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BIBLIOTHECA SARDA<br />
N. 58
In copertina:<br />
Carmelo Floris, Ragazzo (1928 circa)<br />
Paride Rombi<br />
PERDU<br />
prefazione di Maria Giacobbe
Riedizione dell’opera:<br />
<strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori, 1953.<br />
Rombi, Paride<br />
<strong>Perdu</strong> / Paride Rombi ; prefazione di Maria Giacobbe.<br />
Nuoro : Ilisso, c2000.<br />
167 p. ; 18 cm. (Bibliotheca sarda ; 58)<br />
I. Giacobbe, Maria<br />
853.914<br />
Scheda catalografica:<br />
Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro<br />
© Copyright 2000<br />
by ILISSO EDIZIONI - Nuoro<br />
ISBN 88-87825-15-7<br />
7 Prefazione<br />
26 Nota biografica<br />
28 Nota bibliografica<br />
PERDU<br />
33 Capitolo I<br />
38 Capitolo II<br />
45 Capitolo III<br />
55 Capitolo IV<br />
59 Capitolo V<br />
64 Capitolo VI<br />
72 Capitolo VII<br />
76 Capitolo VIII<br />
80 Capitolo IX<br />
INDICE<br />
87 Capitolo X<br />
93 Capitolo XI<br />
97 Capitolo XII<br />
104 Capitolo XIII<br />
109 Capitolo XIV<br />
117 Capitolo XV<br />
123 Capitolo XVI<br />
129 Capitolo XVII<br />
133 Capitolo XVIII<br />
140 Capitolo XIX<br />
144 Capitolo XX<br />
154 Capitolo XXI<br />
165 Capitolo XXII
PREFAZIONE<br />
Paride Rombi nacque nel 1921 da una famiglia di<br />
oriundi genovesi, a Calasetta, nell’isola di Sant’Antioco, la<br />
più grande delle isole dell’arcipelago sulcitano, a sud-ovest<br />
della <strong>Sardegna</strong>. Ultimo di quattro fratelli, trascorse l’infanzia<br />
nel paese natale dove fece le scuole elementari. Frequentò<br />
poi il ginnasio e il liceo a Iglesias e infine, «nei<br />
tempi oscuri della fine della guerra e del dopoguerra», si<br />
trasferì a Cagliari per studiarvi giurisprudenza. Come ci racconta<br />
Armando Congiu che in quel periodo lo frequentò<br />
quotidianamente, insieme ad alcuni «studenti di Ottana<br />
che stavano a pensione in Via Baylle». 1 Questi avevano la<br />
fortuna, in quegli anni di razionamenti e di fame, di avere<br />
alle spalle delle famiglie «di grossi armentari e agricoltori»<br />
che li rifornivano di abbondanti quantità di cibo di cui anche<br />
gli amici meno abbienti potevano godere.<br />
Finiti gli studi universitari, i due giovani si persero di<br />
vista, entrambi assorbiti dagli impegni professionali e attratti<br />
in orbite culturali e politiche almeno apparentemente<br />
diverse. Si ritrovarono nel 1961, come membri della giuria<br />
del “Premio Iglesias” cui parteciparono per molti anni durante<br />
i quali ebbero modo di ristabilire su basi più solide<br />
e durature la loro amicizia.<br />
Dell’amico di gioventù, com’era stato durante l’ormai<br />
lontano periodo cagliaritano, Armando Congiu ci dà un vibrante<br />
ritratto nel testo col quale introduce la traduzione<br />
in sardo sulcitano dell’Antigone di Sofocle, curata da Paride<br />
Rombi e pubblicata dalla “Lao Silesu” di Iglesias nel<br />
1983: «Lo ricordo perfettamente: asciutto, biondo, con le<br />
mani nelle tasche di un soprabito forse un po’ piccolo per<br />
1. A. Congiu, “Motivazione”, in Antigone di Sofocle, traduzione in sardo<br />
(campidanese-sulcitano) di P. Rombi, Iglesias, Lao Silesu, 1983, p. 3.<br />
7
lui e con una lunga sciarpa avvolta con un solo giro intorno<br />
al collo e abbandonata per il resto lungo i fianchi fin<br />
quasi a lambire l’orlo del cappotto.<br />
Di che cosa ci occupassimo, non ricordo: non dovevano<br />
essere cose di gran conto se è vero che a me non<br />
ne è rimasta memoria alcuna: neppure se ci fu un parlare<br />
della guerra, e del fascismo e dei tedeschi e di quello che<br />
succedeva al di là del Tirreno». 2<br />
Però, per chi abbia letto <strong>Perdu</strong>, non è difficile immaginare<br />
che, qualunque fosse l’oggetto o gli oggetti delle conversazioni<br />
di quel gruppetto di studenti durante i loro vagabondaggi<br />
«fra la Via Roma, il Largo e la Piazza Martiri, in<br />
un dolce far nulla e nulla progettare», 3 uno di loro – quello<br />
“asciutto e biondo” con la lunga sciarpa attorno al collo e<br />
il “cappotto forse un po’ piccolo per lui” – pur in quella<br />
Cagliari devastata dalla guerra, nel segreto della fantasia e<br />
della memoria continuasse a sentirsi immerso nell’atmosfera<br />
stregata dei luoghi della sua infanzia. «Una terra vergine,<br />
selvatica, potente nelle manifestazioni spesso tragiche delle<br />
forze della Natura, ma al tempo stesso tranquilla, favorevole<br />
alla nostalgia e alla poesia». 4<br />
La sua regione natale, il Sulcis, domina in ogni caso<br />
con le sue luci e le sue ombre su quasi ogni pagina di <strong>Perdu</strong>,<br />
il romanzo col quale nel 1952 Paride Rombi vinceva il<br />
“Premio Grazia Deledda”, allora alla sua prima edizione.<br />
Nel frattempo, dopo una parentesi di tre anni in cui<br />
aveva fatto il militare in aeronautica come sottufficiale e<br />
poi ufficiale, Paride Rombi si era laureato a pieni voti, si<br />
era sposato, era diventato padre di quattro figli e, dal<br />
1947, era entrato in magistratura. Nel 1953, quando <strong>Perdu</strong><br />
veniva presentato al pubblico italiano nella prestigiosa<br />
collana “La Medusa degli Italiani” di Mondadori, l’autore<br />
2. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 3.<br />
3. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 4.<br />
4. Cfr. p. 35 della presente edizione.<br />
8<br />
Prefazione<br />
risiedeva da alcuni anni a Sondrio, con la funzione di<br />
Giudice istruttore presso quel tribunale.<br />
Non erano dunque mancate al giovane intellettuale<br />
sulcitano esperienze di altri luoghi e di altre condizioni di<br />
vita ma, come è quasi regola per molti artisti, a imporglisi<br />
nel momento creativo erano i paesaggi e la condizione<br />
umana che avevano improntato il suo mondo negli anni<br />
formativi dell’infanzia. È ciò che accade in questo suo romanzo<br />
d’esordio, dove il Sulcis è presente o per i riferimenti<br />
diretti a questa particolare regione come scenario<br />
del dramma, o per l’esplicito richiamarla alla memoria<br />
rapportandosi ad essa, quando la vicenda s’è temporaneamente<br />
spostata in altri luoghi.<br />
Così, per esempio, nella poetica descrizione dell’arrivo<br />
a Cagliari del piccolo protagonista del romanzo, possiamo<br />
leggere: «<strong>Perdu</strong> dimenticò ogni cosa, anche il processo e<br />
sua madre, dinanzi a questo spettacolo. A bocca aperta,<br />
appena fuori il portone della stazione, sotto il palmizio e i<br />
banani … egli mentalmente comparava tutto ciò che vedeva<br />
con i luoghi silenziosi e semplici nei quali era sino<br />
allora vissuto. Come era lontana da lì, Terreluxi! Le sue<br />
poche case, i campi seminati, i filari dei mandorli e i ciuffi<br />
radi degli ulivi e le siepi di fichidindia e gli scogli, i grandi<br />
sassi bruni del monte Tamara …». 5<br />
Questi «luoghi silenziosi e semplici» ma, come si vedrà,<br />
tanto drammatici, Paride Rombi ce li presenta distesamente<br />
già in apertura di romanzo con un brano stilisticamente<br />
tipico per lui, in cui la volontà di dar loro una obiettiva<br />
collocazione geografica («dalle ultime frange della pianura<br />
campidanese, subito dopo Siliqua, fino al golfo di Teulada<br />
…»), è travolta dalla spiccata propensione alla metafora<br />
del giovane scrittore: «Il Sulcis, forse più che altre zone<br />
della <strong>Sardegna</strong>, offre spettacoli stranamente misti di pianto<br />
5. Cfr. p. 73.<br />
9
e di riso, di violenza selvaggia e di soavità, di cupa severità<br />
e di incantevole grazia. Quel ribollimento di alture, di<br />
gobbe, di tumuli di terra e di roccia, insomma di monti,<br />
ora nudi e austeri ora morbidi di vegetazione, e non disposti<br />
a catena come tutti gli altri monti, ma affastellati a<br />
spintoni, sbalordiscono per la varietà di prospettive, per i<br />
silenzi e le solitudini paurose che vi si spalancano, per la<br />
pace stagnante che vi regna. Il Sulcis è tutto così. Di balza<br />
in balza, dalle ultime frange della pianura campidanese,<br />
subito dopo Siliqua, fino al golfo di Teulada e alle isole<br />
dell’arcipelago sulcitano, il sole bacia e indora, infuoca e<br />
arroventa, carezza e castiga la terra, che il mare a sua volta<br />
blandisce e culla, quando però non la schiaffeggia di<br />
onde con una collera che ha del titanico». 6<br />
È questa dunque la regione dove si svolgerà il dramma<br />
che è di <strong>Perdu</strong>, ma che è anche della comunità di cui <strong>Perdu</strong><br />
è figlio. Figlio ripudiato e vittima, ma non perciò meno<br />
figlio. Un dramma nel quale quella tale società e quella<br />
particolare regione fanno dunque da scenario ma anche da<br />
coro. E finiscono per esserne deuteragonisti e conditio sine<br />
qua non.<br />
Come è nella logica interna di un racconto come <strong>Perdu</strong>,<br />
dove la corrispondenza tra la natura circostante e<br />
l’intrecciarsi e il divampare dei sentimenti che si vivono è<br />
totale, nel libro alla descrizione del territorio segue immediatamente<br />
quella accorata e quasi disperata della gente<br />
che vi abita: «Qui vive una stirpe dimenticata e povera, di<br />
abitudini semplici e ignara di come sia grande il mondo,<br />
e complicato e assurdo, e diverso dalla loro terra. Gli uomini<br />
sono pochi in rapporto alla vastità dello spazio, e<br />
questo fa sì che per lunghissimi tratti la campagna sia talmente<br />
vuota, solitaria e desolata. Anche nel carattere degli<br />
abitanti si rispecchiano questi elementi di contrasto fra<br />
6. Cfr. p. 35.<br />
10<br />
Prefazione<br />
letizia e amarezza. Le ragazze, se cantano, cantano nenie<br />
simili a lamentazioni, anche se parlano d’amore. Gli uomini<br />
sono tranquilli e sereni, mansueti, ma, come quando il<br />
vento si desta rabbioso e acquista repentinamente una<br />
violenza inaudita, sì da riuscire a spezzare perfino i sugheri,<br />
quegli stessi uomini si trasformano completamente<br />
allorché la passione li travolga. Una sola cosa domina comunque<br />
su tutto, la miseria». 7<br />
Questo Sulcis arretrato e povero, con la sua spesso violenta<br />
bellezza e la sua guatante tragedia, appare all’autore<br />
come la quintessenza stessa della <strong>Sardegna</strong> in un tempo<br />
quasi mitico ma vagamente collocabile nella prima metà del<br />
XX secolo, e fu il paesaggio fisico e umano che, come si<br />
può desumere anche dai già citati ricordi di Armando Congiu,<br />
Paride Rombi continuò a portarsi dentro tutta la vita<br />
come il luogo concreto nel quale anche il suo impegno intellettuale<br />
e politico trovava la sua collocazione più sentita.<br />
Nella miseria, nell’ignoranza e nella solitudine inizia,<br />
matura e si compie il destino di <strong>Perdu</strong>, il piccolo protagonista<br />
del libro. Figlio di “padre ignoto” e di Angiuledda, una<br />
ragazza bella e chiacchierata, che deve guadagnarsi la vita<br />
servendo qua e là presso famiglie di proprietari benestanti,<br />
<strong>Perdu</strong> cresce sino ai sette anni e mezzo insieme al nonno,<br />
un vecchio burbero e taciturno che sembra incapace di<br />
esprimere e forse anche di provare sentimento alcuno.<br />
<strong>Perdu</strong> è invece un bambino sensibile e aperto che,<br />
aiutato dalla sua innocenza e dalla sua ignoranza, può vivere<br />
quei suoi primi anni di silenziosa solitudine in una<br />
specie d’inconsapevole atarassia solo turbata dal mistero,<br />
che intuisce vergognoso e che però anela a svelare, di cui<br />
è circondata la sua nascita. Su di essa corrono voci che<br />
<strong>Perdu</strong> percepisce ma sulle quali né il nonno né Angiuledda<br />
vogliono dargli certezza.<br />
7. Cfr. pp. 35-36.<br />
11
«La sua esistenza era, in definitiva, serena. La stessa<br />
miseria nella quale viveva non poteva realmente affliggerlo<br />
perché, essendovi nato e non avendo la possibilità di<br />
conoscere come si possa vivere meglio, gli mancava quell’elemento<br />
di comparazione che forma il sostrato dell’ansietà,<br />
dell’invidia e dei desideri inappagati di cui noi tutti<br />
soffriamo. Egli se ne stava tranquillo nella casa del nonno,<br />
in attesa dei brevi ritorni di sua madre». 8<br />
Col passare del tempo però, il bisogno di riuscire a scoprire<br />
l’identità del padre diventa per <strong>Perdu</strong> quasi un’idea<br />
fissa. «In questa ostinata ricerca – tema dominante del libro<br />
e nel quale forse è adombrata un’allegoria dell’uomo<br />
alle prese col proprio mistero – <strong>Perdu</strong> è seguito … di tappa<br />
in tappa, di inganno in disinganno, fino a quando non<br />
scopre la verità o quella che crede tale», scrive Adriano<br />
Vargiu nella sua antologia di scrittori sardi contemporanei,<br />
Un’isola tra passato e futuro. 9<br />
La prima “tappa”, o tregua, nella tormentosa ricerca di<br />
<strong>Perdu</strong>, che a questo punto della storia dunque ha da poco<br />
compiuto i sette anni, è costituita dalle nozze di Angiuledda<br />
con un uomo che anche di fronte alla legge lo<br />
riconosce come suo figlio. Per qualche tempo, <strong>Perdu</strong> può<br />
illudersi che questo riconoscimento sia la risposta alle speculazioni<br />
che, nel suo piccolo cuore, minacciavano di travolgere<br />
anche il rispetto, che voleva conservare e l’amore<br />
che sentiva illimitato, per sua madre.<br />
Ma la tregua è solo l’attimo di quiete prima dell’esplosione<br />
della tempesta che – con la morte di Angiuledda,<br />
trucidata in un raptus di gelosia dal marito che a sua volta,<br />
qualche anno più tardi, viene ucciso a sangue freddo<br />
dal nonno di <strong>Perdu</strong> – travolge tutti i personaggi del dramma<br />
sino alla morte dello stesso <strong>Perdu</strong>.<br />
8. Cfr. p. 37.<br />
9. A. Vargiu, Un’isola tra passato e futuro, Messina-Firenze, G. D’Anna,<br />
1976, p. 377.<br />
12<br />
Prefazione<br />
Nel penultimo capitolo del libro, <strong>Perdu</strong> ormai quattordicenne,<br />
quasi folle per una rivelazione atroce fattagli dal<br />
nonno, che è in carcere e che poco dopo si darà la morte<br />
con le sue stesse mani, fugge all’impazzata e, dopo una<br />
corsa di una notte e un giorno, giunge «stremato in vista<br />
dei monti di Iglesias, la sera del primo giorno di luglio». 10<br />
«Profondamente stanco <strong>Perdu</strong> si adagiò sul terreno all’indietro<br />
giacendo così supino finché le stelle si accesero<br />
ed arsero nel curvo cielo. Stando così sembrava che neppure<br />
la sete si sentisse più tanto. Era solo affaticato, era<br />
stanco. Ma non aveva più paura. Ecco, adesso gli sembrava<br />
veramente di non avere più nemmeno paura». 11<br />
Con quest’immagine di riposo e quasi di pace si chiude<br />
la tenebrosa storia di <strong>Perdu</strong>, l’infelice bambino di Terreluxi,<br />
“Terra di luce”, toponimo di fantasia come Iddarta, “Paese<br />
alto”, che è l’altra località in cui, ormai adolescente, esso<br />
precipita alla fine del suo tragico itinerario esistenziale.<br />
Il breve capitolo seguente, che è l’ultimo, è dominato<br />
dalla minuziosa e sconvolgente descrizione del cadavere<br />
di un ragazzo in stato di avanzata decomposizione, come<br />
venne trovato dai «carabinieri di Gonnesa, avvertiti da una<br />
squadra di mietitori».<br />
I carabinieri prontamente ne diedero «informazioni<br />
all’autorità giudiziaria di Iglesias. Dalla pretura di Iglesias<br />
un giovane magistrato fu mandato sul posto per gli accertamenti<br />
del caso. Il magistrato vi si recò, seguito dal<br />
cancelliere, da un medico e da un brigadiere di polizia.<br />
Il drappello era guidato dal maresciallo dei carabinieri di<br />
Gonnesa, che aveva effettuato le prime costatazioni …<br />
L’autorità giudiziaria accertò che il ragazzo era morto da<br />
quindici o venti giorni e che era presumibilmente da<br />
escludersi una causa delittuosa. Questo fu tutto. Nonostante<br />
le più diligenti indagini non si venne mai a sapere<br />
10. Cfr. p. 163.<br />
11. Cfr. p. 164.<br />
13
né chi fosse quel ragazzo, né per qual ragione propriamente<br />
egli fosse morto. Nessuno in quella regione lo conosceva,<br />
nessuno lo aveva mai visto; nessuno ne reclamò<br />
il cadavere, nessuno ne chiese notizie. Ancor oggi, negli<br />
archivi della giustizia, se si andasse a cercare il fascicolo<br />
di quella “pratica” si noterebbe che sul frontespizio campeggia<br />
la parola: “ignoto”». 12<br />
La precisione e l’asciuttezza di queste pagine prive di<br />
ambizioni letterarie, e dove gli stessi nomi delle località –<br />
Gonnesa e Iglesias – realmente esistenti nella toponomastica<br />
sarda e italiana e non, come Terreluxi e Iddarta, inventate<br />
dal romanziere, sono in forte contrasto stilistico<br />
con gli altri capitoli del libro.<br />
Queste pagine però nelle intenzioni dell’autore hanno<br />
probabilmente la “funzione” – e non so se il merito – di<br />
offrire una chiave di lettura del romanzo, suggerendo tra<br />
le righe l’informazione (non indispensabile) che l’inquirente,<br />
cui era toccata la sventura di dover condurre quell’indagine<br />
fallimentare e che dovette rassegnarsi ad archiviarla<br />
sotto il terribile titolo “ignoto”, era identico al narratore del<br />
romanzo.<br />
Se Paride Rombi nella sua veste di magistrato era stato<br />
costretto a chiudere in modo così sconfortante quella<br />
“pratica” che forse fu una delle prime nella sua carriera,<br />
da privato cittadino non aveva potuto cancellare dalla sua<br />
memoria e dai suoi sentimenti l’immagine di quel ragazzo<br />
che ufficialmente aveva dovuto affidare all’oblio totale<br />
senza neppure un nome, e che per sempre era stato sepolto<br />
sotto il peso immane di una sua misteriosa tragedia<br />
conclusasi nel silenzio e nella solitudine più assoluti.<br />
Il giovane intellettuale sulcitano aveva continuato a<br />
portare dentro di sé il ricordo di quel morto anonimo sino<br />
a che, alla fine, l’ignoto di cui nessuno aveva chiesto né<br />
dato notizie, che nessuno ricordava di aver mai visto, di<br />
12. Cfr. pp. 165-166.<br />
14<br />
Prefazione<br />
cui nessuno aveva reclamato il corpo ebbe un nome, una<br />
storia e un luogo di nascita attraverso i quali anch’esso<br />
aveva potuto trovare, almeno nella realtà della letteratura,<br />
quella collocazione nella comunità umana cui, buona o<br />
anche cattiva che essa sia, ogni nato di donna dovrebbe<br />
aver diritto. La sensibilità e la fantasia del magistrato-poeta<br />
erano state il terreno fertile dove quel seme caduto in un<br />
caldo pomeriggio di luglio nelle campagne di Gonnesa<br />
aveva germogliato e aveva continuato a crescere.<br />
E così era nato <strong>Perdu</strong>, un libro che a me sembra avere<br />
tutte le caratteristiche positive e negative di un’opera maturata<br />
nella zona segreta tra il conscio e l’inconscio dove<br />
ha preso forma e dalla quale infine è scaturita quasi di<br />
forza propria, quasi per un’esigenza naturale insita al racconto<br />
stesso che chiedeva di venire alla luce.<br />
Una genesi letteraria che, in questa mia formulazione,<br />
può forse sembrare romantica o magari innecessariamente<br />
misteriosa ma che – mi sia concesso dirlo – io stessa, insieme<br />
a molti altri scrittori, conosco per esperienza personale<br />
e alla quale io, come donna, ho più di una volta dato una<br />
connotazione quasi fisiologica assomigliando la stesura del<br />
libro a un parto facile e felice dopo una gravidanza non<br />
del tutto voluta e per una parte del suo decorso inavvertita.<br />
Queste “nascite” quasi miracolose non sono tanto infrequenti<br />
soprattutto per molte “opere prime”, e – oltre che<br />
il vantaggio per l’autore di una gestazione e un parto non<br />
troppo sofferti – possono avere degli esiti felici per l’opera<br />
stessa. Come <strong>Perdu</strong> e il meritato ed eccezionale successo<br />
di pubblico che ebbe in Italia e all’estero dimostrano. 13<br />
13. <strong>Perdu</strong> incontrò in Italia un tale immediato successo che due ristampe<br />
si resero indispensabili nel giro dello stesso anno. Ebbe anche risonanza<br />
oltre i confini nazionali e fu accompagnato da una serie di traduzioni in<br />
diverse lingue europee: tedesco, francese, inglese, spagnolo, bulgaro,<br />
svedese, danese ecc.<br />
15
Ma simili “parti miracolosi”, specialmente nel caso di<br />
“opere prime” (che non di rado finiscono per diventare<br />
“opere uniche”), non mancano di presentare anche qualche<br />
problema, o svantaggio, dovuto il più delle volte all’ingannevole<br />
facilità con cui il testo è stato composto e<br />
alla conseguente mancanza di quella severa autocritica<br />
che nella scrittura dovrebbe sempre seguire la fase creativa<br />
e che, quando e se manca, fa rischiare all’autore di<br />
mandare per il mondo un figlio un po’ claudicante. O più<br />
claudicante di quanto non avrebbe potuto essere dopo<br />
un’energica e rigida fisioterapia postnatale.<br />
Vantaggi e svantaggi, e cioè anche pregi e difetti.<br />
Dei pregi di <strong>Perdu</strong> così scriveva nel 1952 la Commissione<br />
presieduta da Marino Moretti e composta da Francesco<br />
Casnati, Mario Ciusa, Carmelo Cottone, Giuseppe Ravegnani<br />
nell’atto di conferire al suo autore il “Premio Grazia<br />
Deledda”: «Scrittore giovane, e del tutto inedito alla repubblica<br />
italiana delle lettere con un romanzo, che ha in sé le<br />
virtù necessarie per richiamare l’attenzione sincera della critica<br />
e il giusto successo da parte del pubblico. Romanziere<br />
per dono di natura, alieno da ogni moda letteraria, sicuro<br />
animatore di ambienti e di caratteri umani, Paride Rombi ci<br />
dà con <strong>Perdu</strong> un’opera piena di pathos e sincera, ricca di<br />
fatti e di personaggi, fortemente drammatica nella sua felice<br />
brevità, scritta con mano franca, in un linguaggio aderente<br />
e schivo da ogni bellezza estrinseca. Paride Rombi<br />
vuole soltanto raccontare; ed è questa la prima sostanziale<br />
virtù dell’autentico romanziere. Nella sua opera, tuttavia, il<br />
realismo che osserva e rappresenta con occhio lucidissimo<br />
il tragico dell’esistenza, o, come oggi si dice, della condizione<br />
umana, e le sue brutture e le sue crudeltà, non si<br />
esaurisce nei fatti narrati, non ne limita la portata nella fedeltà<br />
di una cronaca, nell’impassibile precisione di un rogito<br />
o di un verbale, ma ne cerca le cause o meglio le lascia<br />
intuire nella violazione delle grandi leggi morali della vita.<br />
Ed è per questo che la Commissione è certa di aver avuto<br />
16<br />
Prefazione<br />
la fortuna di scoprire nel Rombi, che per sorte è nato nella<br />
terra di <strong>Sardegna</strong>, un nuovo romanziere della nostra letteratura<br />
contemporanea». 14<br />
Molti anni son passati da quel lontano 1952, e i critici<br />
della giuria del “Grazia Deledda” videro sicuramente giusto<br />
premiando <strong>Perdu</strong> e lodando con tanto calore e convinzione<br />
le “virtù” del romanzo e dell’autore.<br />
Per quanto mi riguarda devo onestamente confessare<br />
– anche se la sede forse può sembrare inopportuna – che,<br />
dopo un’attenta rilettura del libro e col maggiore bagaglio<br />
d’esperienza umana e letteraria che il tempo ha depositato<br />
dentro di me, oggi son propensa a dar loro ragione<br />
più di quanto non riuscissi a dargliene allora, quando di<br />
questo romanzo più che alle “virtù” io avevo reagito a<br />
quelli che secondo me erano i “vizi”, o difetti e limiti.<br />
Difetti e limiti che ancora oggi mi disturbano ma ai<br />
quali allora, forse a causa della mia ancora acerba preparazione<br />
culturale, reagii con una severità che oggi mi sembra<br />
eccessiva e perciò ingiusta. Se val la pena di parlarne<br />
in questo contesto, è perché quella mia reazione, del tutto<br />
solitaria e privatissima, era probabilmente condivisa a<br />
mia insaputa da altri miei coetanei italiani, e sardi in modo<br />
particolare, che come me anche nelle loro letture cercavano<br />
delle nuove strade. E che in questo libro non le<br />
avevano trovate.<br />
Solo pochi anni prima eravamo usciti senza quasi nessuna<br />
esperienza di cultura moderna dal mondo soffocantemente<br />
ermetico e conservativo – in senso politico ma anche,<br />
in parte, letterario – del ventennio e della guerra. La<br />
cui fine, col conseguente socchiudersi delle nostre finestre<br />
verso mondi che sino ad allora ci erano stati inaccessibili,<br />
aveva corrisposto per la mia generazione all’età emotiva e<br />
ansiosamente fertile dell’adolescenza.<br />
14. Come da seconda di copertina, in P. Rombi, <strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori,<br />
1955.<br />
17
La pace era stata per noi un’esplosione d’informazioni<br />
ad ogni livello che, allargando il nostro orizzonte, non saziavano<br />
anzi aumentavano il nostro desiderio di conoscere<br />
di più. Ci dominava l’ansia d’affacciarci, al più presto<br />
possibile e quanto più estesamente possibile, oltre il chiuso<br />
del nostro vecchio orto che ci pareva piccolo e inadeguato<br />
al bisogno che sentivamo oscuro ma fortissimo<br />
d’entrare nella modernità. Cioè di diventare culturalmente<br />
contemporanei a noi stessi.<br />
Subito ci eravamo gettati a divorare, più o meno per<br />
caso e disordinatamente, tutti i libri che riuscivamo a trovare<br />
nelle librerie e nelle smilze biblioteche pubbliche e<br />
private della nostra provincia. Alla rinfusa ci arrivavano<br />
dal loro mondo anglossassone e col loro per noi ancora<br />
inaudito modo di raccontarlo Steinbeck, Hemingway, Dos<br />
Passos, Caldwell, Orwell, D. H. Lawrence…<br />
Poi scoprimmo Le mani sporche di Sartre e, ancora<br />
più importante, La peste di Camus… (Simone de Beauvoir<br />
arrivò, almeno per me, un po’ più tardi ma il suo spirito<br />
era nell’aria. Come nell’aria, più che nei testi teoretici di<br />
Sartre che non erano di tanto facile accesso, era già – forse<br />
mal digerito ma presente – l’esistenzialismo che con la<br />
poesia di Prévert ci giungeva attraverso le voci di Juliette<br />
Gréco e di Ives Montand).<br />
Intanto vedevamo con la stessa avidità e nello stesso<br />
disordine nuovi e vecchi film francesi, americani e russi e,<br />
nelle riviste gratuitamente distribuite dall’U.S.I.S., leggevamo<br />
articoli divulgativi sulle nuove frontiere della psicologia<br />
e della sociologia. Alla radio ascoltavamo, col trasporto<br />
con cui duemila anni fa i neofiti dovettero ascoltare la<br />
Parola del Signore, Zoo di vetro e Un treno chiamato desiderio<br />
di Tennessee Williams.<br />
Ma anche le voci italiane avevano cominciato a giungerci,<br />
sempre più persuasive, col Vittorini delle Conversazioni<br />
in Sicilia e di Garofano rosso, con Pratolini e la sua Firenze<br />
civilissima e proletaria, con Pavese di Lavorare stanca<br />
e dei suoi sconvolgenti racconti in La bella estate, Il diavolo<br />
18<br />
Prefazione<br />
sulle colline, Donne sole, Il compagno, La luna e i falò, nei<br />
cui personaggi, sentendoli nostri contemporanei, potevamo<br />
almeno in parte identificarci. Un processo psicologico-intellettuale<br />
che ci era necessario operare e incessantemente<br />
rinnovare per non continuare a sentirci troppo strani e soli<br />
in un mondo in cui non ci riconoscevamo e dal quale ci<br />
sentivamo imprigionati.<br />
In quegli stessi anni di quasi affannose e – per quanto<br />
mi riguardava – disordinate e solitarie letture, c’imbattemmo<br />
in Calvino con il suo giovanile Il sentiero dei nidi di<br />
ragno e nel paradigmatico Cristo si è fermato a Eboli di<br />
Carlo Levi che io accolsi come l’attesa e necessaria rivelazione<br />
di un nuovo stile e di un nuovo approccio a una<br />
realtà sociale e umana che sentivo somigliante alla mia.<br />
Intanto Il Mondo di Mario Pannunzio aveva cominciato<br />
le sue pubblicazioni e, a chi voleva ascoltare – e non<br />
erano pochi ma disgraziatamente neanche tanti e tanto organizzati<br />
da avere il peso necessario nel conflitto culturale<br />
e politico che divideva l’Italia – portava settimanalmente<br />
quell’ossigeno di cultura, di stile e di etica politica di cui<br />
l’Italia in quel momento (ma non solo allora!) aveva tanto<br />
bisogno. E dava «informazioni esatte e proposte ragionevoli<br />
su quei problemi immediati della vita italiana che i<br />
capi dei partiti ignorano, mentre risolvono altri problemi<br />
per via di licitazioni private». Come scriveva Gaetano Salvemini,<br />
auspicando per l’Italia una «terza via … nella quale<br />
si incanalerebbero le anime disperse, visto che – constatava<br />
– una “terza forza” disgraziatamente non esiste». 15<br />
E attraverso le colonne de Il Mondo cominciavano a<br />
diventarci familiari i nomi di Anna Maria Ortese, di Anna<br />
Garofalo, di Corrado Alvaro, di Fortunato Seminara, di<br />
Rocco Scotellaro, di Leonardo Sciascia, di Giovanni Russo,<br />
tanto per farne solo alcuni fra quelli che molto importarono,<br />
e nei quali riconoscevamo una parte di noi.<br />
15. G. Salvemini, in A. Garofalo, Cittadini sì e no, Firenze, 1956, pp. VIII-<br />
IX.<br />
19
Il neorealismo nella letteratura e nel cinema stava rinnovando<br />
in Italia il modo di vedere e di raccontare gli uomini<br />
e la vita e corrispondeva al nostro bisogno di un linguaggio<br />
sobrio e trasparente che proprio in forza della sua sobrietà<br />
e trasparenza potesse incidere su quella realtà sociale intollerabilmente<br />
ingiusta che sentivamo, fra l’altro, come principale<br />
causa ed effetto dei pesanti anacronismi che ancora<br />
caratterizzavano la nostra esistenza anche come sardi.<br />
Nelle nostre ansie e aspirazioni, solo il presente contava<br />
e, perché era insoddisfacente, bisognava modificarlo.<br />
E non era nel passato, neppure letterario, che dovevamo<br />
e volevamo trovare i modelli.<br />
Soprattutto per questi motivi, quelli che allora eravamo<br />
giovani non eravamo idonei – io non ero idonea – ad<br />
accogliere <strong>Perdu</strong> con la stessa simpatia con cui la giuria<br />
del “Grazia Deledda” lo accolse nel 1952 e con cui oggi,<br />
quasi cinquant’anni più tardi, sotto impulsi e con bisogni<br />
diversi l’ho appena riletto.<br />
La giuria che li aveva premiati parlava delle “virtù”<br />
del libro e del suo autore, io con l’assolutistica e impietosa<br />
severità dei giovani, e nella mia solitudine intellettuale<br />
che mi teneva felicemente libera da un dovere d’obiettività<br />
critica, mi permettevo di concentrarmi sui loro “peccati”,<br />
quasi “vizi”.<br />
<strong>Perdu</strong> mi sembrò un’eco del passato letterario sardo, un<br />
anacronismo, forse anche un’occasione mancata, nonostante<br />
il suo successo. Non per la storia che vi si raccontava, la<br />
cui solenne ineluttabilità da tragedia greca avrebbe potuto<br />
affascinarmi anche allora, ma per la sovrabbondanza di colore<br />
con cui l’autore l’aveva rappresentata, con ciò relegandola<br />
quasi automaticamente (così mi sembrò) in una riserva<br />
indiana di rusticana esoticità, tanto remota e statica da urtare<br />
la mia urgenza giovanile di prospettive e di sbocchi.<br />
L’abuso di metafore e di quasi automatiche e perciò<br />
stucchevoli e poco persuasive analogie tra il mondo umano<br />
e quello della natura non solo mi disturbava esteticamente<br />
20<br />
Prefazione<br />
(come ancora mi disturba) ma mi feriva nel mio bisogno di<br />
concretezza, di semplicità e di aderenza a una realtà umana<br />
contemporanea e modificabile di cui allora sentivo tanto<br />
l’urgenza. Allo stesso tempo, quasi paradossalmente, mi pareva<br />
che – anche in concomitanza con queste imperfezioni<br />
stilistiche – la stessa insistenza con la quale già nella prima<br />
pagina del libro l’autore s’affannava a definire l’unicità etnica<br />
(“razza sulcitana”, “tipi sulcitani”, “i bambini sulcitani”, “le<br />
ragazze sulcitane”, «abitudine diffusissima fra le ragazze sulcitane»,<br />
«un “maureddu” di stampo antico», ecc.) 16 della regione<br />
in cui si sarebbe svolta la storia di <strong>Perdu</strong>, contribuisse<br />
a estraniarla da un contesto storico reale e in possibile divenire<br />
nel quale potessi sentirmi coinvolta. Me la faceva sentire<br />
remotissima, ma non abbastanza remota e purificata dal<br />
contingente da diventare mitica.<br />
La gelosia e la vendetta, la violenza e gli abusi sui<br />
bambini e sulle donne, che sono purtroppo tragici fenomeni<br />
universali e che sono il filo rosso di questo romanzo,<br />
mi sembrava che così vi venissero ridotti alla dimensione<br />
di fenomeni esotici e folkloristici. La tragedia di <strong>Perdu</strong> che,<br />
