.<br />
Il modello Cognitivista sistemico-processuale, così come originalmente articolato (Guidano, 1988 e<br />
1992), definisce quattro distinte Organizzazioni (8), ognuna delle quali si caratterizza in base a<br />
specifiche attivazioni emotive (il caratteristico dominio affettivo) che appunto ne condizionano le<br />
peculiari modalità di riferirsi l’esperienza di vita vissuta e le modalità di sequenzializzare le scene<br />
ricorrenti da cui estrarre a posteriori (e poi sempre più in maniera anticipatoria) gli specifici temi di<br />
vita (9). Queste, in concomitanza di specifiche attivazioni emotive innescate a loro volta da<br />
accadimenti del ciclo di vita particolarmente intensi, imprevedibili e quindi scompensanti, possono<br />
dar luogo a determinati disturbi di rilevanza clinica (Guidano, 1988; Onofri e Tombolini, 1997). Ciò<br />
che è qui rilevante è il significato personale che tali eventi, comportamenti, emozioni e pensieri<br />
assumono nell’ambito generale delle leggi che governano l’organizzazione e l’evoluzione dello<br />
specifico sistema “paziente” (Semerari e Mancini, 1988). E’ nel dato sintomatologico lamentato che<br />
il clinico rinviene la sola, possibile, forma espressiva manifestabile da quella organizzazione di<br />
riferimento, in quella fase di vita, in concomitanza di quegli eventi. La persona rifuggirebbe quindi<br />
nella condotta sintomatica in un estremo tentativo di mantenere l’integrità organizzativa al<br />
momento fortemente minacciata (Semerari e Mancini, 1988).<br />
Abbiamo precedentemente visto come la psicopatologia descrittiva rimanga ancorata, con<br />
inamovibile staticità, alla fenomenologia in corso o pregressa del disagio psichico. Il clinico che vi<br />
si attenga strettamente perde così qualsiasi chance di “connettere” il disturbo (da lui stesso<br />
osservato, da lui stesso riconosciuto, da lui stesso definito ed inquadrato) al soggetto che ne soffre<br />
in termini di causalità esplicativa: primo fondamentale passo nella pianificazione di un intervento<br />
terapeutico. Come sinteticamente schematizzata da Maselli e Cheli (2000) l’ottica esplicativa<br />
abbandona invece l’indagine interpretativa – condotta da un terapeuta “interprete” comunque<br />
esterno all’esperienza del paziente “interpretato” – in favore di una “ricostruzione” effettuata dal<br />
punto di vista del paziente stesso, che tributerà il suo insindacabile significato all’esperienza<br />
disturbante e alla gestione della sua attività conoscitiva. La diagnosi consiste quindi nel cogliere la<br />
logica individuale del paziente per consentirgli di spiegar-si i motivi che, per la sua specifica<br />
modalità organizzativa, hanno costituito l’elemento destrutturante la sua continuità esperienziale<br />
(Reda, 1996). A tale scopo la psicopatologia esplicativa presenta alcune specifiche caratteristiche<br />
che, sul recupero della qualità esperienziale dell’elemento psicopatologico in sé (Van Praag, 1992),<br />
passano attraverso una rivalutazione del dato emotivo più che cognitivo in sensu strictu,<br />
preoccupazione invece degli approcci “razionalisti”(10).<br />
PROCESSUALITA’ E SINTOMATIZZAZIONE<br />
Nel novero di una processualità ontologica, immanente l’individuo stesso, possiamo quindi a livello<br />
generale distinguere e riconoscere una sorta di determinismo sintomatologico il cui solco viene<br />
tracciato a partire dalle prime esperienze intersoggettive sulla base dell’iter:<br />
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A – Processi primari geneticamente determinati strutturanti l’Identità personale<br />
A.1 – Qualità della relazione con la figura d’accudimento e costituzione dei pattern d’attaccamento:<br />
elementi discriminanti sono l’accessibilità e l’empatia di tale figura che permettano al neonato di<br />
imparare a differenziare/selezionare/ordinare (modulando intensità, frequenza, durata) gli schemi<br />
relazionali innati. Il neonato inizia così a dedurre un senso di sé a partire da tali prime relazioni<br />
intermodali. Qui l’attaccamento assume quindi tutte le caratteristiche di un sistema auto-referenziale<br />
basilare nello sviluppo e nella strutturazione di una propria identità personale in ragione della<br />
particolare valenza emozionale che contraddistingue tali relazioni intersoggettive.<br />
A.2 – Selezione del dominio emotivo con assemblaggio delle tonalità basiche: dallo specifico stile<br />
d’attaccamento instauratosi si costituisce l’esclusivo dominio emotivo, quale sistema affettivo in<br />
base al quale iniziare a strutturare un senso di sé stabile nel ricorsivo riconoscimento di<br />
