Bragadin Postfazione - Maschera e volto
Bragadin Postfazione - Maschera e volto
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POSTFAZIONE<br />
L’interpretazione della storia è una questione spinosa. Riportare fatti o<br />
resoconti di testimoni oculari è una cosa, ma mettere assieme gli eventi in una<br />
narrazione coerente, con un inizio concreto, una progressione sequenziale e una fine<br />
definitiva, e poi trarne una conclusione, sia essa etica, politica o sociologica – e in un<br />
determinato stile letterario – può spesso rivelarsi una pratica ingannevole. Più i motivi<br />
che spingono uno storico a investigare un tema sono personali, tanto più<br />
manipolatoria sarà, da parte sua, la selezione e la giustapposizione dei dati riguardanti<br />
quell’argomento. Più profonda e complessa è la materia, più superficiale apparirà, in<br />
confronto, la sua spiegazione. Uno storico sa che, per spiegare il proprio punto di<br />
vista, dovrà limitarsi a determinati parametri e, così facendo, quei parametri faranno<br />
automaticamente della sua visione, al di là del respiro e della profondità che essa<br />
possiede, solamente un’altra versione della verità.<br />
Inoltre, la nostra comprensione dei complessi fenomeni storici – come la<br />
nascita delle nazioni, le cause delle grandi guerre, la migrazione dei popoli – si basa<br />
su numerosi livelli di esperienza, di percezione e di studio storiografico, che<br />
aggiungono una distanza contestuale alla già esistente distanza temporale fra l’evento<br />
accaduto realmente e il modo in cui viene assimilato dalla posterità. Anche se<br />
prendiamo l’esempio più elementare, “Maria andò all’ufficio postale il 31 luglio del<br />
1910”, scopriamo che ci potrebbero essere almeno quattro fonti di testimonianza (che<br />
a loro volta possono definirsi storia) che separano l’avvenimento dalla conoscenza<br />
che ne abbiamo noi nel 2010. Esse sono fonti ma sono anche filtri o schermi<br />
attraverso i quali passa l’informazione, e pertanto possono distorcere la veracità<br />
dell’avvenimento. Esaminiamole più da vicino.<br />
Maria andò all’ufficio postale. Il giorno dopo è già storia. Ma come facciamo<br />
a sapere che andò all’ufficio postale? Lo scrisse in un diario, lo disse a un’amica, la<br />
vide l’impiegato, ecc. Perché ci andò? Per imbucare una lettera, per acquistare<br />
francobolli, per ritirare un pacco. Se lei avesse detto all’amica che andava a imbucare<br />
una lettera e poi effettivamente imbucò la lettera, allora l’avvenimento e il resoconto<br />
dell’amica coinciderebbero. Ma se Maria avesse detto all’amica che andava a<br />
imbucare una lettera ma poi perse la lettera e, visto che si trovava all’ufficio postale,<br />
decise di acquistare qualche francobollo? Allora l’avvenimento e il resoconto<br />
dell’amica (se Maria non raccontò all’amica della lettera smarrita) non<br />
coinciderebbero e di conseguenza, se un giorno Maria non fosse stata disponibile e un<br />
cronista si fosse trovato costretto a usare il resoconto dell’amica di Maria, la verità<br />
riguardo a ciò che Maria fece veramente all’ufficio postale sarebbe stata distorta.<br />
Le testimonianze di prima mano (annotazione di diario, resoconto dell’amica o<br />
dell’impiegato), diventano così il primo schermo. Il secondo schermo potrebbe essere<br />
uno scrittore o un cronista locale che scrive una cronaca su una città, un fatto o una<br />
personalità che, per qualche particolare ragione, include la visita di Maria all’ufficio<br />
postale. A seconda dello scopo della cronaca, lo scrittore potrebbe o meno<br />
menzionare la sua fonte di informazione relativa alla visita di Maria all’ufficio<br />
postale.<br />
Ormai abbiamo l’avvenimento stesso e due fonti (schermi) che riportano<br />
l’avvenimento: l’amica di Maria e la cronaca. La cronaca diventa la prima opera di<br />
storia, un campo che possiede una vasta gamma di approcci professionali. Dopo il<br />
cronista, che solitamente è interessato ai fatti fondamentali che circondano il tema, c’è<br />
lo storiografo che studia le scritture storiche (documenti, memorie, cronache, ecc.) e<br />
1
lo storico che scrive la storia (di una nazione, di un movimento politico, ecc.). La<br />
differenza fra un cronista e uno storico (o uno storiografo, visto che spesso i loro<br />
compiti si sovrappongono) è che quest’ultimo va oltre la mera scrittura dei fatti. Egli<br />
ha una particolare intuizione riguardo all’evoluzione o all’identità di un argomento.<br />
Egli sarà il primo a interpretare l’argomento in base a un suo convincimento –<br />
individuale, nazionale, spirituale, ecc.<br />
Oggi lo storico può rientrare in due categorie: può essere accademico o<br />
divulgativo. La principale fonte d’ispirazione per lo storico accademico sarà la sua<br />
intuizione di studioso. Il suo lavoro mirerà a svelare le sfumature dell’evoluzione o le<br />
conseguenze di un episodio storico che, in precedenza, erano state tralasciate o<br />
ignorate. Scriverà opere che avranno esclusivamente lo scopo di erudire e si potranno<br />
trovare i suoi tomi nelle biblioteche, nelle università, nelle istituzioni scolastiche,<br />
negli archivi, ecc.<br />
Il secondo tipo di storico è quello divulgativo, la cui ispirazione sarà il suo<br />
entusiasmo immediato per l’argomento su cui sta scrivendo, piuttosto che l’intuizione<br />
accademica riguardo all’evoluzione o all’identità di quell’argomento, o qualunque<br />
altro fattore impersonale. Farà tanta ricerca quanta ne fa lo storico accademico, ma il<br />