senza dover rinunziare all’indignazione suscitata da una situazione<br />
precisa e particolare, avrebbe potuto essere la<br />
metafora di una condizione esistenziale umana generale,<br />
diventava invece la storia disperata di un piccolo gruppo<br />
etnico senza legami col mondo. E senza futuro. Il che allora,<br />
nella mia ansia di trasformazioni, mi disturbava come la<br />
cosa più negativa e più grave.<br />
Scrivendo probabilmente di getto sotto la piena dei<br />
sentimenti e delle immagini che il mistero dello sconosciuto<br />
trovato morto in un pomeriggio d’estate continuava a<br />
suscitare nel suo spirito, il giovane scrittore non aveva avuto<br />
l’esperienza e l’autocontrollo che l’avrebbero aiutato a<br />
evitare quegli abusi di colore e le generalizzazioni che forse<br />
erano del suo linguaggio di magistrato ma che io allora,<br />
16. Cfr. p. 33.<br />
21
nella mia giovanile intolleranza e inesperienza, avevo interpretato<br />
come la scelta deliberata di quel supposto “modello<br />
deleddiano” che in <strong>Sardegna</strong> alcuni consideravano<br />
ancora come l’unico valido per un racconto “d’ambiente<br />
sardo”. Ma che a me, come probabilmente a molti dei<br />
miei coetanei, pareva abominevole.<br />
Questo “modello deleddiano” (non Grazia Deledda e i<br />
suoi libri, che forse in quel periodo non molti leggevano)<br />
era per me il fantasma d’un ipotetico e statico “ambiente<br />
sardo” avulso dalla storia italiana, europea e mondiale e<br />
separato dal resto del mondo come un pianeta a sé stante.<br />
Il “modello deleddiano” pesava ancora in modo deteriore<br />
su alcuni scrittori o aspiranti scrittori sardi di quel periodo,<br />
relegandoli nel folklore e ostruendone la strada verso il<br />
mondo reale e contemporaneo. Io, nella mia solitaria insofferenza,<br />
lo omologavo a certe tendenze anche politiche<br />
che, mitizzandone il passato, cercavano di ostacolare l’ingresso<br />
della nostra Isola nel presente.<br />
C’era chi a quel modello si era rifiutato, e i nomi di<br />
Giuseppe Dessì, di Emilio Lussu e di Francesco Brundu<br />
(Francesco Fancello) sarebbero sufficienti, ma mi piace<br />
aggiungere ad essi quelli degli allora giovanissimi Franco<br />
Solinas e Giuseppe Zuri, alias Salvatore Mannuzzu. Il primo<br />
morì disgraziatamente troppo presto lasciandoci un<br />
solo romanzo, Squarciò, che merita di non venir dimenticato;<br />
il secondo ha da molto lasciato lo pseudonimo e<br />
continua ad arricchire la letteratura italiana e sarda con<br />
opere dove la sardità non è d’ostacolo alla modernità del<br />
sentire e del vivere.<br />
Nel mio bisogno di rompere la catena degli anacronismi<br />
in cui, anche nelle sue espressioni letterarie ed artistiche,<br />
relegandola nel folklore, mi pareva che si tendesse a<br />
continuare a tenere la mia regione, e nel gusto della semplicità<br />
e trasparenza che gli autori anglossassoni e i neorealisti<br />
e meridionalisti italiani mi stavano dando, avevo<br />
dunque rifiutato <strong>Perdu</strong> senza riuscire a gradirne neppure<br />
22<br />
Prefazione<br />
le distese e innamorate evocazioni di paesaggi e di atmosfere,<br />
i forti ritratti di alcuni personaggi anche secondari,<br />
nonché la sincera e impietosa denunzia dell’ignoranza e<br />
dell’arretratezza sociale che pure conteneva. Non ricordo<br />
neppure di averne apprezzato i teneri e allo stesso tempo<br />
acuti approfondimenti della psiche infantile che oggi mi<br />
sembrano mirabili.<br />
Oggi la prospettiva storica è cambiata e anche le mie<br />
motivazioni personali di lettrice sono diverse. Il “modello<br />
deleddiano” non è più un pericolo incombente, la <strong>Sardegna</strong><br />
bene o male è entrata nel mondo attuale e, a mezzo<br />
secolo dal suo concepimento, il romanzo di Paride Rombi<br />
ha, e oggi può permettersi di avere, una sua patina.<br />
In un certo qual modo è come se “l’età gli abbia donato”:<br />
gli avvenimenti e le persone che vi sono descritti ci<br />
sembrano appartenenti a un passato lontano e indefinito<br />
che ha avuto – se le ha avute – una sua realtà e una sua<br />
attualità nelle quali oggi però sarebbe assurdo cercare risposte<br />
al nostro presente e tanto meno indicazioni per il<br />
nostro futuro. A questa distanza di tempo vi si delinea con<br />
più chiarezza persino quella dimensione mitica che allora<br />
ci pareva messa in ombra dalle troppe precisazioni sul<br />
contingente. Un contingente che con gli anni si è trasformato<br />
esso stesso in mito.<br />
Per questo mi sembra giusto riproporre <strong>Perdu</strong> alla lettura<br />
di un pubblico nuovo di lettori e di critici con esigenze<br />
diverse da quelle che avevamo noi che eravamo giovani<br />
al momento della sua pubblicazione e che vi abbiamo inutilmente<br />
cercato ciò che allora ci occorreva, ma che questo<br />
libro fuori del suo e del nostro tempo non poteva darci.<br />
Almeno secondo quanto mi risulta da questo mio manchevole<br />
osservatorio copenaghese, dove molto di ciò che<br />
si scrive in Italia e in <strong>Sardegna</strong> può sfuggirmi, non sono<br />
molte le pagine che i critici e gli storici sardi (tutti probabilmente<br />
all’incirca miei coetanei) hanno dedicato a Paride<br />
Rombi nelle loro opere sulla letteratura sarda moderna.<br />
23
Ancora meno, quasi ovviamente, gliene hanno dedicato<br />
i critici e gli storici italiani che solo di rado hanno<br />
avuto voglia e tempo d’accorgersi di ciò che avveniva e<br />
avviene in quest’Isola italiana d’oltremare.<br />
In <strong>Sardegna</strong>, Giovanni Pirodda cita Paride Rombi e<br />
<strong>Perdu</strong> nella sua vasta bibliografia, ma nel volume non dedica<br />
loro una sola frase. 17<br />
In Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Nicola Tanda scrive di lui un<br />
po’ più a lungo di altri, ma con terribile severità: «Paride<br />
Rombi si muove sul medesimo terreno della Deledda, ripetendone<br />
in peggio i difetti: la sua narrazione ha una<br />
partenza naturalistica che, come definizione culturale è<br />
anteriore alla Deledda medesima e la vicenda nasce da un<br />
montaggio documentario che segue i luoghi comuni del<br />
romanzesco deteriore, sebbene non manchi, proprio per<br />
questo, di suggestione». 18<br />
Giovanni Mameli, in Scrittori sardi del Novecento, è<br />
più clemente e scrive: «Quello di Paride Rombi è stato un<br />
caso letterario clamoroso … È un peccato che Rombi abbia<br />
interrotto la sua carriera letteraria agli inizi, non andando<br />
al di là di due romanzi, il secondo dei quali non<br />
ha una storia “forte” come il primo». 19<br />
Invano ho cercato nella mia collezione di riviste e libri<br />
sardi degli ultimi quarant’anni – che però, occorre forse ripetere,<br />
è molto incompleta e piuttosto fortuita – altri articoli<br />
su quest’autore e questo libro che pure meritano di non venir<br />
dimenticati, ma che, dal silenzio che è calato su di loro,<br />
quasi sembrerebbe che siano passati nel cielo sardo e italiano<br />
come meteore presto scomparse senza lasciar traccia.<br />
Forse all’oblio ha contribuito anche la scarsa frequentazione<br />
e presenza di Paride Rombi, dopo il parto miracoloso<br />
17. G. Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi – <strong>Sardegna</strong>,<br />
Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 67.<br />
18. G. Dessì, N. Tanda, Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Milano, Mursia, 1965, p. 16.<br />
19. G. Mameli, Scrittori sardi del Novecento, Cagliari, 1989, pp. 165-166.<br />
24<br />
Prefazione<br />
di <strong>Perdu</strong>, a quella che la giuria del Deledda chiamava “la<br />
repubblica italiana delle lettere”.<br />
Con l’eccezione di alcune novelle e del romanzo Il raccolto,<br />
pubblicato con scarso successo nel 1969, Paride Rombi<br />
tornò alle stampe solo con la già menzionata traduzione<br />
dell’Antigone che seguì la sua traduzione in campidanesesulcitano<br />
del monologo di Amleto, del Discorso della montagna,<br />
del brano finale dell’Apocalisse, del dialogo di Giulietta<br />
e Romeo, che aveva pubblicato nel n. 16-17 della<br />
rivista La grotta della vipera.<br />
In questo impegnativo lavoro di traduzione dei «brani<br />
più sublimi della letteratura universale» lui, non linguista,<br />
si era gettato per dimostrare che Giovanni Lilliu aveva<br />
torto quando affermava che «solo o prevalentemente il logudorese<br />
potesse, come variante della lingua sarda, esprimersi<br />
compiutamente come lingua letteraria di più alto ed<br />
elaborato livello». Paride Rombi era convinto che «qualunque<br />
dei vari “sardi” parlantisi nell’Isola fosse in grado e<br />
dunque in dignità di svolgere ogni tema per eccelso che<br />
fosse in iscienza e in letteratura». 20<br />
Ma l’impegno solitario e testardo di Paride Rombi per<br />
dimostrare la nobiltà e la duttilità della lingua sarda nelle<br />
sue diverse varianti non fu notato da molti. Le sue traduzioni<br />
non ebbero la meritata risonanza neppure in <strong>Sardegna</strong>,<br />
e oggi sono ingiustamente dimenticate. Paride Rombi<br />
era un cane sciolto che non entrò mai per davvero in<br />
quella tale “repubblica italiana delle lettere”. Forse era, anche<br />
nella sua vita privata, troppo silenzioso e raccolto per<br />
il mondo chiassoso e presenzialista in cui, da circa mezzo<br />
secolo, siamo costretti a vivere.<br />
Maria Giacobbe<br />
20. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 5.<br />
25
NOTA BIOGRAFICA<br />
Paride Rombi nacque nel 1921 a Calasetta, nell’isola di<br />
Sant’Antioco. Nel piccolo centro trascorse l’infanzia e compì<br />
i suoi primi studi rimanendovi fino al 1931, anno in cui<br />
si trasferì con la famiglia a Cagliari. Sottufficiale prima e<br />
poi ufficiale in aeronautica durante la seconda guerra mondiale,<br />
nel dopoguerra si laureò in giurisprudenza nell’Ateneo<br />
del capoluogo sardo, si sposò e, nel 1947, entrò nei<br />
ruoli della magistratura, ove percorse la carriera fino a diventare<br />
Giudice della Corte Costituzionale.<br />
Nel 1952 gli venne assegnato il “Premio Grazia Deledda”<br />
(allora per opere di narrativa inedite) per il romanzo<br />
<strong>Perdu</strong>, che lo stesso Rombi confessava essere la sua vera<br />
“opera prima” non avendo egli in «precedenza … per davvero<br />
mai scritto neanche una novella, tolte semmai le consuete<br />
e insignificanti sperimentazioni ginnasiali». 1 L’opera<br />
fu pubblicata nel gennaio del 1953 da Mondadori, nella<br />
prestigiosa collana “La Medusa degli Italiani”; a cinque<br />
mesi dalla prima seguì una seconda edizione e ancora una<br />
terza nel marzo del ’55.<br />
Nel 1965 pubblicò – prima in tedesco e poi in italiano<br />
(nel 1969, presso le edizioni Leader di Milano alle quali,<br />
in quello stesso anno, si deve anche la quarta edizione di<br />
<strong>Perdu</strong>) – un secondo romanzo, intitolato Il raccolto, che<br />
non ebbe però la stessa fortuna del primo.<br />
Dopo il successo di <strong>Perdu</strong>, al quale da subito si riconobbe<br />
una felice compiutezza ed ebbe quindi un grande<br />
1. Cfr. l’“Autobiografia” scritta dal Rombi per il programma radiofonico<br />
Antologia. Scrittori sardi contemporanei, della “Rai-Trasmissioni Regionali<br />
della <strong>Sardegna</strong>”, andato in onda il 5 dicembre 1981, a cura di Adriano<br />
Vargiu, al quale va il nostro ringraziamento per la segnalazione e l’uso<br />
della fonte.<br />
26<br />
consenso di critica e di pubblico (testimoniato anche da<br />
un considerevole numero di traduzioni straniere), non si<br />
dedicò alla letteratura con l’assiduità degli esordi e, anzi,<br />
interruppe di fatto l’attività di narratore.<br />
Dal ’62 al ’78 fu addetto, in qualità di “scrittore fantasma”<br />
– come egli stesso amava definirsi – all’Ufficio della<br />
Presidenza della Repubblica.<br />
Nella sua attività artistica intercalò ai lunghi “silenzi”<br />
una discontinua produzione di varie opere minori: racconti,<br />
recensioni, noterelle di costume firmate con pseudonimo,<br />
sceneggiature di film. Ebbe modo di misurarsi anche<br />
nel campo della poesia con una raccolta di versi intitolata<br />
I salmi delle tenebre, rimasta però inedita.<br />
Negli anni Ottanta si dedicò ad alcune traduzioni in<br />
campidanese-sulcitano: il monologo di Amleto, il Discorso<br />
della montagna, il brano finale dell’Apocalisse, il dialogo<br />
di Giulietta e Romeo, pubblicate nella rivista La grotta della<br />
vipera, e l’Antigone di Sofocle, edita dalla Lao Silesu di<br />
Iglesias nel 1983.<br />
Morì a Napoli, dove si era trasferito dieci anni prima, il<br />
18 agosto 1997.<br />
27
NOTA BIBLIOGRAFICA<br />
SCRITTI DI PARIDE ROMBI<br />
<strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori, 1953, 1955; Milano, Leader,<br />
1969.<br />
Der knabe und die furien, Amburgo, Claassen Verlag,<br />
1954.<br />
Født i skyld, Copenaghen, Schønberg, 1954.<br />
<strong>Perdu</strong>, New York, Harper, 1954.<br />
<strong>Perdu</strong> and his father, Londra, Rupert Hart-Davis, 1954.<br />
<strong>Perdu</strong>, enfant sarde, Parigi, Mercure de France, 1954.<br />
<strong>Perdu</strong>, Stoccolma, Albert Bonnier Förlag, 1955.<br />
<strong>Perdu</strong>, Buenos Aires, Ed. Guillermo Kraft [1955-56].<br />
Un drama na Sardenha, Lisbona, Livros do Brasil [1955-56].<br />
“Introduzione”, in Paesaggi in Alto Adda e Mera, Lecco,<br />
Stefanoni, 1956.<br />
Piotr, Varsavia, Panstwowy Instytut Wydawniczy, 1956.<br />
“Presentazione”, in G. Mascioni, Teglio di Valtellina, Sondrio,<br />
G. Bonazzi, 1960.<br />
Proces om vader, Parigi, Desclée de Brouwer, 1962.<br />
Il raccolto, Milano, Leader, 1969.<br />
“Esercizi di traduzione in sardo”, in La grotta della vipera,<br />
Cagliari, a. V, n. 16-17, primavera-estate 1980, pp. 54-62.<br />
“Autobiografia”, in Antologia. Scrittori sardi contemporanei,<br />
programma radiofonico a cura di A. Vargiu, RAI <strong>Sardegna</strong>,<br />
1981.<br />
Antigone di Sofocle, traduzione in sardo (campidanesesulcitano),<br />
Iglesias, Lao Silesu, 1983.<br />
28<br />
SCRITTI SU PARIDE ROMBI<br />
F. Alziator, Storia della letteratura di <strong>Sardegna</strong>, Cagliari,<br />
Edizioni della Zattera, 1954, p. 502.<br />
N. Valle, “Prosatori nostri”, in Il Convegno, Cagliari, 1957.<br />
G. Dessì, N. Tanda, Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Milano, Mursia,<br />
1965, pp. 16, 279-284.<br />
A. Vargiu, Un’isola tra passato e futuro, Messina-Firenze,<br />
G. D’Anna, 1976, pp. 377-397.<br />
G. Contini, “La letteratura in Italia del Novecento”, in La<br />
<strong>Sardegna</strong>, a cura di M. Brigaglia, vol. I, Cagliari, Edizioni<br />
della Torre, 1982, p. 53.<br />
A. Congiu, “Motivazione”, in Antigone di Sofocle, traduzione<br />
in sardo (campidanese-sulcitano) di P. Rombi, Iglesias,<br />
Lao Silesu, 1983.<br />
M. Brigaglia, Tutti i libri della <strong>Sardegna</strong>, Cagliari, Edizioni<br />
della Torre, 1989.<br />
G. Mameli, Scrittori sardi del Novecento, Cagliari, Edisar,<br />
1989, pp. 165-166.<br />
P. De Gioannis, G. Serri, La <strong>Sardegna</strong>, cultura e società:<br />
antologia storico letteraria, Scandicci (Firenze), La Nuova<br />
Italia, 1991, pp. 28, 490.<br />
G. Marci, Narrativa sarda del Novecento. Immagine e sentimento<br />
dell’identità, Cagliari, Cuec, 1991, pp. 205-212.<br />
G. Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi<br />
– <strong>Sardegna</strong>, Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 67.<br />
29
PERDU<br />
Ecce: in iniquitate conceptus sum,<br />
et in peccato concepit me mater mea.<br />
(Ps. 51 v. 6)
CAPITOLO I<br />
La storia di <strong>Perdu</strong> incomincia dal giorno in cui Angiuledda<br />
Vargiu, sua madre, andò sposa ad Efisio Manzella.<br />
<strong>Perdu</strong>, in quel giorno di metà maggio, aveva esattamente<br />
sette anni e mezzo.<br />
La vita del bambino, prima di quel giorno, era stata<br />
priva di storia, simile, vale a dire, a quella di tanti altri<br />
bambini del Sulcis che, come polloni di lentischio spuntati<br />
all’insaputa di tutti nel bosco, conducono la loro ignorata<br />
esistenza in quel mondo ignorato.<br />
Angiuledda Vargiu, figlia di “tziu” Manueli Vargiu contadino<br />
delle terre del conte Salazar, aveva appena quindici<br />
anni ed era ancora nubile quando le nacque il bambino,<br />
cui ella, per devozione a San Pietro Apostolo, pose il<br />
nome di <strong>Perdu</strong>, che in sardo significa appunto Pietro.<br />
Il bambino, fino all’età che si è detta, crebbe nella casa<br />
del nonno, gracile al pari di una canna d’avena selvatica<br />
venuta su fra le rocce. La sua esistenza trascorse in un<br />
quasi totale abbandono. La mamma stava sempre lontano,<br />
a Iddarta o in altri paesi, a servire come domestica presso<br />
qualche famiglia, secondo un’abitudine diffusissima fra le<br />
ragazze sulcitane. Si diceva anzi che fosse in una di queste<br />
lunghe migrazioni fuori di Terreluxi che la ragazza<br />
avesse rimediato quella maternità; naturalmente lo si diceva<br />
d’arbitrio, senza nessuna sicurezza. Quanto al nonno,<br />
bisogna osservare che tziu Manueli Vargiu non era nato<br />
per allietare il suo prossimo e tanto meno per educare alla<br />
gioia un bambino. Tziu Manueli Vargiu era infatti un<br />
“maureddu” di stampo antico, refrattario a commuoversi<br />
per qualunque ragione, chiuso in se stesso come un guscio<br />
di castagna ancora acerba, e riluttante non solo a comunicare<br />
ma anche a lasciar trapelare i propri sentimenti,<br />
seppure ne aveva. Era di quei tipi che, pure sotto l’aspetto<br />
33
PERDU<br />
meramente fisico, si vanno facendo sempre più rari anche<br />
nell’interno del Sulcis. Vestiva il costume di orbace nero,<br />
austero, che pochi sulcitani portano ormai oggidì, composto<br />
di “berritta” lunga ricadente sull’omero, giubbotto corto<br />
con maniche attillate, camicia bianca, brache larghissime<br />
come sacchi di frumento, e uose, anch’esse di orbace,<br />
avvolgenti strettamente la gamba da sotto il ginocchio,<br />
dove giunge la falda dei calzoni, fin sulla scarpa pesante<br />
e chiodata.<br />
Si potrebbe pensare che, in compagnia di un uomo<br />
come Manueli Vargiu, <strong>Perdu</strong> crescesse apatico, arido, se<br />
non scontroso e intrattabile. Ma non fu così. Per una strana<br />
compensazione di caratteri, e forse perché il bambino<br />
aveva ereditato dalla madre una certa passionalità silenziosa,<br />
<strong>Perdu</strong> crebbe con un desiderio sempre più marcato<br />
di affezionarsi, di rivelarsi, di comunicare con gli altri.<br />
Aveva, questo sì, un’aria malinconica e rassegnata e stava<br />
per lo più taciturno, assorto in chissà quali pensieri; ma il<br />
suo animo non era mai nudo e deserto come, nell’apparenza,<br />
quello di suo nonno; era anzi aperto e aspettante,<br />
alla pari di un fiore nella segreta attesa della fecondazione.<br />
La sua rassegnazione era un adattamento alla rinunzia,<br />
non un consentimento ad essa; la sua taciturnità era un<br />
modo di raccogliersi spiritualmente, non il rifiuto di aver<br />
contatto con gli altri.<br />
Questa ricchezza interiore dell’animo del bambino traboccava<br />
attraverso gli occhi, che erano belli e mansueti, simili<br />
agli occhi di sua madre. Per il resto, nel fisico, il bambino<br />
era, come si è già accennato, qualcosa di delicato e di<br />
fragile. Era straordinariamente piccolo anche per un bambino<br />
di razza sulcitana. I suoi coetanei, quei pochi che avvicinava,<br />
lo chiamavano per canzonarlo “Seme d’oliva”<br />
tanto la sua corporatura appariva minuscola. Aveva folti<br />
capelli, le sopracciglia diritte, la bocca larga e il naso<br />
schiacciato e tondo come quei riccioli di pasta che in <strong>Sardegna</strong><br />
si chiamano “maloreddus”. Era, ad ogni modo, un<br />
34<br />
Capitolo I<br />
bambino grazioso, e lo sarebbe stato di più se, per la sua<br />
povertà, non fosse stato costretto ad andare vestito di miserabili<br />
panni.<br />
Non c’è nulla da dire di questa prima fase della vita<br />
di <strong>Perdu</strong> se non che egli cresceva pian piano e si meravigliava<br />
del mondo circostante.<br />
Il Sulcis, pur nel suo terribile squallore, racchiude non<br />
poche bellezze. È una terra vergine, selvatica, potente nelle<br />
manifestazioni spesso tragiche delle forze della Natura,<br />
ma al tempo stesso tranquilla, favorevole alla nostalgia e<br />
alla poesia. Il Sulcis, forse più che altre zone della <strong>Sardegna</strong>,<br />
offre spettacoli stranamente misti di pianto e di riso,<br />
di violenza selvaggia e di soavità, di cupa severità e di incantevole<br />
grazia. Quel ribollimento di alture, di gobbe, di<br />
tumuli di terra e di roccia, insomma di monti, ora nudi e<br />
austeri ora morbidi di vegetazione, e non disposti a catena<br />
come tutti gli altri monti, ma affastellati a spintoni, sbalordiscono<br />
per la varietà di prospettive, per i silenzi e le solitudini<br />
paurose che vi si spalancano, per la pace stagnante<br />
che vi regna. Il Sulcis è tutto così. Di balza in balza, dalle<br />
ultime frange della pianura campidanese, subito dopo Siliqua,<br />
fino al golfo di Teulada e alle isole dell’arcipelago<br />
sulcitano, il sole bacia e indora, infuoca e arroventa, carezza<br />
e castiga la terra, che il mare a sua volta blandisce e<br />
culla, quando però non la schiaffeggia di onde con una<br />
collera che ha del titanico. Qui vive una stirpe dimenticata<br />
e povera, di abitudini semplici e ignara di come sia grande<br />
il mondo, e complicato e assurdo, e diverso dalla loro<br />
terra. Gli uomini sono pochi in rapporto alla vastità dello<br />
spazio, e questo fa sì che per lunghissimi tratti la campagna<br />
sia talmente vuota, solitaria e desolata.<br />
Anche nel carattere degli abitanti si rispecchiano questi<br />
elementi di contrasto fra letizia e amarezza. Le ragazze, se<br />
cantano, cantano nenie simili a lamentazioni, anche se parlano<br />
d’amore. Gli uomini sono tranquilli e sereni, mansueti,<br />
ma, come quando il vento si desta rabbioso e acquista<br />
35
PERDU<br />
repentinamente una violenza inaudita, sì da riuscire a spezzare<br />
perfino i sugheri, quegli stessi uomini si trasformano<br />
completamente allorché la passione li travolga.<br />
Una sola cosa domina comunque su tutto, la miseria. È<br />
una miseria così totale, così spalancata al sole, così accettata<br />
rassegnatamente dalle popolazioni, che sembra il risultato<br />
di una volontaria rinunzia, un’opera meravigliosa di poesia.<br />
La terra è povera. I contadini che le affidano il grano,<br />
nel tempo delle seminagioni, non sognano le messi rigogliose<br />
dell’estate; essi hanno quasi il gesto di chi si spoglia<br />
e si disfà consapevolmente di un bene prezioso. Vi sono<br />
anche fiori, certo; e sono fiori che nessuno coltiva; che esaltano<br />
la povertà, che l’adornano, per renderla più suggestiva,<br />
come sono suggestivi i letti dei ruscelli disseccati, sui<br />
bordi dei quali corrono, inverosimilmente fiorite, siepi di<br />
oleandri meravigliose; come sono suggestive le selve anelanti<br />
per sete, quando si impomellano dei fiorellini del mirto<br />
nei cui calici trapelano già, come occhi, le bacche viola;<br />
come sono suggestive e sorprendenti le tumultuose assemblee<br />
dei fichidindia spinosi, sulle cui pale irte di aculei stranamente<br />
fioriscono fiori scarlatti sui frutti già panciuti.<br />
A queste bellezze e a queste miserie si aprivano lentamente<br />
gli occhi di <strong>Perdu</strong> negli anni della sua prima infanzia.<br />
Terreluxi è un villaggio assai piccolo situato sotto le<br />
pendici del monte Tamara, e quindi nel pieno cuore di<br />
questo Sulcis. È, come tutti i villaggi sulcitani, un luogo dove<br />
raramente accade qualcosa. Le novità di cui la gente per<br />
lo più si pasce, sono le eterne antichissime novità di tutti<br />
gli anni, la crescita del bestiame, la luna nuova che uccide<br />
le germinazioni, la morte degli uni e la nascita degli altri, la<br />
festa di Nostra Signora del Santo Rimedio. Una sola parte<br />
del Sulcis, la zona delle miniere, è passata da qualche tempo<br />
sotto il vento delle trasformazioni e del progresso. Ma il<br />
Basso Sulcis, il Sulcis agricolo di cui qui si parla, è rimasto<br />
come cent’anni fa, come mill’anni fa, immobile nella sua<br />
pace, nelle sue tradizioni e concezioni di vita.<br />
36<br />
Capitolo I<br />
Non fa meraviglia dunque se anche a <strong>Perdu</strong> non accadde<br />
nulla nei primi anni di vita. La sua esistenza era, in<br />
definitiva, serena. La stessa miseria nella quale viveva<br />
non poteva realmente affliggerlo perché, essendovi nato<br />
e non avendo la possibilità di conoscere come si possa vivere<br />
meglio, gli mancava quell’elemento di comparazione<br />
che forma il sostrato dell’ansietà, dell’invidia e dei desideri<br />
inappagati di cui noi tutti soffriamo. Egli se ne stava tranquillo<br />
nella casa del nonno, in attesa dei brevi ritorni di<br />
sua madre. Questi costituivano le sue autentiche gioie, poiché<br />
poteva stare con lei, giocare assieme a lei e prendere<br />
sonno nel suo grembo. Brevi erano, piuttosto, codeste apparizioni.<br />
Angiuledda subito ripartiva, e la vita di <strong>Perdu</strong> ripiombava<br />
nell’isolamento. Il bambino non osava turbare i<br />
silenzi del nonno.<br />
Così gli anni passarono. Ora il nonno sedeva all’aperto<br />
sotto il mandorlo del cortile e fumava, tutto raccolto sul<br />
suo sgabello di sughero, e ciò significava che era estate o<br />
primavera o autunno. Ora il nonno, sullo stesso sgabello,<br />
si accoccolava dinanzi al focolare e fumava, e ciò significava<br />
che era inverno. Calmi, lunghi giorni che si sfogliavano<br />
l’un dietro l’altro, come foglie da un albero.<br />
Ma ecco che <strong>Perdu</strong> ebbe sette anni e mezzo e allora<br />
accadde nella sua vita qualcosa di veramente nuovo ed<br />
insolito: sua madre si sposò.<br />
37
CAPITOLO II<br />
Rintoccava, come irata, la campana della chiesa. Chiamava<br />
gli sposi alla cerimonia e pareva rimproverare gli indugi.<br />
«Est hora, est hora» si disse da ogni parte. E ci si avviò.<br />
C’era una grande confusione di gente, quella mattina,<br />
e per tutto il tempo che durarono i preparativi <strong>Perdu</strong> non<br />
riuscì a vedere né Angiuledda né il nonno.<br />
Rivide l’uno e l’altra in chiesa. Tziu Manueli Vargiu<br />
era vestito del suo costume “maureddu” più nuovo, con<br />
tutte le monetine lucenti sulla doppia bottoniera, la camicia<br />
bianca inamidata e la zazzera pettinata. Benché i suoi<br />
capelli, già quasi candidi, fossero tagliati in una foggia<br />
che dovunque altrove, e ormai anche in <strong>Sardegna</strong>, sarebbe<br />
giudicata muliebre, l’intero suo aspetto era forte e fiero,<br />
atteggiato a quella solennità e serietà che caratterizzano,<br />
o caratterizzavano, i vecchi sardi.<br />
Quanto a Angiuledda Vargiu, essa apparve a <strong>Perdu</strong>, in<br />
quel mattino, nel mezzo della chiesa affollata, come la Madonna<br />
Santissima. Una gonna di velluto color vino le fasciava<br />
la vita, e le copriva le gambe con dense pieghe. E il<br />
corpetto di broccato dorato, aderente, le snelliva il busto<br />
e le sollevava il petto come un canestro ricolmo. Un fazzoletto<br />
di pizzo sovrapposto alla cuffia rossa e ricoperto a<br />
sua volta dalla mantiglia bianca a bande azzurre, simbolo<br />
di agiatezza, scendeva dalla fronte verso la nuca, raccogliendole<br />
il viso come in una nicchia, come in uno scrigno.<br />
Ed era veramente un gioiello da scrigno, il viso, in<br />
tutta quella gloria.<br />
Il viso, che le sulcitane riguardano gelosamente sì che<br />
anche le contadine conservano spessissimo la pelle candida<br />
e delicata come quella delle vere signore, appariva,<br />
nell’ombra trasparente delle trine del “mucadori”, come la<br />
bellezza e la grazia stupendamente fuse insieme.<br />
38<br />
Si spiegava, vedendola, perché lo zoppo Efisio Manzella<br />
si fosse così furiosamente innamorato di lei. Si spiegava<br />
perché, quantunque in paese la considerassero tutti<br />
non molto maritabile, egli si fosse viceversa fitto in capo<br />
con ostinazione di farla sua moglie, mettendosi contro tutta<br />
la sua famiglia e rischiando e sfidando i fulmini del padre,<br />
tziu Baingiu Manzella.<br />
Ed ecco Efisio Manzella, in piedi accanto alla sposa inginocchiata.<br />
Efisio Manzella non vestiva il costume sulcitano.<br />
Egli apparteneva già alla nuova generazione che rifugge<br />
da questo ossequio al passato, e perciò indossava un vestito<br />
da “signore”, come si dice laggiù, cioè uno dei nostri soliti<br />
vestiti borghesi. Era alto e magro, né giovane né vecchio,<br />
tutto compunto nell’espressione che voleva essere di<br />
dignità, ma sotto le apparenze pago e ben soddisfatto di sé.<br />
<strong>Perdu</strong> osservava tutte queste cose con attenzione e curiosità,<br />
e con un po’ di sbalordimento. Egli stesso di buon<br />
mattino era stato infagottato in un abito nuovo, un paio di<br />
brachette marrone, una giacca piuttosto larga, una camicia<br />
abbottonata fin sotto il mento e un cappello a visiera che<br />
ora rigirava distrattamente fra le mani; ma, novità delle<br />
novità, gli avevano messo ai piedi calze e scarpe nuove. E<br />
questo gli cagionava stupore, poiché egli, estate e inverno<br />
che fosse, non se n’era mai viste finora ai piedi.<br />
La cerimonia ebbe inizio con la comunione degli sposi.<br />
Officiava Don Nicolino Cuccu, il “vicario” di Terreluxi,<br />
un prete adusto e robusto di razza contadina che sembrava<br />
sprizzato da una siepe di fichidindia. Aveva un fare zotico<br />
e quasi manesco che non si confaceva troppo alla sua<br />
qualità di uomo di chiesa, quale noi siamo abituati a concepirla,<br />
ma che doveva essere efficace per le anime affidate<br />
alle sue cure, perché riusciva a fare entrare nei cervelli,<br />
con le imprecazioni e si starebbe per dire con le bestemmie,<br />
la parola di Dio, che invece, con gli ordinari mezzi<br />
della persuasione e della dolcezza, sarebbe rimasta inascoltata.<br />
E forse Dio, nel Sulcis, ha più bisogno di questi<br />
rudi mandriani che dei suoi veri e propri ministri.<br />
39
PERDU<br />
Don Nicolino fece il suo ingresso nel presbiterio in<br />
cotta e stola, seguito da un chierichetto pieno di capelli<br />
arruffati e cinto di una sottana corta e sfilacciata alla estremità;<br />
il chierichetto era anche scalzo. Prete e inserviente si<br />
genuflessero assai svogliatamente dinanzi all’altare, quindi<br />
Don Nicolino si volse e disse agli astanti, in sardo:<br />
– Potevate venire un po’ prima, che il diavolo vi porti!<br />
Sono io che devo aspettare voi o siete voi che dovete<br />
aspettare me? Cominciamo male, “piccioccus”.<br />
Ciò detto ascese l’altare, e mentre il chierichetto si<br />
portava dal lato dell’Epistola per recitare il Confiteor, trasse<br />
un mazzo di chiavi da sotto la tonaca e con una di<br />
quelle aperse la porta del tabernacolo. Nel mazzo di chiavi,<br />
<strong>Perdu</strong> notò che era appesa anche la “leppa” del vicario,<br />
cioè quel lungo coltello a serramanico che usano per<br />
lavoro e per difesa i contadini del Sulcis.<br />
Don Nicolino si genuflesse dinanzi alla porta spalancata<br />
del piccolo ciborio e, toltane una pisside color argento<br />
coperta da una mantellina di raso sudicia, scoperchiò il recipiente,<br />
tornò a inginocchiarsi, e finalmente si volse verso<br />
i fedeli tenendo una tonda particola tra l’indice e il pollice<br />
e disse, in latino:<br />
– Domine, non sum dignus… –. Lo disse per tre volte<br />
a voce alta, guardando bene in faccia i presenti quasi volesse<br />
convincerli che quelle parole, chiaramente intelligibili<br />
per chi parli la lingua sarda, si riferivano non a lui che<br />
le diceva ma a ciascuno di loro.<br />
Anche Efisio Manzella, fulminato dalle occhiate del vicario,<br />
si era inginocchiato accanto alla sposa.<br />
Gli altri parenti facevano semicerchio attorno. Tziu Manueli<br />
Vargiu, rigido e impassibile come un vecchio tronco<br />
di quercia, stava in piedi impalato accanto alla figlia. Accanto<br />
allo sposo, invece, era la sorella di lui, Leonora<br />
Manzella, candida come un giglio, la quale non cessava<br />
di piangere silenziosamente; piangeva in un modo così<br />
sereno che le lacrime parevano un distillato spontaneo e<br />
40<br />
Capitolo II<br />
ordinario dei suoi bellissimi occhi. Soltanto <strong>Perdu</strong>, data la<br />
sua età e la sua speciale parentela con la sposa, era stato<br />