un’emotività comunque invariante.<br />
B – Processi sottesi al costituirsi di una sempre più specifica e definita Individualità<br />
B.1 – Definirsi dell’Organizzazione di Significato Personale: con l’emergere del pensiero astratto<br />
logico-formale si ha un riordinamento, tanto tacito-emotivo che esplicito-cognitivo, del flusso<br />
esperienziale in termini di significazione personale. In tal modo il senso di unicità personale e<br />
continuità storica vengono preservati nonostante le numerose trasformazioni che un individuo<br />
sperimenta durante il corso del ciclo di vita.<br />
B.2 – Stagliarsi dei temi di vita e strutturarsi della trama narrativa: gli specifici temi di vita si<br />
configurano come spiegazioni invarianti che l’individuo si dà della realtà fenomenica esperita, in<br />
sintonia con una rappresentazione coerente di sé e del mondo.<br />
Il linguaggio permette inoltre di differenziare tra accadimenti e loro significazione, dando così<br />
luogo ad un flusso interiore di narrazioni che definiscono anch’esse, nella loro peculiarità<br />
soggettiva, l’identità dell’individuo.<br />
C – Dinamiche propedeutiche al manifestarsi di una “emergenza” clinica<br />
C.1 – Dinamica dello scompenso clinico: partendo dal sintomo lamentato, non più quindi punto di<br />
arrivo della diagnosi in quanto tale, ma incipit per una ricostruzione a posteriore dello scompenso,<br />
esso si va a ri-configurare come una necessità espressiva del paziente che lo manifesta in quella<br />
specifica fase del suo percorso evolutivo.<br />
C.2 – Sintomo come processo conoscitivo: la sintomatologia lamentata è quindi tutt’altro che da<br />
considerarsi un “accidente” esterno alla persona che ne soffre, divenendo così processo conoscitivo<br />
che ci consente di considerare “come”, secondo quale modalità, si è venuta a modificare la coerenza<br />
interna del paziente da quando è cambiato il suo bilancio interno.<br />
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TABELLA 1: Quadro sinottico circa la processualità ontologica del singolo<br />
ATTACCAMENTO O.S.P. DOMINIO<br />
EMOTIVO<br />
A DEP. DISPERAZIONE<br />
RABBIA<br />
A4/C D.A.P. COLPA<br />
COLLERA<br />
A1,2,3/C OSS. DESIDERIO<br />
COLLERA<br />
C FOB. PAURA<br />
CURIOSITA’<br />
TEMI DI VITA EVENTI<br />
POTENZIALMENTE<br />
COLPA<br />
INDEGNITA’<br />
AMABILITA’<br />
CONFERMA<br />
DISCONFERMA<br />
DUBBIO<br />
CERTEZZA<br />
PROTEZIONE<br />
AUTONOMIA<br />
SCOMPENSANTI<br />
PERDITA<br />
ABBANDONO<br />
SEPARAZIONE<br />
AMBIGUITA’<br />
AMBIVALENZA<br />
ALLONTANAMENTO<br />
INTIMITA’<br />
LE DIMENSIONI D’ELABORAZIONE DEL SIGNIFICATO PERSONALE<br />
Progredendo nella ri-lettura di una psicopatologia descrittiva con le lenti del modello esplicativo<br />
possiamo intendere le stesse categorie concettuali di “normalità”, “nevrosi” e “psicosi” sia dotate di<br />
un carattere di reversibilità e mutevolezza che rappresentabili, topograficamente, lungo un<br />
<strong>continuum</strong>. Lungo il dispiegarsi del flusso di vita un’Organizzazione di Significato Personale può<br />
infatti modularsi, in relazione alla specifica qualità e tipologia d’elaborazione delle proprie<br />
esperienze evolutive, su uno di tali tre livelli. Questi, caratterizzandosi nella loro varietà sempre e<br />
comunque in base ad un nucleo di significati invarianti, possono essere schematizzati usando una<br />
semplificazione esplicativa secondo un iter che dalla “normalità” giunge alla “psicosi” passando per<br />
la fase intermedia di “nevrosi” (11). Le differenze di elaborazione che principalmente fungono da<br />
marcapasso tra una dimensione e l’altra si riferiscono agli aspetti che riguardano la trama narrativa<br />
e la struttura della sequenzializzazione dell’esperienza in corso (12). Mentre la normalità viene a<br />
coincidere con un’elaborazione flessibile e generativa degli eventi critici permettendo,<br />
contestualmente all’assimilazione dell’evento discrepante, una progressione della storia ed<br />
un’articolazione più ampia del senso di sé; nella condizione nevrotica la situazione discrepante<br />
viene invece elaborata al di fuori della percezione del senso sé, avvertendola quindi come<br />
un’esperienza “aliena”. Nella situazione psicotica, infine, l’incapacità di elaborare l’evento<br />
discrepante produce addirittura una disgregazione del senso di sé e quindi dell’intera identità<br />
narrativa. (Arciero e Guidano, 2000).<br />
4 - UN’IPOTESI DI INTEGRAZIONE<br />
Considerando le dinamiche di scompenso e gli specifici domini di emotività tipici delle quattro<br />
Organizzazioni di personalità sopra accennate è possibile elencare, da un punto di vista descrittivo, i<br />