suo tono e il suo stile punteranno a trasmettere il suo entusiasmo personale nei<br />
confronti dell’argomento, talvolta persino a scapito dell’accuratezza e della veracità<br />
della storia stessa. Dal momento che il suo racconto sarà intriso di emozione,<br />
richiamerà un pubblico più vasto e, in tal modo, possiederà un significativo potenziale<br />
commerciale.<br />
Pertanto, quando il profano, nel 2010, viene a conoscenza della visita di Maria<br />
all’ufficio postale del 1910, l’avvenimento potrebbe già essere stato filtrato attraverso<br />
almeno quattro fonti (schermi) di testimonianza: il resoconto dell’amica di Maria, la<br />
cronaca scritta dal cronista, lo studio dello storiografo e il libro dello storico – e in<br />
questo caso abbiamo solo quattro fonti. A seconda dell’impatto e della rilevanza<br />
sociale dell’avvenimento, il numero di schermi potrebbe essere molto più alto.<br />
Il problema più grande quando si hanno tante fonti sta naturalmente nelle<br />
informazioni contraddittorie che arrivano al lettore finale. Spesso accade che più si<br />
legge riguardo a un avvenimento, più si notano incoerenze nei vari resoconti che lo<br />
descrivono. Si può arrivare al punto di chiedersi perché uno storico utilizzi le<br />
informazioni di un resoconto e non di un altro. Esempio: i dati nella Storia di Grecia<br />
Antica A non corrispondono ai dati nella Storia di Grecia Antica B; perché lo storico<br />
moderno X, dopo aver letto sia la Storia di Grecia Antica A, sia la Storia di Grecia<br />
Antica B, utilizza i dati contenuti nella Storia A?<br />
Ma le complicazioni non finiscono qui. Non solo gli studi storiografici e<br />
storici si contraddicono reciprocamente, ma persino lo stesso storiografo o lo stesso<br />
storico può talvolta contraddire se stesso. Qui vorrei utilizzare un esempio concreto,<br />
non al fine di screditare la professionalità dello storico (di cui non farò neppure il<br />
nome), ma solamente per dimostrare quanto lo studente, o qualunque lettore di storia,<br />
debba stare attento a fidarsi delle sue fonti.<br />
Questo scrittore è un noto storico divulgativo britannico i cui libri su Venezia<br />
hanno ottenuto grande successo critico e commerciale e che, infatti, scrive con un<br />
notevole spirito da intrattenitore. Ha scritto e presentato molti documentari televisivi<br />
ed è stato presidente di un comitato britannico dedicato alla conservazione di Venezia,<br />
non solo dell’arte e dell’architettura della città, ma anche di Venezia in quanto<br />
comunità viva e pulsante.<br />
Fra le sue numerose opere su Venezia, i due libri principali (senza farne il<br />
nome) sono una storia di Venezia, politicamente orientata, dagli inizi nel V secolo<br />
2
fino alla caduta della Repubblica nel 1797 e una raccolta di saggi sulle celebrità<br />
straniere che hanno soggiornato o vissuto nella città durante il XIX secolo. Una<br />
citazione sulla quarta di copertina lo acclama addirittura come “il più appassionato e<br />
devoto cronista in lingua inglese della straordinaria storia di Venezia”. Lo stesso<br />
scrittore, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi, giustifica la sua incessante<br />
produzione su Venezia dicendo: “In primo luogo, amo a tal punto la città che non<br />
posso fare a meno di scriverne; in secondo luogo, voglio promuovere la sua storia”.<br />
La sua contraddizione è la seguente:<br />
Nel suo primo libro di 670 pagine, che ebbe cinque edizioni dal 1977 al 2003,<br />
egli scrive nell’epilogo – dopo che la Repubblica di Venezia era stata conquistata da<br />
Napoleone, poi consegnata agli austriaci, poi ripresa da Napoleone, solo per essere<br />
restituita nuovamente agli austriaci al Congresso di Vienna – che “possiamo solo<br />
essere grati che Bonaparte in persona, piuttosto sorprendentemente, non abbia mai<br />
messo piede a Venezia. Se lo avesse fatto, non si sarebbero trovate le parole per<br />
descrivere il completo saccheggio della più opulenta delle città, o la profondità della<br />
cicatrice che persino la sua sola ombra è stata capace di lasciare”.<br />
Ma nella sua raccolta di saggi sulle celebrità del XIX secolo, anch’essa<br />
pubblicata nel 2003, nel saggio dedicato a Napoleone, apprendiamo una cosa<br />
completamente diversa: “... negli ultimi giorni del 1807, sua maestà imperiale fece la<br />
sua prima e unica visita a Venezia. Essa si protrasse da domenica 29 novembre a<br />
martedì 8 dicembre”. Poi il saggio prosegue descrivendo in dettaglio la visita<br />
dell’imperatore.<br />
Quanto è grave, dunque, questa discrepanza?<br />
Se il personaggio storico fosse chiunque altro, un patrizio veneziano, un altro<br />
sovrano straniero, persino uno dei 118 (secondo il libro storico dell’autore) o 120<br />
(secondo la sua raccolta di saggi) dogi di Venezia, la disattenzione sarebbe<br />
trascurabile. Ma il personaggio in questione è Napoleone Bonaparte, che non solo,<br />
secondo il nostro scrittore, fu uno dei tre più importanti sovrani europei (gli altri<br />
furono, sempre a suo dire, Carlomagno e Federico II di Hohenstaufen), ma fu anche<br />
l’individuo unicamente responsabile del crollo della Repubblica di Venezia, la<br />
nazione che il nostro autore, nel paragrafo conclusivo dell’epilogo del suo libro<br />
storico, glorifica come il luogo migliore in cui una persona avrebbe potuto vivere fra<br />
tutte le nazioni cristiane dell’epoca: “In nessun luogo gli uomini vivevano più<br />
