Giugno 2012 - Gruppo Fotografico Antenore
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Sommario:<br />
GRUPPO RUPPO RUPPO FOTOGRAFICO FOTOGRAFICO FOTOGRAFICO ANTENORE, ANTENORE, BFI<br />
BFI<br />
RASSEGNA RASSEGNA STAMPA<br />
STAMPA<br />
o,, n.<br />
Anno Anno 5 o, n. n.3 n. 3 - <strong>Giugno</strong> <strong>Giugno</strong> <strong>2012</strong><br />
<strong>2012</strong><br />
Grandi fotografi a 33 giri......................................................................(pag. 2)<br />
Photo Espana al via..............................................................................(pag. 4)<br />
GBC o la religione del negativo.............................................................(pag. 5)<br />
Frantisek Drtikol...................................................................................(pag.10)<br />
Hanna Liden..........................................................................................(pag.14)<br />
Il diritto di aggiungere fumo.................................................................(pag.15)<br />
Fotografia e street art: You are not Bansky".........................................(pag.18)<br />
Bern Stern.............................................................................................(pag.19)<br />
E qui vince che bara (se ci riesce) ........................................................(pag.22)<br />
Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali a Vitalità del Negativo...............(pag.24)<br />
Fotografia e linguistica.........................................................................(pag.25)<br />
Così è se vi Parr....................................................................................(pag.27)<br />
Fotografia vs Pittura.............................................................................(pag.29)<br />
Il farmacista-fotografo delle mondine in risaia.....................................(pag.31)<br />
Olive e bulloni, a Parigi l'omaggio a Ando Gilardi..................................(pag.33)<br />
SanFelice, le foto magiche per ricominciare..........................................(pag.36)<br />
Fotografare il terremoto, contro il terremoto........................................(pag.38)<br />
Mario Dondero, la mostra antologica del fotografo...............................(pag.40)<br />
Oltre 400 persone all'inaugurazione di "Itaca" a Bibbiena...................(pag.43)<br />
Ricostruire la pianura padana attraverso le foto..................................(pag.44)<br />
Gli eBook di Contrasto..........................................................................(pag.46)<br />
Da Lady Gaga ad Angelica Jolie-Lo star-system di David LaChapelle...(pag.46)<br />
Giacomo Costa e l'arte di fotografare il futuro......................................(pag.48)<br />
10 Anni di Corigliano Calabro Fotografia..............................................(pag.49)<br />
Battaglia torna in pista a Palermo. Guiderà il Centro della Fotografia..(pag.52)<br />
Al Pan i lavori fotografici di Stanley Kubrick.........................................(pag.53)<br />
Fra le macerie cercando l'originale perduto.........................................(pag.55)<br />
Josef Koudelka / Saul Leiter................................................................(pag.57)<br />
Architettura, città, fotografia: Stefan Mueller in mostra a Padova.......(pag.60)<br />
Cos'è italiano nella fotografia italiana..................................................(pag.61)<br />
Walter Guadagnini -"La fotografia".....................................................(pag.65)<br />
I have a dream....................................................................................(pag.66)<br />
La Polaroid del rottamatore.................................................................(pag.67)<br />
Maurizio Vitali | Il fiammingo..............................................................(pag.69)<br />
La macchina col buco...........................................................................(pag.72)<br />
Botto&Bruno trionfano a Madrid..........................................................(pag.76)<br />
La seconda vita delle fotografie ri-mediate.........................................(pag.77)<br />
Patrik Mimram al Museo Nazionale della Fotografia di Firenze...........(pag.80)<br />
1
----------------------------------------<br />
Grandi fotografi a 33 giri<br />
Comunicato Stampa da http://undo.net/it/<br />
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA, ROMA a cura di Raffaella Perna<br />
Un'ampia ricognizione sul rapporto tra cover e fotografia d'autore, frutto di una<br />
completa fusione tra professionalita' e sperimentazione. Tra gli autori presenti:<br />
Erwin Olaf, Martin Parr, Pierre & Gilles, David LaChapelle, Annie Leibovitz, Ellen<br />
von Unwerth, Irving Penn, Cindy Sherman.<br />
Dopo la mostra Synchronicity. Record Covers by Artists (2010) dedicata alle<br />
copertine di dischi progettate da artisti, Grandi fotografi a 33 giri propone per la<br />
prima volta un'ampia ricognizione sul rapporto tra cover e fotografia d'autore.<br />
L'esposizione, a cura di Raffaella Perna, attraverso una selezione di circa<br />
centocinquanta dischi in vinile provenienti dalla collezione di Stefano Dello<br />
Schiavo, intende ripercorrere cronologicamente la storia delle copertine<br />
realizzate appositamente dai grandi maestri della fotografia, a partire dagli anni<br />
Cinquanta fino a oggi.<br />
Copertine scelte per la peculiare capacità di trasmettere appieno il linguaggio<br />
espressivo del fotografo, che si configurano come oggetti dalla duplice valenza<br />
culturale e commerciale: prodotti che, pur essendo realizzati su commissione<br />
nell'ambito di un'attività professionale, mostrano la forza creativa dell'autore, al<br />
di là dei vincoli imposti dalle case discografiche.<br />
Frutto di una completa fusione tra professionalità e sperimentazione, tali<br />
copertine concorrono a formare l'immaginario visivo dei diversi generi musicali: è<br />
2
questo il caso delle straordinarie cover di Lee Friedlander che, con i suoi primi e<br />
primissimi piani, ha contribuito alla creazione e al consolidarsi degli stilemi<br />
fotografici del jazz. Sempre in ambito jazz sono in mostra le copertine di William<br />
Eugene Smith, Roy DeCarava, Arnold Newman, Garry Winogrand e il bellissimo<br />
close-up di Miles Davis realizzato per l'album Tutu da Irving Penn.<br />
Nel contesto della musica rock, oltre alle cover fotografiche di artisti noti quali<br />
Andy Warhol o Mario Schifano, sono notevoli alcuni lunghi sodalizi artistici come<br />
quello instauratosi tra Robert Mapplethorpe e la cantante Patti Smith, a cui si<br />
deve la celebre copertina di Horses, inserita dalla rivista “Rolling Stone” nella<br />
lista delle cento migliori cover di tutti i tempi, o quello tra Anton Corbijn e gli U2,<br />
da cui nascono immagini entrate a far parte dell'universo visivo d'intere<br />
generazioni di fan del gruppo irlandese.<br />
In mostra ampio spazio è riservato ai grandi fotografi di moda, che sempre più<br />
spesso vengono chiamati a produrre immagini delle star del panorama musicale.<br />
Fra questi: Richard Avedon, David Bailey, Helmut Newton, Mario Testino, Bruce<br />
Weber, Ellen von Unwerth, Juergen Teller, Inez van Lamsweerde & Vinoodh<br />
Matadin ed Herb Ritts, scelto da Madonna come fotografo in diverse occasioni.<br />
Dagli anni '80 autori come David LaChapelle o Pierre & Gilles hanno trasferito<br />
nella copertina del disco lo stile spettacolare e artificiale dei loro tableaux vivants<br />
fotografici, contribuendo così a diffondere presso un pubblico vastissimo<br />
l'eclettismo sovraccarico della loro estetica postmoderna.<br />
Tra i fotografi italiani presenti in mostra Luigi Ghirri, autore fra l'altro di<br />
numerose cover di musica classica edite dalla casa discografica RCA, Luigi<br />
Veronesi, Ferdinando Scianna, Oliviero Toscani, Franco Fontana, Giuseppe Pino.<br />
Il catalogo è pubblicato dalla casa editrice Postcart, nella collana editoriale<br />
Postwords<br />
Elenco dei fotografi in mostra:<br />
Nobuyoshi Araki, Richard Avedon, David Bailey, Roberta Bayley, William Claxton,<br />
Lucien Clergue, Michael Cooper, Anton Corbijn, Gregory Crewdson, Chris<br />
Cunningham, Roy DeCarava, Franco Fontana, Lee Friedlander, Robert Frank,<br />
Luigi Ghirri, Guido Harari, Horst P. Horst, George Hurrell, William Klein, Nick<br />
Knight, Inez van Lamsweerde, David LaChapelle, Annie Leibovitz, Robert<br />
Mapplethorpe, Steven Meisel, Duane Michals, Jean-Baptiste Mondino, Billy Name,<br />
Arnold Newman, Helmut Newton, Erwin Olaf, Martin Parr, Pierre & Gilles, Tod<br />
Papageorge, Irving Penn, Giuseppe Pino, Bettina Rheims, Herb Ritts, Mick Rock,<br />
Ferdinando Scianna, Mario Schifano, Cindy Sherman, William Eugene Smith,<br />
Michael Snow, Juergen Teller, Mario Testino, Wolfgang Tillmans, Oliviero Toscani,<br />
Pete Turner, Ellen von Unwerth, Luigi Veronesi, Andy Warhol, Bruce Weber,<br />
Garry Winogrand<br />
Auditorium Parco della Musica - viale Pietro de Coubertin, 10 - Roma, orario di apertura: dal<br />
lunedì al venerdì dalle 17.00 alle 21.00, Sabato e Domenica dalle 11.00 alle 21.00<br />
Ingresso libero<br />
3
PhotoEspaña al via!<br />
A Madrid quasi due mesi con centinaia di fotografi, oltre settanta mostre<br />
e qualche nome noto.<br />
da www.exibart.com<br />
Al via oggi PhotoEspaña, il Festival Internazionale di Fotografia e Arti<br />
Visive, che giunge alla sua quindicesima edizione, dal 1998. Quasi due<br />
mesi di rassegna, fino al 22 luglio, che negli ultimi anni ha attirato circa<br />
600mila visitatori in ogni edizione e che lo hanno reso l'evento legato alla<br />
fotografia e all'arte visiva più popolare in Spagna. La kermesse<br />
madrilena ha totalizzato, partendo dalla sua prima edizione, 858 mostre,<br />
ospitate in musei, gallerie e centri d'arte della città, avvicinando anche<br />
negli ultimi tempi nuove città-partner, come nel caso di Cuenca, che<br />
ospiterà la selezione dei migliori libri di fotografia dell'anno. Dislocati per<br />
Madrid, quest'anno vi saranno qualcosa come oltre 74 mostre in 68 sedi<br />
espositive, che toccheranno i temi più vicini alla contemporaneità, dalle<br />
immagini "inquietanti" alle poetiche sociali, scavando attraverso la storia<br />
e alcuni grandi miti. Qualche esempio? C'è Andy Warhol con i test su<br />
pellicola e alcuni film alla Cineteca Spagnola, dove sarà messo in<br />
evidenza il mondo underground della Factory, unica istituzione "privata"<br />
a raggiungere gli altissimi ranghi dell'arte in un periodo brevissimo.<br />
Attraverso uno sguardo di "partitura", il curatore Douglas Crimp,<br />
accostando gli "Screen test" delle immagini metterà in scena anche la<br />
proiezione dei lungometraggi dell'artista da "Kiss" a "Chelsea Girl". Al<br />
4
Circolo di Belle Arti invece "La maleta mexicana" è un'indagine che arriva<br />
a Madrid dal Centro Internazionale di Fotografia di New York, che ha<br />
condotto un'indagine sui negativi che hanno ritratto la guerra civile<br />
spagnola, dispersi per più di sessant'anni, attraverso una "valigia" di<br />
scatti di Robert Capa, David Seymour "Chim"e Gerda Taro, considerati i<br />
primi autori di guerra della contemporaneità.<br />
E tra le "immagini ansiose" al Municipio di Madrid ci sono anche le<br />
stampe dell'italiano Matteo Basilè, insieme a un nutrito gruppo di artisti,<br />
soprattutto orientali: Miki Kratsman, Nan Lu, Wang Ningd, Eugenia<br />
Raskopoulos e Daniel Schwartz, solo per citarne qualcuno.<br />
Qui è la globalizzazione che trascende i confini a farla da padrone, con le<br />
visioni di una ristrutturazione che lavora in base alle esigenze<br />
economiche e agli interessi politici. Dunque, correlatamente, anche<br />
l'intensificarsi del conflitto e dell'opposizione tra ricchi e poveri o tra<br />
globalizzazione e nazionalismo, centro e periferia. A partire da queste<br />
considerazioni, il curatore Huang Du esplora partendo dalla razionalità, le<br />
immagini che causano ansia. Ansia intesa come attività psicologica<br />
prodotta dalla pressione esterna sulla vita, influenzata, controllata o<br />
sempre più invasa dalle immagini. Per tutte le info dettagliate, anche sui<br />
280 artisti di 44 nazionalità diverse che partecipano, www.phe.es.<br />
GBG e la religione del negativo<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
Anche questa intervista fa parte della serie “Lo sguardo italiano” che<br />
esce periodicamente in Repubblica Sera, la nostra edizione per tablet.<br />
Per recuperarle su questo blog aprire i2l collegamento con CTRL + clic su<br />
questa voce: Sguardo italiano<br />
«Un’autocitazione. La prima fotografia della macchina di fronte al mare la presi in Gran<br />
Bretagna nel ’77, e non ho mai davvero capito perché sia diventata forse la mia più<br />
famosa, mi piace ma non ci vedo molto, ne amo di più altre. Vent’anni dopo, dall’altra<br />
parte della Manica, in Normandia, trovai questa macchinina nella stessa posa. Non ho<br />
resistito. Questa è anche meglio della prima, il cielo è più scolpito, la macchina più<br />
pittoresca, ma lo so già che non diventerà famosa».<br />
Crederci o no, ma esiste al mondo una fotografia digitale scattata da<br />
Gianni Berengo Gardin. «Carpita con l’inganno!», ride GBG. Basta<br />
l’acronimo ormai per identificare il patriarca del fotoreportage italiano, 81<br />
5
anni, duecento libri, conosciuto ovunque nel mondo, quindici Leica nel<br />
cassetto, amore fedelissimo anche se con qualche scappatella. «Mi hanno<br />
messo in mano quella macchina senza dirmi nulla, ho schiacciato il<br />
bottone e ho sentito subito dal rumore che non era a pellicola…». Una<br />
foto GBG digitale è più rara del Gronchi rosa.. «No, non esiste quella<br />
foto, non la riconosco, la diseredo!». Nessuno farà cambiare idea a GBG,<br />
analogico integrale e senza abiure.<br />
Berengo, esiste uno sguardo fotografico italiano?<br />
«Non credo, non sono neppure sicuro di avere uno stile mio, figuriamoci<br />
se ce n’è uno italiano. Gli altri dicono che ne ho uno, di stile, ma non<br />
sono riusciti a convincermi. Dicono ‘Berengo, questa è proprio nel tuo<br />
stile’, e io non capisco. Certe volte penso che sia un certo modo di<br />
mettere insieme una figura in primo piano e una seconda azione in<br />
secondo piano, ma non vale per tutte le fotografie che ho fatto».<br />
«All’epoca ne preferii una simile, ma mi sono un po’ pentito, non era così intensa. Forse<br />
feci una scelta frettolosa, c’era da rispettare qualche scadenza, non so. Quando poi<br />
scegli una foto, finisci che ricordi solo quella. Ma in questa, la bambina è mossa, si<br />
capisce che sta saltando, ha una bella espresisone, c’è la tensione del gioco… Ho fatto<br />
bene a darle un’altra possibilità di esistere».<br />
Maestri?<br />
«Tantissimi. Se devo dire la verità, soprattutto francesi: Boubat,<br />
Doisneau, Ronis, soprattutto Willy Ronis che ho conosciuto bene e mi ha<br />
insegnato tanto. Ma anche gli Americami della Fsa, la Lange, Smith… Ho<br />
sempre guardato molto le foto degli altri, ho duemilacinquecento libri di<br />
reportage e li sfoglio continuamente».<br />
Volevo dire, maestri italiani?<br />
«Paolo Monti, Ugo Mulas. Ma non erano reporter. Da loro ho preso<br />
l’amore per le forme, ma come si racconta una storia ho dovuto<br />
impararlo un po’ da solo».<br />
Un po’ da Cartier-Bresson…<br />
«Be’, quando uscì Images à la sauvette fu un evento, all’epoca di libri di<br />
fotografie ne usciva uno all’anno, costava tantissimo ma dovevi averlo se<br />
6
ti consideravi un fotografo. E nella rarità di esempi, è chiaro che ti<br />
influenzava. Mentre adesso nessuno riesce materialmente anche solo a<br />
sfogliare una volta tutto quello che esce. E non ci sono più maestri,<br />
infatti. I giovani fotografi guardano su Internet quello che fa il collega. Si<br />
spiano tra loro, spiano tra loro, si imitano fra loro».<br />
«Donne che vanno e vengono, ma lentamente. L’atmosfera della nevicata sul mare e<br />
sui ponti, con quella navona enorme che avanza… Mi ricorda una foto che ho già visto,<br />
di un fotografo francese, non so bene, più probabilmente mi ricorda Il porto delle<br />
nebbie di Jean Gabin, io amo tanto il cinema francese».<br />
Libri. Quanti ne ha fatti?<br />
«Dopo i duecento ho smesso di contarli, come l’alpinista quando arriva<br />
sull’Everest: continua a scalare altre montagne ma non se ne vanta<br />
più…».<br />
Non le piacevano i giornali?<br />
«Forse a loro non piacevo io, non mi facevano lavorare. E allora ho fatto<br />
libri con chi me li faceva fare e sono entrato nella dimensione del<br />
racconto lungo con 50, 70, 150 fotografie… Ho appena finito questo<br />
lavoro sull’Aquila, c’ero stato negli anni Novanta, ho ripreso quelle foto<br />
oggi e le ho messe a confronto con la distruzione, non è il primo<br />
terremoto che ho fatto, ma è diverso, una città completamente<br />
sbriciolata, nessuna casa si è salvata, e poi lasciata lì, un po’ ripulita,<br />
come fosse Pompei… Credo di aver fatto un libro di impegno civile».<br />
7
«Adesso mi piace molto la confusione che regna in questa immagine, forse quando la<br />
scattai invece mi sembrò eccessiva. I giudizi cambiano. Il finale di una vogata, La<br />
Spezia, nel 2005. Quei gesti paralleli dei due ragazzi, gli altri che si affollano intorno,<br />
quelli caduti in acqua… Una buona foto è sempre più complessa di quel che ci<br />
aspettiamo».<br />
Ma le sue foto che tutti ricordano sono singole, solitarie…<br />
«Sì, ma anche quelle raccontano, il loro racconto è dentro. Quel che non<br />
mi piace delle fotografie di reportage dei fotografi giovani è che non<br />
raccontano più, illustrano: sono fatte tecnicamente con la macchina<br />
fotografica ma mentalmente col pennello, sono pitture, puntano tutto<br />
sulla perfezione formale. E poi…».<br />
Lo so cosa sta per dire.<br />
«Molte sono costruite. Non naturali, taroccate».<br />
La sua battaglia contro il digitale è implacabile.<br />
«Il digitale ha solo due vantaggi: che la foto la fai e un secondo dopo<br />
arriva a Londra a New York o dove vuoi. Secondo, che puoi adeguare la<br />
sensibilità ad ogni scatto senza cambiare pellicola. Basta. In tutto il resto<br />
è tecnicamente ed esteticamente inferiore alla pellicola. Ma ha un<br />
vantaggio, che con Photoshop dopo la cambi come vuoi. Almeno lo<br />
dichiarassero…».<br />
«Lucca, sotto le mura. Senti lo scatto, senti perfino la forza centrifuga che quel ciclista<br />
deve compensare facendo la curva. Ecco, queste sono un po’ le cose che amo fare, se<br />
c’è uno stile mio è qui: un’azione in primo piano, una forma in secondo piano. C’è una<br />
foto simile di Cartier-Bresson, non mi fa dispiacere ricordarlo. Le fotografie hanno una<br />
vita segreta, parlano fra loro».<br />
Lei dichiara che non lo fa.<br />
«Ci metto il timbro: “Fotografia non ritoccata o modificata al computer”.<br />
Anzi adesso ne metto anche un altro, “Fotografia stampata ai sali<br />
d’argento”…».<br />
8
Ma così le dicono del passatista…<br />
«Ho le spalle abbastanza robuste per sopportarlo. Insomma si potrà pure<br />
essere convinti di quel che si fa, no? Per me scattare in pellicola e<br />
guardare i provini ancora umidi e stampare su carta è anche un piacere<br />
fisico, se proprio devo dirlo».<br />
Il suo amico Elliott Erwitt taglia corto dicendo: uso la pellicola<br />
perché sono un idiota.<br />
«Bravissimo Elliott, io invece ormai taglio corto e dico: sono religioso,<br />
appartengo alla chiesa del negativo. Ma li ha mai visti in azione, i<br />
reporter digitali? Passano più tempo a riguardare sul visorino la foto che<br />
hanno appena fatto che a scattare, sono lì a testa in giù, ripiegati su se<br />
stessi, e si perdono la foto dopo, che magari era quella buona. È un tic<br />
nervoso, un vero problema psicologico».<br />
"È Venezia, 1958. Questa non l’avevo mai stampata perché a vederla sui provini mi<br />
pareva scura. L’avevo scartata per un pregiudizio… Poi ho guardato meglio e ho visto<br />
che c’era del buono, e molto, e si poteva recuperare. In un campo era in corso questa<br />
partita di pallone disordinata, c’è il prete, e tutti hanno dei bei movimenti. È piaciuta<br />
molto anche a Scianna".<br />
Ma davvero sta qui tutto il problema?<br />
«No, in realtà quel che penso è che il digitale ha cambiato soprattutto la<br />
mentalità con cui si fanno le foto, il modo a in cui si pensa la foto prima<br />
di farla. Noi con 36 pose stavamo attenti a non sprecare scatti, il lavoro<br />
del fotografo era soprattutto decidere quando non premere il bottone.<br />
Adesso puoi scattare quante foto vuoi, in fretta, e poi in testa pensi:<br />
tanto dopo le metto a posto. Cambia anche il modo di vedere le foto<br />
degli altri. Mi hanno detto che su un blog di fotografia un ragazzino ha<br />
scritto della mia foto del vaporetto, quella che piaceva a Cartier-Bresson,<br />
dicendo “l’ha messa insieme con Photoshop”, ma ragazzo mio, quella<br />
foto è degli anni Cinquanta…».<br />
Ha pubblicato un libro di inediti, ne vediamo qui alcuni estratti…<br />
9
Cosa l’ha spinta a riaprire i cassetti?<br />
«Le fotografie invecchiano e cambiano sapore come il vino. Non so<br />
neppure io cosa cercavo, ma alcune foto che avevo scartato dopo molti<br />
anni mi hanno chiamato, sono venute fuori da sole, e ce n’erano tante.<br />
Ho potuto ritrovarle perché erano lì, sul negativo, mentre oggi le<br />
fotografie scartate spesso vengono cancellate dalle memorie elettroniche<br />
e non torneranno più. Credo che questo libro sia una specie di consiglio<br />
ai giovani fotografi, a quelli che corrono a Gaza o in Afghanistan a<br />
cercare la fotografia che fa sensazione, per vincere i premi, poi magari<br />
buttano le altre: osate il banale, l’insignificante, vedrete prima o poi che<br />
ha un significato, che c’è dentro la vita, se la sapete cercare».<br />
Frantisek Drtikol<br />
comunicato stampa da http://undo.net<br />
Galleria Carla Sozzani- Corso Como 10 – 20154 Milano, Italia<br />
Lunedì ore 15.30 – 19.30, Martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato ore<br />
10.30 – 23.00. Domenica ore 10.30 – 19.30, Ingresso libero<br />
Woman in The Light.<br />
Nell'opera dell'artista praghese la figura femminile, attraverso<br />
forme e movimenti disposti ad arte, il pathos sentimentale delle<br />
espressioni e il virtuosismo della composizione, diviene una<br />
visione ossessiva: santa e vergine, demone e femme fatale. In<br />
mostra 60 fotografie vintages.<br />
L’opera di František Drtikol, tra i primi anni del Novecento e la metà degli<br />
anni Trenta, è stata fonte d’ispirazione per generazioni di fotografi fino ai<br />
nostri giorni: nudi lirici ed evanescenti, l’uso delle luci, le ombre e le<br />
suggestioni.<br />
Drtikol è affascinato dal corpo femminile in quanto origine della bellezza,<br />
del pensiero e dell’anima. La figura femminile, attraverso forme e<br />
movimenti disposti ad arte, il pathos sentimentale delle espressioni e il<br />
virtuosismo della composizione, diviene una visione ossessiva: santa e<br />
vergine, demone e femme fatale.<br />
I suoi nudi femminili si possono distinguere in due ricerche: una lirico,<br />
l’altra decisamente più drammatica, anche se spesso i due temi si<br />
sovrappongono.<br />
I ritratti delle donne fragili e delicate ricordano la Beatrice di Dante, le<br />
angeliche figure Pre-Raffaellite o le misteriose creature di Gustav Klimt.<br />
Le loro espressioni e la loro gestualità riportano all’atmosfera<br />
melanconica e di sogno dell’Art Nouveau.<br />
A queste figure languide e trasparenti si sovrappongono le femmes<br />
10
fatales, simboli di amore e di morte, come nelle opere di molti artisti del<br />
Simbolismo e dell’Art Decò.<br />
Untitled (Nude<br />
with disk over head), ca. 1927-29. Copyright Ruena Knotkovà-Bokovà. Courtesy Gallery Kicken Berlin<br />
In modo particolare, la figura di Salomé stimola la fantasia di Drtikol,<br />
così come ha stimolato e ispirato Gustave Flaubert, Oscar Wilde, Aubrey<br />
Beardsley, Gustave Klimt.<br />
Le fotografie di Drtikol della Salomé nuda sono il simbolo di un’epoca in<br />
cui lussuria e punizione, eros e thanatos, i conflitti tra sesso e morte,<br />
culminano negli insegnamenti e negli scritti di Freud. La polarità<br />
dell’erotismo e della morte è rappresentata nelle fotografie, mai<br />
pubblicate, di donne crocifisse.<br />
Drtikol cura con attenzione lo sfondo dei suoi set fotografici,<br />
specialmente l’illuminazione, e sceglie semplici forme come cerchi, onde,<br />
colonne, eliminando tutti gli elementi di possibile disturbo, per<br />
concentrarsi sulla bellezza della linea pura.<br />
In mostra anche alcune immagini della serie “Vlna” (onda), uno dei suoi<br />
11
lavori più celebri e significativi: le forme geometriche sono da sfondo o il<br />
corpo femminile gioca con esse, è la correlazione fra le linee organiche<br />
ed inorganiche, l’armonia tra un corpo vivo e la materia inerte. Come<br />
sottolinea lo stesso Drtikol in un commento del dicembre 1914: “La vita<br />
è come un’onda. Le creste delle onde rappresentano la gioia e la felicità,<br />
le acque che formano l’onda sfortuna e tristezza… Credo che le persone<br />
aspirino a raggiungere quella pura tranquillità che artisti e scienziati<br />
hanno sempre sognato.. Ogni cosa nel mondo è ripartita.”<br />
Nella prima metà degli anni Trenta Drtikol, non trovando figure reali in<br />
grado di corrispondere alla sua immaginazione, crea egli stesso le sue<br />
figure femminili, ritagliando cartone o legno, secondo il suo ideale di<br />
forma femminile: un corpo sottile e molto slanciato fra seno e fianchi,<br />
idealizzato ed astratto.<br />
In una lettera Drtikol commenta così il suo lavoro: “In passato, quando<br />
avevo un’idea e provavo a realizzarla con una modella in carne e ossa,<br />
ho sempre fallito. Ora disegno o modello la posa che ho in mente e<br />
costruisco da solo gli oggetti, le forme geometriche e quant’altro mi sia<br />
necessario. Sistemo gli oggetti e provo le luci affinché rendano l’effetto<br />
migliore così da corrispondere il più possibile alla mia idea. Certamente<br />
non uso solamente silhouettes, ma anche piccole figure tridimensionali<br />
studiate con precisione fino all’ultimo dettaglio perché corrispondano alla<br />
realtà – e non siano perfette: ho idealizzato il corpo e creato il mio<br />