quadri sindromici più rappresentativi che, tanto coerentemente quanto caratteristicamente,<br />
emergono in ognuna di esse in concomitanza di una loro eccessiva perturbazione. Nel fare ciò<br />
risulta quanto mai evidente come il tentativo di operare una distinzione netta tra una psicopatologia<br />
d’ordine descrittivo ed una psicopatologia invece esplicativa risulti alla prova dei fatti una pratica<br />
“infelice”, se non una vera e propria forzatura, in quanto la descrizione è un momento fondamentale<br />
della spiegazione stessa. Certamente più proficuo risulterà quindi immaginare un’integrazione che<br />
nello specifico di una loro reciproca<br />
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connessione può essere così formalizzata topograficamente considerando una sorta di livello logico<br />
costituito dal definito numero di manifestazioni empiricamente e categoricamente rilevabili da un<br />
punto di vista fenomenologico (psicopatologia descrittiva), poggiante su un secondo piano<br />
caratterizzato invece dalla poliedricità idiografica dei significati personali del paziente che<br />
esperisce, significa e sintomaticizza di conseguenza (psicopatologia esplicativa). Mano a mano che<br />
quindi ci si sposta dal più basale substrato significativo e significante, d’ordine esplicativo, rispetto<br />
a quello sovraordinato invece descrittivo, si registra una sorta di restringimento ad imbuto<br />
capovolto, dove la polimorfica varietà individuale che ogni singolo soggetto tributa in termini<br />
“personali” ad un accadimento di vita qualsiasi viene notevolmente ridotta dal confluire canalizzato<br />
in un numero relativamente ristretto di espressioni cliniche quali quelle riportate negli elenchi dei<br />
manuali diagnostici.<br />
FIGURA 1: Rapporto tra significato personale e sintomo manifesto<br />
Ci sembra che tutto ciò vada a costituire nella prassi clinica corrente un’effettiva, più che formale,<br />
integrazione tra i due modelli, dai quali desumere i rispettivi apporti d’irriducibile arricchimento.<br />
Da una parte si riconosce alla nosologia l’innegabile vantaggio di costituire un sistema<br />
classificatorio largamente condiviso senza il quale, come precisa Kendell (1977), “sarebbero<br />
impossibili tutte le comunicazioni scientifiche, e le nostre riviste professionali conterebbero solo<br />
relazioni su singoli casi, aneddoti e espressioni di opinioni personali”;<br />
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dall’altra si propone comunque il ridimensionamento di una psicopatologia eminentemente<br />
descrittiva nelle sue velleità di ateorica scientificità. Così facendo ci si augura che ben presto si<br />
smetterà di confondere l’importanza della numerologia statistica con la capacità, ma soprattutto la<br />
possibilità, di individuare il significato specifico, in quanto personale, di un disturbo mentale.<br />
Anche Gregory Bateson (in Brunello, 1992) d’altro canto avvertiva come le categorie descrittive<br />
vadano intese soltanto alla stregua di strumenti operativi dell’osservatore, assolvendo alla funzione<br />
di etichettare e catalogare il materiale raccolto per essere meglio sistemizzato nella sua spiegazione.<br />
LONGITUDINALITA’ DESCRITTIVA<br />
In merito all’integrazione tra una psicopatologia descrittiva ed una esplicativa possiamo constatare<br />
come nella pratica clinica la vasta gamma di manifestazioni psicopatologiche – qui intese a livello<br />
di quadro fenomenologicamente rilevabile come appunto riportato nei manuali diagnostici – è di<br />
fatto esplicativamente riconducibile alle quattro Organizzazioni di Significato Personale che, a loro<br />
volta, rimandano ad una vastissima gamma di temi di vita sottendenti appunto i significati specifici<br />
di quella particolare persona. Pertanto è evidente come uno stesso sintomo manifestato con la<br />
medesima sintomatologia in pazienti diversi sottenda, a livello invece di coerenza sistemica del<br />
singolo sofferente, significati profondamente diversi in accordo con i suoi specifici temi di vita. In<br />
pratica la sostanziale differenza qui da cogliere per similitudine e parallelismo è esattamente la<br />
stessa che in genetica intercorre tra il genotipo, “in sé” non direttamente manifesto, ma comunque<br />
esplicitato nel relativo fenotipo invece fenomenologicamente descrivibile.<br />
Partendo da un’accurata valutazione fenomenologica (il perché del sintomo), qui usata come base<br />
per orientare una ricostruzione che possa dare un senso alla sintomatologia, ben presto si giunge al<br />