felicemente, in nessun luogo godevano di una maggiore libertà dalla paura”.<br />
Napoleone rappresentò la morte della Serenissima Repubblica di Venezia,<br />
punto. Uno storico che “ama” Venezia e si dedica alla sua storia non può trattare una<br />
figura e un momento così importante con tale noncuranza. È un grande faux pas che,<br />
oltre a confondere il lettore, può facilmente spingerlo a chiedersi se l’autore stesso<br />
abbia mai messo piede a Venezia.<br />
Con tutta questa confusione documentale come si fa a scrivere un romanzo<br />
storico e quanto è importante l’accuratezza fattuale in un’opera narrativa?<br />
Anzitutto dobbiamo capire la differenza fra il romanzo che appartiene al<br />
genere della storia romanzata e quello che appartiene alla narrativa storica. Il primo è<br />
un’opera che mira alla trattazione di un episodio storico (la Rivoluzione Francese, la<br />
Grande Depressione, ecc.) attraverso personaggi di fantasia, una trama inventata e<br />
un’ambientazione profondamente radicata nell’episodio. Può anche utilizzare<br />
elementi biografici di un personaggio storico realmente esistito o persino fare di<br />
***<br />
3
quest’ultimo il protagonista o uno dei personaggi principali. Ma l’obiettivo primario e<br />
il punto centrale del genere della storia romanzata è di trasmettere il significato, il<br />
valore o semplicemente la vita quotidiana dell’epoca o dell’episodio storico.<br />
Il proposito del romanzo di narrativa storica, al contrario, non è di illustrare o<br />
interpretare un episodio storico sotto forma di romanzo, ma piuttosto di utilizzare<br />
l’episodio storico per esprimere un’idea, uno stato d’animo o un’interrelazione che<br />
costituisce una parte della vita umana, al di là dell’epoca storica. Il romanzo di<br />
narrativa storica può anche commentare una questione contemporanea attraverso un<br />
contesto storico, specialmente per sottolineare il vecchio adagio hegeliano, “L’unica<br />
cosa che la storia insegna è che essa non insegna alcunché”. Qualunque sia il suo fine,<br />
nel genere della narrativa storica, la storia (il passato) sarà sempre un mezzo mentre,<br />
nel genere della storia romanzata, la storia (il passato) sarà sempre il fine.<br />
In questa luce, il lettore si aspetterebbe ovviamente più accuratezza storica da<br />
un’opera che mira a illustrare un particolare episodio storico, piuttosto che da<br />
un’opera che usa un particolare episodio storico solamente per esprimere un’idea, uno<br />
stato d’animo o un’interrelazione.<br />
Il romanzo <strong>Bragadin</strong>, seppur attenendosi strettamente a fatti documentati,<br />
rientra nel genere della narrativa storica, o almeno, dato che verrà inevitabilmente<br />
assegnato a una categoria, come tutta la letteratura, è stato scritto con questo genere in<br />
mente. Pertanto mi sento obbligato a distinguere le principali componenti storiche del<br />
romanzo dagli elementi di fantasia, o meglio, dal regno della licenza poetica.<br />
Marcantonio (Marco Antonio, Marc’Antonio) <strong>Bragadin</strong> fu effettivamente il<br />
capitano generale di Cipro al tempo dell’invasione ottomana nel 1570-71; alcune fonti<br />
dicono semplicemente governatore di Famagosta. La realtà è che il governo civile<br />
dell’isola aveva sede a Nicosia sotto l’autorità di un luogotenente, mentre il quartier<br />
generale militare con la fanteria e la cavalleria di stanza, e la flotta, avevano sede a<br />
Famagosta. Perciò <strong>Bragadin</strong> era sia governatore di Famagosta che capitano generale<br />
di Cipro, la sua più alta autorità militare. La guarnigione di Famagosta era sotto il<br />
diretto comando del generale Astorre Baglioni, all’epoca il maggiore esperto militare<br />
di Cipro.<br />
L’invasione e la conquista ottomana di Cipro sono autentici episodi storici,<br />
così come l’assedio di Famagosta, l’esecuzione dei suoi comandanti dopo la<br />
capitolazione e le torture e lo scorticamento di <strong>Bragadin</strong>; e la maggior parte dei libri<br />
di storia comincia infatti la descrizione di questo episodio delle relazioni fra Venezia<br />
e l’impero ottomano con l’ultimatum presentato al doge Loredan dall’ambasciatore<br />
ottomano Cubat nel Palazzo Ducale e la conclude con la famosa battaglia di Lepanto.<br />
Tuttavia, il concatenamento delle cause che portarono all’invasione di Cipro e il<br />
concatenamento delle conseguenze che derivarono dalla battaglia di Lepanto si<br />
potrebbero discutere all’infinito.<br />
L’ambasciatore Cubat e il suo incontro con il doge Loredan sono pertanto<br />
componenti che provengono da testi storici. Ma il vertice in Vaticano è frutto di<br />
invenzione, sebbene tutti gli ambasciatori citati nel III capitolo della prima parte siano<br />
figure storiche realmente esistite che in quell’epoca si trovavano effettivamente a<br />
Roma. Tuttavia, papa Pio V riuscì veramente a organizzare un vertice simile un anno<br />
dopo, nel 1571, quando infine ufficializzò la Lega Santa. Le conversazioni al<br />
Serraglio di Costantinopoli sono chiaramente anch’esse prodotto dell’immaginazione<br />
ma sono basate su figure storiche (Selim II, Sokollu, Nurbanu, Nassi) e strategie vere,<br />
così come i dialoghi fra gli ammiragli europei (Doria, Colonna, Bazán, Venier) nel V<br />
capitolo della prima parte.<br />
4
Scrivere la seconda parte del romanzo, è stata una sfida ardua: in primo luogo<br />
poiché sappiamo ben poco della vita personale di <strong>Bragadin</strong> (capitolo I), tranne che era<br />