lasciato fuori del gruppo, accanto alla transenna di legno<br />
che, interrompendo la navata, chiudeva il presbiterio.<br />
Don Nicolino scese dall’altare e si portò dinanzi agli<br />
sposi. Il chierichetto consegnò nelle mani di Efisio la patena<br />
d’ottone.<br />
Don Nicolino, ripescata dalla pisside una particola,<br />
gesticolò alquanto con quella sul capo dello sposo, quindi<br />
disse:<br />
– Corpus Domini Nostri Jesu Christi perducat te ad vitam<br />
aeternam, amen – e, prima di posare l’ostia sulla lingua<br />
del comunicando, colto da un subito dubbio, aggiunse,<br />
in sardo: – Avrai mica mangiato o bevuto alle volte,<br />
animale?<br />
Efisio Manzella, rapito nella religiosità del momento,<br />
teneva gli occhi chiusi, la bocca aperta e la lingua così<br />
smoderatamente in fuori che sembrava uno strangolato. A<br />
quella diretta domanda, spalancò gli occhi, e senza reinghiottire<br />
la lingua, scrollò energicamente la testa in segno<br />
di diniego. Don Nicolino, tranquillizzato, gli concedette<br />
l’Eucaristia.<br />
Quindi passò ad Angiuledda.<br />
– Corpus Domini Nostri Jesu Christi perducat te ad vitam<br />
aeternam, amen – ripeté il sacerdote, introducendo<br />
fra le labbra della donna l’ostia bianchissima con le sue<br />
mani rozze.<br />
Angiuledda ricevette la comunione con grazia, spalancando<br />
sul celebrante i suoi occhi mansueti di cervo.<br />
Nell’istante in cui la madre riceveva la comunione,<br />
anche <strong>Perdu</strong>, attratto singolarmente dallo spettacolo, fece<br />
d’istinto il gesto di chi inghiottisce qualcosa.<br />
Dopo aver riposto la pisside nel tabernacolo e avere<br />
richiuso la porta di questo, Don Nicolino si avvicinò ancora<br />
al genuflessorio degli sposi. Il chierichetto aveva recato<br />
un grande libro rosso con segnalibri di fettuccia violetta.<br />
41
PERDU<br />
Don Nicolino lo sfogliò lentamente, inumidendosi il dito<br />
sulla lingua e, postoselo dinanzi al viso, rivolse la domanda<br />
rituale allo sposo:<br />
– Efisio Manzella – disse in italiano, con enfasi, come<br />
se, anziché un seguace di Cristo che si accostava umilmente<br />
al sacramento del matrimonio, apostrofasse un reprobo<br />
o un imputato di un grave delitto – vuoi tu prendere<br />
la qui presente Vargiu Angela in tua legittima consorte<br />
secondo il rito della Santa Madre Chiesa?<br />
– Sissi! – disse a bassa voce Efisio Manzella usando<br />
l’affermazione della lingua sarda.<br />
– Sì, e non sissi – tuonò Don Nicolino; – ti costa tanto<br />
rispondere come si deve?<br />
La domanda solenne fu quindi rivolta alla sposa:<br />
– Angela Vargiu, vuoi tu prendere il qui presente Manzella<br />
Efisio in tuo legittimo marito, secondo il rito della<br />
Santa Madre Chiesa?<br />
– Sì – disse la sposa; e gli occhi le sfavillarono.<br />
– Ego coniungo vos – disse il prete, e pareva proprio<br />
che questa volta parlasse in sardo, – in nomine Patris et<br />
Filii et Spiritus Sancti amen.<br />
– Amen – gridò il chierichetto, mettendo fuori una<br />
voce squillante e al tempo stesso porgendo al celebrante<br />
il secchiello con l’aspersorio.<br />
Don Nicolino brandì l’aspersorio e benedisse gli sposi,<br />
i fedeli presenti e gli anelli che il chierichetto aveva recati<br />
sul piatto di vetro che ora si divertiva a scuotere per farne<br />
tintinnare gli anelli.<br />
– Bah, finiscila! – gli disse in sardo burberamente Don<br />
Nicolino tracciando con l’aspersorio le ultime benedizioni;<br />
e quasi con la stessa intonazione perentoria di voce, come<br />
se anche a Dio desse un ordine, aggiunse: – Benedic, Domine,<br />
anulum hunc quem nos in tuo nomine benedicimus.<br />
Gocce d’acqua santa, cadendo sul cristallo, vi si appiattivano<br />
e rilucevano come lacrime che fossero state per divozione<br />
raccolte.<br />
42<br />
Capitolo II<br />
Gli sposi si scambiarono gli anelli. Angiuledda Vargiu<br />
prima di infilare la fede nell’anulare di Efisio baciò il cerchietto<br />
d’oro e quindi baciò anche la mano del neomarito.<br />
Don Nicolino Cuccu, tornato all’altare e continuando a<br />
leggere sul grande libro rosso dai segnalibri violetti, recitò<br />
la preghiera latina che dice: «Volgi lo sguardo, o Signore,<br />
sopra questi tuoi servi … e quelli che si uniscono per il tuo<br />
volere siano salvi per il tuo aiuto …». Il chierichetto dalla<br />
testa arruffata, le piante dei piedi nudi nere di sudiciume<br />
esposte alla vista dei fedeli e le natiche poggiate sulla sommità<br />
dei talloni, assecondava l’officiante, dicendo ogni tanto<br />
«amen» o «Deo gratias» con quanto fiato aveva in gola.<br />
Anche <strong>Perdu</strong> si era voltato verso l’altare. Ma non seguiva<br />
le preghiere latine che del resto non comprendeva.<br />
La sua mente era assorta e non riusciva a pensare. Guardava<br />
l’altare eppure non vedeva né i candelabri con le<br />
candele accese, né i mazzi di margherite e violacciocche<br />
che erano stati disposti per ornamento e nemmeno le facce<br />
estatiche e un po’ intontite delle due statue di legno<br />
che procombevano sul presbiterio, tra sciarpe di ragnatela:<br />
Sant’Eusebio e San Simmaco, patroni di Terreluxi. Vedeva<br />
soltanto la luce che penetrando dalla finestra dell’abside<br />
sembrava, attraverso gli occhi, riempirgli tutta l’anima<br />
di una sorta di stordimento. Cinguettii di passeri entravano<br />
con la luce, nelle pause di silenzio, entro il vuoto della<br />
chiesa; erano i passeri che abitavano il mandorlo nell’orto<br />
del vicario dietro la chiesa, e che, creature spensierate come<br />
sono, celebravano al pari di ogni giorno i loro amori,<br />
assai meno solenni di quelli degli uomini e in fondo non<br />
tanto più fugaci. Ecco, pensava a tratti <strong>Perdu</strong>, la mamma si<br />
sposava, ma che importa? Come garrivano, i passeri, e com’era<br />
luminosa la giornata di maggio! Quell’azzurro là, oltre<br />
i vetri della finestra, che gli uccelli lampeggiando attraversavano,<br />
era di una lucentezza struggente. La mamma si<br />
sposava! Già, si sposava! Se ci si potesse arrampicare come<br />
i calabroni su questa scala di luce, sbieca, che sfiora<br />
43
PERDU<br />
verso sinistra i piedi di Sant’Eusebio, che mette in agitazione<br />
tutta questa polvere bionda, e degrada giù giù fino a<br />
stampare un tondo occhio, quasi caldo, là dove pende la<br />
fune della campanella, sulla parete sporca che tutta si accende<br />
e sorride! La mamma si sposa! Non è Efisio Manzella,<br />
non è lui, certo, suo padre. Perché vogliono farglielo<br />
credere? Non importa, non importa. L’azzurro è denso e<br />
carico, quasi corporeo. Ma se fosse vero che Efisio Manzella<br />
è suo padre?<br />
Così, mentre il prete pregava, passavano lampi di idee<br />
nella mente del bambino. D’un tratto Don Nicolino cessò<br />
le sue nenie e levatosi in piedi e voltatosi ai fedeli disse in<br />
sardo a mo’ di congedo e d’augurio:<br />
– Fattu est! Ora siete marito e moglie. Potete andare.<br />
Deus vos assistat.<br />
La cerimonia era finita. Anche <strong>Perdu</strong> si volse. Gli sposi<br />
erano già in piedi. Angiuledda era tutta sorridente e mentre<br />
il vicario usciva per la porta di sagrestia, tziu Manueli<br />
Vargiu le si avvicinò e le segnò col pollice della mano destra<br />
un piccolo segno di croce sulla fronte. Pure Leonora<br />
Manzella si sollevò sulle punte dei piedi e tracciò lo stesso<br />
segno sulla fronte dello sposo.<br />
Fu in quel momento che il sole, guadagnato finalmente<br />
il centro della chiesa, precipitò vividamente nella navata<br />
e le fiamme delle candele ancora accese impallidirono,<br />
come se la luce dell’astro, tanto più potente della loro, le<br />
avesse di colpo agghiacciate.<br />
44<br />
CAPITOLO III<br />
<strong>Perdu</strong> si era sentito nei primi mesi completamente felice.<br />
I suoi rapporti con Efisio Manzella si erano presto<br />
stabiliti sul metro del sentimento che entrambi, sebbene<br />
variamente, li legava ad Angiuledda. Efisio era tanto innamorato<br />
di lei, che, come non aveva indietreggiato dinanzi<br />
all’esistenza di quel bambino prima del matrimonio, così<br />
ora lo tollerava con benignità e anzi in seguito perfino<br />
con trasporto. A sua volta <strong>Perdu</strong>, il cui cuore mansueto<br />
non chiedeva altro che effondersi in affetto come un fiore<br />
si effonde in profumo, aveva finito per voler bene ad Efisio<br />
come ad un vero padre.<br />
E qui conviene dire in qual modo precisamente si fosse<br />
formato tale sentimento di <strong>Perdu</strong> nei confronti di Efisio<br />
Manzella, e quali idee avesse il bambino intorno alla propria<br />
nascita.<br />
<strong>Perdu</strong> non ignorava che, rispetto agli altri bambini, la<br />
sua posizione era diversa; mentre cioè tutti avevano un<br />
padre del quale fare il nome ogni volta che occorresse<br />
spiegare chi fossero, egli non poteva mai nominare altro<br />
che sua madre; il padre era come non esistesse. Se qualcuno<br />
per curiosità o per malignità gliene chiedeva notizia,<br />
egli si stringeva nelle spalle e senza volerlo arrossiva. Non<br />
è detto però ch’egli pensasse di non avere alcun padre.<br />
Dopo una certa età, come tutti i bambini sulcitani che acquistano<br />
con straordinario anticipo nozione di queste cose,<br />
seppe che un padre l’aveva lui pure, soltanto non si<br />
conosceva. Perché poi non fosse dato conoscerlo, egli per<br />
un bel pezzo non riuscì chiaramente a spiegarselo. Né gli<br />
riusciva di comprendere come mai, sia la mamma che il<br />
nonno non gli parlassero di quell’uomo.<br />
Un giorno si era deciso a chiedere a tziu Manueli.<br />
– Jaju – gli disse – nonno, chi è mio padre?<br />
45
PERDU<br />
Tziu Manueli, con la sua abituale apatia, aveva tolto la<br />
pipa di bocca e liberando dalle labbra una nuvoletta di fumo<br />
azzurro aveva sputato lontano dicendogli poi asciuttamente:<br />
– Dio lo saprà!<br />
Non c’era da sperare di ricavar qualcos’altro dal nonno.<br />
Ma <strong>Perdu</strong>, ansioso, si era provato a interrogare la madre:<br />
– Mamai – le aveva detto – dov’è mio padre?<br />
Angiuledda aveva tagliato corto:<br />
– È all’altro mondo – aveva detto – è morto – ed era<br />
diventata improvvisamente seria e pensosa, come se quel<br />
discorso la affliggesse oltremodo e perfino la spaventasse.<br />
– Ma chi era? Come si chiamava? Dove è seppellito? –<br />
aveva domandato il bambino.<br />
Impetuosamente e del tutto inaspettatamente Angiuledda<br />
si era accucciata accanto al bambino che, in piedi,<br />
la fissava con attenzione.<br />
– Ascolta, <strong>Perdu</strong> – aveva detto – queste cose non me<br />
le devi mai chiedere, per ora. Sei piccolo, ora; pensa soltanto<br />
a crescere. Quando sarai grande te lo dirò, se il Cielo<br />
vorrà – ed era scoppiata a piangere, stringendosi la testa<br />
del bambino contro la spalla.<br />
Per la prima volta nella sua vita, <strong>Perdu</strong> aveva avvertito<br />
quel giorno un sentimento che mai aveva provato per una<br />
persona adulta, tanto meno per sua madre: la compassione.<br />
Qualche cosa di tenero, di comprensivo e di indulgente<br />
si era rimescolato stranamente nel fondo del suo cuore,<br />
risalendo poi su, occupando tutto il suo essere e facendogli<br />
balenare per la prima volta l’idea che anche i grandi,<br />
talora, hanno bisogno di essere perdonati.<br />
Il problema della paternità rimaneva tuttavia insoluto.<br />
In Terreluxi cominciavano a correre voci che il padre di <strong>Perdu</strong><br />
fosse un certo Vissenti Tankis, che era stato a suo tempo<br />
il “padrone” di Angiuledda, quando costei si era recata da<br />
lui a servire. Erano voci forse prive di fondamento ma che<br />
acquistavano sempre più credito nel paese. <strong>Perdu</strong>, che raccoglieva<br />
taluna di queste voci, non riusciva a capacitarsi.<br />
46<br />
Capitolo III<br />
Non aveva mai visto Vissenti Tankis benché ne avesse sentito<br />
parlare, e tuttavia, chissà perché, si “rifiutava” di essergli<br />
figlio. Comunque, l’ignoto padre, pensava il bambino, come<br />
mai non sentiva il dovere di farsi avanti?<br />
Per <strong>Perdu</strong>, la consapevolezza che, essendo Angiuledda<br />
tuttora nubile, ella non avrebbe dovuto – o potuto? –<br />
mettere al mondo un bambino, cominciò a insinuargli nell’animo<br />
il primo remoto sentore della colpa di sua madre.<br />
Vagamente intuì che la propria nascita si riconnetteva a<br />
qualcosa di non onesto, di illecito. Il ricordo delle lacrime<br />
dalla madre versate in quel giorno, gliene offriva indiretta<br />
conferma. E poiché specialmente sugli assenti e sugli sconosciuti<br />
con maggior facilità noi siamo soliti riversare i nostri<br />
risentimenti, così <strong>Perdu</strong> attribuì quasi tutta la colpa del<br />
peccato, che si trovava all’origine della sua vita, a colui<br />
che rifiutava di manifestarsi padre.<br />
Questa fu, fino all’annunzio delle nozze di Angiuledda,<br />
la opinione del bambino circa la propria venuta al mondo.<br />
Ma quando gli fu detto che fra breve la mamma avrebbe<br />
sposato Efisio Manzella, e quando la mamma stessa gli raccontò<br />
che proprio Efisio e non altri era l’ignoto padre (dimenticando<br />
Angiuledda la scena di pianto che viceversa<br />
<strong>Perdu</strong> ricordava benissimo), nell’animo del bambino si scatenò<br />
un nuovo dramma. Efisio Manzella suo padre? <strong>Perdu</strong><br />
trasecolava. Era impossibile questo. Intanto Efisio non gli<br />
rassomigliava per niente, <strong>Perdu</strong> lo conosceva bene: aveva<br />
una faccia lunga come un cavallo, i denti un po’ sporgenti<br />
come un rastrello da fieno, e gli occhi così duri e piccoli<br />
che sembravano le bocche delle canne di una doppietta.<br />
Controllando allo specchio le proprie sembianze, <strong>Perdu</strong><br />
doveva concludere che somiglianza non c’era. Ma altre ragioni<br />
lo conducevano a escludere ogni rapporto di filiazione<br />
tra se stesso ed Efisio Manzella.<br />
Non da un giorno soltanto <strong>Perdu</strong> conosceva i Manzella.<br />
Essi abitavano sulla strada scoscesa che va verso il torrente<br />
in una casa assai vasta preceduta da un’ampia corte dove si<br />
vedevano sempre cavalli e buoi. E quando <strong>Perdu</strong> si recava<br />
47
PERDU<br />
nel caseificio lì vicino, per avere dai servi dei Manzella<br />
una fetta di ricotta calda o di siero di latte, sovente gli era<br />
capitato di vedere Efisio smontare da cavallo davanti al<br />
portale della corte e non degnare di uno sguardo il bambino.<br />
Sovente anche lo aveva incontrato da solo a solo nei<br />
viottoli di campagna, dove non è possibile fingere di non<br />
vedersi, e mentre <strong>Perdu</strong> rispettosamente diceva «bonas tardas,<br />
tziu Efisi», quegli orgogliosamente e scortesemente<br />
neppure rispondeva. E una volta gli era perfino accaduto<br />
di andare a spigolare nei campi dei Manzella, e lui, proprio<br />
lui, Efisio Manzella, che veniva a “scherzare di grasso”<br />
con le donne, gli aveva detto: «Piccioccu, dovevi mandarci<br />
tua madre, qui, e tu andartene da tuo padre, se ne hai».<br />
Come era possibile dopo tutto questo che oggi, d’un<br />
tratto, Efisio Manzella si rivelasse suo padre?<br />
L’idea che i grandi volessero fargli credere una grossa<br />
bugia affliggeva sommamente il bambino. Il suo senso logico,<br />
la memoria ch’egli serbava degli episodi accennati,<br />
una certa antipatia involontaria nutrita nei confronti del<br />
Manzella, gli consigliavano di rifiutarsi a credere vera una<br />
simile assurdità.<br />
Tuttavia a poco a poco, prima ancora che il matrimonio<br />
si celebrasse, la sua posizione di incredulità gradualmente<br />
scemava per cessare del tutto in seguito; e arrivò<br />
addirittura il momento in cui <strong>Perdu</strong> fu certo che Efisio<br />
Manzella fosse suo padre. Perché? Perché non c’è cosa<br />
che sia più facile che accettare per vero quello che noi<br />
stessi vorremmo che vero fosse. <strong>Perdu</strong> aveva spesso desiderato<br />
di avere come gli altri bambini un padre; di avere<br />
le carezze le cure i rimproveri e magari gli scapaccioni di<br />
un padre; questo egli bramava. Ed è quindi logico che offertaglisi<br />
l’occasione di avere in Efisio Manzella un uomo<br />
che, sia pure in flagrante contraddizione col suo passato,<br />
gli si professava padre, non si ostinasse a respingerlo,<br />
tanto più che la madre, per quanto anch’essa in contraddizione<br />
con se stessa, avallava la cosa.<br />
48<br />
Capitolo III<br />
Così avvenne che una volta tanto <strong>Perdu</strong> si sentisse di<br />
appartenere ad una vera famiglia. Tutto questo ebbe anzi<br />
una consacrazione ufficiale perché <strong>Perdu</strong>, avendo ottenuto<br />
di andare a scuola, ebbe la sorpresa di sentirsi chiamare,<br />
almeno dalla maestra, Pietro Manzella e non già Pietro<br />
Vargiu. Efisio Manzella, infatti, aveva deciso di legittimarlo.<br />
Ma tutto ebbe una durata assai breve. Di gennaio, dopo<br />
otto mesi, accadde ancora qualcosa.<br />
Il “padre” era partito. Si era recato lontano, in un paese<br />
del Campidano, per l’acquisto di certi porcellini pregiati<br />
da allevamento. Il suo ritorno era previsto fra sette giorni.<br />
La sera del secondo giorno dalla sua assenza piovve<br />
per molte ore. <strong>Perdu</strong>, tornato da scuola nel primo pomeriggio,<br />
si era rintanato in casa ed era rimasto per tutto il<br />
tempo accucciato dinanzi al camino, dove bruciavano i<br />
grossi ceppi di radice d’ulivo che Efisio Manzella aveva<br />
approntati dietro la casa durante l’estate. Era una giornata<br />
di freddo iroso; pareva che tutto il gelo del mondo affluisse,<br />
chissà da dove, nella breve conca di Terreluxi, superando<br />
la barricata del tozzo monte Tamara. E, come la<br />
casa stava leggermente spostata dal resto del paese verso<br />
lo stradale di Iddarta, il vento che si levò dopo cessata la<br />
pioggia, l’abbracciava e fischiava contro gli spigoli e metteva<br />
in tumulto le chiome dei mandorli, di cui qualcuno<br />
(<strong>Perdu</strong> l’aveva notato con accoramento il giorno prima)<br />
s’era già arrischiato ad adornarsi di fiori.<br />
Angiuledda Vargiu sedeva anch’essa accanto al camino,<br />
senza far altro che guardare la fiamma. Ogni tanto <strong>Perdu</strong>,<br />
che le sedeva vicino, e che sentiva la schiena attraversata<br />
da brividi di freddo pur avendo la faccia e le gambe affocate,<br />
piegava la testa nel caldo grembo di lei.<br />
Per lunghi intervalli tacevano. E in quelle lunghe pause<br />
di silenzio, in cui, tra il crepitare delicato del fuoco,<br />
l’impeto della tempesta si faceva più udire, <strong>Perdu</strong> si sorprendeva<br />
a pensare dove mai andasse a finire il vento, e<br />
donde provenisse, chi mai lo suscitasse contro le case e le<br />
49
PERDU<br />
siepi e i timidi mandorli che già desideravano la primavera.<br />
Lo chiese a sua madre.<br />
– Mamai – disse – chi fa il vento, e dove va quando<br />
passa dalla nostra terra?<br />
Angiuledda carezzò la testa del bambino che teneva<br />
adagiata sul grembo e rispose:<br />
– Che discorsi fai, <strong>Perdu</strong>! Il vento? Lo manda Dio. Tutto<br />
quello che succede nel mondo proviene da Dio. Dio, il<br />
mondo, se l’è fabbricato e lo governa come vuole.<br />
– Ma poi dove va?<br />
– Il vento? Chi lo sa! Sopra il mare e su un altro paese:<br />
il mondo è grande!<br />
Il discorso cadde, come appunto cade, talora, il vento.<br />
<strong>Perdu</strong> fantasticava come potesse essere grande il mondo.<br />
– Vorrei andare – disse improvvisamente – dove finisce<br />
il mondo, girare tutti i paesi. Vorrei vedere se quello<br />
che dice la maestra di città così belle che neppure le sogniamo<br />
e di monti più alti dei nostri, è tutto vero.<br />
Angiuledda non interloquì subito come se il discorso<br />
del bambino non le interessasse. Dopo un poco, però, osservò<br />
come parlando anche lei a se stessa:<br />
– In fondo è tutto uguale. Il mondo, da qualunque<br />
parte si vada, rassomiglia sempre. Non ci sono tante differenze<br />
come si crede.<br />
– La maestra – disse <strong>Perdu</strong> – dice che la gente qui è<br />
ignorante e cattiva, che non fa altro che ammazzare e rubare<br />
e vendicarsi. Invece, in Continente…<br />
– La maestra è continentale – interruppe Angiuledda –<br />
e i continentali sono tutti così. Ci disprezzano, dicono che<br />
siamo soltanto banditi e assassini. Il fatto è che loro hanno<br />
paura di vedere i coltelli.<br />
– I coltelli?<br />
– I coltelli che servono per ammazzare e per tenere gli<br />
altri in rispetto. In fondo noi, se usiamo il coltello, lo facciamo<br />
sempre per una ragione d’onore. E non è vero che<br />
rubiamo.<br />
50<br />
Capitolo III<br />
Altra pausa. <strong>Perdu</strong> rifletteva che a buon conto non si<br />
deve né rubare né ammazzare. Considerò bene il perché<br />
di questi divieti: ma non lo trovò; comunque disse:<br />
– Anche ammazzare però non sta bene.<br />
– Hai ragione, <strong>Perdu</strong> – disse la mamma sorridendo<br />
nella penombra della stanza, la quale, ormai, dalla finestrella<br />
provvista di grata che dava sull’occidente riceveva<br />
una luce fioca e come malinconica, mentre il vento continuava<br />
a fischiare e gemere in tutte le connessure. – Hai<br />
ragione. Non si deve nemmeno ammazzare perché… –.<br />
Esitò alquanto. Forse non trovava una ragione neppure<br />
lei. Poi aggiunse, tanto per concludere: – Perché altrimenti<br />
vengono i carabinieri del re e portano in prigione.<br />
Pausa. A <strong>Perdu</strong> pareva di udire, fra il vento, lo scalpito<br />
dei cavalli dei carabinieri del re che arrivano per arrestare<br />
un omicida. Le donne gridano e si disperano, ma quelli<br />
niente, impassibili traggono l’omicida in prigione. Per questo<br />
sono stati inventati. Domandò:<br />
– Dove li prendono i carabinieri?<br />
Angiuledda rise.<br />
– Dalla gente, li prendono. Chiunque voglia fare il carabiniere<br />
gli mettono la divisa, ed eccolo carabiniere.<br />
Impossibile, pensava <strong>Perdu</strong>. Una distinzione nettissima<br />
tra bene e male, tra legge e delinquenza, tra uomini<br />
perfetti e spietati e uomini che ammazzano per vendetta<br />
o per altro e poi si agitano e fuggono, non poteva essere<br />
l’effetto di una divisa. Ma non gli riuscì di approfondire la<br />
questione. Nel vento gli pareva di udire ancora gli zoccoli<br />
dei cavalli dei carabinieri del re.<br />
– Nonno – domandò nuovamente alla mamma – è<br />
stato anche lui portato in prigione dai carabinieri del re?<br />
– Sì – disse la mamma, di mala voglia.<br />
– Perché? – domandò <strong>Perdu</strong>.<br />
– Aveva ucciso un ragazzo, da giovane. Ma ormai è<br />
passato tanto tempo.<br />
– Per vendetta l’aveva ucciso?<br />
51
PERDU<br />
– Non proprio per vendetta. Per gelosia. È una specie<br />
di vendetta.<br />
<strong>Perdu</strong> non insistette nel domandare. Aveva capito che<br />
quel discorso infastidiva Angiuledda.<br />
– Ma perché – disse poco dopo – non lo facciamo venire<br />
a vivere con noi? In questa casa, è tanto che ci abitiamo<br />
e lui non ci è mai venuto.<br />
– Babai non vuole – disse Angiuledda che si era alzata<br />
e si era poi rimessa a sedere sulla sua bassa seggiola,<br />
guardando cupamente il fuoco.<br />
– E perché? – chiese <strong>Perdu</strong>, osservando con attenzione<br />
sul riverbero della fiamma il profilo della donna che<br />
pareva arrossato e come lavato di sangue.<br />
– Perché, perché… Tu, <strong>Perdu</strong>, non sai che domandare<br />
il perché d’ogni cosa. Smettila una buona volta.<br />
Così disse Angiuledda. Poi un’ombra passò sul suo<br />
volto che parve ammorbidirsi e schiudersi alla dolcezza.<br />
– Ascolta, <strong>Perdu</strong> – disse. – Nonno non viene qui, perché<br />
babai non lo vuole vedere e neanche io lo voglio vedere.<br />
Capisci?<br />
<strong>Perdu</strong> corrugò la fronte e stette un poco immobile a<br />
guardare la madre. Poi scosse il capo in segno di diniego:<br />
– No che non capisco.<br />
– Va bene, non ha importanza – disse Angiuledda tornando<br />
a dominarsi. – Io volevo dire che siccome il nonno<br />
non vedeva di buon occhio che mi sposassi con babai,<br />
babai gli serba rancore e non lo vuole più vedere.<br />
– Ma Vustè, lo vuole vedere? Se lo vuole vedere, domani<br />
glielo dico e lui può venire, adesso che babai non è<br />
a casa.<br />
– Non farai questo, guai! – disse Angiuledda seccamente.<br />
– Perché? – domandò incorreggibilmente il bambino.<br />
– Ho detto che fai troppi perché. Sei petulante.<br />
– Mi dica allora perché il nonno non vedeva di buon<br />
occhio che Vustè si sposasse con babai.<br />
52<br />
Capitolo III<br />
– Domandaglielo a lui quando lo vedi. Ma adesso,<br />
<strong>Perdu</strong>, lasciami in pace con questi discorsi. Ora preparo<br />
la cena.<br />
Succedette un lunghissimo silenzio. <strong>Perdu</strong> pensava al<br />
nonno. Lo vedeva solitario nella sua casa deserta. Anche là<br />
d’inverno si udiva il vento fischiare e far vibrare le canne<br />
del tetto, alcune delle quali, ancora vestite di qualche filo<br />
dal tempo in cui furono colte, emettevano suoni prolungati<br />
ed acuti come lingue di merli. Chissà se il nonno era ancor<br />
sveglio o se già si era messo a dormire. Chissà come doveva<br />
essere enorme la sua solitudine in quella vecchia casa.<br />
Ma perché babai non lo voleva vedere? E perché neppure<br />
la mamma voleva vederlo?<br />
D’un tratto, di nuovo, toc toc nel ruggito del vento ecco<br />
gli zoccoli dei cavalli dei carabinieri del re, scalpitanti<br />
sullo stradale di Iddarta: toc toc, ma erano sul serio scalpiti<br />
di cavalli?<br />
Spinta dentro dal vento come una foglia d’albero, entrò<br />
senza bussare Tottona Corrias, la figlia del macellaio<br />
che abitava nella casa più vicina ai Manzella.<br />
– Bonas tardas, tzia Angiuledda. Avete due uova per<br />
il mio fratellino malato, ché le nostre galline hanno avuto<br />
la peste e quelle che si salvano sono in ritardo nel fare le<br />
uova? Eh, come soffia questo maledetto vento!<br />
<strong>Perdu</strong> sorrise all’apparizione della bambina. Non erano<br />
dunque gli zoccoli dei cavalli dei carabinieri del re<br />
quei battiti che si erano uditi sulla strada di Iddarta. Erano<br />
gli zoccoli di legno che la bambina calzava, enormi, quasi<br />
fabbricati per ancorarla alla terra, per tema che, piccola<br />
com’era, volasse via nella procella di vento.<br />
La bimba andò via con le uova, ringraziando ripetutamente<br />
e profondendosi in cerimonie, non senza augurare<br />
a tzia Angiuledda felice notte.<br />
– E anche a te, <strong>Perdu</strong> – aggiunse – buona notte.<br />
– Va con Dio – le augurarono madre e figlio, quasi in<br />
coro, secondo l’addio in uso nel Sulcis.<br />
53
PERDU<br />
– Rimanetevene con Sua Madre – concluse la bambina,<br />
con voce armoniosa, rispondendo al saluto nella più<br />
stretta osservanza della tradizione.<br />
La notte ormai fatta se la risucchiò, e si riudirono per<br />
qualche istante i suoi zoccoli battere lo stradale di Iddarta.<br />
Angiuledda versò la minestra nelle scodelle di coccio.<br />
Trasse il tavolino accanto al fuoco e completò l’apparecchiatura<br />
della mensa con una brocca per l’acqua, pure di<br />
coccio. Mangiarono. <strong>Perdu</strong> disse:<br />
– Domani la maestra ci deve portare l’album degli<br />
animali feroci.<br />
– Domani – disse Angiuledda – non andrai a scuola.<br />
Debbo recarmi a lavare i panni al torrente se fa bel tempo<br />
e ho bisogno di te.<br />
– Domani?<br />
– Se Dio vuole.<br />
– E gli animali feroci? Mamai, volevo vederle le figure<br />
con gli animali feroci. La maestra dice che sono molto<br />
belle. Al torrente potremo andare dopodomani.<br />
– Dopodomani ci sarà da preparare la farina, poi il pane,<br />
poi arriva babai. Non si può rinviare se la giornata<br />
non sarà come oggi.<br />
<strong>Perdu</strong> scolandosi il piatto direttamente in bocca e succhiando<br />
le ultime gocce della densa minestra, si augurò<br />
che la giornata di domani fosse per essere peggiore di<br />
quella di oggi. Poi disse:<br />
– Va bene, mamai, come Vustè comanda.<br />
54<br />
CAPITOLO IV<br />
Terminata la cena, <strong>Perdu</strong> se ne andò a letto. Cascava<br />
dal sonno. Rapidamente si spogliò e si infilò seminudo nel<br />
suo giaciglio, in un angolo di quella stessa stanza che, oltre<br />
a far da cucina, aveva molti altri usi. La casa nuova che<br />
Efisio Manzella si era costruita per venirvi ad abitare con<br />
la nuova famiglia, constava di due soli ambienti, quello di<br />
uso promiscuo dove si soggiornava abitualmente e dove<br />
dormiva il bambino, e l’altra che serviva da camera matrimoniale.<br />
Questa ristrettezza, soltanto in parte era dipesa<br />
dalla premura con cui la casa era stata messa su, per accelerare<br />
le nozze; in parte dipendeva dal fatto che Efisio<br />
Manzella avendo rotto i rapporti coi suoi famigliari a causa<br />
di quelle nozze e avendogli suo padre negato ogni sostanza,<br />
si era trovato in grandi difficoltà finanziarie.<br />
Quando <strong>Perdu</strong> fu coricato, Angiuledda che aveva già<br />
rigovernato le poche stoviglie e spento il fuoco, rimboccò<br />
le coperte al bambino, gli aggiustò sui piedi la pelle di<br />
capra che il marito usava per la campagna e – cosa insolita<br />
– gli arruffò carezzevolmente i capelli e lo baciò sulla<br />
tempia dicendogli nell’orecchio a bassa voce:<br />
– Domani ti lascerò andare a vedere le bestie feroci.<br />
A lavare i panni, andrò sola.<br />
– Oh, mamai, bellixedda! – disse <strong>Perdu</strong> e, schizzato<br />
fuori dalle coperte, buttò le braccia al collo della madre,<br />
teneramente.<br />
Non passò molto che <strong>Perdu</strong> era già addormentato. E,<br />
fossero i legumi dentro il suo stomaco, o il malessere fisico<br />
che gli serpeggiava fra le ossa fin dal mattino, o l’eco<br />
dei discorsi fatti con la madre, fece molti sogni scombinati<br />
e strani.<br />
Gli parve dapprincipio che il mondo fosse tutto popolato<br />
di bestie feroci, di orsi, di tigri, di cinghiali grufolanti<br />
55
PERDU<br />
e di altre singolarissime bestie che si rincorrevano e si affannavano.<br />
Esse sulle prime erano piccine e numerose come<br />
topi, poi, diradandosi ed avvicinandosi a lui, si ingrandivano<br />
fino a diventare mostruose, orrende, spaventevoli,<br />
la bocca aperta e bramosa come per divorarlo. Ma ecco,<br />
toc, toc, lo scalpito dei cavalli dei carabinieri del re, e le<br />
belve arretravano ringhiando e fiammeggiando dagli occhi.<br />
Però i cavalli si impennavano, rifiutavano di marciare<br />
contro quel plotone di fiere, nitrivano e buttavano schiuma<br />
dal freno; e i soldati che li cavalcavano, apparivano,<br />
sulle loro schiene brune e vaste, come uomini piccolissimi,<br />
impotenti, nella loro frenetica e ridicola agitazione, a costringere<br />
i destrieri ad avanzare. Ora tutto si dissolveva e<br />
svanivano, chissà dove, belve ed assalitori. Si vedeva Manueli<br />
Vargiu, il nonno, camminare tranquillo nella stessa<br />
radura ov’erano apparsi leoni tigri e cinghiali. Era tutto truce<br />
in volto, ma non diverso dal solito. Senonché improvvisamente<br />
si metteva a correre, a correre, e ad ansimare. La<br />
“berritta” di orbace, lunga come una calza, si agitava nel<br />
vento a guisa di pennacchio nero e lugubre, finché cadde<br />
per terra sull’erba, e la zazzera del nonno, quasi candida,<br />
parve una rasa criniera. Strane urla uscivano dal petto del<br />
vecchio, le sue mani diventavano adunche e lunghe e le<br />
sue gambe, che sembravano scricchiolare nelle giunture<br />
tanto avevano perduto elasticità e agilità, guizzavano tuttavia<br />
nella selva come gambe di cervo. Orrore, il nonno non<br />
era più il nonno, diventava una cosa da far paura, una<br />
specie di belva sconosciuta e agghiacciante. Ma, toc, toc,<br />
eccoli di nuovo i cavalli dei carabinieri del re; oh no, no,<br />
lo volevano ammazzare? Ma i cavalli svaniscono come nubi<br />
d’estate. <strong>Perdu</strong> è adesso, solo, nel mezzo di una radura<br />
davanti al pauroso essere in cui si è convertito il nonno.<br />
No, non è solo: una mano preme sulla sua spalla, ma è<br />
una mano che non appartiene a nessuno; strano, è una<br />
mano che sembra di persona amica. È forse la mano di<br />
Efisio Manzella? Essa ha la pelle arsa e secca, con le vene<br />
56<br />
Capitolo IV<br />
in rilievo, e nel dito sfavilla l’anello d’oro. Ma come va che<br />
a questa mano non è attaccato nessuno? E dove può essere<br />
Efisio Manzella? Più nessuno c’è. Non c’è nulla. È svanita<br />