senso (il come del sintomo) che il paziente riferisce dell’esperienza stessa; tutto ciò, ricordiamo, in<br />
contrasto con un approccio descrittivo in cui la raccolta dei dati definisce automaticamente la<br />
diagnosi attraverso un confronto tra i sintomi raccolti ed i criteri diagnostici di riferimento adottati.<br />
Partendo così da un livello logico di mera evidenza descrittiva – più superficiale si diceva prima –<br />
non sfuggirà come diverse forme sintomatologiche o l’intesità di alcuni vissuti, tali da assumere<br />
connotazioni problematiche per il paziente assurgendo all’area d’interesse clinico, siano di fatto<br />
trasversali in quanto comuni agli scompensi riscontrabili in più Organizzazioni. Si pensi ad<br />
esempio come un vissuto quale la depressione, o una sintomatologia fobica quale gli attacchi di<br />
panico, o ancora un quadro composito come i disturbi del comportamento sessuale, assumano tanti<br />
significati diversi quanti i temi di vita delle persone che ne soffrono.<br />
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FIGURA 2: Lettura multilivellare del processo di sintomatizzazione<br />
SPECIFICITA’ ESPLICATIVA<br />
Come già accennato ciò che va a dare il senso della particolare sensibilità di una persona a questo o<br />
a quell’evento (e della sofferenza ad esso connessa) è essenzialmente la qualità esperienziale con la<br />
quale i vissuti perturbanti vengono esperiti ed integrati all’interno della propria coerenza sistemica.<br />
Ogni scompenso clinico, più che collegabile in termini causali a specifici eventi esterni oggettivabili<br />
in termini di “gravità” per la persona coinvolta, vanno fatti riferire al valore che tale esperienza<br />
assume per il soggetto (Guidano, 1999). Tanto per fare un esempio a delucidazione di ciò si pensi<br />
alla trasversalità esperienziale di vissuti quali la “disperazione” o la “depressione” in quanto noti a<br />
tutti gli esseri umani indipendentemente appunto dall’Organizzazione di riferimento. Queste<br />
esperienze emotive complesse, che nei soggetti a base non “depressiva” rimangono comunque<br />
circoscritte allo specifico evento o ambito di vita nel quale vengono vissute, in persone appartenenti<br />
a tale organizzazione, una volta innescate, si generalizzano con modalità pervasiva ed ineluttabile a<br />
tutti gli altri settori esperienziali, assumendo un senso di perdita e sconfitta esperito con un’intensità<br />
intollerabile ed inscindibile dal proprio senso di sé (13). In genere tali reazioni depressive si<br />
originano da eventi di vita elaborati immancabilmente come abbandoni, perdite nel mondo delle<br />
relazioni interpersonali ed affettive (Guidano, 1998). In ambito lavorativo risposte emotive del<br />
genere sono conseguenti alla percezione dell’inutilità dello sforzo in cui si stanno impegnando per il<br />
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raggiungimento di un dato obiettivo – una sorta di vera e propria “impotenza autocolpevolizzante” –<br />
che li fa immediatamente precipitare nel vissuto di solitudine ed esclusione dal resto dei generici<br />
“altri”, per poi espandersi progressivamente a tutti gli altri domini ed aspetti di vita con modalità<br />
totalitaria e totalizzante. In una organizzazione di tipo “disturbo alimentare psicogeno” il disturbo<br />
depressivo è tipicamente innescato dall’esperienza di svalutazione ed inadeguatezza, manifestandosi<br />
in termini di evitamento attivo (con funzione quindi anticipatoria) verso tutte quelle situazioni di<br />
confronto ed esposizione in cui appunto il ritiro sociale è l’alternativa elettiva perseguibile. Da<br />
quanto appena detto appare evidente come insieme alle organizzazioni a base “depressiva” gli<br />
aspetti disforici in seguito ad una delusione (tanto subita quanto agita nei confronti altrui) siano qui<br />
i più ricorrenti e manifesti in particolari fasi dello scompenso. Esistono tuttavia delle sostanziali<br />
differenze che rendono riconoscibili distinte sfumature emotive nelle disforie da organizzazione<br />
depressiva da quelle a base “dappica” (Guidano, 1998) (14). Nelle organizzazioni a base “fobica” si<br />
registrano disturbi depressivi spesso mascherati da somatizzazioni come nel caso dell’inibizione<br />
psicomotoria, strettamente concomitanti col senso di precarietà/vulnerabilità personale e delle<br />
figure di riferimento. Qui la distimia è quindi una conseguenza diretta dell’impossibilità di<br />
controllare la situazione o le figure significative come si vorrebbe, comparendo secondariamente al<br />
vissuto di precarietà. A tale situazione il soggetto spesso reagisce con manifestazioni di rabbia<br />