sposato con una certa Elisabetta Morosini, che aveva lavorato nella marina di Venezia<br />
e, in seguito, nella magistratura, e che, secondo alcune fonti e tradizioni, la famiglia<br />
<strong>Bragadin</strong> discendeva effettivamente dal primo doge di Venezia, Orso Ipato; 1 e, in<br />
secondo luogo, poiché non ho alcuna conoscenza empirica di questioni militari e,<br />
pertanto, ho rischiato di descrivere l’assedio in una maniera assai superficiale. Se<br />
questo è accaduto, me ne scuso sinceramente. Per descrivere l’assedio ho seguito da<br />
vicino Assedio e caduta di Famagosta di Guido Antonio Quarti (1935), un resoconto<br />
molto approfondito basato su relazioni di testimoni oculari, e ho intrecciato la realtà<br />
alla fantasia, come nel caso delle lettere di Lala Mustafa a <strong>Bragadin</strong>: la prima è la<br />
missiva autentica, ricavata da una testimonianza di prima mano del conte Nestore<br />
Martinengo, che fuggì da Cipro dopo la capitolazione (e che compare nel romanzo), le<br />
altre sono inventate allo scopo di far evolvere la storia. Fra i principali personaggi che<br />
si distinguono durante l’assedio solo Adriano Paleologo è completamente frutto di<br />
fantasia (anche se il cognome deriva dall’ultima famiglia imperiale dell’impero<br />
romano d’Oriente, o di Bisanzio, se si vuole utilizzare la terminologia odierna). Sono<br />
ricorso alla licenza poetica anche per il titolo di Maresciallo attribuito a Mustafa, dal<br />
momento che alle orecchie dei lettori di oggi suona più autoritario rispetto al titolo<br />
che gli ottomani assegnavano ai comandanti del suo rango: Serdar.<br />
La parte terza è quella in cui, come suggeriva John Keats, “ho lasciato vagare<br />
la mia alata fantasia”. Tutti, tranne Lala Mustafa Pascià, le celebrità veneziane e un<br />
paio di personaggi minori, sono frutto di quella fantasia. Il mullah Ali al Hasan si basa<br />
su uno scambio di battute di due righe fra <strong>Bragadin</strong> e un imam ottomano ricavato dal<br />
resoconto storico del testimone oculare Fra Agostino, La gloriosa morte di<br />
Marcantonio <strong>Bragadin</strong>. Fra Agostino era davvero il priore del monastero di<br />
Sant’Antonio durante l’assedio e fuggì come Martinengo. Anch’egli appare nel<br />
romanzo. Nel racconto di Fra Agostino, <strong>Bragadin</strong> chiede all’imam quali erano state le<br />
prime parole di Dio; quando l’imam risponde, “In principio era il Verbo (Parola)”,<br />
<strong>Bragadin</strong> insulta Mustafa per non aver mantenuto il suo verbo (parola) giustiziando i<br />
comandanti di <strong>Bragadin</strong> nel suo accampamento dopo la capitolazione. Qui termina<br />
l’unico scambio documentato fra <strong>Bragadin</strong> e una figura religiosa ottomana.<br />
Un’altra licenza poetica che necessita di chiarimento è l’utilizzo del francese<br />
negli scambi verbali fra gli ottomani e <strong>Bragadin</strong>. Anche se i dialoghi sono ovviamente<br />
scritti in italiano, 2 viene specificato che i personaggi stanno parlando in francese<br />
durante le loro conversazioni. Qui sono certo che la libertà che mi sono preso è<br />
destinata a incontrare una certa disapprovazione. Perché un comandante ottomano che<br />
si rivolge a un comandante veneziano in un’isola greca (anche se l’isola era parte<br />
della Repubblica di Venezia) dovrebbe usare il francese, anziché il greco, il veneziano<br />
o il latino? Un generale ottomano di quell’epoca poteva conoscere il francese? In<br />
effetti, alcuni testi storici accennano alla presenza di un traduttore. Ma la risposta è<br />
molto probabilmente sì, e meglio di qualunque altra lingua europea. Secondo Guido<br />
Antonio Quarti, la prima lettera che <strong>Bragadin</strong> ricevette da Mustafa, insieme alla testa<br />
del luogotenente Dandolo, era scritta in francese. Quarti afferma che la lettera era<br />
stata tradotta dal turco al francese a Nicosia da un nobile fatto schiavo. Ma è molto<br />
1 Esistono due ipotesi principali riguardo a chi fu il primo doge di Venezia: la prima,<br />
basata sulla Cronaca Altinate, sostiene che le comunità lagunari elessero come primo<br />
2 Chiaramente, nel manoscritto della postfazione originale in inglese l’autore si<br />
riferisce alla lingua inglese (NdT).<br />
5
probabile che gli ottomani parlassero il francese, e lo parlassero molto bene, poiché la<br />
Francia e l’impero ottomano, durante il XVI secolo, condividevano un’alleanza molto<br />
solida. Niente unisce due amici quanto un nemico comune e per il re Francesco I,<br />
come per il sultano Solimano, l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V<br />
costituiva precisamente quel nemico. L’esercito francese e quello ottomano si<br />
scambiavano tattiche militari, si fornivano reciprocamente uomini e materiali bellici<br />
ed elaboravano strategie per ridurre il potere del Sacro Romano Impero. La Francia,<br />
inoltre, non partecipò alla battaglia di Lepanto, anche se è noto che finanziasse spesso<br />
i Cavalieri di San Giovanni. Pertanto, è più che probabile che l’alto comando militare<br />
ottomano possedesse una buona conoscenza della lingua francese; e dal momento che<br />
era essenziale, nel romanzo, che <strong>Bragadin</strong> e Mustafa parlassero fra loro, la scelta più<br />
realistica era il francese.<br />
Le contraddizioni riscontrate nei testi storici riguardanti l’assedio di<br />
Famagosta sono minime: qualche data, qualche cifra e un paio di nomi. Ma c’è una<br />
contraddizione molto affascinante che concerne un momento cruciale della sorte di<br />