archetipo personale. E solo ora posso dire di essere soddisfatto del mio<br />
lavoro perché ogni cosa proviene da me, dalla A alla Z. L’idea e il<br />
materiale che utilizzo.”<br />
In quegli anni, Drtikol è impegnato in una continua e profonda ricerca<br />
spirituale che lo allontanerà dalla fotografia per avvicinarsi alla pittura,<br />
alla meditazione yoga e alle religioni indiane, tibetane, cinesi. Dal 1935,<br />
si dedicherà esclusivamente alla pittura.<br />
BIOGRAFIA<br />
1883 František Drtikol nasce a Praga;<br />
1901-1903 Studia fotografia a Monaco;<br />
1910-1911 Apre il suo studio fotografico a Praga che diventa presto il centro<br />
culturale della città:<br />
1914-1918 partecipa alla Prima Guerra mondiale arruolandosi con l’esercito<br />
austro-ungarico;<br />
1920 Sposa la sua modella preferita, la danzatrice Ervina Kupferova, che posa<br />
per lui come Cleopatra, Salomé e persino Madonna con Bambino;<br />
1923 inizia il periodo più creativo della sua carriera;<br />
1925 partecipa alla Exposition internationale des arts décoratifs et industriels<br />
modernes di Parigi e vince il Grand Prix;<br />
1926 divorzia da Ervina Kupferova<br />
1927-1929 i suoi lavori vengono esposti in diverse città del Stati Uniti;<br />
1929 pubblicazione della sua prima monografia a Parigi Les nus de Drtikol;<br />
1930 realizza la serie “Silhouettes”;<br />
1931 Espone al Brooklyn Institute of Arts and Sciences a New York;<br />
1935 chiude lo studio e si trasferisce fuori Praga dove si dedica alla pittura, alla<br />
meditazione e alla traduzione di testi letterari buddisti e tibetani;<br />
1938 pubblicazione del libro Žena ve svělte (Woman in Light);<br />
1942 sposa la sua assistente Jarmila Rambouskova;<br />
12
1948 Dona tutte le sue fotografie al museo delle arti figurative di Praga. Il<br />
nuovo regime proibisce la pubblicazione delle sue opere;<br />
1955 dopo un lungo periodo di censura, la rivista Czechoslovak Photography gli<br />
dedica un articolo “A conversation at Frantisek Drtikol’s”;<br />
1961 Muore a Praga dimenticato dai più.<br />
MOSTRE<br />
1925 Exposition des Arts Décoratifs, Parigi<br />
1927 The Camera Club of Syracuse, YMCA, Syracuse, New York<br />
The Schenectady Camera Club, Schenectady, New York<br />
The Lansing Camera Club, Lansing, Michigan<br />
The Milwaukee Camera Club, Milwaukee Art Institute, Milwaukee<br />
The Photo Club of Baltimore City, Baltimore<br />
The Photographic Society of Philadelphia, Philadelphia<br />
100 Jahre Lichtbild, Gewerbe-Museum, Basilea<br />
1928 The Chicago Camera Club, Chicago<br />
The Cleveland Photographic Society, Cleveland<br />
The Portage Camera Club, Akron, Ohio<br />
1929 The Museum of Fine Arts, Houston<br />
Salon Polskiego Towarzysztwa Milośników Fotografii, Varsavia<br />
1930 The Kodak Camera Club, Rochester, New York<br />
The Camera Club, London<br />
1931 The Brooklyn Institute of Arts and Sciences, New York<br />
1933 The Royal Photographic Society, Londra<br />
Cambridge University Camera Club, Cambridge<br />
Výstavní místnost Klubu přátel umění, Olomouc<br />
1936 City Art Gallery, Durban<br />
Arts Hall, Port Elisabeth<br />
1967 U Hybernů, Interkamera, Praga<br />
Dům kultury, Kroměříž<br />
1972 Uměleckoprůmyslové Museum, Praga<br />
1973 Dům umění města Brna, Berna<br />
Sicof 73 – Salone internazionale cine foto ottica e audiovisivi, Milano<br />
1974 The Photographers’ Gallery, Londra<br />
Komorná galéria forografie Profil, Bratislava<br />
1976 Galerie Houyoux, bibliothéque Royale, Bruxelles<br />
1983 Galerie Rudolf Kicken, Colonia<br />
1984 Nieuwe Kerk, Amsterdam Foto 84, Amsterdam<br />
1988 Robert Koch Gallery, San Francisco<br />
1989 Muzeum české literatury, Praga<br />
1990 Société Française de Photographie, Parigi<br />
Rencontres Internationales de la Photographie, Arles<br />
1991 Howard Greenberg Gallery, New York<br />
1992 Musée de la Photographie, Charleroi<br />
1994 Galleria Carla Sozzani, Milano<br />
1999 Fondation Neumannm, Gingins<br />
2003 Moscow House of Photography, Mosca<br />
2004 Uměleckoprůmyslové museum, Praga<br />
2005 Hungarian House of Photography, Budapest<br />
2007 Foto: Modernity in Central Europe 1918 – 1945<br />
National Gallery of Art, Washington D.C.<br />
Solomon R. Guggenheim Museum, New York<br />
Milwaukee Art Museum, Milwaukee<br />
Czech Vision, Galerie Kicken Bekin, Berlino<br />
Czech Vision, Howard Greenberg Gallery, New York<br />
<strong>2012</strong> GATE Gallery and Information Center, Praga<br />
13
HANNA LIDEN<br />
comunicato stampa da http://undo.net/<br />
Ghost Stories. L'educazione atea scandinava e l'amore per<br />
i film dell'orrore spiegano l'estetica della fotografa, che<br />
unisce nella stessa immagine naturalismo pagano,<br />
abbandono apocalittico e umorismo.<br />
Hanna Liden la fotografa di origine svedese basata a New York, fa<br />
fotografie che sono difficili da descrivere. La linafferrabilità e<br />
sfuggevolezza delle immagini di Hanna fanno parte del fascino che hanno<br />
fatto perdere la testa ai curatori della Biennale del Whitney Museum nel<br />
2006 e ai galleristi di Rivington Arms. Liden ha una capacità incredibile di<br />
sposare un naturalismo pagano con un abbandono apocalittico nello stile<br />
de ‘Il Signore delle Mosche’ ma non senza umorismo.<br />
La sua educazione atea scandinava e l’amore per I film dell’orrore spiega<br />
la sua acuta estetica. “ I miei genitori sono scienziati e sono cresciuta<br />
senza religione – quasi contro la religione – in una società socialista, “<br />
dice. “ Quindi sono sempre stata attratta o ho sempre provato invidia per<br />
le persone che credono nel paradiso o in un’altra vita dopo la morte e<br />
cose del genere. Ero ossessionata dalla morte ma ora un pò meno.”<br />
Se le sue immagini – con maschere, paesaggi surreali e simbolismo auto<br />
inventato – raccontano una storia è perchè Liden assembla le foto come<br />
un regista, complete di attori e materiale di scena. “ Sono influenzata dal<br />
14
cinema più che dall’arte contemporanea.<br />
Adoro Ingmar Bergman. Sono cresciuta con I suoi film. A mia nonna<br />
piaceva tantissimo ma I miei genitori pensavano fosse troppo<br />
conservatore. Mi piacciono molto anche David Lynch e David<br />
Cronenberg.” La fotografa svedese sta al momento lavorando ad un libro<br />
di fotografie che non sono state utilizzate in varie mostre e prevede di<br />
fare un film prima o poi. “ Leggevo molti libri di fantascienza quando ero<br />
giovane. Le mie foto sono influenzate dalla distopia che segue una<br />
catastrofe, ma sono anche molto idealistiche”, dice la nostra eroina<br />
bergmaniana.<br />
Mostre selezionate includono: ‘Ghost Stories’, Workshop, Venezia, <strong>2012</strong>,<br />
‘Ghost Town’, Maccarone, New York, <strong>2012</strong>, ‘Cats & Dogs’ (con Nate<br />
Lowman), Carlson, London, <strong>2012</strong>, 'Out of My Mind Back in 5 Minutes’,<br />
Maccarone, New York, 2011, 'Lobster Roll’, The Fireplace Project, East<br />
Hampton, NY, 2011, 'New York Minute’, Garage Center for Contemporary<br />
Culture, GCCC, Moscow, 2011,’Post 9/11’, OHWOW, Los Angeles, 2011,<br />
'What¹s He Building in There?’, Fuse Gallery, New York, 2011, 'Fall Ten’,<br />
Galerie Gmurzynska, Zurich, 2010, 'Come As You Are Again’ Hanna Liden<br />
and Nate Lowman, Salon 94, New York, 'As Black As Your Hat’, Half<br />
Gallery, New York, 'New York Minute’, MACRO, Roma, 2009, 'In a Silent<br />
Conversation with Ingmar Bergman’, Kunstmuseum Thun, Switzerland,<br />
'Underdog’, Gagosian, New York, 2009, 'Day for Night’, Whitney Biennial,<br />
Whitney Museum of American Art, New York, 2008, 'Hairfaces,<br />
Scapegoats, Bloodsuckers and a Few Deaths’, Rivington Arms, New York,<br />
2006, 'Beyond the End’, Peter Kilchman Gallery, Zurich.<br />
Workshop Arte ContemporaneaDorsoduro 2793 A - Venezia; Mar-sab 10.00-13.00 e<br />
15.00-19.00 - Ingresso libero<br />
Il diritto di aggiungere fumo<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
Dalla guerra, sosteneva il rimpianto Ando Gilardi, non si può ricavare<br />
alcuna immagine contro la guerra. Per questo motivo, spiegava in un<br />
vecchio saggio sulle foto della prima guerra mondiale, la censura militare<br />
sulle fotografie è un “tabù impossibile”, sempre agitato ma in realtà<br />
superfluo, perché la guerra non si vergogna mai del proprio volto,<br />
sapendo bene che ha mille modi per nascondere il diabolico dietro il<br />
15
etorico, la ferocia dietro l’eroismo, la crudeltà dietro la necessità.<br />
Credo volesse dire (ma forse qui sono io che sto disperatamente<br />
cercando di conciliare quella sua cruda affermazione, di cui colgo il<br />
nocciolo di verità, con il mio ottimismo umanista) che non esiste la<br />
fotografia pacifista, ma esistono semmai i pacifisti che, guardando le<br />
fotografie, si ricordano di esserlo. Che di per sé nessuna fotografia si<br />
schiera contro la guerra, se contro la guerra non si sono schierate prima<br />
le coscienze: alle quali, a quel punto, indica solo dove guardare.<br />
Credo che una dimostrazione di quanto sopra sia la polemica appena<br />
sollevata dal blog Duckrabbit contro una campagna pubblicitaria di<br />
sistemi d’arma basata su una fotografia “di guerra” di Ron Haviv. La<br />
polemica ha il vago sapore, non piacevole, di un dispetto fra concorrenti,<br />
essendo Duckrabbit anche e soprattutto una società di produzione di<br />
contenuti digitali formata da comunicatori, videomaker e fotografi.<br />
Mentre Ron Haviv è, come molti di voi sapranno, membro della notissima<br />
agenzia VII, che conta fra i suoi fondatori James Nachtwey, e si propone<br />
come una cooperativa di fotografi con coscienza e con un orientamento<br />
prevalentemente umanista, solidale con le vittime delle guerre.<br />
Bene, l’oggetto della disputa è principalmente l’immagine che<br />
riproduco qui sopra. Una pagina pubblictaria della Lockheed Martin, che<br />
risulta essere una delle più grandi imprese nel settore della costruzione<br />
di armi, uno dei principali fornitori del Pentagono. Il poster è visibile sul<br />
sito dello stesso Haviv (nei portfolio commerciali e pubblicitari), che è<br />
l’autore della fotografia utilizzata, un’immagine altamente simbolica di<br />
solchi di tank nel deserto.<br />
L’head del messaggio recita, liberamente tradotto, “I bersagli mobili<br />
ora hanno filo da torcere”. Il testo spiega come funzionano le “bombe di<br />
piccolo calibro” che inseguono il loro bersaglio sfruttando i sistemi di<br />
geolocalizzazione Gps. Il payoff recita: “Noi non dimentichiamo mai per<br />
chi stiamo lavorando”.<br />
Ecco, il polemico blog si chiede appunto se Haviv sa bene per chi la sua<br />
fotografia sta lavorando. E se sia compatibile con l’etica del fotografo di<br />
guerra offrire materiale per reclamizzare la guerra.<br />
Haviv, occorre dire, ha risposto con una certa apparente tranquillità.<br />
Spiegando sul suo sito che “ho tracciato un confine netto tra<br />
fotogiornalismo e lavoro commerciale, e sul mio sito le due cose sono<br />
presentate ciascuna per quello che è”. Quanto alle sue convinzioni sulla<br />
guerra “io sostengo l’intervento umanitario, la distensione e la difesa,<br />
perché ho visto cosa succede quando queste cose non ci sono”, in ogni<br />
caso Haviv si dice molto sicuro sui confini delle sue opinioni etiche, anche<br />
se ammette che altri possano pensarla diversamente.<br />
In realtà, quali siano le opinioni di Haviv sulla guerra, i suoi limiti e la<br />
sua eventuale necessità, qui mi interessa poco. Non sono tra quelli che<br />
pensano che i fotografi di guerra siano per qualche ragione tutti pacifisti<br />
integrali: sono uomini, e gli uomini hanno idee diverse. Devo dire che<br />
16
della sua autodifesa mi colpisce invece un altro passaggio che ha a che<br />
fare con la più circoscritta deontologia del fotografo: “La foto in<br />
questione è stata venduta come immagine di stock dal mio agente alla<br />
Lockheed Martin, che ha esercitato il suo diritto di aggiungere il testo e il<br />
fumo”.<br />
Una cosa per volta. Aggiungere il testo? Ovvio, è il committente che<br />
decide il messaggio. Ma un testo aggiunto a un’immagine non si limita ad<br />
affiancarla: ne orienta, ne impone una lettura. Soprattutto quando,<br />
ridotta a “immagine di stock”, cioè bruscamente privata del suo “lì e<br />
allora”, diventa un simnbolo retorico plasmabile a piacere. Quella foto<br />
pare sia stata venduta altre volte per utilizzi commerciali, per esempio<br />
l’ho trovata sulla copertina di un cd degli Asian Dub Foundation, gruppo<br />
di rapper britannici molto impegnati nel sociale e molto “antagonisti”. Lì,<br />
quella foto trasmetteva un messaggio diverso: un veicolo perso nel vuoto<br />
di un deserto dei tartari, leggi: inutilità, assurdità, assenza di ragione.<br />
Nelle meni della multinazionale delle armi, ovviamente, diventa tutt’altra<br />
cosa: l’implacabile precisione della guerra tecnologica che ti scova e ti<br />
distrugge anche se scappi in mezzo al nulla.<br />
Ma: aggiungere il fumo? “...which exercised its right to add smoke“.<br />
Oh certo, a una foto pubblicitaria non si richiede di rispettare il patto di<br />
veridicità che incombe sul fotoreporter (anche se furono parecchi ad<br />
“aggiungere il fumo” nelle fotografie giornalistiche: da Evgenij Chaldej<br />
alla Reuters). Perdonatemi, ma mi stupisco lo stesso che un fotografo<br />
possa permettere che si “aggiunga fumo” a una sua immagine, sapendo<br />
che così diventa una pittura, un disegno, ma conservando il potere<br />
persuasivo che le dà il suo aspetto formale di fotografia. E qui<br />
ovviamente quel fumo aggiunto non è un dettaglio: serve proprio a dire,<br />
a dimostrare che l’obiettivo (così lontano, così invisibile) è stato<br />
inesorabilmente centrato e disintegrato dalle perfette “bombe di piccolo<br />
calibro” del fabbricante.<br />
Il fumo vero fa bruciare e lacrimare gli occhi, e li fa chiudere. Il fumo<br />
finto anche. In questo poster, infatti, la fotografia piange.<br />
[Le fotografie, qui inserite in formato degradato per scopi di<br />
informazione e discussione critica, vengono riprodotte, nel rispetto del<br />
diritto d'autore, ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101<br />
comma 1 Legge 633/1941.]<br />
17
Fotografia e street art: " You are not Bansky"<br />
Miriam Leto da http://www.artsblog.it<br />
Il famoso street artist Bansky ha ispirato molti creativi di strada e graffitari delle<br />
nuove generazioni, ma non solo. Nick Stern è un fotografo britannico che ha<br />
letteralmente dato vita alle celebri opere dell’artista di Bristol, con la serie di<br />
scatti “You are not Bansky”.<br />
Stern ha ricostruito nei dettagli studiati per mesi al lanternino i lavori di Bansky<br />
interpretandoli a suo modo e immortalandoli con l’occhio fotografico. Pose e<br />
modelli reali, veri e propri tableau vivant, che riproducono i conosciutissimi<br />
graffiti del writer dell’old school inglese, uno dei più affermati in Europa.<br />
E così sembra proprio che i motivi iconici del mago dei muri si stacchino dalle<br />
pareti delle nostre città europee più cosmopolite, in uno slancio di true life, per<br />
essere poi imprigionati nell’attimo eterno della macchina fotografica.<br />
Tutto l’artwork di Bansky è ad alto valore simbolico, pieno zeppo di riferimenti<br />
astuti, satira politico-sociale, mi chiedo se queste masterpieces, simbolo dei<br />
nostri anni, non perdano peso così decontestualizzate dal loro status di arte<br />
ambientale e metropolitana. Quando i giornalisti gli girano questa domanda Nick<br />
Stern risponde semplicemente:<br />
Sono sempre stato incuriosito dal lavoro di Bansky e ho pensato fosse<br />
affascinante riprodurre le sue opere più famose con la macchina fotografica.<br />
18
Bert Stern<br />
FORTE DI BARD, BARD (AO)<br />
Marilyn, the last sitting. Gli scatti dell'ultimo servizio fotografico<br />
dell'attrice prima della tragica scomparsa nel 1962. In 60<br />
immagini Stern ci restituisce la bellezza di Marilyn Monroe,<br />
trasfigurando le sue forme in opera d'arte.<br />
comunicato stampa da http://undo.net<br />
Dolce, selvaggia, vulnerabile, seducente. Così viene comunemente descritta dai<br />
biografi Marilyn Monroe, attrice diventata un’intramontabile icona di stile. La sua<br />
scomparsa improvvisa l’ha resa immortale consegnando ai posteri l’immagine di<br />
una donna splendida, segnata da una vita sofferta e contradditoria. Il Forte di<br />
Bard, principale polo culturale della Valle d’Aosta, dedica al mito di Marilyn, in<br />
concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, la mostra<br />
19
“Marilyn, the last sitting. Bert Stern” che porta in Italia gli scatti realizzati da<br />
Bert Stern in occasione di quello che è stato l’ultimo servizio fotografico<br />
dall’attrice prima della tragica scomparsa avvenuta nella notte tra il 4 e il 5<br />
agosto del 1962.<br />
Curata da Olivier Lorquin (Presidente e Direttore Generale del Museo Maillol di<br />
Parigi), Isabelle Maeght (Amministratore della Fondazione Marguerite et Aimé<br />
Maeght di Saint Paul de Vence) e Gabriele Accornero (Consigliere Delegato del<br />
Forte di Bard) con la collaborazione della Galleria Staley Wise di New York,<br />
l’esposizione presenta al pubblico, dal 10 giugno al 4 novembre <strong>2012</strong>, sessanta<br />
fotografie che rappresentano il particolare modo con cui Bert Stern ha guardato<br />
e restituito la bellezza di Marilyn Monroe, trasfigurando le sue forme in opera<br />
d’arte.<br />
La mostra include alcuni dei più espliciti scatti mai realizzati della diva. Il<br />
risultato è la trasformazione della Monroe da icona della pin up girl a Venere del<br />
XX secolo. In uno dei testi in catalogo Bertrand Lorquin, curatore del Museo<br />
Maillol, evoca i nudi di Botticelli, Rubens, Velazquez, Goya, Ingres e Manet per<br />
attribuire alle plastiche curve della Monroe un posto nella storia dell’arte.<br />
Nel 1962 Bert Stern è un fotografo conosciuto per le sue doti di ritrattista: è un<br />
cacciatore di icone e riesce a immortalare diverse star del grande schermo.<br />
Sull’aereo di ritorno da Roma, dove ha fotografato Liz Taylor sul set di<br />
“Cleopatra”, accarezza un sogno, quello di fotografare Marilyn Monroe. Non<br />
appena arriva a New York propone a Vogue l’idea di realizzare un reportage di<br />
foto sull’attrice che lo stesso Stern definirà “la prima dea dell’amore americana”.<br />
La redazione della rivista accetta la proposta con entusiasmo. Gli avvenimenti si<br />
susseguono velocemente, Marilyn accetta di posare per lui e il sogno di Stern si<br />
realizza. Il fotografo sceglie come set una suite dell’hôtel Bel-Air a Los Angeles.<br />
La luce è minima e Bert aspetta Marilyn con inquietudine dal momento che<br />
l’attrice è conosciuta per i suoi strani comportamenti e capricci. Dopo cinque ore<br />
di ritardo Marilyn si palesa all’albergo e tutto ha inizio. Marilyn accetta di posare<br />
nuda e senza trucco. Un rapporto forte e quasi amoroso si instaura tra il<br />
fotografo e la sua modella. Lavorano per dodici ore consecutive senza fermarsi.<br />
Il risultato è eccezionale, ma le immagini sono troppo osées per Vogue che<br />
propone a Stern di fotografarla nuovamente, questa volta, truccata e vestita.<br />
Marilyn accetta di posare ancora una volta per Bert Stern. Poi la morte<br />
improvvisa, un giorno prima dell’uscita delle foto su Vogue.<br />
Il servizio fotografico completo si compone di 2571 foto, scattate nel corso di tre<br />
intense giornate di lavoro. Bert Stern sceglie di pubblicarne uno stretto numero,<br />
e una selezione di immagini sempre diversa diviene oggetto di numerose mostre<br />
in tutto il mondo.<br />
In questi scatti Marilyn ha catturato definitivamente l’immaginario, non come sex<br />
symbol, ma come opera d’arte: meravigliosa, tragica, per sempre 36enne.<br />
Il set<br />
Le foto, che includono alcune delle più esplicite immagini dell’attrice, la mostrano<br />
principalmente in tre situazioni: nuda su un letto, mentre scopre le spalle, la<br />
schiena e le gambe; mentre tiene in mano una sciarpa di chiffon trasparente<br />
davanti al suo petto nudo; mentre si copre il seno con dei fiori di carta. In altre<br />
20
immagini indossa abiti neri da sera o gioca maliziosamente con delle collane.<br />
Se alcune di queste pose avrebbero potuto un tempo essere considerate<br />
eccessive (e lo furono tant’è che non vennero pubblicate se non vent’anni dopo<br />
la sua morte) oggi paiono familiari. Piuttosto che essere ipnotizzati dalla<br />
sensualità viva della Monroe, i visitatori sono invitati a osservare le immagini per<br />
quanto rivelano di lei.<br />
“Stava attraversando un brutto periodo per la salute, carriera e uomini” spiega<br />
Bert Stern ricordando che Marilyn era appena stata cacciata dal set del film di<br />
George Cukor “Something Got to Give”. Stern stava lavorando su incarico di<br />
Vogue, ma come cita nel catalogo, aveva sempre sperato di fotografare Marlyn<br />
nuda e così portò con sé solo alcune sciarpe di chiffon e pochi gioielli come<br />
accessori. L’assistente dell’attrice gli disse di ordinare tre bottiglie di Champagne<br />
Dom Perignon. Stern ricorda che era il 22 giugno e, dice lui, nel giro di 15<br />
minuti, lei accettò di posare in topless con le sciarpe. “Abbiamo lavorato dalle<br />
16.30 alle 3 del mattino - ricorda Stern -. Ma poi Vogue decise che la prima<br />
sessione era troppo sexy e volevano tornassi 2 o 3 settimane dopo per fare foto<br />
di moda. Dopo poco, lei disse: “Sono stufa di fare moda. Possiamo tornare a fare<br />
ciò che facemmo il primo giorno?”. “Avvenne quando facemmo le immagini di lei<br />
sul letto. Allora era quasi ubriaca”.<br />
Vogue pubblicò otto pagine della seduta di moda il giorno successivo la morte<br />
della Monroe; 12 pagine delle immagini di nudo furono pubblicate solo nel 1982.<br />
Mentre le immagini di moda sono inevitabilmente formali, i contact sheet degli<br />
scatti di Marilyn mentre gioca con le sciarpe di chiffon la mostrano improvvisare<br />
senza sosta le sue pose e espressioni. Due immagini di questa serie hanno anche<br />
spesse croci di inchiostro ad indicare che lei le aveva scartate. Le immagini a<br />
colori sul letto, sono sia più sensuali sia meno rivelatrici: consuma la macchina<br />
fotografica con i suoi occhi. E’ in alcuni piani ravvicinati che Marilyn mostra la<br />
sua improvvisa vulnerabilità: spesso eyeliner nero e pesante rossetto rosso<br />
evidenziano insicurezza; l’accenno di rughe a lato degli occhi sottolinea il<br />
trascorrere del tempo. Ancora più d’effetto una cicatrice sullo stomaco, traccia di<br />
un intervento alla cistifellea di poche settimane prima.<br />
I visitatori per la prima volta scopriranno Marilyn non come un nome,<br />
un’immagine, ma una persona che probabilmente sentiva che questa sarebbe<br />
stata la sua ultima occasione per sedurre l'obiettivo, che queste foto erano, a<br />
modo loro, la sua fine. In queste immagini Marilyn è la bellezza trionfante ogni<br />
momento minacciata da una tragica fragilità; l’incarnazione di tutte le eroine che<br />
l'arte ha cercato di divorare attraverso la pittura, la scultura e la fotografia.<br />
Profili<br />
Marilyn Monroe (il vero nome è Norma Jean Baker) nasce il 1° giugno 1926 e Los<br />
Angeles. Per la sua carriera folgorante, le sue doti di attrice e cantante, l’indole<br />
fragile e tormenta è considerata una delle grandi dive del cinema americano di<br />
tutti i tempi e icona di stile. E’ conosciuta principalmente per le sue<br />
interpretazioni in A qualcuno piace caldo - per cui vinse il Golden Globe come<br />
Migliore Attrice in un film o commedia musicale -, Il principe e la ballerina (per<br />
cui verrà premiata con il David di Donatello da Anna Magnani) Gli uomini<br />
preferiscono le bionde, Fermata d’autobus, Quando la moglie è in vacanza e Gli<br />
spostati. Il suo mito è dovuto, oltre che al suo fascino indiscutibile, al suo talento<br />
artistico: Marilyn non era solo il ‘sogno proibito d’America’, ma anche una<br />
21
avissima attrice. Il fascino che emanava dal grande schermo o dalle copertine<br />
ha contribuito a farne un sex symbol fuori da ogni tempo; la sua esistenza, per<br />
molti aspetti tormentata e sofferta, e culminata in una morte prematuramente<br />
tragica quanto misteriosa, l’ha resa una vera e propria icona della cultura pop di<br />
tutti i tempi.<br />
Bert Stern nasce a Brooklyn il 3 ottobre 1929. Inizia giovanissimo a lavorare<br />
come fotografo pubblicitario, ma è la rivista ‘Vogue’ che lo lancia nel mondo della<br />
moda e dei divi di Hollywood. Nel 1962, infatti, riceve da ‘Vogue’ l’incarico di<br />
fotografare Marilyn Monroe. Quegli scatti, realizzati in una suite dell’hôtel Bel-Air<br />
di Los Angeles, nell’arco di tre giorni, di cui la rivista acquisterà solo 8 fotografie,<br />
segneranno la futura carriera di Bert Stern. Marilyn Monroe morirà infatti poche<br />
settimane dopo quel servizio fotografico. Il libro completo “Marilyn Monroe. The<br />
Complete Last Sitting”, pubblicato in seguito dallo stesso Stern, contiene quelli<br />
che sono considerati gli ultimi scatti dell’attrice in vita.<br />
Mostra: via Vittorio Emanuele II - Bard (AO) - Orari: martedì/venerdì dalle ore 11.00 alle 18.00<br />
sabato/domenica e festivi dalle ore 10.00 alle 19.00 - chiuso il lunedì - tariffe: intero 5 euro -<br />
ridotto 3 euro - gruppi/scuole: 3 euro<br />
Info: Associazione Forte di Bard - Bard. Valle d’Aosta - T. + 39 0125 833811 - F. + 39 0125<br />
833830- info@fortedibard.it-fortedibard.it-facebook.com/fortedibard -Book Frassinelli 39,00 euro<br />
Ufficio Stampa - Associazione Forte di Bard,Amelio Ambrosi T. + 39 0125 833824<br />
ufficiostampa@fortedibard.it . Spaini & Partners T. + 39 050 36042 - spaini.it -<br />
guido.spaini@spaini.it - matilde.meucci@spaini.it<br />
E qui vince chi bara (se ci riesce)<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
Le cuginette Frances Griffiths e Elsie Wright<br />
fotografarono tra il 1917 e il 1920 i loro incontri con le fate a Cottingley, nello Yorkshire inglese<br />
Finalmente qualcuno ci ha pensato. Un concorso fotografico dove vengono<br />
squalificate le fotografie che non sono state manipolate, e vengono invece<br />
premiati i falsi più fetenti. E chi altri mai poteva organizzarlo se non il Cicap, la<br />