aperta contro le persone ritenute responsabili di non essere sufficientemente supportive, o al<br />
contrario mette in atto una modalità di manifesta fragilità, con pianto e continue richieste di<br />
vicinanza, protezione e considerazione del proprio stato di malessere. Infine associati agli<br />
scompensi a base “ossessiva” si rinvengono varie forme di distimia di tipo cronico in relazione per<br />
lo più ad un vissuto di incapacità personale (senso di negatività) nel non essere così perfetti come si<br />
vorrebbe data la forte connotazione di “dovere” che impernia tale costante ricerca. Forme<br />
depressive si hanno invece in concomitanza dell’angoscioso crollo delle certezze con<br />
compromissione del senso unitario di sé (senso di sconfitta totale). Si ricorre al suicidio come forma<br />
di fuga da una situazione percepita come insopportabile, ove l’idea di poter controllare in maniera<br />
assoluta e totale ogni aspetto di sé e della realtà cade miseramente in crisi senza nessuna prospettiva<br />
di scenario alternativo.<br />
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TABELLA 2: Confronto riassuntivo tra i due modelli psicopatologici<br />
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NOTE<br />
(1) E’ evidente come all’interno di una tale concezione, così articolata a livello di alterazioni del substrato cerebrale,<br />
una grande difficoltà sia rappresentata dal problema delle “nevrosi”: tutte quelle alterazioni psichiche cui non è<br />
possibile rinvenire un qualche danno alle strutture neurali. Di fatto forme di disagio mentale quali stati ansiosi, disforici,<br />
comportamenti maniacali, fobici, ossessivi, compulsioni di vario genere e grado sono soltanto riferibili all'esperienza<br />
interiore del soggetto sulla base di confronti che l’osservatore stabilisce con riferimento alla propria esperienza<br />
(Giacomini, 2001a).<br />
(2) Nella presentazione delle quarta edizione italiana DSM IV-TR (APA, 2001) si specifica come venga preso in<br />
considerazione “(…) l’atteggiamento empirico della osservazione e della sistematizzazione di ciò che appare e non di<br />
ciò che è causa delle manifestazioni cliniche”.<br />
(3) Dalla prefazione del DSM III (APA, 1980): “l'approccio adottato dal DSM III è ateoretico per quanto concerne<br />
l'eziologia e i processi fisiopatologici, eccetto per quei disturbi per i quali ciò sia stato stabilito con precisione (...)”.<br />
(4) Dalla prefazione del DSM III-R (APA, 1987): “l’espressione “dovuto a” è stata criticata (…) nel DSM-III, e non<br />
compare più nel DSM III-R.”.<br />
(5) Asse I: Disturbi clinici/Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica, Asse II: Disturbi di<br />
personalità/Ritardo mentale, Asse III: Condizioni mediche generali, Asse IV: Problemi psicosociali ed ambientali, Asse<br />
V: Valutazione globale del funzionamento.<br />
(6) Si è di fatto passati dai 106 disturbi descritti nel DSM I (1952) ai 182 del DSM II (1968), dai 265 del DSM III<br />
(1980) ai 292 della sua versione revised (1987), dai 370 del DSM IV (1994) agli oltre circa 500 della sua ultima<br />
edizione text-revised (2001).<br />
(7) Circa le problematiche metodologiche nell’uso del DSM-IV Paolo Migone (1995) riporta tre specifici ordini<br />
argomentativi: 1) validità e attendibilità; 2) sistema categoriale versus sistema dimensionale; 3) sistema politetico<br />
versus sistema monotetico.<br />
Validità e attendibilità: la validità di una diagnosi si riferisce alla sua capacità di riferirsi effettivamente ad una<br />
determinata malattia, entità o costrutto sottostante; l’attendibilità indica invece il grado con cui operatori diversi<br />
concordano su una diagnosi data fatta indipendentemente l'uno dall'altro: questi due termini si riferiscono quindi ad<br />
oggetti differenti (Boncori, 1993). In base a tale distinzione risulta facile progettare un sistema <strong>diagnostico</strong> dotato di<br />
un’alta attendibilità fornendo criteri diagnostici ben definiti (come nel caso dei DSM), mentre più difficile è fornire una<br />
validità alle diagnosi proposte (Areni, Ercolani e Scalisi, 1994). Come già precedentemente accennato altrove per molte<br />
delle malattie mentali si tratta di convenzioni di accordo raggiunte tramite il cosiddetto “consenso degli esperti”,<br />
disponendo raramente di veri e propri costrutti sottostanti o di certe anormalità anatomo-fisiologiche giustificanti<br />
l’inequivocabilità della diagnosi stessa (Reda, 1986). A questo proposito va ricordato che i DSM hanno accresciuto in<br />
maniera sostanziale solo l’attendibilità diagnostica, ma non la validità delle diagnosi stesse che è rimasta immutata: vero<br />