<strong>Bragadin</strong>, dei suoi comandanti e della popolazione latina di Famagosta: l’esecuzione<br />
dei prigionieri ottomani (che secondo alcune fonti erano in origine soldati, secondo<br />
altre, pellegrini) dopo che le condizioni di capitolazione erano già state firmate. È<br />
questo atto che fa esplodere Mustafa e lo induce a decapitare i comandanti italiani e<br />
poi a torturare <strong>Bragadin</strong>. Tutte le fonti affermano che <strong>Bragadin</strong> e i suoi comandanti si<br />
recarono al padiglione di Mustafa per consegnare le chiavi della fortezza. Ma ciò che<br />
fu detto in quell’incontro varia da una fonte all’altra.<br />
Il testimone oculare Nestore Martinengo scrive che Mustafa accusò <strong>Bragadin</strong><br />
di aver giustiziato i prigionieri ottomani, cosa che <strong>Bragadin</strong> smentì nella sua risposta.<br />
Anche Alvise Zorzi, storico veneziano contemporaneo, scrive che <strong>Bragadin</strong> non<br />
aveva giustiziato gli ottomani, ma semmai li aveva liberati dopo la capitolazione. Il<br />
racconto di Guido Antonio Quarti è più ambiguo. Anche lui cita <strong>Bragadin</strong> che dice a<br />
Mustafa che i prigionieri erano stati liberati e, quando Mustafa chiede a uno dei<br />
prigionieri liberati (o fuggiti) se fosse la verità, questi accusa <strong>Bragadin</strong> di aver<br />
giustiziato i suoi compagni. <strong>Bragadin</strong> allora dice a Mustafa di andare a Famagosta e di<br />
accertarsene di persona. Il dialogo termina qui, ma, più avanti nel suo racconto, Quarti<br />
inserisce la lettera di Mustafa al secondo vizir Pertev Pascià, scritta dopo lo<br />
scorticamento di <strong>Bragadin</strong>. La lettera dichiara che <strong>Bragadin</strong> si era scusato quando<br />
aveva consegnato a Mustafa le chiavi della città, dicendo (e quindi confermando) che<br />
i suoi soldati, senza che lui l’avesse ordinato, avevano fatto giustiziare i prigionieri<br />
ottomani due giorni dopo la capitolazione. Quarti aggiunge che forse Mustafa stava<br />
solo giustificando la sua crudeltà.<br />
Il testimone oculare Fra Agostino scrive che, quando chiesero a <strong>Bragadin</strong> dei<br />
prigionieri ottomani, egli rispose dicendo che, nelle condizioni di resa, non si era<br />
stipulato alcunché a proposito dei prigionieri; ma avrebbe anche detto: “Sebbene non<br />
sia tenuto a rispondere, per ragioni di cortesia vi dirò che aprii il castello e lasciai che<br />
ognuno andasse dove voleva”. Poi Mustafa convoca uno dei prigionieri scampati che<br />
afferma che <strong>Bragadin</strong> aveva fatto giustiziare gli altri. <strong>Bragadin</strong> non risponde. Lo<br />
scambio termina qui e Mustafa si vendica massacrando i comandanti e torturando<br />
<strong>Bragadin</strong>.<br />
In Lepanto 1571. La Lega Santa contro l’impero ottomano, una storia della<br />
battaglia di Lepanto molto obiettiva alla quale devo la mia descrizione della battaglia<br />
nel capitolo X della parte terza, lo storico contemporaneo fiorentino Niccolò Capponi<br />
scrive che <strong>Bragadin</strong> afferma di aver giustiziato i prigionieri che erano stati catturati<br />
all’inizio della guerra, ma non è chiaro se li uccise prima o dopo la capitolazione.<br />
6
Capponi aggiunge che gli storici veneziani solitamente aderiscono all’opinione che<br />
Mustafa non aveva mai avuto intenzione di mantenere la sua parola e stesse solo<br />
cercando un pretesto per sfogare la sua collera fanatica.<br />
Maria Grazia Siliato offre una sua versione esclusiva della verità. Nel suo<br />
romanzo, L’assedio (1995), la signora Siliato fa avvenire l’esecuzione dei prigionieri<br />
ottomani il 31 luglio del 1571, un giorno prima della firma delle condizioni di resa.<br />
Introducendo questa possibilità, lei fa pensare al lettore che, dal momento che<br />
l’assedio non era ancora ufficialmente terminato, “il Governatore di Famagosta” (per<br />
qualche motivo misterioso il nome Marcantonio <strong>Bragadin</strong> viene evitato nel romanzo)<br />
non era obbligato a rispettare alcun accordo formale e, pertanto, non ha macchiato il<br />
suo onore militare giustiziando i prigionieri. La signora Siliato è una storica e<br />
un’archeologa. La signora Siliato è stata anche (e spero mi perdonerà questa lieve<br />
indiscrezione) compagna del defunto nobiluomo veneto Marc’Antonio <strong>Bragadin</strong>, uno<br />
dei diretti discendenti dello storico Marcantonio <strong>Bragadin</strong>, che si distinse come<br />
comandante della marina italiana nel XX secolo (dunque, non è lei stessa una diretta<br />
discendente, come afferma il nostro storico divulgativo britannico nel suo libro sulla<br />
storia di Venezia).<br />
Gli episodi su cui tutti gli storici concordano sono l’esecuzione dei<br />
comandanti italiani da parte di Mustafa nel suo accampamento e la prigionia e la<br />
tortura di <strong>Bragadin</strong>, che durò dal 5 fino al 17 agosto (il 15 secondo alcune fonti). La<br />
maggior parte delle fonti afferma inoltre che, durante quel periodo, <strong>Bragadin</strong> ebbe<br />
l’opportunità di convertirsi all’Islam e di unirsi all’esercito ottomano. Il testimone<br />
oculare Nestore Martinengo scrive che il giorno dell’esecuzione di <strong>Bragadin</strong>, il 17<br />
agosto, era anche la festività cipriota di Venere. Tutto il resto che accadde in quei<br />
tredici giorni è passibile di congetture.<br />
Guardando indietro all’evoluzione delle società, non si può fare a meno di<br />