beffarda e serissima compagnia di scettici integrali (nel suo board sono passati<br />
Piero Angela, Margherita Hack, Umberto Eco, Rita Levi Montalcini, Tullio Regge,<br />
Carlo Rubbia, Silvio Garattini…) che da oltre vent’anni smaschera impostori,<br />
visionari e ciarlatani del paranormale.<br />
22
Il concorso si chiama semplicemente Fake!, falsifica!, ed è stato pensato come<br />
evento collaterale del prossimo congresso annuale dell’associazione, in ottobre.<br />
Il regolamento è semplice semplice, si tratta di scattare foto e video (ma anche<br />
di fabbricare “prove” e teorie del complotto) che in modo convincente cerchino di<br />
dimostrare l’indimostrabile. Ectoplasmi, extraterrestri, fenomeni psichici, quel<br />
che vi pare, purché non dimostrabile razionalmente. Lo scopo èq ovviamente<br />
pedagogico: mostrare come la buona fede di un osservatore comune possa<br />
essere facilmente ingannata dal progetto di un falsario dotato di qualche abilità<br />
tecnica.<br />
La storia della fotografia, del resto, offre molti spunti d’ispirazione, lo stesso<br />
Cicap ne ricorda alcuni: dal mostro di Loch Ness allo Yeti, ai filmati di Ufo o di<br />
autopsie di alieni, al teschio dell’uomo di Piltdown o alle false mappe di tesori,<br />
alle celebri fate di Cottingley che ingannarono perfino il romanziere della ragione<br />
infallibile, Arthur Conan Doyle, il papà di Sherlock Holmes; ma alla lista<br />
potrebbero aggiugersi le migliaia e migliaia di fotografie di fantasmi che a metà<br />
dell’Ottocento nutrirono e sostennero di peso l’esistenza di una effimera, ma<br />
allora potente, nuova religione dello spiritismo.<br />
Intelligentemente, il bando di concorso non solo non pone limiti agli<br />
strumenti di manipolazione, ma non impone neppure di servirsene. Anche le foto<br />
“naturali”, non ritoccate, possono essere mendaci: come l’intera opera di Joan<br />
Fontcuberta è lì a dimostrare, basta alterare il contesto di esposizione di una<br />
fotografia per farle dire quel che non poteva dire.<br />
Credo che i fotografi seri dovrebbero tutti quanti partecipare al concorso. Non<br />
per quel che si vince (un abbonamentoo alla rivista del Cicap, una foto con<br />
dedica e una stretta di mano di Piero Angela), ma per fare esperienza. Bisogna<br />
scherzare col fuoco per capire come e quanto brucia. Che le fotografie possano<br />
essere manipolate lo sappiamo tutti, qualunque fotografo lo sa, ma in realtà ben<br />
pochi hanno provato a farlo di persona e fino in fondo, cioè a produrre una<br />
fotografia spudoratamente bugiarda, intenzionatamente ingannatrice non solo<br />
sulla propria fattura ma sulla realtà che pretende di mostrare, e che sia anche<br />
capace di reggere la sua menzogna.<br />
Vi accorgerete che non è così facile. Che se pure tutte quante le fotografie<br />
contengono una dose più o meno grande di alterazione rispetto all’irraggiungibile<br />
ideale di una restituzione perfetta dell’immagine della realtà fisica, creare<br />
fotografie profondamente, integralmente bugiarde, capaci di trarre davvero in<br />
inganno, di dimostrare l’indimostrabile, è un’arte difficile che richiede sforzo,<br />
tecnica, intuito.<br />
Le fotografie, che sono normalmente, mediamente, incompletamente<br />
bugiarde, fanno però resistenza alle bugie diaboliche. Lo sforzo che si dee<br />
impiegare per traviarle dimostra in fondo la loro ingenuità di base, la loro natura<br />
di mentitrici modeste, di peccatrici ordinarie, la loro natura si ribella alla perfidia<br />
del mentitore incallito.<br />
Il concorso del Cicap, che gli organizzatori lo abbiano messo in conto o no,<br />
credo dimostrerà paradossalmente che le fotografie non reggono quasi mai il<br />
peso delle proprie bugie, se sottoposte a chi le sa interrogare correttamente.<br />
Come forse saprete, il Cicap ha messo a disposizione un premio esorbitante, un<br />
23
milione di dollari, offerti dallo smascheratore di impostori James Randi, da<br />
versare a chi effettuerà un esperimento paranormale sotto gli occhi di una giuria<br />
di scienziati ed esperti, qualora quest’ultima non riesca a scoprire il trucco. Pare<br />
che nessuno l’abbia ancora vinto.<br />
E allora sarebbe bello che alla fine non ci fosse nessun vincitore neanche in<br />
questo concorso fotografico, perché la giuria sarà riuscita a smontare le panzane<br />
visuali una dopo l’altra. Non sarebbe un fallimento. Avremmo invece un<br />
eccellente concorso non più di false fotografie, ma di autentiche falsità<br />
fotografiche.<br />
Provateci.<br />
Ugo Mulas. Esposizioni. Dalle Biennali a Vitalità del Negativo<br />
da http://www.triennale.it/it/mostre/<br />
La mostra “Ugo Mulas: Esposizioni” offre un percorso inedito nell’opera del<br />
fotografo milanese.<br />
L’attenzione di Mulas per le consuetudini legate alla fruizione dell’arte permette<br />
di attraversare i musei, le gallerie, le collezioni private d’Europa e d’America, di<br />
osservare il rapporto dei visitatori con le opere negli spazi pubblici e gli interni<br />
delle abitazioni dove gli oggetti d’arte sono legati ancora ad un rito intimo,<br />
condiviso dal collezionista con i suoi ospiti.<br />
Le inaugurazioni delle Biennali, il pubblico dei grandi musei francesi, russi e<br />
tedeschi (1959-60), l’invasione delle opere nelle strade e nelle piazze di Spoleto<br />
per la mostra Sculture nella città (1962) sono esempi di una visione critica che<br />
porta Mulas a leggere le trasformazioni delle esposizioni negli anni Sessanta.<br />
24
Dal 1964 iniziano i viaggi negli Stati Uniti, dove Mulas coglie l’atmosfera delle<br />
gallerie e delle case dei collezionisti americani, accompagna Marcel Duchamp a<br />
rivedere le sue opere nelle sale del MoMA e racconta l’inaugurazione della<br />
personale di Alexander Calder al Guggenheim (1964).<br />
La Biennale del ‘68 segna la fine di una stagione, la crisi delle istituzioni museali,<br />
la critica al collezionismo e alla privatizzazione dell’arte.<br />
Con le mostre Campo Urbano (1969), Amore Mio (1970) e la rassegna per il<br />
decimo anniversario del Nouveau Réalisme a Milano (1970) Mulas segue il<br />
tentativo delle neo avanguardie di coinvolgere gli spettatori in eventi estetici,<br />
condivisi ed effimeri.<br />
Nel 1970 a Roma Vitalità del negativo sarà il grande evento riassuntivo del<br />
decennio, in questo periodo Mulas prende le distanze dalla stagione degli anni<br />
Sessanta per concepire una nuova visione fotografica.<br />
Mostra realizzata da Triennale di Milano in collaborazione con Johan&Levi<br />
A cura di Archivio Ugo Mulas e Giuliano Sergio<br />
Triennale di Milano - 14 <strong>Giugno</strong>. 26 Agosto <strong>2012</strong>. Orari: Martedì - Domenica 10.30 / 20.30,<br />
Giovedì 10.30 / 23.00 Ingresso gratuito.<br />
Fotografia e linguistica<br />
di Daniele D'Amato da http://www.ivisivi.it/<br />
Fotografia e Linguistica: è un matrimonio possibile?<br />
L'immagine è immediata e simultaneamente percepibile, dunque non ha bisogno<br />
di essere narrata o spiegata. Questo perché l'occhio può spaziare a suo<br />
piacimento iniziando a leggere l'immagine da qualsiasi punto e terminarla in<br />
qualsiasi altro.<br />
Un po' come succede quando si usa il mouse in un software: il programmatore,<br />
per quanto bravo, non può mai sapere dove l'utente andrà a far clic per primo.<br />
Può indugiare in alcune zone piuttosto che in altre, può nel contempo osservarne<br />
25
i bordi o il centro, senza una logica apparente, secondo cioè i personali gusti<br />
dell'osservatore.<br />
Ma siamo sicuri che i gusti dell'osservatore siano scevri di qualsiasi forma di<br />
condizionamento?<br />
Si può dunque ipotizzare che è possibile che l'autore possa aver guidato in<br />
qualche modo l'osservatore a guardare alcuni oggetti rappresentati<br />
nell'immagine per mezzo di una sapiente e studiata composizione, o mediante<br />
una accurata esposizione, o ancora attendendo uno specifico istante? Perché<br />
diversamente si può ritenere legittimo il pensiero che l'autore dello scatto non<br />
abbia la benché minima influenza rispetto alla sua stessa fotografia. Sappiamo<br />
invece non essere così.<br />
Ferdinando Scianna, in un intervento tenuto durante la rassegna Fotoarte di<br />
Taranto lo scorso 2 giugno, ha detto che alla fine Wittgenstein aveva ragione: la<br />
parola viene prima dell'immagine. Non possiamo arrivare a pensare se non ciò<br />
che possiamo narrare. L'autore possiede quindi, in modo più o meno esplicito e<br />
consapevole, gli strumenti per vedere una fotografia prima ancora di realizzarla.<br />
Altrimenti fare clic in un momento o in una condizione specifica non avrebbe<br />
alcuna importanza. Il fotografo invece studia la sua scena, coglie l'attimo giusto,<br />
attende il momento opportuno, a volte cambia prospettiva o addirittura<br />
contamina la scena al fine di giustificare il suo scatto, ma in ogni caso rende una<br />
qualsiasi immagine quella immagine.<br />
Aver scattato quella foto esclude automaticamente tutte le altre a sua<br />
disposizione. E non è forse questa una guida alla lettura che l'autore fornisce, a<br />
volte anche suo malgrado? Non è comunque un tentativo di leggere o far leggere<br />
l'immagine in un modo piuttosto che in un altro?<br />
Certo si può obiettare che la linguistica possiede regole ben precise e che non si<br />
può scrivere come si vuole perché il rischio è di non essere compresi, e a volte,<br />
nonostante si siano seguite le regole grammaticali e l'intenzione dell'autore sia<br />
una, il significato percepito dal lettore sia totalmente differente.<br />
Le regole della linguistica non sono già sufficienti a evitare incomprensioni,<br />
figuriamoci le regole della fotografia.<br />
Ma la gabbia linguistica in cui la fotografia è costretta a vivere è la sua stessa<br />
fortuna e bellezza: perché mentre con la linguistica tendiamo a condizionare il<br />
comportamento altrui, con la fotografia possiamo semplicemente far godere i<br />
nostri sensi osservandola.<br />
Come ci giudicherebbero gli altri se ci sentissero parlare da soli? Ma forse<br />
avevano ragione gli antichi: Chi parla da solo campa cent'anni.<br />
Così è se vi Parr<br />
26
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
© Martin Parr/Magnum Photos/Contrasto<br />
Quando Martin Parr fu ammesso nell’olimpo fotografico di Magnum, pare che<br />
Henri Cartier-Bresson non fosse entusiasta. Certo è evidente il perché: ci passa<br />
un abisso fra il modo di fotografare del patriarca francese, umanista, liricogeometrico,<br />
a volte umorista ma mai irridente, e il sarcasmo feroce dell’inglese,<br />
quasi misantropo nel suo disgusto beffardo verso la massa cheesburgivora del<br />
turismo package e dei consumi obesi.<br />
Ma Parr è un uomo più signorile di quel che le sue fotografie chiassosamente<br />
graffianti sembrerebbero suggerire. Mi raccontano che si limitò a mandare a HCB<br />
una copia di un suo libro con questa laconica dedica: “Don’t shoot the<br />
messenger“, che in italiano suona più o meno: ambasciator non porta pena.<br />
Come dire: caro Henri, questa è la realtà, non è colpa mia, non l’ho creata io, io<br />
la faccio solo vedere.<br />
Mentre sfoglio Up and Down Peachtree, questo suo reportage su Atlanta e il<br />
sud degli Usa (Peachtree è la main street di Atlanta, e il libro è una caustica<br />
passeggiata lungo i suoi marciapiedi), un libro di 110 foto senza una sola parola<br />
scritta a parte il colophon, ripenso a quelle parole e al loro significato. Parr<br />
voleva forse dire che il ruolo del fotografo, o per lo meno quello che lui<br />
interpreta, è di recapitare messaggi, notizie sul mondo, il cui contenuto non<br />
dipende dalla sua volontà. Vedo bene se lo interpreto così?<br />
In fondo, è quel che per gran parte della sua storia la fotografia in generale ha<br />
pensato di fare, e molti hanno ritenuto che facesse: trasmettere ad osservatori<br />
lontani “messaggi dalla realtà”, prelevati e recapitati con cura, buona calligrafia e<br />
anche un bel bollo di ceralacca per garanzia di autenticità.<br />
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Still frame dal dvd "Hot Spots: Martin Parr<br />
in the American South" di Neal Broffman<br />
Ora, non mette conto sprecare molte parole per dire, come credo tutti<br />
sappiamo, che nessun reportage fotografico può più pretendere di affermare “la<br />
realtà è così, io ve la faccio solo vedere”. La seconda parte dell’affermazione già<br />
contraddice la prima: perché significa per forza che io ve la faccio vedere come<br />
l’ho vista e come l’ho prodotta in immagine.<br />
Alla trasparenza dell’emulsione, o del pixel, non crede più nessuno. E questo<br />
libro, ma anche il documentario Hot Spots: Martin Parr in the American South di<br />
Neal Broffman che lo accompagna e ne racconta il dietro-le-quinte, non può che<br />
confermarlo. Le inchieste di Parr sulla società dei consumi di massa, del kitsch<br />
omologato e volgare, sono, come tutti i reportage, operazioni retoriche (in<br />
senso tecnico, cioè senza l’accezione negativa del termine). Derivano da un<br />
progetto di raccolta (la inventio), ovvero la ricerca mirata dello sbracato<br />
involontario e inconsapevole; si articolano in una sequenza volutamente<br />
ridondante, ripetitiva, ossessiva (la dispositio); e si presentano attraverso un<br />
linguaggio visuale aderente al proprio oggetto (la elocutio) fatto di colori di<br />
plastica e di inquadrature sovraffollate e visivamente estenuanti.<br />
Questo ovviamente non è un messaggio recapitato per conto del reale, è un<br />
messaggio accuratamente elaborato partendo da un reale, selezionato e messo<br />
in forma. Non sto dicendo che Parr inventa dal nulla le sue antipatie: sto dicendo<br />
che le cerca e le intensifica. L’ambasciatore è anche il redattore del messaggio<br />
che porta, per quanto, dentro il pacchetto con la ceralacca, ci siano tante cose<br />
non sue.<br />
È ancora reportage questo? Ma certo che sì. E nella così visibile invadenza del<br />
giudizio dell’autore sta la sua paradossale sincerità e trasparenza. Sappiamo<br />
benissimo, fin dal primo sguardo, che questo è il mondo visto da Parr. E forse<br />
siamo d’accordo con lui, forse anche noi, dopo che ce l’ha mostrato così,<br />
possiamo decidere di vederlo allo stesso modo.<br />
L’unica cosa che non convince è quella dedica auto-esimente. Eh no. Nessuno<br />
dovrebbe mai sparare al messaggero, questo è chiaro, ma in fotografia<br />
l’ambasciatore deve sempre saper portare la sua pena, se vuole condividerla con<br />
gli altri.<br />
FOTOGRAFIA VS PITTURA<br />
28
di Maria Lucia De Siena da http://www.ivisivi.it/<br />
fotografo ciò che non desidero dipingere...” (Man Ray)<br />
”Dipingo ciò che non può essere fotografato e<br />
La fotografia è l'evoluzione contemporanea della pittura, un suo prolungamento<br />
moderno che si basa sugli stessi concetti teorici? Oppure è un'arte del tutto<br />
innovativa? E soprattutto, viene considerata una forma artistica a sé?<br />
Claudio Marra sostiene che tra fotografia e pittura non ci sarebbe nessuna “lotta<br />
per l'immagine”, avendo queste due discipline creative identità differenti, se non<br />
addirittura contrastanti. Nel suo libro “Fotografia e pittura nel Novecento (e<br />
oltre)” edizioni Bruno Mondadori, esamina con profondità e con uno sguardo<br />
innovativo il rapporto tra arte e fotografia dal Novecento ad oggi.<br />
Nel testo emerge una condizione originale e coinvolgente del mezzo fotografico,<br />
dalle avanguardie storiche all'attuale realtà digitale, attraverso un impianto<br />
metodologico che sa essere insolito rispetto alle analisi e ai confronti tradizionali.<br />
Rispetto alla pittura, il mezzo fotografico “pecca” di scarsa manualità e il mondo,<br />
per altro rappresentato su un supporto bidimensionale (come la pittura), risulta<br />
troppo reale. Proprio questi sono i fattori che finiscono col creare confusione in<br />
coloro i quali considerano la fotografia una forma d'arte (questione spesso messa<br />
in discussione) e che contribuiscono a rendere difficili i rapporti con la pittura.<br />
Un esempio eclatante si può rintracciare nell'ambito del futurismo. I futuristi,<br />
ovvero i massimi esponenti di un'arte innovativa dal punto di vista linguistico,<br />
artistico e tecnologico, tenevano la fotografia in poco o nessun conto.<br />
Nel 1916 Marinetti, Boccioni, Ginna, Corra, Chiti e Settimelli sottoscrivono il<br />
Manifesto della cinematografia futurista, nel quale espongono una serie di idee<br />
innovative. Gli stessi futuristi però non redigeranno mai un manifesto sulla<br />
fotografia. Perché? Secondo Claudio Marra la loro avversione nei confronti di<br />
questa' “arte”, al contrario del cinema, può essere spiegata dal fatto che la<br />
29
consideravano un'arte conservatrice, che inseguiva la realtà senza riuscire a<br />
distaccarsi da essa.<br />
Ritroviamo questo concetto in un'esplicita presa di posizione di Boccioni, che<br />
commentando un suo dipinto,nel 1911, così si esprimeva: “la sensazione<br />
dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i<br />
rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento<br />
e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che<br />
vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma<br />
riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone.”<br />
In questo modo quindi stabiliva un punto di raffronto negativo scagliandosi senza<br />
indugio contro la fotografia, che secondo i futuristi priva di movimento, non<br />
poteva innanzitutto essere considerata linguaggio, di conseguenza, non essendo<br />
linguaggio, non poteva neppure vantare alcun diritto di riconoscimento artistico.<br />
Esiste però un'eccezione all'interno del futurismo, ovvero il foto dinamismo di<br />
Anton Giulio Bragaglia.<br />
Ma è proprio la battaglia teorica che si scatena all'interno del gruppo in merito<br />
agli esperimenti di Bragaglia ad avvalorare l'ipotesi di Marra. Ipotesi che si basa<br />
appunto sul concetto che questo contrasto ideologico fa comprendere come<br />
all'epoca fu esercitata una forte pressione nei confronti dei promotori di questo<br />
mezzo (la fotografia), pressione che scaturì proprio da quegli artisti che sulla<br />
modernizzazione tecnologica avevano edificato un'intera teoria.<br />
E quindi accertiamo il fatto concreto che sono soprattutto i pittori a nutrire tanta<br />
diffidenza per le fotodinamiche.<br />
Diamo oggi per scontato, grazie all'azione profondamente innovativa operata sul<br />
linguaggio visivo delle avanguardie artistiche del '900, il concetto che la<br />
fotografia non debba necessariamente essere fedele trascrizione del reale e che,<br />
come tutte le forme di arte visiva, copra un ruolo essenzialmente interpretativo<br />
ed esprima, in un suo modo unico e diverso per ciascuno, una visione del<br />
mondo, quella del fotografo che realizza la foto, con la possibilità di una più o<br />
meno marcata soggettivazione del risultato in proporzione di quanto accade in<br />
pittura.<br />
“Fu attraverso il confronto con la fotografia che l'arte andò via via distaccandosi,<br />
per differenziarsi, dal concetto classico della mimesi, e si costituì in proprio una<br />
morfologia e un lessico senza radici naturalistiche. Ma la divisione di campo non<br />
durò, la fotografia invase anche quel dominio: si presentò come operazione più<br />
mentale che tecnica, potenzialmente creativa come e più dell'arte”. (C.G.Argan,<br />
1989)<br />
Il farmacista-fotografo delle mondine in risaia<br />
Il torinese Michele Ghigo racconta la “sua” Novara in immagini<br />
di Gianfranco Quaglia da "La Stampa" del 2 <strong>Giugno</strong> <strong>2012</strong><br />
30
Michele Ghigo, al vernissage della mostra<br />
Aveva 17 anni quando San Francesco lo «fulminò» sulla via di Assisi. E’ il 1948,<br />
Michele Ghigo (oggi presidente onorario della Federazione italiana associazioni<br />
fotografiche) sta partecipando a un pellegrinaggio internazionale dei roverscouts.<br />
C’è tutto l’entusiasmo ed il fervore del dopoguerra, il senso<br />
dell'appartenenza e la voglia di esserci. Tanti stimoli e attimi che Ghigo vuole<br />
immortalare, facendosi prestare la macchina fotografica da un compagno di<br />
viaggio. Da quel momento il giovane Michele, che non ha ancora una lunga<br />
barba bianca ieratica come quella che gli incornicerà il volto molto più tardi,<br />
scopre il primo amore viscerale: la fotografia.<br />
Il secondo, la moglie, lo incontra qualche anno avanti. Il terzo, quello che si<br />
porta cucito sulla pelle, è la città di Novara,diventata patria di vita per scelta<br />
professionale e dedizione.<br />
Michele Ghigo è un torinese trapiantato in pianura, trasferitosi dalla Mole alla<br />
cupola gaudenziana per motivi professionali: il settore farmaceutico. I novaresi<br />
hanno imparato ad apprezzarlo tra un alambicco, una fiala e una ricetta. Poi, via<br />
via, lo hanno amato per la sua grande capacità di raccontare la città e il territorio<br />
con un «clic».<br />
31
«Ho sempre sostenuto che per fare belle foto non serve andare in capo al<br />
mondo, in Namibia o al Polo Nord, basta guardarsi attorno e cogliere i<br />
particolari».<br />
Quelli di Michele trasmettono emozioni che arrivano al cuore, soffermandosi con<br />
l’obiettivo su un angolo di città, un monaco in preghiera nel chiostro, nel<br />
chiostro, due guanti perduti per strada, una foglia calpestata sull'asfalto, il profilo<br />
di un albero, i ritratti (tra i soggetti preferiti i volti delle donne al lavoro in<br />
campagna). I suoi primi passi il fotografo-fafmacista li compie con una<br />
"Vogtlander 6x9" che il padre gli mette a disposizione.<br />
Poi passa a una " Kine Exakta 24x36": "Macchina fantastica - ricorda - scampata<br />
ai bombardamenti e alle perquisizioni delle truppe tedesche, la prima reflex<br />
ideale per la macrofotografia che a me allora interessava in modo particolare.<br />
Aveva sofferto danni alla tendina di tela gommata, che riuscii a far riparare<br />
dall'importatore del tempo, un certo signor Weiss con sede a Torino. Mi prese in<br />
simpatia (forse perché quella di mio padre era stata l'unica Exacta venduta a<br />
Novara prima della guerra), diventammo amici e mi favorì molto nel mettermi a<br />
disposizione le novità del settore. Nel 1952 il giornale universitario torinese<br />
«Ateneo» bandì un concorso aperto anche alla fotografia, partecipai con due foto<br />
in bianco nero e vinsi il secondo premio».<br />
Da allora è un crescendo di affermazioni, sino alla presidenza della Federazione<br />
italiana fotografi. «Cantore» e testimone di Novara da oltre mezzo secolo<br />
attraverso gli scatti, qualche volta Michele Ghigo si concede il lusso di puntare<br />
l’obiettivo anche fuori le mura, in Italia e in altri Paesi. Ma poi scappa a casa, a<br />
cogliere gli attimi del ramaio sull’uscio del negozio, le mondariso dopo la<br />
quotidiana fatica o, semplicemente, la caducità di una foglia.<br />
uno degli scatti esposti nella mostra a Novara<br />
Olive e Bulloni, a Parigi l'omaggio ad Ando Gilardi<br />
32
L'Istituto Italiano di Cultura ospita una mostra dedicata al grande<br />
fotografo e storico della fotografia, scomparso quasi novantenne lo<br />
scorso 5 marzo.<br />
da http://foto.panorama.it/<br />
Autroritratto, 1955 circa -Credits: © Fototeca Storica Nazionale Ando Gilardi<br />
Photogallery<br />
Olive e Bulloni, a Parigi<br />
La mostra Olive & bulloni. Lavoro contadino e operaio nell’Italia del dopoguerra<br />
(1950-1962) è arrivata a Parigi, accolta dall’Istituto Italiano di Cultura per<br />
rendere omaggio ad Ando Gilardi, uno dei grandi maestri della fotografia italiana,<br />
scomparso quasi novantenne lo scorso 5 marzo.<br />
Già ospitata dalla Fondazione Benetton di Treviso e dalla Fondazione Corrente di<br />
Milano, Olive & bulloni si compone di una serie di fotografie storiche, realizzate<br />
tra gli anni '50 e '60, di pubblicazioni e documenti d’epoca - tra cui alcuni numeri<br />
del Lavoro, di cui Gilardi è stato redattore - e del film-intervista Piedi scalzi mani<br />
nere. Braccianti e operai degli anni ’50 nei reportage di Ando Gilardi, a cura di<br />
Giuliano Grasso.<br />
Inaugurata il 7 giugno, la mostra - curata da Fabrizio Urettini - sarà aperta fino<br />
al 24 agosto. Il catalogo è in vendita sul sito della Fototeca Storica Nazionale.<br />
Figura carismatica e controcorrente, per molti versi eretica, nato nel 1921 ad<br />
Arquata Scrivia, in provincia di Alessandria, Ando Gilardi inizia ad occuparsi di<br />
33
fotografia nell'immediato dopoguerra, restaurando e riproducendo le immagini<br />
fotografiche degli eccidi in collaborazione con una commissione interalleata<br />
impegnata a raccogliere prove per i processi ai criminali nazi-fascisti. Lavora in<br />
seguito come cronista per l’Unità e poi con i rotocalchi Vie Nuove e Lavoro. Per<br />
quest'ultimo, periodico CGIL fondato da Giuseppe Di Vittorio, lavora non solo<br />
come giornalista ma anche come fotoreporter, per la prima volta in modo<br />
ufficiale: dal 1952 viaggia in tutta l’Italia, fotografando e raccontando vicende e<br />
lotte di operai, minatori, contadini, braccianti e delle loro famiglie. Tra gli anni<br />
'50 e '60, collabora tra gli altri con l'antropologo Ernesto de Martino, che<br />
accompagna nella sua spedizione in Lucania del 1957, all’origine di Sud e Magia.<br />
Nel 1962 fonda a Roma la Fototeca Storica Nazionale, che oggi porta il suo<br />
nome. Dal 1962 si dedica esclusivamente alla fotografia, da fotografo, editore (fu<br />
fondatore di riviste memorabili e irriverenti) e organizzatore di mostre ed eventi.<br />
Negli anni settanta, al suo lavoro di fotografo si affiancano quelli di storico della<br />
fotografia, saggista e insegnante. Pioniere degli studi italiani sulla fotografia,<br />
pubblica testi fondamentali sulle comunicazioni visive, tra i quali la monumentale<br />
Storia sociale della fotografia del 1976 e svariati studi sui filoni della fotografia<br />
prima di allora non ritenuti degni di attenzione, come Wanted! Storia, Tecnica ed<br />
Estetica nella Fotografia Criminale Segnaletica e Giudiziaria e Storia della<br />
fotografia pornografica.<br />
Tornato nel suo Piemonte, per problemi di salute, dal 1993 continuerà a fornire i<br />
suoi contribuire agli studi nel campo fotografico attraverso internet, dalla sua<br />