tallone d'Achille di questi manuali. Il problema fondamentale è che in psichiatria non esiste un validatore ultimo su cui<br />
misurare l'accuratezza delle diagnosi, come invece accade in altre branche della medicina (Reda, 1988).<br />
Sistema categoriale versus sistema dimensionale: altro interessante problema <strong>diagnostico</strong> riguarda le specifiche<br />
modalità con le quali classificare, e di conseguenza concepire, l’idea stessa di malattia. Utilizzare “categorie” significa<br />
suddividere le malattie mentali appunto in gruppi diagnostici secondo un modello medico-psichiatrico di derivazione<br />
kraepeliniana e neo-kraepeliniana che affonda le proprie radici filosofiche nella scuola platonica. Al contrario un<br />
sistema basato su “dimensioni” significa prendere in considerazione l’aspetto quantitativo delle malattie stesse (come<br />
già teorizzato da Ippocrate), secondo appunto variazioni relative alla gravità del disturbo, a caratteristiche<br />
personologiche, alla percezione, alla cognizione, alla tonalità dell’umore, ecc. Tale metodologia consente, a differenza<br />
della precedente, di distribuire i disturbi lungo un <strong>continuum</strong> con diverse “gradazioni di gravità” ad un cui estremo del<br />
range troviamo la normalità. Vale la pena ricordare come il dibattito teorico tra tali due approcci rifletta in parte un<br />
dibattito “politico”, associando il modello dimensionale all’area “psicologica” e quello categoriale a quella<br />
“psichiatrica” in base ad un modello biologico con evidenze di una sottostante alterazione a livello di substrato. I DSM<br />
hanno adottato l’approccio categoriale distinguendo così qualitativamente lo stato di malattia da quello di sanità<br />
mentale, ed ogni disturbo da un altro in maniera netta e separata. Tale ottica implica quindi l’esistenza di zone neutre tra<br />
una diagnosi (categoria) e l’altra, con la necessità di prendere in considerazione quadri ibridi costituiti da forme<br />
“atipiche”, “miste” o “residue”. A fini pratico-funzionali il sistema categoriale si applica meglio alle malattie gravi,<br />
molto meno a quei malesseri quotidianamente diffusi da riferirsi all’asse nevrotico. Inoltre il processo di<br />
patologizzazione alla base dei criteri in uso in questi manuali diagnostici implica<br />
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l’inclusione di qualsiasi condotta, dinamica, comportamento, funzione corporale o problema di vita all’interno di<br />
un’etichetta di relativa “devianza” o discostamento da una supposta idea di “normalità”.<br />
Sistema politetico versus sistema monotetico: nei DSM per ciascuna diagnosi viene specificato un numero minimo di<br />
criteri la cui presenza è necessaria per l’assegnazione della diagnosi stessa, precisando inoltre criteri sia di inclusione<br />
che di esclusione. Nelle ultime tre edizioni del DSM è stato adottato un sistema di tipo “politetico” (APA, 1980) in cui i<br />
membri di ciascuna categoria diagnostica non devono necessariamente possedere un determinato elemento potendone<br />
condividere soltanto alcuni, anche pochi, e in molti casi addirittura nessuno in particolare. Limite intrinseco di un<br />
sistema così definito è intuitivamente rappresentato però dall’eccessiva eterogeneità diagnostica, il che può addirittura<br />
vanificare il senso dell’inclusione di due pazienti nella medesima categoria.<br />
(8) I quattro tipi di Organizzazioni di Significato Personale sono: tipo “depressivo” (DEP.), tipo “disturbi alimentari<br />
psicogeni” (D.A.P.), tipo “fobico” (FOB.) e tipo “ossessivo” (OSS.), per la cui puntuale trattazione rimandiamo a Reda<br />
(1986), Guidano (1988), Nardi (2001) e Arciero (2002).<br />
(9) ) Essenzialmente, seguendo un criterio di priorità prototipica, temi di vita caratteristici delle quattro organizzazione<br />
descritte sono in maniera estremamente generica: di “negatività” nella DEP., di “inadeguatezza” nella D.A.P., di<br />
“sprotezione” nella FOB., ed ambivalente “instabilità” nell’OSS.<br />
(10) Una delle fondamentali differenze che distinguono gli approcci cognitivisti si stampo “razionalista” dal modello<br />
sistemico processuale (altresì definito “Post-razionalista”) consiste nell’assunto che i primi intendono il disagio psichico<br />
come conseguenza di uno scostamento del paziente da una forma mentis “normale” a causa di belief disfunzionali,<br />
irrazionali, in termini di convinzioni distorte che devono essere quindi cambiate per ristabilire l’equilibrio alterato e<br />
manifesto sintomatologicamente nelle emozioni disturbanti. La terapia qui si focalizza sulle strutture rappresentazionali<br />