anche la visione spaventevole di quell’essere sconosciuto.<br />
Non sono rimasti che gli alberi tutt’attorno e piante di<br />
euforbia e asfodeli. Ma ecco che gridano nel folto della<br />
selva. Gridano. Chi grida? Sembrano le urla di un cinghiale<br />
azzannato dai cani; di un cinghiale sventrato, i cui visceri,<br />
bianchi e fumanti, i cani dilaniano guaiolando e ringhiando.<br />
Tonfi e tonfi. Non è un cinghiale. Gli arbusti della selva,<br />
benché bassi, impediscono a <strong>Perdu</strong> di avanzare per vedere.<br />
Bisogna abbatterli: picchiare con una roncola sulla<br />
loro base. Come rintrona! Non sono di un cinghiale queste<br />
urla, e non si odono più i cani. La selva si apre, c’è un’altra<br />
radura. Ma non si vede nessuno. Le urla non sono cessate<br />
ma non si vede nessuno. Chi è che urla? D’un tratto la<br />
terra si apre e un urlo più lacerante risuona, come se la<br />
terra stessa gridasse attraverso quella voragine…<br />
<strong>Perdu</strong> si svegliò di soprassalto. L’urlo l’aveva destato.<br />
Era un urlo del sogno? Era una cosa reale? Succedette un<br />
silenzio. Una lama di luce netta tagliava la buia stanza ove<br />
<strong>Perdu</strong> dormiva, dall’uscio dell’altra camera fino ai piedi<br />
del focolare. E questa volta non in sogno, ma sveglio, <strong>Perdu</strong><br />
udì una cosa terribile: un vero urlo, di bestia, immenso<br />
e atroce, riempì la casa facendone tremare i muri, tremulo<br />
esso stesso come se contenesse una quantità insopportabile<br />
di dolore. <strong>Perdu</strong> restò atterrito. Ma prima che il suo<br />
cervello potesse mettersi a funzionare normalmente, un<br />
lampo lo attraversò, una intuizione improvvisa, rapida come<br />
la folgore: la mamma!<br />
Balzò precipitosamente dal letto e mentre altri tonfi si<br />
udivano nell’altra camera, sbatacchiò la porta che si trovava<br />
accostata, spalancandola. E si trovò nella luce.<br />
Egli era scalzo e seminudo, la rotondità della pancia,<br />
che aveva un po’ gonfia come è sempre il ventre dei<br />
bambini sulcitani carichi di malaria, era tutta scoperta<br />
57
PERDU<br />
giungendogli la maglietta fino a metà del busto, e pareva,<br />
quella pancia, sotto la viva luce, con la ditata dell’ombelico<br />
sul sommo della convessità, uno di quei pani sulcitani<br />
di semola e cruschello, larghi e rotondi e con un buco nel<br />
mezzo, che là si chiamano “moddizzosus”.<br />
La luce gli offese gli occhi ed egli se li stropicciò per<br />
vedere, innanzi di procedere.<br />
La mamma giaceva in mezzo al letto, ignuda, e col<br />
ventre squarciato, come quel cinghiale che <strong>Perdu</strong> aveva<br />
dianzi sognato.<br />
Angiuledda Vargiu era morta appena allora.<br />
58<br />
CAPITOLO V<br />
<strong>Perdu</strong> credette di aver smarrito la ragione. La stanza<br />
era piena di luce, di quella luce bianca abbagliante che<br />
fanno le lampade a gas acetilene, molto comuni nel Sulcis,<br />
dove soltanto adesso nei principali paesi arriva la luce elettrica.<br />
Quella luce della lampada fugava ogni ombra, rendeva<br />
sguaiata, esasperava la nefandezza di ciò che mostrava.<br />
Nella camera non c’era nessuno, tranne “quella cosa”<br />
tremenda che non si poteva guardare. Nessuno. Nessuno?<br />
<strong>Perdu</strong> fu attraversato da un brivido di nuovo atroce spavento.<br />
Dalla finestra spalancata entrava, nera e gelida, la notte<br />
di gennaio della bassa regione sulcitana. Ed entrava,<br />
come un fiato demoniaco, il vento ancora impetuoso, che<br />
faceva oscillare le imposte aperte e curvava la fiamma<br />
della lampada sul cassettone. E col vento, dal sottostante<br />
cortile dei polli giungevano anche, per rendere più grottesco<br />
l’insieme, mansueti chioccolii di galline, destate nel<br />
buio e impaurite.<br />
Attraverso le sbarre della controspalliera del letto, <strong>Perdu</strong>,<br />
atterrito e allucinato, guardava “quella cosa” con gli<br />
occhi fuori delle orbite. Il corpo di Angiuledda giaceva supino,<br />
scomposto, impiastricciato di sangue.<br />
Movendosi finalmente dal posto in cui era rimasto inchiodato,<br />
ma assolutamente al di fuori di ogni impulso<br />
della sua volontà, <strong>Perdu</strong> si avvicinò al letto dalla parte del<br />
capezzale, come per una assurda curiosità. Stette anche<br />
bene attento, senza rendersene conto, di non mettere i<br />
piedi nudi nel sangue che fluiva sul pavimento. Ecco l’altra<br />
metà del corpo di sua madre: sangue sul seno, sul collo,<br />
e molto sangue sul costato. Anche qua, un’altra ferita di<br />
coltello, di punta, e il sangue già raggrumato. Non è vero,<br />
non è vero. Questa non è sua madre; è una donna nuda<br />
59
PERDU<br />
ammazzata, ma non è sua madre. La faccia non si vede. La<br />
faccia è rivoltata, reclina sul bordo dell’origliere, coperta di<br />
capelli lunghi, neri, tutti impastati anch’essi di sangue. Non<br />
è sua madre. Perché dovrebbe esserlo? Non si vede la faccia<br />
e perciò non è lei.<br />
E se si vedesse la faccia? Tesa come una corda d’arco,<br />
la mente del bambino non è occupata che da questo essenziale<br />
pensiero. Nessun legamento logico coordina le<br />
sue reazioni. Il suo cervello è fermo come un meccanismo<br />
perfetto che si sia “incantato” a causa di un granello di<br />
polvere. Libera, autonoma, non mossa da alcun comando<br />
consapevole, la mano di <strong>Perdu</strong> si leva lenta avvicinandosi<br />
guardingamente alla testa del cadavere. Tocca i capelli. La<br />
mano si ritrae, si volta, si offre agli occhi. Sangue. Quanto<br />
sangue! È rosso come il succo delle more di gelso. La mano<br />
si riavvicina, tremante, al mucchio dei capelli, li stringe,<br />
si prova a sollevarli come se fossero pesantissimi. Ora<br />
gli occhi di <strong>Perdu</strong>, il suo cervello, sono fissi e appesi a<br />
questa operazione, a ciò che fa, di sua iniziativa, la mano.<br />
Una paura cupa, densa, si riversa in lui; le sue orecchie<br />
rintronano come se respirasse coi timpani, e i timpani raccogliessero,<br />
assiduamente, voci di tuoni lontani. Il tempo<br />
è l’eternità, e l’eternità dura un attimo. Stringe i denti. La<br />
mano ha riafferrato i capelli, li butta indietro, il volto appare.<br />
È sua madre!<br />
È sua madre, diventata una cosa macabra. Una ciocca<br />
di capelli, che è ancora rimasta incollata sul viso, lo attraversa<br />
dall’alto in basso sinuosamente come un serpe nero.<br />
E la bocca è stravolta in una smorfia spaventosa; sembra<br />
che urli, sembra che sghignazzi e che maledica. Ma non le<br />
si possono guardare gli occhi. Perché anch’essi, tra palpebre<br />
di sangue coagulato, guardano e ammiccano, guardano<br />
e parlano, vitrei, e fanno paura.<br />
Vedere tutto questo, ributtare con terrore i capelli su<br />
quel volto, e urlare, fu per <strong>Perdu</strong> una cosa soltanto. Ma<br />
non è proprio dire: urlare. Non urlare. Nell’urlo c’è della<br />
60<br />
Capitolo V<br />
minaccia, o una lontana speranza di salvezza. A <strong>Perdu</strong><br />
non si addiceva questo. I cani che si bastonano fino al<br />
sangue, fino a spezzar loro le ossa, non urlano: latrano. Il<br />
latrato esprime l’angoscia, la paura, l’infelicità rassegnata<br />
dei cani. Anche <strong>Perdu</strong> era un cane. In quel momento era<br />
nient’altro che un miserabile cane.<br />
Finché si udì come uno scoppio di bomba. La porta<br />
della cucina era stata spalancata con violenza e fragore.<br />
Passi si udirono, di grosse scarpe chiodate, attraversare<br />
concitatamente la prima stanza, poi un uomo piombò nella<br />
camera, una figura alta e azzoppata.<br />
L’uomo non ebbe un attimo di esitazione. Si avventò<br />
sul bambino e gli sferrò, fortissimamente, due ceffoni in<br />
pieno viso. L’ululato di <strong>Perdu</strong> cessò di colpo. I suoi occhi,<br />
sbarrati si fermarono sull’uomo: era Efisio Manzella.<br />
Pareva che agli angoli della bocca due ganci invisibili<br />
stirassero negli opposti versi le labbra di lui diventate sottili<br />
ed esangui, e gli occhi, già crudeli e durissimi per loro<br />
natura, pareva sprigionassero fiamme.<br />
<strong>Perdu</strong> lo guardò inebetito, incapace di capire qualunque<br />
cosa, nudo dinanzi all’uomo e indifeso, la bocca spalancata<br />
e il mento scosso da sussulti. Ancora con inaudita<br />
violenza Efisio Manzella percosse il bambino. <strong>Perdu</strong> vacillò<br />
come un covone di grano rovesciato dal vento, e cadde<br />
senza un lamento sull’impiantito. Cadde nel sangue della<br />
madre morta, il quale gli arrossò la sfericità del ventre e le<br />
gambe, chiazzandogli la pelle come un mosto appiccicoso.<br />
Si alzò sveltamente e senza pronunziare parola si rimise<br />
dinanzi ad Efisio Manzella.<br />
Efisio Manzella non era assolutamente padrone di sé.<br />
Stringeva i denti e li arrotava come un mastino da pastore.<br />
Piantato a gambe larghe a piedi del letto, guardava<br />
ora il cadavere, ora il bambino e respirava pesantemente,<br />
con affanno, con il respiro da mantice che noi pensiamo<br />
sia il respiro dei draghi. E di scatto, come già le due prime<br />
volte, si scagliò per la terza volta contro il bambino,<br />
61
PERDU<br />
ma non più con ceffoni, bensì afferrandogli come in una<br />
morsa la camiciola sul petto e sollevandolo con una mano<br />
sola, come i contadini fanno talvolta per valentia sulle<br />
aie del moggio colmo di frumento, e quando ebbe il<br />
bambino all’altezza della propria statura, lo avvicinò a sé,<br />
gli sputò sul viso e lo sbatacchiò con forza sul canterano.<br />
Ma non si sentì pago di questo. <strong>Perdu</strong>, che aveva battuto<br />
la nuca sul muro, restò un po’ intontito, ma non disse<br />
verbo, né si toccò le parti doloranti. Guardava sempre<br />
fisso la faccia di Efisio Manzella ma come se non sentisse<br />
odio per lui, come se i suoi occhi fossero meramente rivolti<br />
a indovinare ciò che l’uomo avrebbe ancora fatto.<br />
Ancora Efisio Manzella si avvicinò; gli torse all’interno<br />
le braccia come si torcono i tralci cresciuti male, gli sollevò<br />
le mani, le appoggiò contro il muro stritolandogli il<br />
palmo sotto i suoi pugni immensi, e con una ginocchiata<br />
gli chiuse seccamente la bocca, sì che si udì lo scatto osseo<br />
dei denti che si toccavano. Quindi, gli disse:<br />
– Apri gli occhi, bastardo, e guardami bene. Io ti ammazzerò,<br />
come ho ammazzato quella cagna di tua madre.<br />
Ma voglio che tu prima mi dica chi era qui questa sera.<br />
Dimmelo, cane, immonda bestia, dimmelo, o ti spedisco<br />
al demonio a pezzi come una carogna marcia.<br />
<strong>Perdu</strong> non parlò. Non capiva ciò che volesse sapere<br />
Efisio Manzella, né ciò che significassero le sue parole;<br />
tranne una: bastardo. Capì che Efisio Manzella, suo padre,<br />
lo chiamava bastardo.<br />
Con le braccia sempre inchiodate sul muro, come<br />
crocifisso, il volto convulso dell’uomo vicinissimo al suo,<br />
<strong>Perdu</strong> guardava Efisio Manzella con aria di implorazione.<br />
Non emise un gemito, non gli uscì dagli occhi una sola<br />
lacrima. Lo guardava attonito e non riusciva a capire.<br />
Allora, come la grandine su un recipiente di latta capovolto,<br />
piovvero sopra di lui, con ritmo sempre più intenso<br />
e rapido, altre percosse. Il viso del bambino si gonfiò<br />
e divenne bruciante. Il suo corpo, appallottolatosi<br />
62<br />
Capitolo V<br />
istintivamente come il dorso di un riccio, rotolò dal canterano<br />
e ricevette potenti calci dalle grosse scarpe dell’uomo.<br />
Calci nei fianchi, nella schiena, anche in faccia, malamente<br />
riuscendo il bambino a proteggerla con le piccole mani.<br />
Era una gragnuola che non cessava mai. E con i calci, altri<br />
insulti, all’indirizzo suo e della madre, che Efisio Manzella<br />
affermava, proclamava, si vantava di avere ammazzata.<br />
– Bastardo, cane, non parli, non vomiti tutto quello<br />
che sai. Prendi, prendi. Vattene anche tu all’inferno, con<br />
lei, che il demonio vi affoghi nel letame, carogne.<br />
<strong>Perdu</strong> capì subitamente che Efisio Manzella si proponeva<br />
di ucciderlo. Capì che aveva ucciso lui la madre, e<br />
che adesso si accingeva a commettere il secondo delitto.<br />
Ma non si spaventò. Una sorta di stanchezza gli si insinuò<br />
nello spirito, suggerendogli che dopo tutto era meglio così:<br />
meglio morire. Vivere, era troppo crudele; in quelle<br />
condizioni, morire era una cosa desiderabile, certamente<br />
desiderabile e dolce, se nella morte non si sente più niente,<br />
né il dolore dei calci nei fianchi, né le parole atroci, né<br />
il sangue, tutto questo sangue che si sentiva sul viso, dentro<br />
la bocca, dentro gli orecchi e perfino sull’orlo delle<br />
palpebre, oltreché sulle mani, e che non sapeva più ormai<br />
se fosse il sangue raccolto in terra e fluito dalle ferite della<br />
madre, o se fosse il sangue del suo proprio corpo. Meglio<br />
morire, se nella morte non si sente più niente…<br />
Così che, quando i tonfi cessarono di rintronare nelle<br />
sue ossa, e non si sentì più niente, <strong>Perdu</strong> credette che<br />
davvero la morte attesa fosse venuta e se lo fosse adagiato<br />
tra le braccia, piano piano, per non risvegliare il dolore<br />
della sua carne battuta.<br />
63
CAPITOLO VI<br />
Molti a Terreluxi pensavano che <strong>Perdu</strong> sarebbe sicuramente<br />
morto in seguito alle percosse ricevute. E molta<br />
gente, più che compassionare la sorte del bambino, si<br />
rammaricava, perché, se egli moriva, veniva a mancare la<br />
possibilità di sapere come si erano svolte veramente le cose<br />
nella drammatica notte.<br />
La scoperta del delitto era stata fatta la mattina dopo da<br />
quella stessa bambina che la sera avanti si era recata nella<br />
casa di Angiuledda a cercare uova e che, andandosene, aveva<br />
augurato alla donna e a <strong>Perdu</strong>, con tanta querula spontaneità,<br />
la buona notte e la protezione della Madre di Dio.<br />
Tottona Corrias era una ragazzetta giudiziosa. Passando<br />
dinanzi alla casa dei Manzella, quella mattina, aveva<br />
notato che la porta era spalancata, malgrado il freddo, e<br />
che, sebbene nella corte giacessero sparpagliate alcune<br />
fascine di rame che qualcuno – o forse il vento? – aveva<br />
rovesciato dal tetto del pollaio, nessuno della casa si era<br />
dato pena di togliere quell’ingombro. E pensò che era<br />
strano. Perciò decise di entrare e di dare una voce. Chiamò<br />
infatti più volte dall’uscio:<br />
– Tzia Angiuledda! Tzia Angiuledda!<br />
Ma nessuno rispose. Tottona entrò decisamente nella<br />
cucina e vide il tavolo rovesciato e una brocca di coccio<br />
per terra, ridotta in pezzi. Si avanzò fino alla seconda stanza<br />
e corse via come un’allodola che abbia udito lo sparo<br />
del cacciatore. Il cuore le saltava in gola. Alla prima persona<br />
che incontrò, cercò di spiegare a precipizio tutto ciò<br />
che aveva veduto. Ma nessuno capì niente, tranne che bisognava<br />
accorrere dove lei diceva, il più in fretta possibile.<br />
Dapprincipio <strong>Perdu</strong> fu creduto morto. Poi qualcuno si<br />
accorse che il suo corpo, a differenza di quello di Angiuledda,<br />
era ancora caldo. Qualche altro disse che la madre<br />
«non si poteva toccare» fino all’arrivo dell’autorità, ma che<br />
64<br />
al bambino poteva essere prestato soccorso. Perciò <strong>Perdu</strong><br />
fu condotto per le prime medicazioni in casa di Boiccu<br />
Corrias, padre di Tottona.<br />
Frattanto, verso sera, l’autorità giunse a Terreluxi. Si trattava<br />
di due carabinieri, di cui uno sardo, e di un brigadiere.<br />
Tutti e tre cavalcavano magnifici cavalli.<br />
Il sottufficiale non poté concludere molto in quei primi<br />
frangenti. Ispezionò la casa dei Manzella, metro per<br />
metro, misurò le distanze dei muri, delle porte, della finestra,<br />
perfino dei cocci della brocca andata in frantumi;<br />
prelevò oggetti nella stanza della morta, si chinò sulle ferite,<br />
si affacciò nel pollaio. Alla fine allargò le braccia e riconobbe<br />
che non aveva capito niente.<br />
I suoi subalterni intanto avevano perlustrato i dintorni<br />
della casa, chini sul terreno come cani levrieri. Invano.<br />
Ogni traccia e ogni orma erano state cancellate dall’acqua<br />
che ancora inzuppava la terra.<br />
La gente interrogata si stringeva nelle spalle. Chi ne<br />
sapeva niente? Tottona Corrias fu invitata a ripetere innumerevoli<br />
volte tutto ciò che aveva visto la notte avanti e la<br />
mattina dopo. Essa era colei che, pur non sapendo niente,<br />
ne sapeva più di tutti.<br />
Il brigadiere continentale si mostrò innervosito.<br />
– Possibile – diceva – che l’abbiano uccisa i fantasmi?<br />
Gli avevano spiegato che la donna aveva marito.<br />
– Dov’è questo marito? – chiedeva.<br />
Gli dissero che era assente, che si trovava lontano. –<br />
Bene – commentava il brigadiere – troverà un bell’affare<br />
al suo ritorno. Ha altri parenti sul posto la donna?<br />
– Sissi – gli fu detto; e ci si meravigliò che Manueli<br />
Vargiu non si fosse ancora fatto vivo né per vedere la figlia<br />
morta né per visitare il nipote agonizzante. Ma come<br />
mai, egli che era il parente più prossimo, non era subito<br />
accorso? Possibile che non sapesse ancora niente?<br />
Tziu Manueli, avvertito da un carabiniere, sopraggiunse<br />
ben tosto. Il suo viso, come al solito, non mostrava alcuna<br />
particolare emozione.<br />
65
PERDU<br />
Il brigadiere gli si fece innanzi:<br />
– Come va che arrivate adesso, con tanto comodo, a<br />
veder vostra figlia morta e vostro nipote agonizzante?<br />
Il “maureddu” non rispose. L’uomo della legge lo fissava<br />
negli occhi, con la sua diffidenza professionale abituata<br />
a sospettare di tutti.<br />
– Rispondete – disse seccamente.<br />
Tziu Manueli restò ancora muto. I suoi occhi striati di<br />
giallo, stringendosi tra le palpebre appassite, guardavano la<br />
faccia liscia sbarbata e bella del giovanotto in divisa senza<br />
staccarsene un istante. Vaghe ombre passavano in quegli<br />
occhi. Ma, per leggervi dentro qualcosa, bisognava essere<br />
più sperimentati psicologi del brigadiere continentale.<br />
– Perché non rispondete? – urlò il brigadiere.<br />
– Non sapevo ancora niente – disse tziu Manueli con<br />
voce tranquilla, in sardo, lisciandosi la barba. – E se anche<br />
l’avessi saputo – aggiunse con maggiore impeto – credete<br />
che venendo qui subito, avrei risolto qualcosa? Quello che<br />
risolve Vustè, avrei risolto!<br />
Il carabiniere sardo tradusse al sottufficiale le parole<br />
del vecchio.<br />
– Non ha poi tutti i torti – brontolò il brigadiere. – In<br />
fondo non siamo venuti a capo di niente, almeno per ora.<br />
E chi è morto resta morto.<br />
Tziu Manueli entrò nella stanza dove giaceva sua figlia<br />
e la guardò a lungo, a lungo, senza commuoversi.<br />
L’ingresso nella stanza era stato vietato a chiunque, dopo<br />
l’arrivo dei carabinieri, ma per il padre della morta era<br />
stata fatta eccezione. Il cadavere era ancora sconciamente<br />
scoperto; nessuno si era preoccupato di velare quell’orrore.<br />
Sull’anulare della mano sinistra della morta si poteva<br />
tuttora vedere la fede d’oro che Don Nicolino Cuccu aveva<br />
benedetto quando, celebrando le nozze, aveva pronunziato<br />
le parole: «Ego coniungo vos …».<br />
Quanto a <strong>Perdu</strong>, egli era ancora in coma, disteso sul<br />
lettuccio nella casa di Boiccu Corrias. Anche vicino al suo<br />
66<br />
Capitolo VI<br />
capezzale tziu Manueli si trattenne a lungo, osservando il<br />
bambino in silenzio e con occhi fermi.<br />
Si trattava di fare qualcosa perché il bambino non<br />
morisse. Ma che cosa? Tziu Manueli, interpellato, disse:<br />
– Lo prendo in braccio e lo porto a casa mia. Se deve<br />
morire, muore dove è nato.<br />
Ma tutti si erano opposti. Trasportarlo anche per breve<br />
tratto, poteva significare ammazzarlo. Fu mandato a chiamare<br />
il medico, a Iddarta. Ma bisognava aspettare molto<br />
tempo.<br />
La maestra di <strong>Perdu</strong>, che era accorsa fin dal mattino<br />
ed appariva sconvolta per tutte quelle atrocità, aveva consigliato<br />
di prendere il mezzo più celere e trasportare il<br />
bambino a Iddarta, di qui avviandolo a Cagliari o ad Iglesias,<br />
se si voleva proprio salvarlo.<br />
Nessuno però aveva considerato sensata una simile<br />
proposta. In queste faccende della vita e della morte, nel<br />
Sulcis, ci si rimette alla lunga alla volontà del Signore. E se<br />
poi fosse morto in viaggio?<br />
<strong>Perdu</strong> non morì. Due giorni interi durò il suo sonno.<br />
Il medico era venuto da Iddarta e aveva costatato che le<br />
ferite erano tutte superficiali; lo stato di coma derivava da<br />
choc per le percosse alla testa. Riposo assoluto, aveva<br />
consigliato, e impacchi frequenti di acqua e aceto.<br />
A vegliare il bambino, oltre la moglie di Boiccu Corrias<br />
come padrona di casa, erano rimaste tzia Anna Locci,<br />
sorellastra di tziu Manueli, e un’altra cugina lontana, tzia<br />
Grazia Pintus. Ma anche la piccola Tottona cercava di rendersi<br />
utile; assurta a importanza eccezionale agli occhi di<br />
tutti, ma soprattutto ai propri, per la parte che il destino le<br />
aveva riservato nella triste vicenda, ella si affaccendava attorno<br />
al letto di <strong>Perdu</strong>, portando lavamani d’acqua e pezzuole<br />
e volando come una cincia per tutto quanto occorresse.<br />
Anzi, in un momento in cui restò sola nella camera<br />
del ferito, pensò bene di infilare sotto il guanciale, con<br />
aria furtiva, una foglia d’ulivo benedetto e un cornetto<br />
67
PERDU<br />
d’ottone che sua madre conservava per il malocchio; era<br />
sicura che con quei talismani <strong>Perdu</strong> sarebbe immediatamente<br />
guarito.<br />
E così fu davvero. <strong>Perdu</strong> si risvegliò dal suo sonno<br />
nelle prime ore del pomeriggio. Onde e onde gli danzavano<br />
davanti agli occhi e un senso di beccheggio di tutto<br />
il corpo gli cagionava vaghe nausee. Gli pareva di essere<br />
su un carro tirato da buoi in una strada sabbiosa e che il<br />
timone del carro oscillasse, come se i buoi, imbizzarriti,<br />
scotessero le cervici.<br />
Nella stanza, ad attendere il risveglio di <strong>Perdu</strong>, era<br />
stato lasciato un carabiniere con l’incarico di interrogarlo<br />
appena possibile. E già il carabiniere si chinava sul bambino,<br />
scoprendone i primi sintomi di ritorno alla vita,<br />
quando entrò nella camera la piccola Tottona; visto che<br />
<strong>Perdu</strong> moveva le mani e apriva gli occhi, la bambina, piena<br />
di gioia, applaudì e si mise a strillare. E <strong>Perdu</strong> capì da<br />
ciò che non era morto.<br />
Si cercò di interrogare il bambino, per ricavarne quanto<br />
fosse utile all’accertamento della verità sul delitto. Gran<br />
parte delle rivelazioni che ci si poteva attendere da <strong>Perdu</strong><br />
subito al primo giorno, avevano ormai perduto interesse<br />
perché Efisio Manzella, dopo due giorni di macchia, si era<br />
costituito ai carabinieri di Iddarta ed aveva confessato.<br />
Efisio Manzella aveva dichiarato di essere stato lui stesso<br />
l’autore dell’uccisione di Angiuledda Vargiu. Diceva che<br />
tornato improvvisamente a Terreluxi dal suo viaggio nel<br />
Campidano, e giunto a casa sua nel cuore della notte, aveva<br />
scoperto che in camera con sua moglie si trovava un uomo;<br />
ne aveva percepito distintamente la voce, sebbene senza<br />
riconoscerlo. Pazzo di gelosia era penetrato nella casa<br />
per sorprendere gli adulteri, ma l’uomo era già fuggito. Egli<br />
allora si era gettato sulla donna e l’aveva ammazzata a coltellate,<br />
nuda com’era, senza neppure ascoltarla. Circa l’uomo,<br />
non era riuscito ad appurare chi fosse; lanciatosi al suo<br />
inseguimento, per quanto glielo permetteva la sua gamba<br />
68<br />
Capitolo VI<br />
zoppicante, non era riuscito a raggiungerlo. Rientrato a casa<br />
aveva tentato di sapere dal bambino chi fosse quell’uomo;<br />
ma senza frutto; il bambino piangeva e non voleva parlare,<br />
e allora Efisio aveva mezzo accoppato anche lui.<br />
Da <strong>Perdu</strong>, appunto, ci si attendeva che fornisse ragguagli<br />
circa la veridicità del racconto di Efisio, e spiegazioni<br />
sulla identità dell’uomo che Efisio affermava aver<br />
trovato in casa.<br />
Ma <strong>Perdu</strong> non poteva appagare codesta attesa perché<br />
non solo ignorava chi fosse quell’uomo, ma rimaneva<br />
convinto, almeno sul principio, che in casa, quella notte,<br />
non fosse entrato proprio nessuno.<br />
Per più giorni il bambino visse come intontito. Il ricordo<br />
di quella notte, che in determinati momenti gli cagionava<br />
veri e propri incubi, altra volta gli giungeva sfocato,<br />
quasi incomprensibile, suscitandogli reazioni molto ottuse.<br />
Per giorni e giorni non riuscì a rendersi chiaramente conto<br />
che sua madre era morta e che pertanto non sarebbe ritornata<br />
mai più. Fu soltanto con l’andare del tempo che le<br />
immagini recategli dal ricordo lentamente si composero in<br />
un unico quadro, acquistando un significato esatto e terribile.<br />
La notte buia, il suono del vento, la luce sul cassettone,<br />
il letto sconvolto, il sangue, il tonfo delle percosse sul<br />
proprio corpo, tutto questo, ecco, soltanto adesso egli cominciava<br />
a capire quale funzione avesse nella tragedia di<br />
quella notte.<br />
Dapprincipio l’animo del bambino non ebbe che da<br />
macerarsi nel dolore della sua sventura; il dolore lo assorbiva,<br />
ne strizzava le fibre come un lenzuolo dopo la lavatura.<br />
Ma col tempo, ovviamente, sorse in lui il bisogno di domandarsi<br />
il perché di quanto era avvenuto. Il delitto aveva<br />
suscitato immensa eco nel piccolo mondo di Terreluxi, specie<br />
quando si era saputo che l’omicida era Efisio Manzella.<br />
E la gente non sapeva trattenersi dal chiacchierare e dal<br />
congetturare sulle cause della collera sanguinaria che aveva<br />
portato a morte Angiuledda Vargiu. <strong>Perdu</strong> non poteva non<br />
69
PERDU<br />
afferrare taluna delle voci che già cominciavano a circolare;<br />
ed a maggior ragione si faceva in lui impellente l’esigenza<br />
di spiegare a se stesso il perché Efisio Manzella<br />
avesse accoltellato la madre. Certo, un perché doveva esserci.<br />
C’è sempre un perché quando ci si riflette. Gli tornavano<br />
alla mente le parole di Angiuledda, dette proprio alla<br />
vigilia della sua morte: «I nostri uomini, se uccidono, lo<br />
fanno sempre per una ragione d’onore». Era dunque per<br />
una ragione d’onore che Efisio aveva ammazzato la mamma?<br />
E che significa precisamente “ragione d’onore”?<br />
I carabinieri, i compagni, la gente tutta, all’infuori di<br />
tziu Manueli Vargiu e dei parenti di Efisio Manzella, i quali<br />
ultimi sembravano essersi chiusi a questo riguardo nel più<br />
assoluto riserbo, chiedevano insistentemente a <strong>Perdu</strong> di dire<br />
se sapeva chi fosse l’uomo penetrato nella casa la notte<br />
fatale. <strong>Perdu</strong> non poteva rispondere, ma vagamente intuiva<br />
che qui potesse essere la spiegazione del mistero. Per<br />
conto suo nessun uomo era venuto a casa; ma se vi fosse<br />
entrato quando lui già dormiva? L’innocenza dei bambini<br />
sulcitani è cosa un po’ diversa da quella di altri bambini; e<br />
perciò qualche sprazzo di intuizione precoce gli faceva in<br />
qualche modo capire che se davvero un uomo era quella<br />
notte in compagnia della madre, la collera di Efisio Manzella<br />
trovava una qualche giustificazione. «Dimmi chi è<br />
quell’uomo che è stato qui questa sera, dimmelo se no ti<br />
ammazzo» così aveva gridato Efisio Manzella prima di bastonarlo<br />
con tanto furore. C’era dunque una relazione fra i<br />
due fatti: la presenza dell’uomo ignoto e l’ira di Efisio. Ma<br />
di che natura era esattamente codesta relazione?<br />
Un’altra cosa affliggeva particolarmente <strong>Perdu</strong>. Efisio<br />
Manzella lo aveva chiamato bastardo; aveva messo in questa<br />
espressione un tale odio e un tale disprezzo che non<br />
era più lecito equivocare sul reale significato di essa. Efisio<br />
Manzella rinnegava, in sostanza, di essergli padre. Questa<br />
era la vera portata della frase da lui detta. E si era allora<br />
daccapo, riguardo al mistero della paternità. <strong>Perdu</strong> aveva<br />
70<br />
Capitolo VI<br />
dovuto vincere non poche riluttanze prima di persuadersi<br />
che Efisio era suo padre; ora Efisio lo rinnegava. Chi era<br />
dunque suo padre?<br />
La maestra di <strong>Perdu</strong> aveva ottenuto dal nonno che il<br />
bambino tornasse a scuola. Era venuta un giorno in casa<br />
di tziu Manueli e gli aveva tenuto un lungo ed accalorato<br />
discorso. Tziu Manueli l’aveva lasciata parlare e sfogare,<br />
poi aveva alzato le spalle a significare che, per lui, poteva<br />
la maestra fare come credeva. La scuola, le lezioni, i condiscepoli<br />
davano a <strong>Perdu</strong> un po’ di conforto o almeno di<br />
distrazione; se non altro gli impedivano di abbandonarsi a<br />
se stesso ed ai suoi pensieri.<br />
Soltanto, <strong>Perdu</strong> non capiva perché la maestra, dopo<br />
tutto quello che era successo, continuasse a chiamarlo<br />
Pietro Manzella anziché Pietro Vargiu.<br />
71
CAPITOLO VII<br />
Il processo contro Efisio Manzella si celebrò alla Corte<br />
d’Assise di Cagliari dopo circa due anni.<br />
<strong>Perdu</strong> giunse a Cagliari insieme col nonno una sera<br />
d’aprile.<br />
Era l’ora che precede il tramonto, e il sole, che si apprestava<br />
a curvarsi sull’orizzonte, oltre le montagne di Caputerra,<br />
vezzeggiava la città, la baciava, la faceva arrossire<br />
da tutte le facciate candide dei palazzi della via Roma, da<br />
tutte le case biancheggianti sulla balconata del colle fino<br />
al Castello.<br />
La città parve a <strong>Perdu</strong>, in quell’ora, incantata ed immensa.<br />
Quante case, e come grandi! E quanta moltitudine<br />
di gente che s’affannava! Ansietà e frastuono riempivano<br />
le sue vie. Gente di ogni ceto, che non si salutava incontrandosi,<br />
marciava in tutte le direzioni, sollecitata da una<br />
fretta e da una preoccupazione inspiegabili. I veicoli, i<br />
tram, i carretti, le automobili guizzanti dagli incroci come<br />
enormi rospi, i pullman illuminati e gli altoparlanti che assordavano,<br />
producevano tale incessante e confuso clamore<br />
che <strong>Perdu</strong> si domandò se, per essere città, un paese deve<br />
per forza riempirsi di trambusto e fracasso. Ma altri<br />
aspetti, più poetici, rivelò la città a <strong>Perdu</strong> in quel primo affrettato<br />
saluto. Gli offerse il volo dei suoi colombi viola,<br />
che pigramente e quasi voluttuosamente, nella via Roma<br />
arrossata di sole occiduo, si trasferivano dal frontone della<br />
chiesa di San Francesco di Paola ai pinnacoli gemelli del<br />
Municipio, la cui facciata, sotto la patina rossa del sole,<br />
era tutta candida, come quel dolce di mandorle e zucchero<br />
che in <strong>Sardegna</strong> chiamano “candelaus”. Gli offerse inoltre,<br />
primizia assoluta per <strong>Perdu</strong>, il trasalimento lucente del<br />
suo bel mare conchiuso, imprigionato tra i colli dei Sette<br />
Fratelli fino al faro laggiù, oltre la Sella del Diavolo.<br />
72<br />
<strong>Perdu</strong> dimenticò ogni cosa, anche il processo e sua<br />
madre, dinanzi a questo spettacolo. A bocca aperta, appena<br />
fuori il portone della stazione, sotto il palmizio e i banani<br />
che un tempo ornavano la piazza occidentale della<br />
via Roma, egli mentalmente comparava tutto ciò che vedeva<br />
con i luoghi silenziosi e semplici nei quali era sino<br />
allora vissuto. Come era lontana da lì, Terreluxi! Le sue<br />
poche case, i campi seminati, i filari dei mandorli e i ciuffi<br />
radi degli ulivi e le siepi di fichidindia e gli scogli, i grandi<br />
sassi bruni del monte Tamara, tutto gli appariva come cosa<br />
remota di cui, chissà perché, bisognava quasi arrossire.<br />
Tziu Manueli Vargiu strappò il bambino alle sue attonite<br />
contemplazioni:<br />
– Andeus, dobbiamo affrettarci, ti è preso un canchero?<br />
– disse, e lo trascinò per un braccio.<br />
Nonno e nipote corsero, come anatre snidate dai cani,<br />
nel ruscellare del traffico delle vie cittadine. Anche tziu<br />
Manueli Vargiu, che cercava di imporsi a <strong>Perdu</strong> come guida,<br />
dimostrava palesemente di non essere all’altezza del<br />