notare le differenze abissali fra le intenzioni che generano i progetti umani e gli<br />
effettivi risultati che ne derivano. Le visioni o le logiche che ispirano le società ad<br />
agire corrispondono così raramente agli esiti di quelle azioni che spesso sembrano<br />
essere in gioco due mondi contrastanti; e la ragione umana, che tranquillamente pensa<br />
a se stessa come a un timone che guida e determina gli eventi, dopo tutto non è altro<br />
che una fragile vela nel mezzo della tempesta. Quando il testimone oculare Miguel de<br />
Cervantes (che era stato un soldato a bordo di una delle galee di Gian Andrea Doria)<br />
definì la battaglia di Lepanto “una cagione sì eminente per celebrità da non vantarne<br />
l’uguale i passati, i presenti, e fors’anco i secoli avvenire”, egli naturalmente guardava<br />
all’evento dal punto di vista di Don Chisciotte, non di Sancho Panza, poiché le<br />
conseguenze a lungo termine della battaglia non furono così gloriose come il suo<br />
preludio o lo scontro stesso.<br />
Anche se gran parte degli storici (europei) considerano la battaglia di Lepanto<br />
come il fattore decisivo nell’arrestare il predominio ottomano nel Mediterraneo, i fatti<br />
indicano una storia piuttosto diversa: dal momento che la Spagna e Venezia<br />
cominciarono subito a litigare riguardo alla strategia post-battaglia (a quanto pare<br />
Venezia voleva procedere verso Costantinopoli) e che la Lega Santa si sciolse, gli<br />
ottomani poterono, nel giro di un anno, mettere insieme una nuova flotta di quasi 300<br />
galee e 8 galeazze simili a quelle veneziane; nel 1573 Venezia cedette ufficialmente<br />
Cipro all’impero ottomano, accettando di risarcire il sultano delle perdite subite<br />
durante la guerra; nel 1574 gli ottomani strapparono Tunisi alla Spagna; nel 1669,<br />
***<br />
7
dopo una guerra durata 24 anni, gli ottomani sottrassero Creta a Venezia; gli ottomani<br />
proseguirono inoltre la loro campagna in Ungheria, solo per essere sconfitti<br />
definitivamente nella battaglia di Vienna del 1683. Pertanto, è difficile immaginare<br />
che la posizione ottomana in mare fosse stata pesantemente modificata dopo Lepanto.<br />
Ci fu, tuttavia, per gli europei un risultato molto positivo dopo la battaglia.<br />
Agli ottomani era stata impedita l’invasione di Roma, che originariamente faceva<br />
parte della loro strategia. Ora si resero conto che qualunque tentativo di conquistare la<br />
Città Eterna non avrebbe fatto altro che unire le nazioni cristiane in un’alleanza<br />
formidabile e impenetrabile. Nonostante le immediate differenze, gli europei<br />
dimostrarono tuttavia la loro solidarietà di fondo. Di conseguenza, gli ottomani<br />
attaccarono i territori dei singoli paesi (Tunisi, Creta, ecc.). Il motivo per il quale gli<br />
ci vollero settant’anni per riprendere l’aggressione contro la Repubblica di Venezia si<br />
può spiegare con il fatto che, durante l’ultimo quarto del XVI secolo, il trono<br />
ottomano era intriso di DNA veneziano.<br />
Selim II, che era per metà slavo, aveva sposato Cecilia Venier-Baffo, una<br />
nobildonna veneziana catturata durante la conquista ottomana di Paro a scapito di<br />
Venezia nel 1537 (la versione secondo la quale lei era Rachele Nassi-Baffo, la cugina<br />
mezza ebrea di Iosif Nassi, appare troppo raramente ed è poco convincente per essere<br />
presa seriamente in considerazione). Cecilia era la cugina del famoso Sebastiano<br />
Venier, che in seguito divenne doge, anche se solo per un anno (1577-78). Lei diede<br />
alla luce Murad III, che divenne sultano nel 1574 dopo la morte di Selim a causa di<br />
una febbre provocata da una caduta accidentale alle terme (molte fonti attribuiscono<br />
la caduta alla sua solita ubriachezza). Pertanto Murad, malgrado sua madre si fosse<br />
convertita all’Islam e avesse preso il nome di Nurbanu (Principessa della Luce), era,<br />
tecnicamente parlando, per metà veneziano. Murad poi sposò la nobildonna veneziana<br />
Dorilla Baffo, che si era convertita all’Islam dopo essere stata catturata a Corfu e che<br />
aveva preso il nome di Safiye (la Pura). Safiye, esattamente come Nurbanu prima di<br />
lei, ebbe una notevole influenza sulla politica estera ottomana e fece tutto il possibile<br />
per mantenere relazioni amichevoli con l’Europa, talvolta entrando persino in<br />
conflitto con il bellicoso Lala Kara Mustafa Pascià che, dopo aver governato Cipro,<br />
era assurto alla carica di gran vizir per alcuni mesi nel 1580 (la cattedrale<br />
famagostana che egli aveva trasformato in moschea dopo l’assedio porta oggi il suo<br />
nome). Safiye diede alla luce Mehmed III, il cui sultanato si protrasse dal 1595 al<br />
1603. Perciò, visto che sua madre (Safiye) era veneziana e suo padre (Murad) mezzo<br />
veneziano, si può tecnicamente dedurre che Mehmed fosse per tre quarti veneziano.<br />
All’epoca in cui lui e la moglie greca Helena ebbero il loro primo figlio, l’implacabile<br />
fiume del sangue imperiale ottomano si era dissolto nel dolce e sensuale mare<br />
Adriatico.<br />
Venezia, 2010.<br />
Sull’angolo occidentale delle Fondamente Nove e del Rio dei Mendicanti,<br />
davanti all’isola di San Michele, nel secentesco Palazzo Berlendis, vive il conte<br />
Giorgio Dissera <strong>Bragadin</strong>. È un diretto discendente della nobile famiglia Dissera, un<br />
ramo della quale si era trasferito a Venezia da Montagnana, vicino a Padova, a cavallo<br />