casa di Ponzone (un paesino di mille abitanti, in cima a una collina nel<br />
Monferrato), sperimentando in prima persona le nuove tecniche di produzione<br />
digitale e svolgendo una ricerca personale sulle implicazioni artistiche delle<br />
tecniche di fotografia digitale, redigendo per l'intero 2007 un diario giornaliero di<br />
laboratorio, fino a concepire, nell’agosto del 2008, un suo canale personale su<br />
youtube, TubArt, e ad approdare nel 2010 su Facebook dove oltre 1800 amici<br />
hanno assistito quasi in diretta alla conclusione del suo straordinario viaggio su<br />
questa Terra.<br />
__________________<br />
OLIVE & BULLONI raccontata da Ando Gilardi<br />
Tre amici Patrizia, Elena e Fabrizio hanno, senza dirmelo prima, deciso di fare<br />
una mostra con le fotografie che presi dal Nord al Sud dell’Italia dal 1950 al 1962<br />
come fotografo scalzo, così mi dicevo rubando il nome ai medici scalzi cinesi di<br />
Mao. In Cina negli anni di allora furono insegnati rudimenti di medicina a molti<br />
contadini, per creare una presenza medica nell’intero paese, e ancora oggi gli<br />
scalzi sono gli unici medici nelle estreme zone rurali.<br />
Ho avuto la fortuna immensa per un fotografo scalzo di essere stato il fotografo<br />
se non ufficiale ufficioso della CGIL negli anni 50, e di avere raccolto per il suo<br />
settimanale a rotocalco Lavoro — oggi più interessante per l’antropologia che per<br />
altro — gli ultimi documenti fotografici sulla fine, diciamo pure sull’estinzione,<br />
delle tre grandi classi del proletariato italiano. Ora: in Italia dagli anni 1950 al<br />
1962 persero il proprio lavoro sette/otto milioni di proletari, sono le cifre ufficiali.<br />
Solo una parte erano organizzati dai sindacati, forse la metà, altri non lo erano.<br />
Gli organizzati cominciarono una durissima lotta sindacale, e questa è la<br />
“fortuna” di chi dipende da un datore di lavoro: che può scioperare manifestare<br />
34
agitare bandiere rosse e cartelli e occupare la fabbrica, che è sempre meglio di<br />
niente.<br />
I non organizzati lottarono anche loro ma come nella lotta libera può farlo uno<br />
che è senza né braccia e né gambe.<br />
La guerra — come si diceva una volta — per il pane dei figli, si concluse con una<br />
sconfitta epocale: sparirono, letteralmente si estinsero socialmente le tre grandi<br />
classi del proletariato storico, quella degli operai, quella dei braccianti salariati<br />
agricoli e quella dei — senza terra, senza uno straccio di contratto e di sindacato<br />
— i cosiddetti cafoni del Sud.<br />
Le cifre sommarie che parlano di queste tre classi nel secolo scorso sono<br />
interessanti: negli anni Venti si aveva in Italia 1 operaio ogni 6 contadini e<br />
braccianti-senza-niente; alla vigilia della seconda guerra mondiale il rapporto era<br />
già mutato da 1 a 3. L’economia di guerra aveva moltiplicato le fabbriche e nel<br />
dopoguerra il rapporto era già diventato quasi alla pari; ma tuttavia il numero<br />
dei lavoratori, e dei disoccupati dei campi, rimase ancora più numeroso di quello<br />
delle officine fino ai primi degli anni Cinquanta quando, come dicevo, ebbe inizio<br />
la veloce estinzione delle tre classi. Io ho fotografato le lotte e proteste per<br />
impedirlo senza riuscirvi e in questa mostra ci sono documenti di una sconfitta<br />
epocale.<br />
Un fatto curioso è che le classi sociali, le loro organizzazioni, non si estinsero<br />
politicamente: succede egualmente per le stelle lontane, che quando si<br />
estinguono la loro luce continua nel tempo a brillare.<br />
Quella del proletariato italiano fu una sconfitta epocale: la notte di una grande<br />
ragione. Dove continua a risplendere, ma ora è prossimo spegnersi, il lumicino<br />
piccino piccino che più di così non si può, del suo fotografo scalzo e aggiungo<br />
senza una gamba, il quale si rese conto dei fatti, e come prova la mostra, visse<br />
dodici anni saltellando qui e là per l’Italia per prenderne le fotografie.<br />
Parliamo un momento di loro. Vorrei far riflettere chi visita questa mostra e<br />
attirare la sua attenzione su alcuni dettagli: in molte istantanee si vedono asini e<br />
muli, ebbene nel tempo in cui sono state riprese, il numero di questi mezzi di<br />
trasporto era nel Mezzogiorno superiore di dieci volte a quello delle automobili.<br />
In molti paesi e faccio il caso di Albano di Lucania allora con circa 3.000 abitanti,<br />
quando il sindaco che abitava a Potenza veniva a far visita ai suoi amministrati, i<br />
cittadini correvano in piazza per vedere la macchina che camminava da sola. Il<br />
sindaco che era un simpatico ragazzo e quasi un amico, mi raccontava, e se non<br />
mi credete pazienza, di avere vinto le elezioni facile facile, per aver mostrato alla<br />
gente durante un comizio, un foglio di carta moneta da mille lire.<br />
Per ciascuna di queste istantanee e delle altre mille che come fotografo scalzo ho<br />
preso in quegli anni fatali nel Nord e nel Sud, potrei raccontare più di una storia<br />
così, ripeto che forse pare incredibile però vi assicuro che è vera.<br />
Ma il bello è questo che segue: il tempo i fatti e i milioni di mutilati del proprio<br />
lavoro di quel periodo, furono e sono poi ricordati dalla stampa, dalla televisione<br />
e in tutta l’informazione “sociale” come il “miracolo economico italiano”! Il quale<br />
è una immensa fossa comune dove sono sepolti e dimenticati i nomi e le storie di<br />
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quelle che i testi ufficiali chiamano “unità produttive”: nelle mille istantanee del<br />
fotografo scalzo si salvarono le loro facce.<br />
Ecco perché come ho detto non avrei approvato la mostra: per lasciare riposare<br />
in pace quei miei compagni e compagne che ho inquadrato, con i loro cartelli le<br />
loro bandiere, dentro alle fabbriche spente in attesa del nulla, o seduti attorno a<br />
chi leggeva il giornale (il solo che parlasse di loro) a quelli che non sapevano<br />
leggere.<br />
Io non volevo tornare a vedere le immagini dei loro bambini, “scalzi” come il<br />
fotografo che li inquadrava, che ridevano allegri e che meritavano un futuro<br />
tanto ma tanto migliore. Questa allegria dei bambini di allora è stata davvero il<br />
grande miracolo degli anni lontani.<br />
Adesso la mostra del fotografo scalzo è pronta e aperta, ha un grande un<br />
lussuoso catalogo, e dire devo pur grazie a Patrizia, Elena e Fabrizio. Mi dicono<br />
che a guardare le istantanee ci va della gente, la quale oggi vive e forse senza<br />
saperlo un altro “miracolo all’italiana” appena al principio. Perché viene aperta, e<br />
mica riesco a non dirlo, un’altra fossa comune: la cosa che più mi fa ridere è che<br />
ce lo dicono proprio quelli che l’hanno scavata. E per la tradizione del nostro<br />
mestiere speriamo che ancora si trovi a raccontarlo un fotografo scalzo, ma con<br />
buone gambe, un nuovo collega Aasverus con tanto di digitale.<br />
San Felice, le foto magiche per ricominciare<br />
Andrà ancora in scena. Il sindaco: sarà il simbolo della rinascita<br />
di Nicola Ssldutti da http://www.corriere.it/cronache/12_giugno_10<br />
Una delle ultime edizioni di "Magico"<br />
È materia delicata, quella dei ricordi. Soprattutto se scorrono immagini che non<br />
ci sono più. Come la Torre di San Felice sul Panaro. Come il suo orologio. La<br />
rocca degli Estensi. Eppure i ricordi servono a ricominciare. A ripartire.<br />
Nonostante tutto. Le hanno raccolte quelle foto di questi ultimi dieci anni, sono<br />
nei cassetti dei fotografi che le hanno scattate, nelle memorie dei computer,<br />
negli occhi di chi, in un pomeriggio di primavera, ha fatto tappa nel cuore<br />
dell'Emilia. Volti di clown e giocolieri. Di pupazzi, re e regine. Perché non è mai<br />
stato un Carnevale come gli altri. Anzi a dirla bene non lo è proprio. Si chiama<br />
Magico, come il mondo di questa terra martoriata dal terremoto. Un piccolo<br />
sogno. Per un pomeriggio tutto si trasformava in un grande set, un paese che<br />
diventa un grande racconto. Prima pochi fotografi, nel 2003, poi cento.<br />
Quest'anno ne sono arrivati più di duemila. Gli abitanti di San Felice trasformati<br />
in attori, comparse dell'immaginazione. Agricoltori, artigiani, impiegati,<br />
casalinghe.<br />
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«Magico» il carnevale a tema di San Felice :<br />
L'idea è nata da un fotografo-regista, Mario Lasalandra. Che in questi giorni è<br />
tornato a trovarli: è arrivato in auto ma poi ha preso la bicicletta dal bagagliaio e<br />
ha proseguito il suo viaggio. Ha visto le stalle distrutte ma anche i campi di<br />
grano non ancora maturo. E poi la Rocca, il castello medievale che è l'anima<br />
della città. Era questo il teatro nel quale si preparavano e dal quale sfilavano i<br />
personaggi. Adesso la villa Ferri, con l'imponente scalinata, non c'è più. La torre<br />
dell'orologio che batteva le ore su Piazza Matteotti neppure. Luciano, il tecnico<br />
del suono, abita lì. Lì si affacciano le terrazze di Mara, l'animatrice dell'iniziativa.<br />
E poi c'è la Piazzetta Posta dove Isabella faceva la parrucchiera aiutata<br />
dall'amica Cesarina. L'infaticabile Alfredo Reggiani che coordina tutto. Angiolino,<br />
il falegname. Un intero Paese immerso per un giorno in una favola. «Mi ricordo<br />
quando i ragazzi di San Felice mi misero a disposizione tutti gli abitanti per<br />
realizzare questa idea. Dicevo: immaginate di venire dall'aldilà. Stupitevi, date<br />
voce ai vostri gesti. Erano in cento i fotografi. Quest'anno ne sono arrivati<br />
duemila...», racconta Lasalandra. La sua cura per i dettagli, tutto doveva essere<br />
pronto in pochi minuti. Una sola prova. Perché l'estemporaneità per chi scatta<br />
immagini conta più di tante altre cose. Anche da Este, da Padova arrivavano gli<br />
attori-non attori. Tabarri, cappelli, corone. Ogni anno un tema: Re e Regine,<br />
Fantocci e Burattini, Giorno di Nozze, Guerra e Pace, omaggio a Fellini, Santi e<br />
Miracoli l'11 marzo. In occasione dell'edizione dedicata a «Viva l'Italia», hanno<br />
persino realizzato dei cavalli. E poi le nebbie. Sì proprio quelle dell'Emilia, con il<br />
fumo. Perché in fondo Magico era un po' malinconico: «Sono andato nelle tende<br />
e mi hanno detto: dobbiamo farlo anche quest'anno...». Alfredo, Luciano,<br />
Cesarina, Isabella. Rosa, che ha il negozio di fotografia. Antonino il falegname.<br />
C'è un po' di imbarazzo a parlare di festa quando ancora la terra trema, insicura.<br />
Ma forse è quasi un dovere, per ripartire. Vivono nelle tende gli abitanti di San<br />
Felice. Il comune, i vigili sono sotto un tendone di plastica.<br />
E allora riguardiamo le foto della gioia: il cortile del castello pieno di attori-non<br />
attori. Abiti colorati, trucchi da circo. I fumi rossi che avvolgono le mura. Guanti<br />
bianchi che muovono l'aria. Eccolo San Felice sul Panaro, ecco i suoi ricordi buoni<br />
da cui si può ripartire. Sembra di sentire le voci del castello: «Presto, presto, al<br />
trucco, bisogna cominciare». Eccoli che escono lentamente dal portone<br />
principale, sfilano in ogni vicolo. In silenzio. I fotografi li aspettano per<br />
acchiappare con uno scatto i loro sogni, i loro volti. Centinaia di immagini. Un<br />
film a cielo aperto. La Rocca era il teatro, il deposito degli abiti dove venivano<br />
custodite le scenografie. E poi tutte le finestre addobbate. Tutto San Felice<br />
diventa una sequenza di set fotografici, con i mimi e i loro gesti surreali. Ci sono<br />
gli scatti dei fotografi per un giorno e le immagini dell'occhio profondo di Gianni<br />
Berengo Gardin.<br />
È vero, adesso sembra una città fantasma, ferita nella sua storia, nei suoi luoghi<br />
dalla terra infida. Aveva deciso che quest'anno no, sarebbe stato l'ultimo anno<br />
per Magico. Perché a un certo punto si può essere stanchi. Alla cena che il<br />
comune dona a tutti i cittadini alla fine della manifestazione l'aveva anche detto:<br />
questa è l'ultima edizione. «Trascuro la mia pittura, datemi un anno di riposo»,<br />
aveva detto Lasalandra, fotografo-poeta. Ma la città non vuole fermarsi. C'è<br />
anche il titolo per l'edizione dell'anno prossimo: «Diario di un sogno». Certo è più<br />
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difficile immaginarlo tra le macerie. Spiega il sindaco, Alberto Silvestri:<br />
«Vogliamo tornare al più presto in quella direzione ma le continue scosse ci<br />
riportano sempre al punto zero. Mi piace pensare a Magico come simbolo della<br />
nostra rinascita. Adesso dobbiamo fare molte cose ma la Rocca è il nostro<br />
simbolo. Anche della voglia di ripartire». Anche da una fotografia.<br />
Fotografare il terremoto, contro il terremoto<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
Fratture cosismiche. Il piede serve per dare<br />
misura della dimensione della crepa. © Marco Massa – Ingv<br />
Fotografate “il mostro”, ve lo chiede l’Ingv. Il terremoto non ha volto, ma i graffi<br />
dei suoi artigli sul terreno e sugli edifici, tutti li possiamo purtroppo vedere. E i<br />
sismologi dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia li vogliono e li<br />
debbono vedere, perché vedere è capire, e capire è conoscere il mostro del<br />
sottosuolo. La sismologia è anche una semiotica: studia il terremoto attraverso i<br />
segni che imprime alla superficie terrestre, attraverso le tracce che ci lascia.<br />
I fotografi possono aiutarli. Mi fa piacere rilanciare qui un’idea appena nata<br />
dalla collaborazione fra l’Ingv e la rivista Reflex: raccogliere una documentazione<br />
fotografica spontanea ma accurata degli effetti del terremoto nella Bassa<br />
emiliana, con un appello alla collaborazione libera e volontaria di chiunque, dei<br />
fotografi, delle stesse popolazioni terremotate.<br />
Non è turismo della catastrofe, non è voyeurismo: quelle foto, spiega Marco<br />
Anzidei, ricercatore dell’Ingv, in un’ampia intervista concessa all’amica Claudia<br />
Rocchini, servono davvero. Le deformazioni di una strada, le crepe di una parete,<br />
gli affioramenti di fango o di sabbia, se guardati dalle persone giuste, rivelano<br />
dati preziosi sulla dinamica del sisma. E sono comunque promemoria,<br />
segnalazioni, indicazioni di luoghi dove i tecnici dell’Istituto potranno poi recarsi,<br />
a colpo sicuro, a studiare gli elementi più significativi direttamente sul campo.<br />
Reflex ha messo a disposizione le sue pagine Flickr per la raccolta delle<br />
immagini, che per essere utilizzabili dovranno possedere alcune caratteristiche<br />
importanti: essere geolocalizzate, ovvero includere i dati precisi di latitudine e<br />
longitudine, niente di difficile: i fotocellulari e alcune fotocamere dotate di<br />
connessione Gps lo fanno autromaticamente. In alternativa, bisognerà indicare<br />
l’indirizzo più preciso possibile.<br />
38
Poi, orientamento (una bussola nell’inquadratura servirebbe), dimensioni<br />
(includere nell’inquadratura un oggetto comune dalle dimensioni note, una figura<br />
umana come metro di misura). E soprattutto: niente deformazioni, niente<br />
manipolazioni, niente abbellimenti artistici, niente obiettivi troppo spinti, niente<br />
postproduzioni creative. Proprio l’eccesso di ritocchi ha reso inutilizzabile<br />
dall’Istituto gran parte del materiale fotografico già reperibile su Internet.<br />
L’appello è urgente: bisogna che più tracce possibili del sisma vengano<br />
registrate e segnalate, prima che la doverosa, auspicata ricostruzione (o magari<br />
solo un temporale) le cancelli. Da solo, l’Istituto non riuscirebbe mai a<br />
perlustrare e a censire in fretta il cratere del sisma. Mi pare che si possa dire che<br />
questa iniziativa è l’applicazione virtuosa, una volta tanto, di alcune potenzialità<br />
della Rete usate tanto spesso per scopi futili: il crowdsourcing, cioè la<br />
collaborazione coordinata di persone che non si conoscono tra loro, e lo user<br />
generated content, il flusso di immagini che sale dalla platea dei lettori fino<br />
all’imbuto dei media. Applicazione virtuosa perché il suo risultato non sarà solo<br />
un accumulo indiscriminato, puramente additivo, di immagini in un grande cesto,<br />
ma una base su cui un secondo livello di competenze potrà lavorare, ordinando,<br />
scegliendo, comparando. Mi pare un esperimento prezioso non solo per la<br />
sismologia, ma anche per la fotografia…<br />
E vi spiego perché. Potete leggere altri dettagli nei siti che vi ho linkato, ora<br />
lasciatemi fare alcune considerazioni più fotografiche. Dunque, le fotografie<br />
possono essere ancora un documento. Correttamente, criticamente studiate<br />
possono essere il reperto parlante di uno stato delle cose del mondo reale.<br />
Dunque la fotografia, con tutte le sue infedeltà di testimone debole, se ben<br />
interrogata sa ancora indicare, sa ancora offrire indizi (da verificare, da<br />
indagare) su quella gran scena del delitto che è il mondo. Dunque può ancora<br />
rendere un servizio alla conoscenza e al benessere della società. Dunque, la<br />
fotografia è ancora un prelievo di qualcosa del mondo fisico che può essere<br />
studiato, che può essere riconosciuto come esistente.<br />
Dunque tante chiacchiere postmoderne sulla morte del referente, sul taglio<br />
irrimediabile del “cordone ombelicale” fra immagine e realtà, sull’”età del<br />
sospetto” verso le immagini che la sedicente rivoluzione digitale avrebbe reso<br />
tutte indiscriminatamente inaffidabili e false, tutte queste chiacchiere frullano a<br />
vuoto di fronte alla realtà di questa pratica della fotografia come raccolta di dati<br />
visuali, al servizio della scienza e del pubblico interesse. Dunque, semmai, se c’è<br />
qualcosa che minaccia l’utilità della fotografia come prelievo di aspetti utili del<br />
reale, è semmai l’eccesso di interventi manipolatori imposti alla superficie<br />
dell’immagine, cioè l’immissione di elementi artificiosi e non fotografici nel<br />
processo del prelievo fotografico, che si aggiungono alle deformazioni<br />
connaturate nel processo stesso.<br />
Dunque, nonostante tutto, le fotografie ci servono ancora per avere una<br />
relazione con il mondo.<br />
Mario Dondero, la mostra antologica del fotografo<br />
39
di Federica Ferraris da http://genova.mentelocale.it<br />
Galleria:<br />
© foto: Gianni Ansaldi<br />
'Dalla Parte dell'Uomo': a Genova una raccolta di scatti per ripercorrere la<br />
carriera del fotoreporter.<br />
Dal 15 giugno al 19 agosto al Palazzo Ducale di Genova nella Loggia degli<br />
Abati. L'intervista<br />
Diapositive che si guardano controluce con gli occhi strizzati. Dagli occhi alla<br />
bocca il passaggio è breve per Mario Dondero. Ricordi che affiorano ad ogni<br />
sagoma che emerge dalla plastica trasparente. Poi si gira, mi guarda un po’ e<br />
mi dice: «Il mio narcisismo si esalta, quando allestisco una mostra». E<br />
scompare nella stanza accanto. In movimento, sempre.<br />
Il fotografo si trova a Genova nelle stanze di Palazzo Ducale, per allestire la<br />
mostra Dalla Parte dell'Uomo, sua personale che inaugura venerdì 15 giugno<br />
(ore 17.30), presso la Loggia degli Abati. Lui starà a Genova fino a sabato,<br />
perché poi deve andare a Bologna: martedì 19 giugno inaugura alla Cineteca<br />
del capoluogo dell'Emilia-Romagna un'altra mostra a lui dedicata.<br />
Mario Dondero è così, classe 1928, e stargli dietro a fatica. Si sposta, racconta,<br />
indica, tocca, torna indietro: «Volevo dirti ancora una cosa». Manca quasi il<br />
40
espiro. Ma lui sorride, ti si avvicina, ti mette a tuo agio: «Facciamo che ci<br />
diamo del tu, anzi no, io ti do del lei». E poi un sorriso. Ancora uno. Mi chiede<br />
se vogliamo sederci, ma è subito in piedi.<br />
Inizia il mio viaggio, il nostro viaggio attraverso la storia. Quella vera, cruda e<br />
crudele che arriva e si prende ciò che vuole. Uno scatto per intrappolarla, fatto<br />
di nascosto, sul momento. Come l’abbraccio di una mamma a un postino che le<br />
annuncia che suo figlio, imbarcato sul transatlantico Andrea Doria nel 1956, è<br />
ancora vivo. E lui era lì, abbarbicato in cima a una scala, aspettando l’attimo<br />
per acchiapparlo. Come quando prendi tra le mani un grillo e lo senti saltare<br />
nei palmi. Il sorriso di quella mamma saltella davanti ai miei occhi, mentre<br />
Mario mi racconta le sue storie.<br />
Si parla di tutto, perché lui è stato dappertutto. Ha visto tutto attraverso<br />
l’obbiettivo della sua Leica, ma non solo: «Qualche giorno fa sono stato alla<br />
conferenza stampa di Hollande con Putin, a Parigi, e tutti i fotografi vicino a me<br />
mi guardavano storto, perché avevo tra le mani una vecchia Nikon analogica,<br />
piccolina ma perfettamente funzionante». Ride divertito: «Sono un fotografo<br />
non conosciuto dai fotografi, ma dai giornalisti sì. D’altronde ho sempre<br />
lavorato tra i giornalisti».<br />
Perché alla fine lui è un giornalista. «Credo che per un fotografo sia meglio<br />
avere una formazione giornalistica, piuttosto che cinematografica. Un cronista<br />
ci mette tre minuti a fare una buona foto, perché sa quanto sia importante<br />
l’immediatezza dell’immagine, un cineasta ci mette due ore per fare una<br />
ripresa, figurati una foto». E il gusto per l’immagine? «La cultura dell’immagine<br />
ce l’abbiamo dentro, noi italiani. Pensa alla sezione aurea, è insita in noi. Nel<br />
reportage questo si deve fondere con la velocità e la tecnica, per attenersi alla<br />
verità». La verità, appunto: «Le foto belle non raccontano niente». Lo si legge<br />
negli occhi delle mondine portoghesi piegate nelle risaie in un’assolata giornata<br />
negli anni Cinquanta. O negli occhi di una ragazza che, attraverso il vetro di un<br />
caffè parigino, guarda dritta nell’obiettivo di Dondero: «Poi è arrivato il suo<br />
moroso», scherza Mario.<br />
Con lui tutte le storie proseguono al di fuori delle cornici nere che racchiudono<br />
le sue foto, finestre sul mondo. «Nella foto del Nouveau Roman, lo vedi Lindon<br />
che guarda a destra? Ecco, stava aspettando qualcuno». E quel qualcuno mi<br />
sembra di vederlo mentre corre verso il gruppetto di romanzieri, un po’ sparuto<br />
e disomogeneo sul marciapiede di rue Bernard Palissy, a Parigi. Lo sguardo un<br />
po’ perso di Elsa Morante. Il sorriso di Pasolini e la figura di sua madre, sullo<br />
sfondo, sfocata. Bacon, ritratto nel caos del suo studio «Mi diede buca per tre<br />
volte. Poi lo incontrai in un caffè, a Parigi. Era con un mio amico, che me lo<br />
presentò. Gli feci presente l’accaduto e lui mi disse che era colpa della sua<br />
segretaria, che odiava gli italiani. Così riuscii a fotografarlo». Tutti questi<br />
personaggi si guardano, da una parte all'altra delle stanze della Loggia degli<br />
Abati.<br />
Protagonisti di un mondo ben lontano dall’attualità di mamme, postini e<br />
mondine. «Non proprio, trovo i romanzieri persone profondamente coinvolti nel<br />
mondo. A volte solo loro sono in grado di raccontare le cose come sono<br />
realmente. Mi viene in mente Francois Maspero, che ne Les temps des Italiens<br />
racconta com’erano davvero gli italiani in guerra. Fascisti sì, ma non dei<br />
perseguitatori come lo erano i tedeschi. Nessun giornalista ha mai affrontato<br />
41
questo argomento. Lo ha fatto uno scrittore».<br />
La guerra. Altra costante. Quella fotografata, ma anche quella fatta. Appena<br />
ragazzino, Mario ha fatto parte della Repubblica Partigiana dell’Ossola: «Ho<br />
avuto un paio di colpi di fortuna, che mi hanno salvato la pelle in quel<br />
periodo». Anche se la pelle l’ha rischiata veramente in altre occasioni, mi<br />
racconta. Per esempio, il 25 aprile 1967 a Milano, in piazza Cavour: «Un<br />
gruppo di studenti stava manifestando pacificamente, quando il Battaglione<br />
Padova li ha attaccati brutalmente. L’ho trovata una cosa così scellerata che,<br />
istintivamente, ho preso una ragazza per un braccio, per tirarla via. Potevi<br />
essere tu. Così i militari si sono avventati su di me, massacrandomi». Altro che<br />
le galere dell’Africa.<br />
Continuiamo a spostarci tra le stanze della mostra; Mario mi prende per un<br />
braccio ogni tanto, per farmi chinare fino a incrociare gli occhi di un uomo dai<br />
tratti mediorientali: «Questo adesso sarà un capo dei talebani, credo», mi<br />
comunica con estrema naturalezza. Oppure mi spinge per osservare meglio la<br />
foto di un figlio delle favelas brasiliane che dorme accoccolato tra le gambe di<br />
una statua. Un’opera d’arte nell’opera d’arte. E poi, grazie a un'altra foto che<br />
ritrae un omino arrampicato su di un albero della cuccagna, mi fa toccare la<br />
luna: «Altro che Nasa, lui ce l’ha fatta ad arrivare sulla luna».<br />
Quando rimango indietro per prendere appunti, Mario Dondero viene a<br />
ripescarmi e mi spinge avanti. Mi fa entrare nelle sue foto. Sono in Africa, tra i<br />
medici di Emergency, sposto lo sguardo e atterro nella Russia di Putin. Poi<br />
vado a Parigi, in metro, vicino a un clochard. Guardiamo un po' tristi Jean<br />
Seberg: «È morta in un modo così infelice e misterioso».<br />
Passiamo davanti a una serie di foto di guerra: «Non sono mai stato l’Erodoto<br />
della situazione. Né amo definirmi un fotografo di guerra. Anche se ho<br />
partecipato a sette o otto conflitti».<br />
Ma ora le guerre si riprendono attraverso un telefonino: cosa significa questo<br />
per un fotografo così attaccato ai suoi strumenti? «Il digitale è un’opportunità<br />
interessante. Ma io sono troppo affezionato all’analogico, direi in maniera<br />
sessuale. Sono legato al gesto. Al doppio click che faccio fare alla mia Leica<br />
prima di ogni scatto».<br />
E ai tempi della quantità che supera la qualità, anche nel campo della<br />
fotografia, c'è stato un momento che ha abbassato la macchina fotografica.<br />
Una foto che davvero non andava fatta? Mario mi guarda, sembra quasi si<br />
incupisca: «La foto di quel dittatore che spara alla testa di un dissidente. Ecco,<br />
quella non l'avrei mai scattata. Ci sono delle occasioni in cui una macchina<br />
fotografica può accelerare gli eventi, quello è uno di quei casi. Se quel<br />
fotografo non fosse stato lì a premere il pulsante della sua macchina, forse la<br />
vita di quel prigioniero sarebbe finita in modo diverso».<br />
E allora chi è Mario Dondero? Sorride, come al solito: «In Francia mi<br />
