28.05.2013 Views

Giugno 2012 - Gruppo Fotografico Antenore

Giugno 2012 - Gruppo Fotografico Antenore

Giugno 2012 - Gruppo Fotografico Antenore

SHOW MORE
SHOW LESS

Create successful ePaper yourself

Turn your PDF publications into a flip-book with our unique Google optimized e-Paper software.

Sommario:<br />

GRUPPO RUPPO RUPPO FOTOGRAFICO FOTOGRAFICO FOTOGRAFICO ANTENORE, ANTENORE, BFI<br />

BFI<br />

RASSEGNA RASSEGNA STAMPA<br />

STAMPA<br />

o,, n.<br />

Anno Anno 5 o, n. n.3 n. 3 - <strong>Giugno</strong> <strong>Giugno</strong> <strong>2012</strong><br />

<strong>2012</strong><br />

Grandi fotografi a 33 giri......................................................................(pag. 2)<br />

Photo Espana al via..............................................................................(pag. 4)<br />

GBC o la religione del negativo.............................................................(pag. 5)<br />

Frantisek Drtikol...................................................................................(pag.10)<br />

Hanna Liden..........................................................................................(pag.14)<br />

Il diritto di aggiungere fumo.................................................................(pag.15)<br />

Fotografia e street art: You are not Bansky".........................................(pag.18)<br />

Bern Stern.............................................................................................(pag.19)<br />

E qui vince che bara (se ci riesce) ........................................................(pag.22)<br />

Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali a Vitalità del Negativo...............(pag.24)<br />

Fotografia e linguistica.........................................................................(pag.25)<br />

Così è se vi Parr....................................................................................(pag.27)<br />

Fotografia vs Pittura.............................................................................(pag.29)<br />

Il farmacista-fotografo delle mondine in risaia.....................................(pag.31)<br />

Olive e bulloni, a Parigi l'omaggio a Ando Gilardi..................................(pag.33)<br />

SanFelice, le foto magiche per ricominciare..........................................(pag.36)<br />

Fotografare il terremoto, contro il terremoto........................................(pag.38)<br />

Mario Dondero, la mostra antologica del fotografo...............................(pag.40)<br />

Oltre 400 persone all'inaugurazione di "Itaca" a Bibbiena...................(pag.43)<br />

Ricostruire la pianura padana attraverso le foto..................................(pag.44)<br />

Gli eBook di Contrasto..........................................................................(pag.46)<br />

Da Lady Gaga ad Angelica Jolie-Lo star-system di David LaChapelle...(pag.46)<br />

Giacomo Costa e l'arte di fotografare il futuro......................................(pag.48)<br />

10 Anni di Corigliano Calabro Fotografia..............................................(pag.49)<br />

Battaglia torna in pista a Palermo. Guiderà il Centro della Fotografia..(pag.52)<br />

Al Pan i lavori fotografici di Stanley Kubrick.........................................(pag.53)<br />

Fra le macerie cercando l'originale perduto.........................................(pag.55)<br />

Josef Koudelka / Saul Leiter................................................................(pag.57)<br />

Architettura, città, fotografia: Stefan Mueller in mostra a Padova.......(pag.60)<br />

Cos'è italiano nella fotografia italiana..................................................(pag.61)<br />

Walter Guadagnini -"La fotografia".....................................................(pag.65)<br />

I have a dream....................................................................................(pag.66)<br />

La Polaroid del rottamatore.................................................................(pag.67)<br />

Maurizio Vitali | Il fiammingo..............................................................(pag.69)<br />

La macchina col buco...........................................................................(pag.72)<br />

Botto&Bruno trionfano a Madrid..........................................................(pag.76)<br />

La seconda vita delle fotografie ri-mediate.........................................(pag.77)<br />

Patrik Mimram al Museo Nazionale della Fotografia di Firenze...........(pag.80)<br />

1


----------------------------------------<br />

Grandi fotografi a 33 giri<br />

Comunicato Stampa da http://undo.net/it/<br />

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, ROMA a cura di Raffaella Perna<br />

Un'ampia ricognizione sul rapporto tra cover e fotografia d'autore, frutto di una<br />

completa fusione tra professionalita' e sperimentazione. Tra gli autori presenti:<br />

Erwin Olaf, Martin Parr, Pierre & Gilles, David LaChapelle, Annie Leibovitz, Ellen<br />

von Unwerth, Irving Penn, Cindy Sherman.<br />

Dopo la mostra Synchronicity. Record Covers by Artists (2010) dedicata alle<br />

copertine di dischi progettate da artisti, Grandi fotografi a 33 giri propone per la<br />

prima volta un'ampia ricognizione sul rapporto tra cover e fotografia d'autore.<br />

L'esposizione, a cura di Raffaella Perna, attraverso una selezione di circa<br />

centocinquanta dischi in vinile provenienti dalla collezione di Stefano Dello<br />

Schiavo, intende ripercorrere cronologicamente la storia delle copertine<br />

realizzate appositamente dai grandi maestri della fotografia, a partire dagli anni<br />

Cinquanta fino a oggi.<br />

Copertine scelte per la peculiare capacità di trasmettere appieno il linguaggio<br />

espressivo del fotografo, che si configurano come oggetti dalla duplice valenza<br />

culturale e commerciale: prodotti che, pur essendo realizzati su commissione<br />

nell'ambito di un'attività professionale, mostrano la forza creativa dell'autore, al<br />

di là dei vincoli imposti dalle case discografiche.<br />

Frutto di una completa fusione tra professionalità e sperimentazione, tali<br />

copertine concorrono a formare l'immaginario visivo dei diversi generi musicali: è<br />

2


questo il caso delle straordinarie cover di Lee Friedlander che, con i suoi primi e<br />

primissimi piani, ha contribuito alla creazione e al consolidarsi degli stilemi<br />

fotografici del jazz. Sempre in ambito jazz sono in mostra le copertine di William<br />

Eugene Smith, Roy DeCarava, Arnold Newman, Garry Winogrand e il bellissimo<br />

close-up di Miles Davis realizzato per l'album Tutu da Irving Penn.<br />

Nel contesto della musica rock, oltre alle cover fotografiche di artisti noti quali<br />

Andy Warhol o Mario Schifano, sono notevoli alcuni lunghi sodalizi artistici come<br />

quello instauratosi tra Robert Mapplethorpe e la cantante Patti Smith, a cui si<br />

deve la celebre copertina di Horses, inserita dalla rivista “Rolling Stone” nella<br />

lista delle cento migliori cover di tutti i tempi, o quello tra Anton Corbijn e gli U2,<br />

da cui nascono immagini entrate a far parte dell'universo visivo d'intere<br />

generazioni di fan del gruppo irlandese.<br />

In mostra ampio spazio è riservato ai grandi fotografi di moda, che sempre più<br />

spesso vengono chiamati a produrre immagini delle star del panorama musicale.<br />

Fra questi: Richard Avedon, David Bailey, Helmut Newton, Mario Testino, Bruce<br />

Weber, Ellen von Unwerth, Juergen Teller, Inez van Lamsweerde & Vinoodh<br />

Matadin ed Herb Ritts, scelto da Madonna come fotografo in diverse occasioni.<br />

Dagli anni '80 autori come David LaChapelle o Pierre & Gilles hanno trasferito<br />

nella copertina del disco lo stile spettacolare e artificiale dei loro tableaux vivants<br />

fotografici, contribuendo così a diffondere presso un pubblico vastissimo<br />

l'eclettismo sovraccarico della loro estetica postmoderna.<br />

Tra i fotografi italiani presenti in mostra Luigi Ghirri, autore fra l'altro di<br />

numerose cover di musica classica edite dalla casa discografica RCA, Luigi<br />

Veronesi, Ferdinando Scianna, Oliviero Toscani, Franco Fontana, Giuseppe Pino.<br />

Il catalogo è pubblicato dalla casa editrice Postcart, nella collana editoriale<br />

Postwords<br />

Elenco dei fotografi in mostra:<br />

Nobuyoshi Araki, Richard Avedon, David Bailey, Roberta Bayley, William Claxton,<br />

Lucien Clergue, Michael Cooper, Anton Corbijn, Gregory Crewdson, Chris<br />

Cunningham, Roy DeCarava, Franco Fontana, Lee Friedlander, Robert Frank,<br />

Luigi Ghirri, Guido Harari, Horst P. Horst, George Hurrell, William Klein, Nick<br />

Knight, Inez van Lamsweerde, David LaChapelle, Annie Leibovitz, Robert<br />

Mapplethorpe, Steven Meisel, Duane Michals, Jean-Baptiste Mondino, Billy Name,<br />

Arnold Newman, Helmut Newton, Erwin Olaf, Martin Parr, Pierre & Gilles, Tod<br />

Papageorge, Irving Penn, Giuseppe Pino, Bettina Rheims, Herb Ritts, Mick Rock,<br />

Ferdinando Scianna, Mario Schifano, Cindy Sherman, William Eugene Smith,<br />

Michael Snow, Juergen Teller, Mario Testino, Wolfgang Tillmans, Oliviero Toscani,<br />

Pete Turner, Ellen von Unwerth, Luigi Veronesi, Andy Warhol, Bruce Weber,<br />

Garry Winogrand<br />

Auditorium Parco della Musica - viale Pietro de Coubertin, 10 - Roma, orario di apertura: dal<br />

lunedì al venerdì dalle 17.00 alle 21.00, Sabato e Domenica dalle 11.00 alle 21.00<br />

Ingresso libero<br />

3


PhotoEspaña al via!<br />

A Madrid quasi due mesi con centinaia di fotografi, oltre settanta mostre<br />

e qualche nome noto.<br />

da www.exibart.com<br />

Al via oggi PhotoEspaña, il Festival Internazionale di Fotografia e Arti<br />

Visive, che giunge alla sua quindicesima edizione, dal 1998. Quasi due<br />

mesi di rassegna, fino al 22 luglio, che negli ultimi anni ha attirato circa<br />

600mila visitatori in ogni edizione e che lo hanno reso l'evento legato alla<br />

fotografia e all'arte visiva più popolare in Spagna. La kermesse<br />

madrilena ha totalizzato, partendo dalla sua prima edizione, 858 mostre,<br />

ospitate in musei, gallerie e centri d'arte della città, avvicinando anche<br />

negli ultimi tempi nuove città-partner, come nel caso di Cuenca, che<br />

ospiterà la selezione dei migliori libri di fotografia dell'anno. Dislocati per<br />

Madrid, quest'anno vi saranno qualcosa come oltre 74 mostre in 68 sedi<br />

espositive, che toccheranno i temi più vicini alla contemporaneità, dalle<br />

immagini "inquietanti" alle poetiche sociali, scavando attraverso la storia<br />

e alcuni grandi miti. Qualche esempio? C'è Andy Warhol con i test su<br />

pellicola e alcuni film alla Cineteca Spagnola, dove sarà messo in<br />

evidenza il mondo underground della Factory, unica istituzione "privata"<br />

a raggiungere gli altissimi ranghi dell'arte in un periodo brevissimo.<br />

Attraverso uno sguardo di "partitura", il curatore Douglas Crimp,<br />

accostando gli "Screen test" delle immagini metterà in scena anche la<br />

proiezione dei lungometraggi dell'artista da "Kiss" a "Chelsea Girl". Al<br />

4


Circolo di Belle Arti invece "La maleta mexicana" è un'indagine che arriva<br />

a Madrid dal Centro Internazionale di Fotografia di New York, che ha<br />

condotto un'indagine sui negativi che hanno ritratto la guerra civile<br />

spagnola, dispersi per più di sessant'anni, attraverso una "valigia" di<br />

scatti di Robert Capa, David Seymour "Chim"e Gerda Taro, considerati i<br />

primi autori di guerra della contemporaneità.<br />

E tra le "immagini ansiose" al Municipio di Madrid ci sono anche le<br />

stampe dell'italiano Matteo Basilè, insieme a un nutrito gruppo di artisti,<br />

soprattutto orientali: Miki Kratsman, Nan Lu, Wang Ningd, Eugenia<br />

Raskopoulos e Daniel Schwartz, solo per citarne qualcuno.<br />

Qui è la globalizzazione che trascende i confini a farla da padrone, con le<br />

visioni di una ristrutturazione che lavora in base alle esigenze<br />

economiche e agli interessi politici. Dunque, correlatamente, anche<br />

l'intensificarsi del conflitto e dell'opposizione tra ricchi e poveri o tra<br />

globalizzazione e nazionalismo, centro e periferia. A partire da queste<br />

considerazioni, il curatore Huang Du esplora partendo dalla razionalità, le<br />

immagini che causano ansia. Ansia intesa come attività psicologica<br />

prodotta dalla pressione esterna sulla vita, influenzata, controllata o<br />

sempre più invasa dalle immagini. Per tutte le info dettagliate, anche sui<br />

280 artisti di 44 nazionalità diverse che partecipano, www.phe.es.<br />

GBG e la religione del negativo<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

Anche questa intervista fa parte della serie “Lo sguardo italiano” che<br />

esce periodicamente in Repubblica Sera, la nostra edizione per tablet.<br />

Per recuperarle su questo blog aprire i2l collegamento con CTRL + clic su<br />

questa voce: Sguardo italiano<br />

«Un’autocitazione. La prima fotografia della macchina di fronte al mare la presi in Gran<br />

Bretagna nel ’77, e non ho mai davvero capito perché sia diventata forse la mia più<br />

famosa, mi piace ma non ci vedo molto, ne amo di più altre. Vent’anni dopo, dall’altra<br />

parte della Manica, in Normandia, trovai questa macchinina nella stessa posa. Non ho<br />

resistito. Questa è anche meglio della prima, il cielo è più scolpito, la macchina più<br />

pittoresca, ma lo so già che non diventerà famosa».<br />

Crederci o no, ma esiste al mondo una fotografia digitale scattata da<br />

Gianni Berengo Gardin. «Carpita con l’inganno!», ride GBG. Basta<br />

l’acronimo ormai per identificare il patriarca del fotoreportage italiano, 81<br />

5


anni, duecento libri, conosciuto ovunque nel mondo, quindici Leica nel<br />

cassetto, amore fedelissimo anche se con qualche scappatella. «Mi hanno<br />

messo in mano quella macchina senza dirmi nulla, ho schiacciato il<br />

bottone e ho sentito subito dal rumore che non era a pellicola…». Una<br />

foto GBG digitale è più rara del Gronchi rosa.. «No, non esiste quella<br />

foto, non la riconosco, la diseredo!». Nessuno farà cambiare idea a GBG,<br />

analogico integrale e senza abiure.<br />

Berengo, esiste uno sguardo fotografico italiano?<br />

«Non credo, non sono neppure sicuro di avere uno stile mio, figuriamoci<br />

se ce n’è uno italiano. Gli altri dicono che ne ho uno, di stile, ma non<br />

sono riusciti a convincermi. Dicono ‘Berengo, questa è proprio nel tuo<br />

stile’, e io non capisco. Certe volte penso che sia un certo modo di<br />

mettere insieme una figura in primo piano e una seconda azione in<br />

secondo piano, ma non vale per tutte le fotografie che ho fatto».<br />

«All’epoca ne preferii una simile, ma mi sono un po’ pentito, non era così intensa. Forse<br />

feci una scelta frettolosa, c’era da rispettare qualche scadenza, non so. Quando poi<br />

scegli una foto, finisci che ricordi solo quella. Ma in questa, la bambina è mossa, si<br />

capisce che sta saltando, ha una bella espresisone, c’è la tensione del gioco… Ho fatto<br />

bene a darle un’altra possibilità di esistere».<br />

Maestri?<br />

«Tantissimi. Se devo dire la verità, soprattutto francesi: Boubat,<br />

Doisneau, Ronis, soprattutto Willy Ronis che ho conosciuto bene e mi ha<br />

insegnato tanto. Ma anche gli Americami della Fsa, la Lange, Smith… Ho<br />

sempre guardato molto le foto degli altri, ho duemilacinquecento libri di<br />

reportage e li sfoglio continuamente».<br />

Volevo dire, maestri italiani?<br />

«Paolo Monti, Ugo Mulas. Ma non erano reporter. Da loro ho preso<br />

l’amore per le forme, ma come si racconta una storia ho dovuto<br />

impararlo un po’ da solo».<br />

Un po’ da Cartier-Bresson…<br />

«Be’, quando uscì Images à la sauvette fu un evento, all’epoca di libri di<br />

fotografie ne usciva uno all’anno, costava tantissimo ma dovevi averlo se<br />

6


ti consideravi un fotografo. E nella rarità di esempi, è chiaro che ti<br />

influenzava. Mentre adesso nessuno riesce materialmente anche solo a<br />

sfogliare una volta tutto quello che esce. E non ci sono più maestri,<br />

infatti. I giovani fotografi guardano su Internet quello che fa il collega. Si<br />

spiano tra loro, spiano tra loro, si imitano fra loro».<br />

«Donne che vanno e vengono, ma lentamente. L’atmosfera della nevicata sul mare e<br />

sui ponti, con quella navona enorme che avanza… Mi ricorda una foto che ho già visto,<br />

di un fotografo francese, non so bene, più probabilmente mi ricorda Il porto delle<br />

nebbie di Jean Gabin, io amo tanto il cinema francese».<br />

Libri. Quanti ne ha fatti?<br />

«Dopo i duecento ho smesso di contarli, come l’alpinista quando arriva<br />

sull’Everest: continua a scalare altre montagne ma non se ne vanta<br />

più…».<br />

Non le piacevano i giornali?<br />

«Forse a loro non piacevo io, non mi facevano lavorare. E allora ho fatto<br />

libri con chi me li faceva fare e sono entrato nella dimensione del<br />

racconto lungo con 50, 70, 150 fotografie… Ho appena finito questo<br />

lavoro sull’Aquila, c’ero stato negli anni Novanta, ho ripreso quelle foto<br />

oggi e le ho messe a confronto con la distruzione, non è il primo<br />

terremoto che ho fatto, ma è diverso, una città completamente<br />

sbriciolata, nessuna casa si è salvata, e poi lasciata lì, un po’ ripulita,<br />

come fosse Pompei… Credo di aver fatto un libro di impegno civile».<br />

7


«Adesso mi piace molto la confusione che regna in questa immagine, forse quando la<br />

scattai invece mi sembrò eccessiva. I giudizi cambiano. Il finale di una vogata, La<br />

Spezia, nel 2005. Quei gesti paralleli dei due ragazzi, gli altri che si affollano intorno,<br />

quelli caduti in acqua… Una buona foto è sempre più complessa di quel che ci<br />

aspettiamo».<br />

Ma le sue foto che tutti ricordano sono singole, solitarie…<br />

«Sì, ma anche quelle raccontano, il loro racconto è dentro. Quel che non<br />

mi piace delle fotografie di reportage dei fotografi giovani è che non<br />

raccontano più, illustrano: sono fatte tecnicamente con la macchina<br />

fotografica ma mentalmente col pennello, sono pitture, puntano tutto<br />

sulla perfezione formale. E poi…».<br />

Lo so cosa sta per dire.<br />

«Molte sono costruite. Non naturali, taroccate».<br />

La sua battaglia contro il digitale è implacabile.<br />

«Il digitale ha solo due vantaggi: che la foto la fai e un secondo dopo<br />

arriva a Londra a New York o dove vuoi. Secondo, che puoi adeguare la<br />

sensibilità ad ogni scatto senza cambiare pellicola. Basta. In tutto il resto<br />

è tecnicamente ed esteticamente inferiore alla pellicola. Ma ha un<br />

vantaggio, che con Photoshop dopo la cambi come vuoi. Almeno lo<br />

dichiarassero…».<br />

«Lucca, sotto le mura. Senti lo scatto, senti perfino la forza centrifuga che quel ciclista<br />

deve compensare facendo la curva. Ecco, queste sono un po’ le cose che amo fare, se<br />

c’è uno stile mio è qui: un’azione in primo piano, una forma in secondo piano. C’è una<br />

foto simile di Cartier-Bresson, non mi fa dispiacere ricordarlo. Le fotografie hanno una<br />

vita segreta, parlano fra loro».<br />

Lei dichiara che non lo fa.<br />

«Ci metto il timbro: “Fotografia non ritoccata o modificata al computer”.<br />

Anzi adesso ne metto anche un altro, “Fotografia stampata ai sali<br />

d’argento”…».<br />

8


Ma così le dicono del passatista…<br />

«Ho le spalle abbastanza robuste per sopportarlo. Insomma si potrà pure<br />

essere convinti di quel che si fa, no? Per me scattare in pellicola e<br />

guardare i provini ancora umidi e stampare su carta è anche un piacere<br />

fisico, se proprio devo dirlo».<br />

Il suo amico Elliott Erwitt taglia corto dicendo: uso la pellicola<br />

perché sono un idiota.<br />

«Bravissimo Elliott, io invece ormai taglio corto e dico: sono religioso,<br />

appartengo alla chiesa del negativo. Ma li ha mai visti in azione, i<br />

reporter digitali? Passano più tempo a riguardare sul visorino la foto che<br />

hanno appena fatto che a scattare, sono lì a testa in giù, ripiegati su se<br />

stessi, e si perdono la foto dopo, che magari era quella buona. È un tic<br />

nervoso, un vero problema psicologico».<br />

"È Venezia, 1958. Questa non l’avevo mai stampata perché a vederla sui provini mi<br />

pareva scura. L’avevo scartata per un pregiudizio… Poi ho guardato meglio e ho visto<br />

che c’era del buono, e molto, e si poteva recuperare. In un campo era in corso questa<br />

partita di pallone disordinata, c’è il prete, e tutti hanno dei bei movimenti. È piaciuta<br />

molto anche a Scianna".<br />

Ma davvero sta qui tutto il problema?<br />

«No, in realtà quel che penso è che il digitale ha cambiato soprattutto la<br />

mentalità con cui si fanno le foto, il modo a in cui si pensa la foto prima<br />

di farla. Noi con 36 pose stavamo attenti a non sprecare scatti, il lavoro<br />

del fotografo era soprattutto decidere quando non premere il bottone.<br />

Adesso puoi scattare quante foto vuoi, in fretta, e poi in testa pensi:<br />

tanto dopo le metto a posto. Cambia anche il modo di vedere le foto<br />

degli altri. Mi hanno detto che su un blog di fotografia un ragazzino ha<br />

scritto della mia foto del vaporetto, quella che piaceva a Cartier-Bresson,<br />

dicendo “l’ha messa insieme con Photoshop”, ma ragazzo mio, quella<br />

foto è degli anni Cinquanta…».<br />

Ha pubblicato un libro di inediti, ne vediamo qui alcuni estratti…<br />

9


Cosa l’ha spinta a riaprire i cassetti?<br />

«Le fotografie invecchiano e cambiano sapore come il vino. Non so<br />

neppure io cosa cercavo, ma alcune foto che avevo scartato dopo molti<br />

anni mi hanno chiamato, sono venute fuori da sole, e ce n’erano tante.<br />

Ho potuto ritrovarle perché erano lì, sul negativo, mentre oggi le<br />

fotografie scartate spesso vengono cancellate dalle memorie elettroniche<br />

e non torneranno più. Credo che questo libro sia una specie di consiglio<br />

ai giovani fotografi, a quelli che corrono a Gaza o in Afghanistan a<br />

cercare la fotografia che fa sensazione, per vincere i premi, poi magari<br />

buttano le altre: osate il banale, l’insignificante, vedrete prima o poi che<br />

ha un significato, che c’è dentro la vita, se la sapete cercare».<br />

Frantisek Drtikol<br />

comunicato stampa da http://undo.net<br />

Galleria Carla Sozzani- Corso Como 10 – 20154 Milano, Italia<br />

Lunedì ore 15.30 – 19.30, Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato ore<br />

10.30 – 23.00. Domenica ore 10.30 – 19.30, Ingresso libero<br />

Woman in The Light.<br />

Nell'opera dell'artista praghese la figura femminile, attraverso<br />

forme e movimenti disposti ad arte, il pathos sentimentale delle<br />

espressioni e il virtuosismo della composizione, diviene una<br />

visione ossessiva: santa e vergine, demone e femme fatale. In<br />

mostra 60 fotografie vintages.<br />

L’opera di František Drtikol, tra i primi anni del Novecento e la metà degli<br />

anni Trenta, è stata fonte d’ispirazione per generazioni di fotografi fino ai<br />

nostri giorni: nudi lirici ed evanescenti, l’uso delle luci, le ombre e le<br />

suggestioni.<br />

Drtikol è affascinato dal corpo femminile in quanto origine della bellezza,<br />

del pensiero e dell’anima. La figura femminile, attraverso forme e<br />

movimenti disposti ad arte, il pathos sentimentale delle espressioni e il<br />

virtuosismo della composizione, diviene una visione ossessiva: santa e<br />

vergine, demone e femme fatale.<br />

I suoi nudi femminili si possono distinguere in due ricerche: una lirico,<br />

l’altra decisamente più drammatica, anche se spesso i due temi si<br />

sovrappongono.<br />

I ritratti delle donne fragili e delicate ricordano la Beatrice di Dante, le<br />

angeliche figure Pre-Raffaellite o le misteriose creature di Gustav Klimt.<br />

Le loro espressioni e la loro gestualità riportano all’atmosfera<br />

melanconica e di sogno dell’Art Nouveau.<br />

A queste figure languide e trasparenti si sovrappongono le femmes<br />

10


fatales, simboli di amore e di morte, come nelle opere di molti artisti del<br />

Simbolismo e dell’Art Decò.<br />

Untitled (Nude<br />

with disk over head), ca. 1927-29. Copyright Ruena Knotkovà-Bokovà. Courtesy Gallery Kicken Berlin<br />