compito. Il suo costume sulcitano e la bisaccia di lana<br />
multicolore a due tasche, buttata sulla spalla e grave di<br />
provviste, gli conferivano un’aria contadinesca così singolare<br />
e comica fra tutta quella gente di città, che il vecchio,<br />
senza pur darlo a vedere, ne soffriva.<br />
Non perdeva tuttavia la sua imperturbabilità. Un monello<br />
cagliaritano, di quelli che a Cagliari si chiamavano<br />
“piccioccheddus de crobi”, si avvicinò a tziu Manueli e,<br />
dandogli canzonatoriamente del “signore” gli chiese di affidargli<br />
la sua “bertula”, cioè la bisaccia, per portarla a destinazione.<br />
Il vecchio “maureddu” non si scompose: egli<br />
sapeva come va trattata questa genia di bricconi; si fermò<br />
e, con aria di voler aderire, frugò nella bisaccia, ne trasse<br />
un salsicciotto di considerevole volume e con esso, impugnatolo<br />
a guisa di bastone, vibrò una botta secca sulla testa<br />
selvosa del petulante ragazzo dicendogli: – Portami<br />
questa! –. Quindi proseguì col nipote.<br />
73
PERDU<br />
Salirono alla locanda di un compaesano di Terreluxi<br />
che si era trasferito da anni in città per esercitarvi il mestiere<br />
di affittacamere e che dava alloggio pressoché a tutti<br />
i sulcitani in arrivo. Sulla porta d’ingresso, alla luce di<br />
una lampadina elettrica coperta di ragnatele, <strong>Perdu</strong> lesse<br />
su un cartoncino inchiodato al battente: «Alloggio-Cherchi».<br />
Il ballatoio sul quale si apriva anche un altro portoncino,<br />
puzzava orribilmente di pesci fritti e di cavoli.<br />
Le accoglienze di Antonio Cherchi e della famiglia furono<br />
calorose e simpatiche, tanto più che tziu Manueli,<br />
ancora nell’ingresso, fu impaziente di regalare al padrone<br />
di casa i suoi doni portati apposta da Terreluxi. I Cherchi<br />
sapevano le ragioni per cui tziu Manueli e il nipote erano<br />
venuti in città; così essi, esaurita la presentazione dei doni<br />
e scambiate frasi di ringraziamento e proteste di lasciar<br />
correre, furono condotti nella camera loro assegnata affinché<br />
potessero a proprio agio appartarsi.<br />
La casa era situata nel rione Marina e la finestra della<br />
camera in cui <strong>Perdu</strong> si trovava, dava su una piazzetta angusta,<br />
al sommo della via Barcellona. Questa via, lunga e<br />
stretta come un budello, scivola giù verso il mare ed offre,<br />
o meglio offriva un tempo, per chi guardava dall’alto<br />
scavalcando con l’occhio una breve balaustra di chiome<br />
d’alberi – i pitosfori pettinati che orlavano la via Roma<br />
dal lato del mare – una porzione del golfo celeste, popolato<br />
di sartie, di teste di gru intralicciate, e di ciminiere.<br />
Questo vide <strong>Perdu</strong> allorché si affacciò alla finestra per riconoscere<br />
“la città”.<br />
Il giorno moriva ormai, ma l’aria era ancora chiara, e<br />
nuvole color vescovo coi bordi occidentali incandescenti,<br />
indugiavano sopra il Castello dalla parte del Terrapieno.<br />
Il bambino volgeva il capo osservando or queste nuvole,<br />
ora la città alta, ora il porto ed il golfo ed i monti sfumanti<br />
lontano. E d’un tratto, avvenimento cui <strong>Perdu</strong> non era preparato,<br />
accadde il miracolo: tutte le luci, simultaneamente<br />
e come ad un solo comando, si accesero. Luci elettriche<br />
74<br />
Capitolo VII<br />
che palpitavano e si sfrangiavano agli orli come grossissime<br />
stelle. Quale meraviglia! Solo in città si potevano godere<br />
di questi spettacoli. Non a Terreluxi, dove, la sera,<br />
calavano le ombre del monte Tamara e vi si addensavano<br />
come coltri, e soltanto le stelle, quando c’erano, e la luna,<br />
anche essa quando c’era, fornivano l’illuminazione. <strong>Perdu</strong><br />
si domandò se qualcuno, a Cagliari, pensasse mai che nel<br />
mondo c’è anche Terreluxi; e ne dubitava fortemente, parendogli<br />
impossibile che gente così felice, con tali bellezze<br />
e comodità, potesse interessarsi di luoghi tanto abbandonati<br />
e squallidi.<br />
Ancora una volta tziu Manueli trasse <strong>Perdu</strong> dalle sue<br />
meditazioni.<br />
– Domani c’è il processo – disse il nonno – mangia in<br />
fretta e dormi. Bisogna alzarsi per tempo.<br />
<strong>Perdu</strong> mangiò qualcosa delle provviste recate dal nonno<br />
e se ne andò a dormire, assaporando per la prima volta<br />
in vita sua l’elasticità delle molle nel letto. Si addormentò<br />
quietamente e quasi felice.<br />
75
CAPITOLO VIII<br />
La mattina dopo, quando <strong>Perdu</strong> si svegliò, il nonno<br />
non era più nella camera. Si levò sbigottito e con un po’<br />
di timore, ma, rivestitosi in fretta, corse alla finestra e la visione<br />
della città ancora una volta lo rapì. Alla sua immaginazione<br />
si presentavano come altrettante fotografie le facce<br />
attonite dei suoi compagni di scuola; se anche essi<br />
avessero potuto ammirare quello che <strong>Perdu</strong> vedeva, chissà<br />
quale stupore!<br />
Il nonno tornò poco dopo. Posò la bisaccia e disse a<br />
<strong>Perdu</strong>:<br />
– Ora andiamo davanti alla giustizia, se è giustizia! E ricordati<br />
che “lui” non è tuo padre.<br />
Non disse altro, ma gli occhi, unica cosa liscia in tutto<br />
quel volto ispido di peli, gli si fecero ardenti come carboni<br />
accesi.<br />
Andarono. Il palazzo della Corte d’Appello, ove si tenevano<br />
allora le Assise, si trovava in Castello, nella via<br />
che ancor oggi conserva il nome di quell’ufficio giudiziario.<br />
Era un palazzo antico e scadente, dalla facciata rossastra<br />
e, nell’interno, talmente sudicio che i muri, una volta<br />
intonacati di bianco, avevano acquistato una tinta color<br />
tabacco. <strong>Perdu</strong> attraversò col nonno scale ed anditi, ancora<br />
spopolati, dove i passi delle scarpe del nonno risvegliavano<br />
echi.<br />
Per un bel pezzo non accadde niente. <strong>Perdu</strong> e il nonno<br />
sedettero su una panca alla metà di un androne, davanti<br />
ad una porta su cui era scritto, come <strong>Perdu</strong> riuscì<br />
faticosamente a leggere: «Sala di udienza».<br />
– Deve essere qui – aveva detto il nonno. E lì si erano<br />
seduti.<br />
Poi erano incominciati ad arrivare uscieri col bavero<br />
cremisi, avvocati con borse di pelle zeppe di carte, persone<br />
76<br />
di ogni condizione che camminavano da una parte e dall’altra<br />
del corridoio; ma nessuna che si fermasse davanti a<br />
quella porta, né alcuno che si desse la pena di aprirla.<br />
<strong>Perdu</strong> disse:<br />
– Forse non sarà qui.<br />
Il nonno disse:<br />
– Rimanitene tranquillo – e additando il cartello inchiodato<br />
al battente, chiese ancora: – Cos’è che dice?<br />
– Sala di udienza – ripeté <strong>Perdu</strong> scandendo queste parole<br />
in italiano.<br />
– Così è che ha detto l’avvocato – confermò il nonno.<br />
E si rimise pazientemente ed indifferentemente ad attendere.<br />
Un usciere intervenne.<br />
– Che aspettate? – domandò al “maureddu” avvicinandosi.<br />
– La giustizia – rispose tziu Manuele, in sardo, seccato<br />
di quella intrusione che egli dovette giudicare, fra l’altro,<br />
oziosa.<br />
L’usciere, buon cagliaritano, rise di quella uscita e rise<br />
ancor più della pronunzia sulcitana, fortemente rustica:<br />
– La giustizia – disse, scimmiottando la stessa pronunzia<br />
– qui è dappertutto. Questo è il palazzo della giustizia!<br />
– Capperi! – disse il nonno, offeso da quel motteggio.<br />
– Noi qui c’eravamo venuti per comprare degli asini.<br />
L’uomo accusò la botta, corresse la pronunzia e disse:<br />
– I dibattimenti non si fanno in questa sala, oggi. Dovete<br />
recarvi al piano di sopra, terzo corridoio alla mano<br />
destra.<br />
Ci vollero molti giri e domande e indicazioni spesso rivelatesi<br />
errate, prima di ritrovare la sala d’udienza di cui<br />
andavano in cerca. Nelle vicinanze di essa si incontrarono<br />
finalmente col loro avvocato. Disse l’avvocato rivolto a tziu<br />
Manueli:<br />
– Vi avevo detto di essere qui alle nove, e vi fate vedere<br />
adesso. Bah, meno male che l’udienza non è ancora<br />
77
PERDU<br />
iniziata –. Cambiò tono e aggiunse: – Questo è il piccolo?<br />
– e levò la mano verso la testa di <strong>Perdu</strong> come se volesse<br />
carezzarla, ma non la toccò.<br />
Era un uomo non proprio brutto, e in definitiva simpatico.<br />
Aveva solo un gran naso, proprio grande, che gli<br />
scendeva giù come un rostro, soverchiando la bocca. Ma il<br />
suo profilo era fortemente addolcito dal fatto che la testa<br />
era sul sommo calva e lucida e tutt’attorno circondata da<br />
una coroncina di capelli come quella dei frati.<br />
<strong>Perdu</strong> fu lasciato in disparte mentre l’avvocato parlottava<br />
concitatamente col nonno. Data una sbirciatina alla<br />
sala d’udienza, attraverso lo spiraglio di un uscio rimasto<br />
socchiuso, <strong>Perdu</strong> vide un lungo banco ricurvo, e in alto,<br />
inchiodato alla parete, e come troneggiante su un altare,<br />
un enorme Cristo crocefisso, dalla testa reclina e coronata<br />
di spine. <strong>Perdu</strong> restò agghiacciato. Quel simulacro del<br />
Cristo gli metteva nell’anima un presentimento funereo.<br />
Nel corridoio intanto si veniva affollando sempre più<br />
gente. <strong>Perdu</strong> vide molte persone di Terreluxi, alle quali<br />
istintivamente fu portato a sorridere; ma si ricordò che il<br />
nonno gli aveva assolutamente proibito di avvicinare<br />
chiunque, e lo aveva ammonito che tutti quelli di Terreluxi<br />
che avrebbe visto a Cagliari per il dibattimento erano venuti<br />
con il proposito di fare uscire dal carcere Efisio Manzella,<br />
anziché di farlo condannare come meritava per<br />
l’uccisione della moglie. <strong>Perdu</strong> non avvicinò infatti nessuno,<br />
ma si domandò se era possibile che il corso della giustizia<br />
dipendesse da quello che avrebbero detto questi<br />
suoi compaesani di Terreluxi.<br />
Squillò una campana e il dibattimento ebbe inizio.<br />
<strong>Perdu</strong> udì il suo nome pronunziato ad altissima voce<br />
da un uomo vestito di un grande paludamento nero. Altri<br />
nomi tennero dietro al suo e i chiamati man mano si affollavano<br />
davanti all’uscio della sala di udienza. Quando<br />
l’uomo dalla lunga palandrana li spinse dentro, contandoli<br />
come fanno i pastori nel trarre al chiuso le pecore, <strong>Perdu</strong><br />
78<br />
Capitolo VIII<br />
si trovò finalmente al cospetto della giustizia. Il presidente,<br />
cioè l’uomo che sedeva al centro dell’emiciclo, sembrava<br />
uno strano prete, con un berretto assai alto e ben gallonato<br />
sul capo, di contro alla spalliera del suo scranno,<br />
che era davvero imponente. <strong>Perdu</strong> era stato altra volta interrogato<br />
da giudici nel corso delle indagini per l’assassinio<br />
di sua madre; ma giudici come questi, tutti riuniti e<br />
solenni e così numerosi, non ne aveva mai visti.<br />
Ma ecco che gli occhi gli caddero, passando, sulla gabbia<br />
degli imputati. Due carabinieri la custodivano. E dentro<br />
la gabbia Efisio Manzella; questi, pallidissimo, i capelli arruffati,<br />
la camicia sbottonata sul collo, i polsi chiusi l’uno<br />
sull’altro dai ferri, parve al bambino così terribile, ch’egli<br />
temette di veder l’uomo spezzare subitamente i ferri, rompere<br />
le sbarre e precipitarsi su di lui per ammazzarlo.<br />
– Bene, che fai? Vieni avanti – disse il presidente con<br />
voce gentile a <strong>Perdu</strong> che, fermandosi, aveva bloccato tutta<br />
la fila indiana dei testimoni che lo seguivano.<br />
– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>. Poi, pentitosi, rettificò: – Sissignore.<br />
Il presidente aveva il viso bianco come la pettorina di<br />
lino che gli spumeggiava fuori della toga. Infilati gli occhiali,<br />
egli rilesse i nomi dei testimoni. A tutti fece circolarmente<br />
l’ammonizione di dire per intero ed esclusivamente<br />
la verità. Poi con la mano li congedò. <strong>Perdu</strong> fu fatto uscire<br />
con gli altri.<br />
79
CAPITOLO IX<br />
– Tu non hai l’obbligo di giurare – disse il presidente a<br />
<strong>Perdu</strong>, quando questi fu ricondotto nella sala – ma secondo<br />
la legge hai ugualmente il dovere di dirci tutta la verità.<br />
Se non conosciamo la verità, come potremmo fare veramente<br />
giustizia? Bisogna perciò che tu ci dica tutto quello<br />
che sai, senza trascurare nulla, nulla, capito?, come se parlassi<br />
col prete del tuo paese; c’è un prete nel tuo paese?<br />
– Sissignore – disse <strong>Perdu</strong>. E si ricordò di Don Nicolino<br />
che, a proposito delle nozze da lui benedette, commentava:<br />
«Lo sapevo che così doveva andare a finire; lei<br />
in camposanto e lui in galera».<br />
– Bene – disse il presidente – e allora fa’ conto che<br />
qui ad ascoltarti ci sia il prete del tuo paese.<br />
– Sissignore – disse ancora <strong>Perdu</strong>. Se ci fosse stato veramente<br />
Don Nicolino, ad ascoltare, non è detto che <strong>Perdu</strong><br />
si sarebbe sentito più tranquillo e più incline alla confidenza.<br />
Comunque, di fronte a questa pompa della giustizia<br />
<strong>Perdu</strong> si sentiva veramente intimidito. Il presidente aveva<br />
un viso buono e comprensivo, ma gli altri giudici, come lo<br />
guardavano! Pareva che l’odiassero, tanto lo fissavano con<br />
gravità. Il bambino si moveva sulla seggiola e non sapeva<br />
né come disporre le gambe né dove tenere le mani. Un<br />
senso di freddo e di panico gli serpeggiava sotto la pelle.<br />
– Bene – disse per la seconda volta il presidente –<br />
raccontaci dunque che cosa è avvenuto quella sera.<br />
Facile a chiedersi. Quella sera! Che cos’era avvenuto?<br />
La fine del mondo, ecco che cosa era avvenuto. <strong>Perdu</strong><br />
cercò di riordinare i propri ricordi e di dare una certa forma<br />
alle parole che doveva dire. Si ricordò del vento, degli<br />
zoccoli di Tottona Corrias, della lampada ad acetilene, delle<br />
bestie feroci che lui doveva vedere sugli album della<br />
maestra il giorno dopo. La madre gli aveva promesso di<br />
80<br />
lasciarlo andare a vederle, assumendosi di recarsi da sola<br />
al torrente. Doveva parlare di tutto questo? No, certo. Che<br />
poteva importare questo alla giustizia? Ma che cosa doveva<br />
dunque dire? Che la madre era morta? Questo solo, in<br />
fondo, sapeva, e sapeva che, una volta morta, nessuna<br />
giustizia gliela avrebbe più restituita.<br />
Preso dalla paura di non sapere che cosa dire, e vinto<br />
dalla soggezione verso tutti quei giudici, <strong>Perdu</strong> scoppiò<br />
ad un certo punto in lacrime.<br />
– No, no – disse il presidente, passandosi una mano<br />
sui capelli – non vogliamo che tu pianga. Perbacco, che<br />
cosa ti abbiamo fatto? Siamo qui per rendere giustizia anche<br />
a te, che forse più di tutti patisci le conseguenze di<br />
questa sventura. Via, non piangere. Ascolta, conosci quell’uomo<br />
che è dentro la gabbia?<br />
<strong>Perdu</strong> asciugò le lacrime col dorso della mano. Guardò<br />
verso Efisio Manzella e fece cenno col capo che lo conosceva.<br />
– Bene – disse il presidente – che ha fatto quell’uomo<br />
a tua madre?<br />
<strong>Perdu</strong> guardò il presidente.<br />
– L’ha ammazzata – disse con voce bassissima.<br />
– L’ha ammazzata – confermò il presidente – ma tu<br />
l’hai visto quando l’ha ammazzata?<br />
<strong>Perdu</strong> scosse il capo in segno di diniego.<br />
– Come fai, allora, a dire – continuò il presidente –<br />
che è stato lui ad ammazzarla?<br />
– Lo ha detto lui – disse <strong>Perdu</strong>, sempre a voce sommessa.<br />
– Lo ha detto a te?<br />
– Sissignore – disse <strong>Perdu</strong>, quasi temendo che si volesse<br />
dubitare di ciò.<br />
– Lo ha detto anche a noi – informò il presidente. –<br />
Ma perché l’ha ammazzata?<br />
Ecco l’eterna domanda per la quale nella mente di <strong>Perdu</strong><br />
non c’era veramente risposta. Perché? Varie spiegazioni,<br />
81
PERDU<br />
informi e tentatrici, che egli cercava con tutte le forze di<br />
respingere perché parevano intaccare la santità del ricordo<br />
ch’egli voleva conservare di sua madre, gli si offrivano suo<br />
malgrado; frammenti di discorsi dei grandi, non bene compresi<br />
in tutta la loro portata, dubbi che gli nascevano dal di<br />
dentro, intuizioni confuse. Ma il problema, nella sua chiara<br />
e compiuta essenza, sempre gli sfuggiva. Egli sentiva<br />
un’angoscia come di naufrago che si risommerga, un senso<br />
di vertigine come di chi si affacci sull’orlo di un abisso,<br />
una irritazione ed una repugnanza come di chi dia del capo<br />
contro un ostacolo opaco e molle, resistente e viscido,<br />
che sia impossibile vincere. Perché Efisio Manzella aveva<br />
ucciso la madre?<br />
– Non lo so – disse <strong>Perdu</strong>, dopo una certa esitazione.<br />
– Non lo sai – disse il presidente, – ma certo sai che<br />
se l’ha ammazzata doveva esserci una ragione. C’è stato<br />
un bisticcio fra loro? Hai udito qualcuno gridare? Dov’eri<br />
tu? Che facevi?<br />
<strong>Perdu</strong> sembrò ritrovare un po’ di chiarezza nelle proprie<br />
idee.<br />
– Dormivo – disse – dormivo nell’altra stanza, poi ho<br />
sentito delle grida, ma mi sembrava ancora di sognare…<br />
–. <strong>Perdu</strong> parlava adagio, traducendo con difficoltà i pensieri<br />
nella lingua italiana.<br />
– Parla in dialetto – disse il presidente.<br />
In sardo <strong>Perdu</strong> parlò più speditamente.<br />
– Quando ho sentito le grida mi sono svegliato e sono<br />
subito corso nella stanza dove stava mia madre. C’era<br />
la luce accesa e mia madre era distesa sul letto. Era piena<br />
di sangue…<br />
<strong>Perdu</strong> inghiottì la saliva, facendo uno sforzo per non<br />
commuoversi; un groppo di pianto gli saliva dallo stomaco<br />
fino alla gola. Nell’aula, il silenzio era profondo.<br />
– Io – riprese <strong>Perdu</strong> – ero molto spaventato. Non capivo<br />
nulla, credevo che mia madre non fosse ancora morta,<br />
invece era già morta. Io non ho visto altro.<br />
82<br />
Capitolo IX<br />
– E dopo? – domandò il presidente.<br />
– Dopo ho sentito la porta della cucina sbattere e allora<br />
arrivò “lui”.<br />
– Lui, chi? – disse una voce alle spalle di <strong>Perdu</strong>.<br />
– Lui, chi? – ripeté il presidente battendo con la matita<br />
il leggio, per richiamare l’attenzione del bambino che si<br />
era voltato.<br />
– Lui – disse <strong>Perdu</strong> segnando col dito, assai timidamente,<br />
la gabbia dell’imputato.<br />
Numerose domande e contestazioni furono rivolte a<br />
<strong>Perdu</strong> sulla disposizione della camera, delle porte, delle finestre,<br />
sullo stato del letto e sulla stessa posizione del cadavere<br />
di sua madre. Un giudice volle sapere se sul letto<br />
c’erano tracce che vi avesse giaciuto anche un’altra persona,<br />
oltre sua madre. <strong>Perdu</strong> non sapeva che rispondere.<br />
Come si poteva pretendere ch’egli avesse osservato anche<br />
queste cose? Come si poteva pensare che dinanzi allo<br />
spettacolo di sua madre morta egli si fosse potuto occupare<br />
di vedere se sul letto, accanto al cadavere, vi fossero i<br />
segni della giacitura di altri?<br />
Il presidente disse:<br />
– Vedi, figliolo, l’imputato, quello lì, dice che a casa vostra,<br />
prima che lui arrivasse, era venuto un uomo che non<br />
si sa chi sia, e che adesso non ricordo con esattezza ciò che<br />
voleva. Tu sei proprio sicuro che non c’era quest’uomo?<br />
– Sì – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
– Esclude che vi fosse o dice soltanto di non averlo<br />
visto? – domandò alle spalle di <strong>Perdu</strong> la voce di quello<br />
stesso avvocato che aveva parlato prima.<br />
<strong>Perdu</strong> tornò a voltarsi e vide che l’avvocato lo fissava<br />
con occhi verdastri, simile a un gatto che stesse per slanciarsi<br />
sopra di lui.<br />
– Io non l’ho visto – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
Il presidente disse:<br />
– Questo vale per quando ti alzasti dal letto. Ma prima<br />
che tu andassi a dormire era venuto qualcuno a casa<br />
83
PERDU<br />
vostra? Pensaci, figliolo; la circostanza è per noi del massimo<br />
rilievo. Non ti preoccupare, nel caso, se precedentemente<br />
non ne hai mai parlato. Era venuto qualcuno?<br />
Tottona! <strong>Perdu</strong> si ricordò in modo straordinariamente<br />
limpido di Tottona Corrias, la ragazzetta che la notte precedente<br />
il delitto era venuta a cercare delle uova per il fratellino<br />
malato. <strong>Perdu</strong> sorrise. Che poteva mai interessare questo<br />
alla giustizia?<br />
– Sì, signor presidente – disse <strong>Perdu</strong> con un po’ di<br />
perfidia. – Era venuto qualcuno la sera prima.<br />
Le facce dei giudici si fecero anche più attente.<br />
– E chi? – domandò il presidente.<br />
L’avvocato dagli occhi verdi si era spostato dal banco<br />
per avvicinarsi al bambino, portando la mano all’orecchio<br />
come per non perdere una sillaba di quello che <strong>Perdu</strong> doveva<br />
dire.<br />
– Era una bambina – disse <strong>Perdu</strong> – che voleva delle<br />
uova…<br />
L’avvocato del nonno, evidentemente liberato di un<br />
grande peso, starnutì gaiamente.<br />
Il pubblico ministero disse:<br />
– Desidero sia chiesto al teste se sia vero, come si legge<br />
in un verbale da lui firmato, che il Manzella, quando lo<br />
aggredì con schiaffi e calci, gli chiedeva insistentemente<br />
di rivelare chi fosse l’uomo che poco prima era uscito dalla<br />
casa.<br />
– È inutile, pardon, è superfluo, a me sembra, rivolgere<br />
questa domanda – disse precipitosamente l’avvocato<br />
del nonno, prima che <strong>Perdu</strong> riuscisse ad aprir bocca. – Se<br />
il ragazzo nulla ha detto su questo punto allorché fu interrogato<br />
dal giudice istruttore, il quale non può aver certo<br />
mancato di rivolgergli la stessa domanda, non vedo<br />
perché…<br />
– Vedremo se tace adesso – disse l’avvocato con gli<br />
occhi di gatto. – Mi associo alla domanda del pubblico ministero.<br />
84<br />
Capitolo IX<br />
<strong>Perdu</strong> capì da questa schermaglia ch’egli doveva<br />
mentire, se voleva che Efisio Manzella venisse condannato,<br />
com’era desiderio del nonno. Ma <strong>Perdu</strong> non desiderava<br />
che Efisio Manzella venisse condannato. Della cosa non<br />
gli importava niente. Sua madre era morta e restava morta.<br />
A che avrebbe giovato che Efisio Manzella restasse in prigione?<br />
Disse:<br />
– Sissignore. Mentre mi picchiava, diceva: «Dimmi chi<br />
è venuto qui questa notte. Dimmelo, se no ti ammazzo».<br />
– È finita la causa! – urlò con tono enfatico l’avvocato<br />
con gli occhi verdi. E sorrideva con aria di trionfo, annuendo<br />
ripetutamente in direzione di Efisio Manzella.<br />
Seguirono altre contestazioni all’indirizzo di <strong>Perdu</strong>.<br />
L’avvocato difensore che più si agitava (l’altro restava chino,<br />
racchiuso in sé come un rospo e non interloquiva<br />
mai) domandò a un certo punto:<br />
– Sapeva il teste che la Vargiu manteneva rapporti…<br />
di amicizia con un certo Rizzieri?<br />
– Non rivolgo la domanda – disse il presidente. – È<br />
suggestiva e tendenziosa. E non è conferente.<br />
– Noi, signor presidente – disse l’avvocato – abbiamo<br />
assoluto interesse di conoscere la verità. Noi, più ancora<br />
di voi.<br />
– Mi sorprende, avvocato – disse il presidente con tono<br />
asciutto. – La verità ci interessa per lo meno in egual<br />
misura. Inoltre non dimentichi che il teste è un bambino,<br />
e che è figlio della donna morta.<br />
– Se è per questo, signor presidente – intervenne a<br />
dire una voce melliflua e grassa, quasi trasudante – se è<br />
per questo, il ragazzo, dinanzi alla legge, è anche figlio<br />
dell’imputato. Soltanto dinanzi alla legge, però, si badi…<br />
Era l’altro avvocato di difesa che aveva parlato, quello<br />
che se ne stava appallottolato sul banco, tutto gibboso e<br />
con la faccia protundente in avanti. <strong>Perdu</strong> si voltò, lo vide<br />
e, osservandone le guance cascanti, provò un senso di<br />
nausea.<br />
85
PERDU<br />
– Perché, nella realtà, di chi è figlio il teste? – domandò<br />
un giudice popolare.<br />
– Questo non interessa la causa – disse il presidente.<br />
– Chissà! – disse l’avvocato. – Chissà!<br />
<strong>Perdu</strong> fu congedato e andò a sedersi sul banco dei testimoni.<br />
Si sentiva svuotato, scontento. Sentiva che tutto<br />
quello che gli era stato domandato, quello che lui aveva<br />
detto, che avevano detto gli altri, era tutto inutile, senza<br />
senso, senza costrutto. Sentiva che la morte della madre,<br />
per la “giustizia”, era nient’altro che un fatto di cronaca,<br />
qualcosa di disseccato e di cartaceo, non una tragedia di<br />
violenza e di sangue che aveva sconvolto la vita di almeno<br />
tre creature: la mamma, Efisio, e lui stesso, <strong>Perdu</strong>. Una<br />
sola cosa aveva per lui di interessante il processo: vedere<br />
se si sarebbe riusciti ad accertare la “causa” dell’uccisione<br />
della madre.<br />
86<br />
CAPITOLO X<br />
Il processo durò ancora tre giorni. I testimoni si succedettero<br />
sulla pedana l’uno dopo l’altro, ma senza recare<br />
nessun positivo elemento a ciò che formava la sostanza<br />
del dibattito giudiziario. C’era un uomo, quella notte, nella<br />
camera di Angiuledda Vargiu? E chi era quell’uomo? Nessuno<br />
su ciò sapeva riferire niente. I testimoni si diffondevano<br />
sull’onestà di Efisio Manzella, sulla sua rispettabilità, sulla<br />
sua buona fama in tutto il paese. Quanto ad Angiuledda<br />
essa era dipinta come una donna di incontenibile lussuria.<br />
Sembrava che tutti, almeno i testimoni maschi, l’avessero<br />
goduta. Ma sull’episodio che aveva dato origine al delitto,<br />
silenzio. I testimoni si stringevano nelle spalle. Aveva la<br />
donna amanti, corteggiatori, amici? Mah, si sentiva dire, si<br />
vociferava… Di costruttivo e concreto, mai niente.<br />
Anche Leonora Manzella era stata interrogata. <strong>Perdu</strong> si<br />
ricordava di quando la bella ragazza, all’uscita di chiesa<br />
dopo la cerimonia delle nozze di Angiuledda, aveva abbracciato<br />
la sposa in modo quasi teatrale, baciandola sulle<br />
due guance e chiamandola «sorella mia» e si era poi chinata<br />
su di lui, carezzandolo e dicendogli «nipotino, ah che<br />
bel nipotino mi sono procurata».<br />
Invece, adesso, Leonora Manzella, parlando di Angiuledda,<br />
diceva:<br />
– Era una donnaccia, signor presidente, fin da molto<br />
tempo prima di sposarsi con mio fratello. Aveva già un<br />
bambino di otto anni, signor presidente, quando si sposò, e<br />
lei ne aveva allora solamente ventidue, signor presidente…<br />
Le accuse contro Angiuledda sconvolgevano <strong>Perdu</strong>;<br />
non solo gli cagionavano il dolore di vedere offesa la memoria<br />
della madre morta, ma gli insinuavano nell’animo il<br />
dubbio che sua madre sul serio non fosse una donna pura,<br />
onesta, come egli aveva sempre ostinatamente creduto.<br />
87
PERDU<br />
Era la convinzione dell’onestà di sua madre che gli impediva<br />
di dare ascolto alle trepidazioni segrete, sorgenti dalla<br />
profondità del suo animo, secondo le quali la causa del<br />
delitto perpetrato da Efisio Manzella poteva essere… No,<br />
non poteva essere. Ed ora ecco che questa convinzione<br />
pareva voler cedere dinanzi alle rivelazioni crudeli che i<br />
testimoni facevano circa la personalità di Angiuledda Vargiu.<br />
Era mai possibile che sua madre…? <strong>Perdu</strong> aveva cominciato<br />
ad avere un remoto sentore della non chiara<br />
condotta di sua madre il giorno in cui gli era accaduto di<br />
considerare che una donna nubile non dovrebbe avere<br />
bambini. Ma a petto dei dubbi che gli attanagliavano il<br />
cuore nel corso del dibattimento, quel tenue sospetto –<br />
seppellito del resto da tempo nei recessi della sua coscienza<br />
– era come una nuvola d’estate paragonata ai<br />
nembi donde scaturiscono i fulmini. Perché, si domandava,<br />
Efisio Manzella aveva ucciso la mamma? Forse perché<br />
la mamma aveva veramente compiuto…<br />
Quando parlò l’avvocato di parte civile, <strong>Perdu</strong> stette<br />
ad ascoltarlo con tanta maggiore attenzione, in quanto<br />
dalle sue parole la figura della mamma usciva purificata,<br />
dopo tutte le brutture e le cattiverie ch’erano state dette<br />
sul conto di lei. <strong>Perdu</strong> riprendeva a sperare che la causa<br />
dell’omicidio compiuto da Efisio Manzella non fosse più<br />
quella da lui paventata, ma un’altra, riguardante direttamente<br />
e solamente la malvagità di Efisio.<br />
L’avvocato diceva con forza:<br />
– Non ci fu, o signori, un uomo, quella sera, nella casa<br />
di Efisio Manzella. Non ci fu, io l’affermo…<br />
La voce dell’avvocato conquistava gli spazi alti dell’alta<br />
sala e pareva la voce della certezza che non ammette più<br />
dubbi, la verità che si impone contro qualunque diniego.<br />
– … Noi vi chiediamo di dirci chi sia mai questo correo<br />
in adulterio che Efisio Manzella avrebbe trovato nella<br />
camera di sua moglie. Come potreste fondare una decisione<br />
su un’ombra? Avete voi la prova che questa asserita<br />
88<br />
Capitolo X<br />
infedeltà non sia un’invenzione infame dell’imputato?<br />
Eccelse, come voli di strali, le parole si levavano nel<br />
profondo silenzio.<br />
– Questo – diceva l’avvocato – non è un omicidio per<br />
causa d’onore. Quale onore? Quella notte Efisio Manzella<br />
non aveva da difendere nessun onore. Nessuna colpa<br />
aveva commesso Angela Vargiu perché ci fosse da difendere<br />
codesto onore…<br />
<strong>Perdu</strong>, con gli occhi nerissimi fermi sull’oratore, mentalmente<br />
applaudiva.<br />
– … La causa del delitto è un’altra – continuava l’avvocato.<br />
– Anche qui, in definitiva, si potrebbe parlare di<br />
onore; ma in una accezione ben diversa da quella sbandierata<br />
dall’imputato. Efisio Manzella, o signori, voi lo vedete,<br />
non è più un fanciulletto, né è mai stato un Narciso.<br />
Quando egli sposò Angela Vargiu, sia per l’età di lui, sia<br />
per un certo passato – non vogliamo negarlo – della donna,<br />
in Terreluxi si rise di quella decisione del maturo innamorato.<br />
Efisio Manzella allora non si avvedeva del discredito<br />
di cui volontariamente si veniva coprendo, perché<br />
in quel momento era accecato da una concupiscenza senile,<br />
da quella lussuria prorompente che prende all’improvviso<br />
certi uomini mantenutisi casti per troppo tempo. Se<br />
ne avvide però dopo le nozze, dopo l’appagamento dei<br />
sensi, cui forse seguì ben presto l’estenuazione, l’inefficienza<br />
virile…<br />
L’avvocato smorzò il suo tono. Fece pausa. Poi, di repente,<br />
come scagliando a manciate le parole sulle facce<br />
dei giudici aggiunse:<br />
– In quel momento per la prima volta l’imputato concepì<br />
il proposito di disfarsi della sua compagna. Voleva riabilitarsi<br />
dinanzi agli occhi dei galantuomini di Terreluxi<br />
che avevano preso a disprezzarlo, voleva redimersi dinanzi<br />
a suo padre che addirittura si proponeva di diseredarlo,<br />
voleva risalire dall’abisso di ridicolo in cui credeva d’essere<br />
con quel matrimonio caduto.<br />
89
PERDU<br />
L’avvocato parlava e parlava. Sembrava non soltanto<br />
che egli esprimesse una convinzione, ma che la convinzione<br />
facesse violenza in lui, così da costringerlo a quella<br />
appassionata perorazione. Alle spalle dell’avvocato, diritto,<br />
antichissimo nel suo costume d’orbace, stava Manueli Vargiu<br />
che, masticando continuamente chissà che cosa, pareva<br />
il suggeritore delle violente espressioni usate dall’oratore<br />
contro Efisio Manzella.<br />
Quando però parlò, lo stesso giorno, il pubblico ministero,<br />
fu per <strong>Perdu</strong> come ricevere una doccia ghiacciata.<br />
Le idee sul conto di Angiuledda si rovesciavano, la colpa<br />
della donna appariva nitida e certa.<br />
Il rappresentante del pubblico ministero era un signore<br />
altissimo, grigio di capelli e dalla faccia cattiva. La sua<br />
voce era disarmonica, senza pieghe e flessioni; sembrava<br />
che, più che esporre una tesi, riferisse il risultato di un<br />
calcolo matematico.<br />
– Non si può ritenere – diceva – che l’imputato abbia<br />
mentito. L’adulterio c’è stato. Aveva l’imputato altro motivo,<br />
razionale, credibile, di uccidere la moglie? Non l’aveva.<br />
Al di là di ciò…<br />
<strong>Perdu</strong> si sentiva ricacciato, da un tale conciso ragionare<br />