del soggetto (immaginazione, convinzioni, dialogo interno), sulla semantica quindi del disturbo e non la sua sintassi a<br />
livello di significati profondi. Partendo dal presupposto che i disturbi psichici sono disturbi relativi la sfera<br />
dell’emotività, un dato da tenere presente è che in terapia “razionalista”, mediante una tecnica persuasiva quale il<br />
dialogo socratico, si va a far leva sul livello razionale-cognitivo del paziente; mutandone al più i convincimenti<br />
sottostanti il sintomo. Al contrario, attraverso una perturbazione strategicamente mirata dell’emotività stessa – una volta<br />
chiare quindi le polarità emotive caratteristiche dell’organizzazione di significato alla quale il paziente appartiene – si<br />
innescano i riordinamenti che ad un livello profondo articolano i piani di significazione che il soggetto si riferisce in<br />
merito alla sua prassi del vivere (Dodet, 2000). Haviland (1984) rileva tra l’altro come i temi centrali affettivi siano più<br />
costanti nel tempo delle articolazioni cognitive ed i primi siano scarsamente influenzati dalle regole logiche in maniera<br />
plausibile da poter affermare che “mentre il pensare cambia di solito i pensieri, solo il sentire può modificare le<br />
emozioni” (Guidano, 1992).<br />
(11) Solitamente una persona “compensata” presenta un alto livello di flessibilità, ovvero “quando uno stato interno<br />
emergente può essere visto da molti punti di vista, non solo dal punto di vista in cui uno l’ha percepito nel momento in<br />
cui l’ha sentito” (Guidano, 1998). Tale molteplicità di punti di vista, con cui può essere riordinato e riferito uno stesso<br />
stato d’animo, porta necessariamente ad un incremento d’astrazione come stimolo alla generatività e creatività di nuove<br />
ipotesi. A qualsiasi organizzazione appartenga un soggetto così “articolato” le modalità di rapportarsi alla realtà e a sé<br />
stessi sono le medesime, imperniate cioè sulla consapevolezza del proprio modo di funzionare.<br />
In una elaborazione invece di tipo “nevrotico” troveremo una diminuzione della capacità a modificare le proprie<br />
spiegazioni dell’esperienza in corso, in dis-accordo con i mutamenti avvenuti in seno alla consuetudinarietà degli stati<br />
emotivi usualmente esperiti. Un’elaborazione dell’esperienza con modalità così concrete porta il soggetto a rimanere<br />
legato allo specifico contesto percettivo immediato, senza possibilità di generalizzazione e di poter quindi considerare<br />
un punto di vista alternativo. Il soggetto è ancora in grado di operare una distinzione tra l’esperienza e la significazione,<br />
come nel rendere tra loro integrati i vari aspetti della prima. Scadenti e limitate risultano al contrario le capacità di<br />
generare ed articolare nuove chiavi di lettura di sé in base ai nuovi eventi.<br />
Infine nell’elaborazione di tipo “psicotico” tutte le dimensioni appaiono fortemente coartate ed impossibilitate a<br />
svolgere le loro rispettive funzioni in vista di una continuità del senso di sé unitaria ed ininterrotta. Una riduzione della<br />
Flessibilità ed Astrazione implica sia l’incapacità a modificare le proprie spiegazioni in base all’esperienza in corso, che<br />
un rigido legame al contesto percettivo immediato. La compromissione della Generatività impossibilita la creazione di<br />
nuove forme di significarsi le novità esperienziali. Manca in parte o del tutto la capacità di mantenere un senso di sé<br />
stabile nel tempo integrando aspetti che, vissuti invece come “alieni”, esterni alla propria esperienza, vengono esperiti<br />
come allucinatori o deliranti. Notevoli difficoltà risultano anche nel distinguere tra dato esperienziale e suo significato,<br />
mentre l’immagine cosciente di sé così “impoverita” a livello di emozioni riconoscibili e decodificabili diventa<br />
eccessivamente stabile stereotipandosi “improduttivamente”. Una caratteristica<br />
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di tale elaborazione è anche un’evidente compromissione della capacità di sequenzializzare temporalmente gli eventi<br />
lungo un asse cronologico tanto tematico che strutturale, portando ad un’interruzione della trama narrativa.<br />
(12) Più nello specifico distinguiamo sei dimensioni d’elaborazione del significato personale di una persona:<br />
Flessibilità, Astrazione, Generatività, Integrazione, Metacognizione e Articolazione (Dodet, training di formazione<br />
professionale in psicoterapia cognitiva. 1999), le cui alterazioni qualitative decretano il progressivo slittamento di<br />
un’organizzazione personale attraverso la sequenza appena descritta.<br />