tra il XIX e il XX secolo. Il cognome <strong>Bragadin</strong> gli fu trasmesso ufficialmente dalla<br />
sua cugina di secondo grado, la nobildonna Cesira <strong>Bragadin</strong>. Lui e il defunto<br />
comandante Marc’Antonio <strong>Bragadin</strong> erano cugini di terzo grado. Giorgio Dissera<br />
<strong>Bragadin</strong> parla in termini entusiastici del suo cugino di terzo grado e, come lui, ha<br />
***<br />
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scritto molti libri sulla storia militare di Venezia. Mi ha anche fornito inestimabili<br />
informazioni sulla famiglia <strong>Bragadin</strong> e per questo desidero esprimergli la mia più<br />
profonda gratitudine. È alto, elegante, meticoloso, ha occhi vispi e un senso<br />
dell’umorismo assai pungente. Una volta, mentre gli stavo dicendo quanto appare<br />
nebbiosa e ambigua la storia umana, egli disse: “Sono d’accordo, figliolo. Ogni volta<br />
che guardo fuori dalla finestra e vedo l’ospedale di fronte a me e il cimitero alla mia<br />
sinistra, non posso fare a meno di rendermi conto di quanto sia molto più chiaro il<br />
futuro rispetto al passato”.<br />
Il 7 ottobre di ogni anno, nel giorno della Madonna del Rosario, Giorgio<br />
Dissera <strong>Bragadin</strong> guida il rito di commemorazione nella Cappella del Rosario presso<br />
la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. La Madonna del Rosario è una festa che fu<br />
istituita da papa Pio V dopo la battaglia di Lepanto (infatti, originariamente, era<br />
chiamata Madonna della Vittoria) come ringraziamento alla Vergine per la vittoria<br />
cristiana (nel giorno dello storico scontro un corteo del rosario ebbe luogo in Piazza<br />
San Pietro a Roma). Come la festa stessa, la Cappella del Rosario fu creata dopo la<br />
battaglia e decorata con le opere dei più grandi pittori e scultori veneziani del tempo.<br />
Durante il rito, si tiene una messa in suffragio dei soldati veneziani e italiani caduti<br />
non solo a Lepanto, ma in tutti gli altri conflitti militari che hanno visto coinvolte<br />
Venezia e l’Italia. La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo è il pantheon di Venezia.<br />
Sopra il portale principale, nella controfacciata, vi sono i monumenti funebri del doge<br />
Alvise Mocenigo I e di sua moglie, che governarono Venezia all’epoca della battaglia<br />
di Lepanto. All’ingresso della Cappella del Rosario spicca con fierezza la statua<br />
bronzea dell’eroico Sebastiano Venier; accanto a essa giacciono le sue spoglie.<br />
Mocenigo e Venier sono solo due dei tanti celebri veneziani che, da diversi secoli,<br />
riposano nella basilica.<br />
Il conte Dissera <strong>Bragadin</strong> conclude il rito di commemorazione portando<br />
l’attenzione del pubblico su un busto marmoreo collocato in alto sulla parete della<br />
navata destra, vicino all’entrata della basilica. Il busto poggia su un’urna di marmo.<br />
Al di sopra del busto vi è un affresco. Sotto l’urna, fra due colonne, c’è una lapide con<br />
un’iscrizione in latino. A volte, verso mezzogiorno, un’onda di luce entra attraverso le<br />
due vetrate su entrambi i lati dell’urna e ti colpisce negli occhi. Se si osserva la lapide,<br />
si può distinguere la prima riga: DOP. Alcune righe più sotto appare un’altra parola<br />
latina: PELLIS. Fra queste due righe c’è un testo inciso in caratteri piccoli. La prima<br />
riga di questo testo, direttamente sotto DOP, recita: m.antonii bragadeni. Chi visita<br />
per la prima volta la basilica scopre che l’urna contiene la pelle di un capitano<br />
generale veneziano che ha difeso la sua fede e la sua patria durante la guerra di Cipro<br />
del 1571. L’affresco raffigura il suo raccapricciante martirio.<br />
La storia dice che nel 1580, nove anni dopo lo scorticamento di <strong>Bragadin</strong>, un<br />
soldato veronese di nome Girolamo Polidoro rubò (secondo alcune fonti, acquistò) la<br />
pelle dall’arsenale di Costantinopoli e la diede al bailo veneziano della città, il quale<br />
la restituì alla famiglia <strong>Bragadin</strong>. La famiglia dapprima la depose nella Chiesa di San<br />
Gregorio a Dorsoduro e in seguito, nel 1596, nella Basilica dei Santi Giovanni e<br />
Paolo, non lontano dalla tomba del poeta Bartolomeo <strong>Bragadin</strong>, che riposa nella<br />
controfacciata, sulla sinistra per chi entra in chiesa.<br />
Proprio di fronte al monumento di Marcantonio <strong>Bragadin</strong>, sulla parete della<br />
navata sinistra, si erge una splendida statua dorata di uno sfavillante cavaliere che<br />
schiaccia il nemico sotto il suo cavallo feroce. Si tratta di un monumento funebre in<br />
onore di Orazio Baglioni, un generale perugino che combatté come condottiero per la<br />
Repubblica di Venezia al principio del XVII secolo. La famiglia Baglioni aveva dato<br />
alla luce molti brillanti generali prima e dopo l’assedio di Famagosta. Chissà se le<br />
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autorità veneziane posero il monumento di Orazio Baglioni di fronte a quello di<br />
<strong>Bragadin</strong> inconsapevolmente o se, al contrario, lo sistemarono in quella posizione<br />
affinché il capitano generale veneziano godesse della compagnia di un parente del suo<br />
grande amico?<br />
L’urna contenente la cassetta di piombo con la pelle di Marcantonio <strong>Bragadin</strong><br />
è, come ci si potrebbe aspettare, un argomento assai delicato per Giorgio Dissera<br />
<strong>Bragadin</strong>. Ma non solo perché il conte porta il cognome dell’immortale martire<br />