definiscono un fotografo letterario. Non sono mai riuscito ad affrancarmi da<br />
questa etichetta. Ma in fondo il segreto nel mondo della fotografia è l’essere<br />
specializzato in un argomento. Poi puoi fare quello che vuoi. Io ho sempre<br />
rifiutato le categorie». E poi ancora un aneddoto: «Una volta sono andato<br />
all’ippodromo di Parigi con Robert Doisneau. All’epoca io non ero nessuno, ma<br />
42
lui era già un fotografo affermato. Beh, non ci hanno fatto accedere al bordo<br />
pista perché non eravamo degli specialisti».<br />
MARIO DONDERO<br />
Di origini genovesi, nasce a Milano il 6 maggio 1928. Inizia a lavorare nei primi<br />
anni '50 collaborando con L'Unità, L'Avanti e poi come cronista a Milano sera.<br />
Successivamente collabora con la rivista Le ore, animata principalmente da<br />
Salvato Cappelli, Giuseppe Trevisani e Pasquale Prunai, il cui slogan è «una foto<br />
vale 1000 parole».<br />
Legato al cosiddetto gruppo dei "Giamaicani" (i frequentatori del bar Giamaica)<br />
Milan Alfa Castaldi, Camilla Cederna, Luciano Bianciardi, Giulia Niccolai, Carlo<br />
Bavagnoli, Ugo Mulas, Uliano Lucas nel 1955 si sposta a Parigi dove collabora<br />
con testate italiane come L'Espresso e L'Illustrazione Italiana, ma anche con Le<br />
Monde, Le Nouvel Observateur, Le Figaro. Diventa amico di molti scrittori e<br />
intellettuali francesi, che ritrae (famosa la foto di gruppo degli scrittori del<br />
cosiddetto Nouveau Roman).<br />
Si è cimentato anche con il documentario cinematografico, realizzando come<br />
autore alcuni documentari a carattere politico-sociale per la romana Unitelefilm,<br />
per la RAI Racconti per immagini per la rubrica Fotostorie destinata ai<br />
giovanissimi e collaborando a programmi televisivi stranieri.<br />
LA MOSTRA:16 giugno-19 agosto - Genova, Palazzo Ducale (Loggia degli Abati) - Orari: tutti i<br />
giorni (tranne lunedì) dalle 11 alle 19. Biglietti: 4 Eu cumulativo mostra Dondero + Giacomelli; 6<br />
Eu con inclusa anche la visita alla Torre<br />
Oltre 400 presenze per l’inaugurazione di “Itaca” a<br />
Bibbiena. La soddisfazione dell’assessore Buondonno<br />
da http://www.informazione.tv/<br />
Ad una settimana dall’inaugurazione, non si spegne l’attenzione mediatica per la<br />
mostra “ITAca - Storie d’Italia” di Giovanni Marrozzini, sostenuta dalla Provincia<br />
di Fermo ed esposta fino a settembre presso il CIFA (Centro Italiano della<br />
Fotografia d’Autore) di Bibbiena, in provincia di Arezzo.<br />
“Si tratta di una mostra bellissima - dichiara l’Assessore alla Cultura Giuseppe<br />
Buondonno, presente a Bibbiena lo scorso 16 giugno - e, anche se quando<br />
abbiamo deciso di sostenere l’idea di Marrozzini avevamo intuito<br />
immediatamente l’importanza di un progetto articolato in numerosi workshop ed<br />
iniziative in giro per tutta l’Italia, la realtà ha superato le aspettative.<br />
E’ uno sguardo straordinario e straordinariamente intenso sulle tante storie del<br />
nostro Paese e, quindi, sulle tante storie dell’umanità. Voglio ringraziare i molti<br />
fermani presenti all’inaugurazione, perché è stata la testimonianza di un<br />
territorio che da alla fotografia una grande importanza e che, soprattutto, ha<br />
un’importanza nella storia della fotografia, abbondantemente riconosciuta<br />
dall’ospitalità e dall’attenzione che abbiamo ricevuto dal Presidente della<br />
Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, dal Presidente della Provincia di<br />
Arezzo e dalla stessa Regione Toscana.<br />
Non è un caso che proprio il Presidente della FIAF abbia parlato di Marrozzini<br />
come di uno dei maggiori e più interessanti fotografi italiani di questa fase<br />
43
storica. E l’importanza del lavoro lo conferma: un lavoro fatto di ricerca, anche<br />
originale per la sua narrazione plurale, letteraria e fotografica dell’Italia.<br />
Come Provincia, insieme al Comune di Fermo ed alla Fototeca provinciale, stiamo<br />
già lavorando per allestire dopo settembre la mostra nella città capoluogo. Voglio<br />
rimarcare, infine, come anche l’iniziativa della Fototeca provinciale, e quindi di<br />
un archivio pubblico, sia stata fortemente apprezzata dalla stessa FIAF nei suoi<br />
massimi rappresentanti”.<br />
“La mia soddisfazione è enorme - sottolinea Giovanni Marrozzini - e voglio<br />
condividerla con le oltre 400 persone presenti all’inaugurazione. Quello con la<br />
fotografia è un lungo viaggio, iniziato 8 anni fa; un viaggio che non immaginavo<br />
potesse diventare una professione così stimolante, anche se difficile e faticosa,<br />
che mi ha portato lontano da casa per tanto tempo.<br />
Realizzare poi “ITAca” in occasione del 150° anno dell’Unità, scommettendo su<br />
un giovane come Matteo Fulimeni e sulla sua capacità di raccontare storie,<br />
sperimentando a bordo di un camper per un intero anno questo parallelismo tra<br />
fotografia e scrittura, tutto questo mi ha fatto conoscere un’Italia meravigliosa<br />
ma con poca voglia di riscattarsi, un’Italia con poca consapevolezza, che<br />
necessita di un vero e proprio punto e a capo.<br />
Il lavoro fatto con Matteo non ha, però, la presunzione di identificare una<br />
Nazione: se qualcuno, poi, ritroverà se stesso o il Paese nelle foto e nei testi,<br />
allora vorrà dire che c’è qualcosa in comune da cui ripartire ed iniziare a<br />
costruire”.<br />
Ricostruire la Pianura Padana attraverso le foto<br />
da http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it<br />
Un progetto, gratuito e aperto a tutti, per lo studio e la ricostruzione della<br />
Pianura Padana attraverso le foto dei danni causati dal terremoto: promosso<br />
dall'INGV e dal mensile Fotografia Reflex, ha lo scopo di pianificare interventi di<br />
ripristino e ricostruzione di edifici storici<br />
L'INGV e FOTOGRAFIA REFLEX lanciano un progetto congiunto di pubblica utilità<br />
per fini di ricerca ed elaborazione di progetti specifici per lo studio e la<br />
ricostruzione delle zone terremotate in Pianura Padana, attraverso la fotografia.<br />
L'iniziativa è finalizzata alla raccolta documentale delle immagini degli eventi<br />
sismici di queste ultime settimane, permettendo di elaborare informazioni molto<br />
utili, in particolare per la ricostruzione di edifici storici.<br />
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Pubblichiamo pertano integralmente il testo del comunicato stampa INGV<br />
relativo a questa iniziativa:<br />
"L'iniziativa nasce dall'incontro tra Giulio Forti, editore di FOTOGRAFIA REFLEX,<br />
Claudia Rocchini, fotogiornalista e ideatrice del progetto e Marco Anzidei, primo<br />
ricercatore dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.<br />
Al fine di migliorare la diffusione dell'informazione sulle attività dell'INGV e per<br />
rendere più consapevole la popolazione sui fenomeni sismici e vulcanici, Anzidei<br />
ha creato una pagina dell'INGV su Flickr http://www.flickr.com/photos/ingv/,<br />
primario sito web per fotografi, pubblicando centinaia di immagini scattate dai<br />
ricercatori INGV, con descrizione bilingue degli effetti degli eventi sismici del<br />
terremoto nella Pianura Padana del 20 maggio scorso e che, ad oggi conta circa<br />
2.000.000 di visite.<br />
Il mensile FOTOGRAFIA REFLEX ha quindi lanciato l'invito alle popolazioni delle<br />
aree colpite dai recenti eventi sismici a scattare immagini dei danni nei luoghi<br />
terremotati, in modo che possano essere utilizzate per fini di ricerca ed<br />
elaborazione di progetti specifici per la ricostruzione.<br />
"Siamo stati contattati da architetti e ingegneri, che stanno già usando le nostre<br />
foto e quelle dei lettori di FOTOGRAFIA REFLEX, per iniziare a pianificare<br />
interventi di ripristino e ricostruzione di edifici storici", sottolinea Anzidei, che in<br />
un'intervista di Claudia Rocchini pubblicata nel numero di luglio di FOTOGRAFIA<br />
REFLEX, ma disponibile integralmente su www.reflex.it, illustra nel dettaglio le<br />
caratteristiche dell'iniziativa.<br />
L'iniziativa non va confusa con le immagini fatte dalla stampa in genere perché,<br />
in questo caso, le fotografie ricevute serviranno per collaborare ad un'operazione<br />
di servizio pubblico.<br />
È importante sottolineare che non si tratta di una forma di turismo fotografico<br />
della tragedia che ha colpito tante persone, ma nasce dalle necessità dell'INGV di<br />
ricevere più rapidamente possibile immagini degli effetti del terremoto sugli<br />
edifici e sull'ambiente: "una foto inviata attraverso il web, usando anche<br />
smartphone, cellulari e macchine fotografiche digitali, ci permette di interpretare<br />
immediatamente l'entità e la tipologia del fenomeno e valutare dove intervenire.<br />
Un conto è partire sapendo già dove andare, un conto è arrivare sul territorio e<br />
dover cercare le segnature sul terreno degli effetti più significativi di un evento,<br />
intesi come luogo che geologicamente per noi assume maggiore rilevanza",<br />
spiega Anzidei.<br />
Per la raccolta delle immagini, FOTOGRAFIA REFLEX ha messo a disposizione<br />
dell'INGV il proprio <strong>Gruppo</strong> su Flickr: www.flickr.com/groups/fotografia_reflex/.<br />
L'iscrizione è libera, gratuita e aperta a chiunque possieda uno strumento di<br />
ripresa fotografica, possibilmente dotato di funzione GPS, per identificare il luogo<br />
di ogni scatto una volta attivata la funzione di localizzazione per essere rese<br />
immediatamente disponibili ai ricercatori dell'INGV e contribuire, oltreché allo<br />
studio degli eventi sismici, anche all'elaborazione di progetti di ricostruzione<br />
secondo criteri antisismici".<br />
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Gli eBook di Contrasto<br />
Da mercoledì 4 luglio disponibili i primi cinque eBook Logos, la collana di<br />
divulgazione e approfondimento sui temi e le forme dell’immagine<br />
contemporanea. I libri selezionati dal catalogo per l’edizione digitale sono già<br />
grandi successi.<br />
L’autobiografia di John Morris, il più importante photoeditor del Ventesimo secolo<br />
con un’esclusiva intervista video, il saggio di Max Kozloff su Vermeer e<br />
l’approfondimento di Isabella Pedicini sugli anni romani di Francesca Woodman.<br />
E poi la raccolta di saggi su Albert Camus curata da Goffredo Fofi e Vittorio<br />
Giacopini e l’ultimo titolo appena pubblicato, Doppia negazione, il romanzo del<br />
sudafricano Ivan Vladislaviċ.<br />
Come per l’edizione cartacea, i titoli Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola e<br />
La luce di Vermeer saranno disponibili anche in inglese.<br />
La grande fotografia d’autore in digitale disponibile per iPad, iPhone, Kindle e Android, in tutte le<br />
librerie on line o sul sito Contrastobooks.<br />
Per due settimane a partire dal 4 luglio tutti gli eBook saranno<br />
disponibili al prezzo lancio di 9,99 Euro.<br />
Da Lady Gaga ad Angelina Jolie -<br />
Lo star system di David LaChapelle<br />
A Lucca, al Center of Contemporary Art, una mostra celebra il genio della<br />
fotografia contemporanea, tra eccessi kitsch e celebrità. Oltre 50 scatti<br />
ne ripercorrono la carriera<br />
di Laura Larcan da http://www.repubblica.it/speciali/arte/recensioni/<br />
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LaChapelle, le star stravaganti e sensuali<br />
LUCCA - Un mentore come Andy Warhol non è cosa da poco. Quando, all'inizio<br />
degli anni '80, David LaChapelle, americano del Connecticut, classe '63, cominciò<br />
ad esibire nelle gallerie di New York le sue fotografie già così sofisticatamente<br />
eccentriche, il padre della Pop Art ne rimase subito intrigato, tanto che lo reclutò<br />
nella scuderia di Interview Magazine a immortalare il mondo delle celebrità.<br />
"Interview era un giornale dove si doveva apparire - racconta il fotografo - Se<br />
uno voleva sapere cosa succedeva nel mondo, il mondo dell? arte e della cultura<br />
pop, guardava Interview". Da quelle pagine forgiate nella factory di Warhol, il<br />
suo estro glamour, iperrealista, teatrale e po' folle ha conquistato le più illustri<br />
copertine del jet set, diventando lui stesso una celebrità della fotografia<br />
contemporanea.<br />
LE IMMAGINI 1<br />
E dal 29 giugno al 4 novembre, una mostra antologica, "David LaChapelle", ne<br />
ripercorre la carriera. Al Lucca Center of Contemporary Art, sotto la cura di<br />
Maurizio Vanni, sfilano 53 scatti che raccontano le sue dieci memorabili serie,<br />
dove spiccano alcuni dei personaggi più noti della scena internazionale<br />
trasfigurati dal suo obiettivo di regista visionario e raffinatamente kitsch. Da<br />
Lady Gaga ad Angelina Jolie, da Paris Hilton a Michael Jackson. "LaChapelle non<br />
è il fotografo dello scatto rubato, non è<br />
l? artista che vive con la macchina fotografica al collo in attesa di un evento<br />
straordinario da immortalare, non è il reporter che rischia la vita per regalarci l?<br />
attimo prima di qualcosa che cambierà il mondo - dice Maurizio Vanni - È<br />
semplicemente un sismografo del proprio tempo che rende evidenti concetti e<br />
considerazioni, visualizzandoli prima nella propria mente, attraverso scatti<br />
concepiti come fossero grandi dipinti. In molti suoi lavori, infatti, l? approccio è<br />
più da pittore tradizionale che da fotografo".<br />
"E così allestisce un suo personalissimo set - aggiunge Vanni -cercando di<br />
realizzare qualcosa di esclusivo, ovvero fotografare ciò che razionalmente non<br />
sarebbe considerato fotografabile. Prima dello scatto, LaChapelle si trasforma in<br />
un regista di corpi e di anime che comunica con il suo team e trasmette il<br />
pensiero del suo lavoro ai modelli che ha scelto". Per lo "star system" ecco "Elton<br />
John: Egg on His face" dove la star, ha le uova della sua colazione sugli occhi, o<br />
"Lady Gaga: Metropolis", protagonista di uno spot pubblicitario per un concerto<br />
su un pianeta alieno. Ci sono le opere ispirate in chiave Pop alla Cappella Sistina<br />
di Michelangelo, come "Cathedral", dove un gruppo di persone di età differenti<br />
pregano dentro una chiesa immersa nell'acqua.<br />
E i lavori della serie "Excess" che giocano con le ossessioni e gli eccessi sessuali<br />
tra fantasie erotiche e voyeurismi. "Plastic People" raccoglie le immagini che<br />
corrodono lo stereotipo fisico, la bellezza ad ogni costo, con muse ideali come<br />
Pamela Anderson, Courtney Love e Amanda Lepore. La sezione "Art References"<br />
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dialoga con i capolavori della storia dell'arte, come in "Birth of Venus", ispirata<br />
alla Nascita di Venere del Botticelli, con un? ironica conchiglia all? altezza del<br />
pube invece dei lunghi capelli biondi utilizzati dall? artista fiorentino. O "Angelina<br />
Jolie: Lusty Spring" che si ispira all? Estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo<br />
Bernini, tra le opere più importanti del Barocco.<br />
Notizie utili - "David LaChapelle", dal 29 giugno al 4 novembre <strong>2012</strong>, Lu. C. C. A. - Lucca -Center<br />
of Contemporary Art, Via della Fratta, 36, Lucca. Orari: fino al 31 agosto, martedì-giovedì 10-19,<br />
venerdì-sabato 10-24, domenica 10-19, lunedì chiuso. Dal 1 settembre al 4 Novembre, martedìdomenica<br />
10-19.Ingresso:intero €9 ridotto €7-Informazioni: 0583 571712<br />
Giacomo Costa e l’arte di fotografare il futuro<br />
di Tommaso Sabbatini da http://www.controcampus.it<br />
Giacomo Costa non è uno di quegli artisti che per il solo fatto di essere<br />
“blasonati” grazie ad un successo di critica pressoché mondiale, si sentono<br />
appartenenti ad un empireo di geni assoluti, che guardano ormai il mondo<br />
dall’alto di un iperuranio in grado di far perdere loro il contatto con la realtà di<br />
tutti i giorni.<br />
Al contrario, si potrebbe dire che lui ed il suo genio, alla quotidianità devono<br />
tutto: infatti, pur essendo sempre stato un appassionato di fotografia, Costa<br />
nella vita ha sperimentato un’ampia rosa di esperienze, come quando ha deciso<br />
di vivere a contatto con la natura tra i monti della Val D’Aosta facendo il<br />
meccanico e il soccorritore alpino.<br />
Ha cercato col passare del tempo di non spezzare mai il legame con la natura,<br />
testimone fedele della realtà e dell’azione dell’uomo sul e nel mondo, per questo<br />
ha sempre fotografato ciò che lo circondava, fino ad approdare all’idea che la<br />
fotografia doveva essere il suo modo per comunicare quello che la realtà gli<br />
trasmetteva.<br />
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La sua forma d’arte è nata così: partire dall’immagine di uno scatto per<br />
oltrepassare il confine del reale ed approdare alla proiezione di quella realtà nel<br />
futuro, cogliendone i tratti più drammatici. In questo modo, i palazzi che<br />
sovrastano il piazzale di una stazione si moltiplicano, arrampicandosi uno<br />
sull’altro fino a toccare quasi il cielo, occupando tutto lo spazio possibile,<br />
sostituendo l’aria col cemento e lo spazio libero con la loro presenza opprimente.<br />
Immortalando migliaia di scorci di un pianeta in sofferenza, Costa ha affinato nel<br />
corso degli anni numerose tecniche digitali di rimodulazione dell’immagine, fino<br />
ad arrivare al punto zero, se così si può dire, della sua creatività già matura:<br />
come lui stesso ha recentemente dichiarato in un’intervista al New York Times,<br />
una decina di anni fa egli ha realizzato che non avrebbe più avuto bisogno di<br />
fotografare il reale per poi rimodellarlo sul suo sentire, ma avrebbe potuto<br />
plasmare dal nulla la propria pessimistica ma verosimile visione dell’avvenire,<br />
attraverso la fotografia digitale.<br />
In una lunga serie di lavori tematici, che ne rispecchia il cammino creativo,<br />
l’artista ha voluto elaborare e diffondere la sua personale concezione del futuro,<br />
toccando numerosi punti nevralgici della realtà presente, con una spasmodica<br />
attenzione alle conseguenze devastanti dell’impatto umano sulla salute della<br />
Terra: di fronte alle sue opere digitali, si avverte il monito insito nella<br />
desolazione che quelle immagini trasmettono. L’enorme carcassa di un<br />
sottomarino incombe su quello che resta di una città; improbabili e mastodontici<br />
edifici grigi si intrecciano in un groviglio letale dove non resta spazio per niente<br />
che rimandi ad una forma di vita; una fila di alberi, ultimo brandello di una<br />
natura martoriata e deturpata, compongono una timida schiera sopra ad un<br />
oceano di palazzi, in una città fantasma (dalla sezione “Opere” del sito ufficiale<br />
dell’artista).<br />
La complessità e la potenza immaginifica delle opere di Costa gli hanno<br />
permesso di ricevere riconoscimenti a livello mondiale (comprese svariate<br />
esposizioni alle Biennali internazionali di fotografia da Torino a New Orleans),<br />
fino ad ispirare personaggi del calibro di Norman Foster, il celeberrimo architetto<br />
di fama internazionale, autentico collezionista delle opere dell’artista italiano.<br />
Il suo ultimo lavoro, che ne attesta anche la grande poliedricità, è una<br />
collaborazione con il Teatro della Pergola di Firenze, sua città natale: Costa,<br />
infatti, ha curato le scenografie dello spettacolo “Il gioco dell’amore e del caso”<br />
(tratto dall’omonima opera di Pierre Marivaux), proponendo un background di<br />
scena composto da sue immagini “in movimento”.<br />
Guardando le opere di Costa non è difficile cogliere quel sentimento di<br />
disillusione che accompagna i visionari paesaggi proposti dall’artista, una<br />
disillusione che comunica angoscia per il futuro e che vuole essere un forte<br />
campanello d’allarme rispetto alla nostra sensibilità nei confronti del pianeta.<br />
Proprio questa nostra sensibilità potrebbe essere, vuole dirci l’artista, la chiave<br />
per scongiurare scenari che, per il momento, restano immaginari, ma che<br />
potrebbero divenire più reali di quanto potremmo pensare: a deciderlo saremo<br />
noi.<br />
10 anni di Corigliano Calabro Fotografia<br />
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comunicato stampa da www.undo.net<br />
Lavori realizzati sul territorio e commissionati dal Festival nel<br />
corso degli anni: ricerche fotografiche che portano la firma di<br />
autori particolarmente dediti alla lettura del territorio. In mostra<br />
opere di Gianni Berengo Gardin, Francesco Radino, Toni<br />
Thorimbert, Gabriele Basilico, Enrico Bossan, Mario Cresci e altri.<br />
a cura di Valeria Moreschi e Cosmo Laera<br />
© Ferdinando Scianna<br />
GABRIELE BASILICO GIANNI BERENGO GARDIN ENRICO BOSSAN LUCA<br />
CAMPIGOTTO FRANCESCO CITO MARIO CRESCI MAURIZIO GALIMBERTI FRANCO<br />
FONTANA BERNARD PLOSSU FRANCESCO RADINO FERDINANDO SCIANNA TONI<br />
THORIMBERT<br />
50
Insieme ai fotografi saranno presenti i direttori artistici del Festival<br />
Cosmo Laera e Gaetano Gianzi.<br />
Sarà presente all’inaugurazione del 13 giugno anche Gente di fotografia, da<br />
quest’anno media partner del Festival<br />
In occasione del 10° anniversario di Corigliano Calabro Fotografia, le Gallerie<br />
Fnac ospitano una mostra collettiva che raccoglie i lavori realizzati sul territorio e<br />
commissionati dal Festival nel corso degli anni ai più importanti fotografi italiani<br />
e internazionali. Corigliano Calabro è stata così sede di indagine e di<br />
osservazione da parte di maestri della fotografia, a partire da Gianni Berengo<br />
Gardin, Francesco Radino, Toni Thorimbert, Gabriele Basilico, Enrico Bossan,<br />
Mario Cresci, Bernard Plossu, Maurizio Galimberti, Francesco Cito, Franco<br />
Fontana, Luca Campigotto fino a oggi con Ferdinando Scianna che sarà<br />
protagonista dell’edizione <strong>2012</strong> del Festival.<br />
Nel 2003 da un’idea di Gaetano Gianzi nasce Corigliano Calabro Fotografia con la<br />
direzione artistica di Cosmo Laera. Il festival produce ricerche fotografiche<br />
realizzate da grandi autori particolarmente dediti alla lettura del territorio<br />
finalizzando il tutto alla creazione di un archivio permanente che rimanga<br />
patrimonio della comunità. Naturalmente gli autori sono stati invitati e individuati<br />
per dare una rilettura e un’interpretazione dell’insieme sociale, paesaggistico e<br />
architettonico.<br />
Il primo autore a iniziare questo percorso è stato nel 2003 Gianni Berengo<br />
Gardin e le sue immagini hanno composto un libro edito da Contrasto. Nel 2004<br />
Francesco Radino ha lavorato sul rapporto tra Terra e Mare e Toni Thorimbert<br />
sulla moda con Io Donna, 2005 Gabriele Basilico sulle strutture urbane, 2006<br />
Enrico Bossan sul popolo dei giovani, 2007 Francesco Cito sulla gente e<br />
tradizioni, 2008 Mario Cresci sui luoghi e sulla memoria, 2009 Luca Campigotto<br />
sul centro storico e Bernard Plossu sull’intimità dei luoghi, 2010 Franco Fontana<br />
sui cromatismi della città, 2011 Maurizio Galimberti sulla frammentazione e il<br />
ready made; quest’anno il compito a Ferdinando Scianna di ricompattare il<br />
tessuto sociale con ambienti urbani e rurali attraverso cultura e tradizione nelle<br />
dinamiche del quotidiano. A Ferdinando Scianna va riconosciuto il merito di una<br />
sensibilità acuta e una capacità critica di un grande maestro capace di coniugare<br />
le proprie visioni con la classicità compositiva della fotografia internazionale.<br />
Corigliano Calabro Fotografia è una rassegna organizzata dalla Associazione<br />
Culturale Corigliano per la fotografia – con il patrocinio del Comune di Corigliano<br />
Calabro, il finanziamento della Regione Calabria e della Provincia di Cosenza e<br />
con il contributo di Ias Touring, Bufavella, Consorzio Sibarit, Mielemas Gallo<br />
frutta della piana di Sibari, ReNovare, Nital e Banca Popolare del Mezzogiorno –<br />
promossa per concretizzare una passione nei confronti di uno straordinario<br />
territorio ricco di preziosi siti d’arte e di bellezze naturali.<br />
Nel programma <strong>2012</strong> del Festival – che si svolgerà dal 30 giugno al 15<br />
settembre <strong>2012</strong> presso il Museo Castello Ducale di Corigliano Calabro – la<br />
fotografia sarà presente attraverso una serie di incontri, workshop, mostre,<br />
presentazioni di libri con gli autori più rappresentativi del panorama italiano.<br />
Tra le mostre in programma: Nino Migliori, Cuchi White, Ferdinando Scianna,<br />
Claudio Sabatino, Franco Carlisi, Guido Harari, Patrizia Bonanzinga, Giuseppe<br />
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Torcasio, Paola Fiorini, Beatrice Mancini, Gaetano Gianzi, Anna Romanello, e<br />
Luigi Cipparrone. Workshop con Guido Harari e incontri con vari autori tra cui<br />
Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Franco Fontana, Gabriele Basilico,<br />
Francesco Cito, Francesco Radino, ecc.<br />
Le stampe in Fine Art sono realizzate da Antonio Manta -Fnac - via Torino 02 - Milano - Dal<br />
Lunedì al Sabato dalle ore 9.30 alle ore 20<br />
Domenica dalle ore 10 alle ore 20 -Ingresso libero<br />
Battaglia torna in pista a Palermo<br />
Guiderà il centro della fotografia<br />
La consulenza gratuita al Comune è stata indicata dal sindaco Orlando.<br />
«Educheremo i giovani agli scatti dei maestri italiani»<br />
di Matilde Geraci da http://www.ilvostro.it/<br />
La fotografa Letizia Battaglia<br />
PALERMO – Letizia Battaglia è la prima consulente a titolo gratuito del<br />
Comune di Palermo e si occuperà della creazione di un Centro Internazionale di<br />
Fotografia, presso i Cantieri Culturali della Zisa. A darne notizia nei giorni scorsi<br />
è lei stessa dalla sua pagina Facebook.<br />
Lunedì 18 giugno le è stato conferito ufficialmente l’incarico dal sindaco Leoluca<br />
Orlando, con il quale la Battaglia aveva già lavorato. Nel 1991, infatti, dopo<br />
essere stata consigliere comunale con i Verdi e assessore comunale con la giunta<br />
Orlando, veniva eletta deputato all’Assemblea Regionale Siciliana con La Rete,<br />
nonché vice presidente della Commissione Cultura.<br />
COLLABORAZIONE GRATUITA – La nomina della Battaglia, fotoreporter<br />
famosa in tutto il mondo soprattutto per aver documentato con i suoi scatti gli<br />
anni di piombo di Palermo, si inserisce all’interno del bando lanciato dal Comune<br />
e rivolto a chi fosse interessato a collaborare a titolo gratuito con<br />
l’amministrazione, o a coloro interessati alle nomine di competenza della giunta<br />