In modo particolare, la figura di Salomé stimola la fantasia di Drtikol,<br />

così come ha stimolato e ispirato Gustave Flaubert, Oscar Wilde, Aubrey<br />

Beardsley, Gustave Klimt.<br />

Le fotografie di Drtikol della Salomé nuda sono il simbolo di un’epoca in<br />

cui lussuria e punizione, eros e thanatos, i conflitti tra sesso e morte,<br />

culminano negli insegnamenti e negli scritti di Freud. La polarità<br />

dell’erotismo e della morte è rappresentata nelle fotografie, mai<br />

pubblicate, di donne crocifisse.<br />

Drtikol cura con attenzione lo sfondo dei suoi set fotografici,<br />

specialmente l’illuminazione, e sceglie semplici forme come cerchi, onde,<br />

colonne, eliminando tutti gli elementi di possibile disturbo, per<br />

concentrarsi sulla bellezza della linea pura.<br />

In mostra anche alcune immagini della serie “Vlna” (onda), uno dei suoi<br />

11


lavori più celebri e significativi: le forme geometriche sono da sfondo o il<br />

corpo femminile gioca con esse, è la correlazione fra le linee organiche<br />

ed inorganiche, l’armonia tra un corpo vivo e la materia inerte. Come<br />

sottolinea lo stesso Drtikol in un commento del dicembre 1914: “La vita<br />

è come un’onda. Le creste delle onde rappresentano la gioia e la felicità,<br />

le acque che formano l’onda sfortuna e tristezza… Credo che le persone<br />

aspirino a raggiungere quella pura tranquillità che artisti e scienziati<br />

hanno sempre sognato.. Ogni cosa nel mondo è ripartita.”<br />

Nella prima metà degli anni Trenta Drtikol, non trovando figure reali in<br />

grado di corrispondere alla sua immaginazione, crea egli stesso le sue<br />

figure femminili, ritagliando cartone o legno, secondo il suo ideale di<br />

forma femminile: un corpo sottile e molto slanciato fra seno e fianchi,<br />

idealizzato ed astratto.<br />

In una lettera Drtikol commenta così il suo lavoro: “In passato, quando<br />

avevo un’idea e provavo a realizzarla con una modella in carne e ossa,<br />

ho sempre fallito. Ora disegno o modello la posa che ho in mente e<br />

costruisco da solo gli oggetti, le forme geometriche e quant’altro mi sia<br />

necessario. Sistemo gli oggetti e provo le luci affinché rendano l’effetto<br />

migliore così da corrispondere il più possibile alla mia idea. Certamente<br />

non uso solamente silhouettes, ma anche piccole figure tridimensionali<br />

studiate con precisione fino all’ultimo dettaglio perché corrispondano alla<br />

realtà – e non siano perfette: ho idealizzato il corpo e creato il mio<br />

archetipo personale. E solo ora posso dire di essere soddisfatto del mio<br />

lavoro perché ogni cosa proviene da me, dalla A alla Z. L’idea e il<br />

materiale che utilizzo.”<br />

In quegli anni, Drtikol è impegnato in una continua e profonda ricerca<br />

spirituale che lo allontanerà dalla fotografia per avvicinarsi alla pittura,<br />

alla meditazione yoga e alle religioni indiane, tibetane, cinesi. Dal 1935,<br />

si dedicherà esclusivamente alla pittura.<br />

BIOGRAFIA<br />

1883 František Drtikol nasce a Praga;<br />

1901-1903 Studia fotografia a Monaco;<br />

1910-1911 Apre il suo studio fotografico a Praga che diventa presto il centro<br />

culturale della città:<br />

1914-1918 partecipa alla Prima Guerra mondiale arruolandosi con l’esercito<br />

austro-ungarico;<br />

1920 Sposa la sua modella preferita, la danzatrice Ervina Kupferova, che posa<br />

per lui come Cleopatra, Salomé e persino Madonna con Bambino;<br />

1923 inizia il periodo più creativo della sua carriera;<br />

1925 partecipa alla Exposition internationale des arts décoratifs et industriels<br />

modernes di Parigi e vince il Grand Prix;<br />

1926 divorzia da Ervina Kupferova<br />

1927-1929 i suoi lavori vengono esposti in diverse città del Stati Uniti;<br />

1929 pubblicazione della sua prima monografia a Parigi Les nus de Drtikol;<br />

1930 realizza la serie “Silhouettes”;<br />

1931 Espone al Brooklyn Institute of Arts and Sciences a New York;<br />

1935 chiude lo studio e si trasferisce fuori Praga dove si dedica alla pittura, alla<br />

meditazione e alla traduzione di testi letterari buddisti e tibetani;<br />

1938 pubblicazione del libro Žena ve svělte (Woman in Light);<br />

1942 sposa la sua assistente Jarmila Rambouskova;<br />

12


1948 Dona tutte le sue fotografie al museo delle arti figurative di Praga. Il<br />

nuovo regime proibisce la pubblicazione delle sue opere;<br />

1955 dopo un lungo periodo di censura, la rivista Czechoslovak Photography gli<br />

dedica un articolo “A conversation at Frantisek Drtikol’s”;<br />

1961 Muore a Praga dimenticato dai più.<br />

MOSTRE<br />

1925 Exposition des Arts Décoratifs, Parigi<br />

1927 The Camera Club of Syracuse, YMCA, Syracuse, New York<br />

The Schenectady Camera Club, Schenectady, New York<br />

The Lansing Camera Club, Lansing, Michigan<br />

The Milwaukee Camera Club, Milwaukee Art Institute, Milwaukee<br />

The Photo Club of Baltimore City, Baltimore<br />

The Photographic Society of Philadelphia, Philadelphia<br />

100 Jahre Lichtbild, Gewerbe-Museum, Basilea<br />

1928 The Chicago Camera Club, Chicago<br />

The Cleveland Photographic Society, Cleveland<br />

The Portage Camera Club, Akron, Ohio<br />

1929 The Museum of Fine Arts, Houston<br />

Salon Polskiego Towarzysztwa Milośników Fotografii, Varsavia<br />

1930 The Kodak Camera Club, Rochester, New York<br />

The Camera Club, London<br />

1931 The Brooklyn Institute of Arts and Sciences, New York<br />

1933 The Royal Photographic Society, Londra<br />

Cambridge University Camera Club, Cambridge<br />

Výstavní místnost Klubu přátel umění, Olomouc<br />

1936 City Art Gallery, Durban<br />

Arts Hall, Port Elisabeth<br />

1967 U Hybernů, Interkamera, Praga<br />

Dům kultury, Kroměříž<br />

1972 Uměleckoprůmyslové Museum, Praga<br />

1973 Dům umění města Brna, Berna<br />

Sicof 73 – Salone internazionale cine foto ottica e audiovisivi, Milano<br />

1974 The Photographers’ Gallery, Londra<br />

Komorná galéria forografie Profil, Bratislava<br />

1976 Galerie Houyoux, bibliothéque Royale, Bruxelles<br />

1983 Galerie Rudolf Kicken, Colonia<br />

1984 Nieuwe Kerk, Amsterdam Foto 84, Amsterdam<br />

1988 Robert Koch Gallery, San Francisco<br />

1989 Muzeum české literatury, Praga<br />

1990 Société Française de Photographie, Parigi<br />

Rencontres Internationales de la Photographie, Arles<br />

1991 Howard Greenberg Gallery, New York<br />

1992 Musée de la Photographie, Charleroi<br />

1994 Galleria Carla Sozzani, Milano<br />

1999 Fondation Neumannm, Gingins<br />

2003 Moscow House of Photography, Mosca<br />

2004 Uměleckoprůmyslové museum, Praga<br />

2005 Hungarian House of Photography, Budapest<br />

2007 Foto: Modernity in Central Europe 1918 – 1945<br />

National Gallery of Art, Washington D.C.<br />

Solomon R. Guggenheim Museum, New York<br />

Milwaukee Art Museum, Milwaukee<br />

Czech Vision, Galerie Kicken Bekin, Berlino<br />

Czech Vision, Howard Greenberg Gallery, New York<br />

<strong>2012</strong> GATE Gallery and Information Center, Praga<br />

13


HANNA LIDEN<br />

comunicato stampa da http://undo.net/<br />

Ghost Stories. L'educazione atea scandinava e l'amore per<br />

i film dell'orrore spiegano l'estetica della fotografa, che<br />

unisce nella stessa immagine naturalismo pagano,<br />

abbandono apocalittico e umorismo.<br />

Hanna Liden la fotografa di origine svedese basata a New York, fa<br />

fotografie che sono difficili da descrivere. La linafferrabilità e<br />

sfuggevolezza delle immagini di Hanna fanno parte del fascino che hanno<br />

fatto perdere la testa ai curatori della Biennale del Whitney Museum nel<br />

2006 e ai galleristi di Rivington Arms. Liden ha una capacità incredibile di<br />

sposare un naturalismo pagano con un abbandono apocalittico nello stile<br />

de ‘Il Signore delle Mosche’ ma non senza umorismo.<br />

La sua educazione atea scandinava e l’amore per I film dell’orrore spiega<br />

la sua acuta estetica. “ I miei genitori sono scienziati e sono cresciuta<br />

senza religione – quasi contro la religione – in una società socialista, “<br />

dice. “ Quindi sono sempre stata attratta o ho sempre provato invidia per<br />

le persone che credono nel paradiso o in un’altra vita dopo la morte e<br />

cose del genere. Ero ossessionata dalla morte ma ora un pò meno.”<br />

Se le sue immagini – con maschere, paesaggi surreali e simbolismo auto<br />

inventato – raccontano una storia è perchè Liden assembla le foto come<br />

un regista, complete di attori e materiale di scena. “ Sono influenzata dal<br />

14


cinema più che dall’arte contemporanea.<br />

Adoro Ingmar Bergman. Sono cresciuta con I suoi film. A mia nonna<br />

piaceva tantissimo ma I miei genitori pensavano fosse troppo<br />

conservatore. Mi piacciono molto anche David Lynch e David<br />

Cronenberg.” La fotografa svedese sta al momento lavorando ad un libro<br />

di fotografie che non sono state utilizzate in varie mostre e prevede di<br />

fare un film prima o poi. “ Leggevo molti libri di fantascienza quando ero<br />

giovane. Le mie foto sono influenzate dalla distopia che segue una<br />

catastrofe, ma sono anche molto idealistiche”, dice la nostra eroina<br />

bergmaniana.<br />

Mostre selezionate includono: ‘Ghost Stories’, Workshop, Venezia, <strong>2012</strong>,<br />

‘Ghost Town’, Maccarone, New York, <strong>2012</strong>, ‘Cats & Dogs’ (con Nate<br />

Lowman), Carlson, London, <strong>2012</strong>, 'Out of My Mind Back in 5 Minutes’,<br />

Maccarone, New York, 2011, 'Lobster Roll’, The Fireplace Project, East<br />

Hampton, NY, 2011, 'New York Minute’, Garage Center for Contemporary<br />

Culture, GCCC, Moscow, 2011,’Post 9/11’, OHWOW, Los Angeles, 2011,<br />

'What¹s He Building in There?’, Fuse Gallery, New York, 2011, 'Fall Ten’,<br />

Galerie Gmurzynska, Zurich, 2010, 'Come As You Are Again’ Hanna Liden<br />

and Nate Lowman, Salon 94, New York, 'As Black As Your Hat’, Half<br />

Gallery, New York, 'New York Minute’, MACRO, Roma, 2009, 'In a Silent<br />

Conversation with Ingmar Bergman’, Kunstmuseum Thun, Switzerland,<br />

'Underdog’, Gagosian, New York, 2009, 'Day for Night’, Whitney Biennial,<br />

Whitney Museum of American Art, New York, 2008, 'Hairfaces,<br />

Scapegoats, Bloodsuckers and a Few Deaths’, Rivington Arms, New York,<br />

2006, 'Beyond the End’, Peter Kilchman Gallery, Zurich.<br />

Workshop Arte ContemporaneaDorsoduro 2793 A - Venezia; Mar-sab 10.00-13.00 e<br />

15.00-19.00 - Ingresso libero<br />

Il diritto di aggiungere fumo<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

Dalla guerra, sosteneva il rimpianto Ando Gilardi, non si può ricavare<br />

alcuna immagine contro la guerra. Per questo motivo, spiegava in un<br />

vecchio saggio sulle foto della prima guerra mondiale, la censura militare<br />

sulle fotografie è un “tabù impossibile”, sempre agitato ma in realtà<br />

superfluo, perché la guerra non si vergogna mai del proprio volto,<br />

sapendo bene che ha mille modi per nascondere il diabolico dietro il<br />

15


etorico, la ferocia dietro l’eroismo, la crudeltà dietro la necessità.<br />

Credo volesse dire (ma forse qui sono io che sto disperatamente<br />

cercando di conciliare quella sua cruda affermazione, di cui colgo il<br />

nocciolo di verità, con il mio ottimismo umanista) che non esiste la<br />

fotografia pacifista, ma esistono semmai i pacifisti che, guardando le<br />

fotografie, si ricordano di esserlo. Che di per sé nessuna fotografia si<br />

schiera contro la guerra, se contro la guerra non si sono schierate prima<br />

le coscienze: alle quali, a quel punto, indica solo dove guardare.<br />

Credo che una dimostrazione di quanto sopra sia la polemica appena<br />

sollevata dal blog Duckrabbit contro una campagna pubblicitaria di<br />

sistemi d’arma basata su una fotografia “di guerra” di Ron Haviv. La<br />

polemica ha il vago sapore, non piacevole, di un dispetto fra concorrenti,<br />

essendo Duckrabbit anche e soprattutto una società di produzione di<br />

contenuti digitali formata da comunicatori, videomaker e fotografi.<br />

Mentre Ron Haviv è, come molti di voi sapranno, membro della notissima<br />

agenzia VII, che conta fra i suoi fondatori James Nachtwey, e si propone<br />

come una cooperativa di fotografi con coscienza e con un orientamento<br />

prevalentemente umanista, solidale con le vittime delle guerre.<br />

Bene, l’oggetto della disputa è principalmente l’immagine che<br />

riproduco qui sopra. Una pagina pubblictaria della Lockheed Martin, che<br />

risulta essere una delle più grandi imprese nel settore della costruzione<br />

di armi, uno dei principali fornitori del Pentagono. Il poster è visibile sul<br />

sito dello stesso Haviv (nei portfolio commerciali e pubblicitari), che è<br />

l’autore della fotografia utilizzata, un’immagine altamente simbolica di<br />

solchi di tank nel deserto.<br />

L’head del messaggio recita, liberamente tradotto, “I bersagli mobili<br />

ora hanno filo da torcere”. Il testo spiega come funzionano le “bombe di<br />

piccolo calibro” che inseguono il loro bersaglio sfruttando i sistemi di<br />

geolocalizzazione Gps. Il payoff recita: “Noi non dimentichiamo mai per<br />

chi stiamo lavorando”.<br />

Ecco, il polemico blog si chiede appunto se Haviv sa bene per chi la sua<br />

fotografia sta lavorando. E se sia compatibile con l’etica del fotografo di<br />

guerra offrire materiale per reclamizzare la guerra.<br />

Haviv, occorre dire, ha risposto con una certa apparente tranquillità.<br />

Spiegando sul suo sito che “ho tracciato un confine netto tra<br />

fotogiornalismo e lavoro commerciale, e sul mio sito le due cose sono<br />

presentate ciascuna per quello che è”. Quanto alle sue convinzioni sulla<br />

guerra “io sostengo l’intervento umanitario, la distensione e la difesa,<br />

perché ho visto cosa succede quando queste cose non ci sono”, in ogni<br />

caso Haviv si dice molto sicuro sui confini delle sue opinioni etiche, anche<br />

se ammette che altri possano pensarla diversamente.<br />

In realtà, quali siano le opinioni di Haviv sulla guerra, i suoi limiti e la<br />

sua eventuale necessità, qui mi interessa poco. Non sono tra quelli che<br />

pensano che i fotografi di guerra siano per qualche ragione tutti pacifisti<br />

integrali: sono uomini, e gli uomini hanno idee diverse. Devo dire che<br />

16


della sua autodifesa mi colpisce invece un altro passaggio che ha a che<br />

fare con la più circoscritta deontologia del fotografo: “La foto in<br />

questione è stata venduta come immagine di stock dal mio agente alla<br />

Lockheed Martin, che ha esercitato il suo diritto di aggiungere il testo e il<br />

fumo”.<br />

Una cosa per volta. Aggiungere il testo? Ovvio, è il committente che<br />

decide il messaggio. Ma un testo aggiunto a un’immagine non si limita ad<br />

affiancarla: ne orienta, ne impone una lettura. Soprattutto quando,<br />

ridotta a “immagine di stock”, cioè bruscamente privata del suo “lì e<br />

allora”, diventa un simnbolo retorico plasmabile a piacere. Quella foto<br />

pare sia stata venduta altre volte per utilizzi commerciali, per esempio<br />

l’ho trovata sulla copertina di un cd degli Asian Dub Foundation, gruppo<br />

di rapper britannici molto impegnati nel sociale e molto “antagonisti”. Lì,<br />

quella foto trasmetteva un messaggio diverso: un veicolo perso nel vuoto<br />

di un deserto dei tartari, leggi: inutilità, assurdità, assenza di ragione.<br />

Nelle meni della multinazionale delle armi, ovviamente, diventa tutt’altra<br />

cosa: l’implacabile precisione della guerra tecnologica che ti scova e ti<br />

distrugge anche se scappi in mezzo al nulla.<br />

Ma: aggiungere il fumo? “...which exercised its right to add smoke“.<br />

Oh certo, a una foto pubblicitaria non si richiede di rispettare il patto di<br />

veridicità che incombe sul fotoreporter (anche se furono parecchi ad<br />

“aggiungere il fumo” nelle fotografie giornalistiche: da Evgenij Chaldej<br />

alla Reuters). Perdonatemi, ma mi stupisco lo stesso che un fotografo<br />

possa permettere che si “aggiunga fumo” a una sua immagine, sapendo<br />

che così diventa una pittura, un disegno, ma conservando il potere<br />

persuasivo che le dà il suo aspetto formale di fotografia. E qui<br />

ovviamente quel fumo aggiunto non è un dettaglio: serve proprio a dire,<br />

a dimostrare che l’obiettivo (così lontano, così invisibile) è stato<br />

inesorabilmente centrato e disintegrato dalle perfette “bombe di piccolo<br />

calibro” del fabbricante.<br />

Il fumo vero fa bruciare e lacrimare gli occhi, e li fa chiudere. Il fumo<br />

finto anche. In questo poster, infatti, la fotografia piange.<br />

[Le fotografie, qui inserite in formato degradato per scopi di<br />

informazione e discussione critica, vengono riprodotte, nel rispetto del<br />

diritto d'autore, ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101<br />

comma 1 Legge 633/1941.]<br />

17


Fotografia e street art: " You are not Bansky"<br />

Miriam Leto da http://www.artsblog.it<br />

Il famoso street artist Bansky ha ispirato molti creativi di strada e graffitari delle<br />

nuove generazioni, ma non solo. Nick Stern è un fotografo britannico che ha<br />

letteralmente dato vita alle celebri opere dell’artista di Bristol, con la serie di<br />

scatti “You are not Bansky”.<br />

Stern ha ricostruito nei dettagli studiati per mesi al lanternino i lavori di Bansky<br />

interpretandoli a suo modo e immortalandoli con l’occhio fotografico. Pose e<br />

modelli reali, veri e propri tableau vivant, che riproducono i conosciutissimi<br />

graffiti del writer dell’old school inglese, uno dei più affermati in Europa.<br />

E così sembra proprio che i motivi iconici del mago dei muri si stacchino dalle<br />

pareti delle nostre città europee più cosmopolite, in uno slancio di true life, per<br />

essere poi imprigionati nell’attimo eterno della macchina fotografica.<br />

Tutto l’artwork di Bansky è ad alto valore simbolico, pieno zeppo di riferimenti<br />

astuti, satira politico-sociale, mi chiedo se queste masterpieces, simbolo dei<br />

nostri anni, non perdano peso così decontestualizzate dal loro status di arte<br />

ambientale e metropolitana. Quando i giornalisti gli girano questa domanda Nick<br />

Stern risponde semplicemente:<br />

Sono sempre stato incuriosito dal lavoro di Bansky e ho pensato fosse<br />

affascinante riprodurre le sue opere più famose con la macchina fotografica.<br />

18


Bert Stern<br />

FORTE DI BARD, BARD (AO)<br />

Marilyn, the last sitting. Gli scatti dell'ultimo servizio fotografico<br />

dell'attrice prima della tragica scomparsa nel 1962. In 60<br />

immagini Stern ci restituisce la bellezza di Marilyn Monroe,<br />

trasfigurando le sue forme in opera d'arte.<br />

comunicato stampa da http://undo.net<br />

Dolce, selvaggia, vulnerabile, seducente. Così viene comunemente descritta dai<br />

biografi Marilyn Monroe, attrice diventata un’intramontabile icona di stile. La sua<br />

scomparsa improvvisa l’ha resa immortale consegnando ai posteri l’immagine di<br />

una donna splendida, segnata da una vita sofferta e contradditoria. Il Forte di<br />

Bard, principale polo culturale della Valle d’Aosta, dedica al mito di Marilyn, in<br />

concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, la mostra<br />

19


“Marilyn, the last sitting. Bert Stern” che porta in Italia gli scatti realizzati da<br />

Bert Stern in occasione di quello che è stato l’ultimo servizio fotografico<br />

dall’attrice prima della tragica scomparsa avvenuta nella notte tra il 4 e il 5<br />

agosto del 1962.<br />

Curata da Olivier Lorquin (Presidente e Direttore Generale del Museo Maillol di<br />

Parigi), Isabelle Maeght (Amministratore della Fondazione Marguerite et Aimé<br />

Maeght di Saint Paul de Vence) e Gabriele Accornero (Consigliere Delegato del<br />

Forte di Bard) con la collaborazione della Galleria Staley Wise di New York,<br />

l’esposizione presenta al pubblico, dal 10 giugno al 4 novembre <strong>2012</strong>, sessanta<br />

fotografie che rappresentano il particolare modo con cui Bert Stern ha guardato<br />

e restituito la bellezza di Marilyn Monroe, trasfigurando le sue forme in opera<br />

d’arte.<br />

La mostra include alcuni dei più espliciti scatti mai realizzati della diva. Il<br />

risultato è la trasformazione della Monroe da icona della pin up girl a Venere del<br />

XX secolo. In uno dei testi in catalogo Bertrand Lorquin, curatore del Museo<br />

Maillol, evoca i nudi di Botticelli, Rubens, Velazquez, Goya, Ingres e Manet per<br />

attribuire alle plastiche curve della Monroe un posto nella storia dell’arte.<br />

Nel 1962 Bert Stern è un fotografo conosciuto per le sue doti di ritrattista: è un<br />

cacciatore di icone e riesce a immortalare diverse star del grande schermo.<br />

Sull’aereo di ritorno da Roma, dove ha fotografato Liz Taylor sul set di<br />

“Cleopatra”, accarezza un sogno, quello di fotografare Marilyn Monroe. Non<br />

appena arriva a New York propone a Vogue l’idea di realizzare un reportage di<br />

foto sull’attrice che lo stesso Stern definirà “la prima dea dell’amore americana”.<br />

La redazione della rivista accetta la proposta con entusiasmo. Gli avvenimenti si<br />

susseguono velocemente, Marilyn accetta di posare per lui e il sogno di Stern si<br />

realizza. Il fotografo sceglie come set una suite dell’hôtel Bel-Air a Los Angeles.<br />

La luce è minima e Bert aspetta Marilyn con inquietudine dal momento che<br />

l’attrice è conosciuta per i suoi strani comportamenti e capricci. Dopo cinque ore<br />

di ritardo Marilyn si palesa all’albergo e tutto ha inizio. Marilyn accetta di posare<br />

nuda e senza trucco. Un rapporto forte e quasi amoroso si instaura tra il<br />

fotografo e la sua modella. Lavorano per dodici ore consecutive senza fermarsi.<br />

Il risultato è eccezionale, ma le immagini sono troppo osées per Vogue che<br />

propone a Stern di fotografarla nuovamente, questa volta, truccata e vestita.<br />

Marilyn accetta di posare ancora una volta per Bert Stern. Poi la morte<br />

improvvisa, un giorno prima dell’uscita delle foto su Vogue.<br />

Il servizio fotografico completo si compone di 2571 foto, scattate nel corso di tre<br />

intense giornate di lavoro. Bert Stern sceglie di pubblicarne uno stretto numero,<br />

e una selezione di immagini sempre diversa diviene oggetto di numerose mostre<br />

in tutto il mondo.<br />

In questi scatti Marilyn ha catturato definitivamente l’immaginario, non come sex<br />

symbol, ma come opera d’arte: meravigliosa, tragica, per sempre 36enne.<br />

Il set<br />

Le foto, che includono alcune delle più esplicite immagini dell’attrice, la mostrano<br />

principalmente in tre situazioni: nuda su un letto, mentre scopre le spalle, la<br />

schiena e le gambe; mentre tiene in mano una sciarpa di chiffon trasparente<br />

davanti al suo petto nudo; mentre si copre il seno con dei fiori di carta. In altre<br />

20


immagini indossa abiti neri da sera o gioca maliziosamente con delle collane.<br />

Se alcune di queste pose avrebbero potuto un tempo essere considerate<br />

eccessive (e lo furono tant’è che non vennero pubblicate se non vent’anni dopo<br />

la sua morte) oggi paiono familiari. Piuttosto che essere ipnotizzati dalla<br />

sensualità viva della Monroe, i visitatori sono invitati a osservare le immagini per<br />

quanto rivelano di lei.<br />

“Stava attraversando un brutto periodo per la salute, carriera e uomini” spiega<br />

Bert Stern ricordando che Marilyn era appena stata cacciata dal set del film di<br />

George Cukor “Something Got to Give”. Stern stava lavorando su incarico di<br />

Vogue, ma come cita nel catalogo, aveva sempre sperato di fotografare Marlyn<br />

nuda e così portò con sé solo alcune sciarpe di chiffon e pochi gioielli come<br />

accessori. L’assistente dell’attrice gli disse di ordinare tre bottiglie di Champagne<br />

Dom Perignon. Stern ricorda che era il 22 giugno e, dice lui, nel giro di 15<br />

minuti, lei accettò di posare in topless con le sciarpe. “Abbiamo lavorato dalle<br />

16.30 alle 3 del mattino - ricorda Stern -. Ma poi Vogue decise che la prima<br />

sessione era troppo sexy e volevano tornassi 2 o 3 settimane dopo per fare foto<br />

di moda. Dopo poco, lei disse: “Sono stufa di fare moda. Possiamo tornare a fare<br />

ciò che facemmo il primo giorno?”. “Avvenne quando facemmo le immagini di lei<br />

sul letto. Allora era quasi ubriaca”.<br />

Vogue pubblicò otto pagine della seduta di moda il giorno successivo la morte<br />

della Monroe; 12 pagine delle immagini di nudo furono pubblicate solo nel 1982.<br />

Mentre le immagini di moda sono inevitabilmente formali, i contact sheet degli<br />

scatti di Marilyn mentre gioca con le sciarpe di chiffon la mostrano improvvisare<br />

senza sosta le sue pose e espressioni. Due immagini di questa serie hanno anche<br />

spesse croci di inchiostro ad indicare che lei le aveva scartate. Le immagini a<br />

colori sul letto, sono sia più sensuali sia meno rivelatrici: consuma la macchina<br />

fotografica con i suoi occhi. E’ in alcuni piani ravvicinati che Marilyn mostra la<br />

sua improvvisa vulnerabilità: spesso eyeliner nero e pesante rossetto rosso<br />

evidenziano insicurezza; l’accenno di rughe a lato degli occhi sottolinea il<br />

trascorrere del tempo. Ancora più d’effetto una cicatrice sullo stomaco, traccia di<br />

un intervento alla cistifellea di poche settimane prima.<br />

I visitatori per la prima volta scopriranno Marilyn non come un nome,<br />

un’immagine, ma una persona che probabilmente sentiva che questa sarebbe<br />

stata la sua ultima occasione per sedurre l'obiettivo, che queste foto erano, a<br />

modo loro, la sua fine. In queste immagini Marilyn è la bellezza trionfante ogni<br />

momento minacciata da una tragica fragilità; l’incarnazione di tutte le eroine che<br />

l'arte ha cercato di divorare attraverso la pittura, la scultura e la fotografia.<br />

Profili<br />

Marilyn Monroe (il vero nome è Norma Jean Baker) nasce il 1° giugno 1926 e Los<br />

Angeles. Per la sua carriera folgorante, le sue doti di attrice e cantante, l’indole<br />

fragile e tormenta è considerata una delle grandi dive del cinema americano di<br />

tutti i tempi e icona di stile. E’ conosciuta principalmente per le sue<br />

interpretazioni in A qualcuno piace caldo - per cui vinse il Golden Globe come<br />

Migliore Attrice in un film o commedia musicale -, Il principe e la ballerina (per<br />

cui verrà premiata con il David di Donatello da Anna Magnani) Gli uomini<br />

preferiscono le bionde, Fermata d’autobus, Quando la moglie è in vacanza e Gli<br />

spostati. Il suo mito è dovuto, oltre che al suo fascino indiscutibile, al suo talento<br />

artistico: Marilyn non era solo il ‘sogno proibito d’America’, ma anche una<br />

21


avissima attrice. Il fascino che emanava dal grande schermo o dalle copertine<br />

ha contribuito a farne un sex symbol fuori da ogni tempo; la sua esistenza, per<br />

molti aspetti tormentata e sofferta, e culminata in una morte prematuramente<br />

tragica quanto misteriosa, l’ha resa una vera e propria icona della cultura pop di<br />

tutti i tempi.<br />

Bert Stern nasce a Brooklyn il 3 ottobre 1929. Inizia giovanissimo a lavorare<br />

come fotografo pubblicitario, ma è la rivista ‘Vogue’ che lo lancia nel mondo della<br />

moda e dei divi di Hollywood. Nel 1962, infatti, riceve da ‘Vogue’ l’incarico di<br />

fotografare Marilyn Monroe. Quegli scatti, realizzati in una suite dell’hôtel Bel-Air<br />

di Los Angeles, nell’arco di tre giorni, di cui la rivista acquisterà solo 8 fotografie,<br />

segneranno la futura carriera di Bert Stern. Marilyn Monroe morirà infatti poche<br />

settimane dopo quel servizio fotografico. Il libro completo “Marilyn Monroe. The<br />