per fatti, nella più nera costernazione. Ma allora, pensava,<br />
in tutto quello che aveva detto l’avvocato del nonno,<br />
non c’era più niente di vero?<br />
La costernazione del bambino si fece ancora più cupa<br />
quando l’indomani parlarono i due difensori.<br />
– Sì, noi abbiamo ucciso – disse il primo, quello che<br />
aveva occhi di gatto – lo abbiamo sempre riconosciuto fin<br />
dall’inizio. Ma abbiamo anche sempre proclamato di avere<br />
ucciso per rispetto verso la nostra virilità, perché ci sembrava<br />
che l’omicidio fosse l’unico modo per vendicare l’offesa.<br />
Il viso dell’avvocato era sorridente e cinico come ciò<br />
che diceva. Sembrava che, dopo tutto, l’omicidio di cui<br />
parlava ed al quale, a sentirlo, pareva ch’egli stesso avesse<br />
partecipato, rappresentasse un piacevole scherzo.<br />
90<br />
Capitolo X<br />
– Che importa – diceva – sapere il nome del correo<br />
nell’adulterio? Noi vi abbiamo recato ben più di un nome.<br />
Vi abbiamo recato la certezza della presenza fisica di quell’uomo<br />
fra le braccia della giovane sposa infedele. Vi abbiamo<br />
dimostrato che solo questa era la causa della nostra<br />
azione e non le tortuose resipiscenze riflesse che i nostri<br />
avversari ci hanno attribuite. Chiunque di voi, o signori –<br />
seguitò l’avvocato, facendosi serio e aggrottando le sopracciglia<br />
– chiunque di voi avrebbe agito come noi agimmo,<br />
qualora, Dio ne liberi, si fosse trovato nella situazione<br />
di sorprendere…<br />
«Solo questa era la causa della nostra azione». Queste<br />
parole si impressero nella mente di <strong>Perdu</strong> come se vi fossero<br />
state stampate col fuoco. «L’uomo tra le braccia della<br />
sposa». «Questa sola era la causa». Questa era dunque la<br />
causa? Questo era avvenuto nell’orribile notte?<br />
Nell’animo puerile di <strong>Perdu</strong> qualche cosa franava. Era<br />
come quando dai fianchi del monte Tamara si staccavano<br />
gli enormi sassi che precipitavano al piano, piantandosi<br />
fra le stoppie o il grano verde, mentre lassù, dove prima<br />
stavano, appariva una grande ferita nella rossa terra. Era<br />
la memoria della madre che lentamente franava, di fronte<br />
alla impellenza e alla crudeltà di queste rivelazioni. L’idea<br />
che la mamma avesse potuto peccare, <strong>Perdu</strong> non aveva<br />
mai potuto capirla così nettamente come ora. Terribili,<br />
come morsi di cani, sul suo cuore fanciullo si avventavano<br />
le immagini, intuite nei primi perturbamenti di una<br />
precoce pubertà, delle forme concrete del peccare. Rapido<br />
il pensiero trasponeva codeste immagini sulla figura di<br />
sua madre. La cosa era insopportabile, repellente, come<br />
la pelle dei rospi, come la bava dei buoi, come il puzzo<br />
degli scarafaggi schiacciati. «Questa era la sola causa della<br />
nostra azione».<br />
A Cristo, come diceva Don Nicolino quando spiegava<br />
il Vangelo, i chiodi erano stati ribattuti da due giudei; uno<br />
li piantava, trafiggendo le carni di Nostro Signore, l’altro,<br />
91
PERDU<br />
picchiandoli con un più pesante martello, li faceva penetrare<br />
nel legno, sì che il corpo di Cristo vi rimanesse appeso<br />
e saldato. <strong>Perdu</strong> poteva paragonare se stesso a Cristo, in<br />
questo processo. Dopo che il primo avvocato aveva scatenato<br />
nella sua anima un tale tumulto di sentimenti paurosi,<br />
ecco che il secondo avvocato di difesa lo inchiodava<br />
vieppiù a quella idea dolorosa della colpa di sua madre.<br />
Questo secondo avvocato parlava contorcendosi tutto;<br />
ma nulla vi era di agile in lui; la sua schiena vasta si<br />
agitava come il dimenarsi di un mollusco.<br />
– Proprio dalla parte civile – diceva, con la sua laida<br />
voce che usciva gorgogliante da un pronunziato barbazzolo,<br />
– si è osato parlare di lussuria nei riguardi di Efisio<br />
Manzella. Ma dov’è la lussuria? È in quest’uomo brutto e<br />
rinsecchito come una canna, o è nell’Angela Vargiu che fa<br />
mercato di sé fin da ragazzina, che tresca con i padroni,<br />
che a soli otto mesi dal matrimonio ardisce ricevere amanti<br />
perfino nella casa coniugale?…<br />
Pareva a <strong>Perdu</strong> che l’avvocato scagliasse sassate e<br />
fango sul viso di sua madre.<br />
– … Poteva – continuava l’avvocato – essere l’onesta<br />
moglie di un galantuomo, redimersi dal suo sconcio passato<br />
e dimostrarsi degna e grata della sorte che le era toccata.<br />
No, essa non vuole, o forse la sua libidine è tale che<br />
anche volendo non può. Perché parlate di lussuria voialtri?<br />
Perché proprio da voi ci è venuta l’accusa di aver ubbidito<br />
agli stimoli della concupiscenza? La verità è, signori,<br />
che Efisio Manzella, trovando sua moglie ignuda…<br />
Così si sfogava e si accaniva contro Angiuledda Vargiu,<br />
e contro la memoria di lei che ancora cercava di resistere<br />
entro l’animo del bambino, il secondo avvocato di<br />
difesa. E quando finì, e un attimo di silenzio precedette il<br />
ritiro della Corte, sì che pareva di udire lo spegnersi dell’eco<br />
di quegli insulti, uno scoppio di pianto si levò, strano<br />
e acuto.<br />
Era <strong>Perdu</strong> che non era riuscito a frenare le lacrime.<br />
92<br />
CAPITOLO XI<br />
Cinque anni di carcere furono inflitti complessivamente<br />
ad Efisio Manzella per l’uccisione della moglie e per le<br />
lesioni cagionate al bambino. E, in più, in conseguenza di<br />
un fatto totalmente estraneo al delitto, accaduto lontano, a<br />
Roma, nella casa di un principe reale, uno di quei cinque<br />
anni gli fu condonato. Gli rimanevano perciò da scontare<br />
solamente due anni.<br />
La tesi di Efisio Manzella aveva trionfato. La Corte aveva<br />
ritenuto provata la presenza di un uomo, nella camera<br />
di Angiuledda Vargiu, la notte del delitto, ed aveva conseguentemente<br />
riconosciuto che Efisio Manzella, uccidendo<br />
la moglie adultera, aveva vendicato il proprio onore.<br />
Alla lettura della sentenza c’era stata nell’aula una gran<br />
confusione. Già quando la Corte era rientrata, preceduta<br />
dallo squillo della campana, si era determinato quell’inevitabile<br />
trambusto di gente accorrente, di sedie smosse, di zittii<br />
e mormorii, che sempre accadono in momenti simili nelle<br />
aule giudiziarie. Poi il presidente si era tolto dal capo il suo<br />
alto berretto e deponendolo con entrambe le mani, come<br />
se posasse una tiara, sul leggio del suo banco, aveva preso<br />
a leggere con voce tranquilla la formula della condanna.<br />
<strong>Perdu</strong> aveva afferrato solamente il preambolo della<br />
sentenza. Tutto il resto si era perduto in un improvviso<br />
frastuono. Che era accaduto? Chi è che applaudiva? Chi<br />
gridava? Chi piangeva? Non si era capito più niente.<br />
Ultimata la lettura, la Corte si era subito ritirata. Rigidi i<br />
carabinieri in alta uniforme, rimasti ancora nella sala, parevano<br />
fare la guardia al Cristo crocifisso che con la sua<br />
compassionevole angoscia pendeva dalla parete.<br />
I famigliari di Efisio Manzella avevano dato libero sfogo<br />
al loro giubilo. Si erano avvicinati alla gabbia del condannato<br />
stringendogli le mani tra le sbarre, cercando di<br />
93
PERDU<br />
abbracciarlo e di baciarlo, mentre i carabinieri si affannavano<br />
a respingerli indietro. Efisio Manzella passando da<br />
uno spazio all’altro e affacciando il suo viso tra le sbarre,<br />
pareva un vecchio scimpanzé prigioniero cui avessero<br />
fatto vedere un cibo appetitoso.<br />
Non così Manueli Vargiu. Il vecchio “maureddu” era<br />
rimasto piantato in mezzo alla sala come un ceppo di rovere<br />
tra tutto quel tumultuare di gente. Guardava la parete<br />
di fronte, guardava il Cristo pendente sulla croce e pareva<br />
implorarlo o accusarlo.<br />
– Non c’è stato niente da fare – disse l’avvocato del<br />
nonno, più tardi, nel corridoio, a tziu Manueli Vargiu in<br />
presenza di <strong>Perdu</strong>, – i giudici si sono convinti che un uomo<br />
doveva esserci veramente dentro la stanza con vostra figlia.<br />
Tziu Manueli assentiva con indifferenza.<br />
– È stato un po’ anche colpa di questo bel tipo di vostro<br />
nipote – continuò l’avvocato. – Non gli avevate spiegato<br />
ciò che doveva dire e ciò che doveva tacere?<br />
Tziu Manueli assentiva sempre ma non aperse bocca.<br />
– Cinque anni, via – disse l’avvocato battendo con la<br />
mano sulla spalla del “maureddu” come per consolarlo –<br />
non sono una cosa da niente. È sempre una condanna. È<br />
sempre una lezione severa. Ed è sempre prigione, voi<br />
che ci siete stato. Del resto – aggiunse – il procuratore<br />
generale… la Cassazione…<br />
– Nossi – disse tziu Manueli – la cassazione me la faccio<br />
io, all’occorrenza.<br />
Tziu Manueli e <strong>Perdu</strong> partirono da Cagliari l’indomani<br />
mattina. In viaggio <strong>Perdu</strong> per un buon tratto rimase silenzioso<br />
a guardare dal finestrino. Le campagne fuggivano indietro,<br />
i filari di vigne e di carciofi raggiavano attorno al<br />
treno come le stecche di un ventaglio, ed alberi e pali della<br />
strada ferrata sbatacchiavano velocemente contro il riquadro<br />
del finestrino. Erano campagne squallide e tristi,<br />
quelle che il treno attraversava. Ma il sole fulgente dall’alto<br />
94<br />
Capitolo XI<br />
le impreziosiva e le rendeva assai belle, piegandole alle<br />
proprie carezze come un generoso padrone.<br />
– Vorrei proprio sapere – disse a un certo punto <strong>Perdu</strong><br />
– chi era quell’uomo che si trovava nella stanza con la<br />
mamma.<br />
Tziu Manueli Vargiu, che sembrava assopito sulla sua<br />
bisaccia, socchiuse un occhio senza cambiare posizione e<br />
domandò:<br />
– Che dici?<br />
– Dico – rispose <strong>Perdu</strong> continuando a guardare dal finestrino<br />
– che l’uomo di cui tutti parlano doveva esserci<br />
davvero in casa quella notte.<br />
Manueli Vargiu parve riappisolarsi.<br />
– Certo – rispose dopo una pausa e ad occhi chiusi –<br />
certo che c’era. Soltanto non bisognava farne persuasi i<br />
giudici. Adesso, quello là, anziché mandarlo in galera per<br />
tutta la vita, lo manderanno a casa fra qualche tempo.<br />
<strong>Perdu</strong> si volse e guardò il nonno stupito.<br />
– Come! – disse. – Anche Vustè, dunque, era convinto<br />
che quell’uomo si trovava realmente in casa?<br />
Su e giù, due o tre volte, la testa del nonno fece cenni<br />
d’assenso.<br />
– E come lo sapeva Vustè? – chiese <strong>Perdu</strong> sempre più<br />
meravigliato.<br />
Tziu Manueli pigramente si sollevò sul sedile, si tolse<br />
la “berritta” ficcandovi la mano fino in fondo, ne cavò una<br />
vescica di bue che gli serviva come borsa per il tabacco e,<br />
battendosi con questa borsa il petto, disse fissando <strong>Perdu</strong>:<br />
– Lo sapevo perché quell’uomo ero io! –. E rise, con<br />
la sua bocca dura affondata tra i peli, scoprendo i suoi<br />
denti lunghi e gialli.<br />
– Vustè? – disse <strong>Perdu</strong> sbalordito. E, almeno per un<br />
momento, considerò la faccia di tziu Manueli senza riuscire<br />
a raccapezzarsi. Ma poi capì che il nonno voleva fargli<br />
soltanto uno scherzo.<br />
95
PERDU<br />
– Se fosse stato Vustè – disse <strong>Perdu</strong>, riprendendo a<br />
guardare fuori dal finestrino – non sarebbe fuggito all’arrivo<br />
di Efisio Manzella –. E dopo una pausa aggiunse: – E<br />
non avrebbe lasciato ammazzare la mamma a quel modo.<br />
Il viaggio durò ancora molte ore dopo che i viaggiatori<br />
del treno statale proveniente da Cagliari trasbordarono<br />
sul trenino del Sulcis. Quando giunsero alla stazione<br />
di Iddarta, l’aria era già piena della calura del mezzodì.<br />
96<br />
CAPITOLO XII<br />
Il ritorno in paese di Efisio Manzella, dopo due anni,<br />
all’atto della sua liberazione dal carcere, fu per Terreluxi<br />
un avvenimento importante.<br />
In questo frattempo la vita di <strong>Perdu</strong> subì una seconda<br />
pausa, nel senso che nulla accadde di eccezionale e di<br />
nuovo. Di ritorno da Cagliari <strong>Perdu</strong> era stato riassorbito da<br />
quella addormentatrice uniformità delle cose, che è nel<br />
Sulcis una caratteristica inderogabile. Il bambino aveva ripreso<br />
ad andare a scuola. Per giorni e giorni, anzi per mesi,<br />
egli aveva avuto modo di narrare ai compagni tutte le<br />
cose che aveva potuto osservare nel suo viaggio in città.<br />
Inesauribile era la brama di sapere dei suoi compagni. Volevano<br />
che <strong>Perdu</strong> dicesse se Cagliari era bella e grande,<br />
anzi madornale come si sentiva dovunque ripetere; se Efisio<br />
Manzella era stato impiccato; se era vero che i giudici<br />
facevano baciare il Crocifisso o l’ostia consacrata prima di<br />
far prestare giuramento ai testimoni; se il dibattimento era<br />
una cosa che consisteva nel darsi dei pugni, sì che trionfasse<br />
il più forte; se era vero che i treni reali erano grandi<br />
come le case; se a Cagliari c’erano navi galleggianti sul<br />
mare, più alte e più vaste di tutte le case di Terreluxi messe<br />
assieme. Per molto tempo <strong>Perdu</strong> si era sentito circondato<br />
fra i suoi compagni da una aureola di autentica fama.<br />
Ma altro non era accaduto. In <strong>Perdu</strong> l’angoscia era<br />
sempre viva, e intatta rimaneva la sete di risolvere i due<br />
principali problemi che affliggevano lo spirito di lui: chi<br />
era quell’uomo? Chi era suo padre?<br />
Ed ecco, era passata la primavera ed era tornata, e ancora<br />
era passata ed ancora tornata. Al tempo della mietitura<br />
la maestra se ne partiva; al tempo dell’aratura, quando<br />
le terre del piano si fendono e diventano brune sotto<br />
la lenta penetrazione degli aratri di legno trainati dai buoi,<br />
97
PERDU<br />
la maestra tornava in paese. Giorni e giorni si erano avvicendati:<br />
giorni, cioè cicli del sole, or lunghi or brevi, sulla<br />
curva pancia del mondo. Niente altro. Questa seconda parentesi<br />
della vita di <strong>Perdu</strong> doveva chiudersi soltanto il<br />
giorno del ritorno in paese di Efisio Manzella.<br />
Il nonno aveva condotto <strong>Perdu</strong> a fare una passeggiata<br />
in campagna. Passeggiata, forse, non è termine esatto,<br />
perché nella gente del Sulcis non c’è – tanto meno poteva<br />
esserci in tziu Manueli Vargiu – il gusto di camminare attraverso<br />
i campi per la sola delizia di passeggiare. In campagna<br />
si va per lavorare, non per diletto. Si dirà dunque<br />
che il nonno condusse <strong>Perdu</strong> in campagna per raccogliere,<br />
così egli diceva, della legna da ardere. Ma il risultato<br />
era identico, perché si scoprì che la legna da raccogliere<br />
era soltanto un pretesto. La verità è che tziu Manueli voleva<br />
allontanare quel giorno il nipote dallo spettacolo irritante<br />
di tutta la gente di Terreluxi, raccoltasi all’ingresso<br />
del paese, verso lo stradale di Iddarta, per festeggiare l’arrivo<br />
di Efisio che ritornava.<br />
Due fazioni si erano formate, in Terreluxi, subito dopo<br />
l’uccisione di Angiuledda Vargiu. La prima, che faceva naturalmente<br />
capo ai Manzella, giurava e spergiurava sulla<br />
colpa della donna e sulla legittimità della reazione di Efisio;<br />
la seconda si permetteva quanto meno di dubitare<br />
che Angiuledda fosse veramente in colpa. Ma col tempo i<br />
partigiani di Angiuledda si erano assottigliati nel numero<br />
ed i pochi rimasti fedeli erano diventati quanto mai tiepidi<br />
nel sostenere la propria tesi. Oggi, poi, Terreluxi si presentava<br />
bensì divisa in due fazioni, ma l’una era composta<br />
da tziu Manueli e da <strong>Perdu</strong>, la rimanente da tutti gli altri.<br />
Il nonno condusse <strong>Perdu</strong> per solitari sentieri. Nessuno<br />
dei due parlava, né essi camminavano vicini. Tziu Manueli,<br />
di buon passo, si portava avanti, poi si fermava, in<br />
piedi, incastonato nel paesaggio come una scultura. <strong>Perdu</strong>,<br />
invece, qua e là si attardava. Aveva subito compreso<br />
che il nonno non aveva alcuna volontà di arrivare ad un<br />
98<br />
Capitolo XII<br />
posto preciso, e cominciava a dubitare del vero scopo di<br />
quella singolare scampagnata.<br />
Era bello, del resto, gironzolare sotto il sole. Era maggio,<br />
e il cielo era tutto terso, puro e profondo come il desiderio<br />
di essere felici. Anche <strong>Perdu</strong> si sentiva lo spirito<br />
intriso di quella azzurrità.<br />
Pure la terra era bella. Il monte Tamara bruno e quasi<br />
rossiccio con le macchie di basse querce che gli si arrampicavano<br />
ai fianchi fino a una certa altezza, e più in alto<br />
le spalle nude e forti, come una gigantesca barriera, chiudeva<br />
l’orizzonte; grandi come case penzolavano su Terreluxi<br />
i sassi che il monte reggeva. Più oltre, ai piedi del<br />
colosso e fin verso Iddarta, si spiegavano le colture del<br />
piano; si distinguevano dalle diverse gradazioni del verde:<br />
il grano, l’orzo, le fave, gli orti nelle vicinanze del fiume,<br />
i frutteti sulle pendici del monte Nappa nei pressi<br />
della sorgente. E su tutto emergevano le siepi di fichidindia<br />
che intersecavano il piano, e gli alberi secolari d’ulivo,<br />
che in mezzo alle distese di grano facevano la scolta,<br />
come guardiani.<br />
<strong>Perdu</strong> dietro il nonno si divertiva molto a girovagare.<br />
La terra dei sentieri, ricoperta di muschio, era morbida e<br />
tenera sotto i piedi scalzi; morbide e tenere erano le cime<br />
del caprifoglio che <strong>Perdu</strong> strappava dalle siepi e portava<br />
alla bocca.<br />
Ogni tanto <strong>Perdu</strong>, soffermandosi, si accucciava per<br />
terra e osservava gli insetti, i grilli, gli scarabei. Particolare<br />
interesse gli suscitavano gli scarabei, affaticantisi curiosamente<br />
intorno allo sterco degli asini, dei cavalli e dei<br />
buoi. Strani animali: al vederli, così goffi e panciuti, avidi<br />
di accaparrarsi una fetta di quella laida materia, facevano<br />
al tempo stesso nausea e compassione; e dire che erano<br />
capaci di volare quasi quanto gli uccelli. Anzi, le loro ali,<br />
vibrando nell’aria, producevano suoni monotoni, ma musicali.<br />
Eccoli qua invece, che si avvoltolano nello sterco e<br />
di sterco si nutrono e vivono.<br />
99
PERDU<br />
Frattanto, a lenti passi, nonno e nipote giunsero sulla<br />
carrozzabile di Iddarta. Alla vista della strada sassosa, <strong>Perdu</strong><br />
si accorse d’aver aggirato il colle che sta dinanzi a Terreluxi,<br />
denominato “Su Giganti”, e che si era quasi in vista<br />
della stazione ferroviaria di Iddarta. Quella era la strada<br />
che proveniva dal capoluogo e per la quale era passato o<br />
stava per passare Efisio Manzella diretto a Terreluxi.<br />
– Saranno già passati a quest’ora? – disse <strong>Perdu</strong> al<br />
nonno, alludendo ad Efisio.<br />
– Non ancora – disse il nonno, come se fosse informato.<br />
– Non fermiamoci allora sulla strada – disse <strong>Perdu</strong> –<br />
oppure oltrepassiamola.<br />
– E perché? – disse tziu Manueli – qui non ci sono<br />
quelli che gli devono battere le mani.<br />
Si portarono entrambi sulla strada e presero a salire<br />
verso il colle “Su Giganti”; così l’altura si chiama perché<br />
sulla sommità esistono ancor oggi le rovine di un nuraghe,<br />
leggendariamente abitato da un mitico gigante. I ruderi<br />
del nuraghe infatti apparivano sull’erta, smantellati<br />
dal tempo e arrugginiti dal muschio. Piante d’euforbia e<br />
ortiche crescevano sui bordi della strada, lungo la salita.<br />
Ai piedi del nuraghe il nonno si fermò.<br />
– Sediamoci – disse – e aspettiamo che passino. Voglio<br />
vedere che faccia ha, quel disgraziato!<br />
– Jaju – disse <strong>Perdu</strong> – che ce ne importa? Andiamocene<br />
di qua. Io non voglio restare. Ho paura.<br />
– Paura? – disse Emanueli Vargiu, e sorrise, sedendosi<br />
sopra un masso.<br />
Il bambino l’osservò. Tziu Manueli non pareva davvero<br />
che avesse paura. Sembrava l’appendice del macigno<br />
sul quale sedeva. Aveva tirato sulle ginocchia le larghe<br />
brache d’orbace come per dare aria alle gambe, e le ginocchia,<br />
fra il nero delle brache e delle uose, apparvero,<br />
bianche e scheletriche, lisce nella convessità della rotula<br />
come uova di gallina. Ma salde: erano le ginocchia di un<br />
uomo che non doveva aver mai tremato.<br />
100<br />
Capitolo XII<br />
<strong>Perdu</strong> non sapeva che fare, così impalato in attesa.<br />
Dell’arrivo di Efisio Manzella non gli importava assolutamente<br />
nulla, anzi, avrebbe desiderato non vederlo. Si recò<br />
perciò nella grotta che sottostava al nuraghe e che non<br />
era propriamente una grotta ma il piano a terra del gigantesco<br />
edificio, poi sotterrato nelle sue stesse rovine. Ivi<br />
abitavano pipistrelli e upupe, come <strong>Perdu</strong> ben sapeva per<br />
esservisi recato più di una volta con i suoi compagni di<br />
giochi. Anche quel giorno <strong>Perdu</strong> ritrovò i pipistrelli. Pendevano<br />
dalla volta della spelonca, col capo in giù, come<br />
tanti giustiziati. Ma non li disturbò. Un confuso e remoto<br />
rumore di ruote avvertì il bambino che una carrozza si avvicinava.<br />
Una strana curiosità, più forte della paura, finì<br />
per convincerlo ad uscire all’aperto.<br />
Il calesse dei Manzella stava in quel momento attaccando<br />
la salita di “Su Giganti”. Dopo appena un tratto di<br />
erta, l’abbrivio della cavalla, già lento, finì per smorzarsi.<br />
L’animale procedeva ora al passo. Soltanto tziu Baingiu<br />
Manzella, padre di Efisio, montava quella cavalla quando<br />
si recava nei campi; doveva essere dunque un gran giorno<br />
per il vecchio, se si era deciso a lasciarla attaccare al<br />
calesse che doveva portargli a casa suo figlio. Sul calesse<br />
si vedevano due persone: Efisio, l’una, evidentemente, e<br />
l’altra un servo, forse, oppure un fratello. E dietro, bellissimo,<br />
con la scarmigliata criniera bionda agitata dal moto,<br />
il puledro che la cavalla aveva partorito l’altr’anno.<br />
Anche il nonno guardava verso il calesse, e impassibile<br />
continuava a succhiare la canna della pipa; soltanto<br />
che la pipa doveva essere spenta.<br />
Quando la salita si fece più ripida, la cavalla rallentò<br />
ancora. Così giunse adagio adagio nei pressi del nuraghe.<br />
Non ci si era sbagliati: sul calesse erano Efisio e un servo<br />
dei Manzella.<br />
Anche Efisio Manzella aveva osservato tziu Manueli e<br />
<strong>Perdu</strong> fin da lontano. E doveva averli riconosciuti da un<br />
po’ di tempo, perché quando giunse vicino, il suo viso era<br />
101
PERDU<br />
atteggiato a sgradita sorpresa. Tuttavia volle essere spiritoso<br />
e iattante, e fece addirittura cenno al servo di fermare.<br />
– Ah – disse – ci voleva, questo incontro. Scommetto<br />
che volevate essere i primi a salutarmi –. E rise in maniera<br />
che voleva essere insultante.<br />
– Già! – fece Manueli Vargiu, inchiodato al macigno<br />
su cui sedeva, – volevamo vederti e salutarti. Ci premeva<br />
molto essere davvero i primi.<br />
<strong>Perdu</strong> guardava il nonno, perplesso. Guardava Efisio<br />
Manzella, stupito. Soffriva terribilmente, ma non sapeva<br />
di che né perché. E se ne stava lì in piedi, con la bocca<br />
socchiusa.<br />
– Bene – disse Efisio Manzella, facendo cenno al servo<br />
di riprendere la strada. – Spero che vi faccia piacere di<br />
rivedermi in salute. Per conto mio spero di rivedervi all’inferno.<br />
Voi, con quella bagascia di vostra figlia. Adiosu.<br />
Fu in un attimo, in un attimo solo, che tutto ciò che<br />
seguì queste parole non del tutto ancor spente, si svolse,<br />
al di là d’ogni attesa. <strong>Perdu</strong> stesso, quando più tardi dovette<br />
ricostruire ciò che era accaduto in quell’istante, rimaneva<br />
trasognato.<br />
Velocissimo, come una palla elastica, non appena l’ingiuria<br />
verso Angiuledda si staccò dalle labbra di Efisio<br />
Manzella, il vecchio tziu Manueli era schizzato sul predellino<br />
del calesse. Sembrava che una balestra ve lo avesse<br />
d’improvviso catapultato. Nessuno avrebbe potuto far<br />
niente; nessuno avrebbe potuto evitare che quello che stava<br />
per accadere accadesse: né Efisio Manzella, né il servo,<br />
né <strong>Perdu</strong>, tale fu l’impeto e l’immediatezza e l’imprevedibilità<br />
della cosa.<br />
Tziu Manueli frenò il cavallo, rovesciò con il pugno sinistro<br />
il cocchiere e, folgorante, con la destra, sguainò dalla<br />
cintura la “leppa” che balenò nella luce. Saltò poi giù<br />
dal carro, tagliò la treccia che legava il puledro, afferrò dal<br />
sostegno la frusta e ne vibrò un formidabile colpo sulla<br />
groppa della cavalla che si buttò a precipizio nella discesa.<br />
102<br />
Capitolo XII<br />
Allora gridò, dietro il calesse che già volava per Terreluxi:<br />
– Vai, vai, Efisio Manzella, per farti applaudire da<br />
quelli che ti attendono. Chissà se avrai la voce per rispondere<br />
a tutti i saluti. Noi, a buon conto, ti abbiamo salutato<br />
per primi.<br />
Quindi saltò sul cavallo che aveva staccato dal calesse,<br />
e che, partito questo, aveva provato inutilmente a slanciarsi<br />
dietro, e disse a <strong>Perdu</strong>, a mo’ di saluto:<br />
– Adesso va’ a casa, <strong>Perdu</strong>, e a me non pensare. Non<br />
mi prenderanno. Va’ a casa, va’ a casa.<br />
E basso sulla schiena del puledro, senza sella né briglia<br />
né altri finimenti, vestito della sua veste d’orbace nerissima,<br />
simile a una figura selvaggia e barbara, sotto il<br />
tranquillo sole, batté come una freccia i campi di grano<br />
verde, e si perdette lontano.<br />
Nella strada che scendeva e ondeggiava come un nastro<br />
verso Iddarta, non si vedeva assolutamente nessuno.<br />
103
CAPITOLO XIII<br />
Così Manueli Vargiu aveva vendicato la morte di sua<br />
figlia. Così, applicando l’antica legge del Sulcis, aveva<br />
corretto e raddrizzato d’un colpo quella che egli dovette<br />
ritenere un’insufficienza ed una stortura della giustizia ufficiale,<br />
la quale, nel dibattimento celebratosi alla Corte<br />
d’Assise di Cagliari, gli era probabilmente apparsa come<br />
nient’altro che una macchina per affollare parole.<br />
Quanto ad Efisio Manzella egli giunse già cadavere fra<br />
coloro che l’aspettavano. Le braccia di suo padre e dei<br />
suoi fratelli e sorelle convenuti sullo stradale di Iddarta<br />
per festeggiare il suo primo giorno di libertà, poterono<br />
soltanto stringere il suo cadavere ancora caldo e con la<br />
gola recisa. Il taglio della carotide, netto e trasverso, aveva<br />
ucciso Efisio Manzella sul colpo, senza dargli nemmeno il<br />
tempo di emettere un grido. Il servo che guidava il calesse,<br />
preso alla sprovvista da quell’assalto allucinante, aveva<br />
talmente perduto la testa da non riuscire nemmeno a pensare<br />
di frenare la corsa folle della cavalla proiettata in discesa.<br />
Egli aveva visto bensì il padrone piegarsi all’indietro<br />
come un palo abbattuto, e il sangue fiottare dalla ferita<br />
come quando si sgozza un montone; ma queste cose, lungi<br />
dal suggerirgli di prestare soccorso al ferito, accrescevano<br />
il panico del disgraziato cocchiere.<br />
Forse si notò da qualcuno che il calesse giungeva a<br />
velocità sconsiderata. Ma forse ciò fu interpretato come<br />
indice di giubilo. Quando, frenata la cavalla dai più animosi,<br />
il calesse fu fermo, qualche voce si levò in segno di<br />
saluto. Poi silenzio. Poi clamore. Poi tumulto, con grida<br />
isolate di donne e bestemmie di uomini; e subito uno<br />
scompiglio di gente esterrefatta, e un pigiarsi e sospingersi<br />
di persone intorno all’uomo morto, giunto sulla carrozza<br />
parata a festa, con un affaccendarsi di tutti i presenti,<br />
104<br />
molto simile al brulichio che si nota nei formicai quando<br />
si butta su di essi un mozzicone ardente.<br />
<strong>Perdu</strong> era rimasto solo, sulla strada deserta, ai piedi del<br />
nuraghe di “Su Giganti”. Egli era ancora intontito dalla sorpresa.<br />
Pareva che tutto il sole e la luce della giornata abbacinante<br />
lo stordissero e gli impedissero di coordinare le<br />
idee. I suoi pensieri erano torpidi, e grottescamente secondari,<br />
quasi oziosi. Ciò che doveva rappresentare il fulcro<br />
delle sue sensazioni e idee, sembrava essersi cancellato<br />
sulla lavagna della sua mente. Si sorprese per esempio a<br />
pensare che tornando a casa, ora che il nonno se n’era andato,<br />
non avrebbe saputo che cosa mangiare né come accendere<br />
a sera il lume. Si sorprese anche a pensare ai pipistrelli<br />
visti pochi minuti prima, i quali, come giustiziati,<br />
pendevano col capo in giù dalla volta della spelonca. Si ricordò<br />
perfino – ciò che in quel momento era veramente<br />
assurdo – della lezione spiegata dalla maestra il giorno innanzi:<br />
i cerchi nell’acqua: si getta un sasso dentro il fossato<br />
e la superficie dell’acqua si corruga di cerchi sempre emergenti<br />
dal fondo, anche quando il sassolino ha trovato già<br />
pace adagiandosi e scomparendo nel fango.<br />
Intanto, sentendosi il corpo affranto da un’improvvisa<br />
stanchezza, <strong>Perdu</strong> si era accucciato sull’erba ai margini<br />
della strada. Le sue mani giocavano distrattamente coi fili<br />
della gramigna e con le margherite campestri che, belle,<br />
nel loro stellato sbigottimento, spalancavano su di lui quel<br />
loro giallo occhio stupito, come un bottone d’oro.<br />
Ora l’ombra dei ruderi del nuraghe si allungava sul<br />
terreno. A un tratto si udirono sulla strada petrosa gli zoccoli<br />
di due cavalli procedenti al galoppo. Erano i fratelli<br />
di Efisio Manzella che, forse trattenutisi a Iddarta dopo<br />
l’arrivo del loro congiunto alla stazione ferroviaria, raggiungevano<br />
Terreluxi. <strong>Perdu</strong> si ridestò come da un sogno,<br />
e soltanto allora ricordò veramente ciò che era accaduto.<br />
Si levò in piedi di scatto e pensò di fuggire. Ma già i cavalieri<br />
erano a portata di voce.<br />
105
PERDU<br />
– Ah – disse uno, riconoscendolo, e ridendo sguaiatamente<br />
– ah, “piccioccu”, fuggi come un leprotto. E di che<br />
hai paura? Scommetto che desideravi salutare babai. Ah,<br />
ah! È già passato. Lo saluteremo noi per te e per tuo nonno.<br />
Ah, ah!<br />
Entrambi ridevano e parevano molto soddisfatti e felici.<br />
E continuarono ad andare, curvi sul collo dei loro cavalli,<br />
dondolando le natiche sulle selle di cuoio.<br />
<strong>Perdu</strong> tremò di paura. La fatuità di costoro gli fece<br />
confusamente pena, mentre essi disparivano oltre la gobba<br />
di “Su Giganti”. Fuggire, bisognava, pensò <strong>Perdu</strong>, buttandosi<br />
infatti a perdifiato giù per i campi di grano; bisognava<br />
allontanarsi da tutte queste cose orribili e atroci.<br />
Fuggire. Ma dove? «A casa, va’ a casa» aveva detto il<br />
nonno prima di allontanarsi. A casa? A che fare? Gli sembrava<br />
di non avere ormai più alcuna casa, di essere solo<br />
in un mondo ostile e incomprensibile. Che cos’era successo<br />
dunque, poco prima? Aveva veramente il nonno calato<br />
la rasoiata sulla gola di Efisio? L’aveva ucciso? E perché<br />
l’aveva ucciso? Perché non aveva reagito il servo?<br />
Che cos’era accaduto a Terreluxi? Dov’era andato il nonno<br />
con il cavallo rubato? Dove doveva adesso andare lui<br />
stesso, <strong>Perdu</strong>, disperso sulla terra come un lombrico dissotterrato<br />
dall’aratro? Ed altre ed altre erano le domande<br />
che sempre gli si ponevano. Perché era accaduto questo?<br />
Perché il nonno, il quale era rimasto fino ad un minuto<br />
prima dell’arrivo di Efisio straordinariamente calmo, non<br />
gli aveva fatto parola delle sue intenzioni?<br />
<strong>Perdu</strong> si ricordò che la mamma frequentemente lo<br />
rimproverava per le sue troppe domande. Ma queste erano<br />
un’esigenza della sua natura, il bisogno del suo spirito<br />
di conoscere la ragione delle cose. Erano le cose, purtroppo,<br />
che non si rivelavano mai del tutto a lui, che si ammantavano<br />
di mistero ai suoi occhi, sì che egli si trovava<br />
disperatamente a lottare coi suoi stessi “perché?” senza<br />
riuscire a risolverne neppure uno. Il nonno, ad esempio,<br />
106<br />
Capitolo XIII<br />
aveva ammazzato Efisio per vendetta, per odio, o per gelosia?<br />
E che cos’è la gelosia? E la vendetta, l’odio o la gelosia<br />
esigevano dunque di soddisfarsi e di placarsi nel<br />
sangue altrui, come si placa la sete nell’acqua di una sorgente?<br />
Sangue, sempre sangue! Che cos’è questa furia che<br />
prende i grandi e li fa ardere dal desiderio di uccidere e<br />