o del sindaco in enti e amministrazioni esterne. Dopo aver già fondato il Centro<br />
di Documentazione Giuseppe Impastato, la 77enne fotografa palermitana si<br />
dedicherà alla creazione del Centro Internazionale di Fotografia.<br />
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GRANDE ENTUSIASMO E TANTI OBIETTIVI – Si è già tenuta presso Palazzo<br />
Ziino la prima riunione del gruppo, non ancora costituitosi associazione né<br />
fondazione, dimostrando una grande partecipazione sia di professionisti che di<br />
dilettanti, così come di semplici curiosi, tutti resisi disponibili allo sviluppo del<br />
“progetto a costo zero”, già approvato dal sindaco e dall’assessore alla Cultura<br />
Francesco Giambrone. In un clima di grande emozione ed entusiasmo, si sono<br />
quindi esposte le tante idee per la creazione del Centro, il cui principale obiettivo<br />
sarà quello di raccogliere tutto il materiale fotografico possibile riguardante la<br />
città, affinché artisti e cittadini possano beneficiarne. «Il Centro Internazionale di<br />
Fotografia Città di Palermo – afferma Letizia Battaglia – nasce dall’esigenza di<br />
sostenere culturalmente e coltivare i talenti emergenti che sono tantissimi e sino<br />
ad oggi isolati. Si vogliono far conoscere i maestri palermitani sparsi nel mondo e<br />
quelli del passato, ed educare i giovani fotografi alla conoscenza del lavoro dei<br />
grandi maestri italiani e stranieri».<br />
I TRE SPAZI DEL CENTRO – In attesa che venga confermata la sede in uno dei<br />
capannoni dei Cantieri Culturali della Zisa, si è già deciso che il Centro sarà<br />
articolato in tre spazi: Museo fotografico (che raccoglierà foto dei fotografi<br />
siciliani sparsi nel mondo realizzate nel passato o nel presente, a Palermo);<br />
Scuola di fotografia (per corsi e approfondimenti tenuti da fotografi<br />
professionisti, critici e professori di storia dell’arte); Galleria della fotografia<br />
contemporanea (che alternerà esposizioni di fotografi italiani e stranieri di chiara<br />
fama, a esposizioni di giovani talenti emergenti), alla quale sarà annessa una<br />
biblioteca.<br />
Al Pan i lavori fotografici di Stanley Kubrick<br />
Comunicato stampa riportato da http://www.casertanews.it/<br />
- Se non fosse diventato un regista geniale, forse sarebbe diventato un fotografo<br />
geniale. Il PAN |Palazzo delle Arti Napoli, dal 13 luglio al 9 settembre <strong>2012</strong>,<br />
presenta i sorprendenti lavori fotografici di Stanley Kubrick, che a soli 17 anni<br />
viene assunto da Look Magazine, una fra le più importanti riviste U.S.A., per<br />
documentare la vita quotidiana nell'America dell'immediato dopoguerra,<br />
attraverso le storie di celebri personaggi come Rocky Graziano o Montgomery<br />
Clift, le inquadrature contraddittorie di una New York in corsa per diventare la<br />
nuova capitale mondiale, o della giovane borghesia universitaria della Columbia<br />
University.<br />
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Il progetto espositivo, patrocinato dal Comune di Napoli, sostenuto<br />
dall'assessorato alla Cultura e al Turismo, e prodotto da GAmm Giunti con la<br />
collaborazione del Museum of the City of New York e per la prima volta in Italia<br />
con i Musées Royaux Des Beaux-Arts de Belgique, indaga un aspetto ancora<br />
poco conosciuto del celebre regista: il suo stile nel fare fotografia, che rivela una<br />
precocissima profondità umana, poi ritrovata nei suoi futuri capolavori di regia.<br />
La mostra è inoltre un'occasione per conoscere le radici della creatività di colui<br />
che sarebbe diventato un fotografo di prima grandezza, se non avesse<br />
improvvisamente lasciato il suo lavoro per girare il film "Paura e desiderio"<br />
(1953), primo lungometraggio di una straordinaria avventura da regista .<br />
In esposizione negli spazi del PAN 168 fotografie, realizzate dal giovanissimo<br />
fotografo tra il 1945 e il 1950, stampate dai negativi originali conservati nella<br />
Look Magazine Collection del Museo di New York. Questo patrimonio fotografico<br />
fino a poco tempo fa era quasi sconosciuto, e se ne aveva traccia soltanto nelle<br />
illustrazioni degli articoli pubblicati su Look Magazine, da quando il giovane<br />
Kubrick ritrasse un edicolante affranto per la morte di Roosevelt il 26 giugno<br />
1945. La foto affascinò così tanto Look Magazine che subito lo assunse come<br />
fotoreporter nella rivista, a soli 17 anni, pubblicando da quel momento tutti i suoi<br />
lavori fotografici.<br />
Tra le opere in mostra si possono ammirare il ritratto dedicato al giovane attore<br />
Montgomery Clift, ripreso nel suo appartamento; il campione di boxe italoamericano<br />
Rocky Graziano, uomo dall'infanzia difficile e migrato oltreoceano,<br />
colto da Kubrick sotto la doccia, alla ricerca della sua anima più autentica,<br />
lontano dai riflettori. Riprendendo Betsy Furstenberg il regista-fotografo ci fa<br />
entrare nel mondo di una bellezza canonica d'altri tempi, simbolo della vita<br />
mondana newyorkese, contrapposta alla vita precaria dei piccoli lustrascarpe che<br />
si aggirano agli angoli delle strade di New York con il loro sguardo altrove,<br />
lontano dalle scarpe che lucidano. Spazio anche per gli artisti del circo, con i loro<br />
retroscena, e per il genere poliziesco come in Crimini, dove Kubrick testimonia<br />
l'arresto di due malviventi seguendo le strategie dei poliziotti fino all'avvenuta<br />
cattura, e lasciando intravedere la vena indagatrice dell'occhio del futuro regista.<br />
Negli scatti della Columbia University, il giovane osserva dietro l'obiettivo il luogo<br />
d'élite dove l'America formava la classe dirigente del futuro.<br />
Le sue fotografie (passione che ereditò dal padre, insieme a quella degli scacchi)<br />
sono in realtà racconti a episodi, storie di vite, di personaggi enigmatici,<br />
contraddittori, come è contraddittoria Alice (Nicole Kidman) in Eyes Wide Shut, il<br />
suo ultimo film, dove è tormentata tra l'amore fedele per il marito e una<br />
lancinante brama sessuale e di mistero.<br />
Contraddizione umana, dramma psicologico, mistero, seduzione, nei personaggi<br />
delle fotografie si percepisce la stessa caratterizzazione estetica dei suoi film.<br />
L'influenza della fotografia giovanile sulle future opere cinematografiche del<br />
regista deriva in parte anche dal metodo della rivista Look, che cercava una<br />
narrazione a episodi. I responsabili della rivista volevano cioè che il soggetto<br />
fosse seguito costantemente, che venisse fotografato in tutto ciò che faceva.<br />
Sebbene divenuto regista di successo, il legame con la fotografia non si spezza<br />
mai: basta considerare i lunghi tempi di inquadratura cinematografica di Kubrick.<br />
Il regista passava ore a studiare il particolare dell'immagine, la prospettiva,<br />
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l'illuminazione, la posizione dei soggetti e degli oggetti in scena, come fosse una<br />
fotografia.<br />
Accompagna la mostra un catalogo GAmm Giunti.<br />
Visite dal lunedì al sabato 9,30-19,30. Domenica 9,30-14,30. Martedì chiuso. Infoline 081<br />
7958601.<br />
Fra le macerie, cercando l’originale perduto<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
“Il caso non esiste”, mi ha detto sorridendo e<br />
stringendomi la mano Giovanni Chiaramonte davanti alle rovine del Duomo di<br />
Mirandola. L’ho incontrato lì, dunque non per caso, qualche giorno dopo il<br />
terremoto, mentre giravo con un casco giallo in testa, scortato dai Vigili del<br />
fuoco, nella “zona rossa” della cittadina distrutta dal sisma. Anche lui era lì,<br />
casco giallo in testa, treppiede piantato nel posto giusto. Non lo conoscevo e non<br />
l’ho subito riconosciuto, ma ho capito che non era lì per un quotidiano. Ci siamo<br />
presentati, con mia grande sorpresa. Anche mentre mi occupo d’altro incrocio la<br />
fotografia, lo prendo come un segno del destino.<br />
Chiaramonte, per quei pochi che non lo conoscessero, è uno dei nostri maggiori<br />
fotografi di paesaggio, di architettura, di territorio, non un topografo ma uno<br />
sguardo critico, maturato molti anni fa in quella decisiva svolta nella fotografia<br />
italiana che fu il collettivo Viaggio in Italia promosso da Luigi Ghirri. A Mirandola<br />
è arrivato di sua iniziativa, spinto da un’ansia interiore, dal dolore per la rovina<br />
delle eredità della storia proprio in quei luoghi che frequentò con Ghirri. Aveva<br />
da poco terminato un lavoro per la facoltà di Architettura di Potsdam, in<br />
Germania, sui rapporti fra l’architettura della reggia prussiana e la cultura<br />
italiana. Ha riproposto alla Fachochschule di Potsdam una mostra istantanea<br />
sulle chiese atterrate dal sisma nella Bassa padana, aprirà il 5 luglio e avrà per<br />
titolo Omaggio all’Emilia. Un tributo doloroso a quel che crolla, e a quel che non<br />
crolla.<br />
Con grande generosità, di cui lo ringrazio, Chiaramonte ha accettato di mettere a<br />
disposizione di Repubblica Bologna e dei frequentatori di Fotocrazia un’anteprima<br />
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delle sue immagini, accompagnate da un commento intenso e profondo<br />
appositamente scritto per questo blog. Gli lascio subito la parola.<br />
_______________________________<br />
L’originale ritrovato<br />
Ho cominciato a conoscere ed amare la pianura padana, tra il Po e Modena, a<br />
metà degli anni Settanta del secolo scorso, del millennio passato, osservandola<br />
dal finestrino di una lentissima Volkswagen Maggiolino celeste guidata da Luigi<br />
Ghirri, impegnato nelle sue esplorazioni senza fine lungo la Via Emilia, alla<br />
ricerca dell’originale perduto.<br />
Ero con lui nell’azzurro crepuscolo invernale davanti alla canonica di Cittanova<br />
immersa nella radianza del cielo illuminato dalla luna piena. “Sarebbe bello<br />
morire in un posto così”, mi disse scattando la foto, e in un posto così Luigi ci è<br />
morto davvero, nella grande casa attaccata alla canonica di Roncocesi.<br />
Da allora, da quel giorno di sanValentino del 1992, non ero più riuscito a fare<br />
una sola immagine in quei luoghi, fino al giorno del terremoto, vent’anni dopo.<br />
La mattina della seconda tremenda scossa, davanti alle immagini delle rovine<br />
che s’illuminavano da un grande televisore in un’antica casa di Cesena, ho capito<br />
che valeva anche per me quello che aveva scritto Gabriel Garcia Màrquez: “Non<br />
si è di nessuna parte finché non si ha un morto sotto terra”.<br />
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Davanti al Telegiornale ho sentito Luigi morire un’altra volta, perché in quel<br />
momento era crollato definitivamente anche il mondo che lui aveva amato e in<br />
cui aveva vissuto e fotografato: mondo di cui anch’io facevo ormai<br />
indissolubilmente parte.<br />
Nelle mie fotografie, una luce giallo d’oro s’irradia dalle macerie della canonica di<br />
Cavazzeno, come dai mattoni crollati del Duomo di Mirandola, una luce che sento<br />
sgorgare dalla devozione alla forma d’amore che ha creato il mondo e in cui,<br />
generazione dopo generazione, sono state edificate le case e le chiese lungo la<br />
Via Emilia: una luce che s’irradia dall’origine ritrovata.<br />
Giovanni Chiaramonte<br />
Josef Koudelka / Saul Leiter<br />
FONDAZIONE FORMA PER LA FOTOGRAFIA, MILANO<br />
Comunicato stampa da www.undo.net<br />
"Zingari" ripropone la sequenza fotografica composta da 109 immagini<br />
del volume Cikani che Josef Koudelka progetto' nel 1970 e rimasto<br />
inedito. La filosofia del fotografo di strada, che lascia lo studio per<br />
cercare il ritmo della citta', corrisponde alla figura di Saul Leiter, del<br />
quale sono presentate fotografie, pitture e polaroid dipinte.<br />
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Josef Koudelka, Zingari<br />
Zingari è senza dubbio uno dei lavori fotografici più celebri del Novecento. La<br />
mostra presentata a Forma, in prima mondiale, rispecchia fedelmente la<br />
sequenza e il menabò del volume Cikáni (zingari in ceco) che lo stesso Koudelka<br />
aveva progettato nel 1970, prima di lasciare la Cecoslovacchia, e rimasto a lungo<br />
inedito. Quel volume, riproposto da Contrasto, testimonia la spettacolare<br />
teatralità visiva che Josef Koudelka aveva concepito intorno al suo lavoro di<br />
ricognizione fotografica delle comunità gitane dell’Est Europa.<br />
In esposizione sino al 16 settembre le 109 immagini del libro, sontuosamente<br />
stampate (sotto la stretta sorveglianza dell’autore) appositamente per la<br />
presentazione di Forma. Da un lato, le immagini raccontano la quotidianità delle<br />
comunità gitane negli anni Sessanta in Boemia, Moravia, Slovacchia, Romania,<br />
Ungheria e in alcuni casi in Francia e Spagna. Dall’altro, testimoniano lo sguardo<br />
penetrante e insolito dell’autore, la sua capacità di fermare, in momenti unici per<br />
la perfetta composizione formale e la pregnanza dell’azione, scene di vita<br />
familiare, momenti di festa, di gioco e di ritualità collettiva.<br />
Una dopo l’altra, le immagini compongono un vero affresco visivo di grande<br />
potenza e con poetica malinconia registrano la fine di un’epoca, la fine di un<br />
viaggio: quello del nomadismo zingaro in Europa. Riferimento essenziale “di<br />
culto” per generazioni di fotografi, Zingari mantiene nel tempo la sua forza e<br />
conferma la grandezza del suo autore, Josef Koudelka, tra i più grandi fotografi<br />
viventi.<br />
La mostra è presentata in collaborazione con Magnum Photos<br />
Biografia<br />
Josef Koudelka nasce in Moravia nel 1938. Inizia la sua carriera come ingegnere<br />
aeronautico e diventa fotografo professionista verso la fine degli anni Sessanta.<br />
Nel 1968 fotografa l’invasione sovietica di Praga, pubblicando le sue fotografie<br />
con le iniziali P. P. (Prague Photographer, fotografo di Praga). Per queste<br />
fotografie, nel 1969 riceve da anonimo il premio Robert Capa dell’Overseas Press<br />
Club. Nel 1970 lascia la Cecoslovacchia per cercare asilo politico e, poco dopo,<br />
entra a Magnum Photos. Nel 1975, viene pubblicata la prima edizione di Gypsies,<br />
il primo di una lunga serie di libri di questo fotografo, incluso Exiles (1988),<br />
Chaos (1999), Koudelka (2006) e Invasione Praga 68 (2008). Nel corso della sua<br />
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carriera Koudelka ha vinto svariati premi come il Prix Nadar (1978), il Grand Prix<br />
National de la Photographie (1989), il Grand Prix Cartier-Bresson (1991), e<br />
l’Hasselblad Foundation International Award in Photography (1992). Le sue<br />
fotografie sono state esposte al Museum of Modern Art e all’International Center<br />
of Photography di New York, all’Hayward Gallery di Londra, allo Stedelijk<br />
Museum di Amsterdam, al Palais de Tokyo di Parigi, alla Fondazione Forma di<br />
Milano e al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Nel 1992 ha ricevuto la nomina di<br />
Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura francese.<br />
Oggi vive fra Parigi e Praga.<br />
-----<br />
Saul Leiter, Le luci di New York fotografie, pitture e polaroid dipinte<br />
in collaborazione con Howard Greenberg Gallery, New York<br />
La filosofia del vero fotografo di strada, quello che lascia lo studio per correre<br />
lungo i marciapiedi e cercare il ritmo della città nelle insegne al neon o nei visi<br />
dei passanti, sembra disegnata su misura per Saul Leiter. Americano di<br />
Pittsburgh, classe 1923, Leiter è attratto già durante l’adolescenza dalla pittura.<br />
Lascia ben presto gli studi da rabbino e il destino che la famiglia aveva<br />
progettato per lui e si sposta a New York dove continua la sua ricerca pittorica.<br />
La visita a una mostra di Cartier-Bresson, nel 1947, deciderà il suo futuro: si<br />
procura una Leica e senza trascurare mai del tutto la pittura, comincia a<br />
percorrere la città di New York e a fermare in immagini straordinarie, prima in<br />
bianco e nero, poi anche a colori, le atmosfere, gli sguardi e gli incontri<br />
occasionali, perfino i profumi e gli odori, della metropoli.<br />
Leiter ha collaborato a lungo, soprattutto come fotografo di moda, con riviste<br />
come Life o anche Harper’s Bazaar, Elle, Nova, Vogue e Queen e in questi anni<br />
non ha mai smesso di osservare e di lavorare sulla visione. O meglio, sulle tante,<br />
possibili visioni che una vita di osservatore professionista gli offre.<br />
Le sue trasparenze sono sofisticatissime e semplici, come i titoli delle foto: suole,<br />
semaforo rosso, cappello di paglia... Perché è proprio un particolare, sistemato<br />
magari al lato estremo dell’inquadratura, che rende significativo quello scorcio,<br />
quello sguardo, quel lampo di luce, quella particolare giornata. E poi, quando i<br />
titoli non bastano più, ci saranno tante foto chiamate semplicemente strada,<br />
strada, strada: palcoscenico straordinario, regno del voyeurismo e del distacco.<br />
Ancora oggi, non ho perso il piacere di osservare le cose e ammirarle e scattare<br />
fotografie o dipingere. A volte, mi sveglio nel mezzo della notte e prendo un libro<br />
di Matisse, o di Cézanne o Sotatsu.<br />
Un dettaglio che non avevo notato prima, di colpo attrae la mia attenzione.<br />
Dipingere è magnifico. Quando mi stendo sul letto penso alla pittura. Amo<br />
fotografare ma la pittura è un’altra cosa. Ho sempre fotografato in modo molto<br />
libero, senza avere in testa nessuna particolare immagine, fotografia o dipinto,<br />
che sia. Chi vede i miei dipinti pensa che esiste una relazione tra l’uso del colore<br />
nei miei quadri e nelle fotografie.<br />
Cerco di rispettare determinate nozioni di bellezza anche se per qualcuno si<br />
tratta di concetti vecchio stile. Certi fotografi pensano che fotografando la<br />
miseria umana, puntano i riflettori su problemi seri. Io non penso che la miseria<br />
sia più profonda della felicità.<br />
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Saul Leiter. La mostra di Forma, realizzata in collaborazione con la Galleria<br />
Howard Greenberg di New York, presenta sino al 16 settembre una selezione<br />
straordinaria e inedita di fotografie in bianco e nero, a colori, quadri astratti e<br />
figurativi oltre a una serie di splendide polaroid dipinte.<br />
Saul Leiter nasce nel 1923 a Pittsburgh e comincia i suoi studi alla scuola<br />
teologica di Cleveland. A 23 anni intraprende la carriera di pittore a New York. Le<br />
sue prime foto in bianco e nero vengono esposte al MoMA. Alla fine degli anni<br />
Cinquanta le sue foto di moda appaiono su Esquire e su Harper’s Bazaar. Nei<br />
successivi venti anni Leiter continua a lavorare per la moda. Vive, dipinge e<br />
fotografa a New York.<br />
La Fondazione Forma per la Fotografia, creata da Contrasto, si avvale per la comunicazione della<br />
collaborazione di Corriere della Sera e ATM che ospita FORMA all'interno dello storico deposito dei<br />
tram del quartiere Ticinese. FORMA si avvale dell’indispensabile partecipazione di BNL <strong>Gruppo</strong><br />
Bnp Paribas e Coop.<br />
Ufficio Stampa Forma - Laura Bianconi, stampa@formafoto.it, lbianconi@formafoto.it,<br />
0258118067, 3357854609<br />
Fondazione Forma per la Fotografia -Piazza Tito Lucrezio Caro, 1 Milano<br />
Tutti i giorni dalle 11 alle 21. Giovedì e Venerdì fino alle 23. Chiuso il Lunedì<br />
Costo biglietto: 7.50 euro Ridotto 6 euro Scuole 4 euro<br />
Architettura, città, fotografia:<br />
Stefan Müller in mostra a Padova<br />
da http://www.architetti.com/<br />
Si è inaugurata venerdì 29 giugno a Padova Stefan Müller. L’architettura della<br />
città di Padova, mostra di fotografia a cura di Cinzia Simioni e Alessandro Tognon<br />
promossa da Associazione Culturale Di Architettura con il Comune di Padova.<br />
La fotografia è la protagonista di questo evento dove sono messi in mostra<br />
alcuni scatti inediti che il fotografo ha eseguito nella città di Padova. Nella<br />
consapevolezza che la figura della città moderna viene costruita, a partire dalla<br />
fine del Settecento, nel viaggio in Italia degli architetti tedeschi, inglesi e francesi<br />
alla scoperta dell’architettura greca e romana come fondamento dell’Europa e<br />
della civiltà occidentale, l’itinerario personale di Mϋller si ferma nella Città di<br />
Padova.<br />
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L’idea di riporre nelle mani di un fotografo il compito di descrivere le forma e i<br />
luoghi di una città come Padova, ha avuto come risultato una selezione di<br />
ventisei fotografie. Questa analisi sulla città va intesa anche come un’opera<br />
compiuta, un progetto esso stesso; un tentativo di valorizzare alcuni luoghi di<br />
una città che vive in quanto ricorda.<br />
È nell’esperienza di questi ambienti vissuti che ognuno di noi raccoglie e<br />
memorizza le proprie immagini di città. Così alcuni luoghi della Padova di<br />
Stefan Mϋller sembrano a volte messi in pausa perché ne venga colta una<br />
silenziosa teatralità, quasi meditativa.<br />
In occasione dell’inaugurazione, venerdì 29 giugno <strong>2012</strong> presso la Sala L. Paladin<br />
di Palazzo Moroni a Padova, si terrà la conferenza con Marta dalla Vecchia,<br />
assessore al commercio-turismo e attività produttive del Comune di Padova,<br />
Paolo Coltro, giornalista e fotografo, Gianni Fabbri, architetto, e Giovanni<br />
Umicini, fotografo.<br />
Scarica il flyer della mostra<br />
Stefan Mϋller (Bonn, 1965), dal 1990 al 1995 studia Scienza della<br />
comunicazione presso la Scuola professionale superiore di Dortmund. Nel 1992<br />
ottiene il primo incarico professionale dal Prof. O.M. Ungers. Nel 1994 si<br />
trasferisce a Berlino e da allora riceve incarichi da Kleihues+Kleihues, Max<br />
Dudler, Ortner+Ortner, Theo Brenner, Kahlfeldt, David Chippefield,<br />
Barkow+Leibinger e da altri famosi architetti. Dal 1998 è professore a contratto<br />
presso il laboratorio di Architettura della facoltà di Potsdam. Vive e lavora a<br />
Berlino. La sua opera viene esposta in alcune mostre personali nel 1997 a<br />
Potsdam (Città dell’ Architettura) e nel 2001 a Gibellina e presso l’Architektur<br />
Galerie Berlin, a Berlino. Presente anche con numerose fotografie nelle seguenti<br />
mostre: 2001 Architektur Landschaft Fotografie, ETH Zürich; 2004 La natura e<br />
l’artificio-9. Biennale di Architettura di Venezia; 2005 Max Dudler-Günther Förg-<br />
Architektur Galerie Berlin, Berlino; 2006 Jan Kleihues-Deutsches Architektur<br />
Zentrum, Berlino; 2006 Jan Kleihues-Architekturgalerie am Weissenhof,<br />
Stoccarda; 2006 Istituto per la cultura, l’arte e l’innovazione, Francoforte sul<br />
Meno; 2007 Uwe Schröder-Bauwerk-Architektur Galerie Berlin, Berlino; 2010<br />
Max Dudler–Galleria dell’Accademia d’arte, Düsseldorf; 2010 Max Dudler-AIT<br />
Architektur Salon, Monaco di Baviera. Importanti suoi scatti fotografici sono<br />
presenti in numerose pubblicazioni.<br />
SCHEDA EVENTO<br />
Stefan Müller. L’architettura della città di Padova a cura di Cinzia Simioni e Alessandro<br />
Tognon, Luogo Cortile pensile di Palazzo Moroni-Padova, Inaugurazione Sala L. Paladin,<br />
Padova-venerdì 29 giugno <strong>2012</strong> | ore 18.00, Periodo di apertura 29 giugno - 29 luglio <strong>2012</strong>.<br />
Cos’è italiano nella fotografia italiana<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
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Pubblico qui una parte della mia introduzione alla riedizione della Storia della<br />
fotografia italiana di Italo Zannier, appena uscita per i tipi dell’editore Quinlan.<br />
Un autoritratto giovanile di Italo Zannier<br />
Francesi, almeno sette. Sei inglesi e altrettanti tedeschi. Poi un americano, uno<br />
spagnolo, un norvegese, uno svizzero, e perfino un brasiliano. Quanti inventori<br />
ha avuto la fotografia. Dai più inverosimili ai più accreditati, dai celebri agli<br />
ignoti, dagli spodestati rancorosi ai millantatori sbeffeggiati.<br />
Italiani, però, nessuno. La storia è ben perfida. Nella culla della pittura, nel<br />
paese dell’ingegno, nella patria che insegnò al mondo a vedere, agli inizi<br />
dell’Ottocento non si poté trovare neanche uno straccio di ciarlatano, un<br />
brevettista di provincia, un erudito da strapazzo che potessero accampare anche<br />
implausibilmente un qualche brandello di merito, una sia pur risibile<br />
rivendicazione di priorità, una minuscola prova di paternità della scoperta<br />
meravigliosa che stava cambiando per sempre il modo di guardare il mondo.<br />
Ci si provò, per la verità. Perché a tutti fu chiaro, fin da subito, che quella<br />
della fotografia (o come diavolo si sarebbe chiamata alla fin fine, giacché ogni<br />
papà stava dando un nome diverso, spesso il proprio, alla figlioletta strillante e<br />
scalciante nella culla) non era un’invenzione pretenziosa e dimenticabile come<br />
mille altre del secolo di Bouvard e Pécuchet. Era l’invenzione che mancava<br />
all’autoaffermazione borghese, attesa e prodotta da quello che è stato definito il<br />
suo “bruciante desiderio”.<br />
E allora, sotto le Alpi, ci si ingegnò, avendo perso il treno degli scopritori, a<br />
spolverare almeno quello dei precursori, evocando dagli inferi i fantasmi dei<br />
grandi eclettici del Rinascimento o anche prima, per far loro rivendicare di aver<br />
intuito, previsto, anticipato, sperimentato quel che ci mancava poco, signori<br />
credete, ma davvero pochissimo, che diventasse fotografia: ossia la camera<br />
obscura, che forse, chissà, in mano ad alcuni di loro lo diventò davvero, magari<br />
senza che se ne rendesse conto, provando e riprovando, perché in fondo era<br />
possibile, no?, la chimica dei sali d’argento era lì per tutti, e magari, a ben<br />
cercare fra le righe, ecco, forse se non Leonardo, o magari Della Porta, quel<br />
meno rinomato Cellio, ecco, lui magari ce la fece davvero pasticciando con il suo<br />
fosforo, a dipingere con la luce, andiamo a rileggere…<br />
Certo, è intrigante, curioso, ma Italo Zannier, che pure per il Cellio ha avuto<br />
una speciale predilezione, sa che non basta questo per rendere italiana una<br />
storia della fotografia che non lo fu affatto, a lungo, neppure in Italia, invasa<br />
62
com’era da dagherrotipisti e clotipisti e collodionisti calati dal nord. Del resto,<br />