Complete Last Sitting”, pubblicato in seguito dallo stesso Stern, contiene quelli<br />

che sono considerati gli ultimi scatti dell’attrice in vita.<br />

Mostra: via Vittorio Emanuele II - Bard (AO) - Orari: martedì/venerdì dalle ore 11.00 alle 18.00<br />

sabato/domenica e festivi dalle ore 10.00 alle 19.00 - chiuso il lunedì - tariffe: intero 5 euro -<br />

ridotto 3 euro - gruppi/scuole: 3 euro<br />

Info: Associazione Forte di Bard - Bard. Valle d’Aosta - T. + 39 0125 833811 - F. + 39 0125<br />

833830- info@fortedibard.it-fortedibard.it-facebook.com/fortedibard -Book Frassinelli 39,00 euro<br />

Ufficio Stampa - Associazione Forte di Bard,Amelio Ambrosi T. + 39 0125 833824<br />

ufficiostampa@fortedibard.it . Spaini & Partners T. + 39 050 36042 - spaini.it -<br />

guido.spaini@spaini.it - matilde.meucci@spaini.it<br />

E qui vince chi bara (se ci riesce)<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

Le cuginette Frances Griffiths e Elsie Wright<br />

fotografarono tra il 1917 e il 1920 i loro incontri con le fate a Cottingley, nello Yorkshire inglese<br />

Finalmente qualcuno ci ha pensato. Un concorso fotografico dove vengono<br />

squalificate le fotografie che non sono state manipolate, e vengono invece<br />

premiati i falsi più fetenti. E chi altri mai poteva organizzarlo se non il Cicap, la<br />

beffarda e serissima compagnia di scettici integrali (nel suo board sono passati<br />

Piero Angela, Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Tullio Regge,<br />

Carlo Rubbia, Silvio Garattini…) che da oltre vent’anni smaschera impostori,<br />

visionari e ciarlatani del paranormale.<br />

22


Il concorso si chiama semplicemente Fake!, falsifica!, ed è stato pensato come<br />

evento collaterale del prossimo congresso annuale dell’associazione, in ottobre.<br />

Il regolamento è semplice semplice, si tratta di scattare foto e video (ma anche<br />

di fabbricare “prove” e teorie del complotto) che in modo convincente cerchino di<br />

dimostrare l’indimostrabile. Ectoplasmi, extraterrestri, fenomeni psichici, quel<br />

che vi pare, purché non dimostrabile razionalmente. Lo scopo èq ovviamente<br />

pedagogico: mostrare come la buona fede di un osservatore comune possa<br />

essere facilmente ingannata dal progetto di un falsario dotato di qualche abilità<br />

tecnica.<br />

La storia della fotografia, del resto, offre molti spunti d’ispirazione, lo stesso<br />

Cicap ne ricorda alcuni: dal mostro di Loch Ness allo Yeti, ai filmati di Ufo o di<br />

autopsie di alieni, al teschio dell’uomo di Piltdown o alle false mappe di tesori,<br />

alle celebri fate di Cottingley che ingannarono perfino il romanziere della ragione<br />

infallibile, Arthur Conan Doyle, il papà di Sherlock Holmes; ma alla lista<br />

potrebbero aggiugersi le migliaia e migliaia di fotografie di fantasmi che a metà<br />

dell’Ottocento nutrirono e sostennero di peso l’esistenza di una effimera, ma<br />

allora potente, nuova religione dello spiritismo.<br />

Intelligentemente, il bando di concorso non solo non pone limiti agli<br />

strumenti di manipolazione, ma non impone neppure di servirsene. Anche le foto<br />

“naturali”, non ritoccate, possono essere mendaci: come l’intera opera di Joan<br />

Fontcuberta è lì a dimostrare, basta alterare il contesto di esposizione di una<br />

fotografia per farle dire quel che non poteva dire.<br />

Credo che i fotografi seri dovrebbero tutti quanti partecipare al concorso. Non<br />

per quel che si vince (un abbonamentoo alla rivista del Cicap, una foto con<br />

dedica e una stretta di mano di Piero Angela), ma per fare esperienza. Bisogna<br />

scherzare col fuoco per capire come e quanto brucia. Che le fotografie possano<br />

essere manipolate lo sappiamo tutti, qualunque fotografo lo sa, ma in realtà ben<br />

pochi hanno provato a farlo di persona e fino in fondo, cioè a produrre una<br />

fotografia spudoratamente bugiarda, intenzionatamente ingannatrice non solo<br />

sulla propria fattura ma sulla realtà che pretende di mostrare, e che sia anche<br />

capace di reggere la sua menzogna.<br />

Vi accorgerete che non è così facile. Che se pure tutte quante le fotografie<br />

contengono una dose più o meno grande di alterazione rispetto all’irraggiungibile<br />

ideale di una restituzione perfetta dell’immagine della realtà fisica, creare<br />

fotografie profondamente, integralmente bugiarde, capaci di trarre davvero in<br />

inganno, di dimostrare l’indimostrabile, è un’arte difficile che richiede sforzo,<br />

tecnica, intuito.<br />

Le fotografie, che sono normalmente, mediamente, incompletamente<br />

bugiarde, fanno però resistenza alle bugie diaboliche. Lo sforzo che si dee<br />

impiegare per traviarle dimostra in fondo la loro ingenuità di base, la loro natura<br />

di mentitrici modeste, di peccatrici ordinarie, la loro natura si ribella alla perfidia<br />

del mentitore incallito.<br />

Il concorso del Cicap, che gli organizzatori lo abbiano messo in conto o no,<br />

credo dimostrerà paradossalmente che le fotografie non reggono quasi mai il<br />

peso delle proprie bugie, se sottoposte a chi le sa interrogare correttamente.<br />

Come forse saprete, il Cicap ha messo a disposizione un premio esorbitante, un<br />

23


milione di dollari, offerti dallo smascheratore di impostori James Randi, da<br />

versare a chi effettuerà un esperimento paranormale sotto gli occhi di una giuria<br />

di scienziati ed esperti, qualora quest’ultima non riesca a scoprire il trucco. Pare<br />

che nessuno l’abbia ancora vinto.<br />

E allora sarebbe bello che alla fine non ci fosse nessun vincitore neanche in<br />

questo concorso fotografico, perché la giuria sarà riuscita a smontare le panzane<br />

visuali una dopo l’altra. Non sarebbe un fallimento. Avremmo invece un<br />

eccellente concorso non più di false fotografie, ma di autentiche falsità<br />

fotografiche.<br />

Provateci.<br />

Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali a Vitalità del Negativo<br />

da http://www.triennale.it/it/mostre/<br />

La mostra “Ugo Mulas: Esposizioni” offre un percorso inedito nell’opera del<br />

fotografo milanese.<br />

L’attenzione di Mulas per le consuetudini legate alla fruizione dell’arte permette<br />

di attraversare i musei, le gallerie, le collezioni private d’Europa e d’America, di<br />

osservare il rapporto dei visitatori con le opere negli spazi pubblici e gli interni<br />

delle abitazioni dove gli oggetti d’arte sono legati ancora ad un rito intimo,<br />

condiviso dal collezionista con i suoi ospiti.<br />

Le inaugurazioni delle Biennali, il pubblico dei grandi musei francesi, russi e<br />

tedeschi (1959-60), l’invasione delle opere nelle strade e nelle piazze di Spoleto<br />

per la mostra Sculture nella città (1962) sono esempi di una visione critica che<br />

porta Mulas a leggere le trasformazioni delle esposizioni negli anni Sessanta.<br />

24


Dal 1964 iniziano i viaggi negli Stati Uniti, dove Mulas coglie l’atmosfera delle<br />

gallerie e delle case dei collezionisti americani, accompagna Marcel Duchamp a<br />

rivedere le sue opere nelle sale del MoMA e racconta l’inaugurazione della<br />

personale di Alexander Calder al Guggenheim (1964).<br />

La Biennale del ‘68 segna la fine di una stagione, la crisi delle istituzioni museali,<br />

la critica al collezionismo e alla privatizzazione dell’arte.<br />

Con le mostre Campo Urbano (1969), Amore Mio (1970) e la rassegna per il<br />

decimo anniversario del Nouveau Réalisme a Milano (1970) Mulas segue il<br />

tentativo delle neo avanguardie di coinvolgere gli spettatori in eventi estetici,<br />

condivisi ed effimeri.<br />

Nel 1970 a Roma Vitalità del negativo sarà il grande evento riassuntivo del<br />

decennio, in questo periodo Mulas prende le distanze dalla stagione degli anni<br />

Sessanta per concepire una nuova visione fotografica.<br />

Mostra realizzata da Triennale di Milano in collaborazione con Johan&Levi<br />

A cura di Archivio Ugo Mulas e Giuliano Sergio<br />

Triennale di Milano - 14 <strong>Giugno</strong>. 26 Agosto <strong>2012</strong>. Orari: Martedì - Domenica 10.30 / 20.30,<br />

Giovedì 10.30 / 23.00 Ingresso gratuito.<br />

Fotografia e linguistica<br />

di Daniele D'Amato da http://www.ivisivi.it/<br />

Fotografia e Linguistica: è un matrimonio possibile?<br />

L'immagine è immediata e simultaneamente percepibile, dunque non ha bisogno<br />

di essere narrata o spiegata. Questo perché l'occhio può spaziare a suo<br />

piacimento iniziando a leggere l'immagine da qualsiasi punto e terminarla in<br />

qualsiasi altro.<br />

Un po' come succede quando si usa il mouse in un software: il programmatore,<br />

per quanto bravo, non può mai sapere dove l'utente andrà a far clic per primo.<br />

Può indugiare in alcune zone piuttosto che in altre, può nel contempo osservarne<br />

25


i bordi o il centro, senza una logica apparente, secondo cioè i personali gusti<br />

dell'osservatore.<br />

Ma siamo sicuri che i gusti dell'osservatore siano scevri di qualsiasi forma di<br />

condizionamento?<br />

Si può dunque ipotizzare che è possibile che l'autore possa aver guidato in<br />

qualche modo l'osservatore a guardare alcuni oggetti rappresentati<br />

nell'immagine per mezzo di una sapiente e studiata composizione, o mediante<br />

una accurata esposizione, o ancora attendendo uno specifico istante? Perché<br />

diversamente si può ritenere legittimo il pensiero che l'autore dello scatto non<br />

abbia la benché minima influenza rispetto alla sua stessa fotografia. Sappiamo<br />

invece non essere così.<br />

Ferdinando Scianna, in un intervento tenuto durante la rassegna Fotoarte di<br />

Taranto lo scorso 2 giugno, ha detto che alla fine Wittgenstein aveva ragione: la<br />

parola viene prima dell'immagine. Non possiamo arrivare a pensare se non ciò<br />

che possiamo narrare. L'autore possiede quindi, in modo più o meno esplicito e<br />

consapevole, gli strumenti per vedere una fotografia prima ancora di realizzarla.<br />

Altrimenti fare clic in un momento o in una condizione specifica non avrebbe<br />

alcuna importanza. Il fotografo invece studia la sua scena, coglie l'attimo giusto,<br />

attende il momento opportuno, a volte cambia prospettiva o addirittura<br />

contamina la scena al fine di giustificare il suo scatto, ma in ogni caso rende una<br />

qualsiasi immagine quella immagine.<br />

Aver scattato quella foto esclude automaticamente tutte le altre a sua<br />

disposizione. E non è forse questa una guida alla lettura che l'autore fornisce, a<br />

volte anche suo malgrado? Non è comunque un tentativo di leggere o far leggere<br />

l'immagine in un modo piuttosto che in un altro?<br />

Certo si può obiettare che la linguistica possiede regole ben precise e che non si<br />

può scrivere come si vuole perché il rischio è di non essere compresi, e a volte,<br />

nonostante si siano seguite le regole grammaticali e l'intenzione dell'autore sia<br />

una, il significato percepito dal lettore sia totalmente differente.<br />

Le regole della linguistica non sono già sufficienti a evitare incomprensioni,<br />

figuriamoci le regole della fotografia.<br />

Ma la gabbia linguistica in cui la fotografia è costretta a vivere è la sua stessa<br />

fortuna e bellezza: perché mentre con la linguistica tendiamo a condizionare il<br />

comportamento altrui, con la fotografia possiamo semplicemente far godere i<br />

nostri sensi osservandola.<br />

Come ci giudicherebbero gli altri se ci sentissero parlare da soli? Ma forse<br />

avevano ragione gli antichi: Chi parla da solo campa cent'anni.<br />

Così è se vi Parr<br />

26


di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

© Martin Parr/Magnum Photos/Contrasto<br />

Quando Martin Parr fu ammesso nell’olimpo fotografico di Magnum, pare che<br />

Henri Cartier-Bresson non fosse entusiasta. Certo è evidente il perché: ci passa<br />

un abisso fra il modo di fotografare del patriarca francese, umanista, liricogeometrico,<br />

a volte umorista ma mai irridente, e il sarcasmo feroce dell’inglese,<br />

quasi misantropo nel suo disgusto beffardo verso la massa cheesburgivora del<br />

turismo package e dei consumi obesi.<br />

Ma Parr è un uomo più signorile di quel che le sue fotografie chiassosamente<br />

graffianti sembrerebbero suggerire. Mi raccontano che si limitò a mandare a HCB<br />

una copia di un suo libro con questa laconica dedica: “Don’t shoot the<br />

messenger“, che in italiano suona più o meno: ambasciator non porta pena.<br />

Come dire: caro Henri, questa è la realtà, non è colpa mia, non l’ho creata io, io<br />

la faccio solo vedere.<br />

Mentre sfoglio Up and Down Peachtree, questo suo reportage su Atlanta e il<br />

sud degli Usa (Peachtree è la main street di Atlanta, e il libro è una caustica<br />

passeggiata lungo i suoi marciapiedi), un libro di 110 foto senza una sola parola<br />

scritta a parte il colophon, ripenso a quelle parole e al loro significato. Parr<br />

voleva forse dire che il ruolo del fotografo, o per lo meno quello che lui<br />

interpreta, è di recapitare messaggi, notizie sul mondo, il cui contenuto non<br />

dipende dalla sua volontà. Vedo bene se lo interpreto così?<br />

In fondo, è quel che per gran parte della sua storia la fotografia in generale ha<br />

pensato di fare, e molti hanno ritenuto che facesse: trasmettere ad osservatori<br />

lontani “messaggi dalla realtà”, prelevati e recapitati con cura, buona calligrafia e<br />

anche un bel bollo di ceralacca per garanzia di autenticità.<br />

27


Still frame dal dvd "Hot Spots: Martin Parr<br />

in the American South" di Neal Broffman<br />

Ora, non mette conto sprecare molte parole per dire, come credo tutti<br />

sappiamo, che nessun reportage fotografico può più pretendere di affermare “la<br />

realtà è così, io ve la faccio solo vedere”. La seconda parte dell’affermazione già<br />

contraddice la prima: perché significa per forza che io ve la faccio vedere come<br />

l’ho vista e come l’ho prodotta in immagine.<br />

Alla trasparenza dell’emulsione, o del pixel, non crede più nessuno. E questo<br />

libro, ma anche il documentario Hot Spots: Martin Parr in the American South di<br />

Neal Broffman che lo accompagna e ne racconta il dietro-le-quinte, non può che<br />

confermarlo. Le inchieste di Parr sulla società dei consumi di massa, del kitsch<br />

omologato e volgare, sono, come tutti i reportage, operazioni retoriche (in<br />

senso tecnico, cioè senza l’accezione negativa del termine). Derivano da un<br />

progetto di raccolta (la inventio), ovvero la ricerca mirata dello sbracato<br />

involontario e inconsapevole; si articolano in una sequenza volutamente<br />

ridondante, ripetitiva, ossessiva (la dispositio); e si presentano attraverso un<br />

linguaggio visuale aderente al proprio oggetto (la elocutio) fatto di colori di<br />

plastica e di inquadrature sovraffollate e visivamente estenuanti.<br />

Questo ovviamente non è un messaggio recapitato per conto del reale, è un<br />

messaggio accuratamente elaborato partendo da un reale, selezionato e messo<br />

in forma. Non sto dicendo che Parr inventa dal nulla le sue antipatie: sto dicendo<br />

che le cerca e le intensifica. L’ambasciatore è anche il redattore del messaggio<br />

che porta, per quanto, dentro il pacchetto con la ceralacca, ci siano tante cose<br />

non sue.<br />

È ancora reportage questo? Ma certo che sì. E nella così visibile invadenza del<br />

giudizio dell’autore sta la sua paradossale sincerità e trasparenza. Sappiamo<br />

benissimo, fin dal primo sguardo, che questo è il mondo visto da Parr. E forse<br />

siamo d’accordo con lui, forse anche noi, dopo che ce l’ha mostrato così,<br />

possiamo decidere di vederlo allo stesso modo.<br />

L’unica cosa che non convince è quella dedica auto-esimente. Eh no. Nessuno<br />

dovrebbe mai sparare al messaggero, questo è chiaro, ma in fotografia<br />

l’ambasciatore deve sempre saper portare la sua pena, se vuole condividerla con<br />

gli altri.<br />

FOTOGRAFIA VS PITTURA<br />

28


di Maria Lucia De Siena da http://www.ivisivi.it/<br />

fotografo ciò che non desidero dipingere...” (Man Ray)<br />

”Dipingo ciò che non può essere fotografato e<br />

La fotografia è l'evoluzione contemporanea della pittura, un suo prolungamento<br />

moderno che si basa sugli stessi concetti teorici? Oppure è un'arte del tutto<br />

innovativa? E soprattutto, viene considerata una forma artistica a sé?<br />

Claudio Marra sostiene che tra fotografia e pittura non ci sarebbe nessuna “lotta<br />

per l'immagine”, avendo queste due discipline creative identità differenti, se non<br />

addirittura contrastanti. Nel suo libro “Fotografia e pittura nel Novecento (e<br />

oltre)” edizioni Bruno Mondadori, esamina con profondità e con uno sguardo<br />

innovativo il rapporto tra arte e fotografia dal Novecento ad oggi.<br />

Nel testo emerge una condizione originale e coinvolgente del mezzo fotografico,<br />

dalle avanguardie storiche all'attuale realtà digitale, attraverso un impianto<br />

metodologico che sa essere insolito rispetto alle analisi e ai confronti tradizionali.<br />

Rispetto alla pittura, il mezzo fotografico “pecca” di scarsa manualità e il mondo,<br />

per altro rappresentato su un supporto bidimensionale (come la pittura), risulta<br />

troppo reale. Proprio questi sono i fattori che finiscono col creare confusione in<br />

coloro i quali considerano la fotografia una forma d'arte (questione spesso messa<br />

in discussione) e che contribuiscono a rendere difficili i rapporti con la pittura.<br />

Un esempio eclatante si può rintracciare nell'ambito del futurismo. I futuristi,<br />

ovvero i massimi esponenti di un'arte innovativa dal punto di vista linguistico,<br />

artistico e tecnologico, tenevano la fotografia in poco o nessun conto.<br />

Nel 1916 Marinetti, Boccioni, Ginna, Corra, Chiti e Settimelli sottoscrivono il<br />

Manifesto della cinematografia futurista, nel quale espongono una serie di idee<br />

innovative. Gli stessi futuristi però non redigeranno mai un manifesto sulla<br />

fotografia. Perché? Secondo Claudio Marra la loro avversione nei confronti di<br />

questa' “arte”, al contrario del cinema, può essere spiegata dal fatto che la<br />

29


consideravano un'arte conservatrice, che inseguiva la realtà senza riuscire a<br />

distaccarsi da essa.<br />

Ritroviamo questo concetto in un'esplicita presa di posizione di Boccioni, che<br />

commentando un suo dipinto,nel 1911, così si esprimeva: “la sensazione<br />

dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i<br />

rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento<br />

e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che<br />

vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma<br />

riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone.”<br />

In questo modo quindi stabiliva un punto di raffronto negativo scagliandosi senza<br />

indugio contro la fotografia, che secondo i futuristi priva di movimento, non<br />

poteva innanzitutto essere considerata linguaggio, di conseguenza, non essendo<br />

linguaggio, non poteva neppure vantare alcun diritto di riconoscimento artistico.<br />

Esiste però un'eccezione all'interno del futurismo, ovvero il foto dinamismo di<br />

Anton Giulio Bragaglia.<br />

Ma è proprio la battaglia teorica che si scatena all'interno del gruppo in merito<br />

agli esperimenti di Bragaglia ad avvalorare l'ipotesi di Marra. Ipotesi che si basa<br />

appunto sul concetto che questo contrasto ideologico fa comprendere come<br />

all'epoca fu esercitata una forte pressione nei confronti dei promotori di questo<br />

mezzo (la fotografia), pressione che scaturì proprio da quegli artisti che sulla<br />

modernizzazione tecnologica avevano edificato un'intera teoria.<br />

E quindi accertiamo il fatto concreto che sono soprattutto i pittori a nutrire tanta<br />

diffidenza per le fotodinamiche.<br />

Diamo oggi per scontato, grazie all'azione profondamente innovativa operata sul<br />

linguaggio visivo delle avanguardie artistiche del '900, il concetto che la<br />

fotografia non debba necessariamente essere fedele trascrizione del reale e che,<br />

come tutte le forme di arte visiva, copra un ruolo essenzialmente interpretativo<br />

ed esprima, in un suo modo unico e diverso per ciascuno, una visione del<br />

mondo, quella del fotografo che realizza la foto, con la possibilità di una più o<br />

meno marcata soggettivazione del risultato in proporzione di quanto accade in<br />

pittura.<br />

“Fu attraverso il confronto con la fotografia che l'arte andò via via distaccandosi,<br />

per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio una<br />

morfologia e un lessico senza radici naturalistiche. Ma la divisione di campo non<br />

durò, la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più<br />

mentale che tecnica, potenzialmente creativa come e più dell'arte”. (C.G.Argan,<br />

1989)<br />

Il farmacista-fotografo delle mondine in risaia<br />

Il torinese Michele Ghigo racconta la “sua” Novara in immagini<br />

di Gianfranco Quaglia da "La Stampa" del 2 <strong>Giugno</strong> <strong>2012</strong><br />

30


Michele Ghigo, al vernissage della mostra<br />

Aveva 17 anni quando San Francesco lo «fulminò» sulla via di Assisi. E’ il 1948,<br />

Michele Ghigo (oggi presidente onorario della Federazione italiana associazioni<br />

fotografiche) sta partecipando a un pellegrinaggio internazionale dei roverscouts.<br />

C’è tutto l’entusiasmo ed il fervore del dopoguerra, il senso<br />

dell'appartenenza e la voglia di esserci. Tanti stimoli e attimi che Ghigo vuole<br />

immortalare, facendosi prestare la macchina fotografica da un compagno di<br />

viaggio. Da quel momento il giovane Michele, che non ha ancora una lunga<br />

barba bianca ieratica come quella che gli incornicerà il volto molto più tardi,<br />

scopre il primo amore viscerale: la fotografia.<br />

Il secondo, la moglie, lo incontra qualche anno avanti. Il terzo, quello che si<br />

porta cucito sulla pelle, è la città di Novara,diventata patria di vita per scelta<br />

professionale e dedizione.<br />

Michele Ghigo è un torinese trapiantato in pianura, trasferitosi dalla Mole alla<br />

cupola gaudenziana per motivi professionali: il settore farmaceutico. I novaresi<br />

hanno imparato ad apprezzarlo tra un alambicco, una fiala e una ricetta. Poi, via<br />

via, lo hanno amato per la sua grande capacità di raccontare la città e il territorio<br />

con un «clic».<br />

31


«Ho sempre sostenuto che per fare belle foto non serve andare in capo al<br />

mondo, in Namibia o al Polo Nord, basta guardarsi attorno e cogliere i<br />

particolari».<br />

Quelli di Michele trasmettono emozioni che arrivano al cuore, soffermandosi con<br />

l’obiettivo su un angolo di città, un monaco in preghiera nel chiostro, nel<br />

chiostro, due guanti perduti per strada, una foglia calpestata sull'asfalto, il profilo<br />

di un albero, i ritratti (tra i soggetti preferiti i volti delle donne al lavoro in<br />

campagna). I suoi primi passi il fotografo-fafmacista li compie con una<br />

"Vogtlander 6x9" che il padre gli mette a disposizione.<br />

Poi passa a una " Kine Exakta 24x36": "Macchina fantastica - ricorda - scampata<br />

ai bombardamenti e alle perquisizioni delle truppe tedesche, la prima reflex<br />

ideale per la macrofotografia che a me allora interessava in modo particolare.<br />

Aveva sofferto danni alla tendina di tela gommata, che riuscii a far riparare<br />

dall'importatore del tempo, un certo signor Weiss con sede a Torino. Mi prese in<br />

simpatia (forse perché quella di mio padre era stata l'unica Exacta venduta a<br />

Novara prima della guerra), diventammo amici e mi favorì molto nel mettermi a<br />

disposizione le novità del settore. Nel 1952 il giornale universitario torinese<br />

«Ateneo» bandì un concorso aperto anche alla fotografia, partecipai con due foto<br />

in bianco nero e vinsi il secondo premio».<br />

Da allora è un crescendo di affermazioni, sino alla presidenza della Federazione<br />

italiana fotografi. «Cantore» e testimone di Novara da oltre mezzo secolo<br />

attraverso gli scatti, qualche volta Michele Ghigo si concede il lusso di puntare<br />

l’obiettivo anche fuori le mura, in Italia e in altri Paesi. Ma poi scappa a casa, a<br />

cogliere gli attimi del ramaio sull’uscio del negozio, le mondariso dopo la<br />

quotidiana fatica o, semplicemente, la caducità di una foglia.<br />

uno degli scatti esposti nella mostra a Novara<br />

Olive e Bulloni, a Parigi l'omaggio ad Ando Gilardi<br />

32


L'Istituto Italiano di Cultura ospita una mostra dedicata al grande<br />

fotografo e storico della fotografia, scomparso quasi novantenne lo<br />

scorso 5 marzo.<br />

da http://foto.panorama.it/<br />

Autroritratto, 1955 circa -Credits: © Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi<br />

Photogallery<br />

Olive e Bulloni, a Parigi<br />

La mostra Olive & bulloni. Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra<br />

(1950-1962) è arrivata a Parigi, accolta dall’Istituto Italiano di Cultura per<br />

rendere omaggio ad Ando Gilardi, uno dei grandi maestri della fotografia italiana,<br />

scomparso quasi novantenne lo scorso 5 marzo.<br />

Già ospitata dalla Fondazione Benetton di Treviso e dalla Fondazione Corrente di<br />

Milano, Olive & bulloni si compone di una serie di fotografie storiche, realizzate<br />

tra gli anni '50 e '60, di pubblicazioni e documenti d’epoca - tra cui alcuni numeri<br />

del Lavoro, di cui Gilardi è stato redattore - e del film-intervista Piedi scalzi mani<br />

nere. Braccianti e operai degli anni ’50 nei reportage di Ando Gilardi, a cura di<br />

Giuliano Grasso.<br />

Inaugurata il 7 giugno, la mostra - curata da Fabrizio Urettini - sarà aperta fino<br />

al 24 agosto. Il catalogo è in vendita sul sito della Fototeca Storica Nazionale.<br />

Figura carismatica e controcorrente, per molti versi eretica, nato nel 1921 ad<br />

Arquata Scrivia, in provincia di Alessandria, Ando Gilardi inizia ad occuparsi di<br />

33


fotografia nell'immediato dopoguerra, restaurando e riproducendo le immagini<br />

fotografiche degli eccidi in collaborazione con una commissione interalleata<br />

impegnata a raccogliere prove per i processi ai criminali nazi-fascisti. Lavora in<br />

seguito come cronista per l’Unità e poi con i rotocalchi Vie Nuove e Lavoro. Per<br />

quest'ultimo, periodico CGIL fondato da Giuseppe Di Vittorio, lavora non solo<br />

come giornalista ma anche come fotoreporter, per la prima volta in modo<br />

ufficiale: dal 1952 viaggia in tutta l’Italia, fotografando e raccontando vicende e<br />

lotte di operai, minatori, contadini, braccianti e delle loro famiglie. Tra gli anni<br />

'50 e '60, collabora tra gli altri con l'antropologo Ernesto de Martino, che<br />

accompagna nella sua spedizione in Lucania del 1957, all’origine di Sud e Magia.<br />

Nel 1962 fonda a Roma la Fototeca Storica Nazionale, che oggi porta il suo<br />

nome. Dal 1962 si dedica esclusivamente alla fotografia, da fotografo, editore (fu<br />

fondatore di riviste memorabili e irriverenti) e organizzatore di mostre ed eventi.<br />