sembra che li dissenni e li renda bestiali?<br />
Anche per Efisio Manzella, <strong>Perdu</strong> non riusciva a impedirsi<br />
di provare compassione. Meritava di morire Efisio<br />
Manzella? Aveva ucciso la mamma, certo, ma se la mamma<br />
aveva peccato contro di lui, era egli colpevole? Ecco<br />
un altro e ancora più aggrovigliato mistero. Tutto, in un<br />
modo o nell’altro – questo <strong>Perdu</strong> lo capiva chiaramente –<br />
si riconnetteva al giorno ormai lontano in cui si erano celebrate<br />
le nozze fra la mamma ed Efisio. «Ego coniungo<br />
vos …» gli pareva di riudire le parole pronunziate da Don<br />
Nicolino Cuccu, mentre con l’aspersorio, brandito come<br />
un martello, benediceva gli sposi. Tutto si riconduceva a<br />
quel giorno.<br />
Frattanto <strong>Perdu</strong> camminava per i prati a caso. Non sapeva<br />
dove andare. La giornata pur sempre radiosa aveva<br />
perso per lui ogni fascino. I richiami dei passeri, delle cince,<br />
degli sciami di allodole, i suoni multicordi della campagna,<br />
il respiro stesso della solitudine, non suscitavano<br />
più in lui alcuna eco. Camminava col capo chino, afferrando<br />
ogni ciuffo d’erba che gli capitasse sotto mano, e lo<br />
strappava con forza, disfacendone le cime e buttandole<br />
poi lontano; altrettanto faceva coi fiori dell’asfodelo, questi<br />
altissimi e meravigliosi fiori che si ergono su un gambo<br />
eccelso e terminano in bottoni rosati, fitti e turgidi come<br />
fragole acerbe.<br />
D’improvviso una domanda lo afferrò, perentoria e<br />
pratica: sono io forse un complice? Un brivido gli attraversò<br />
la schiena, non di scrupolo di coscienza, ma di<br />
paura. L’idea di essere arrestato e portato in prigione senza<br />
sapere come difendersi, né che cosa avrebbe potuto dire,<br />
107
PERDU<br />
lo atterrì. Si fermò di botto, sfogliando i petali di un fiore.<br />
Il fiore, un grosso bocciolo aprentesi di rosa selvatica, pareva<br />
ridergli fra le mani. Sono forse un assassino?, pensò<br />
<strong>Perdu</strong>. Buttò il fiore per terra con rabbia e lo schiacciò<br />
sotto il piede scalzo. Riprese a camminare costeggiando<br />
una siepe di fichidindia. Si fermò di nuovo. Raccattò per<br />
terra uno stecco e con quello si diede crudelmente a trafiggere<br />
una foglia grassa di ficodindia, la cui pelle, tra un<br />
ciuffo e l’altro di spine, era liscia e tesa, e teneramente<br />
verde. Dai buchi prodotti dalle punzonate, fuoruscì la materia<br />
bavosa e laida di che il ficodindia si nutre; pareva<br />
che la foglia piangesse. <strong>Perdu</strong> la contemplò distrattamente<br />
e gettò lontano lo stecco che gli era servito per devastarla.<br />
Pensò che altra soluzione non ci fosse se non quella<br />
di costituirsi ai carabinieri di Iddarta. Anche Efisio Manzella<br />
aveva fatto così, dopo aver ucciso la mamma. Forse anche<br />
per questo lo avevano condannato soltanto a cinque<br />
anni di carcere. Quanto al nonno, facesse come credeva.<br />
Senz’altro indugio <strong>Perdu</strong> si incamminò verso Iddarta.<br />
Ma nel tragitto mutò di proposito. Un’idea singolare gli<br />
aveva attraversato la mente: Vissenti Tankis!<br />
Tutti a Terreluxi dicevano che <strong>Perdu</strong> era figlio di Vissenti<br />
Tankis. Perché non presentarsi a lui, a conoscerlo, finalmente,<br />
e vedere che faccia avesse, e poi chiedergli protezione<br />
ed aiuto? Chissà, forse era lui veramente suo padre.<br />
Elettrizzato da questa nuova idea e quasi da essa sospinto,<br />
si mise a correre e correre, per giungere in fretta a<br />
Iddarta.<br />
108<br />
CAPITOLO XIV<br />
Non molto diversa da Terreluxi è Iddarta, ma le colline<br />
che la circondano e su una delle quali si assidono le<br />
sue case, hanno contorni più morbidi e fianchi più verdeggianti<br />
delle cupe montagne di Terreluxi. Inoltre, il fatto<br />
che Iddarta sia capoluogo non solo del comune ma anche<br />
del mandamento, le conferisce, anche urbanisticamente,<br />
maggiore ampiezza e per così dire minore selvatichezza e<br />
rusticità. Una bella piazza, addirittura illeggiadrita da alberi,<br />
si apre infatti nel centro del paese, davanti all’antica<br />
chiesa, e dà all’abitato un tono come di chiarità.<br />
Nondimeno le case di abitazione hanno lo stesso aspetto<br />
di quelle di Terreluxi. Esse sono in un certo senso improntate,<br />
oltreché – per la maggior parte – alla miseria della<br />
gente che vi abita, anche al carattere dei sulcitani, quale<br />
nella miseria perdurante da secoli si è venuto formando.<br />
Sono cioè basse e ostili, non mai o quasi mai aprentisi sulla<br />
via pubblica alla quale voltano la schiena, ma sulla corte<br />
interna che dà verso i campi, e tuttavia tutte quante di disegno<br />
semplice, senza ornamenti, nude nelle loro linee e taluna<br />
neppure in squadra o coi muri a piombo.<br />
<strong>Perdu</strong> arrivò a Iddarta stanchissimo, dopo aver superato<br />
attraverso i campi la strada ferrata, e aver percorso,<br />
non più correndo ma sempre di buon passo, la carreggiata<br />
che mena dalla stazione al paese.<br />
Egli girovagò qualche tempo senza una precisa meta.<br />
Nonostante fosse stato numerose volte a Iddarta, non sapeva<br />
quale fosse la casa di Vissenti Tankis. Inoltre, nell’immediatezza<br />
dell’incontro con lui, l’impresa di presentarglisi<br />
non gli sembrava più tanto facile come aveva pensato. Che<br />
dirgli? Non si poteva comparirgli dinanzi e domandargli a<br />
bruciapelo se lui fosse o no suo padre, come a Terreluxi<br />
109
PERDU<br />
universalmente si ripeteva. C’era pericolo di farsi mandare<br />
al diavolo. D’altra parte, bisognava per forza decidersi a<br />
correre l’avventura.<br />
Trovò una vecchia:<br />
– Scusi tzia – disse – dove vive Vissenti Tankis?<br />
La vecchia era sorda. <strong>Perdu</strong> dovette urlare.<br />
– Vissenti Tankis? – disse finalmente la donna, mangiandosi<br />
le parole nella bocca sdentata. – Ecco uno che<br />
non sa dove vive Vissenti Tankis! Lo sanno tutti dove vive.<br />
È il padrone di Iddarta. Tutti sanno dove abita Vissenti<br />
Tankis…<br />
– Va bene, tzia, avete ragione – gridò <strong>Perdu</strong> – ma io<br />
non lo so.<br />
Passò una ragazza con un’anfora d’acqua in bilico sul<br />
capo. Si fermò. Disse a <strong>Perdu</strong>:<br />
– Vieni. Ti insegno io. Io sono a servire con tziu Vissenti<br />
Tankis.<br />
La vecchia sorda biascicò ancora qualcosa, ma <strong>Perdu</strong><br />
non l’ascoltò. Si avviò con la ragazza.<br />
La giovane, eretta sul busto per il peso che le gravava<br />
il collo, incedeva solennemente con un portamento che,<br />
pur essendo essa scalza, aveva qualcosa di regale. La strada<br />
era in discesa, ma l’anfora non minacciava minimamente<br />
di ruzzolarle dal capo, sebbene la portatrice non si<br />
curasse di sostenerla col braccio. Le gonne viola, ampie,<br />
lunghe sino ai piedi, ondeggiavano leggiadramente secondando<br />
il movimento flessuoso dei fianchi e il fluttuare<br />
del bacino, cadenzato come un pendolo.<br />
<strong>Perdu</strong> pensò a sua madre, che un tempo era stata anch’essa<br />
al servizio di Tankis e forse anch’essa aveva percorso<br />
questa medesima strada con un’anfora levata in capo.<br />
Arrivarono per una strada traversa in un immenso cortile.<br />
La giovane disse:<br />
– Questa è la casa di tziu Vissenti Tankis.<br />
<strong>Perdu</strong>, trattenendo la ragazza per la gonna prima di<br />
avanzare nel cortile, disse:<br />
110<br />
Capitolo XIV<br />
– Io vorrei parlare con lui. Com’è? È cattivo? Ho un<br />
po’ di paura…<br />
La ragazza osservò il bambino con attenzione, togliendosi<br />
l’anfora di sopra il capo e recandosela con leggerezza<br />
sull’anca. Domandò:<br />
– Proprio con lui vuoi parlare? Ora non è in casa. E che<br />
cosa gli devi dire, che hai paura?<br />
<strong>Perdu</strong> sentì il bisogno di confidarsi. La ragazza gli<br />
sembrava sua madre:<br />
– Devo dirgli se mi prende con sé come figlio – rispose<br />
a bassa voce. – Tutti dicono che io sono suo figlio.<br />
La domestica rise.<br />
– Sarà vero che tu sei suo figlio. Infatti mi sembra che<br />
gli somigli anche un poco. Ma tziu Vissenti, di figli, sparsi<br />
qua e là per il mondo, ne deve avere parecchi. Sarà difficile<br />
che li possa accogliere tutti quanti qui in casa sua –.<br />
Così detto si allontanò, sempre ridendo.<br />
<strong>Perdu</strong> non sapeva che fare. Avanzò titubante attraverso<br />
il vasto cortile. Un’altra donna giovane e bella usciva in<br />
quel momento dalla casa, recando un recipiente per dar<br />
da mangiare al pollame. <strong>Perdu</strong> si avvicinò, e, tra l’altro, la<br />
vista del becchime gli fece ricordare che aveva fame. Senza<br />
dir niente, il bambino si fece avanti e ristette accanto<br />
alla donna che si era a sua volta fermata.<br />
La donna lo guardò con aria interrogativa. La sua pelle<br />
era bianca come una camicia appena lavata; i capelli,<br />
invece, e gli occhi, soprattutto gli occhi, erano intensamente<br />
e splendidamente neri.<br />
– Che vuoi, bambino? – domandò la ragazza gentilmente.<br />
– Io sono di Terreluxi – rispose <strong>Perdu</strong>, impacciato, –<br />
sono venuto, ero venuto… per parlare con tziu Vissenti<br />
Tankis. È la moglie, Vustè?<br />
– No – disse la donna con un sorriso, deponendo per<br />
terra il recipiente pieno di crusca impastata, sul quale i pennuti<br />
si avventarono, saltandovi dentro tutti assieme, con un<br />
111
PERDU<br />
frastuono assordante, – io sono la figlia. Dovevi dirgli<br />
qualcosa per conto di tuo padre?<br />
– Oh no – disse <strong>Perdu</strong>, accorato. E aggiunse con vivo<br />
interesse: – È veramente la figlia, Vustè?, così grande?<br />
– Certo – rispose la donna – perché? Non ci credi?<br />
– Ci credo – disse <strong>Perdu</strong>. E la fissò curiosamente. Era<br />
dunque costei un’“altra” figlia di Tankis? Che cosa strana!<br />
Doveva essere grande per lo meno quanto la mamma.<br />
Possibile che fosse sua sorella o sorellastra?<br />
– Mia mamma – disse <strong>Perdu</strong>, allontanando da sé i<br />
pulcini che gli venivano a razzolare fra i piedi – era stata<br />
a servire con tziu Vissenti Tankis, molto tempo fa.<br />
– Ah sì? – disse la donna che si era chinata, e con<br />
mosse precise afferrava i pulcini ballonzolanti ai piedi di<br />
<strong>Perdu</strong> e li rinserrava nel suo grembiule di cui aveva sollevato<br />
le cocche con una mano. I pulcini, impauriti, si libravano<br />
goffamente per qualche tratto sui monconi delle loro<br />
nascenti ali, nel tentativo di fuggire, ma presto venivano<br />
catturati e scomparivano nel pugno facendosi silenziosi,<br />
per prendere poi a pigolare nell’oscurità del grembiule.<br />
– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, chinatosi a sua volta per aiutare la<br />
donna nella bisogna. Nelle sue mani, più piccole, i pulcini<br />
non scomparivano del tutto, ma cacciavano fuori il capo<br />
furbescamente, agitandosi con veemenza e piando a<br />
tutto spiano; i loro occhi, vivaci, sembravano chicchi di<br />
pepe. Ed in quegli attimi <strong>Perdu</strong> avvertiva la sensazione<br />
curiosa, già altra volta provata nel catturare dei passeri, di<br />
stringere nel pugno, da assoluto padrone, la vita di un altro<br />
essere, il cui cuore batteva trepido, e il cui corpo era<br />
caldo e pieno di una misteriosa dolcezza. – Sì. Mia madre<br />
era stata qui per due anni nel tempo in cui sono nato.<br />
– Ah sì? – ripeté la donna – e come si chiama tua madre?<br />
– Ora è morta – disse <strong>Perdu</strong>, osservando la chioccia,<br />
che, legata con uno spago ad un cavicchio, stiracchiava la<br />
112<br />
Capitolo XIV<br />
zampa impastoiata, e gridava, nel tentativo di accorrere in<br />
aiuto ai suoi piccoli. – Si chiamava Angiuledda Vargiu.<br />
A questo nome la giovane donna si volse vivacemente<br />
verso il bambino e il grembiule le cadde, sì che tutti i<br />
pulcini le si rovesciarono giù dal grembo.<br />
– Angiuledda Vargiu! – disse levandosi lentamente in<br />
piedi – tu sei dunque il bambino di Angiuledda Vargiu?<br />
– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, alzandosi anch’egli e dimenticando<br />
i pulcini. – Vustè ha conosciuto mia madre?<br />
– Sì, certo – disse la ragazza, dopo un silenzio, – oh,<br />
Deus meus e tu sei…? Come ti chiami?<br />
– <strong>Perdu</strong> – disse il bambino.<br />
– Ah, <strong>Perdu</strong>! – disse la ragazza. – E quanti anni hai?<br />
– Più di dodici – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
La giovane sospirò.<br />
– Deus meus! – disse. – Dodici anni! Tua madre è<br />
morta da quattro anni, non è vero?<br />
– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>; e aggiunse come se volesse circostanziare<br />
il fatto per ragione di esattezza. – L’ha ammazzata<br />
Efisio Manzella.<br />
– Lo so – disse la figlia di Vissenti Tankis. – Lo so. Poveretta!<br />
Era una ragazza molto sventurata. Ma Efisio Manzella<br />
era stato messo in prigione, no?<br />
– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, – ma per poco, perché… perché…<br />
Bah, non importa. Proprio oggi doveva tornare a casa<br />
sua… Lo avevano messo fuori dalla prigione e doveva…<br />
– Perché doveva? Non l’hanno messo più fuori?<br />
– Sì, ma… – disse <strong>Perdu</strong>; e qui non seppe se doveva<br />
continuare o no. Fece una pausa e poi aggiunse: – È morto.<br />
– È morto? – esclamò la ragazza. – Proprio oggi? E come?<br />
<strong>Perdu</strong> di nuovo esitò. Non voleva compromettere il<br />
nonno.<br />
– L’hanno ammazzato – disse semplicemente, chinando<br />
il capo e grattando la polvere col piede scalzo.<br />
113
PERDU<br />
– Ammazzato! E quando? E chi l’ha ammazzato?<br />
– Oh, Vustè – disse il bambino. – Forse non l’hanno<br />
proprio ammazzato. Io non so. Io credo che sia morto, ma<br />
forse non lo è.<br />
– Ma quando è avvenuto questo, e dove?<br />
– Un’ora fa – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
– Ma tu come sai questo? Eri presente?<br />
– Tzia, posso dirglielo? L’ha ammazzato mio nonno. Lui<br />
passava, noi eravamo fermi. Non gli avevamo fatto niente e<br />
lui ha parlato male di mia mamma. Allora mio nonno… Lui<br />
aveva detto che mia madre… Allora mio nonno gli è saltato<br />
addosso col coltello… Ma forse non è morto. Oh, tzia,<br />
mi raccomando, Vustè non dica niente, se le chiedono.<br />
– Tuo nonno è Manueli Vargiu, non è vero? E adesso<br />
dov’è andato?<br />
– Non lo so. È fuggito…<br />
– E tu sei venuto subito qui?<br />
– Sissi, tzia, dove potevo andare?<br />
– E perché sei venuto qui, te lo ha detto tuo nonno di<br />
venire qui?<br />
– Oh, no, Vustè, non me l’ha detto nessuno. Ci sono<br />
venuto da me.<br />
– E perché?<br />
<strong>Perdu</strong> guardò la ragazza negli occhi.<br />
– Vustè non ha mai sentito dire che Vissenti Tankis…?<br />
Già, non può averlo sentito dire; Vustè non mi conosceva.<br />
– Sentito dire che cosa? – domandò la ragazza.<br />
– A Terreluxi – cominciò <strong>Perdu</strong>, – tutti dicono che io<br />
sono figlio di tziu Vissenti Tankis. Io non so se sia vero.<br />
Mia mamma mi aveva detto che io ero figlio di Efisio<br />
Manzella, invece poi non era vero…<br />
La ragazza ad un certo momento aveva preso a guardare<br />
con aria fra spaventata e stupita al disopra della testa<br />
del bambino. Un uomo si era avvicinato e fermato alle<br />
spalle di <strong>Perdu</strong>. Era Vissenti Tankis.<br />
114<br />
Capitolo XIV<br />
– Ma la gente di Terreluxi – seguitò <strong>Perdu</strong>, senza avvertire<br />
la presenza dell’uomo – continua a ripetere che<br />
mio padre è Vissenti Tankis, che io gli assomiglio, che mia<br />
madre… così che io, tziedda, sono venuto… vorrei… domandare<br />
a Vissenti Tankis se è lui mio padre.<br />
– Bene! – disse Vissenti Tankis, dando una grossa manata<br />
sulle spalle di <strong>Perdu</strong>. – È un discorso da uomo! Ma<br />
come potrebbe fare Vissenti Tankis a sapere se è lui o no<br />
tuo padre?<br />
<strong>Perdu</strong> si era voltato di scatto. L’uomo che gli stava di<br />
fronte era grande e florido, vestito di velluto verde con<br />
un panciotto da cacciatore, nelle cui tasche, alte fin sullo<br />
sterno, teneva affondate le mani. <strong>Perdu</strong> non sapeva che<br />
quello fosse Vissenti Tankis. Lo guardò intimidito, osservandolo<br />
dai gambali di cuoio e risalendo poi su fino alla<br />
faccia di lui.<br />
– Tziedda – disse poi, rivolgendosi alla ragazza – se<br />
Vustè ha da fare, io posso ritornare più tardi per parlare<br />
con tziu Vissenti Tankis.<br />
– Sono io, Vissenti Tankis – disse l’uomo ridendo ed<br />
assai divertito.<br />
– Vustè è Vissenti Tankis? – disse <strong>Perdu</strong>, stupefatto; e<br />
sembrava quasi in procinto di mettersi ginocchioni.<br />
– Già – disse l’uomo, sempre piantato a gambe larghe<br />
dinanzi al bambino. – Non mi conoscevi? Ecco, dimmi ora<br />
come faccio io a risponderti se sono o no veramente tuo<br />
padre –. E rideva.<br />
– Ma io… – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
– Anzitutto non sai – disse Vissenti Tankis, ancora ridendo<br />
– che un uomo e una donna, per avere un bambino,<br />
devono essere sposati?<br />
– Mia madre – disse <strong>Perdu</strong>, dopo un po’ – non era<br />
sposata, eppure io sono nato lo stesso.<br />
– Ah – disse Vissenti Tankis, colpito, – non mi sembri<br />
uno stupido. Però – aggiunse, con finta serietà – bisogna<br />
115
PERDU<br />
sempre che tra l’uomo e la donna succeda qualcosa, se no<br />
i figli non nascono; non ti pare?<br />
Intervenne la ragazza.<br />
– Dovrebbe vergognarsi, Vustè – disse, scandalizzata<br />
e irritata, – di parlare così a un bambino. Vergognarsi.<br />
E, preso per mano <strong>Perdu</strong>, lo trascinò quasi di corsa<br />
dicendogli: – Vieni con me.<br />
Vissenti Tankis non si adontò. Continuando a sghignazzare<br />
gridò dietro ai due:<br />
– Ma certo, bisogna che succeda qualcosa…<br />
116<br />
CAPITOLO XV<br />
Maddalena Tankis era una ragazza piissima che viveva<br />
sempre con la paura di peccare. Aveva ventidue anni al<br />
tempo del suo primo incontro con <strong>Perdu</strong>. Era di carattere<br />
dolce e remissivo, e così umile e schiva che non pareva<br />
neppure accorgersi della sua grande, pallida bellezza. Come<br />
molte fanciulle sulcitane delle famiglie ricche, essa faceva<br />
vita quasi claustrale. Era orfana di madre da molto<br />
tempo, ed era figlia unica, e perciò la sua vita, essendole<br />
inibito, secondo il costume, di ingerirsi nelle faccende di<br />
suo padre, trovava scopo e sfogo prevalentemente nelle<br />
pratiche religiose. A nulla le serviva la sua ricchezza, poiché<br />
non è là costume che le donne facciano pompa di sé<br />
e si adornino con troppo lusso, tranne che nelle festività.<br />
Aveva niente altro che il ruolo di una domestica, nella sua<br />
casa, con appena qualche differenza di rango. La personalità<br />
di suo padre, docile come essa era, la soggiogava totalmente.<br />
In nulla essa avrebbe saputo opporsi a lui. E nella<br />
sua mansueta sottomissione, nella ristrettezza di orizzonti<br />
che le si aprivano nella vita – essa infatti, quando così a<br />
suo padre sarebbe piaciuto, avrebbe lasciato la casa paterna<br />
per cadere in un’altra schiavitù, quella del marito che il<br />
padre avrebbe scelto per lei – essa trovava conforto nell’attendere<br />
solamente da Dio le pure gioie di cui riempire<br />
il proprio cuore soave.<br />
Maddalena Tankis aveva conosciuto Angiuledda Vargiu,<br />
al tempo in cui questa prestava servizio nella casa dei<br />
Tankis, e benché fosse piccola, aveva saputo, forse aveva<br />
capito da se stessa per qualche episodio svoltosi sotto i<br />
suoi occhi, che la bella domestica piaceva a suo padre.<br />
Quando Angiuledda Vargiu era rimasta incinta ed aveva<br />
poi generato il bambino, Maddalena aveva subito dubitato<br />
che Vissenti Tankis potesse essere il padre della creatura.<br />
117
PERDU<br />
Allorché, poi, cominciarono a circolare fra la gente le prime<br />
voci in tal senso, il dubbio si era in lei convertito in<br />
certezza; il bambino di Angiuledda era sicuramente figlio<br />
di tziu Vissenti.<br />
Erano passati ormai molti anni da allora, ma questa<br />
convinzione non era venuta mai meno. Anche di altri<br />
bambini, anzi di molti, messi al mondo da domestiche<br />
della casa o da contadine che lavoravano sui fondi di Vissenti<br />
Tankis, si diceva più o meno apertamente che fossero<br />
figli di lui. Ma, stranamente, Maddalena si rifiutava di<br />
credere. Chissà perché si era fitto in capo che solo il bambino<br />
di Angiuledda poteva attribuirsi a Vissenti Tankis, e<br />
non passava giorno senza che ciò le tornasse alla mente.<br />
Ella non aveva mai visto <strong>Perdu</strong>, e non aveva nemmeno<br />
mai desiderato di vederlo, pur avendone la possibilità.<br />
Anche questo poteva spiegarsi soltanto con la sua natura<br />
scrupolosa ed ombrosa, piena di strane idee circa la divinità.<br />
Aveva promesso al Signore ed a se stessa che avrebbe<br />
visto il bambino soltanto quando avesse potuto riceverlo<br />
come fratello, quale essa lo considerava.<br />
Non è raro che nel Sulcis, dove la gente ostenta una<br />
così grande freddezza in materia di religione, le ragazze<br />
delle famiglie più benestanti, forse appunto a cagione del<br />
genere di vita che esse conducono, abbiano l’anima intrisa<br />
di misticismo. Tale era Maddalena Tankis. Il pensiero che il<br />
padre avesse un figliuolo disconosciuto e spurio, abbandonato<br />
alla sua sorte, le dava gran pena. Le pareva che la<br />
vendetta di Dio fosse sospesa sulla sua casa. E non tanto<br />
ella giudicava la colpa di suo padre, quanto piuttosto la<br />
sua propria colpa, sentendosi anch’essa colpevole di fronte<br />
a quell’ignoto bambino. A se stessa, non al padre, attribuiva<br />
la maggior parte delle responsabilità per il fatto che un<br />
suo fratello crescesse chissà mai dove, nella miseria e nell’abbandono,<br />
mentre lei viveva nell’abbondanza. Chi mai<br />
avrebbe potuto ottenerle agli occhi di Dio perdono per<br />
una simile disparità e ingiustizia? Già per la sua esaltazione<br />
118<br />
Capitolo XV<br />
religiosa ella aveva in uggia di essere nata nel seno di una<br />
famiglia ricca; già soltanto di questo ella chiedeva ogni<br />
giorno perdono a Dio. Immaginarsi, quindi, come ancor<br />
più penosa le riuscisse la sua condizione, allorché la comparava<br />
alla condizione di inedia nella quale pensava che il<br />
bambino veniva allevato. E nel far voto a Dio di adoprarsi<br />
per rendere possibile il ritorno di quel fratello nella casa<br />
paterna, essa volentieri poneva come prezzo di perdere<br />
anche tutta quanta la sua ricchezza e la sua qualità di unica<br />
erede delle masserie e delle case di tziu Vissenti Tankis.<br />
Nonostante ciò, Maddalena mai trovava il coraggio di<br />
realizzare concretamente quel voto. La ragazza conosceva<br />
suo padre. Sapeva che nulla, se non un miracolo, avrebbe<br />
potuto indurlo ad accettare come figlio lo spurio rampollo<br />
di una domestica. Maddalena, del resto, poteva ben poco<br />
sul cuore di lui. Si è già detto come per lui provasse un timore<br />
reverenziale così profondo che rasentava la schiavitù;<br />
e si è già detto come le ragazze del Sulcis abbiano poco<br />
peso e poca ingerenza negli affari degli uomini. Le<br />
donne non ci si devono mai immischiare. Le donne attendano<br />
ai lavori di casa, e quando è il momento partoriscano<br />
figli. Il resto non le riguarda. Così era anche per Maddalena,<br />
e se essa avesse valicato questa netta barriera e<br />
distinzione di compiti, temeva fortemente che avrebbe ottenuto<br />
con ogni probabilità il risultato contrario.<br />
In tal modo gli anni erano passati, Angiuledda – come<br />
Maddalena ben presto aveva saputo – era morta, ed ecco<br />
che ora il bambino inaspettatamente e spontaneamente<br />
veniva a cercare ciò che Maddalena aveva invano sperato<br />
di ottenergli con i suoi buoni uffici. Che fare?<br />
Parve a Maddalena che una sola cosa importasse, per<br />
il momento: far sì che <strong>Perdu</strong> rimanesse nella casa. Magari<br />
come servo, ma che rimanesse.<br />
<strong>Perdu</strong> riuscì a convincersi di questo progetto, sia pure<br />
con qualche difficoltà, dopo che ebbe ascoltato tutti i discorsi<br />
che Maddalena gli fece, una volta portatolo via dalla<br />
119
PERDU<br />
presenza di Vissenti Tankis. L’animo del bambino era ancora<br />
sconvolto. Le emozioni violente di quel giorno lo<br />
avevano messo in uno stato da paragonarsi ad un ininterrotto<br />
stupore. Niente gli risultava più chiaro nella mente.<br />
La sua vita cambiava d’un tratto. Il nonno si era allontanato<br />
su quel cavallo rubato, forse non sarebbe ritornato più,<br />
per paura dei carabinieri del re. Morta la mamma, perduta<br />
la certezza che Efisio Manzella fosse suo padre, scomparso<br />
il nonno, che cosa gli rimaneva? Ecco: Vissenti Tankis.<br />
<strong>Perdu</strong> non era molto convinto che Vissenti Tankis fosse<br />
veramente suo padre. La delusione che aveva provato a<br />
proposito di Efisio Manzella, gli serviva a non lasciarsi cattivare<br />
da nuove speranze. Eppure, se lo dicevano tutti che<br />
Vissenti Tankis era suo padre, perché non credere almeno<br />
ad una blanda possibilità della cosa? Era venuto per questo<br />
quaggiù, a Iddarta. Ma no. Vissenti Tankis! Quello, suo<br />
padre? Quell’uomo dagli stivali e dal giubbotto di velluto,<br />
che sghignazzava? Mah, tutto poteva essere, non c’era più<br />
nulla di certo, non si poteva sapere nulla. Anche Efisio<br />
Manzella… Sì, forse, non era male restare, anche come<br />
servo. Del resto, non aveva altra scelta.<br />
Meno facile era stato per Maddalena convincere Vissenti<br />
Tankis. Che cosa era, questa storia? Era pazza, Maddalena?<br />
Gli desse qualche lira e un tozzo di pane, a quel<br />
cencioso bambino, e lo rimandasse alla madre. Era morta?<br />
Ah, già, era morta. Allora al padre. Non ne aveva? Allora<br />
all’inferno. Non capiva, Maddalena, che ci si rendeva ridicoli<br />
con questa faccenda, e che la gente non si sarebbe<br />
saziata di ripetere stupide chiacchiere sul suo conto?<br />
Vissenti Tankis capitolò dopo molti sforzi. Al diavolo!<br />
Era una colossale imbecillità, questa di prendersi tanta pena<br />
per un bastardo qualunque. Ad ogni modo lo tenesse,<br />
se le faceva piacere. Lo si poteva mandare con Peppi Ollargiu,<br />
ad accudire alle stalle. Ma subito. Non glielo facesse<br />
più trovare fra i piedi, il bambino, e non gli riparlasse<br />
più di lui.<br />
120<br />
Capitolo XV<br />
Maddalena diede da mangiare a <strong>Perdu</strong>, in fretta, e,<br />
per non irritare maggiormente il padre, lo fece condurre<br />
subito dal capo dei servi, tziu Peppi Ollargiu.<br />
Era già scesa la sera e <strong>Perdu</strong> non fece altro che andare<br />
a dormire nel luogo che Peppi Ollargiu si prese cura di<br />
assegnargli, cioè nel fienile.<br />
– Dormi – gli disse tziu Peppi Ollargiu, vedendogli il<br />
volto rigato di lacrime – vedrai che se dormi tutto ti sembrerà<br />
più bello.<br />
<strong>Perdu</strong> si sistemò nel fienile. L’odore acre, asciutto e<br />
quasi violento della paglia e del fieno gli opprimeva la<br />
gola. Il fienile era al piano elevato di un edificio in mattoni<br />
tutto traforato di finestrelle per dare aria al locale. Peppi<br />
Ollargiu aveva consegnato a <strong>Perdu</strong> un sacco e una pelle<br />
di montone. Il bambino vi si distese sopra, e, giacendo<br />
supino, osservava il soffitto. Malgrado la stanchezza, non<br />
riusciva a dormire. Nell’incerta luce che ancora penetrava<br />
dalla porta e da tutti quei pertugi, <strong>Perdu</strong> contemplava le<br />
travi del tetto che, come grossi tendini bruni in una mano<br />
di bifolco, si innervavano a ventaglio sul culmine e affondavano<br />
nel buio.<br />
Via via che la luce si illanguidiva, <strong>Perdu</strong> era assalito da<br />
una paura non mai provata. Gli sembrava di vedere ancora<br />
il nonno sguainare la leppa e tagliare la gola ad Efisio<br />
Manzella. Ed Efisio gridava, come gridava…! D’improvviso<br />
scoppiò il coro dei grilli. Il loro canto tremulo e modulato<br />
dava al bambino la sensazione che qualcuno gli grattasse<br />
con delicatezza l’epidermide. La paura si accrebbe. Il vello<br />
di montone, sotto la schiena, lo confortava come una cosa<br />
viva. <strong>Perdu</strong> vi affondava le mani e stringeva i peli con forza.<br />
Nel vano della porta, balzata dal cielo resosi repentinamente<br />
nero come l’inchiostro, si collocò qualche stella.<br />
Vinto dalla stanchezza <strong>Perdu</strong> si abbandonava già all’incoscienza<br />
del sonno, quando udì, vicinissimo, pronunziare<br />
il suo nome nel buio.<br />
– <strong>Perdu</strong>, o <strong>Perdu</strong>! – bisbigliava una voce.<br />
121
PERDU<br />
Non subito si riscosse. Nella nebbia del suo torpore<br />
tutto poteva considerarsi accadibile; anche che quella voce<br />
fosse una voce di spiriti, la voce di sua madre, o di Efisio<br />
Manzella, oppure del nonno che d’improvviso tornava.<br />
Forse <strong>Perdu</strong> emise un gemito senza pure destarsi interamente.<br />
Forse il richiamo era una cosa irreale, come irreali<br />
erano le sue sensazioni. Ma ecco che due mani subitamente<br />
lo toccarono. Dapprima premettero sugli stinchi e sulle<br />
ginocchia, poi risalirono, fino a raggiungere il viso, dove<br />
indugiarono in una lieve carezza. Erano mani leggere leggere.<br />
In un attimo pensò che la madre lo stesse toccando<br />
per risvegliarlo. Poi si svegliò veramente e balzò di scatto a<br />
sedere. Col capo buttato avanti urtò allora contro qualcosa<br />
di morbido e di saldo, di tiepido e di rotondo e due braccia<br />
gli circondarono il capo e lo tennero ivi accolto, mentre<br />
una voce, bassa, trepida e timorosa, si udì che diceva:<br />
– <strong>Perdu</strong>, ti sei spaventato? Sono io, Maddalena.<br />
122<br />
CAPITOLO XVI<br />
Un anno e mezzo <strong>Perdu</strong> rimase al servizio di Vissenti<br />
Tankis. E per un anno e mezzo, con prodigiosa costanza<br />
Maddalena Tankis condivise con lui ogni notte, tolta qualche<br />
saltuaria eccezione, il giaciglio nel fieno. Era questo il<br />
solo modo in cui essa poteva, per ora, ottenere da Dio<br />
perdono di non essere riuscita, malgrado tutti i suoi sforzi,<br />
a convincere Vissenti Tankis di accettare il bambino come<br />
figlio e non più tenerlo per servo.<br />
Quegli incontri notturni fra <strong>Perdu</strong> e Maddalena avevano<br />
qualcosa di strano. La ragazza giungeva furtiva, quasi<br />
nel cuore della notte e nella più completa oscurità, tranne<br />
che non fosse una notte di piena luna. Ella non faceva alcun<br />
rumore. Sembrava che non attraverso la scala e la<br />
porta si introducesse nel pagliaio, ma che vi arrivasse portata<br />
da una forza misteriosa. Non aveva paura dei servi?<br />
Non aveva timore che qualcuno, notando l’assiduità di<br />
quelle visite in ore talmente assurde, interpretasse in maniera<br />
oltraggiosa la sua pazzia? Non aveva almeno timore<br />
dell’oscurità, di fiaccarsi il collo su per le scale, o di incontrare<br />
altri pericoli, un cane, un malintenzionato, un acquazzone?<br />
Nulla, non si preoccupava di nulla. Una voce la<br />
chiamava fin là, e là essa andava, senza deflettere, senza<br />
curarsi di altro, giudicando anzi ridicolo ogni pensiero che<br />
le si affacciasse alla mente per stornarla da quella idea.<br />
Le prime volte <strong>Perdu</strong> attendeva Maddalena restando<br />
sveglio. Sperava di udirne i passi, di percepirne l’avvicinarsi.<br />
Invece no; ad un bel momento egli se la trovava già<br />
accanto, invisibile ma presente, un’ombra d’ombra, ma<br />
che si poteva ben riconoscere come persona vivente, toccandola.<br />
In seguito <strong>Perdu</strong> non si preoccupò più di tenersi<br />
desto in attesa che lei giungesse.<br />
123
PERDU<br />
Che si dicevano, quei due, ogni notte, così soli per<br />
tante ore nel buio? Niente. Non si scambiavano quasi mai<br />
una parola. Se <strong>Perdu</strong> era sveglio, o se nella notte si ridestava,<br />
Maddalena gli carezzava i capelli con lenta dolcezza<br />
finché lo risentiva dormire. Se dormiva, gli si accucciava<br />
vicino adagiandogli il capo sul proprio grembo e cullandolo<br />
piano piano. Dormiva essa mai? <strong>Perdu</strong> non lo sapeva.<br />
Forse, invece che dormire, pregava. Ma prima che l’alba<br />
pungesse il cielo, Maddalena fuggiva come se avesse<br />