l’onestà dello storico dice che il “sogno della fotografia” non è ancora la<br />
fotografia, e che la storia non è una gara a chi arriva primo, e dunque anche la<br />
legittima intenzione di scrivere una storia della fotografia italiana non si giustifica<br />
con l’ansia di trovare alla patria nostra un posticino al sole, dio dei fotografi. [...]<br />
Come pioniere degli studi storici sulla fotografia in Italia, Zannier ha avuto<br />
alcuni rarefatti precursori e pochi successori, almeno fino a tempi recentissimi, e<br />
lui sa il perché, e me lo confidò un giorno: “Sa cosa mi disse un famosissimo<br />
studioso? Abbiamo già tanta arte in Italia, non c’è tempo da dedicare alla<br />
fotografia”.<br />
La vera minorità mai superata, la vera soglia di rispetto da cui la fotografia è<br />
sempre stata tenuta distante con degnazione e sufficienza, non è quella che la<br />
separava dalla scena dell’arte, che essendo in realtà un mercato è sempre<br />
generosamente disponibile a chi promette di portar denaro (e la fotografia lo ha<br />
fatto, ed è infatti stata ammessa da tempo). No, la vera emarginazione della<br />
fotografia è stata, forse è ancora, essere considerata argomento insufficiente per<br />
uno studio a piena dignità, per dar luogo a una disciplina dotata di specifici<br />
metodi e strumenti.<br />
No, che il fotografico fosse un campo di studi a tutto tondo, questo<br />
l’accademia non l’ha mai tollerato, il mondo della cultura ha sempre preferito<br />
lavorarci di rasoio, tagliare a fette il suo corpo enorme per poterlo metabolizzare<br />
meglio: zac, la bistecca della “foto d’autore” passi pure, ma si adegui, diventi un<br />
capitolo della storia dell’Arte, e anche in quel capitolo rispetti le regole di casa: i<br />
nomi, i grandi nomi innanzitutto, quelli dei creatori, disposti in successione<br />
vasariana, ordinati in plotoni di scuole e tendenze, maggiori e minori, con gradi e<br />
stellette, medaglieri e monumenti.<br />
Le frattaglie della fotografia non-autoriale, invece, quella scientifica, quella<br />
poliziesca, quella medica, quella pornografica, quella di riproduzione, quella<br />
privata e familiare, insomma tutte le fotografie che sono delcinazioni<br />
meravigliosamente divergenti di quel magico sistema di segni, unico nella storia,<br />
dell’uomo, quelle se ne stiano tranquilline nella bassa macelleria della sociologia,<br />
dell’antropologia, della storia materiale degli oggetti d’uso, nel magazzino rinfuso<br />
delle pratiche prive di valore autonomo, dei sub-sistemi, delle sub-culture. Che<br />
miopia.<br />
“Ma la fotografia”, mi disse ancora Zannier, “non ha ha cambiato solo l’arte,<br />
ha cambiato lo sguardo dell’uomo, guardi cosa le dico: ha cambiato il mondo”. In<br />
quegli anni diceva cose simili, inascoltato, un eretico della storia dell’arte,<br />
George Kubler, che proprio la “storia delle cose”, delle “forme visive” mise al<br />
primo posto, “intendendosi in questo termine sia i manufatti sia le opere d’arte,<br />
le repliche e gli esemplari unici, gli arnesi e le espressioni”, perché solo “da tutte<br />
queste cose insieme emerge una forma del tempo, si delinea un ritratto visibile<br />
dell’identità collettiva, sia essa tribù, classe o nazione”. [...]<br />
Zannier ha scritto molto, da subito, e incessantemente poi. Ha scritto e<br />
riscritto, senza paura di tornare sui suoi passi. Senza attendere che la polvere<br />
del tempo si fosse depositata. C’era un’urgenza, ed è propio quella di cui stiamo<br />
parlando fin all’inizio, l’urgenza di quell’aggettivo, italiana, che appiccicato a<br />
63
storia della fotografia chiedeva, anzi petendeva non soltanto qualche notizia da<br />
inserire timidamente nella cronologia stabilita da altri, qualche autore in più sul<br />
palmarès già composto e intoccabile, ma un approccio diverso.<br />
Quattro anni dopo avere abbozzato un manuale generale, ancora molto<br />
tradizionale, la Breve storia della fotografia, nel 1978 Zannier scrisse, per un<br />
editore anche lui fotografo, Luigi Ghirri e la sua piccola coraggiosa casa<br />
editrice “Punto e vigola”, il suo primo affresco patrio, 70 anni di fotografia<br />
in Italia. Non esisteva ancora all’epoca, se non in frammenti, alcun racconto<br />
organico della nostra vicenda fotografica nazionale che non fosse un’appendice<br />
rispettosa e subordinata alle “storie” di provenienza anglosassone. La formazione<br />
storica dei nuovi fotografi, posto che ne sentissero il bisogno, avveniva su testi<br />
stranieri tradotti, pochi anche quelli. che erano sedicenti storie generali e<br />
internazionali, in realtà fortemente nazionaliste e anzi, di più, storie collezioniste,<br />
che nascevano da, e sfruttavano e valorizzavano, gli archivi di ben precise<br />
raccolte, quella del MoMa nel caso dei Newhall, quella personale poi depositata<br />
all’università di Austin nel caso dei Gernsheim. L’impianto di queste storiografie,<br />
che finirono per mettere in ombra precedenti più originali tentativi come quello di<br />
Taft, era ricalcato sulla storiografia dell’arte: un preambolo tra il mitico e<br />
l’aneddotico sulla genesi tecnica, e poi una sequenza di personalità che presto,<br />
ripetuta acriticamente dagli epigoni, diventerà un canone da imparare a memoria<br />
come la successione cei concili ecumenici: Daguerre, Talbot, Hill, Cameron…<br />
Le storie “nazionali” della fotografia che si svilupparono in seguito<br />
(comprese quelle dei francesi, che in questo, ad onta del loro orgoglio gallicano<br />
di “patria della fotografia”, arrivarono secondi) ricalcarono quell’impostazione di<br />
successo, accentuando solo i pesi e le misure in senso patriottico. Ma questo per<br />
l’Italia non fu così vero, non fu del tutto vero. Quando Zannier si assunse il<br />
compito di colmare la lacuna, le sue diverse e successive rivisitazioni della<br />
vicenda fotografica italiana non furono la tricolorizzazione di un modello di<br />
racconto preso pari pari dalle storiografie straniere, non si limitarono a cambiare<br />
bandiera a schemi già impostati, ma pretesero, in gran parte riuscendoci, di<br />
raccontare la fotografia italiana con le lenti, con le categorie mentali della cultura<br />
italiana.<br />
Cosa rappresentò, per un paese politicamente e socialmente frammentario ed<br />
economicamente arretrato, l’arrivo di uno strumento di rappresentazione che era<br />
stato creato da e per le classi borghesi ben più compatte e avanzate dei paesi<br />
industriali? Chi, quali gruppi, quali ambienti, quali persone, accolsero e<br />
adottarono da noi lo “specchio dotato di memoria”, e cosa se ne fecero? Come si<br />
scontrò la fotografia con la tradizione iconografica di un paese immerso nella<br />
visualità dell’arte, ma incapace di vedere se stesso nella realtà sociale e civile<br />
presente?<br />
La scelta di Zannier, negli anni in cui la fotografia usciva dal ghetto anche in<br />
Italia approdando nelle gallerie e sui giornali, fu di percorrere con pazienza e<br />
metodo il labirinto di luoghi, culture, lingue, pratiche e usi in cui l’invenzione<br />
francese si perse e cambiò aspetto quando scese sotto le Alpi. il suo tentativo,<br />
capire in quale contesto l’invenzione attecchì, evitando di applicare alla vicenda<br />
fotografica italiana modelli inteprrtativi non adeguati, perché da noi la fotografia<br />
non fu un affare di Stato come in Francia, ma neppure una merce da libero<br />
mercato come nel mondo anglosassone.<br />
64
E la trovò, questa identità fotografica nostrana, su un piano cartesiano<br />
definito dalle ascisse delle diversità regionali e dalle ordinate degli impieghi<br />
sociali del nuovo strumento. La fotografia italiana nacque spezzettata,<br />
caleidoscopica, differente per città, per latitudini regionali, nella Torino sabauda<br />
e borghese non fu la stessa che nella Roma papalina e popolana; ed anche<br />
diversificata per mestieri, per professioni, perché neppure rimaneva la stessa<br />
nella bottega dell’ottico o del farmacista che nel laboratorio dell’incisore, o<br />
nell’ambulatorio del medico, o nello zaino del soldato.<br />
Nella diversità, però, una vocazione prevalente si fece strada: era l’Italia il<br />
paese dell’arte da asporto, del Grand tour di formazione per rampolli della<br />
vecchia e nuova aristocrazia continentale, che si portavano a casa i ricordini e gli<br />
appunti, e la fotografia allora affiancò e scalzò l’industria sia del souvenir basso<br />
che della riproduzione alta, con un continuum fra cartoline e albumine da<br />
incorniciare che ebbe al vertice un nome sonante, quello degli Alinari, ma sotto<br />
vide spuntare mille e mille repliche locali, gli studi cittadini degli onesti fotografi<br />
di vedute e di riproduzione.<br />
Non è esente, va detto con sincerità, neppure la Storia di Zannier dalla<br />
tentazione vasariana di definire un medagliere di artisti geniali per consegnare a<br />
loro il filo d’Arianna della narrazione. Via via che il racconto avanza nel tempo, la<br />
coralità dei primi capitoli subisce il controcanto delle personalità, prendono la<br />
parola sempre più nettamente gli autori individualmente presentati, o per scuole<br />
e gruppi, e si ha così l’impressione che la fotografia da un certo punto in poi<br />
smetta di essere quel fascio intricato di usi sociali e di pratiche diverse, cessi di<br />
evolvere nel vivo degli usi e delle pratiche diffuse per diventare un’arte il cui<br />
progresso è affidato a pochi capaci creatori.<br />
Il riflettore dello studioso punta sui gradini alti della scala, le avanguardie, il<br />
fotogiornalismo, le scuole estetiche e documentarie, ma intanto nelle strade,<br />
nelle case, nei luoghi della vita comune, si continuava a far fotografie con altri,<br />
meno autoriali intenti. Certo, per un lungo periodo la fotografia diffusa sembra<br />
davvero non avere una storia, un’evoluzione degna di interesse, e la si dà per<br />
scontata, come il basso continuo nei concerti grossi barocchi; mentre è lì, nella<br />
sua mai interrotta presenza nelle nostre vite quotidiane, che matura l’humus sul<br />
quale germoglierà la fotografia di massa del boom economico e quindi (ma è<br />
storia che questo volume allora non poteva neanche immaginare) la rivoluzione<br />
della condivisione ai tempi di Internet.<br />
Ma quando si comincia a scandagliare un mare immenso, la mappa conta<br />
meno della rotta, e a ben vedere è proprio seguendo lo spirito e il metodo dello<br />
storiografo Zannier che aiuterà il lettore (e sperabilmente, presto, nuovi studiosi)<br />
a colmare quel che nel libro non c’è, e forse non poteva esserci. Ora che la Storia<br />
di Zannier è diventata essa stessa un documento della vicenda che racconta,<br />
possiamo comprendere, con riconoscenza, quanto sia stato importante che molto<br />
presto, e con grande intelligenza critica, ci sia stato battuto davanti un sentiero<br />
sicuro da continuare a percorrere.<br />
Walter Guadagnini - 'La Fotografia' ...<br />
da http://www.laprovinciadicremona.it/cultura/letture/recensioni<br />
65
La copertina del primo volume<br />
La Fotografia. Le origini 1839 - 1890<br />
La Fotografia. Una nuova visione del mondo 1891-1940<br />
a cura di Walter Guadagnini<br />
edizioni Skira<br />
MILANO — Con La Fotografia. Le origini 1839 - 1890 e La Fotografia. Una nuova<br />
visione del mondo 1891-1940 la casa editrice Skira ha cominciato a pubblicare<br />
un’esaustiva storia della fotografia prevista in quattro volumi e curata da Walter<br />
Guadagnini. L’intento è di proporre una lettura inedita dello sviluppo storico della<br />
fotografia che tenga conto degli interrogativi suscitati da questo strumento. Nel<br />
primo volume si è scelto di utilizzare una voce narrante costituita da brevi<br />
monografie, scritte da Francesco Zanot, incentrate su quello che può definirsi il<br />
destino pubblico della fotografia: testi dedicati a mostre, libri, eventi,<br />
protagonisti che hanno segnato profondamente il discorso fotografico nelle sue<br />
diverse incarnazioni, attraverso numerose e spesso sorprendenti immagini<br />
emblematiche e simboliche.<br />
La lettura è completata da saggi affidati a tre noti studiosi internazionali:<br />
Quentin Bajac, che si concentra sulla percezione della fotografia alla sua nascita;<br />
Elizabeth Siegel, che affronta le vicende della pratica dell’album fotografico, e<br />
cioè di quella fotografia privata e apparentemente ‘senza storia’, e Walter<br />
Guadagnini, che colloca in una prospettiva storica uno degli usi più comuni del<br />
mezzo fotografico, quello del racconto di viaggio e dell’incontro con l’altro da sé,<br />
il diverso, il nuovo. Il secondo volume prende in considerazione anni cruciali per<br />
la storia, anni cruciali in cui la macchina fotografica è diventata uno strumento di<br />
narrazione straordinario. Nei cinquant’anni che vanno dalla fine del XIX secolo<br />
all’inizio della seconda guerra mondiale, la fotografia si è trasformata, con<br />
l’avvento della Kodak, in una pratica di massa, e attraverso la diffusione della<br />
stampa popolare è stata fruita da milioni di persone in tutto il mondo.Maquesto<br />
periodo è anche segnato dalla presenza di alcuni dei miti della fotografia<br />
mondiale, da Alfred Stieglitz a Edward Steichen aMan Ray, da André Kertész ad<br />
Henri Cartier-Bresson a Robert Capa, da Eugène Atget ad August Sander<br />
aWalker Evans.<br />
I have a dream<br />
comunicato stampa da http://undo.net/<br />
66
Un group show di artisti che hanno scelto di utilizzare la macchina fotografica<br />
come una sorta di 'oggetto magico' per dar vita a immagini che trasgrediscono le<br />
norme della realta'. 8 <strong>Giugno</strong> - 20 Settembre <strong>2012</strong> - PaciArte Contemporary<br />
Paci contemporary è lieta di annunciare “I have a dream”, un group show di<br />
artisti che hanno scelto di utilizzare la macchina fotografica come una sorta di<br />
“oggetto magico” per dar vita a immagini che trasgrediscono le norme della<br />
realtà. Una scelta che mira a disorientare l’osservatore per trascinarlo in un<br />
mondo onirico parallelo, in cui prendono corpo i richiami sommersi nel nostro<br />
subconscio, manifestando l’ambito del sogno. Per far ciò è necessario inserire<br />
elementi e significati appartenenti al reale stesso, ma che assumono in questo<br />
contesto una connotazione metafisica.<br />
Non potevano mancare: Sandy Skoglund con una delle sue ambientazioni più<br />
spettacolari: l’installazione di Shimmering in Madness, animata dal movimento di<br />
migliaia di piccole farfalle colorate, che vibrano sul muro incamminando lo<br />
spettatore in un mondo meraviglioso …La teatrale poetica del bianco e nero di<br />
Mario Cravo Neto e di Jerry Uelsmann, nei cui lavori si ha modo di esplorare una<br />
profonda riflessione spirituale …Le “immagini-fiaba” di Maggie Taylor, così come<br />
quelle della coppia di fotografi francesi Virginie Pougnaud e Christophe Clark …Il<br />
collezionista di sogni Arthur Tress e il dissacrante Leslie Krims.<br />
Con questa collettiva Paci contemporary coglie l’occasione di far conoscere i<br />
lavori di quattro new entry della galleria: … Eric Rondepierre, la cui unicità è<br />
quella di unire i suoi scatti fotografici a vecchi fotogrammi provenienti dal mondo<br />
cinematografico in bianco e nero, ormai andato perduto.<br />
… Lori Nix capace di creare l’illusione della realtà ricostruendo in miniatura set<br />
quasi cinematografici, che poi fotografa, e che richiedono mesi e anche anni di<br />
lavoro per essere realizzati.…Grace Weston e Rommert Boonstra.<br />
Le fotografie di questi e molti altri artisti animeranno l'immaginario dello<br />
spettatore nella mostra "I have a dream".<br />
PaciArte contemporary - via Trieste, 48 - Brescia, mar-sab 10-13/15.30-19.30- Ingresso libero<br />
Le Polaroid del rottamatore<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
67
Dimostrando una certa abilità nell’uso<br />
delle immagini in funzione emotiva e suggestiva, il sindaco di Firenze Matteo<br />
Renzi nel suo intervento al “Big Bang” fiorentino di oggi ha fatto largo uso di<br />
fotografie e filmati, e a un certo punto ha anche usato, nel suo discorso, la<br />
fotografia come metafora.<br />
Brandendo sul palco due diverse fotocamere Polaroid (riferiscono le agenzie),<br />
una vecchio stile e una recente e digitale, poi scattando anche qualche<br />
immagine, il rottamatore arrembante del Pd avrebbe detto: “Le facce delle foto<br />
sono le stesse, ma tutto è diverso. Voglio arrivare a dire che anche una politica<br />
può essere così. Tentare di rappresentare la realtà con due strumenti diversi:<br />
uno vecchio stile, che non butto via, ma che fa la foto peggio di quello nuovo.<br />
Noi vogliamo cambiare macchina fotografica. Dobbiamo essere in grado di dare<br />
una foto digitale dell’Italia, senza più nostalgia del passato“.<br />
Ammiro l’abilità della scelta. Renzi ha scelto la Polaroid. Un procedimento<br />
fotografico unico nel suo genere, a lungo senza concorrenti, che ebbe un’epoca<br />
di splendore anche se non arrivò mai a dominare il mercato, poi cominciò a<br />
soffrire fino alla decadenza l’avvento di nuove tecnologie e nuovi procedimenti,<br />
arrivando a intravedere il baratro del fallimento, fino alla faticosa rinascita in<br />
diverse forme, una delle quali, lo saprete, si chiama The Impossible Project.<br />
Niente di meglio, come allegoria del Pd, non trovate?<br />
Non è un ingenuo, Renzi, e se usa l’allegoria fotografica come argomento<br />
retorico persuasivo lo fa a ragion veduta. Mette a profitto il consenso di cui gode<br />
un luogo comune, quello che sostiene che le fotocamere digitali fanno foto<br />
migliori di quelle analogiche, argomento che riposa sulla più universale opinione<br />
per cui il progresso va sempre avanti e produce oggetti e performance sempre<br />
più sofisticati e perfetti. Entrambi i luoghi comuni, va da sé, sono discutibili, sono<br />
stati discussi e confutati, ma vengono assunti come verità autoevidente.<br />
Bene, Renzi è un positivista ingenuo o un comunicatore spregiudicato, o<br />
entrambe le cose, che non sono in contraddizione. La sua abilità sa nel saltare i<br />
passaggi, nel dare per scontate le parole che usa. Cosa vuol dire che un vecchio<br />
apparecchio fa foto “peggio” del nuovo? Peggio e meglio sono avverbi<br />
comparativi, ma ci vuole un metro di paragone per comparare, non si può<br />
comparare una cosa solo con se stessa; e per sciogliere il paragone in un<br />
giudizio ci vogliono criteri, e questi criteri devono essere espliciti.<br />
68
Una fotografia non è buona o bella in assoluto, non “rappresenta la realtà”<br />
meglio o peggio in assoluto, dipende da quale realtà intendiamo, e dallo scopo a<br />
cui serve la rappresentazione. Prima dell’era digitale, le Polaroid ebbero un certo<br />
successo perché coglievano bisogni di diversa natura. Da un lato sapevano offrire<br />
il brivido della visione e della condivisione immediata, sul posto, dell’immagine<br />
appena scattata, cosa che piaceva molto ai padri di famiglia in vacanza,<br />
euforizzavano la compagnia e stringevano i legami del gruppo. Da un altro lato<br />
offrivano altri brividi a ben altri utenti: evitando il passaggio dal negozio<br />
sottocasa per lo sviluppo e la stampa, rendevano un ottimo servizio privato e<br />
discreto agli erotomani. Le vecchie Polaroid soddisfacevano dunque sia il<br />
massimo della virtù familiare sia il massimo della perversione (ed entrambe le<br />
esigenze transigevano sull’accuratezza della “rappresentazione della realtà”, si<br />
accontentavano di una buona suggestione).<br />
Meglio o peggio, per queste due esigenze così antitetiche, cosa significava?<br />
“Meglio”, per il papà fotografo, è una Polaroid che riproduce bene le sfumature<br />
degli occhi della moglie, o rende bene il colore di quel costumino delizioso della<br />
figlia in spiaggia. “Meglio”, per l’erotomane, non c’è bisogno che vi spieghi molto<br />
cosa vuol dire. Una macchina “migliore” non compie necessariamente azioni<br />
“migliori”. Vogliamo garantire entrambi questi “miglioramenti” con la nostra<br />
nuova macchina fotografica? Be’, se sei un’impresa che pensa al profitto, sì. Se<br />
sei un politico?<br />
Ho scattato qualche nuova Polaroid e non ho fatto balzi di sorpresa. Non mi<br />
sono sembrate drammaticamente diverse dalle precedenti e sfiderei tanti a<br />
riconoscere le une dalle altre. Molto dipende da quel che ci voglio fare, da quel<br />
che inquadro, da quel che ho in testa, poi penserò se lo strumento me lo<br />
permette. Per esempio un caro grande amico artista, Nino Migliori, che ha<br />
lavorato per decenni maltrattando le emulsioni Polaroid con chiavi e chiodi,<br />
durante lo sviluppo, per farne esplodere straordinari colori psichedelici, si<br />
lamenta che le nuove pellicole, avendo cambiato formula, non consentono più<br />
quel miracolo, e va ad acquistare le rimanenze delle vecchie, finché le trova, su<br />
eBay. Per lui sono sicuramente meglio quelle vecchie di quelle nuove.<br />
Questo è un blog di fotografia e non di politica, ma quel che dico vale per<br />
entrambe le cose. Il meglio-perché-nuovo non è un criterio di valore, è<br />
un’affermazione senza dimostrazione, e ogni affermazione senza fondamento è<br />
pericolosa. Più che il cosa e il come una macchina o un progetto politico siano<br />
nuovi, conta il perché, lo scopo. Prima di lasciarmi vendere una nuova macchina<br />
fotografica o una candidatura politica con la motivazione che è “meglio di quella<br />
di prima” vorrei sapere se chi me la propone pensa al “meglio” per un padre di<br />
famiglia, un artista, un erotomane, o cos’altro.<br />
Massimo Vitali | Il Fiammingo<br />
da http://2photo.org<br />
Per il Festival della Fotografia Europea <strong>2012</strong> a Reggio Emilia Massimo<br />
Vitali presenta All together … in mostra ai Chiostri di San Pietro fino al 24<br />
<strong>Giugno</strong>.<br />
69
La mostra raccoglie una serie di lavori realizzati dal 2006 sulle spiagge estive<br />
affollate di turisti e stampati su formati di grandi dimensioni.<br />
“… ad andare in scena … è un’umanità lontana dallo sfarzo del bel mondo … , dal<br />
culto dell’immagine e delle mode ma forse ancora più vera, colta in tutti i suoi<br />
aspetti, anche nei suoi vizi, nelle sue follie, con realismo disincantato e insieme<br />
con sincera simpatia. “ queste parole presentavano pochi mesi fa un’altra<br />
mostra, ma non di Vitali, bensì di Brugel il Vecchio.<br />
Al primo colpo d’occhio le tecnologiche stampe digitali di Vitali mi hanno<br />
subito fatto pensare alle scene corali del pittore ”buffone” di Anversa.<br />
Il colore marrone che unifica e confonde il brulicante caos nei giochi dei<br />
fanciulli, in Vitali diventa la luce accecante del mezzogiorno che appiattisce tutto<br />
in una sorta di bianco lattiginoso. La garbata ironia sui peccati e sulle<br />
debolezze umane riaffiora nell’agghiacciante messa a fuoco della banalità<br />
di un gesto quotidiano immortalato dallo scatto casuale.<br />
E come davanti alle scene di Brugel davanti a questa gigantesca cartolina in<br />
plexiglas si prova una sorta di fascinazione e disagio, desiderio di cominciare<br />
a perdersi nei particolari e voglia di distogliere lo sguardo.<br />
Il motivo di questo disagio deriva dallo stravolgimento di senso ed importanza<br />
che lo scatto provoca sull’evento raffigurato rispetto alla consueta percezione<br />
della fotografia. Normalmente la fotografia riprende eventi importanti oppure<br />
immortala eventi insignificanti rendendoli significativi, sempre ai Chiostri di San<br />
Pietro, vediamo, per esempio, gli scatti in bianco e nero di Federico Patellani:<br />
bambini che vanno a scuola con il grembiule e la cartella, guardano in camera e<br />
70
ci sembra, senza ombra di dubbio, un momento topico, degno di essere<br />
ricordato.<br />
Qui è tutto diverso, centinaia di gesti, espressioni, pose, situazioni, importanti o<br />
banali vengono appiattite, livellate, massificate, non c’è più distinzione tra ciò<br />
che è importante e ciò che non lo è, non c’è più distinzione tra chi è<br />
importante e chi non lo è, siamo tutti puntini ridicoli nella nostra umanità.<br />
Dico siamo, perché è proprio questo il meccanismo di disagio che Vitali fa<br />
scattare, riprendendo scene comuni, momenti della vita di chiunque, ha ripreso<br />
anche noi, anche noi ci sentiamo su quella spiaggia in costume a spalmarci di<br />
crema e la cosa ci infastidisce.<br />
Quando la fotografia è mezzo di espressione artistica la fruizione diventa<br />
quella di un’opera d’arte. Questo concetto, che sembra sempre scontato<br />
quando si partecipa ad una mostra di fotografia, cioè di arte contemporanea, ci<br />
investe in tutta la sua evidenza davanti a quelle opere di senso compiuto che ci<br />
arrivano, cioè, con tutta la forza e la profondità del loro progetto e della<br />
sensibilità di chi le ha pensate.<br />
Ma torniamo al paragone con Brugel, ci sono almeno altri due aspetti<br />
bizzarramente simili tra il fotografo ed il pittore: il primo è l’utilizzo di scorci<br />
naturali di grande suggestione, la natura sia nell’uno che nell’altro diventa<br />
spesso un elemento di contrasto, un contenitore quasi inadatto alla banalità<br />
brulicante degli abitanti che lo popolano, come a testimoniare che “in the<br />
bigger picture” la cosa importante non siamo di certo noi o le nostre vite.<br />
La seconda è la popolarità, così come Brugel a suo tempo, Vitali riesce a creare<br />
un prodotto artistico che si vende bene (una sua opera è stata la fotografia<br />
italiana più pagata nel 2008).<br />
Entrambi uscendo dagli schemi e stravolgendo le regole producono oggetti di<br />
culto ricercati proprio in quanto difficili da catalogare.<br />
Entrambi puntando il loro sguardo impietoso ma non giudice sulla normalità sono<br />
riusciti a creare opere eccezionali (nel senso letterale) cioè avvertite come<br />
eccezioni rispetto alla norma.<br />
Gallery di Immagini di Massimo Vitali Fotografo<br />
71
La macchina col buco<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
intervento di Michele Smargiassi al convegno sulla fotografia stenopeica<br />
promosso dal Musinf di Senigallia il 19 maggio <strong>2012</strong>.<br />
Foto di gruppo dentro la camera obscura stenopeica<br />
viaggiante di Marco Palmioli: all'interno, proiettata sulla parete di fondo, la piazza di Senigallia. Foto ©<br />