Negli anni settanta, al suo lavoro di fotografo si affiancano quelli di storico della<br />

fotografia, saggista e insegnante. Pioniere degli studi italiani sulla fotografia,<br />

pubblica testi fondamentali sulle comunicazioni visive, tra i quali la monumentale<br />

Storia sociale della fotografia del 1976 e svariati studi sui filoni della fotografia<br />

prima di allora non ritenuti degni di attenzione, come Wanted! Storia, Tecnica ed<br />

Estetica nella Fotografia Criminale Segnaletica e Giudiziaria e Storia della<br />

fotografia pornografica.<br />

Tornato nel suo Piemonte, per problemi di salute, dal 1993 continuerà a fornire i<br />

suoi contribuire agli studi nel campo fotografico attraverso internet, dalla sua<br />

casa di Ponzone (un paesino di mille abitanti, in cima a una collina nel<br />

Monferrato), sperimentando in prima persona le nuove tecniche di produzione<br />

digitale e svolgendo una ricerca personale sulle implicazioni artistiche delle<br />

tecniche di fotografia digitale, redigendo per l'intero 2007 un diario giornaliero di<br />

laboratorio, fino a concepire, nell’agosto del 2008, un suo canale personale su<br />

youtube, TubArt, e ad approdare nel 2010 su Facebook dove oltre 1800 amici<br />

hanno assistito quasi in diretta alla conclusione del suo straordinario viaggio su<br />

questa Terra.<br />

__________________<br />

OLIVE & BULLONI raccontata da Ando Gilardi<br />

Tre amici Patrizia, Elena e Fabrizio hanno, senza dirmelo prima, deciso di fare<br />

una mostra con le fotografie che presi dal Nord al Sud dell’Italia dal 1950 al 1962<br />

come fotografo scalzo, così mi dicevo rubando il nome ai medici scalzi cinesi di<br />

Mao. In Cina negli anni di allora furono insegnati rudimenti di medicina a molti<br />

contadini, per creare una presenza medica nell’intero paese, e ancora oggi gli<br />

scalzi sono gli unici medici nelle estreme zone rurali.<br />

Ho avuto la fortuna immensa per un fotografo scalzo di essere stato il fotografo<br />

se non ufficiale ufficioso della CGIL negli anni 50, e di avere raccolto per il suo<br />

settimanale a rotocalco Lavoro — oggi più interessante per l’antropologia che per<br />

altro — gli ultimi documenti fotografici sulla fine, diciamo pure sull’estinzione,<br />

delle tre grandi classi del proletariato italiano. Ora: in Italia dagli anni 1950 al<br />

1962 persero il proprio lavoro sette/otto milioni di proletari, sono le cifre ufficiali.<br />

Solo una parte erano organizzati dai sindacati, forse la metà, altri non lo erano.<br />

Gli organizzati cominciarono una durissima lotta sindacale, e questa è la<br />

“fortuna” di chi dipende da un datore di lavoro: che può scioperare manifestare<br />

34


agitare bandiere rosse e cartelli e occupare la fabbrica, che è sempre meglio di<br />

niente.<br />

I non organizzati lottarono anche loro ma come nella lotta libera può farlo uno<br />

che è senza né braccia e né gambe.<br />

La guerra — come si diceva una volta — per il pane dei figli, si concluse con una<br />

sconfitta epocale: sparirono, letteralmente si estinsero socialmente le tre grandi<br />

classi del proletariato storico, quella degli operai, quella dei braccianti salariati<br />

agricoli e quella dei — senza terra, senza uno straccio di contratto e di sindacato<br />

— i cosiddetti cafoni del Sud.<br />

Le cifre sommarie che parlano di queste tre classi nel secolo scorso sono<br />

interessanti: negli anni Venti si aveva in Italia 1 operaio ogni 6 contadini e<br />

braccianti-senza-niente; alla vigilia della seconda guerra mondiale il rapporto era<br />

già mutato da 1 a 3. L’economia di guerra aveva moltiplicato le fabbriche e nel<br />

dopoguerra il rapporto era già diventato quasi alla pari; ma tuttavia il numero<br />

dei lavoratori, e dei disoccupati dei campi, rimase ancora più numeroso di quello<br />

delle officine fino ai primi degli anni Cinquanta quando, come dicevo, ebbe inizio<br />

la veloce estinzione delle tre classi. Io ho fotografato le lotte e proteste per<br />

impedirlo senza riuscirvi e in questa mostra ci sono documenti di una sconfitta<br />

epocale.<br />

Un fatto curioso è che le classi sociali, le loro organizzazioni, non si estinsero<br />

politicamente: succede egualmente per le stelle lontane, che quando si<br />

estinguono la loro luce continua nel tempo a brillare.<br />

Quella del proletariato italiano fu una sconfitta epocale: la notte di una grande<br />

ragione. Dove continua a risplendere, ma ora è prossimo spegnersi, il lumicino<br />

piccino piccino che più di così non si può, del suo fotografo scalzo e aggiungo<br />

senza una gamba, il quale si rese conto dei fatti, e come prova la mostra, visse<br />

dodici anni saltellando qui e là per l’Italia per prenderne le fotografie.<br />

Parliamo un momento di loro. Vorrei far riflettere chi visita questa mostra e<br />

attirare la sua attenzione su alcuni dettagli: in molte istantanee si vedono asini e<br />

muli, ebbene nel tempo in cui sono state riprese, il numero di questi mezzi di<br />

trasporto era nel Mezzogiorno superiore di dieci volte a quello delle automobili.<br />

In molti paesi e faccio il caso di Albano di Lucania allora con circa 3.000 abitanti,<br />

quando il sindaco che abitava a Potenza veniva a far visita ai suoi amministrati, i<br />

cittadini correvano in piazza per vedere la macchina che camminava da sola. Il<br />

sindaco che era un simpatico ragazzo e quasi un amico, mi raccontava, e se non<br />

mi credete pazienza, di avere vinto le elezioni facile facile, per aver mostrato alla<br />

gente durante un comizio, un foglio di carta moneta da mille lire.<br />

Per ciascuna di queste istantanee e delle altre mille che come fotografo scalzo ho<br />

preso in quegli anni fatali nel Nord e nel Sud, potrei raccontare più di una storia<br />

così, ripeto che forse pare incredibile però vi assicuro che è vera.<br />

Ma il bello è questo che segue: il tempo i fatti e i milioni di mutilati del proprio<br />

lavoro di quel periodo, furono e sono poi ricordati dalla stampa, dalla televisione<br />

e in tutta l’informazione “sociale” come il “miracolo economico italiano”! Il quale<br />

è una immensa fossa comune dove sono sepolti e dimenticati i nomi e le storie di<br />

35


quelle che i testi ufficiali chiamano “unità produttive”: nelle mille istantanee del<br />

fotografo scalzo si salvarono le loro facce.<br />

Ecco perché come ho detto non avrei approvato la mostra: per lasciare riposare<br />

in pace quei miei compagni e compagne che ho inquadrato, con i loro cartelli le<br />

loro bandiere, dentro alle fabbriche spente in attesa del nulla, o seduti attorno a<br />

chi leggeva il giornale (il solo che parlasse di loro) a quelli che non sapevano<br />

leggere.<br />

Io non volevo tornare a vedere le immagini dei loro bambini, “scalzi” come il<br />

fotografo che li inquadrava, che ridevano allegri e che meritavano un futuro<br />

tanto ma tanto migliore. Questa allegria dei bambini di allora è stata davvero il<br />

grande miracolo degli anni lontani.<br />

Adesso la mostra del fotografo scalzo è pronta e aperta, ha un grande un<br />

lussuoso catalogo, e dire devo pur grazie a Patrizia, Elena e Fabrizio. Mi dicono<br />

che a guardare le istantanee ci va della gente, la quale oggi vive e forse senza<br />

saperlo un altro “miracolo all’italiana” appena al principio. Perché viene aperta, e<br />

mica riesco a non dirlo, un’altra fossa comune: la cosa che più mi fa ridere è che<br />

ce lo dicono proprio quelli che l’hanno scavata. E per la tradizione del nostro<br />

mestiere speriamo che ancora si trovi a raccontarlo un fotografo scalzo, ma con<br />

buone gambe, un nuovo collega Aasverus con tanto di digitale.<br />

San Felice, le foto magiche per ricominciare<br />

Andrà ancora in scena. Il sindaco: sarà il simbolo della rinascita<br />

di Nicola Ssldutti da http://www.corriere.it/cronache/12_giugno_10<br />

Una delle ultime edizioni di "Magico"<br />

È materia delicata, quella dei ricordi. Soprattutto se scorrono immagini che non<br />

ci sono più. Come la Torre di San Felice sul Panaro. Come il suo orologio. La<br />

rocca degli Estensi. Eppure i ricordi servono a ricominciare. A ripartire.<br />

Nonostante tutto. Le hanno raccolte quelle foto di questi ultimi dieci anni, sono<br />

nei cassetti dei fotografi che le hanno scattate, nelle memorie dei computer,<br />

negli occhi di chi, in un pomeriggio di primavera, ha fatto tappa nel cuore<br />

dell'Emilia. Volti di clown e giocolieri. Di pupazzi, re e regine. Perché non è mai<br />

stato un Carnevale come gli altri. Anzi a dirla bene non lo è proprio. Si chiama<br />

Magico, come il mondo di questa terra martoriata dal terremoto. Un piccolo<br />

sogno. Per un pomeriggio tutto si trasformava in un grande set, un paese che<br />

diventa un grande racconto. Prima pochi fotografi, nel 2003, poi cento.<br />

Quest'anno ne sono arrivati più di duemila. Gli abitanti di San Felice trasformati<br />

in attori, comparse dell'immaginazione. Agricoltori, artigiani, impiegati,<br />

casalinghe.<br />

36


«Magico» il carnevale a tema di San Felice :<br />

L'idea è nata da un fotografo-regista, Mario Lasalandra. Che in questi giorni è<br />

tornato a trovarli: è arrivato in auto ma poi ha preso la bicicletta dal bagagliaio e<br />

ha proseguito il suo viaggio. Ha visto le stalle distrutte ma anche i campi di<br />

grano non ancora maturo. E poi la Rocca, il castello medievale che è l'anima<br />

della città. Era questo il teatro nel quale si preparavano e dal quale sfilavano i<br />

personaggi. Adesso la villa Ferri, con l'imponente scalinata, non c'è più. La torre<br />

dell'orologio che batteva le ore su Piazza Matteotti neppure. Luciano, il tecnico<br />

del suono, abita lì. Lì si affacciano le terrazze di Mara, l'animatrice dell'iniziativa.<br />

E poi c'è la Piazzetta Posta dove Isabella faceva la parrucchiera aiutata<br />

dall'amica Cesarina. L'infaticabile Alfredo Reggiani che coordina tutto. Angiolino,<br />

il falegname. Un intero Paese immerso per un giorno in una favola. «Mi ricordo<br />

quando i ragazzi di San Felice mi misero a disposizione tutti gli abitanti per<br />

realizzare questa idea. Dicevo: immaginate di venire dall'aldilà. Stupitevi, date<br />

voce ai vostri gesti. Erano in cento i fotografi. Quest'anno ne sono arrivati<br />

duemila...», racconta Lasalandra. La sua cura per i dettagli, tutto doveva essere<br />

pronto in pochi minuti. Una sola prova. Perché l'estemporaneità per chi scatta<br />

immagini conta più di tante altre cose. Anche da Este, da Padova arrivavano gli<br />

attori-non attori. Tabarri, cappelli, corone. Ogni anno un tema: Re e Regine,<br />

Fantocci e Burattini, Giorno di Nozze, Guerra e Pace, omaggio a Fellini, Santi e<br />

Miracoli l'11 marzo. In occasione dell'edizione dedicata a «Viva l'Italia», hanno<br />

persino realizzato dei cavalli. E poi le nebbie. Sì proprio quelle dell'Emilia, con il<br />

fumo. Perché in fondo Magico era un po' malinconico: «Sono andato nelle tende<br />

e mi hanno detto: dobbiamo farlo anche quest'anno...». Alfredo, Luciano,<br />

Cesarina, Isabella. Rosa, che ha il negozio di fotografia. Antonino il falegname.<br />

C'è un po' di imbarazzo a parlare di festa quando ancora la terra trema, insicura.<br />

Ma forse è quasi un dovere, per ripartire. Vivono nelle tende gli abitanti di San<br />

Felice. Il comune, i vigili sono sotto un tendone di plastica.<br />

E allora riguardiamo le foto della gioia: il cortile del castello pieno di attori-non<br />

attori. Abiti colorati, trucchi da circo. I fumi rossi che avvolgono le mura. Guanti<br />

bianchi che muovono l'aria. Eccolo San Felice sul Panaro, ecco i suoi ricordi buoni<br />

da cui si può ripartire. Sembra di sentire le voci del castello: «Presto, presto, al<br />

trucco, bisogna cominciare». Eccoli che escono lentamente dal portone<br />

principale, sfilano in ogni vicolo. In silenzio. I fotografi li aspettano per<br />

acchiappare con uno scatto i loro sogni, i loro volti. Centinaia di immagini. Un<br />

film a cielo aperto. La Rocca era il teatro, il deposito degli abiti dove venivano<br />

custodite le scenografie. E poi tutte le finestre addobbate. Tutto San Felice<br />

diventa una sequenza di set fotografici, con i mimi e i loro gesti surreali. Ci sono<br />

gli scatti dei fotografi per un giorno e le immagini dell'occhio profondo di Gianni<br />

Berengo Gardin.<br />

È vero, adesso sembra una città fantasma, ferita nella sua storia, nei suoi luoghi<br />

dalla terra infida. Aveva deciso che quest'anno no, sarebbe stato l'ultimo anno<br />

per Magico. Perché a un certo punto si può essere stanchi. Alla cena che il<br />

comune dona a tutti i cittadini alla fine della manifestazione l'aveva anche detto:<br />

questa è l'ultima edizione. «Trascuro la mia pittura, datemi un anno di riposo»,<br />

aveva detto Lasalandra, fotografo-poeta. Ma la città non vuole fermarsi. C'è<br />

anche il titolo per l'edizione dell'anno prossimo: «Diario di un sogno». Certo è più<br />

37


difficile immaginarlo tra le macerie. Spiega il sindaco, Alberto Silvestri:<br />

«Vogliamo tornare al più presto in quella direzione ma le continue scosse ci<br />

riportano sempre al punto zero. Mi piace pensare a Magico come simbolo della<br />

nostra rinascita. Adesso dobbiamo fare molte cose ma la Rocca è il nostro<br />

simbolo. Anche della voglia di ripartire». Anche da una fotografia.<br />

Fotografare il terremoto, contro il terremoto<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

Fratture cosismiche. Il piede serve per dare<br />

misura della dimensione della crepa. © Marco Massa – Ingv<br />

Fotografate “il mostro”, ve lo chiede l’Ingv. Il terremoto non ha volto, ma i graffi<br />

dei suoi artigli sul terreno e sugli edifici, tutti li possiamo purtroppo vedere. E i<br />

sismologi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia li vogliono e li<br />

debbono vedere, perché vedere è capire, e capire è conoscere il mostro del<br />

sottosuolo. La sismologia è anche una semiotica: studia il terremoto attraverso i<br />

segni che imprime alla superficie terrestre, attraverso le tracce che ci lascia.<br />

I fotografi possono aiutarli. Mi fa piacere rilanciare qui un’idea appena nata<br />

dalla collaborazione fra l’Ingv e la rivista Reflex: raccogliere una documentazione<br />

fotografica spontanea ma accurata degli effetti del terremoto nella Bassa<br />

emiliana, con un appello alla collaborazione libera e volontaria di chiunque, dei<br />

fotografi, delle stesse popolazioni terremotate.<br />

Non è turismo della catastrofe, non è voyeurismo: quelle foto, spiega Marco<br />

Anzidei, ricercatore dell’Ingv, in un’ampia intervista concessa all’amica Claudia<br />

Rocchini, servono davvero. Le deformazioni di una strada, le crepe di una parete,<br />

gli affioramenti di fango o di sabbia, se guardati dalle persone giuste, rivelano<br />

dati preziosi sulla dinamica del sisma. E sono comunque promemoria,<br />

segnalazioni, indicazioni di luoghi dove i tecnici dell’Istituto potranno poi recarsi,<br />

a colpo sicuro, a studiare gli elementi più significativi direttamente sul campo.<br />

Reflex ha messo a disposizione le sue pagine Flickr per la raccolta delle<br />

immagini, che per essere utilizzabili dovranno possedere alcune caratteristiche<br />

importanti: essere geolocalizzate, ovvero includere i dati precisi di latitudine e<br />

longitudine, niente di difficile: i fotocellulari e alcune fotocamere dotate di<br />

connessione Gps lo fanno autromaticamente. In alternativa, bisognerà indicare<br />

l’indirizzo più preciso possibile.<br />

38


Poi, orientamento (una bussola nell’inquadratura servirebbe), dimensioni<br />

(includere nell’inquadratura un oggetto comune dalle dimensioni note, una figura<br />

umana come metro di misura). E soprattutto: niente deformazioni, niente<br />

manipolazioni, niente abbellimenti artistici, niente obiettivi troppo spinti, niente<br />

postproduzioni creative. Proprio l’eccesso di ritocchi ha reso inutilizzabile<br />

dall’Istituto gran parte del materiale fotografico già reperibile su Internet.<br />

L’appello è urgente: bisogna che più tracce possibili del sisma vengano<br />

registrate e segnalate, prima che la doverosa, auspicata ricostruzione (o magari<br />

solo un temporale) le cancelli. Da solo, l’Istituto non riuscirebbe mai a<br />

perlustrare e a censire in fretta il cratere del sisma. Mi pare che si possa dire che<br />

questa iniziativa è l’applicazione virtuosa, una volta tanto, di alcune potenzialità<br />

della Rete usate tanto spesso per scopi futili: il crowdsourcing, cioè la<br />

collaborazione coordinata di persone che non si conoscono tra loro, e lo user<br />

generated content, il flusso di immagini che sale dalla platea dei lettori fino<br />

all’imbuto dei media. Applicazione virtuosa perché il suo risultato non sarà solo<br />

un accumulo indiscriminato, puramente additivo, di immagini in un grande cesto,<br />

ma una base su cui un secondo livello di competenze potrà lavorare, ordinando,<br />

scegliendo, comparando. Mi pare un esperimento prezioso non solo per la<br />

sismologia, ma anche per la fotografia…<br />

E vi spiego perché. Potete leggere altri dettagli nei siti che vi ho linkato, ora<br />

lasciatemi fare alcune considerazioni più fotografiche. Dunque, le fotografie<br />

possono essere ancora un documento. Correttamente, criticamente studiate<br />

possono essere il reperto parlante di uno stato delle cose del mondo reale.<br />

Dunque la fotografia, con tutte le sue infedeltà di testimone debole, se ben<br />

interrogata sa ancora indicare, sa ancora offrire indizi (da verificare, da<br />

indagare) su quella gran scena del delitto che è il mondo. Dunque può ancora<br />

rendere un servizio alla conoscenza e al benessere della società. Dunque, la<br />

fotografia è ancora un prelievo di qualcosa del mondo fisico che può essere<br />

studiato, che può essere riconosciuto come esistente.<br />

Dunque tante chiacchiere postmoderne sulla morte del referente, sul taglio<br />

irrimediabile del “cordone ombelicale” fra immagine e realtà, sull’”età del<br />

sospetto” verso le immagini che la sedicente rivoluzione digitale avrebbe reso<br />

tutte indiscriminatamente inaffidabili e false, tutte queste chiacchiere frullano a<br />

vuoto di fronte alla realtà di questa pratica della fotografia come raccolta di dati<br />

visuali, al servizio della scienza e del pubblico interesse. Dunque, semmai, se c’è<br />

qualcosa che minaccia l’utilità della fotografia come prelievo di aspetti utili del<br />

reale, è semmai l’eccesso di interventi manipolatori imposti alla superficie<br />

dell’immagine, cioè l’immissione di elementi artificiosi e non fotografici nel<br />

processo del prelievo fotografico, che si aggiungono alle deformazioni<br />

connaturate nel processo stesso.<br />

Dunque, nonostante tutto, le fotografie ci servono ancora per avere una<br />

relazione con il mondo.<br />

Mario Dondero, la mostra antologica del fotografo<br />

39


di Federica Ferraris da http://genova.mentelocale.it<br />

Galleria:<br />

© foto: Gianni Ansaldi<br />

'Dalla Parte dell'Uomo': a Genova una raccolta di scatti per ripercorrere la<br />

carriera del fotoreporter.<br />

Dal 15 giugno al 19 agosto al Palazzo Ducale di Genova nella Loggia degli<br />

Abati. L'intervista<br />

Diapositive che si guardano controluce con gli occhi strizzati. Dagli occhi alla<br />

bocca il passaggio è breve per Mario Dondero. Ricordi che affiorano ad ogni<br />

sagoma che emerge dalla plastica trasparente. Poi si gira, mi guarda un po’ e<br />

mi dice: «Il mio narcisismo si esalta, quando allestisco una mostra». E<br />

scompare nella stanza accanto. In movimento, sempre.<br />

Il fotografo si trova a Genova nelle stanze di Palazzo Ducale, per allestire la<br />

mostra Dalla Parte dell'Uomo, sua personale che inaugura venerdì 15 giugno<br />

(ore 17.30), presso la Loggia degli Abati. Lui starà a Genova fino a sabato,<br />

perché poi deve andare a Bologna: martedì 19 giugno inaugura alla Cineteca<br />

del capoluogo dell'Emilia-Romagna un'altra mostra a lui dedicata.<br />

Mario Dondero è così, classe 1928, e stargli dietro a fatica. Si sposta, racconta,<br />

indica, tocca, torna indietro: «Volevo dirti ancora una cosa». Manca quasi il<br />

40


espiro. Ma lui sorride, ti si avvicina, ti mette a tuo agio: «Facciamo che ci<br />

diamo del tu, anzi no, io ti do del lei». E poi un sorriso. Ancora uno. Mi chiede<br />

se vogliamo sederci, ma è subito in piedi.<br />

Inizia il mio viaggio, il nostro viaggio attraverso la storia. Quella vera, cruda e<br />

crudele che arriva e si prende ciò che vuole. Uno scatto per intrappolarla, fatto<br />

di nascosto, sul momento. Come l’abbraccio di una mamma a un postino che le<br />

annuncia che suo figlio, imbarcato sul transatlantico Andrea Doria nel 1956, è<br />

ancora vivo. E lui era lì, abbarbicato in cima a una scala, aspettando l’attimo<br />

per acchiapparlo. Come quando prendi tra le mani un grillo e lo senti saltare<br />

nei palmi. Il sorriso di quella mamma saltella davanti ai miei occhi, mentre<br />

Mario mi racconta le sue storie.<br />

Si parla di tutto, perché lui è stato dappertutto. Ha visto tutto attraverso<br />

l’obbiettivo della sua Leica, ma non solo: «Qualche giorno fa sono stato alla<br />

conferenza stampa di Hollande con Putin, a Parigi, e tutti i fotografi vicino a me<br />

mi guardavano storto, perché avevo tra le mani una vecchia Nikon analogica,<br />

piccolina ma perfettamente funzionante». Ride divertito: «Sono un fotografo<br />

non conosciuto dai fotografi, ma dai giornalisti sì. D’altronde ho sempre<br />

lavorato tra i giornalisti».<br />

Perché alla fine lui è un giornalista. «Credo che per un fotografo sia meglio<br />

avere una formazione giornalistica, piuttosto che cinematografica. Un cronista<br />

ci mette tre minuti a fare una buona foto, perché sa quanto sia importante<br />

l’immediatezza dell’immagine, un cineasta ci mette due ore per fare una<br />

ripresa, figurati una foto». E il gusto per l’immagine? «La cultura dell’immagine<br />

ce l’abbiamo dentro, noi italiani. Pensa alla sezione aurea, è insita in noi. Nel<br />

reportage questo si deve fondere con la velocità e la tecnica, per attenersi alla<br />

verità». La verità, appunto: «Le foto belle non raccontano niente». Lo si legge<br />

negli occhi delle mondine portoghesi piegate nelle risaie in un’assolata giornata<br />

negli anni Cinquanta. O negli occhi di una ragazza che, attraverso il vetro di un<br />

caffè parigino, guarda dritta nell’obiettivo di Dondero: «Poi è arrivato il suo<br />

moroso», scherza Mario.<br />

Con lui tutte le storie proseguono al di fuori delle cornici nere che racchiudono<br />

le sue foto, finestre sul mondo. «Nella foto del Nouveau Roman, lo vedi Lindon<br />

che guarda a destra? Ecco, stava aspettando qualcuno». E quel qualcuno mi<br />

sembra di vederlo mentre corre verso il gruppetto di romanzieri, un po’ sparuto<br />

e disomogeneo sul marciapiede di rue Bernard Palissy, a Parigi. Lo sguardo un<br />

po’ perso di Elsa Morante. Il sorriso di Pasolini e la figura di sua madre, sullo<br />

sfondo, sfocata. Bacon, ritratto nel caos del suo studio «Mi diede buca per tre<br />

volte. Poi lo incontrai in un caffè, a Parigi. Era con un mio amico, che me lo<br />

presentò. Gli feci presente l’accaduto e lui mi disse che era colpa della sua<br />

segretaria, che odiava gli italiani. Così riuscii a fotografarlo». Tutti questi<br />

personaggi si guardano, da una parte all'altra delle stanze della Loggia degli<br />

Abati.<br />

Protagonisti di un mondo ben lontano dall’attualità di mamme, postini e<br />

mondine. «Non proprio, trovo i romanzieri persone profondamente coinvolti nel<br />

mondo. A volte solo loro sono in grado di raccontare le cose come sono<br />

realmente. Mi viene in mente Francois Maspero, che ne Les temps des Italiens<br />

racconta com’erano davvero gli italiani in guerra. Fascisti sì, ma non dei<br />

perseguitatori come lo erano i tedeschi. Nessun giornalista ha mai affrontato<br />

41


questo argomento. Lo ha fatto uno scrittore».<br />

La guerra. Altra costante. Quella fotografata, ma anche quella fatta. Appena<br />

ragazzino, Mario ha fatto parte della Repubblica Partigiana dell’Ossola: «Ho<br />

avuto un paio di colpi di fortuna, che mi hanno salvato la pelle in quel<br />

periodo». Anche se la pelle l’ha rischiata veramente in altre occasioni, mi<br />

racconta. Per esempio, il 25 aprile 1967 a Milano, in piazza Cavour: «Un<br />

gruppo di studenti stava manifestando pacificamente, quando il Battaglione<br />

Padova li ha attaccati brutalmente. L’ho trovata una cosa così scellerata che,<br />

istintivamente, ho preso una ragazza per un braccio, per tirarla via. Potevi<br />

essere tu. Così i militari si sono avventati su di me, massacrandomi». Altro che<br />

le galere dell’Africa.<br />

Continuiamo a spostarci tra le stanze della mostra; Mario mi prende per un<br />

braccio ogni tanto, per farmi chinare fino a incrociare gli occhi di un uomo dai<br />

tratti mediorientali: «Questo adesso sarà un capo dei talebani, credo», mi<br />

comunica con estrema naturalezza. Oppure mi spinge per osservare meglio la<br />

foto di un figlio delle favelas brasiliane che dorme accoccolato tra le gambe di<br />

una statua. Un’opera d’arte nell’opera d’arte. E poi, grazie a un'altra foto che<br />

ritrae un omino arrampicato su di un albero della cuccagna, mi fa toccare la<br />

luna: «Altro che Nasa, lui ce l’ha fatta ad arrivare sulla luna».<br />

Quando rimango indietro per prendere appunti, Mario Dondero viene a<br />

ripescarmi e mi spinge avanti. Mi fa entrare nelle sue foto. Sono in Africa, tra i<br />

medici di Emergency, sposto lo sguardo e atterro nella Russia di Putin. Poi<br />

vado a Parigi, in metro, vicino a un clochard. Guardiamo un po' tristi Jean<br />