veneziano.<br />
Nel 1961, in occasione del restauro del monumento, fu organizzata una<br />
ricognizione volta a identificare il contenuto della cassetta. La cassetta fu prelevata<br />
dall’urna e aperta davanti a un gruppo di autorità ed esperti.<br />
Ecco che cosa fu trovato:<br />
a) fiocchi di fibre probabilmente di cotone greggio. Il loro colore è bianco<br />
giallastro. Al tatto sono leggermente untuosi;<br />
b) una massa rotondeggiante della forma approssimativamente d’un cranio<br />
umano; il suo colore è bruno con diverse gradazioni. Essa è costituita da una sostanza<br />
il cui spessore è quello di una pelle umana disseccata. Riveste un ammasso di paglia<br />
dello stesso colore; è in parte sgretolata;<br />
c) vari piccoli frammenti di sostanza brunastra che, esaminati, rivelano portare<br />
ancora qualche resto di peluria;<br />
d) un frammento più grande della stessa sostanza, recante una piccola, netta<br />
cicatrice da taglio. Il frammento viene identificato per pelle umana;<br />
e) ciocche di capelli umani, ottimamente conservati, di un bel biondo<br />
tizianesco scuro, ondulati;<br />
f) un frammento di tela grezza, cucita grossolanamente con spago;<br />
g) un pezzo di spago perfettamente conservato, lungo circa dieci centimetri,<br />
ritorto ancora nella forma di un’antica cucitura destinata a congiungere due lembi di<br />
stoffa o di pelle. Non rimane però traccia del materiale su cui la cucitura fu effettuata;<br />
h) una falangetta del mignolo (ritrovamento corrispondente alle relazioni sul<br />
Martirio, nonché al verbale di chiusura della spoglia nella cassetta, nell’anno 1596);<br />
i) abbondante paglia, ben conservata, di colore bruno, che al tatto risulta<br />
impregnata di sostanza leggermente irritante;<br />
l) vari frammenti di pelle di diversa grandezza; molta polvere di color bruno<br />
che si mescola ovunque alla paglia e copre il fondo della cassetta (presumibilmente<br />
resti della pelle).<br />
Il contenuto fu poi riposto nella cassetta e la cassetta riposta nell’urna.<br />
Se leggiamo il verbale della ricognizione scopriamo che il documento inizia<br />
con l’intestazione che descrive l’oggetto identificato (la cassetta contenente i resti di<br />
Marco Antonio <strong>Bragadin</strong> 25.4.1525 – 17.8.1571), la data e l’ora (sabato 25 novembre<br />
1961 alle ore 11) e il luogo (Basilica dei SS. Giovanni e Paolo, in Venezia). Poi<br />
elenca le personalità presenti:<br />
1. P. Angelo M. Caccin – Superiore del Convento<br />
2. Sac. Alberto Furlan – Segretario della Cancelleria Patriarcale<br />
3. Prof. Ignazio Muner – Direttore degli Ospedali Civili<br />
4. Arch. Renato Padoan – Vicedirettore della Sovraintendenza ai Monumenti<br />
5. Geom. Elio Zecchini – Assistente alla Sovraintendenza ai Monumenti<br />
6. Prof. Napoleone Martinuzzi – Ispettore Onorario alla Sovraintendenza ai<br />
Monumenti<br />
7. Com.te Marcantonio <strong>Bragadin</strong> fu Alvise, N.H. Patrizio Veneto<br />
8. Dott. Gianmarco <strong>Bragadin</strong> di Marcantonio, N.H. Patrizio Veneto<br />
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9. N.H. Giovanni Nenna<br />
10. Maria Grazia Siliato, scrittrice<br />
11. Milena Splendore<br />
Il verbale descrive poi il processo di identificazione stesso (esame della<br />
cassetta, i dieci reperti summenzionati, ecc.) e si conclude con la seguente frase: “Nel<br />
frattempo, molte fotografie sono state scattate da Gian Marco <strong>Bragadin</strong> di<br />
Marc’Antonio”. Sotto questa frase finale ci sono cinque firme, chiaramente<br />
appartenenti a cinque delle undici personalità presenti durante l’identificazione.<br />
Se uno storiografo oggi desiderasse sapere chi era presente durante<br />
l’identificazione del contenuto della cassetta, prenderebbe il verbale scritto e<br />
guarderebbe all’inizio del documento gli undici nomi dattiloscritti, non le cinque<br />
firme in calce della seconda pagina, alcune delle quali peraltro non perfettamente<br />
leggibili. Le firme verrebbero esaminate solo per qualche altro scopo (autenticazione,<br />
studio calligrafico, ecc.)<br />
Ma se qualcuno volesse in effetti esaminare le firme, e la loro rispondenza ai<br />
nomi dattiloscritti all’inizio del documento, noterebbe una cosa molto strana. Quattro<br />
delle cinque firme corrispondono ai nomi dattiloscritti: Maria Grazia Siliato,<br />
Marc’Antonio <strong>Bragadin</strong>, Milena Splendore e Giovanni Nenna. Ma una firma non<br />
corrisponde. Mostra un nome che non è inserito nell’elenco delle undici personalità. È<br />
la firma di Giorgio Dissera <strong>Bragadin</strong>.<br />
Ma come? Come può esserci la sua firma sul documento se non era presente<br />
durante la procedura di identificazione? In realtà era presente, come del resto egli<br />
afferma, ma fu per errore tralasciato dalla persona che stilò il verbale.<br />
Che cosa significa questo dunque: che non ci si può fidare completamente dei<br />
documenti storici? Che la storia viene scritta con intenti soggettivi? Che il<br />
ragionamento umano è un processo fallibile?<br />
A seconda delle convinzioni (o della professione) di ognuno – tutto, qualcosa<br />
o niente di cui sopra. Una cosa è certa, comunque: in assenza di una prova empirica<br />
assolutamente esatta e affidabile, la verità la si raggiunge non attraverso l’analisi<br />
logica dei fatti che la circondano, ma attraverso le facoltà dell’intuizione, della<br />
credenza e dell’immaginazione.<br />
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