A) Con “Flessibilità” intendiamo la capacità di modificare le spiegazioni sull’esperienza attuale in corso per<br />
annetterla, insieme al relativo bagaglio emotivo, al proprio flusso narrativo. Questa dimensione in pratica riguarda<br />
la possibilità di una persona di significarsi, coerentemente con la messe di conoscenze che costituiscono il proprio<br />
senso di sé, nuovi inaspettati accadimenti, eventi di vita emotivamente pregnanti e particolarmente attivanti per<br />
quella data organizzazione di significato che altrimenti la scompenserebbero.<br />
B) La dimensione di “Astrazione” si riferisce al livello in cui il soggetto è in grado di operare un processo di<br />
generalizzazione dei significati, prescindendo quindi dall’attuale contesto percettivo in cui sul momento li adduce,<br />
relativi alle proprie esperienze. Permette così di “sdoganare” in altri ambiti e domini di interesse o coinvolgimento,<br />
nei quali si trova ad agire ed esperire, un bagaglio esperienziale mutuato da precedenti eventi da cui ha sintetizzato<br />
significati attinenti allo scenario presente.<br />
C) La ”Generatività”, conseguente al riconoscimento della discrepanza avvertita tra il proprio percepirsi ed il proprio<br />
intendersi, è la fattuale produzione di nuove modalità di autolettura che tengano appunto in considerazione tali<br />
stravolgimenti ora adeguatamente “normalizzati” nel flusso esperienziale corrente. Si tratta così di derivare nuove<br />
sfumature relative al senso di sé in base alle quali riferirsi inedite modalità di ritenersi alla luce delle nuove<br />
acquisizioni ottenute.<br />
D) La dimensione di “Integrazione” consiste invece nella specifica capacità di rendere tra loro coerentemente<br />
omogenei i diversi aspetti dell’esperienza in corso tanto sequenzializzandola in senso longitudinale (integrazione<br />
diacronica) – secondo le direttrici cronologiche “passato”, “presente” e “futuro” – quanto nell’hic et nunc<br />
(integrazione sincronica) del vivere. Una sua specifica disfunzione porta nel soggetto una disgregazione relativa la<br />
continuità storica, qui intesa nei termini di uno smarrimento del senso di sé come racconto che il soggetto fa di sé<br />
stesso.<br />
E) La “Metacognizione” è la generale capacità di differenziare l’atto dell’esperire dalla relativa significazione nei<br />
termini di una riflessione su di sé che implichi tanto la progettualità d’azione che la considerazione dei propri ed<br />
altrui pensieri/ragionamenti. Si struttura in maniera complessa sulla base di elementi cognitivi, emotivi,<br />
comportamentali e relazionali, e comprende così processi di memorizzazione, elaborazione, decisione e soprattutto<br />
di consapevolezza su di sé e gli altri.<br />
F) La “Articolazione” è infine la capacità di riconoscere i vari aspetti della propria esperienza, del proprio senso di sé,<br />
così come costituitisi attraverso processi di sommazione e sedimentazione delle esperienze di vita, a partire dalle<br />
più precoci relazioni di attaccamento con una figura elettiva di riferimento.<br />
(13) “La reazione depressiva in un’altra organizzazione di significato è circoscritta al dominio dell’esperienza dove si<br />
è prodotta la discrepanza che ha colpito la persona, e nella reazione depressiva, in un’organizzazione di significato<br />
depressivo, quando si produce una discrepanza in un settore determinato dell’esperienza, in una frazione di secondo si<br />
generalizza in tutti gli altri fino a diventare cosmica” (Guidano intervista 1996 in Medina Diaz 1998).<br />
(14) Nei D.A.P. l’esperienza deludente è accompagnata da un senso di perdita dei contorni del sé (“il mondo m’è<br />
caduto addosso”) dato che il soggetto si era modulato, stabilizzandosi, su di un assetto venuto improvvisamente meno.<br />
Il L.O.C. interno – vissuto in termini di inadeguatezza – rende tangibile e cocente il senso di colpa ed inefficienza con<br />
una messe di indefinite attivazioni emotive tendenti a vissuti di inutilità e fallimento che il soggetto fatica a mettere a<br />
fuoco. Nel soggetto DEP. la delusione viene invece vissuta con uno sconfortante senso di tragica ineluttabilità (“tanto<br />
prima o poi doveva accadere”) derivante dal proprio senso di inamabilità e negatività generale che rimanda ad una serie<br />
di vissuti emotivi ben precisi e netti, modulati su attivazioni di rabbia e disperazione.<br />
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Versión electrónica a cargo de Álvaro T. Quiñones Bergeret. Editado por: Grupo de investigación en psicoterapia cognitiva de orientación<br />
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