Seberg: «È morta in un modo così infelice e misterioso».<br />

Passiamo davanti a una serie di foto di guerra: «Non sono mai stato l’Erodoto<br />

della situazione. Né amo definirmi un fotografo di guerra. Anche se ho<br />

partecipato a sette o otto conflitti».<br />

Ma ora le guerre si riprendono attraverso un telefonino: cosa significa questo<br />

per un fotografo così attaccato ai suoi strumenti? «Il digitale è un’opportunità<br />

interessante. Ma io sono troppo affezionato all’analogico, direi in maniera<br />

sessuale. Sono legato al gesto. Al doppio click che faccio fare alla mia Leica<br />

prima di ogni scatto».<br />

E ai tempi della quantità che supera la qualità, anche nel campo della<br />

fotografia, c'è stato un momento che ha abbassato la macchina fotografica.<br />

Una foto che davvero non andava fatta? Mario mi guarda, sembra quasi si<br />

incupisca: «La foto di quel dittatore che spara alla testa di un dissidente. Ecco,<br />

quella non l'avrei mai scattata. Ci sono delle occasioni in cui una macchina<br />

fotografica può accelerare gli eventi, quello è uno di quei casi. Se quel<br />

fotografo non fosse stato lì a premere il pulsante della sua macchina, forse la<br />

vita di quel prigioniero sarebbe finita in modo diverso».<br />

E allora chi è Mario Dondero? Sorride, come al solito: «In Francia mi<br />

definiscono un fotografo letterario. Non sono mai riuscito ad affrancarmi da<br />

questa etichetta. Ma in fondo il segreto nel mondo della fotografia è l’essere<br />

specializzato in un argomento. Poi puoi fare quello che vuoi. Io ho sempre<br />

rifiutato le categorie». E poi ancora un aneddoto: «Una volta sono andato<br />

all’ippodromo di Parigi con Robert Doisneau. All’epoca io non ero nessuno, ma<br />

42


lui era già un fotografo affermato. Beh, non ci hanno fatto accedere al bordo<br />

pista perché non eravamo degli specialisti».<br />

MARIO DONDERO<br />

Di origini genovesi, nasce a Milano il 6 maggio 1928. Inizia a lavorare nei primi<br />

anni '50 collaborando con L'Unità, L'Avanti e poi come cronista a Milano sera.<br />

Successivamente collabora con la rivista Le ore, animata principalmente da<br />

Salvato Cappelli, Giuseppe Trevisani e Pasquale Prunai, il cui slogan è «una foto<br />

vale 1000 parole».<br />

Legato al cosiddetto gruppo dei "Giamaicani" (i frequentatori del bar Giamaica)<br />

Milan Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo<br />

Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas nel 1955 si sposta a Parigi dove collabora<br />

con testate italiane come L'Espresso e L'Illustrazione Italiana, ma anche con Le<br />

Monde, Le Nouvel Observateur, Le Figaro. Diventa amico di molti scrittori e<br />

intellettuali francesi, che ritrae (famosa la foto di gruppo degli scrittori del<br />

cosiddetto Nouveau Roman).<br />

Si è cimentato anche con il documentario cinematografico, realizzando come<br />

autore alcuni documentari a carattere politico-sociale per la romana Unitelefilm,<br />

per la RAI Racconti per immagini per la rubrica Fotostorie destinata ai<br />

giovanissimi e collaborando a programmi televisivi stranieri.<br />

LA MOSTRA:16 giugno-19 agosto - Genova, Palazzo Ducale (Loggia degli Abati) - Orari: tutti i<br />

giorni (tranne lunedì) dalle 11 alle 19. Biglietti: 4 Eu cumulativo mostra Dondero + Giacomelli; 6<br />

Eu con inclusa anche la visita alla Torre<br />

Oltre 400 presenze per l’inaugurazione di “Itaca” a<br />

Bibbiena. La soddisfazione dell’assessore Buondonno<br />

da http://www.informazione.tv/<br />

Ad una settimana dall’inaugurazione, non si spegne l’attenzione mediatica per la<br />

mostra “ITAca - Storie d’Italia” di Giovanni Marrozzini, sostenuta dalla Provincia<br />

di Fermo ed esposta fino a settembre presso il CIFA (Centro Italiano della<br />

Fotografia d’Autore) di Bibbiena, in provincia di Arezzo.<br />

“Si tratta di una mostra bellissima - dichiara l’Assessore alla Cultura Giuseppe<br />

Buondonno, presente a Bibbiena lo scorso 16 giugno - e, anche se quando<br />

abbiamo deciso di sostenere l’idea di Marrozzini avevamo intuito<br />

immediatamente l’importanza di un progetto articolato in numerosi workshop ed<br />

iniziative in giro per tutta l’Italia, la realtà ha superato le aspettative.<br />

E’ uno sguardo straordinario e straordinariamente intenso sulle tante storie del<br />

nostro Paese e, quindi, sulle tante storie dell’umanità. Voglio ringraziare i molti<br />

fermani presenti all’inaugurazione, perché è stata la testimonianza di un<br />

territorio che da alla fotografia una grande importanza e che, soprattutto, ha<br />

un’importanza nella storia della fotografia, abbondantemente riconosciuta<br />

dall’ospitalità e dall’attenzione che abbiamo ricevuto dal Presidente della<br />

Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, dal Presidente della Provincia di<br />

Arezzo e dalla stessa Regione Toscana.<br />

Non è un caso che proprio il Presidente della FIAF abbia parlato di Marrozzini<br />

come di uno dei maggiori e più interessanti fotografi italiani di questa fase<br />

43


storica. E l’importanza del lavoro lo conferma: un lavoro fatto di ricerca, anche<br />

originale per la sua narrazione plurale, letteraria e fotografica dell’Italia.<br />

Come Provincia, insieme al Comune di Fermo ed alla Fototeca provinciale, stiamo<br />

già lavorando per allestire dopo settembre la mostra nella città capoluogo. Voglio<br />

rimarcare, infine, come anche l’iniziativa della Fototeca provinciale, e quindi di<br />

un archivio pubblico, sia stata fortemente apprezzata dalla stessa FIAF nei suoi<br />

massimi rappresentanti”.<br />

“La mia soddisfazione è enorme - sottolinea Giovanni Marrozzini - e voglio<br />

condividerla con le oltre 400 persone presenti all’inaugurazione. Quello con la<br />

fotografia è un lungo viaggio, iniziato 8 anni fa; un viaggio che non immaginavo<br />

potesse diventare una professione così stimolante, anche se difficile e faticosa,<br />

che mi ha portato lontano da casa per tanto tempo.<br />

Realizzare poi “ITAca” in occasione del 150° anno dell’Unità, scommettendo su<br />

un giovane come Matteo Fulimeni e sulla sua capacità di raccontare storie,<br />

sperimentando a bordo di un camper per un intero anno questo parallelismo tra<br />

fotografia e scrittura, tutto questo mi ha fatto conoscere un’Italia meravigliosa<br />

ma con poca voglia di riscattarsi, un’Italia con poca consapevolezza, che<br />

necessita di un vero e proprio punto e a capo.<br />

Il lavoro fatto con Matteo non ha, però, la presunzione di identificare una<br />

Nazione: se qualcuno, poi, ritroverà se stesso o il Paese nelle foto e nei testi,<br />

allora vorrà dire che c’è qualcosa in comune da cui ripartire ed iniziare a<br />

costruire”.<br />

Ricostruire la Pianura Padana attraverso le foto<br />

da http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it<br />

Un progetto, gratuito e aperto a tutti, per lo studio e la ricostruzione della<br />

Pianura Padana attraverso le foto dei danni causati dal terremoto: promosso<br />

dall'INGV e dal mensile Fotografia Reflex, ha lo scopo di pianificare interventi di<br />

ripristino e ricostruzione di edifici storici<br />

L'INGV e FOTOGRAFIA REFLEX lanciano un progetto congiunto di pubblica utilità<br />

per fini di ricerca ed elaborazione di progetti specifici per lo studio e la<br />

ricostruzione delle zone terremotate in Pianura Padana, attraverso la fotografia.<br />

L'iniziativa è finalizzata alla raccolta documentale delle immagini degli eventi<br />

sismici di queste ultime settimane, permettendo di elaborare informazioni molto<br />

utili, in particolare per la ricostruzione di edifici storici.<br />

44


Pubblichiamo pertano integralmente il testo del comunicato stampa INGV<br />

relativo a questa iniziativa:<br />

"L'iniziativa nasce dall'incontro tra Giulio Forti, editore di FOTOGRAFIA REFLEX,<br />

Claudia Rocchini, fotogiornalista e ideatrice del progetto e Marco Anzidei, primo<br />

ricercatore dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.<br />

Al fine di migliorare la diffusione dell'informazione sulle attività dell'INGV e per<br />

rendere più consapevole la popolazione sui fenomeni sismici e vulcanici, Anzidei<br />

ha creato una pagina dell'INGV su Flickr http://www.flickr.com/photos/ingv/,<br />

primario sito web per fotografi, pubblicando centinaia di immagini scattate dai<br />

ricercatori INGV, con descrizione bilingue degli effetti degli eventi sismici del<br />

terremoto nella Pianura Padana del 20 maggio scorso e che, ad oggi conta circa<br />

2.000.000 di visite.<br />

Il mensile FOTOGRAFIA REFLEX ha quindi lanciato l'invito alle popolazioni delle<br />

aree colpite dai recenti eventi sismici a scattare immagini dei danni nei luoghi<br />

terremotati, in modo che possano essere utilizzate per fini di ricerca ed<br />

elaborazione di progetti specifici per la ricostruzione.<br />

"Siamo stati contattati da architetti e ingegneri, che stanno già usando le nostre<br />

foto e quelle dei lettori di FOTOGRAFIA REFLEX, per iniziare a pianificare<br />

interventi di ripristino e ricostruzione di edifici storici", sottolinea Anzidei, che in<br />

un'intervista di Claudia Rocchini pubblicata nel numero di luglio di FOTOGRAFIA<br />

REFLEX, ma disponibile integralmente su www.reflex.it, illustra nel dettaglio le<br />

caratteristiche dell'iniziativa.<br />

L'iniziativa non va confusa con le immagini fatte dalla stampa in genere perché,<br />

in questo caso, le fotografie ricevute serviranno per collaborare ad un'operazione<br />

di servizio pubblico.<br />

È importante sottolineare che non si tratta di una forma di turismo fotografico<br />

della tragedia che ha colpito tante persone, ma nasce dalle necessità dell'INGV di<br />

ricevere più rapidamente possibile immagini degli effetti del terremoto sugli<br />

edifici e sull'ambiente: "una foto inviata attraverso il web, usando anche<br />

smartphone, cellulari e macchine fotografiche digitali, ci permette di interpretare<br />

immediatamente l'entità e la tipologia del fenomeno e valutare dove intervenire.<br />

Un conto è partire sapendo già dove andare, un conto è arrivare sul territorio e<br />

dover cercare le segnature sul terreno degli effetti più significativi di un evento,<br />

intesi come luogo che geologicamente per noi assume maggiore rilevanza",<br />

spiega Anzidei.<br />

Per la raccolta delle immagini, FOTOGRAFIA REFLEX ha messo a disposizione<br />

dell'INGV il proprio <strong>Gruppo</strong> su Flickr: www.flickr.com/groups/fotografia_reflex/.<br />

L'iscrizione è libera, gratuita e aperta a chiunque possieda uno strumento di<br />

ripresa fotografica, possibilmente dotato di funzione GPS, per identificare il luogo<br />

di ogni scatto una volta attivata la funzione di localizzazione per essere rese<br />

immediatamente disponibili ai ricercatori dell'INGV e contribuire, oltreché allo<br />

studio degli eventi sismici, anche all'elaborazione di progetti di ricostruzione<br />

secondo criteri antisismici".<br />

45


Gli eBook di Contrasto<br />

Da mercoledì 4 luglio disponibili i primi cinque eBook Logos, la collana di<br />

divulgazione e approfondimento sui temi e le forme dell’immagine<br />

contemporanea. I libri selezionati dal catalogo per l’edizione digitale sono già<br />

grandi successi.<br />

L’autobiografia di John Morris, il più importante photoeditor del Ventesimo secolo<br />

con un’esclusiva intervista video, il saggio di Max Kozloff su Vermeer e<br />

l’approfondimento di Isabella Pedicini sugli anni romani di Francesca Woodman.<br />

E poi la raccolta di saggi su Albert Camus curata da Goffredo Fofi e Vittorio<br />

Giacopini e l’ultimo titolo appena pubblicato, Doppia negazione, il romanzo del<br />

sudafricano Ivan Vladislaviċ.<br />

Come per l’edizione cartacea, i titoli Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola e<br />

La luce di Vermeer saranno disponibili anche in inglese.<br />

La grande fotografia d’autore in digitale disponibile per iPad, iPhone, Kindle e Android, in tutte le<br />

librerie on line o sul sito Contrastobooks.<br />

Per due settimane a partire dal 4 luglio tutti gli eBook saranno<br />

disponibili al prezzo lancio di 9,99 Euro.<br />

Da Lady Gaga ad Angelina Jolie -<br />

Lo star system di David LaChapelle<br />

A Lucca, al Center of Contemporary Art, una mostra celebra il genio della<br />

fotografia contemporanea, tra eccessi kitsch e celebrità. Oltre 50 scatti<br />

ne ripercorrono la carriera<br />

di Laura Larcan da http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/<br />

46


LaChapelle, le star stravaganti e sensuali<br />

LUCCA - Un mentore come Andy Warhol non è cosa da poco. Quando, all'inizio<br />

degli anni '80, David LaChapelle, americano del Connecticut, classe '63, cominciò<br />

ad esibire nelle gallerie di New York le sue fotografie già così sofisticatamente<br />

eccentriche, il padre della Pop Art ne rimase subito intrigato, tanto che lo reclutò<br />

nella scuderia di Interview Magazine a immortalare il mondo delle celebrità.<br />

"Interview era un giornale dove si doveva apparire - racconta il fotografo - Se<br />

uno voleva sapere cosa succedeva nel mondo, il mondo dell? arte e della cultura<br />

pop, guardava Interview". Da quelle pagine forgiate nella factory di Warhol, il<br />

suo estro glamour, iperrealista, teatrale e po' folle ha conquistato le più illustri<br />

copertine del jet set, diventando lui stesso una celebrità della fotografia<br />

contemporanea.<br />

LE IMMAGINI 1<br />

E dal 29 giugno al 4 novembre, una mostra antologica, "David LaChapelle", ne<br />

ripercorre la carriera. Al Lucca Center of Contemporary Art, sotto la cura di<br />

Maurizio Vanni, sfilano 53 scatti che raccontano le sue dieci memorabili serie,<br />

dove spiccano alcuni dei personaggi più noti della scena internazionale<br />

trasfigurati dal suo obiettivo di regista visionario e raffinatamente kitsch. Da<br />

Lady Gaga ad Angelina Jolie, da Paris Hilton a Michael Jackson. "LaChapelle non<br />

è il fotografo dello scatto rubato, non è<br />

l? artista che vive con la macchina fotografica al collo in attesa di un evento<br />

straordinario da immortalare, non è il reporter che rischia la vita per regalarci l?<br />

attimo prima di qualcosa che cambierà il mondo - dice Maurizio Vanni - È<br />

semplicemente un sismografo del proprio tempo che rende evidenti concetti e<br />

considerazioni, visualizzandoli prima nella propria mente, attraverso scatti<br />

concepiti come fossero grandi dipinti. In molti suoi lavori, infatti, l? approccio è<br />

più da pittore tradizionale che da fotografo".<br />

"E così allestisce un suo personalissimo set - aggiunge Vanni -cercando di<br />

realizzare qualcosa di esclusivo, ovvero fotografare ciò che razionalmente non<br />

sarebbe considerato fotografabile. Prima dello scatto, LaChapelle si trasforma in<br />

un regista di corpi e di anime che comunica con il suo team e trasmette il<br />

pensiero del suo lavoro ai modelli che ha scelto". Per lo "star system" ecco "Elton<br />

John: Egg on His face" dove la star, ha le uova della sua colazione sugli occhi, o<br />

"Lady Gaga: Metropolis", protagonista di uno spot pubblicitario per un concerto<br />

su un pianeta alieno. Ci sono le opere ispirate in chiave Pop alla Cappella Sistina<br />

di Michelangelo, come "Cathedral", dove un gruppo di persone di età differenti<br />

pregano dentro una chiesa immersa nell'acqua.<br />

E i lavori della serie "Excess" che giocano con le ossessioni e gli eccessi sessuali<br />

tra fantasie erotiche e voyeurismi. "Plastic People" raccoglie le immagini che<br />

corrodono lo stereotipo fisico, la bellezza ad ogni costo, con muse ideali come<br />

Pamela Anderson, Courtney Love e Amanda Lepore. La sezione "Art References"<br />

47


dialoga con i capolavori della storia dell'arte, come in "Birth of Venus", ispirata<br />

alla Nascita di Venere del Botticelli, con un? ironica conchiglia all? altezza del<br />

pube invece dei lunghi capelli biondi utilizzati dall? artista fiorentino. O "Angelina<br />

Jolie: Lusty Spring" che si ispira all? Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo<br />

Bernini, tra le opere più importanti del Barocco.<br />

Notizie utili - "David LaChapelle", dal 29 giugno al 4 novembre <strong>2012</strong>, Lu. C. C. A. - Lucca -Center<br />

of Contemporary Art, Via della Fratta, 36, Lucca. Orari: fino al 31 agosto, martedì-giovedì 10-19,<br />

venerdì-sabato 10-24, domenica 10-19, lunedì chiuso. Dal 1 settembre al 4 Novembre, martedìdomenica<br />

10-19.Ingresso:intero €9 ridotto €7-Informazioni: 0583 571712<br />

Giacomo Costa e l’arte di fotografare il futuro<br />

di Tommaso Sabbatini da http://www.controcampus.it<br />

Giacomo Costa non è uno di quegli artisti che per il solo fatto di essere<br />

“blasonati” grazie ad un successo di critica pressoché mondiale, si sentono<br />

appartenenti ad un empireo di geni assoluti, che guardano ormai il mondo<br />

dall’alto di un iperuranio in grado di far perdere loro il contatto con la realtà di<br />

tutti i giorni.<br />

Al contrario, si potrebbe dire che lui ed il suo genio, alla quotidianità devono<br />

tutto: infatti, pur essendo sempre stato un appassionato di fotografia, Costa<br />

nella vita ha sperimentato un’ampia rosa di esperienze, come quando ha deciso<br />

di vivere a contatto con la natura tra i monti della Val D’Aosta facendo il<br />

meccanico e il soccorritore alpino.<br />

Ha cercato col passare del tempo di non spezzare mai il legame con la natura,<br />

testimone fedele della realtà e dell’azione dell’uomo sul e nel mondo, per questo<br />

ha sempre fotografato ciò che lo circondava, fino ad approdare all’idea che la<br />

fotografia doveva essere il suo modo per comunicare quello che la realtà gli<br />

trasmetteva.<br />

48


La sua forma d’arte è nata così: partire dall’immagine di uno scatto per<br />

oltrepassare il confine del reale ed approdare alla proiezione di quella realtà nel<br />

futuro, cogliendone i tratti più drammatici. In questo modo, i palazzi che<br />

sovrastano il piazzale di una stazione si moltiplicano, arrampicandosi uno<br />

sull’altro fino a toccare quasi il cielo, occupando tutto lo spazio possibile,<br />

sostituendo l’aria col cemento e lo spazio libero con la loro presenza opprimente.<br />

Immortalando migliaia di scorci di un pianeta in sofferenza, Costa ha affinato nel<br />

corso degli anni numerose tecniche digitali di rimodulazione dell’immagine, fino<br />

ad arrivare al punto zero, se così si può dire, della sua creatività già matura:<br />

come lui stesso ha recentemente dichiarato in un’intervista al New York Times,<br />

una decina di anni fa egli ha realizzato che non avrebbe più avuto bisogno di<br />

fotografare il reale per poi rimodellarlo sul suo sentire, ma avrebbe potuto<br />

plasmare dal nulla la propria pessimistica ma verosimile visione dell’avvenire,<br />

attraverso la fotografia digitale.<br />

In una lunga serie di lavori tematici, che ne rispecchia il cammino creativo,<br />

l’artista ha voluto elaborare e diffondere la sua personale concezione del futuro,<br />

toccando numerosi punti nevralgici della realtà presente, con una spasmodica<br />

attenzione alle conseguenze devastanti dell’impatto umano sulla salute della<br />

Terra: di fronte alle sue opere digitali, si avverte il monito insito nella<br />

desolazione che quelle immagini trasmettono. L’enorme carcassa di un<br />

sottomarino incombe su quello che resta di una città; improbabili e mastodontici<br />

edifici grigi si intrecciano in un groviglio letale dove non resta spazio per niente<br />

che rimandi ad una forma di vita; una fila di alberi, ultimo brandello di una<br />

natura martoriata e deturpata, compongono una timida schiera sopra ad un<br />

oceano di palazzi, in una città fantasma (dalla sezione “Opere” del sito ufficiale<br />

dell’artista).<br />

La complessità e la potenza immaginifica delle opere di Costa gli hanno<br />

permesso di ricevere riconoscimenti a livello mondiale (comprese svariate<br />

esposizioni alle Biennali internazionali di fotografia da Torino a New Orleans),<br />

fino ad ispirare personaggi del calibro di Norman Foster, il celeberrimo architetto<br />

di fama internazionale, autentico collezionista delle opere dell’artista italiano.<br />

Il suo ultimo lavoro, che ne attesta anche la grande poliedricità, è una<br />

collaborazione con il Teatro della Pergola di Firenze, sua città natale: Costa,<br />

infatti, ha curato le scenografie dello spettacolo “Il gioco dell’amore e del caso”<br />

(tratto dall’omonima opera di Pierre Marivaux), proponendo un background di<br />

scena composto da sue immagini “in movimento”.<br />

Guardando le opere di Costa non è difficile cogliere quel sentimento di<br />

disillusione che accompagna i visionari paesaggi proposti dall’artista, una<br />

disillusione che comunica angoscia per il futuro e che vuole essere un forte<br />

campanello d’allarme rispetto alla nostra sensibilità nei confronti del pianeta.<br />

Proprio questa nostra sensibilità potrebbe essere, vuole dirci l’artista, la chiave<br />

per scongiurare scenari che, per il momento, restano immaginari, ma che<br />

potrebbero divenire più reali di quanto potremmo pensare: a deciderlo saremo<br />

noi.<br />

10 anni di Corigliano Calabro Fotografia<br />

49


comunicato stampa da www.undo.net<br />

Lavori realizzati sul territorio e commissionati dal Festival nel<br />

corso degli anni: ricerche fotografiche che portano la firma di<br />

autori particolarmente dediti alla lettura del territorio. In mostra<br />

opere di Gianni Berengo Gardin, Francesco Radino, Toni<br />

Thorimbert, Gabriele Basilico, Enrico Bossan, Mario Cresci e altri.<br />

a cura di Valeria Moreschi e Cosmo Laera<br />

© Ferdinando Scianna<br />

GABRIELE BASILICO GIANNI BERENGO GARDIN ENRICO BOSSAN LUCA<br />

CAMPIGOTTO FRANCESCO CITO MARIO CRESCI MAURIZIO GALIMBERTI FRANCO<br />

FONTANA BERNARD PLOSSU FRANCESCO RADINO FERDINANDO SCIANNA TONI<br />

THORIMBERT<br />

50


Insieme ai fotografi saranno presenti i direttori artistici del Festival<br />

Cosmo Laera e Gaetano Gianzi.<br />

Sarà presente all’inaugurazione del 13 giugno anche Gente di fotografia, da<br />

quest’anno media partner del Festival<br />

In occasione del 10° anniversario di Corigliano Calabro Fotografia, le Gallerie<br />

Fnac ospitano una mostra collettiva che raccoglie i lavori realizzati sul territorio e<br />

commissionati dal Festival nel corso degli anni ai più importanti fotografi italiani<br />

e internazionali. Corigliano Calabro è stata così sede di indagine e di<br />

osservazione da parte di maestri della fotografia, a partire da Gianni Berengo<br />

Gardin, Francesco Radino, Toni Thorimbert, Gabriele Basilico, Enrico Bossan,<br />

Mario Cresci, Bernard Plossu, Maurizio Galimberti, Francesco Cito, Franco<br />

Fontana, Luca Campigotto fino a oggi con Ferdinando Scianna che sarà<br />

protagonista dell’edizione <strong>2012</strong> del Festival.<br />

Nel 2003 da un’idea di Gaetano Gianzi nasce Corigliano Calabro Fotografia con la<br />

direzione artistica di Cosmo Laera. Il festival produce ricerche fotografiche<br />

realizzate da grandi autori particolarmente dediti alla lettura del territorio<br />

finalizzando il tutto alla creazione di un archivio permanente che rimanga<br />

patrimonio della comunità. Naturalmente gli autori sono stati invitati e individuati<br />

per dare una rilettura e un’interpretazione dell’insieme sociale, paesaggistico e<br />

architettonico.<br />

Il primo autore a iniziare questo percorso è stato nel 2003 Gianni Berengo<br />

Gardin e le sue immagini hanno composto un libro edito da Contrasto. Nel 2004<br />

Francesco Radino ha lavorato sul rapporto tra Terra e Mare e Toni Thorimbert<br />

sulla moda con Io Donna, 2005 Gabriele Basilico sulle strutture urbane, 2006<br />

Enrico Bossan sul popolo dei giovani, 2007 Francesco Cito sulla gente e<br />

tradizioni, 2008 Mario Cresci sui luoghi e sulla memoria, 2009 Luca Campigotto<br />

sul centro storico e Bernard Plossu sull’intimità dei luoghi, 2010 Franco Fontana<br />

sui cromatismi della città, 2011 Maurizio Galimberti sulla frammentazione e il<br />

ready made; quest’anno il compito a Ferdinando Scianna di ricompattare il<br />

tessuto sociale con ambienti urbani e rurali attraverso cultura e tradizione nelle<br />

dinamiche del quotidiano. A Ferdinando Scianna va riconosciuto il merito di una<br />

sensibilità acuta e una capacità critica di un grande maestro capace di coniugare<br />

le proprie visioni con la classicità compositiva della fotografia internazionale.<br />

Corigliano Calabro Fotografia è una rassegna organizzata dalla Associazione<br />

Culturale Corigliano per la fotografia – con il patrocinio del Comune di Corigliano<br />

Calabro, il finanziamento della Regione Calabria e della Provincia di Cosenza e<br />

con il contributo di Ias Touring, Bufavella, Consorzio Sibarit, Mielemas Gallo<br />

frutta della piana di Sibari, ReNovare, Nital e Banca Popolare del Mezzogiorno –<br />

promossa per concretizzare una passione nei confronti di uno straordinario<br />

territorio ricco di preziosi siti d’arte e di bellezze naturali.<br />

Nel programma <strong>2012</strong> del Festival – che si svolgerà dal 30 giugno al 15<br />

settembre <strong>2012</strong> presso il Museo Castello Ducale di Corigliano Calabro – la<br />

fotografia sarà presente attraverso una serie di incontri, workshop, mostre,<br />

presentazioni di libri con gli autori più rappresentativi del panorama italiano.<br />

Tra le mostre in programma: Nino Migliori, Cuchi White, Ferdinando Scianna,<br />

Claudio Sabatino, Franco Carlisi, Guido Harari, Patrizia Bonanzinga, Giuseppe<br />

51


Torcasio, Paola Fiorini, Beatrice Mancini, Gaetano Gianzi, Anna Romanello, e<br />

Luigi Cipparrone. Workshop con Guido Harari e incontri con vari autori tra cui<br />

Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Franco Fontana, Gabriele Basilico,<br />

Francesco Cito, Francesco Radino, ecc.<br />

Le stampe in Fine Art sono realizzate da Antonio Manta -Fnac - via Torino 02 - Milano - Dal<br />

Lunedì al Sabato dalle ore 9.30 alle ore 20<br />

Domenica dalle ore 10 alle ore 20 -Ingresso libero<br />

Battaglia torna in pista a Palermo<br />

Guiderà il centro della fotografia<br />

La consulenza gratuita al Comune è stata indicata dal sindaco Orlando.<br />

«Educheremo i giovani agli scatti dei maestri italiani»<br />

di Matilde Geraci da http://www.ilvostro.it/<br />

La fotografa Letizia Battaglia<br />

PALERMO – Letizia Battaglia è la prima consulente a titolo gratuito del<br />

Comune di Palermo e si occuperà della creazione di un Centro Internazionale di<br />