Marco Palmioli<br />
Da quando so di dover intervenire a questo convegno, cercando di non dire<br />
castronerie su un argomento che non conosco fino in fondo, mi faccio una<br />
domanda: potrò chiamare la scatola stenopeica “macchina fotografica”?<br />
Be’ fotografica sì, credo ci siano pochi dubbi. Ma è una macchina?<br />
Tutto sarebbe più facile se questo convegno si svolgesse in un paese<br />
anglofono, perché tutti diremmo camera (io per la verità dico e scrivo più spesso<br />
fotocamera che maccina fotografica, ma ora che ci penso lo faccio più per ragioni<br />
di brevità che per quelle che sto per dire). Camera, la stenopeica lo è di sicuro,<br />
camera obscura per eccellenza. Ma tutte le macchine fotografiche sono, alla<br />
72
ase, delle camerae obscurae. Vale anche l’inverso? Tutte le camerae obscurae<br />
con una superficie sensibile sulla parete di fondo sono macchine fotografiche?<br />
No, credo di no. La macchina fotografica è una camera obscura che possiede un<br />
meccanismo.<br />
Sarebbe stato ancora più facile se fossi stato invitato ad un convegno<br />
francofono, perché allora staremmo parlando di apparecchio fotografico.<br />
Definizione già più ampia di camera obscura. Un apparecchio è un’organizzazione<br />
di oggetti diversi disposti in modo che il loro insieme risponda a uno scopo<br />
preciso. La tavola apparecchiata serve per mangiare. Ma non ci siamo ancora.<br />
Ma non è una macchina per mangiare. La stenopeica è un apparecchio<br />
fotografico, ma è anche una macchina?<br />
Siamo daccapo. Ma non posso e a questo punto non voglio eludere la domanda<br />
che mi sono fatta da solo.<br />
Palmioli<br />
L'esterno della camera obscura stenpopeica viaggiante di Marco<br />
Definiamo allora “macchina”. Macchina è un apparecchio, un apparato,<br />
capace di svolgere, una volta ricevuto un input, una sequenza di operazioni<br />
distinte e orientate a uno scopo, operazioni che producono un lavoro.<br />
L’uomo usa una grande quantità di oggetti da lui costruiti per facilitarsi il<br />
lavoro, ma solo alcuni sono capaci di compiere da soli queste operazioni. Un<br />
cacciavite è una protesi del braccio umano, imita amplifica e migliora le<br />
performance del corpo umano, ma non è una macchina, non sa effettuare altre<br />
operazioni oltre a quelle che direttamente, singolarmente imprimiamo loro coi<br />
movimenti del nostro corpo.<br />
La macchina sa fare qualcosa anche mentre noi aspettiamo che lo faccia per noi.<br />
La macchina lavora mentre noi siamo inattivi, o in osservazione.<br />
Ogni macchina insomma ha un programma, che l’operatore può avviare, che<br />
può predeterminare con una serie di scelte iniziali, ma che poi lascia svolgersi<br />
fino al compimento del lavoro richiesto. Dunque, per sapere se posso chiamarla<br />
macchina, ora dovrei chiedermi se la scatola stenopeica abbia un programma.<br />
Si direbbe, a prima vista, di no. Niente ghiere, niente pulsanti, niente<br />
ingranaggi che scattano o si muovono uno dopo l’altro. Ma attenzione, ripeto,<br />
macchina non è sinonimo di congegno meccanico, ma di apparato programmato<br />
73
per compiere un’operazione. E allora direi che la camera stenopeica è a tutti gli<br />
effetti una macchina fotografica.<br />
L'obiettivo della camera obscura stenopeica viaggiante di Marco Palmioli<br />
Per produrre una fotografia stenopeica bisogna dare un input iniziale:<br />
togliere il tappo al forellino. Poi si lascia che il programma svolga la sequenza di<br />
operazioni a cui è predisposto: quali? Be’, la luce entra attraverso il forellino,<br />
attraversa un certo spazio oscuro, si proietta su ina superficie sensibile pronta ad<br />
accoglierla, una carta rivestita di emulsione che è stata fabbricata per lasciarsi<br />
impressionare in un certo modo tempo e misura, secondo tabelle predeterminate<br />
che conosciamo e di cui teniamo conto; dopo qualche minuto, conteggiato<br />
dall’operatore, egli chiude il tappo, e la sequenza è terminata. Il dispositivo ha<br />
svolto il suo compito.<br />
Direte: ha fatto tutto l’uomo. Ovviamente no, non è così. Ha fatto tutto la<br />
macchina, a cui l’uomo ha dato una mano. Ha partecipato alla sequenza<br />
programmata togliendo il tappo, contando il tempo e chiudendo il tappo. Si è<br />
prestato a fungere da otturatore. È diventato, consapevolmente, uno degli<br />
elementi del dispositivo. Si è fatto programma, si è fatto macchina.<br />
Ora, io non voglio fare il guastafeste a tutti i costi. Ma perdonatemi, sono<br />
fatto così, cerco sempre qualcosa da mettere sull’altro piatto della bilancia<br />
quando mi pare non sia equilibrata. E allora, a costo di fare una indelicatezza<br />
come ospite di un convegno in lode della fotografia stenopeica, vorrei provare a<br />
equilibrare qualche eccesso di entusiasmo anti-tecnologico, comprensibile ma<br />
poco fondato, che a volte sento aleggiare attorno a questa pratica fotografica<br />
così singolare e affascinante.<br />
E dunque mi sento di affermare che la fotografia stenopeica non è la<br />
liberazione dalla tecnica e dai suoi limiti e dai suoi obblighi. Non sperate di<br />
liberarvi dalla macchina fotografica. Non è possibile. Oso dire anzi che c’è<br />
fotografia solo dove c’è meccanismo programmabile (infatti continuo ad avere<br />
molti dubbi che l’off-camera, i rayogrammi, i fotogrammi, ecc. possano rientrare<br />
a pieno titolo nel campo del fotografico).<br />
Con questo non voglio negare che la stenopeica sia una pratica speciale e in<br />
qualche modo liberatoria. Voglio dire che quel che distingue la stenopeica dal<br />
resto della fotografia non è, come molti pensano più o meno chiaramente, ila sua<br />
presunta capacità di liberare il fotografo da quel fastidioso senso di estraneità<br />
che si prova maneggiando una fotocamera, quell’impressione (fondatissima) di<br />
concorrenza-competizione con la macchina fotografica che impone di venire in<br />
74
qualche modo a patti con la volontà autonoma di un meccansmo capace di<br />
produrre immagini anche in modo autonomo.<br />
Temo ci sia un certo snobismo anti-tecnologico, a volte, nelle rivendicazioni<br />
degli stenopeici, nella loro filosofia dell’immagine, che va superato perché è<br />
uguale e contrario alla tecno-euforia dei malati di digitale estremo. (Non sto<br />
parlando solo e tanto di chi, nella povertà francescana della stenopeica, è riuscito<br />
a introdurre la sofisticazione ultra-tecnologica dei forellini fatti col laser).<br />
Entrambi gli estremismi, della tecnologia e dell’anti-tecnologia, condividono un<br />
disagio nei confronti dell’apparato con cui sono costretti a collaborare e cercano<br />
di minimizzarne il ruolo. Gli stenopeici perché pensano di usare strumenti così<br />
semplici da essere pressoché inesistenti, i tecno-euforici perché si sentono<br />
pienamente padroni di strumenti potentissimi. Entrambi hanno in realtà una gran<br />
paura che la fotocamera sia più brava di loro, sia la vera autrice delle fotografie<br />
che fanno, e cercano di convincersi del contrario. Ma è proprio così, con questa<br />
incoscienza, che ne diventano gli schiavi.<br />
Ora, è evidente che il processo stenopeico è infinitamente più trasparente,<br />
ispezionabile, manipolabile dall’operatore, dei software sigillati delle fotocamere<br />
di oggi. Certo la stenopeica si avvicina molto al grado zero del processo<br />
fotografico, al minimo necessario perché quel processo possa definirsi tale: un<br />
obiettivo senza lente, una camera obscura, una superficie sensibile. Ma quel<br />
grado zero è ancora un processo, è ancora un programma, e questo fa dello<br />
strumento una macchiuna, e nessuna macchina è neutrale, disciplinata e docile<br />
ai voleri di chi la fa funzionare.<br />
Attenti allo snobismo dell’anti-tecnologia. Si converte facilmente nel suo<br />
contrario. La stenopeica può forse essere l’equivalente delle verdure ogm free, è<br />
sicuramente al riparo dalle alienazioni dei software, ma non è la “fotografia<br />
biologica”, non è la versione naturista della fotografia, non è la fotografia<br />
nudista. Non è possibile. La fotografia è per definizione immagine tecnica, e ciò<br />
che la fa diversa da ogni altra immagine prodotta dall’uomo per decine di<br />
migliaia di anni è precisamente il fatto di essere prodotta con l’ausilio di un<br />
apparato programmato per effettuare un prelievo di impronte luminose dal<br />
mondo fisico, e per farlo con quella relativa automaticità che garantisce,<br />
appunto, che sia un prelievo e non un’imitazione manuale.<br />
Possiamo, anzi dobbiamo cercare di essere più consapevoli possibile del<br />
funzionamento di questo processo, per non farcene sopraffare, per non<br />
diventarne schiavi, funzionari obbedienti, burocrati spingibottoni eterodiretti. La<br />
stenopeica ci aiuta a tornare alle basi intuitive, comprensibili del meccanismo<br />
fotografico. Ma se anziché comprenderlo per tenerlo sotto controllo pensassimo<br />
che abbiamo eliminato questo imbarazzante “collaboratore tecnico” che è anche<br />
un collaboratore creativo, se pensassimo di avere ridotto la macchina fotografica<br />
a un pennello, ci vedremmo svanire il giocattolo fa le dita. Salveremmo il nostro<br />
orgoglio di creatori unici e assoluti, ma perderemmo la fotografia.<br />
Il fotografo stenopeico integrale, quello che fabbrica da solo le proprie<br />
scatole, non sta eliminando il ricorso alla macchina. Sta cambiando semmai la<br />
sua posizione nella divisine del lavoro del processo fotografico. L’operatore<br />
stenopeico si riappropria anche, almeno in una certa misura, della funzione del<br />
costruttore, ed elimina insomma dal “collettivo creativo”, prendendo il suo posto,<br />
75
uno dei co-autori di ogni immagine fotografica: il progettista, la persona che ha<br />
stabilito le modalità (tecniche e formali) della ripresa.<br />
Alcune cose in realtà restano ancora fuori dalla sua portata: le carte e le pellicole<br />
e gli acidi di sviluppo si prendono già pronti, fabbricati industrialmente (salvo<br />
qualche raro caso di alchimista) e dunque il fantasma di un co-autore remoto<br />
esiste ancora. Ma credo di poter dire che il fotografo stenopeico si riprende in<br />
grandissima parte i compiti e le prerogative creative che da quando esiste<br />
l’industria dei materiali fotografici viene abitualmente delegata ai fabbricanti.<br />
Ma questo è il massimo che può fare per riappropriarsi della maggior quota<br />
possibile di paternità creativa dell’immagine. Una parte, per quanto piccola, gli<br />
resta ancora estranea e inaccessibile, appannaggio di quel piccolo Golem che<br />
abbiamo costruito noi stessi, magari con una scatola da scarpe, e che però ora<br />
ha una sua autonomia. C’è sempre un punto cieco, quando il fotografo prende la<br />
decisione di produrre un’immagine: c’è sempre un breve spazio temporale<br />
durante il quale noi lasciamo fare alla macchina il suo lavoro senza intervenire e<br />
senza essere ben sicuri di quel che farà. La fotocamera è un cane da riporto, noi<br />
lanciamo il bastone ma non sappiamo se e cosa ci porterà indietro.<br />
Del resto, non vi dico nulla di nuovo. L’incertezza del risultato, la disponibilità<br />
ad accettare il caso, l’errore, l’imperfezione non programmata, la serendipità di<br />
un esito non voluto ma felice, un regalo della nostra umile scatoletta, queste<br />
cose sono il pane quotidiano dei fotografi stenopeici. Ma allora concentratevi su<br />
questo. Perché questa è la fotografia. La fotografia sta tutta in quello scarto fra<br />
umano e tecnico, in quella collaborazione fra decisioni della mente umana e leggi<br />
della chimica e della fisica organizzate e strutturate in una macchina, creata<br />
certo dall’uomo, ma anche Dio che creò l’uomo alla fine dovette rendersi conto<br />
che era diverso da sé, e incontrollabile. La fotografia è la collaborazione, la<br />
competizione, la rivalità, l’accettazione il rifiuto dell’incerto, dell’incontrollabile,<br />
dell’Intrattabile (Barthes). Fotografo vero è chi conosce e rispetta (o magari<br />
combatte) l’inconscio tecnologico del suo amico-nemico strumento: caro Franco<br />
Vaccari, come vedi non dormo sonni tranquilli da quando hai avuto<br />
quell’intuizione che mi ha plagiato…<br />
Togliamoci dunque dalla testa che la macchina fotografica stenopeica sia la<br />
macchina del giardino dell’Eden, la fotografia prima del morso della mela della<br />
tecnologia, prima della caduta nel peccato mortale dell’alienazione meccanica. È<br />
forse una piccola Arca di Noè su cui possiamo provare a far salire qualche valore<br />
da salvare (ne nomino solo uno, già trattato qui: il rapporto col tempo), mentre<br />
attorno comincia il diluvio universale della fotografia ubiqua e preterintenzionale<br />
dei fotocellulari.<br />
Botto&Bruno trionfano a Madrid.<br />
Sono loro i migliori “giovani” fotografi della quarta edizione di Madridfoto. Taglio<br />
sociale e impatto emotivo, un mix che conquista la giuria<br />
di Helga Marsala da http://www.artribune.com<br />
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Botto&Bruno<br />
L’Italia vince in Spagna. Si aggiudica il Premio Jóvenes Fotógrafos la nota coppia<br />
Botto&Bruno, rappresentata dalla galleria Oliva Arauna, nell’ambito di<br />
Madridfoto. Quarto anno per la grande manifestazione madrilena dedicata all’arte<br />
fotografica e terzo per il premio destinato ai più giovani sperimentatori:<br />
un’iniziativa portata avanti grazie alla collaborazione con la Comunidad de<br />
Madrid.<br />
Diecimila dollari il bottino che i due torinesi portano a casa. A convincere la<br />
giuria sono state le loro inconfondibili immagini di periferie urbane, restituite con<br />
cromatismi saturi e ampi tagli prospettici, tra indagine sociale e impatto<br />
emotivo: frammenti di aree abbandonate, opere incompiute, fabbriche dismesse,<br />
algide distese di cemento, piazze, campetti e parco giochi consegnati al degrado.<br />
Sporadiche presenze si aggirano, sospese, tra pozzanghere e muri scrostati,<br />
coperti di graffiti. Figure esili nascoste dietro i cappucci di felpe troppo larghe,<br />
nel tipico outfit di strada, in perfetto urban-style: sono loro l’anima chiassosa,<br />
spesso malinconica, di questi teatri contemporanei della marginalità e<br />
dell’anonimato. Gioventù solitaria in cerca di orizzonti nuovi, da scovare dietro le<br />
grigie facciate di palazzi troppo alti, tutti uguali.<br />
La seconda vita delle fotografie ri-mediate<br />
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it<br />
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Il pacchetto di libri che ogni tanto trovo sulla scrivania è spesso una delusione.<br />
Questo che arriva da Udine è entusiasmante. C’è ancora speranza, allora. La<br />
fotografia non è diventata solo un giocattolo del mercato, una raccolta di<br />
figurine, un attrezzo di propaganda. Non tutto è perduto se qualcuno vede<br />
ancora nella fotografia quello straordinario, unico, incomparabile oggetto<br />
antropologico che una congiura di fortunati eventi ci ha donato meno di due<br />
secoli fa.<br />
Non conoscevo questo Centro studi Nediža, tuttora non conosco altro che<br />
quel che ne leggo sul loro sito, ovvero che si tratta di un’associazione culturale<br />
nata nel 1972 tra le valli del Natisone per conservare e studiare la cultura di quel<br />
territorio di confine. Un lavoro fatto prevalentemente con fotografie, prodotte o<br />
raccolte. E i volumetti che mi arrivano fanno parte di questo secondo genere.<br />
Sono fotografie da cassetto di casa, sono immagini vernacolari private e affettive<br />
della gente friulana e giuliana.<br />
Quasi ovunque i comini affidano agli eruditi locali la confezione di volumetti<br />
di fotografie di questo genere, a cui danno sempre gli stessi titoli,<br />
“Casteltaldeitali com’era”, “Ricordi di Roccaditizio”, stampano le foto in<br />
deprimente color seppia e le ammazzano con didascalie sospirose. Si fa una<br />
presentazione alla proloco, i compaesani acquistano un volume a testa, tutti<br />
sono contenti e la fotografia soffre.<br />
Ma questa è una cosa che non ho mai visto, non in un libro italiano (anzi italiano<br />
e sloveno: Nediža è bilingue). un approccio del genere alla fotografia trouvée l’ho<br />
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vista solo nel lavoro creativo di Joachim Schmid in Germania, o nelle edizioni<br />
stravaganti di Erik Kessels in Olanda, in un singolo libro di Clément Chéroux in<br />
Francia. Non ci sono polvere e umor di lacrime e odor di nostalgia nelle pagine di<br />
questi straordinari librini di pochissime parole.<br />
Prendiamone uno a caso, si chiama Come scorre il fiume: foto di famiglia<br />
recuperate da stipetti di mobilio alluvionato, riprodotte così come l’acqua le ha<br />
macerate, gonfiate, maculate, slavate: magiche textures che un esteta non<br />
avrebbe azzeccato così affascinanti, misteriosi nascondimenti e sapienti elisioni<br />
che un artista concettuale non avrebbe immaginato così suggestivi, fotografie<br />
che raccontano due vite, quella delle persone della cui esistenza sono il segno, e<br />
la loro stessa vita di oggetti perituri che non hanno potuto mantenere la loro<br />
promessa di memoria eterna se non così, diventando altre immagini.<br />
Ancora: Niente di personale, pagine di una vecchia agenda omaggio di una<br />
banca, dove Pietro Vischi ha incollato immagini ritagliate da un giornalino<br />
gratuito che da anni si trova nella buca delle lettere, immagini scelte senza un<br />
preciso motivo, solo perché “raccontano di cose a me sconosciute”, un orso<br />
bianco, un violinista in calzoncini corti, una coppia di sposi bizzarri: è<br />
un’operazione di stampo surrealista, certo, ma quelle fotografie orfane di tutto<br />
sembrano improvvisamente volersi riunire in una famiglia, ed è così, perché una<br />
famiglia ce l’hanno, è la fotografia.<br />
E ancora, non la voglio fare lunga ma ogni librino è un universo, le Lezioni di<br />
fotografia, due volumetti dove Alvaro Petricig raccoglie le immagini che servirono<br />
al padre Paolo per un corso a giovani apprendisti, e il frutto pratico di quelle<br />
lezioni: il contesto si è perso, le sapienti lezioni non sono rimaste, ma le<br />
immagini sì, e ora raccontano da sole l’eterno ritorno delle forme fotografiche,<br />
l’incessante reinvenzione del medium.<br />
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Ci sono anche, nel ricco catalogo del Centro studi, libri che sembrano di<br />
impianto più tradizionale, e storico-documentario, come il volume dedicato a Tin<br />
Piernu, fotografo autodidatta di Tercimonte, custode dei volti di una comunità, o<br />
Deriva nei continenti che raccoglie le fotografie della massiccia emigrazione<br />
oltreoceano della gente del Natisone, immagini che partivano e tornavano,<br />
proprio come corpi vicari dei migranti, ma separati dagli origjnali e destinati a<br />
viaggiare sempre in direzione inversa alla loro. E l’elenco prosegue, il catalogo è<br />
ricco.<br />
E allora, mi dico, allora si può fare. Si può prendere in carico l’eredità<br />
materiale lasciata come un relitto morenico dal grande ghiacciaio della fotografia<br />
storica, che intanto s’è sciolto al sole delle presunte rivoluzioni digitali, e farne<br />
qualcosa che non sia nostalgia, o archivio, o museo.<br />
Non si può pensare che riusciamo a conservare milioni di immagini<br />
fotografiche prodotte dagli uomini in due secoli, magari catalogandole in scatole<br />
e faldoni, in archivi e musei, come se fossero, ciascuna di esse, un’opera unica,<br />
un’opera d’arte o un reperto archeologico imperdibile. non è possibile<br />
tecnicamente, e non sarebbe neppure giusto. Le fotografie devono avere il loro<br />
destino, che è anche quello di perdersi, di degradarsi, di finire in discarica. Ne<br />
sopravviveranno comunque alcune, ma anche queste non seppelliamole nel<br />
museo etnografico, o nel museo delle memorie locali, con un numerino<br />
d’inventario come il cartellino dell’obitorio all’alluce del cadavere.<br />
Erano e sono immagini vive. Quelle fotografie orfane e nomadi, quelle<br />
immagini che hanno perso la funzione per cui furono messe al mondo, sono<br />
sicuramente documenti della storia, fonti indispensabili per la ricostruzione della<br />
vita quotidiana, ma possono sopravvivere come fotografie solo se ne qualcuno e<br />
regala loro un’altra, di funzioni, che non sia la pura semplice conservazione della<br />
propria esistenza come testimonianza di qualcosa d’altro, come se fossero solo<br />
portatori trasparenti di informazione.<br />
Ringrazio gli sconosciuti amici di Nediza per averlo fatto, senza un<br />
sistematico pomposo programma, scegliendo volta per volta un modo, un taglio,<br />
un approccio di rilettura, di ri-mediazione, di reincarnazione del fotografico.<br />
Patrick Mimran al Museo Naz.le Alinari della Fotografia<br />
Al MNAF di Firenze nuovo appuntamento con la fotografia contemporanea:<br />
Patrick Mimran, artista francese poliedrico e multidisciplinare, presenta una<br />
retrospettiva fotografica in prima assoluta<br />
da Artibrune Segnala<br />
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Patrick Mimran, Temple Steps 2 ©Patrick Mimran<br />
Nella sede del MNAF l’Autore ha realizzato un’esposizione che raggruppa<br />
quarant’anni di fotografia in 38 immagini: dai i primi tentativi fino ad<br />
ora inediti, realizzati quando aveva appena quindici anni, alle immagini<br />
tratte dalle sue recenti serie fotografiche (come Urban Samples, Parigi,<br />
2009; Temple Steps, Miami, 2010).<br />
L’insieme che ne deriva declina un universo molto denso dove nelle<br />
fotografie immagini, simboli e oggetti del mondo contemporaneo, anche<br />
molto familiari, si combinano tra loro in incontri alle volte estranianti.<br />
L’Artista opera nel suo lavoro come un vero e proprio costruttore di<br />
immagini, che preferisce addizionare piuttosto che sottrarre simboli e<br />
forme.<br />
Egli combina tra loro più immagini e più supporti espressivi, dando alla<br />
luce composizioni visive molto ricche e differenti che affrontano i temi<br />
più disparati della contemporaneità, come la vita, la morte, la religione,<br />
il culto della bellezza, il sesso, il consumismo, attingendo da linguaggi e<br />
ambiti diversi. Mimran interviene, infatti, sulla fotografia con un attento<br />
e minuzioso lavoro di post-produzione con l’obiettivo di raggiungere le<br />
immagini desiderate. Registri diversi si sommano tra loro.<br />
Alcune immagini sembrano citare le bambole e i soggetti cari di Bellmer;<br />
altre ricalcano l’incanto e la seduzione del linguaggio pubblicitario; altre<br />
ancora riprendono la composizione e le pose di alcune divinità religiose.<br />
Il titolo della retrospettiva «Symbols as symptoms», traccia una linea<br />
guida nella lettura delle fotografie: ogni forma, sembra dire Mimran,<br />
non è mai gratuita, ma è portatrice di messaggi latenti.<br />
In una visione che è al tempo stesso personale e universale, egli si<br />
sforza di smascherare simulacri e false parvenze, mettendo in scena un<br />
immaginario molto fecondo che è sia opera della sua fantasia che del<br />
mondo che cita testualmente.<br />
In questo senso l’Autore si serve della finzione per mettere in scena la<br />
realtà: gli esseri umani sono rimpiazzati, nelle sue fotografie, da<br />
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ambole o manichini e sono soggetti a crimini violenti, mentre gli<br />
oggetti di consumo sono mostrati in bella vista in una sorta di<br />
quotidiana ridondanza.<br />
Spaziando dalla musica alle arti visive, dal video alle nuove tecnologie,<br />
Mimran ha lavorato per il teatro e per il cinema, firmando molte<br />
collaborazioni importanti come con Peter Greenaway e il coreografo<br />
Maurice Béjart.<br />
Ha realizzato istallazioni e progetti artistici negli Stati Uniti, in Europa e<br />
anche in Italia, utilizzando sempre nei suoi lavori la fotografia.<br />
Con una forte positività tinta di humour, egli osserva nei suoi progetti i<br />
grandi temi dell’umanità – la morte, la bellezza, la sessualità, la<br />
religione – attraverso colori vivi, composizioni provocanti e giochi di<br />
parole.<br />
Non provenendo da una formazione artistica accademica, Mimran ha<br />
cominciato sperimentando la pittura all’encausto, ideale per costruire<br />
delle narrazioni, avvicinandosi alla fotografia gradualmente.<br />
Improvvisazione e spontaneità hanno sempre accompagnato la sua<br />
ricerca e sono state individuate da lui stesso come elementi<br />
fondamentali della fase creativa: “l'art gagne à ce qu'on ne réfléchisse<br />
pas”, ha detto. In quest’ottica, Mimran è convinto che nel fare artistico<br />
si debba lasciare allo spettatore la cura di reagire perché il suo giudizio<br />
è altrettanto importante, se non superiore, a quello dell’artista.<br />
Nella nota serie Billboards ad esempio, cartelloni pubblicitari che, a<br />
partire dal 2001, sono stati affissi in molte città da New York a Venezia,<br />
l’artista si rivolgeva al grande pubblico con domande e frasi taglienti ed<br />
ironiche sullo stato dell’arte e sulla sua relazione con la realtà, invitando<br />
chi osservava a reagire.<br />
PATRICK MIMRAN. SYMBOLS AS SYMPTOMS MNAF: fino al 31 luglio- Firenze, piazza S. M.<br />
Novella 14a r - tel.55.216310, fax 055.2646990 mnaf@alinari.it - Completa la mostra<br />
un catalogo edito dalla Fratelli Alinari. Fondazione per la storia della Fotografia. Prezzo<br />
di copertina 14,00 euro. Nuovo Orario: tutti i giorni compresi festivi 10,00 – 19,30,<br />
chiuso domenica<br />
Biglietteria: Intero € 9,00; Ridotto € 7,50; Convenzioni € 6,00; Scuole € 4,00; Gratis<br />
bambini fino a 5 anni - Ufficio Stampa: Alinari - Stefania Rispoli, rispoli@alinari.it - tel.<br />
055.2395207, fax 055.2395230. Fratelli Alinari Fondazione per la Storia della Fotografia:<br />
Largo Alinari 15, Firenze, 055.23951, fax 055.2382857 info@alinarifondazione.it<br />
www.alinarifondazione.it<br />
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Rassegna Stampa del <strong>Gruppo</strong> <strong>Fotografico</strong> <strong>Antenore</strong> BFI<br />
a cura di Gustavo Millozzi<br />
www.gustavomillozzi.it<br />
www.fotoantenore.org www.padovanet.it/fotoantenore<br />
info@fotoantenore.org<br />
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