Fotografia, presso i Cantieri Culturali della Zisa. A darne notizia nei giorni scorsi<br />

è lei stessa dalla sua pagina Facebook.<br />

Lunedì 18 giugno le è stato conferito ufficialmente l’incarico dal sindaco Leoluca<br />

Orlando, con il quale la Battaglia aveva già lavorato. Nel 1991, infatti, dopo<br />

essere stata consigliere comunale con i Verdi e assessore comunale con la giunta<br />

Orlando, veniva eletta deputato all’Assemblea Regionale Siciliana con La Rete,<br />

nonché vice presidente della Commissione Cultura.<br />

COLLABORAZIONE GRATUITA – La nomina della Battaglia, fotoreporter<br />

famosa in tutto il mondo soprattutto per aver documentato con i suoi scatti gli<br />

anni di piombo di Palermo, si inserisce all’interno del bando lanciato dal Comune<br />

e rivolto a chi fosse interessato a collaborare a titolo gratuito con<br />

l’amministrazione, o a coloro interessati alle nomine di competenza della giunta<br />

o del sindaco in enti e amministrazioni esterne. Dopo aver già fondato il Centro<br />

di Documentazione Giuseppe Impastato, la 77enne fotografa palermitana si<br />

dedicherà alla creazione del Centro Internazionale di Fotografia.<br />

52


GRANDE ENTUSIASMO E TANTI OBIETTIVI – Si è già tenuta presso Palazzo<br />

Ziino la prima riunione del gruppo, non ancora costituitosi associazione né<br />

fondazione, dimostrando una grande partecipazione sia di professionisti che di<br />

dilettanti, così come di semplici curiosi, tutti resisi disponibili allo sviluppo del<br />

“progetto a costo zero”, già approvato dal sindaco e dall’assessore alla Cultura<br />

Francesco Giambrone. In un clima di grande emozione ed entusiasmo, si sono<br />

quindi esposte le tante idee per la creazione del Centro, il cui principale obiettivo<br />

sarà quello di raccogliere tutto il materiale fotografico possibile riguardante la<br />

città, affinché artisti e cittadini possano beneficiarne. «Il Centro Internazionale di<br />

Fotografia Città di Palermo – afferma Letizia Battaglia – nasce dall’esigenza di<br />

sostenere culturalmente e coltivare i talenti emergenti che sono tantissimi e sino<br />

ad oggi isolati. Si vogliono far conoscere i maestri palermitani sparsi nel mondo e<br />

quelli del passato, ed educare i giovani fotografi alla conoscenza del lavoro dei<br />

grandi maestri italiani e stranieri».<br />

I TRE SPAZI DEL CENTRO – In attesa che venga confermata la sede in uno dei<br />

capannoni dei Cantieri Culturali della Zisa, si è già deciso che il Centro sarà<br />

articolato in tre spazi: Museo fotografico (che raccoglierà foto dei fotografi<br />

siciliani sparsi nel mondo realizzate nel passato o nel presente, a Palermo);<br />

Scuola di fotografia (per corsi e approfondimenti tenuti da fotografi<br />

professionisti, critici e professori di storia dell’arte); Galleria della fotografia<br />

contemporanea (che alternerà esposizioni di fotografi italiani e stranieri di chiara<br />

fama, a esposizioni di giovani talenti emergenti), alla quale sarà annessa una<br />

biblioteca.<br />

Al Pan i lavori fotografici di Stanley Kubrick<br />

Comunicato stampa riportato da http://www.casertanews.it/<br />

- Se non fosse diventato un regista geniale, forse sarebbe diventato un fotografo<br />

geniale. Il PAN |Palazzo delle Arti Napoli, dal 13 luglio al 9 settembre <strong>2012</strong>,<br />

presenta i sorprendenti lavori fotografici di Stanley Kubrick, che a soli 17 anni<br />

viene assunto da Look Magazine, una fra le più importanti riviste U.S.A., per<br />

documentare la vita quotidiana nell'America dell'immediato dopoguerra,<br />

attraverso le storie di celebri personaggi come Rocky Graziano o Montgomery<br />

Clift, le inquadrature contraddittorie di una New York in corsa per diventare la<br />

nuova capitale mondiale, o della giovane borghesia universitaria della Columbia<br />

University.<br />

53


Il progetto espositivo, patrocinato dal Comune di Napoli, sostenuto<br />

dall'assessorato alla Cultura e al Turismo, e prodotto da GAmm Giunti con la<br />

collaborazione del Museum of the City of New York e per la prima volta in Italia<br />

con i Musées Royaux Des Beaux-Arts de Belgique, indaga un aspetto ancora<br />

poco conosciuto del celebre regista: il suo stile nel fare fotografia, che rivela una<br />

precocissima profondità umana, poi ritrovata nei suoi futuri capolavori di regia.<br />

La mostra è inoltre un'occasione per conoscere le radici della creatività di colui<br />

che sarebbe diventato un fotografo di prima grandezza, se non avesse<br />

improvvisamente lasciato il suo lavoro per girare il film "Paura e desiderio"<br />

(1953), primo lungometraggio di una straordinaria avventura da regista .<br />

In esposizione negli spazi del PAN 168 fotografie, realizzate dal giovanissimo<br />

fotografo tra il 1945 e il 1950, stampate dai negativi originali conservati nella<br />

Look Magazine Collection del Museo di New York. Questo patrimonio fotografico<br />

fino a poco tempo fa era quasi sconosciuto, e se ne aveva traccia soltanto nelle<br />

illustrazioni degli articoli pubblicati su Look Magazine, da quando il giovane<br />

Kubrick ritrasse un edicolante affranto per la morte di Roosevelt il 26 giugno<br />

1945. La foto affascinò così tanto Look Magazine che subito lo assunse come<br />

fotoreporter nella rivista, a soli 17 anni, pubblicando da quel momento tutti i suoi<br />

lavori fotografici.<br />

Tra le opere in mostra si possono ammirare il ritratto dedicato al giovane attore<br />

Montgomery Clift, ripreso nel suo appartamento; il campione di boxe italoamericano<br />

Rocky Graziano, uomo dall'infanzia difficile e migrato oltreoceano,<br />

colto da Kubrick sotto la doccia, alla ricerca della sua anima più autentica,<br />

lontano dai riflettori. Riprendendo Betsy Furstenberg il regista-fotografo ci fa<br />

entrare nel mondo di una bellezza canonica d'altri tempi, simbolo della vita<br />

mondana newyorkese, contrapposta alla vita precaria dei piccoli lustrascarpe che<br />

si aggirano agli angoli delle strade di New York con il loro sguardo altrove,<br />

lontano dalle scarpe che lucidano. Spazio anche per gli artisti del circo, con i loro<br />

retroscena, e per il genere poliziesco come in Crimini, dove Kubrick testimonia<br />

l'arresto di due malviventi seguendo le strategie dei poliziotti fino all'avvenuta<br />

cattura, e lasciando intravedere la vena indagatrice dell'occhio del futuro regista.<br />

Negli scatti della Columbia University, il giovane osserva dietro l'obiettivo il luogo<br />

d'élite dove l'America formava la classe dirigente del futuro.<br />

Le sue fotografie (passione che ereditò dal padre, insieme a quella degli scacchi)<br />

sono in realtà racconti a episodi, storie di vite, di personaggi enigmatici,<br />

contraddittori, come è contraddittoria Alice (Nicole Kidman) in Eyes Wide Shut, il<br />

suo ultimo film, dove è tormentata tra l'amore fedele per il marito e una<br />

lancinante brama sessuale e di mistero.<br />

Contraddizione umana, dramma psicologico, mistero, seduzione, nei personaggi<br />

delle fotografie si percepisce la stessa caratterizzazione estetica dei suoi film.<br />

L'influenza della fotografia giovanile sulle future opere cinematografiche del<br />

regista deriva in parte anche dal metodo della rivista Look, che cercava una<br />

narrazione a episodi. I responsabili della rivista volevano cioè che il soggetto<br />

fosse seguito costantemente, che venisse fotografato in tutto ciò che faceva.<br />

Sebbene divenuto regista di successo, il legame con la fotografia non si spezza<br />

mai: basta considerare i lunghi tempi di inquadratura cinematografica di Kubrick.<br />

Il regista passava ore a studiare il particolare dell'immagine, la prospettiva,<br />

54


l'illuminazione, la posizione dei soggetti e degli oggetti in scena, come fosse una<br />

fotografia.<br />

Accompagna la mostra un catalogo GAmm Giunti.<br />

Visite dal lunedì al sabato 9,30-19,30. Domenica 9,30-14,30. Martedì chiuso. Infoline 081<br />

7958601.<br />

Fra le macerie, cercando l’originale perduto<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

“Il caso non esiste”, mi ha detto sorridendo e<br />

stringendomi la mano Giovanni Chiaramonte davanti alle rovine del Duomo di<br />

Mirandola. L’ho incontrato lì, dunque non per caso, qualche giorno dopo il<br />

terremoto, mentre giravo con un casco giallo in testa, scortato dai Vigili del<br />

fuoco, nella “zona rossa” della cittadina distrutta dal sisma. Anche lui era lì,<br />

casco giallo in testa, treppiede piantato nel posto giusto. Non lo conoscevo e non<br />

l’ho subito riconosciuto, ma ho capito che non era lì per un quotidiano. Ci siamo<br />

presentati, con mia grande sorpresa. Anche mentre mi occupo d’altro incrocio la<br />

fotografia, lo prendo come un segno del destino.<br />

Chiaramonte, per quei pochi che non lo conoscessero, è uno dei nostri maggiori<br />

fotografi di paesaggio, di architettura, di territorio, non un topografo ma uno<br />

sguardo critico, maturato molti anni fa in quella decisiva svolta nella fotografia<br />

italiana che fu il collettivo Viaggio in Italia promosso da Luigi Ghirri. A Mirandola<br />

è arrivato di sua iniziativa, spinto da un’ansia interiore, dal dolore per la rovina<br />

delle eredità della storia proprio in quei luoghi che frequentò con Ghirri. Aveva<br />

da poco terminato un lavoro per la facoltà di Architettura di Potsdam, in<br />

Germania, sui rapporti fra l’architettura della reggia prussiana e la cultura<br />

italiana. Ha riproposto alla Fachochschule di Potsdam una mostra istantanea<br />

sulle chiese atterrate dal sisma nella Bassa padana, aprirà il 5 luglio e avrà per<br />

titolo Omaggio all’Emilia. Un tributo doloroso a quel che crolla, e a quel che non<br />

crolla.<br />

Con grande generosità, di cui lo ringrazio, Chiaramonte ha accettato di mettere a<br />

disposizione di Repubblica Bologna e dei frequentatori di Fotocrazia un’anteprima<br />

55


delle sue immagini, accompagnate da un commento intenso e profondo<br />

appositamente scritto per questo blog. Gli lascio subito la parola.<br />

_______________________________<br />

L’originale ritrovato<br />

Ho cominciato a conoscere ed amare la pianura padana, tra il Po e Modena, a<br />

metà degli anni Settanta del secolo scorso, del millennio passato, osservandola<br />

dal finestrino di una lentissima Volkswagen Maggiolino celeste guidata da Luigi<br />

Ghirri, impegnato nelle sue esplorazioni senza fine lungo la Via Emilia, alla<br />

ricerca dell’originale perduto.<br />

Ero con lui nell’azzurro crepuscolo invernale davanti alla canonica di Cittanova<br />

immersa nella radianza del cielo illuminato dalla luna piena. “Sarebbe bello<br />

morire in un posto così”, mi disse scattando la foto, e in un posto così Luigi ci è<br />

morto davvero, nella grande casa attaccata alla canonica di Roncocesi.<br />

Da allora, da quel giorno di sanValentino del 1992, non ero più riuscito a fare<br />

una sola immagine in quei luoghi, fino al giorno del terremoto, vent’anni dopo.<br />

La mattina della seconda tremenda scossa, davanti alle immagini delle rovine<br />

che s’illuminavano da un grande televisore in un’antica casa di Cesena, ho capito<br />

che valeva anche per me quello che aveva scritto Gabriel Garcia Màrquez: “Non<br />

si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra”.<br />

56


Davanti al Telegiornale ho sentito Luigi morire un’altra volta, perché in quel<br />

momento era crollato definitivamente anche il mondo che lui aveva amato e in<br />

cui aveva vissuto e fotografato: mondo di cui anch’io facevo ormai<br />

indissolubilmente parte.<br />

Nelle mie fotografie, una luce giallo d’oro s’irradia dalle macerie della canonica di<br />

Cavazzeno, come dai mattoni crollati del Duomo di Mirandola, una luce che sento<br />

sgorgare dalla devozione alla forma d’amore che ha creato il mondo e in cui,<br />

generazione dopo generazione, sono state edificate le case e le chiese lungo la<br />

Via Emilia: una luce che s’irradia dall’origine ritrovata.<br />

Giovanni Chiaramonte<br />

Josef Koudelka / Saul Leiter<br />

FONDAZIONE FORMA PER LA FOTOGRAFIA, MILANO<br />

Comunicato stampa da www.undo.net<br />

"Zingari" ripropone la sequenza fotografica composta da 109 immagini<br />

del volume Cikani che Josef Koudelka progetto' nel 1970 e rimasto<br />

inedito. La filosofia del fotografo di strada, che lascia lo studio per<br />

cercare il ritmo della citta', corrisponde alla figura di Saul Leiter, del<br />

quale sono presentate fotografie, pitture e polaroid dipinte.<br />

57


Josef Koudelka, Zingari<br />

Zingari è senza dubbio uno dei lavori fotografici più celebri del Novecento. La<br />

mostra presentata a Forma, in prima mondiale, rispecchia fedelmente la<br />

sequenza e il menabò del volume Cikáni (zingari in ceco) che lo stesso Koudelka<br />

aveva progettato nel 1970, prima di lasciare la Cecoslovacchia, e rimasto a lungo<br />

inedito. Quel volume, riproposto da Contrasto, testimonia la spettacolare<br />

teatralità visiva che Josef Koudelka aveva concepito intorno al suo lavoro di<br />

ricognizione fotografica delle comunità gitane dell’Est Europa.<br />

In esposizione sino al 16 settembre le 109 immagini del libro, sontuosamente<br />

stampate (sotto la stretta sorveglianza dell’autore) appositamente per la<br />

presentazione di Forma. Da un lato, le immagini raccontano la quotidianità delle<br />

comunità gitane negli anni Sessanta in Boemia, Moravia, Slovacchia, Romania,<br />

Ungheria e in alcuni casi in Francia e Spagna. Dall’altro, testimoniano lo sguardo<br />

penetrante e insolito dell’autore, la sua capacità di fermare, in momenti unici per<br />

la perfetta composizione formale e la pregnanza dell’azione, scene di vita<br />

familiare, momenti di festa, di gioco e di ritualità collettiva.<br />

Una dopo l’altra, le immagini compongono un vero affresco visivo di grande<br />

potenza e con poetica malinconia registrano la fine di un’epoca, la fine di un<br />

viaggio: quello del nomadismo zingaro in Europa. Riferimento essenziale “di<br />

culto” per generazioni di fotografi, Zingari mantiene nel tempo la sua forza e<br />

conferma la grandezza del suo autore, Josef Koudelka, tra i più grandi fotografi<br />

viventi.<br />

La mostra è presentata in collaborazione con Magnum Photos<br />

Biografia<br />

Josef Koudelka nasce in Moravia nel 1938. Inizia la sua carriera come ingegnere<br />

aeronautico e diventa fotografo professionista verso la fine degli anni Sessanta.<br />

Nel 1968 fotografa l’invasione sovietica di Praga, pubblicando le sue fotografie<br />

con le iniziali P. P. (Prague Photographer, fotografo di Praga). Per queste<br />

fotografie, nel 1969 riceve da anonimo il premio Robert Capa dell’Overseas Press<br />

Club. Nel 1970 lascia la Cecoslovacchia per cercare asilo politico e, poco dopo,<br />

entra a Magnum Photos. Nel 1975, viene pubblicata la prima edizione di Gypsies,<br />

il primo di una lunga serie di libri di questo fotografo, incluso Exiles (1988),<br />

Chaos (1999), Koudelka (2006) e Invasione Praga 68 (2008). Nel corso della sua<br />

58


carriera Koudelka ha vinto svariati premi come il Prix Nadar (1978), il Grand Prix<br />

National de la Photographie (1989), il Grand Prix Cartier-Bresson (1991), e<br />

l’Hasselblad Foundation International Award in Photography (1992). Le sue<br />

fotografie sono state esposte al Museum of Modern Art e all’International Center<br />

of Photography di New York, all’Hayward Gallery di Londra, allo Stedelijk<br />

Museum di Amsterdam, al Palais de Tokyo di Parigi, alla Fondazione Forma di<br />

Milano e al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Nel 1992 ha ricevuto la nomina di<br />

Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura francese.<br />

Oggi vive fra Parigi e Praga.<br />

-----<br />

Saul Leiter, Le luci di New York fotografie, pitture e polaroid dipinte<br />

in collaborazione con Howard Greenberg Gallery, New York<br />

La filosofia del vero fotografo di strada, quello che lascia lo studio per correre<br />

lungo i marciapiedi e cercare il ritmo della città nelle insegne al neon o nei visi<br />

dei passanti, sembra disegnata su misura per Saul Leiter. Americano di<br />

Pittsburgh, classe 1923, Leiter è attratto già durante l’adolescenza dalla pittura.<br />

Lascia ben presto gli studi da rabbino e il destino che la famiglia aveva<br />

progettato per lui e si sposta a New York dove continua la sua ricerca pittorica.<br />

La visita a una mostra di Cartier-Bresson, nel 1947, deciderà il suo futuro: si<br />

procura una Leica e senza trascurare mai del tutto la pittura, comincia a<br />

percorrere la città di New York e a fermare in immagini straordinarie, prima in<br />

bianco e nero, poi anche a colori, le atmosfere, gli sguardi e gli incontri<br />

occasionali, perfino i profumi e gli odori, della metropoli.<br />

Leiter ha collaborato a lungo, soprattutto come fotografo di moda, con riviste<br />

come Life o anche Harper’s Bazaar, Elle, Nova, Vogue e Queen e in questi anni<br />

non ha mai smesso di osservare e di lavorare sulla visione. O meglio, sulle tante,<br />

possibili visioni che una vita di osservatore professionista gli offre.<br />

Le sue trasparenze sono sofisticatissime e semplici, come i titoli delle foto: suole,<br />

semaforo rosso, cappello di paglia... Perché è proprio un particolare, sistemato<br />

magari al lato estremo dell’inquadratura, che rende significativo quello scorcio,<br />

quello sguardo, quel lampo di luce, quella particolare giornata. E poi, quando i<br />

titoli non bastano più, ci saranno tante foto chiamate semplicemente strada,<br />

strada, strada: palcoscenico straordinario, regno del voyeurismo e del distacco.<br />

Ancora oggi, non ho perso il piacere di osservare le cose e ammirarle e scattare<br />

fotografie o dipingere. A volte, mi sveglio nel mezzo della notte e prendo un libro<br />

di Matisse, o di Cézanne o Sotatsu.<br />

Un dettaglio che non avevo notato prima, di colpo attrae la mia attenzione.<br />

Dipingere è magnifico. Quando mi stendo sul letto penso alla pittura. Amo<br />

fotografare ma la pittura è un’altra cosa. Ho sempre fotografato in modo molto<br />

libero, senza avere in testa nessuna particolare immagine, fotografia o dipinto,<br />

che sia. Chi vede i miei dipinti pensa che esiste una relazione tra l’uso del colore<br />

nei miei quadri e nelle fotografie.<br />

Cerco di rispettare determinate nozioni di bellezza anche se per qualcuno si<br />

tratta di concetti vecchio stile. Certi fotografi pensano che fotografando la<br />

miseria umana, puntano i riflettori su problemi seri. Io non penso che la miseria<br />

sia più profonda della felicità.<br />

59


Saul Leiter. La mostra di Forma, realizzata in collaborazione con la Galleria<br />

Howard Greenberg di New York, presenta sino al 16 settembre una selezione<br />

straordinaria e inedita di fotografie in bianco e nero, a colori, quadri astratti e<br />

figurativi oltre a una serie di splendide polaroid dipinte.<br />

Saul Leiter nasce nel 1923 a Pittsburgh e comincia i suoi studi alla scuola<br />

teologica di Cleveland. A 23 anni intraprende la carriera di pittore a New York. Le<br />

sue prime foto in bianco e nero vengono esposte al MoMA. Alla fine degli anni<br />

Cinquanta le sue foto di moda appaiono su Esquire e su Harper’s Bazaar. Nei<br />

successivi venti anni Leiter continua a lavorare per la moda. Vive, dipinge e<br />

fotografa a New York.<br />

La Fondazione Forma per la Fotografia, creata da Contrasto, si avvale per la comunicazione della<br />

collaborazione di Corriere della Sera e ATM che ospita FORMA all'interno dello storico deposito dei<br />

tram del quartiere Ticinese. FORMA si avvale dell’indispensabile partecipazione di BNL <strong>Gruppo</strong><br />

Bnp Paribas e Coop.<br />

Ufficio Stampa Forma - Laura Bianconi, stampa@formafoto.it, lbianconi@formafoto.it,<br />

0258118067, 3357854609<br />

Fondazione Forma per la Fotografia -Piazza Tito Lucrezio Caro, 1 Milano<br />

Tutti i giorni dalle 11 alle 21. Giovedì e Venerdì fino alle 23. Chiuso il Lunedì<br />

Costo biglietto: 7.50 euro Ridotto 6 euro Scuole 4 euro<br />

Architettura, città, fotografia:<br />

Stefan Müller in mostra a Padova<br />

da http://www.architetti.com/<br />

Si è inaugurata venerdì 29 giugno a Padova Stefan Müller. L’architettura della<br />

città di Padova, mostra di fotografia a cura di Cinzia Simioni e Alessandro Tognon<br />

promossa da Associazione Culturale Di Architettura con il Comune di Padova.<br />

La fotografia è la protagonista di questo evento dove sono messi in mostra<br />

alcuni scatti inediti che il fotografo ha eseguito nella città di Padova. Nella<br />

consapevolezza che la figura della città moderna viene costruita, a partire dalla<br />

fine del Settecento, nel viaggio in Italia degli architetti tedeschi, inglesi e francesi<br />

alla scoperta dell’architettura greca e romana come fondamento dell’Europa e<br />

della civiltà occidentale, l’itinerario personale di Mϋller si ferma nella Città di<br />

Padova.<br />

60


L’idea di riporre nelle mani di un fotografo il compito di descrivere le forma e i<br />

luoghi di una città come Padova, ha avuto come risultato una selezione di<br />

ventisei fotografie. Questa analisi sulla città va intesa anche come un’opera<br />

compiuta, un progetto esso stesso; un tentativo di valorizzare alcuni luoghi di<br />

una città che vive in quanto ricorda.<br />

È nell’esperienza di questi ambienti vissuti che ognuno di noi raccoglie e<br />

memorizza le proprie immagini di città. Così alcuni luoghi della Padova di<br />

Stefan Mϋller sembrano a volte messi in pausa perché ne venga colta una<br />

silenziosa teatralità, quasi meditativa.<br />

In occasione dell’inaugurazione, venerdì 29 giugno <strong>2012</strong> presso la Sala L. Paladin<br />

di Palazzo Moroni a Padova, si terrà la conferenza con Marta dalla Vecchia,<br />

assessore al commercio-turismo e attività produttive del Comune di Padova,<br />

Paolo Coltro, giornalista e fotografo, Gianni Fabbri, architetto, e Giovanni<br />

Umicini, fotografo.<br />

Scarica il flyer della mostra<br />

Stefan Mϋller (Bonn, 1965), dal 1990 al 1995 studia Scienza della<br />

comunicazione presso la Scuola professionale superiore di Dortmund. Nel 1992<br />

ottiene il primo incarico professionale dal Prof. O.M. Ungers. Nel 1994 si<br />

trasferisce a Berlino e da allora riceve incarichi da Kleihues+Kleihues, Max<br />

Dudler, Ortner+Ortner, Theo Brenner, Kahlfeldt, David Chippefield,<br />

Barkow+Leibinger e da altri famosi architetti. Dal 1998 è professore a contratto<br />

presso il laboratorio di Architettura della facoltà di Potsdam. Vive e lavora a<br />

Berlino. La sua opera viene esposta in alcune mostre personali nel 1997 a<br />

Potsdam (Città dell’ Architettura) e nel 2001 a Gibellina e presso l’Architektur<br />

Galerie Berlin, a Berlino. Presente anche con numerose fotografie nelle seguenti<br />

mostre: 2001 Architektur Landschaft Fotografie, ETH Zürich; 2004 La natura e<br />

l’artificio-9. Biennale di Architettura di Venezia; 2005 Max Dudler-Günther Förg-<br />

Architektur Galerie Berlin, Berlino; 2006 Jan Kleihues-Deutsches Architektur<br />

Zentrum, Berlino; 2006 Jan Kleihues-Architekturgalerie am Weissenhof,<br />

Stoccarda; 2006 Istituto per la cultura, l’arte e l’innovazione, Francoforte sul<br />

Meno; 2007 Uwe Schröder-Bauwerk-Architektur Galerie Berlin, Berlino; 2010<br />

Max Dudler–Galleria dell’Accademia d’arte, Düsseldorf; 2010 Max Dudler-AIT<br />

Architektur Salon, Monaco di Baviera. Importanti suoi scatti fotografici sono<br />

presenti in numerose pubblicazioni.<br />

SCHEDA EVENTO<br />

Stefan Müller. L’architettura della città di Padova a cura di Cinzia Simioni e Alessandro<br />

Tognon, Luogo Cortile pensile di Palazzo Moroni-Padova, Inaugurazione Sala L. Paladin,<br />

Padova-venerdì 29 giugno <strong>2012</strong> | ore 18.00, Periodo di apertura 29 giugno - 29 luglio <strong>2012</strong>.<br />

Cos’è italiano nella fotografia italiana<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

61


Pubblico qui una parte della mia introduzione alla riedizione della Storia della<br />

fotografia italiana di Italo Zannier, appena uscita per i tipi dell’editore Quinlan.<br />

Un autoritratto giovanile di Italo Zannier<br />

Francesi, almeno sette. Sei inglesi e altrettanti tedeschi. Poi un americano, uno<br />

spagnolo, un norvegese, uno svizzero, e perfino un brasiliano. Quanti inventori<br />

ha avuto la fotografia. Dai più inverosimili ai più accreditati, dai celebri agli<br />

ignoti, dagli spodestati rancorosi ai millantatori sbeffeggiati.<br />

Italiani, però, nessuno. La storia è ben perfida. Nella culla della pittura, nel<br />

paese dell’ingegno, nella patria che insegnò al mondo a vedere, agli inizi<br />

dell’Ottocento non si poté trovare neanche uno straccio di ciarlatano, un<br />

brevettista di provincia, un erudito da strapazzo che potessero accampare anche<br />

implausibilmente un qualche brandello di merito, una sia pur risibile<br />

rivendicazione di priorità, una minuscola prova di paternità della scoperta<br />

meravigliosa che stava cambiando per sempre il modo di guardare il mondo.<br />

Ci si provò, per la verità. Perché a tutti fu chiaro, fin da subito, che quella<br />

della fotografia (o come diavolo si sarebbe chiamata alla fin fine, giacché ogni<br />

papà stava dando un nome diverso, spesso il proprio, alla figlioletta strillante e<br />

scalciante nella culla) non era un’invenzione pretenziosa e dimenticabile come<br />

mille altre del secolo di Bouvard e Pécuchet. Era l’invenzione che mancava<br />

all’autoaffermazione borghese, attesa e prodotta da quello che è stato definito il<br />

suo “bruciante desiderio”.<br />

E allora, sotto le Alpi, ci si ingegnò, avendo perso il treno degli scopritori, a<br />

spolverare almeno quello dei precursori, evocando dagli inferi i fantasmi dei<br />

grandi eclettici del Rinascimento o anche prima, per far loro rivendicare di aver<br />

intuito, previsto, anticipato, sperimentato quel che ci mancava poco, signori<br />

credete, ma davvero pochissimo, che diventasse fotografia: ossia la camera<br />

obscura, che forse, chissà, in mano ad alcuni di loro lo diventò davvero, magari<br />

senza che se ne rendesse conto, provando e riprovando, perché in fondo era<br />

possibile, no?, la chimica dei sali d’argento era lì per tutti, e magari, a ben<br />

cercare fra le righe, ecco, forse se non Leonardo, o magari Della Porta, quel<br />

meno rinomato Cellio, ecco, lui magari ce la fece davvero pasticciando con il suo<br />

fosforo, a dipingere con la luce, andiamo a rileggere…<br />

Certo, è intrigante, curioso, ma Italo Zannier, che pure per il Cellio ha avuto<br />

una speciale predilezione, sa che non basta questo per rendere italiana una<br />

storia della fotografia che non lo fu affatto, a lungo, neppure in Italia, invasa<br />

62


com’era da dagherrotipisti e clotipisti e collodionisti calati dal nord. Del resto,<br />

l’onestà dello storico dice che il “sogno della fotografia” non è ancora la<br />

fotografia, e che la storia non è una gara a chi arriva primo, e dunque anche la<br />

legittima intenzione di scrivere una storia della fotografia italiana non si giustifica<br />

con l’ansia di trovare alla patria nostra un posticino al sole, dio dei fotografi. [...]<br />

Come pioniere degli studi storici sulla fotografia in Italia, Zannier ha avuto<br />

alcuni rarefatti precursori e pochi successori, almeno fino a tempi recentissimi, e<br />

lui sa il perché, e me lo confidò un giorno: “Sa cosa mi disse un famosissimo<br />

studioso? Abbiamo già tanta arte in Italia, non c’è tempo da dedicare alla<br />

fotografia”.<br />

La vera minorità mai superata, la vera soglia di rispetto da cui la fotografia è<br />

sempre stata tenuta distante con degnazione e sufficienza, non è quella che la<br />

separava dalla scena dell’arte, che essendo in realtà un mercato è sempre<br />

generosamente disponibile a chi promette di portar denaro (e la fotografia lo ha<br />

fatto, ed è infatti stata ammessa da tempo). No, la vera emarginazione della<br />

fotografia è stata, forse è ancora, essere considerata argomento insufficiente per<br />

uno studio a piena dignità, per dar luogo a una disciplina dotata di specifici<br />

metodi e strumenti.<br />

No, che il fotografico fosse un campo di studi a tutto tondo, questo<br />

l’accademia non l’ha mai tollerato, il mondo della cultura ha sempre preferito<br />

lavorarci di rasoio, tagliare a fette il suo corpo enorme per poterlo metabolizzare<br />

meglio: zac, la bistecca della “foto d’autore” passi pure, ma si adegui, diventi un<br />

capitolo della storia dell’Arte, e anche in quel capitolo rispetti le regole di casa: i<br />

nomi, i grandi nomi innanzitutto, quelli dei creatori, disposti in successione<br />

vasariana, ordinati in plotoni di scuole e tendenze, maggiori e minori, con gradi e<br />

stellette, medaglieri e monumenti.<br />

Le frattaglie della fotografia non-autoriale, invece, quella scientifica, quella<br />

poliziesca, quella medica, quella pornografica, quella di riproduzione, quella<br />

privata e familiare, insomma tutte le fotografie che sono delcinazioni<br />

meravigliosamente divergenti di quel magico sistema di segni, unico nella storia,<br />

dell’uomo, quelle se ne stiano tranquilline nella bassa macelleria della sociologia,<br />

dell’antropologia, della storia materiale degli oggetti d’uso, nel magazzino rinfuso<br />

delle pratiche prive di valore autonomo, dei sub-sistemi, delle sub-culture. Che<br />

miopia.<br />

“Ma la fotografia”, mi disse ancora Zannier, “non ha ha cambiato solo l’arte,<br />

ha cambiato lo sguardo dell’uomo, guardi cosa le dico: ha cambiato il mondo”. In<br />

quegli anni diceva cose simili, inascoltato, un eretico della storia dell’arte,<br />

George Kubler, che proprio la “storia delle cose”, delle “forme visive” mise al<br />

primo posto, “intendendosi in questo termine sia i manufatti sia le opere d’arte,<br />

le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni”, perché solo “da tutte<br />

queste cose insieme emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile<br />

dell’identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione”. [...]<br />

Zannier ha scritto molto, da subito, e incessantemente poi. Ha scritto e<br />

riscritto, senza paura di tornare sui suoi passi. Senza attendere che la polvere<br />

del tempo si fosse depositata. C’era un’urgenza, ed è propio quella di cui stiamo<br />

parlando fin all’inizio, l’urgenza di quell’aggettivo, italiana, che appiccicato a<br />

63


storia della fotografia chiedeva, anzi petendeva non soltanto qualche notizia da<br />

inserire timidamente nella cronologia stabilita da altri, qualche autore in più sul<br />

palmarès già composto e intoccabile, ma un approccio diverso.<br />

Quattro anni dopo avere abbozzato un manuale generale, ancora molto<br />

tradizionale, la Breve storia della fotografia, nel 1978 Zannier scrisse, per un<br />

editore anche lui fotografo, Luigi Ghirri e la sua piccola coraggiosa casa<br />

editrice “Punto e vigola”, il suo primo affresco patrio, 70 anni di fotografia<br />

in Italia. Non esisteva ancora all’epoca, se non in frammenti, alcun racconto<br />

organico della nostra vicenda fotografica nazionale che non fosse un’appendice<br />

rispettosa e subordinata alle “storie” di provenienza anglosassone. La formazione<br />

storica dei nuovi fotografi, posto che ne sentissero il bisogno, avveniva su testi<br />

stranieri tradotti, pochi anche quelli. che erano sedicenti storie generali e<br />

internazionali, in realtà fortemente nazionaliste e anzi, di più, storie collezioniste,<br />

che nascevano da, e sfruttavano e valorizzavano, gli archivi di ben precise<br />

raccolte, quella del MoMa nel caso dei Newhall, quella personale poi depositata<br />

all’università di Austin nel caso dei Gernsheim. L’impianto di queste storiografie,<br />

che finirono per mettere in ombra precedenti più originali tentativi come quello di<br />

Taft, era ricalcato sulla storiografia dell’arte: un preambolo tra il mitico e<br />

l’aneddotico sulla genesi tecnica, e poi una sequenza di personalità che presto,<br />

ripetuta acriticamente dagli epigoni, diventerà un canone da imparare a memoria<br />

come la successione cei concili ecumenici: Daguerre, Talbot, Hill, Cameron…<br />

Le storie “nazionali” della fotografia che si svilupparono in seguito<br />

(comprese quelle dei francesi, che in questo, ad onta del loro orgoglio gallicano<br />

di “patria della fotografia”, arrivarono secondi) ricalcarono quell’impostazione di<br />

successo, accentuando solo i pesi e le misure in senso patriottico. Ma questo per<br />

l’Italia non fu così vero, non fu del tutto vero. Quando Zannier si assunse il<br />

compito di colmare la lacuna, le sue diverse e successive rivisitazioni della<br />

vicenda fotografica italiana non furono la tricolorizzazione di un modello di<br />

racconto preso pari pari dalle storiografie straniere, non si limitarono a cambiare<br />

bandiera a schemi già impostati, ma pretesero, in gran parte riuscendoci, di<br />

raccontare la fotografia italiana con le lenti, con le categorie mentali della cultura<br />

italiana.<br />

Cosa rappresentò, per un paese politicamente e socialmente frammentario ed<br />

economicamente arretrato, l’arrivo di uno strumento di rappresentazione che era<br />

stato creato da e per le classi borghesi ben più compatte e avanzate dei paesi<br />

industriali? Chi, quali gruppi, quali ambienti, quali persone, accolsero e<br />

adottarono da noi lo “specchio dotato di memoria”, e cosa se ne fecero? Come si<br />

scontrò la fotografia con la tradizione iconografica di un paese immerso nella<br />

visualità dell’arte, ma incapace di vedere se stesso nella realtà sociale e civile<br />

presente?<br />

La scelta di Zannier, negli anni in cui la fotografia usciva dal ghetto anche in<br />

Italia approdando nelle gallerie e sui giornali, fu di percorrere con pazienza e<br />

metodo il labirinto di luoghi, culture, lingue, pratiche e usi in cui l’invenzione<br />

francese si perse e cambiò aspetto quando scese sotto le Alpi. il suo tentativo,<br />

capire in quale contesto l’invenzione attecchì, evitando di applicare alla vicenda<br />

fotografica italiana modelli inteprrtativi non adeguati, perché da noi la fotografia<br />

non fu un affare di Stato come in Francia, ma neppure una merce da libero<br />

mercato come nel mondo anglosassone.<br />

64


E la trovò, questa identità fotografica nostrana, su un piano cartesiano<br />

definito dalle ascisse delle diversità regionali e dalle ordinate degli impieghi<br />

sociali del nuovo strumento. La fotografia italiana nacque spezzettata,<br />

caleidoscopica, differente per città, per latitudini regionali, nella Torino sabauda<br />

e borghese non fu la stessa che nella Roma papalina e popolana; ed anche<br />

diversificata per mestieri, per professioni, perché neppure rimaneva la stessa<br />

nella bottega dell’ottico o del farmacista che nel laboratorio dell’incisore, o<br />

nell’ambulatorio del medico, o nello zaino del soldato.<br />

Nella diversità, però, una vocazione prevalente si fece strada: era l’Italia il<br />

paese dell’arte da asporto, del Grand tour di formazione per rampolli della<br />

vecchia e nuova aristocrazia continentale, che si portavano a casa i ricordini e gli<br />

appunti, e la fotografia allora affiancò e scalzò l’industria sia del souvenir basso<br />

che della riproduzione alta, con un continuum fra cartoline e albumine da<br />

incorniciare che ebbe al vertice un nome sonante, quello degli Alinari, ma sotto<br />

vide spuntare mille e mille repliche locali, gli studi cittadini degli onesti fotografi<br />

di vedute e di riproduzione.<br />

Non è esente, va detto con sincerità, neppure la Storia di Zannier dalla<br />

tentazione vasariana di definire un medagliere di artisti geniali per consegnare a<br />

loro il filo d’Arianna della narrazione. Via via che il racconto avanza nel tempo, la<br />

coralità dei primi capitoli subisce il controcanto delle personalità, prendono la<br />

parola sempre più nettamente gli autori individualmente presentati, o per scuole<br />

e gruppi, e si ha così l’impressione che la fotografia da un certo punto in poi<br />

smetta di essere quel fascio intricato di usi sociali e di pratiche diverse, cessi di<br />

evolvere nel vivo degli usi e delle pratiche diffuse per diventare un’arte il cui<br />

progresso è affidato a pochi capaci creatori.<br />

Il riflettore dello studioso punta sui gradini alti della scala, le avanguardie, il<br />

fotogiornalismo, le scuole estetiche e documentarie, ma intanto nelle strade,<br />

nelle case, nei luoghi della vita comune, si continuava a far fotografie con altri,<br />

meno autoriali intenti. Certo, per un lungo periodo la fotografia diffusa sembra<br />

davvero non avere una storia, un’evoluzione degna di interesse, e la si dà per<br />

scontata, come il basso continuo nei concerti grossi barocchi; mentre è lì, nella<br />

sua mai interrotta presenza nelle nostre vite quotidiane, che matura l’humus sul<br />

quale germoglierà la fotografia di massa del boom economico e quindi (ma è<br />

storia che questo volume allora non poteva neanche immaginare) la rivoluzione<br />

della condivisione ai tempi di Internet.<br />

Ma quando si comincia a scandagliare un mare immenso, la mappa conta<br />

meno della rotta, e a ben vedere è proprio seguendo lo spirito e il metodo dello<br />

storiografo Zannier che aiuterà il lettore (e sperabilmente, presto, nuovi studiosi)<br />

a colmare quel che nel libro non c’è, e forse non poteva esserci. Ora che la Storia<br />

di Zannier è diventata essa stessa un documento della vicenda che racconta,<br />

possiamo comprendere, con riconoscenza, quanto sia stato importante che molto<br />

presto, e con grande intelligenza critica, ci sia stato battuto davanti un sentiero<br />

sicuro da continuare a percorrere.<br />

Walter Guadagnini - 'La Fotografia' ...<br />

da http://www.laprovinciadicremona.it/cultura/letture/recensioni<br />

65


La copertina del primo volume<br />

La Fotografia. Le origini 1839 - 1890<br />

La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940<br />

a cura di Walter Guadagnini<br />

edizioni Skira<br />

MILANO — Con La Fotografia. Le origini 1839 - 1890 e La Fotografia. Una nuova<br />

visione del mondo 1891-1940 la casa editrice Skira ha cominciato a pubblicare<br />

un’esaustiva storia della fotografia prevista in quattro volumi e curata da Walter<br />

Guadagnini. L’intento è di proporre una lettura inedita dello sviluppo storico della<br />

fotografia che tenga conto degli interrogativi suscitati da questo strumento. Nel<br />

primo volume si è scelto di utilizzare una voce narrante costituita da brevi<br />

monografie, scritte da Francesco Zanot, incentrate su quello che può definirsi il<br />

destino pubblico della fotografia: testi dedicati a mostre, libri, eventi,<br />

protagonisti che hanno segnato profondamente il discorso fotografico nelle sue<br />

diverse incarnazioni, attraverso numerose e spesso sorprendenti immagini<br />

emblematiche e simboliche.<br />

La lettura è completata da saggi affidati a tre noti studiosi internazionali:<br />

Quentin Bajac, che si concentra sulla percezione della fotografia alla sua nascita;<br />

Elizabeth Siegel, che affronta le vicende della pratica dell’album fotografico, e<br />

cioè di quella fotografia privata e apparentemente ‘senza storia’, e Walter<br />

Guadagnini, che colloca in una prospettiva storica uno degli usi più comuni del<br />

mezzo fotografico, quello del racconto di viaggio e dell’incontro con l’altro da sé,<br />

il diverso, il nuovo. Il secondo volume prende in considerazione anni cruciali per<br />

la storia, anni cruciali in cui la macchina fotografica è diventata uno strumento di<br />

narrazione straordinario. Nei cinquant’anni che vanno dalla fine del XIX secolo<br />

all’inizio della seconda guerra mondiale, la fotografia si è trasformata, con<br />

l’avvento della Kodak, in una pratica di massa, e attraverso la diffusione della<br />

stampa popolare è stata fruita da milioni di persone in tutto il mondo.Maquesto<br />

periodo è anche segnato dalla presenza di alcuni dei miti della fotografia<br />

mondiale, da Alfred Stieglitz a Edward Steichen aMan Ray, da André Kertész ad<br />

Henri Cartier-Bresson a Robert Capa, da Eugène Atget ad August Sander<br />

aWalker Evans.<br />

I have a dream<br />

comunicato stampa da http://undo.net/<br />

66


Un group show di artisti che hanno scelto di utilizzare la macchina fotografica<br />

come una sorta di 'oggetto magico' per dar vita a immagini che trasgrediscono le<br />

norme della realta'. 8 <strong>Giugno</strong> - 20 Settembre <strong>2012</strong> - PaciArte Contemporary<br />

Paci contemporary è lieta di annunciare “I have a dream”, un group show di<br />

artisti che hanno scelto di utilizzare la macchina fotografica come una sorta di<br />

“oggetto magico” per dar vita a immagini che trasgrediscono le norme della<br />

realtà. Una scelta che mira a disorientare l’osservatore per trascinarlo in un<br />

mondo onirico parallelo, in cui prendono corpo i richiami sommersi nel nostro<br />

subconscio, manifestando l’ambito del sogno. Per far ciò è necessario inserire<br />

elementi e significati appartenenti al reale stesso, ma che assumono in questo<br />

contesto una connotazione metafisica.<br />

Non potevano mancare: Sandy Skoglund con una delle sue ambientazioni più<br />

spettacolari: l’installazione di Shimmering in Madness, animata dal movimento di<br />

migliaia di piccole farfalle colorate, che vibrano sul muro incamminando lo<br />

spettatore in un mondo meraviglioso …La teatrale poetica del bianco e nero di<br />

Mario Cravo Neto e di Jerry Uelsmann, nei cui lavori si ha modo di esplorare una<br />

profonda riflessione spirituale …Le “immagini-fiaba” di Maggie Taylor, così come<br />

quelle della coppia di fotografi francesi Virginie Pougnaud e Christophe Clark …Il<br />

collezionista di sogni Arthur Tress e il dissacrante Leslie Krims.<br />

Con questa collettiva Paci contemporary coglie l’occasione di far conoscere i<br />

lavori di quattro new entry della galleria: … Eric Rondepierre, la cui unicità è<br />

quella di unire i suoi scatti fotografici a vecchi fotogrammi provenienti dal mondo<br />

cinematografico in bianco e nero, ormai andato perduto.<br />

… Lori Nix capace di creare l’illusione della realtà ricostruendo in miniatura set<br />

quasi cinematografici, che poi fotografa, e che richiedono mesi e anche anni di<br />

lavoro per essere realizzati.…Grace Weston e Rommert Boonstra.<br />

Le fotografie di questi e molti altri artisti animeranno l'immaginario dello<br />

spettatore nella mostra "I have a dream".<br />

PaciArte contemporary - via Trieste, 48 - Brescia, mar-sab 10-13/15.30-19.30- Ingresso libero<br />

Le Polaroid del rottamatore<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

67


Dimostrando una certa abilità nell’uso<br />

delle immagini in funzione emotiva e suggestiva, il sindaco di Firenze Matteo<br />

Renzi nel suo intervento al “Big Bang” fiorentino di oggi ha fatto largo uso di<br />

fotografie e filmati, e a un certo punto ha anche usato, nel suo discorso, la<br />

fotografia come metafora.<br />

Brandendo sul palco due diverse fotocamere Polaroid (riferiscono le agenzie),<br />

una vecchio stile e una recente e digitale, poi scattando anche qualche<br />

immagine, il rottamatore arrembante del Pd avrebbe detto: “Le facce delle foto<br />

sono le stesse, ma tutto è diverso. Voglio arrivare a dire che anche una politica<br />

può essere così. Tentare di rappresentare la realtà con due strumenti diversi:<br />

uno vecchio stile, che non butto via, ma che fa la foto peggio di quello nuovo.<br />

Noi vogliamo cambiare macchina fotografica. Dobbiamo essere in grado di dare<br />

una foto digitale dell’Italia, senza più nostalgia del passato“.<br />

Ammiro l’abilità della scelta. Renzi ha scelto la Polaroid. Un procedimento<br />

fotografico unico nel suo genere, a lungo senza concorrenti, che ebbe un’epoca<br />

di splendore anche se non arrivò mai a dominare il mercato, poi cominciò a<br />

soffrire fino alla decadenza l’avvento di nuove tecnologie e nuovi procedimenti,<br />

arrivando a intravedere il baratro del fallimento, fino alla faticosa rinascita in<br />

diverse forme, una delle quali, lo saprete, si chiama The Impossible Project.<br />

Niente di meglio, come allegoria del Pd, non trovate?<br />

Non è un ingenuo, Renzi, e se usa l’allegoria fotografica come argomento<br />

retorico persuasivo lo fa a ragion veduta. Mette a profitto il consenso di cui gode<br />

un luogo comune, quello che sostiene che le fotocamere digitali fanno foto<br />

migliori di quelle analogiche, argomento che riposa sulla più universale opinione<br />

per cui il progresso va sempre avanti e produce oggetti e performance sempre<br />

più sofisticati e perfetti. Entrambi i luoghi comuni, va da sé, sono discutibili, sono<br />

stati discussi e confutati, ma vengono assunti come verità autoevidente.<br />

Bene, Renzi è un positivista ingenuo o un comunicatore spregiudicato, o<br />

entrambe le cose, che non sono in contraddizione. La sua abilità sa nel saltare i<br />

passaggi, nel dare per scontate le parole che usa. Cosa vuol dire che un vecchio<br />

apparecchio fa foto “peggio” del nuovo? Peggio e meglio sono avverbi<br />

comparativi, ma ci vuole un metro di paragone per comparare, non si può<br />

comparare una cosa solo con se stessa; e per sciogliere il paragone in un<br />

giudizio ci vogliono criteri, e questi criteri devono essere espliciti.<br />

68


Una fotografia non è buona o bella in assoluto, non “rappresenta la realtà”<br />

meglio o peggio in assoluto, dipende da quale realtà intendiamo, e dallo scopo a<br />

cui serve la rappresentazione. Prima dell’era digitale, le Polaroid ebbero un certo<br />

successo perché coglievano bisogni di diversa natura. Da un lato sapevano offrire<br />

il brivido della visione e della condivisione immediata, sul posto, dell’immagine<br />

appena scattata, cosa che piaceva molto ai padri di famiglia in vacanza,<br />

euforizzavano la compagnia e stringevano i legami del gruppo. Da un altro lato<br />

offrivano altri brividi a ben altri utenti: evitando il passaggio dal negozio<br />

sottocasa per lo sviluppo e la stampa, rendevano un ottimo servizio privato e<br />

discreto agli erotomani. Le vecchie Polaroid soddisfacevano dunque sia il<br />

massimo della virtù familiare sia il massimo della perversione (ed entrambe le<br />

esigenze transigevano sull’accuratezza della “rappresentazione della realtà”, si<br />

accontentavano di una buona suggestione).<br />

Meglio o peggio, per queste due esigenze così antitetiche, cosa significava?<br />

“Meglio”, per il papà fotografo, è una Polaroid che riproduce bene le sfumature<br />

degli occhi della moglie, o rende bene il colore di quel costumino delizioso della<br />

figlia in spiaggia. “Meglio”, per l’erotomane, non c’è bisogno che vi spieghi molto<br />

cosa vuol dire. Una macchina “migliore” non compie necessariamente azioni<br />

“migliori”. Vogliamo garantire entrambi questi “miglioramenti” con la nostra<br />

nuova macchina fotografica? Be’, se sei un’impresa che pensa al profitto, sì. Se<br />

sei un politico?<br />

Ho scattato qualche nuova Polaroid e non ho fatto balzi di sorpresa. Non mi<br />

sono sembrate drammaticamente diverse dalle precedenti e sfiderei tanti a<br />

riconoscere le une dalle altre. Molto dipende da quel che ci voglio fare, da quel<br />

che inquadro, da quel che ho in testa, poi penserò se lo strumento me lo<br />

permette. Per esempio un caro grande amico artista, Nino Migliori, che ha<br />

lavorato per decenni maltrattando le emulsioni Polaroid con chiavi e chiodi,<br />

durante lo sviluppo, per farne esplodere straordinari colori psichedelici, si<br />

lamenta che le nuove pellicole, avendo cambiato formula, non consentono più<br />

quel miracolo, e va ad acquistare le rimanenze delle vecchie, finché le trova, su<br />

eBay. Per lui sono sicuramente meglio quelle vecchie di quelle nuove.<br />

Questo è un blog di fotografia e non di politica, ma quel che dico vale per<br />

entrambe le cose. Il meglio-perché-nuovo non è un criterio di valore, è<br />

un’affermazione senza dimostrazione, e ogni affermazione senza fondamento è<br />

pericolosa. Più che il cosa e il come una macchina o un progetto politico siano<br />

nuovi, conta il perché, lo scopo. Prima di lasciarmi vendere una nuova macchina<br />

fotografica o una candidatura politica con la motivazione che è “meglio di quella<br />

di prima” vorrei sapere se chi me la propone pensa al “meglio” per un padre di<br />

famiglia, un artista, un erotomane, o cos’altro.<br />

Massimo Vitali | Il Fiammingo<br />

da http://2photo.org<br />

Per il Festival della Fotografia Europea <strong>2012</strong> a Reggio Emilia Massimo<br />

Vitali presenta All together … in mostra ai Chiostri di San Pietro fino al 24<br />

<strong>Giugno</strong>.<br />

69


La mostra raccoglie una serie di lavori realizzati dal 2006 sulle spiagge estive<br />

affollate di turisti e stampati su formati di grandi dimensioni.<br />

“… ad andare in scena … è un’umanità lontana dallo sfarzo del bel mondo … , dal<br />

culto dell’immagine e delle mode ma forse ancora più vera, colta in tutti i suoi<br />

aspetti, anche nei suoi vizi, nelle sue follie, con realismo disincantato e insieme<br />

con sincera simpatia. “ queste parole presentavano pochi mesi fa un’altra<br />

mostra, ma non di Vitali, bensì di Brugel il Vecchio.<br />

Al primo colpo d’occhio le tecnologiche stampe digitali di Vitali mi hanno<br />

subito fatto pensare alle scene corali del pittore ”buffone” di Anversa.<br />

Il colore marrone che unifica e confonde il brulicante caos nei giochi dei<br />

fanciulli, in Vitali diventa la luce accecante del mezzogiorno che appiattisce tutto<br />

in una sorta di bianco lattiginoso. La garbata ironia sui peccati e sulle<br />

debolezze umane riaffiora nell’agghiacciante messa a fuoco della banalità<br />

di un gesto quotidiano immortalato dallo scatto casuale.<br />

E come davanti alle scene di Brugel davanti a questa gigantesca cartolina in<br />

plexiglas si prova una sorta di fascinazione e disagio, desiderio di cominciare<br />

a perdersi nei particolari e voglia di distogliere lo sguardo.<br />

Il motivo di questo disagio deriva dallo stravolgimento di senso ed importanza<br />

che lo scatto provoca sull’evento raffigurato rispetto alla consueta percezione<br />

della fotografia. Normalmente la fotografia riprende eventi importanti oppure<br />

immortala eventi insignificanti rendendoli significativi, sempre ai Chiostri di San<br />

Pietro, vediamo, per esempio, gli scatti in bianco e nero di Federico Patellani:<br />

bambini che vanno a scuola con il grembiule e la cartella, guardano in camera e<br />

70


ci sembra, senza ombra di dubbio, un momento topico, degno di essere<br />

ricordato.<br />

Qui è tutto diverso, centinaia di gesti, espressioni, pose, situazioni, importanti o<br />

banali vengono appiattite, livellate, massificate, non c’è più distinzione tra ciò<br />

che è importante e ciò che non lo è, non c’è più distinzione tra chi è<br />

importante e chi non lo è, siamo tutti puntini ridicoli nella nostra umanità.<br />

Dico siamo, perché è proprio questo il meccanismo di disagio che Vitali fa<br />

scattare, riprendendo scene comuni, momenti della vita di chiunque, ha ripreso<br />

anche noi, anche noi ci sentiamo su quella spiaggia in costume a spalmarci di<br />

crema e la cosa ci infastidisce.<br />

Quando la fotografia è mezzo di espressione artistica la fruizione diventa<br />

quella di un’opera d’arte. Questo concetto, che sembra sempre scontato<br />

quando si partecipa ad una mostra di fotografia, cioè di arte contemporanea, ci<br />

investe in tutta la sua evidenza davanti a quelle opere di senso compiuto che ci<br />

arrivano, cioè, con tutta la forza e la profondità del loro progetto e della<br />

sensibilità di chi le ha pensate.<br />

Ma torniamo al paragone con Brugel, ci sono almeno altri due aspetti<br />

bizzarramente simili tra il fotografo ed il pittore: il primo è l’utilizzo di scorci<br />

naturali di grande suggestione, la natura sia nell’uno che nell’altro diventa<br />

spesso un elemento di contrasto, un contenitore quasi inadatto alla banalità<br />

brulicante degli abitanti che lo popolano, come a testimoniare che “in the<br />

bigger picture” la cosa importante non siamo di certo noi o le nostre vite.<br />

La seconda è la popolarità, così come Brugel a suo tempo, Vitali riesce a creare<br />

un prodotto artistico che si vende bene (una sua opera è stata la fotografia<br />

italiana più pagata nel 2008).<br />

Entrambi uscendo dagli schemi e stravolgendo le regole producono oggetti di<br />

culto ricercati proprio in quanto difficili da catalogare.<br />

Entrambi puntando il loro sguardo impietoso ma non giudice sulla normalità sono<br />

riusciti a creare opere eccezionali (nel senso letterale) cioè avvertite come<br />

eccezioni rispetto alla norma.<br />

Gallery di Immagini di Massimo Vitali Fotografo<br />

71


La macchina col buco<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

intervento di Michele Smargiassi al convegno sulla fotografia stenopeica<br />

promosso dal Musinf di Senigallia il 19 maggio <strong>2012</strong>.<br />

Foto di gruppo dentro la camera obscura stenopeica<br />

viaggiante di Marco Palmioli: all'interno, proiettata sulla parete di fondo, la piazza di Senigallia. Foto ©<br />

Marco Palmioli<br />

Da quando so di dover intervenire a questo convegno, cercando di non dire<br />

castronerie su un argomento che non conosco fino in fondo, mi faccio una<br />

domanda: potrò chiamare la scatola stenopeica “macchina fotografica”?<br />

Be’ fotografica sì, credo ci siano pochi dubbi. Ma è una macchina?<br />

Tutto sarebbe più facile se questo convegno si svolgesse in un paese<br />

anglofono, perché tutti diremmo camera (io per la verità dico e scrivo più spesso<br />

fotocamera che maccina fotografica, ma ora che ci penso lo faccio più per ragioni<br />

di brevità che per quelle che sto per dire). Camera, la stenopeica lo è di sicuro,<br />

camera obscura per eccellenza. Ma tutte le macchine fotografiche sono, alla<br />

72


ase, delle camerae obscurae. Vale anche l’inverso? Tutte le camerae obscurae<br />

con una superficie sensibile sulla parete di fondo sono macchine fotografiche?<br />

No, credo di no. La macchina fotografica è una camera obscura che possiede un<br />

meccanismo.<br />

Sarebbe stato ancora più facile se fossi stato invitato ad un convegno<br />

francofono, perché allora staremmo parlando di apparecchio fotografico.<br />

Definizione già più ampia di camera obscura. Un apparecchio è un’organizzazione<br />

di oggetti diversi disposti in modo che il loro insieme risponda a uno scopo<br />

preciso. La tavola apparecchiata serve per mangiare. Ma non ci siamo ancora.<br />

Ma non è una macchina per mangiare. La stenopeica è un apparecchio<br />

fotografico, ma è anche una macchina?<br />

Siamo daccapo. Ma non posso e a questo punto non voglio eludere la domanda<br />

che mi sono fatta da solo.<br />

Palmioli<br />

L'esterno della camera obscura stenpopeica viaggiante di Marco<br />

Definiamo allora “macchina”. Macchina è un apparecchio, un apparato,<br />

capace di svolgere, una volta ricevuto un input, una sequenza di operazioni<br />

distinte e orientate a uno scopo, operazioni che producono un lavoro.<br />

L’uomo usa una grande quantità di oggetti da lui costruiti per facilitarsi il<br />

lavoro, ma solo alcuni sono capaci di compiere da soli queste operazioni. Un<br />

cacciavite è una protesi del braccio umano, imita amplifica e migliora le<br />

performance del corpo umano, ma non è una macchina, non sa effettuare altre<br />

operazioni oltre a quelle che direttamente, singolarmente imprimiamo loro coi<br />

movimenti del nostro corpo.<br />

La macchina sa fare qualcosa anche mentre noi aspettiamo che lo faccia per noi.<br />

La macchina lavora mentre noi siamo inattivi, o in osservazione.<br />

Ogni macchina insomma ha un programma, che l’operatore può avviare, che<br />

può predeterminare con una serie di scelte iniziali, ma che poi lascia svolgersi<br />

fino al compimento del lavoro richiesto. Dunque, per sapere se posso chiamarla<br />

macchina, ora dovrei chiedermi se la scatola stenopeica abbia un programma.<br />

Si direbbe, a prima vista, di no. Niente ghiere, niente pulsanti, niente<br />

ingranaggi che scattano o si muovono uno dopo l’altro. Ma attenzione, ripeto,<br />

macchina non è sinonimo di congegno meccanico, ma di apparato programmato<br />

73


per compiere un’operazione. E allora direi che la camera stenopeica è a tutti gli<br />

effetti una macchina fotografica.<br />

L'obiettivo della camera obscura stenopeica viaggiante di Marco Palmioli<br />

Per produrre una fotografia stenopeica bisogna dare un input iniziale:<br />

togliere il tappo al forellino. Poi si lascia che il programma svolga la sequenza di<br />

operazioni a cui è predisposto: quali? Be’, la luce entra attraverso il forellino,<br />

attraversa un certo spazio oscuro, si proietta su ina superficie sensibile pronta ad<br />

accoglierla, una carta rivestita di emulsione che è stata fabbricata per lasciarsi<br />

impressionare in un certo modo tempo e misura, secondo tabelle predeterminate<br />

che conosciamo e di cui teniamo conto; dopo qualche minuto, conteggiato<br />

dall’operatore, egli chiude il tappo, e la sequenza è terminata. Il dispositivo ha<br />

svolto il suo compito.<br />

Direte: ha fatto tutto l’uomo. Ovviamente no, non è così. Ha fatto tutto la<br />

macchina, a cui l’uomo ha dato una mano. Ha partecipato alla sequenza<br />

programmata togliendo il tappo, contando il tempo e chiudendo il tappo. Si è<br />

prestato a fungere da otturatore. È diventato, consapevolmente, uno degli<br />

elementi del dispositivo. Si è fatto programma, si è fatto macchina.<br />

Ora, io non voglio fare il guastafeste a tutti i costi. Ma perdonatemi, sono<br />

fatto così, cerco sempre qualcosa da mettere sull’altro piatto della bilancia<br />

quando mi pare non sia equilibrata. E allora, a costo di fare una indelicatezza<br />

come ospite di un convegno in lode della fotografia stenopeica, vorrei provare a<br />

equilibrare qualche eccesso di entusiasmo anti-tecnologico, comprensibile ma<br />

poco fondato, che a volte sento aleggiare attorno a questa pratica fotografica<br />

così singolare e affascinante.<br />

E dunque mi sento di affermare che la fotografia stenopeica non è la<br />

liberazione dalla tecnica e dai suoi limiti e dai suoi obblighi. Non sperate di<br />

liberarvi dalla macchina fotografica. Non è possibile. Oso dire anzi che c’è<br />

fotografia solo dove c’è meccanismo programmabile (infatti continuo ad avere<br />

molti dubbi che l’off-camera, i rayogrammi, i fotogrammi, ecc. possano rientrare<br />

a pieno titolo nel campo del fotografico).<br />

Con questo non voglio negare che la stenopeica sia una pratica speciale e in<br />

qualche modo liberatoria. Voglio dire che quel che distingue la stenopeica dal<br />

resto della fotografia non è, come molti pensano più o meno chiaramente, ila sua<br />

presunta capacità di liberare il fotografo da quel fastidioso senso di estraneità<br />

che si prova maneggiando una fotocamera, quell’impressione (fondatissima) di<br />

concorrenza-competizione con la macchina fotografica che impone di venire in<br />

74


qualche modo a patti con la volontà autonoma di un meccansmo capace di<br />

produrre immagini anche in modo autonomo.<br />

Temo ci sia un certo snobismo anti-tecnologico, a volte, nelle rivendicazioni<br />

degli stenopeici, nella loro filosofia dell’immagine, che va superato perché è<br />

uguale e contrario alla tecno-euforia dei malati di digitale estremo. (Non sto<br />

parlando solo e tanto di chi, nella povertà francescana della stenopeica, è riuscito<br />

a introdurre la sofisticazione ultra-tecnologica dei forellini fatti col laser).<br />

Entrambi gli estremismi, della tecnologia e dell’anti-tecnologia, condividono un<br />

disagio nei confronti dell’apparato con cui sono costretti a collaborare e cercano<br />

di minimizzarne il ruolo. Gli stenopeici perché pensano di usare strumenti così<br />

semplici da essere pressoché inesistenti, i tecno-euforici perché si sentono<br />

pienamente padroni di strumenti potentissimi. Entrambi hanno in realtà una gran<br />

paura che la fotocamera sia più brava di loro, sia la vera autrice delle fotografie<br />

che fanno, e cercano di convincersi del contrario. Ma è proprio così, con questa<br />

incoscienza, che ne diventano gli schiavi.<br />

Ora, è evidente che il processo stenopeico è infinitamente più trasparente,<br />

ispezionabile, manipolabile dall’operatore, dei software sigillati delle fotocamere<br />

di oggi. Certo la stenopeica si avvicina molto al grado zero del processo<br />

fotografico, al minimo necessario perché quel processo possa definirsi tale: un<br />

obiettivo senza lente, una camera obscura, una superficie sensibile. Ma quel<br />

grado zero è ancora un processo, è ancora un programma, e questo fa dello<br />

strumento una macchiuna, e nessuna macchina è neutrale, disciplinata e docile<br />

ai voleri di chi la fa funzionare.<br />

Attenti allo snobismo dell’anti-tecnologia. Si converte facilmente nel suo<br />

contrario. La stenopeica può forse essere l’equivalente delle verdure ogm free, è<br />

sicuramente al riparo dalle alienazioni dei software, ma non è la “fotografia<br />

biologica”, non è la versione naturista della fotografia, non è la fotografia<br />

nudista. Non è possibile. La fotografia è per definizione immagine tecnica, e ciò<br />

che la fa diversa da ogni altra immagine prodotta dall’uomo per decine di<br />

migliaia di anni è precisamente il fatto di essere prodotta con l’ausilio di un<br />

apparato programmato per effettuare un prelievo di impronte luminose dal<br />

mondo fisico, e per farlo con quella relativa automaticità che garantisce,<br />

appunto, che sia un prelievo e non un’imitazione manuale.<br />

Possiamo, anzi dobbiamo cercare di essere più consapevoli possibile del<br />

funzionamento di questo processo, per non farcene sopraffare, per non<br />

diventarne schiavi, funzionari obbedienti, burocrati spingibottoni eterodiretti. La<br />

stenopeica ci aiuta a tornare alle basi intuitive, comprensibili del meccanismo<br />

fotografico. Ma se anziché comprenderlo per tenerlo sotto controllo pensassimo<br />

che abbiamo eliminato questo imbarazzante “collaboratore tecnico” che è anche<br />

un collaboratore creativo, se pensassimo di avere ridotto la macchina fotografica<br />

a un pennello, ci vedremmo svanire il giocattolo fa le dita. Salveremmo il nostro<br />

orgoglio di creatori unici e assoluti, ma perderemmo la fotografia.<br />

Il fotografo stenopeico integrale, quello che fabbrica da solo le proprie<br />

scatole, non sta eliminando il ricorso alla macchina. Sta cambiando semmai la<br />

sua posizione nella divisine del lavoro del processo fotografico. L’operatore<br />

stenopeico si riappropria anche, almeno in una certa misura, della funzione del<br />

costruttore, ed elimina insomma dal “collettivo creativo”, prendendo il suo posto,<br />

75


uno dei co-autori di ogni immagine fotografica: il progettista, la persona che ha<br />

stabilito le modalità (tecniche e formali) della ripresa.<br />

Alcune cose in realtà restano ancora fuori dalla sua portata: le carte e le pellicole<br />

e gli acidi di sviluppo si prendono già pronti, fabbricati industrialmente (salvo<br />

qualche raro caso di alchimista) e dunque il fantasma di un co-autore remoto<br />

esiste ancora. Ma credo di poter dire che il fotografo stenopeico si riprende in<br />

grandissima parte i compiti e le prerogative creative che da quando esiste<br />

l’industria dei materiali fotografici viene abitualmente delegata ai fabbricanti.<br />

Ma questo è il massimo che può fare per riappropriarsi della maggior quota<br />

possibile di paternità creativa dell’immagine. Una parte, per quanto piccola, gli<br />

resta ancora estranea e inaccessibile, appannaggio di quel piccolo Golem che<br />

abbiamo costruito noi stessi, magari con una scatola da scarpe, e che però ora<br />

ha una sua autonomia. C’è sempre un punto cieco, quando il fotografo prende la<br />

decisione di produrre un’immagine: c’è sempre un breve spazio temporale<br />

durante il quale noi lasciamo fare alla macchina il suo lavoro senza intervenire e<br />

senza essere ben sicuri di quel che farà. La fotocamera è un cane da riporto, noi<br />

lanciamo il bastone ma non sappiamo se e cosa ci porterà indietro.<br />

Del resto, non vi dico nulla di nuovo. L’incertezza del risultato, la disponibilità<br />

ad accettare il caso, l’errore, l’imperfezione non programmata, la serendipità di<br />

un esito non voluto ma felice, un regalo della nostra umile scatoletta, queste<br />

cose sono il pane quotidiano dei fotografi stenopeici. Ma allora concentratevi su<br />

questo. Perché questa è la fotografia. La fotografia sta tutta in quello scarto fra<br />

umano e tecnico, in quella collaborazione fra decisioni della mente umana e leggi<br />

della chimica e della fisica organizzate e strutturate in una macchina, creata<br />

certo dall’uomo, ma anche Dio che creò l’uomo alla fine dovette rendersi conto<br />

che era diverso da sé, e incontrollabile. La fotografia è la collaborazione, la<br />

competizione, la rivalità, l’accettazione il rifiuto dell’incerto, dell’incontrollabile,<br />

dell’Intrattabile (Barthes). Fotografo vero è chi conosce e rispetta (o magari<br />

combatte) l’inconscio tecnologico del suo amico-nemico strumento: caro Franco<br />

Vaccari, come vedi non dormo sonni tranquilli da quando hai avuto<br />

quell’intuizione che mi ha plagiato…<br />

Togliamoci dunque dalla testa che la macchina fotografica stenopeica sia la<br />

macchina del giardino dell’Eden, la fotografia prima del morso della mela della<br />

tecnologia, prima della caduta nel peccato mortale dell’alienazione meccanica. È<br />

forse una piccola Arca di Noè su cui possiamo provare a far salire qualche valore<br />

da salvare (ne nomino solo uno, già trattato qui: il rapporto col tempo), mentre<br />

attorno comincia il diluvio universale della fotografia ubiqua e preterintenzionale<br />

dei fotocellulari.<br />

Botto&Bruno trionfano a Madrid.<br />

Sono loro i migliori “giovani” fotografi della quarta edizione di Madridfoto. Taglio<br />

sociale e impatto emotivo, un mix che conquista la giuria<br />

di Helga Marsala da http://www.artribune.com<br />

76


Botto&Bruno<br />

L’Italia vince in Spagna. Si aggiudica il Premio Jóvenes Fotógrafos la nota coppia<br />

Botto&Bruno, rappresentata dalla galleria Oliva Arauna, nell’ambito di<br />

Madridfoto. Quarto anno per la grande manifestazione madrilena dedicata all’arte<br />

fotografica e terzo per il premio destinato ai più giovani sperimentatori:<br />

un’iniziativa portata avanti grazie alla collaborazione con la Comunidad de<br />

Madrid.<br />

Diecimila dollari il bottino che i due torinesi portano a casa. A convincere la<br />

giuria sono state le loro inconfondibili immagini di periferie urbane, restituite con<br />

cromatismi saturi e ampi tagli prospettici, tra indagine sociale e impatto<br />

emotivo: frammenti di aree abbandonate, opere incompiute, fabbriche dismesse,<br />

algide distese di cemento, piazze, campetti e parco giochi consegnati al degrado.<br />

Sporadiche presenze si aggirano, sospese, tra pozzanghere e muri scrostati,<br />

coperti di graffiti. Figure esili nascoste dietro i cappucci di felpe troppo larghe,<br />

nel tipico outfit di strada, in perfetto urban-style: sono loro l’anima chiassosa,<br />

spesso malinconica, di questi teatri contemporanei della marginalità e<br />

dell’anonimato. Gioventù solitaria in cerca di orizzonti nuovi, da scovare dietro le<br />

grigie facciate di palazzi troppo alti, tutti uguali.<br />

La seconda vita delle fotografie ri-mediate<br />

di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />

77


Il pacchetto di libri che ogni tanto trovo sulla scrivania è spesso una delusione.<br />

Questo che arriva da Udine è entusiasmante. C’è ancora speranza, allora. La<br />

fotografia non è diventata solo un giocattolo del mercato, una raccolta di<br />

figurine, un attrezzo di propaganda. Non tutto è perduto se qualcuno vede<br />

ancora nella fotografia quello straordinario, unico, incomparabile oggetto<br />

antropologico che una congiura di fortunati eventi ci ha donato meno di due<br />

secoli fa.<br />

Non conoscevo questo Centro studi Nediža, tuttora non conosco altro che<br />

quel che ne leggo sul loro sito, ovvero che si tratta di un’associazione culturale<br />

nata nel 1972 tra le valli del Natisone per conservare e studiare la cultura di quel<br />

territorio di confine. Un lavoro fatto prevalentemente con fotografie, prodotte o<br />

raccolte. E i volumetti che mi arrivano fanno parte di questo secondo genere.<br />

Sono fotografie da cassetto di casa, sono immagini vernacolari private e affettive<br />

della gente friulana e giuliana.<br />

Quasi ovunque i comini affidano agli eruditi locali la confezione di volumetti<br />

di fotografie di questo genere, a cui danno sempre gli stessi titoli,<br />

“Casteltaldeitali com’era”, “Ricordi di Roccaditizio”, stampano le foto in<br />

deprimente color seppia e le ammazzano con didascalie sospirose. Si fa una<br />

presentazione alla proloco, i compaesani acquistano un volume a testa, tutti<br />

sono contenti e la fotografia soffre.<br />

Ma questa è una cosa che non ho mai visto, non in un libro italiano (anzi italiano<br />

e sloveno: Nediža è bilingue). un approccio del genere alla fotografia trouvée l’ho<br />

78


vista solo nel lavoro creativo di Joachim Schmid in Germania, o nelle edizioni<br />

stravaganti di Erik Kessels in Olanda, in un singolo libro di Clément Chéroux in<br />

Francia. Non ci sono polvere e umor di lacrime e odor di nostalgia nelle pagine di<br />

questi straordinari librini di pochissime parole.<br />

Prendiamone uno a caso, si chiama Come scorre il fiume: foto di famiglia<br />

recuperate da stipetti di mobilio alluvionato, riprodotte così come l’acqua le ha<br />

macerate, gonfiate, maculate, slavate: magiche textures che un esteta non<br />

avrebbe azzeccato così affascinanti, misteriosi nascondimenti e sapienti elisioni<br />

che un artista concettuale non avrebbe immaginato così suggestivi, fotografie<br />

che raccontano due vite, quella delle persone della cui esistenza sono il segno, e<br />

la loro stessa vita di oggetti perituri che non hanno potuto mantenere la loro<br />

promessa di memoria eterna se non così, diventando altre immagini.<br />

Ancora: Niente di personale, pagine di una vecchia agenda omaggio di una<br />

banca, dove Pietro Vischi ha incollato immagini ritagliate da un giornalino<br />

gratuito che da anni si trova nella buca delle lettere, immagini scelte senza un<br />

preciso motivo, solo perché “raccontano di cose a me sconosciute”, un orso<br />

bianco, un violinista in calzoncini corti, una coppia di sposi bizzarri: è<br />

un’operazione di stampo surrealista, certo, ma quelle fotografie orfane di tutto<br />

sembrano improvvisamente volersi riunire in una famiglia, ed è così, perché una<br />

famiglia ce l’hanno, è la fotografia.<br />

E ancora, non la voglio fare lunga ma ogni librino è un universo, le Lezioni di<br />

fotografia, due volumetti dove Alvaro Petricig raccoglie le immagini che servirono<br />

al padre Paolo per un corso a giovani apprendisti, e il frutto pratico di quelle<br />

lezioni: il contesto si è perso, le sapienti lezioni non sono rimaste, ma le<br />

immagini sì, e ora raccontano da sole l’eterno ritorno delle forme fotografiche,<br />

l’incessante reinvenzione del medium.<br />

79


Ci sono anche, nel ricco catalogo del Centro studi, libri che sembrano di<br />

impianto più tradizionale, e storico-documentario, come il volume dedicato a Tin<br />

Piernu, fotografo autodidatta di Tercimonte, custode dei volti di una comunità, o<br />

Deriva nei continenti che raccoglie le fotografie della massiccia emigrazione<br />

oltreoceano della gente del Natisone, immagini che partivano e tornavano,<br />

proprio come corpi vicari dei migranti, ma separati dagli origjnali e destinati a<br />

viaggiare sempre in direzione inversa alla loro. E l’elenco prosegue, il catalogo è<br />

ricco.<br />

E allora, mi dico, allora si può fare. Si può prendere in carico l’eredità<br />

materiale lasciata come un relitto morenico dal grande ghiacciaio della fotografia<br />

storica, che intanto s’è sciolto al sole delle presunte rivoluzioni digitali, e farne<br />

qualcosa che non sia nostalgia, o archivio, o museo.<br />

Non si può pensare che riusciamo a conservare milioni di immagini<br />

fotografiche prodotte dagli uomini in due secoli, magari catalogandole in scatole<br />

e faldoni, in archivi e musei, come se fossero, ciascuna di esse, un’opera unica,<br />

un’opera d’arte o un reperto archeologico imperdibile. non è possibile<br />

tecnicamente, e non sarebbe neppure giusto. Le fotografie devono avere il loro<br />

destino, che è anche quello di perdersi, di degradarsi, di finire in discarica. Ne<br />

sopravviveranno comunque alcune, ma anche queste non seppelliamole nel<br />

museo etnografico, o nel museo delle memorie locali, con un numerino<br />

d’inventario come il cartellino dell’obitorio all’alluce del cadavere.<br />

Erano e sono immagini vive. Quelle fotografie orfane e nomadi, quelle<br />

immagini che hanno perso la funzione per cui furono messe al mondo, sono<br />

sicuramente documenti della storia, fonti indispensabili per la ricostruzione della<br />

vita quotidiana, ma possono sopravvivere come fotografie solo se ne qualcuno e<br />

regala loro un’altra, di funzioni, che non sia la pura semplice conservazione della<br />

propria esistenza come testimonianza di qualcosa d’altro, come se fossero solo<br />

portatori trasparenti di informazione.<br />

Ringrazio gli sconosciuti amici di Nediza per averlo fatto, senza un<br />

sistematico pomposo programma, scegliendo volta per volta un modo, un taglio,<br />

un approccio di rilettura, di ri-mediazione, di reincarnazione del fotografico.<br />

Patrick Mimran al Museo Naz.le Alinari della Fotografia<br />

Al MNAF di Firenze nuovo appuntamento con la fotografia contemporanea:<br />

Patrick Mimran, artista francese poliedrico e multidisciplinare, presenta una<br />

retrospettiva fotografica in prima assoluta<br />

da Artibrune Segnala<br />

80


Patrick Mimran, Temple Steps 2 ©Patrick Mimran<br />

Nella sede del MNAF l’Autore ha realizzato un’esposizione che raggruppa<br />

quarant’anni di fotografia in 38 immagini: dai i primi tentativi fino ad<br />

ora inediti, realizzati quando aveva appena quindici anni, alle immagini<br />

tratte dalle sue recenti serie fotografiche (come Urban Samples, Parigi,<br />

2009; Temple Steps, Miami, 2010).<br />

L’insieme che ne deriva declina un universo molto denso dove nelle<br />

fotografie immagini, simboli e oggetti del mondo contemporaneo, anche<br />

molto familiari, si combinano tra loro in incontri alle volte estranianti.<br />

L’Artista opera nel suo lavoro come un vero e proprio costruttore di<br />

immagini, che preferisce addizionare piuttosto che sottrarre simboli e<br />

forme.<br />

Egli combina tra loro più immagini e più supporti espressivi, dando alla<br />

luce composizioni visive molto ricche e differenti che affrontano i temi<br />

più disparati della contemporaneità, come la vita, la morte, la religione,<br />

il culto della bellezza, il sesso, il consumismo, attingendo da linguaggi e<br />

ambiti diversi. Mimran interviene, infatti, sulla fotografia con un attento<br />

e minuzioso lavoro di post-produzione con l’obiettivo di raggiungere le<br />

immagini desiderate. Registri diversi si sommano tra loro.<br />

Alcune immagini sembrano citare le bambole e i soggetti cari di Bellmer;<br />

altre ricalcano l’incanto e la seduzione del linguaggio pubblicitario; altre<br />

ancora riprendono la composizione e le pose di alcune divinità religiose.<br />

Il titolo della retrospettiva «Symbols as symptoms», traccia una linea<br />

guida nella lettura delle fotografie: ogni forma, sembra dire Mimran,<br />

non è mai gratuita, ma è portatrice di messaggi latenti.<br />

In una visione che è al tempo stesso personale e universale, egli si<br />

sforza di smascherare simulacri e false parvenze, mettendo in scena un<br />

immaginario molto fecondo che è sia opera della sua fantasia che del<br />

mondo che cita testualmente.<br />

In questo senso l’Autore si serve della finzione per mettere in scena la<br />

realtà: gli esseri umani sono rimpiazzati, nelle sue fotografie, da<br />

81


ambole o manichini e sono soggetti a crimini violenti, mentre gli<br />

oggetti di consumo sono mostrati in bella vista in una sorta di<br />

quotidiana ridondanza.<br />

Spaziando dalla musica alle arti visive, dal video alle nuove tecnologie,<br />

Mimran ha lavorato per il teatro e per il cinema, firmando molte<br />

collaborazioni importanti come con Peter Greenaway e il coreografo<br />

Maurice Béjart.<br />

Ha realizzato istallazioni e progetti artistici negli Stati Uniti, in Europa e<br />

anche in Italia, utilizzando sempre nei suoi lavori la fotografia.<br />

Con una forte positività tinta di humour, egli osserva nei suoi progetti i<br />

grandi temi dell’umanità – la morte, la bellezza, la sessualità, la<br />

religione – attraverso colori vivi, composizioni provocanti e giochi di<br />

parole.<br />

Non provenendo da una formazione artistica accademica, Mimran ha<br />

cominciato sperimentando la pittura all’encausto, ideale per costruire<br />

delle narrazioni, avvicinandosi alla fotografia gradualmente.<br />

Improvvisazione e spontaneità hanno sempre accompagnato la sua<br />

ricerca e sono state individuate da lui stesso come elementi<br />

fondamentali della fase creativa: “l'art gagne à ce qu'on ne réfléchisse<br />

pas”, ha detto. In quest’ottica, Mimran è convinto che nel fare artistico<br />

si debba lasciare allo spettatore la cura di reagire perché il suo giudizio<br />

è altrettanto importante, se non superiore, a quello dell’artista.<br />

Nella nota serie Billboards ad esempio, cartelloni pubblicitari che, a<br />

partire dal 2001, sono stati affissi in molte città da New York a Venezia,<br />

l’artista si rivolgeva al grande pubblico con domande e frasi taglienti ed<br />

ironiche sullo stato dell’arte e sulla sua relazione con la realtà, invitando<br />

chi osservava a reagire.<br />

PATRICK MIMRAN. SYMBOLS AS SYMPTOMS MNAF: fino al 31 luglio- Firenze, piazza S. M.<br />

Novella 14a r - tel.55.216310, fax 055.2646990 mnaf@alinari.it - Completa la mostra<br />

un catalogo edito dalla Fratelli Alinari. Fondazione per la storia della Fotografia. Prezzo<br />

di copertina 14,00 euro. Nuovo Orario: tutti i giorni compresi festivi 10,00 – 19,30,<br />

chiuso domenica<br />

Biglietteria: Intero € 9,00; Ridotto € 7,50; Convenzioni € 6,00; Scuole € 4,00; Gratis<br />

bambini fino a 5 anni - Ufficio Stampa: Alinari - Stefania Rispoli, rispoli@alinari.it - tel.<br />

055.2395207, fax 055.2395230. Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia:<br />

Largo Alinari 15, Firenze, 055.23951, fax 055.2382857 info@alinarifondazione.it<br />

www.alinarifondazione.it<br />

82


Rassegna Stampa del <strong>Gruppo</strong> <strong>Fotografico</strong> <strong>Antenore</strong> BFI<br />

a cura di Gustavo Millozzi<br />

www.gustavomillozzi.it<br />

www.fotoantenore.org www.padovanet.it/fotoantenore<br />

info@fotoantenore.org<br />

83

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!