paura della luce, come se soltanto allora il timore si impossessasse<br />
di lei.<br />
La cosa più singolare era che, incontrandosi di giorno,<br />
<strong>Perdu</strong> e Maddalena parevano entrambi ignorare l’intimità<br />
che c’era stata fra loro la notte scorsa e quella che vi sarebbe<br />
stata la notte successiva. D’istinto, senza nessun accordo,<br />
essi ridiventavano estranei, ci fossero o no altre<br />
persone presenti: lei la padrona, lui il servo, lei la figlia di<br />
tziu Vissenti Tankis, lui lo spurio bambino che Vissenti<br />
Tankis si era degnato di accogliere fra i propri dipendenti.<br />
Innegabilmente <strong>Perdu</strong> provava sentimenti di affetto e<br />
di gratitudine per Maddalena Tankis; e tuttavia tali sentimenti<br />
non erano né così intensi, né così incondizionati<br />
come, dato il temperamento di <strong>Perdu</strong>, ci si sarebbe potuti<br />
aspettare.<br />
La verità è che l’animo del bambino si era venuto in<br />
tutto questo tempo trasformando di molto. Fosse l’umiliazione<br />
della sua condizione di spurio e di servo, fosse il<br />
sentirsi così senza guida in preda alle proprie angosce segrete<br />
ed alle proprie paure, fatto sta che <strong>Perdu</strong> sentiva in<br />
sé crescere ogni giorno una sorda ribellione. Non era più,<br />
intanto, un bambino nel senso vero e proprio: non solo i<br />
giorni si accumulavano ai giorni e i mesi ai mesi, recando<br />
ciascun giorno e ciascun mese un accrescimento insensibile<br />
di quella graduale ed istintiva maturità che chiunque<br />
avverte, fosse pure isolato in mezzo all’oceano; ma la vita<br />
stessa che <strong>Perdu</strong> conduceva gli offriva esperienze diverse<br />
124<br />
Capitolo XVI<br />
da quelle sinora vissute e ne mortificava ogni giorno le<br />
speranze, i sogni, le illusioni. Questo significa diventar<br />
grandi. Egli faceva parte della servitù dei Tankis; viveva<br />
insieme ai domestici e alle domestiche, persone, tutte, anche<br />
le più giovani, assai più anziane di <strong>Perdu</strong>, e imparava<br />
da loro molte cose che prima non conosceva. Imparava le<br />
trivialità, le bassezze dei servi, imparava la facilità con cui<br />
fra i grandi si considerano le faccende dell’amore carnale.<br />
Un bambino come <strong>Perdu</strong>, cresciuto nel Sulcis, non è mai<br />
uno specchio di innocenza come noi siamo abituati a concepirla.<br />
I bambini sulcitani hanno molto per tempo nozioni<br />
concrete ed esatte circa i rapporti fra l’uomo e la donna,<br />
desunti così dai discorsi degli adulti come dalle<br />
osservazioni dirette nel mondo degli animali. E tuttavia,<br />
per loro fortuna, essi riescono ancora a salvare una loro<br />
fondamentale innocenza, che consiste nel non percepire<br />
quel che di malvagio, di compiaciuto e insistito si usa vedere<br />
in quelle cose, fra i grandi. È soltanto con lo sviluppo<br />
che, appunto, il corrompimento si determina; e ciò<br />
succede per effetto dei malsani discorsi che gli adolescenti<br />
raccolgono dagli anziani, e nei quali con maggiore consapevolezza<br />
riescono ad afferrare l’aspetto meno limpido.<br />
Fu dunque nei contatti con i compagni di servitù che <strong>Perdu</strong>,<br />
anche in questa materia, riuscì a farsi spregiudicato e<br />
vissuto, per simpatia con l’atteggiamento dei grandi. Ma<br />
egli vedeva anche le malignità, gli arrivismi, le gelosie dei<br />
grandi, la venalità di alcuni, la spudoratezza di altri, l’odio<br />
onde molti tra loro si odiavano senza alcuna apparente ragione,<br />
la perfidia alla quale molto spesso improntavano i<br />
loro rapporti. Furono queste molteplici esperienze che<br />
contribuirono in grado elevato a mutare il carattere di <strong>Perdu</strong>.<br />
Assai di frequente l’amarezza lo sopraffaceva. Né lui<br />
sentiva di volere bene ad alcuno dei suoi compagni, né<br />
da alcuno di loro si sentiva amato. <strong>Perdu</strong> anzi si convinceva<br />
che una cieca inimicizia, una specie di incomprensibile<br />
rancore sta alla base della convivenza degli uomini, e che<br />
125
PERDU<br />
è questo sentimento che genera, esplodendo al di fuori,<br />
tutte le violenze e le atrocità di cui ripetuti esempi, e clamorosi,<br />
erano nel passato avvenuti sotto i suoi occhi.<br />
Comprese, o almeno in qualche modo vagamente intuì,<br />
che gli uomini sono sempre dei solitari, anche quando<br />
non hanno l’astiosa selvatichezza di tziu Manueli Vargiu.<br />
Ognuno pensa principalmente a se stesso, e non si preoccupa<br />
del male o del dolore che può cagionare ad altri con<br />
le proprie azioni. Ognuno ha presente sempre ed essenzialmente<br />
se stesso, anche quando si piega a fare, apparentemente,<br />
una buona azione.<br />
Per tutto questo <strong>Perdu</strong>, il quale un tempo sentiva di<br />
voler bene istintivamente al mondo intero, pian piano si<br />
accorse che il mondo non sapeva che farsene del suo bene,<br />
e dall’uggia di questa costatazione, come un naturale<br />
reagente, si radicò gradualmente in lui una sempre più<br />
estesa avversione contro tutto e contro tutti.<br />
Così mutato e così “invecchiato”, <strong>Perdu</strong> non poteva<br />
non porre alcune riserve anche nei propri sentimenti verso<br />
Maddalena Tankis. Specialmente nei primi mesi egli era<br />
rimasto sbigottito della generosità e delle premure di lei,<br />
talché, malgrado la sua condizione di servo, sentiva d’essere<br />
un po’ come quei passeri che il gelo fa cadere tra le<br />
siepi e che un viandante di buon cuore raccoglie e riscalda<br />
sul seno. Ma poi aveva cominciato a porsi delle domande.<br />
Perché Maddalena Tankis faceva questo? Era convinta<br />
che lui fosse suo fratello? Perché allora tollerava che<br />
lui rimanesse ancora come servo? Lo faceva soltanto per<br />
compassione? E perché proprio per lui? E qual senso aveva<br />
per lei perdere tanto tempo, tante ore di sonno e di riposo<br />
la notte, per restarsene accanto a lui?<br />
Quanto alla convinzione di Maddalena, che cioè Vissenti<br />
Tankis fosse suo padre, <strong>Perdu</strong> aveva acquistato tanta<br />
incredulità da riuscire perfino a sorriderne. Il pensiero che<br />
Vissenti Tankis non potesse essere suo padre, era in <strong>Perdu</strong><br />
diventato chiaro e preciso, e senza giustificazione, tanto<br />
126<br />
Capitolo XVI<br />
quanto era chiaro e preciso, e senza giustificazione, in senso<br />
contrario, il pensiero di Maddalena. Egli sentiva anzi di<br />
odiare Vissenti Tankis, non già per le sue ricchezze o perché<br />
si rifiutava di accettarlo come figlio; ma unicamente<br />
per quel suo modo beffardo e altezzoso di parlare con lui.<br />
Ciò dimostra quanto bastasse un piccolo stimolo per suscitare<br />
un sentimento di avversione nell’animo del ragazzo.<br />
Piuttosto, questo rifiuto di riconoscere in Vissenti Tankis<br />
il proprio ignoto padre, manteneva <strong>Perdu</strong> nella continua<br />
incertezza circa il problema che principalmente lo assillava.<br />
Egli non aveva rinunziato a sperare di trovare un<br />
giorno suo padre, per lo meno di riuscire a scoprire che<br />
nome egli avesse. Questa ricerca e questa ansia, in <strong>Perdu</strong><br />
traevano origine dalla consapevolezza sempre più profonda<br />
che sua madre aveva serbato una condotta colpevole.<br />
Egli riusciva ora a giudicarla spietatamente; e delle proprie<br />
amarezze e sofferenze faceva ormai risalire ogni responsabilità<br />
su di lei, ed a lei non sapeva pensare se non con un<br />
sordo rancore. Se del proprio padre <strong>Perdu</strong> si preoccupava,<br />
ciò era specialmente per accertare con chi esattamente<br />
la madre aveva commesso l’imperdonabile colpa di mettere<br />
lui al mondo.<br />
Una notte, vinto dall’oppressione di questi pensieri,<br />
<strong>Perdu</strong> rimase appositamente sveglio per parlare di ciò con<br />
Maddalena. Non aveva ormai altri cui confidarsi.<br />
<strong>Perdu</strong> raccontò alla ragazza ciò che lui stesso aveva visto<br />
la tragica notte in cui era stata uccisa Angiuledda, e le<br />
riferì quanto era risultato nel processo di Assise.<br />
Maddalena disse:<br />
– Non credo che la Giustizia abbia avuto ragione. Sono<br />
convinta che in casa con Angiuledda non c’era nessuno,<br />
tranne te. Efisio Manzella era pazzo quella sera, era annebbiato<br />
dalla gelosia.<br />
– Ma, Vustè – disse <strong>Perdu</strong> – non era la prima volta che<br />
mia mamma se ne andava con gli uomini. Non è forse per<br />
questo che io sono nato?<br />
127
PERDU<br />
Maddalena cercò nell’oscurità la bocca di <strong>Perdu</strong> e gliela<br />
chiuse con una mano. Le pareva orribile ciò che il bambino<br />
aveva detto.<br />
Rispose dopo una lunga pausa:<br />
– Non devi parlare così di tua madre.<br />
– E perché non devo? – disse <strong>Perdu</strong>. – Forse devo soffrire<br />
in santa pace tutto quello che soffro, e non devo<br />
neppure parlare? E lei, allora, forse “doveva” fare ciò che<br />
ha fatto? “Doveva” mettere al mondo me, per farmi fare il<br />
garzone di tziu Vissenti Tankis, preso in giro da tutti e ingiuriato<br />
da tutti? “Doveva” buttar fuori un bastardo? Proprio<br />
lo “doveva” fare? La obbligavano forse a farlo?<br />
Eccitato, <strong>Perdu</strong> parlava a voce alta, e le sue parole<br />
rimbombavano nelle cavità profonde e oscurissime del<br />
pagliaio.<br />
– <strong>Perdu</strong>, non gridare, sei pazzo? E non parlare in questo<br />
orribile modo. Se parli ancora così me ne vado. Cerca<br />
di dormire, non parlare.<br />
– E se ne vada, Vustè, che m’importa? Non le ho chiesto<br />
io di venire. È Vustè che ci viene; perché le faccio<br />
compassione e pena. Se ne vada, Vustè, se vuole. Io so<br />
stare anche solo.<br />
Il bambino e l’adulto lottavano ancora in <strong>Perdu</strong>, ma<br />
questa volta prevalse il primo e <strong>Perdu</strong> finì per piangere.<br />
Maddalena se lo sedette sulle ginocchia e, cullandolo<br />
con l’oscillamento del busto, cercò di calmarlo e di farlo<br />
dormire. Ma quando <strong>Perdu</strong> fu addormentato appoggiò la<br />
faccia tra i capelli di lui, e pianse a sua volta.<br />
128<br />
CAPITOLO XVII<br />
Del nonno, <strong>Perdu</strong> si era quasi del tutto dimenticato, ormai.<br />
Gli aveva parlato soltanto una volta, due mesi dopo la<br />
sua assunzione al servizio di Vissenti Tankis, incontrandosi<br />
con lui a Terreluxi, di notte, nella casa di tziu Diegu Puddu.<br />
Sisinnio Puddu, figlio di tziu Diegu, era venuto a chiamarlo<br />
nel pomeriggio, annunziandogli con fare misterioso<br />
che “una persona” desiderava parlargli. Non era difficile<br />
capire chi potesse essere quella persona. Per un momento<br />
<strong>Perdu</strong> era stato dubbioso se andare o no. I carabinieri di<br />
Iddarta, i quali lo avevano numerose volte sentito come testimone<br />
nelle indagini circa l’uccisione di Efisio Manzella,<br />
ed ai quali <strong>Perdu</strong> aveva raccontato in proposito la schietta<br />
verità, lo avevano ammonito che se si fosse incontrato con<br />
tziu Manueli Vargiu doveva avvertirli immediatamente; se<br />
non lo avesse fatto, essi lo avrebbero tratto in arresto come<br />
favoreggiatore di un bandito. <strong>Perdu</strong> non aveva promesso<br />
niente ai carabinieri, si capisce, malgrado tutte le loro minacce,<br />
e comunque si sarebbe ben guardato dal metterli<br />
sulle tracce di tziu Manueli. Tuttavia, quando Sisinnio Puddu<br />
gli ebbe fatto l’imbasciata, la paura che i carabinieri venissero<br />
a saperlo e mettessero in atto le loro minacce, lo<br />
rese un poco perplesso. Decise però che sarebbe andato.<br />
Tziu Peppi Ollargiu non fece alcuna difficoltà a che <strong>Perdu</strong><br />
si allontanasse.<br />
L’incontro era avvenuto di prima notte. La casa di tziu<br />
Diegu era un po’ staccata dall’abitato di Terreluxi, e per<br />
questo, forse, tziu Manueli vi faceva capo.<br />
Il nonno portava a tracolla il fucile. Era molto invecchiato<br />
in quei due mesi, il “maureddu”.<br />
– Ti avevo detto quel giorno – disse il nonno – di venire<br />
a casa e aspettarmi. Perché non l’hai fatto?<br />
129
PERDU<br />
– Si era dimenticato Vustè – disse <strong>Perdu</strong> con una arroganza<br />
mai usata prima col nonno – di dirmi come potessi<br />
fare a campare, qui solo, nel mentre che attendevo Vustè.<br />
– Ah – disse Manueli Vargiu – ed è per questo che ti<br />
sei scelto come padrone Vissenti Tankis?<br />
– No – disse <strong>Perdu</strong> – non l’ho scelto. Mi ha scelto lui.<br />
– Qui – disse il nonno – avresti trovato lavoro dovunque.<br />
Anche Diegu ti avrebbe preso. E come ti tratta Vissenti<br />
Tankis?<br />
– Bene – disse <strong>Perdu</strong> asciutto asciutto.<br />
– Sei andato da lui perché credevi che fosse lui tuo<br />
padre? – domandò con una punta di scherno Manueli<br />
Vargiu.<br />
– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>, irritato. – Debbo venire a capo<br />
di questo, se Dio vuole.<br />
– E che dice Vissenti Tankis? Ti considera figlio?<br />
<strong>Perdu</strong> fissò il nonno.<br />
– No – disse lentamente – mi considera servo. Non è<br />
lui mio padre, qualunque cosa dica la gente. Ma vedrà Vustè<br />
che scoprirò chi sia veramente quel disgraziato. Lo saprò<br />
in ogni caso. Ma Vustè, da me, voleva qualcosa?<br />
– Niente, volevo solo vederti – disse il nonno grattandosi<br />
la barba. E la sua voce pareva essersi piegata a una<br />
sfumatura di dolcezza.<br />
– Lo sa Vustè che i carabinieri del re stanno facendo<br />
di tutto per arrestarlo?<br />
– Lo so – disse Manueli Vargiu con olimpica indifferenza.<br />
Dopo questo incontro <strong>Perdu</strong> non aveva mai più rivisto<br />
il nonno, e gli sembrava quasi di averne dimenticato anche<br />
le fattezze. La taciuta avversione che <strong>Perdu</strong>, col passare<br />
dei giorni, si era abituato a nutrire verso tutti i suoi simili,<br />
non aveva risparmiato neppure Manueli Vargiu. Che<br />
gusto era stato il suo di ammazzare Efisio Manzella e di<br />
darsi alla macchia, lasciando <strong>Perdu</strong> tra le canne, a pensare<br />
a se stesso? La vendetta? E qual risultato aveva ottenuto da<br />
130<br />
Capitolo XVII<br />
codesta vendetta, se ora doveva vivere braccato come una<br />
lepre? E poi che vendetta? Di qual natura era il torto che<br />
Efisio Manzella aveva fatto al nonno? Gli aveva ucciso la<br />
figlia, certo, ma il nonno non ignorava – lo aveva detto lui<br />
stesso sul treno di Cagliari – che Efisio Manzella aveva veramente<br />
trovato un uomo nella camera con lei.<br />
Tziu Manueli Vargiu tornò in primo piano nei pensieri<br />
di <strong>Perdu</strong>, una mattina degli ultimi di aprile.<br />
<strong>Perdu</strong> si alzava presto la mattina, soltanto un’ora o<br />
un’ora e mezzo dopo che Maddalena se n’era andata.<br />
C’erano da rigovernare le bestie e riassettare le stalle e<br />
portare in cucina il latte di pecora munto dai pastori per<br />
il fabbisogno della casa.<br />
Quella mattina <strong>Perdu</strong> trovò in cucina le fantesche che<br />
preparavano il pane. La confezione del pane, in <strong>Sardegna</strong>,<br />
è come una liturgia. Nelle grandi case, essa si svolge<br />
di notte al pari di una segreta e santa funzione. Le donne<br />
lavorano la pasta e cantano le loro dolci e malinconiche<br />
nenie. Poi pasta e donne per un poco riposano. Poi si riprende<br />
il canto e il lavoro interrotto. Poi riposo, poi di<br />
nuovo lavoro. E così fino a giorno.<br />
<strong>Perdu</strong> capitò nella pausa della lavorazione che precede<br />
l’“arrotondamento” dei bianchi pani, cioè il compimento<br />
definitivo dell’opera notturna. Le donne sedevano in un<br />
angolo della cucina, su bassi scanni, la ruota delle gonne<br />
afflosciata per terra; e spettegolavano.<br />
<strong>Perdu</strong>, entrando, udì che tzia Licca Pilloni, la più anziana<br />
delle domestiche, diceva:<br />
– Ve lo dico io, era proprio Manueli Vargiu, altro che<br />
quel Rizzieri. Io ne sono così sicura che potrei giurarlo.<br />
Interdetto, <strong>Perdu</strong> si arrestò. Stavano parlando del nonno.<br />
– Ma com’è possibile – diceva un’altra fantesca – una<br />
cosa così incredibile? Io non ci credo.<br />
– Ve lo dico io – ripeté Licca Pilloni – era Manueli<br />
Vargiu. Quando ebbe sentito il genero che sfondava da<br />
fuori la porta, lui se la filò per la finestra perché già c’era<br />
131
PERDU<br />
dell’odio fra loro. E così quella povera Angiuledda ci ha<br />
lasciato la pelle.<br />
– Povera non tanto – diceva una seconda domestica –<br />
anche a lei piaceva fare la cavalla.<br />
<strong>Perdu</strong> irruppe nella cucina, stupito. Che cos’era quella<br />
storia del nonno che si era trovato nella camera ed era<br />
saltato dalla finestra? Il nonno? Che assurdità era mai questa?<br />
Il nonno era l’uomo tanto da lui cercato? Pazzie! Se<br />
n’erano sentite tante sull’identità di questo uomo! Ma donde<br />
nasceva adesso questa nuova versione? Lentamente,<br />
come da sottoterra (lentamente è un modo di dire poiché<br />
nella sua testa le idee zampillavano fulminee), emerse in<br />
lui il ricordo di quella volta che sul treno di Cagliari il<br />
nonno aveva detto: «Ero io, quell’uomo!». E <strong>Perdu</strong> aveva<br />
creduto che volesse soltanto scherzare.<br />
Le donne, al suo arrivo improvviso nella cucina, cambiarono<br />
discorso:<br />
– Che bellezza se egli l’avesse sposata! – disse una,<br />
tanto per dire qualcosa.<br />
Tzia Licca disse:<br />
– Est hora, piccioccas, è l’ora di “arrotondare”.<br />
Ma una giovane domestica non si seppe trattenere, e<br />
disse rivolta a <strong>Perdu</strong>:<br />
– Tuo nonno era, quell’uomo, lo sapevi?<br />
<strong>Perdu</strong> guardò tutte quelle donne con odio, e per la prima<br />
volta nella sua vita capì da se stesso che non era più<br />
ormai un bambino.<br />
– Chi è che lo dice? – domandò alla servetta che aveva<br />
fatto la spia.<br />
– Tzia Licca, lo dice – rispose la servetta.<br />
132<br />
CAPITOLO XVIII<br />
<strong>Perdu</strong> rivide il nonno per la seconda volta ai primi di<br />
giugno. Tziu Peppi Ollargiu gli aveva comandato di portare<br />
a Tinì delle provviste di cibi ai pastori che colà trascorrevano<br />
l’estate con il bestiame. Si trattava di fare sei ore di<br />
cammino a dorso di cavallo e di trattenersi al “medau” almeno<br />
otto giorni perché uno degli uomini doveva scendere<br />
in paese per sue necessità.<br />
<strong>Perdu</strong> non si attendeva di trovare lassù il nonno, ma lo<br />
desiderava fortemente. Dal giorno in cui egli aveva trovato<br />
le donne nella cucina ed aveva saputo che il nonno non<br />
per ischerzo ma per davvero poteva essere l’uomo che si<br />
era trovato nella camera con la madre, egli non bramava<br />
che di trovarsi a tu per tu con tziu Manueli, per chiedergli<br />
spiegazioni. Gli era entrato nell’anima il rovello che le<br />
chiacchiere di tzia Licca Pilloni non fossero semplice maldicenza.<br />
Il ricordo del giorno in cui, sul treno di Cagliari, il<br />
nonno gli aveva detto «ero io, quell’uomo», sempre gli si<br />
riaffacciava alla mente, e sempre più lo tormentava. Ed egli<br />
che aveva creduto ad una burla del nonno. Ma com’era<br />
possibile questo? Non c’era altra via per uscire dall’incertezza,<br />
che domandarlo direttamente a tziu Manueli.<br />
<strong>Perdu</strong> fece sapere a tziu Diegu Puddu che stava per recarsi<br />
a Tinì; sperava in tal modo che la notizia giungesse alle<br />
orecchie del nonno e che questi potesse colà raggiungerlo.<br />
Tinì è distante molte miglia da Iddarta; ed è situato proprio<br />
nel cuore di quella zona montagnosa e vergine in cui<br />
nessun villaggio, nessuna presenza umana s’incontra, fuorché<br />
l’apparizione sporadica di qualche barbuto pastore, fino<br />
alle sponde del mare sul golfo di Teulada. Tinì è una<br />
regione veramente sarda, nella sua selvaggia primitività e,<br />
sotto questo aspetto, è meravigliosa. Le solitudini di quegli<br />
spazi esaltano lo spirito e lo circondano di una pace perfetta<br />
e quasi terrificante. Non c’è nulla o ben poco che ricordi<br />
133
PERDU<br />
il passaggio dell’uomo: le casupole dei “medaus”, le siepi<br />
dei “chiusi”, alcuni stretti sentieri. Il resto è in balìa della<br />
natura. E la natura sconvolge superbamente le cose sue, sì<br />
che gli spettacoli che qui si spalancano paiono creati nella<br />
concitazione di una passeggera ma stupefacente follia.<br />
I pruni, i sugheri, i lentischi, i peri selvatici, gli olivastri e i<br />
mirti coprono i colli e le valli capricciosamente e tumultuosamente,<br />
tranne che in certi luoghi, dove si diradano per<br />
lasciare che trapeli la nuda cervice del monte, cioè la roccia,<br />
non protetta da un solo dito di musco. Forti e piegate,<br />
come per sofferenza, le querce addentano con radici raggianti<br />
la poca terra. Tutta la vegetazione ha un colore verde<br />
cupo, nemico, a meno che non sia primavera, quando fra il<br />
verde scoppiano con letizia i corbezzoli rossi, grandi come<br />
le arance, per i quali, allora, pare che la selva sorrida.<br />
A Tinì, Vissenti Tankis possedeva un “medau”. Vi sono<br />
nel Sulcis “medaus” costituiti da un vero e proprio minuscolo<br />
villaggio ove la gente abita in modo stabile, attendendo<br />
all’allevamento del bestiame, ed altri che invece si<br />
riducono ad un vasto recinto, coperto di una tettoia di rame,<br />
che serve per radunarvi le pecore durante la notte e<br />
nelle ore della “cama”, cioè della canicola, affiancato ad<br />
un baracchino di legno e di sassi per dar ricovero agli uomini.<br />
Il “medau” di Tinì era di questo secondo tipo.<br />
L’attesa di <strong>Perdu</strong> non restò inappagata. Manueli Vargiu<br />
arrivò a Tinì due giorni dopo l’arrivo di <strong>Perdu</strong>.<br />
Era appena avvenuto il tramonto, e l’odore dei mirti,<br />
sovrastante tutti gli altri profumi della selva, si era fatto dolcissimo.<br />
Manueli Vargiu comparve improvvisamente come<br />
una figura sinistra, balzata dalla stessa selvatichezza del<br />
luogo, eppur contrastante con la stanca serenità della sera.<br />
Il vecchio “maureddu” portava, come l’altra volta, il fucile<br />
a tracolla, ma con le canne rivolte in giù, in modo da avere<br />
la possibilità di impugnarlo rapidamente e puntarlo, sia<br />
pure rovesciato, senza sfilarlo dalla spalla. Con questa manovra,<br />
appunto, Manueli Vargiu si era quasi trovato costretto<br />
ad accoppare il cane del “medau” che, quando l’aveva visto<br />
134<br />
Capitolo XVIII<br />
sbucare dai cespugli, gli si era slanciato temerariamente contro<br />
per azzannarlo.<br />
<strong>Perdu</strong> dovette spiegare al pastore col quale stava in<br />
quel momento conversando, e che era rimasto stupito e<br />
un po’ preoccupato di quella apparizione, che si trattava<br />
di suo nonno.<br />
– Che vuoi? – disse subito Manueli Vargiu a <strong>Perdu</strong>,<br />
senza perdersi in cerimonie, e come si fossero lasciati appena<br />
ieri.<br />
– Debbo parlare a Vustè – disse <strong>Perdu</strong> con altrettanta<br />
prontezza.<br />
“Seme d’oliva” era cresciuto, oltreché d’età e di esperienza,<br />
anche di statura. Stando in piedi davanti al nonno,<br />
quasi lo sovrastava.<br />
– Non qui – disse il nonno – scendiamo più in basso<br />
dove ho lasciato il cavallo. Tu non ti muovere – aggiunse<br />
in tono perentorio, rivolto al pastore. – “In nomine ’e<br />
Deus” non ti muovere. E se venisse qualcuno, avventagli<br />
contro il cane e lascialo abbaiare forte, capito?<br />
Il cavallo del nonno attendeva nel folto di una grande<br />
macchia di alloro. Qui tziu Manueli e <strong>Perdu</strong> si fermarono.<br />
– Cos’hai da dirmi? – domandò ancora il “maureddu”.<br />
Ma senza attendere risposta aggiunse: – Ti sei innamorato di<br />
Vissenti Tankis o di sua figlia, per non farmi sapere più se<br />
sei vivo o crepato, e per non informarti se sono crepato io?<br />
– Mi sono innamorato della figlia – disse <strong>Perdu</strong> con<br />
fatuità. – Tutte le notti viene a dormire con me.<br />
Il nonno armeggiava per caricare la pipa. Stava in piedi,<br />
accanto alla testa bruna del piccolo cavallo, che, tratto<br />
tratto, scoteva la criniera e sbuffava. Il cielo era ancora<br />
perlaceo e l’aria alitava affettuosamente, dolce e placida.<br />
– Oh! E tu la…? – chiese il nonno con molta naturalezza.<br />
– No – disse <strong>Perdu</strong> ridendo. To’, non aveva ancora<br />
pensato a una eventualità di tal genere, e la cosa gli appariva,<br />
in quel momento, buffa. Non considerava assolutamente<br />
che il solo pensare una simile stupidità era già<br />
135
PERDU<br />
recare oltraggio alla soave innocenza di Maddalena.<br />
– Stai bene? – disse Manueli Vargiu. – Mangi e bevi?<br />
Se questo c’è, tutto c’è. Che hai da dirmi, nipote?<br />
– Jaju – cominciò <strong>Perdu</strong> facendosi scuro in volto. – Vustè<br />
deve dirmi chi era l’uomo che si trovava con mia madre<br />
quella notte.<br />
Manueli Vargiu guardò il nipote molto a lungo e in silenzio.<br />
Era il suo modo di manifestare sorpresa e inquietudine.<br />
La cannuccia della sua pipa friggeva piano. Dopo<br />
un bel po’, disse lentamente:<br />
– Ero io. Te l’ho già detto una volta.<br />
– Ma allora è vero! – disse <strong>Perdu</strong>, quasi gridando e<br />
stringendo i pugni. – Ma, è vero, o Vustè sta scherzando?<br />
Il cavallo di tziu Manueli, sorpreso dalle grida di <strong>Perdu</strong>,<br />
aveva voltato la testa e, come affacciandosi al disopra<br />
della spalla del nonno, osservava il ragazzo con molta curiosità.<br />
I suoi occhi grandi, rotondi e neri, visti così da vicino<br />
sembravano pieni di ombre e di malinconia. Sembravano<br />
pieni di bontà, forse di compassione. Chi può dire<br />
se le bestie non hanno compassione degli uomini?<br />
– Non scherzo – disse il nonno alzando le spalle – è<br />
vero.<br />
Sembrò che <strong>Perdu</strong> avesse ricevuto un pugno alla bocca<br />
dello stomaco. Realmente sentiva dolere le viscere come<br />
per una percossa al ventre. Le mani che ancora teneva<br />
chiuse strettamente a pugno, con lentezza si schiusero; ma<br />
un fremito ne percorreva i tendini, come se esse aspettassero<br />
l’ordine per afferrare Manueli Vargiu e strozzarlo.<br />
Gli occhi del “maureddu”, piantati sull’intera figura di<br />
<strong>Perdu</strong>, parevano indovinare ogni sua più profonda reazione<br />
nervosa; pareva che trapassassero abiti e pelle, e vedessero<br />
agitarsi i comandi della volontà e le terminazioni dei<br />
muscoli del ragazzo. Infatti quando – fu un attimo – <strong>Perdu</strong><br />
accennò, solamente accennò (chissà, forse vacillò soltanto),<br />
a slanciarsi in avanti, tziu Manueli con una terribile<br />
prontezza rialzò da dietro la schiena le canne del fucile<br />
che teneva a tracolla e:<br />
136<br />
Capitolo XVIII<br />
– Guardati! – gridò. Poi aggiunse con voce più calma<br />
ma vibrante e netta: – Sei un imbecille, “piccioccu”, per<br />
quello che pensi e che stavi facendo. Ma che credi?<br />
– Jaju – disse <strong>Perdu</strong>, tornando in sé, con tono di voce<br />
sommesso e triste, – non mi faccia del male –. E non si<br />
capì (nemmeno lui lo capiva) se alludesse alle canne del<br />
fucile rialzato o alle spiegazioni che tziu Manueli pareva<br />
voler dare.<br />
– Ero io, sicuro – disse il vecchio, – ma non andavo<br />
per… (<strong>Perdu</strong> si sentì camminare lungo la spina dorsale<br />
una punta di freddo ghiaccia, e una sensazione remota di<br />
vomito risalì verso la gola). Non… che pazzie! Ero venuto<br />
per trovare mia figlia. Era mia figlia, no? Quello non voleva<br />
che io la vedessi. Io volevo invece vederla. Una volta<br />
tanto! Tu eri già addormentato, quella sera. Credevo che<br />
“lui” non tornasse. Invece tornò. È tutto qui.<br />
– Ma perché? – chiese <strong>Perdu</strong> quasi piangendo – perché<br />
Vustè non ha detto tutto questo, mai, a nessuno?<br />
– Credi che sarebbe servito a qualcosa? Tutti avrebbero<br />
pensato che… Se lo hai pensato perfino tu!<br />
– Ma perché, allora, Vustè non è rimasto a casa quando<br />
arrivò Efisio Manzella? Perché Vustè ha lasciato che sua<br />
figlia venisse ammazzata? Perché non ha detto a Efisio<br />
Manzella «guarda che sono io»? Perché Vustè se n’è andato?<br />
Perché?<br />
Tziu Manueli pareva sopraffatto dall’impeto con cui<br />
<strong>Perdu</strong> parlava. Si aveva l’impressione che il ragazzo, parlando,<br />
cercasse di sbarazzarsi con furia dei dubbi che, come<br />
serpi, gli mordevano il cuore.<br />
– Era geloso – disse tziu Manueli.<br />
– Chi? – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
– Issu – disse il nonno. – Efisio Manzella.<br />
– Geloso?<br />
– Geloso. Già, era geloso di me. Non voleva che tua<br />
madre parlasse con me. Quell’idiota!<br />
– Ma perché?<br />
– Chiediglielo, se lo vedi!<br />
137
PERDU<br />
– Forse perché Vustè non voleva che mamai lo sposasse?<br />
– Forse.<br />
– E perché non voleva, Vustè? – chiese <strong>Perdu</strong>.<br />
Il cielo andava facendosi cupo. Nell’oriente comparve,<br />
grossissima, la stella di Vespero.<br />
– Non mi piaceva, “issu” – disse Manueli Vargiu –<br />
mah!, forse temevo che doveva finire così. Ora è tardi, nipote,<br />
debbo andare.<br />
– Ascolti, jaju – disse <strong>Perdu</strong>. – Perché di tutto questo,<br />
almeno a me, Vustè non me ne aveva mai parlato?<br />
– Perché solo adesso mi accorgo – disse il “maureddu”<br />
con accento di grande sincerità – che sei diventato un uomo.<br />
Prima che cosa eri? –. E aggiunse ridendo e mettendosi<br />
in sella: – Eri una foglia di ficodindia appena spuntata.<br />
Adios, <strong>Perdu</strong>, non avere timore.<br />
– Ancora una cosa, jaju – disse <strong>Perdu</strong> trattenendo il<br />
cavallo per il morso. Fece una pausa. Poi disse con voce<br />
accorata: – Vustè non sa proprio chi sia, mio padre?<br />
Il nonno guardò tra le orecchie del cavallo fissamente.<br />
– Non lo so, <strong>Perdu</strong> – disse. – Solo Dio lo sa, se lo sa.<br />
Deus scit tottu, così dicono. Ma degli uomini nessuno sa<br />
con certezza chi sia suo padre.<br />
<strong>Perdu</strong> chinò il capo.<br />
– Va bene – disse – adiosu, jaju.<br />
Tornato a Iddarta, <strong>Perdu</strong> mise alle strette tzia Licca Pilloni.<br />
Voleva sbugiardarla.<br />
– Sissi – disse <strong>Perdu</strong> alla vecchia serva – andatelo pure<br />
a ridire che c’era mio nonno in casa con mia madre la<br />
notte che fu uccisa. È vero. Anche mio nonno riconosce<br />
che è vero. E con questo? Era andato a trovarla perché era<br />
sua figlia. Era sua figlia, no?<br />
– Poveretto! – disse tzia Licca con lingua viperina, incurante<br />
del male che poteva fare al ragazzo. – Poveretto!<br />
Era andato a trovarla come figlia, eh? Perché non ci andava<br />
di giorno?<br />
Era un’obiezione sensata, pensò <strong>Perdu</strong>. Perché proprio<br />
138<br />
Capitolo XVIII<br />
di notte e per di più a notte fonda? Forse per non farsi vedere<br />
dalla gente che avrebbe poi potuto riferirlo a Efisio<br />
Manzella. <strong>Perdu</strong> comunque si rammaricava di non aver<br />
fatto la stessa obiezione al nonno. Forse egli avrebbe potuto<br />
chiarire anche questo punto.<br />
Ma tzia Licca non aveva finito.<br />
– Guardate, a trovare la figlia! E perché è scappato<br />
dalla finestra? E perché non ha mai parlato neanche davanti<br />
alla giustizia, lui che ci teneva tanto a mandare Efisio<br />
Manzella in galera? Se avesse detto che era lui quell’uomo,<br />
e che era andato a trovare la figlia con oneste intenzioni,<br />
Efisio Manzella non sarebbe tornato a casa così presto. Ma<br />
i giudici, a Manueli Vargiu, gnèffete che gli avrebbero creduto.<br />
E gli dovrei credere io? Digli che lo venga a dire a<br />
me, che so cosa rispondergli. Due anni è stata Angiuledda<br />
Vargiu in questa casa, non un giorno, due anni. Era buona,<br />
lei. “Issu” l’ha rovinata, sua figlia. Me lo ha detto lei.<br />
Non me lo sono inventato io; me lo ha confidato proprio<br />
lei, in queste orecchie!<br />
– E stia zitta – urlò <strong>Perdu</strong>, avventandosi sulla vecchia e<br />
afferrandole le braccia. Il viso del ragazzo era veramente<br />
stravolto. Le cose che la donna diceva tanto più gli facevano<br />
male, quanto più gli apparivano, chissà perché, vere e<br />
irrefutabili.<br />
Tzia Licca tacque, ma per poco. Vecchia com’era, e<br />
brutta e scarmigliata, chinò la testa da un lato e disse, comicamente,<br />
a <strong>Perdu</strong> che continuava a tenerla:<br />
– Agnello mio, ma tu sai chi è tuo padre?<br />
<strong>Perdu</strong> lasciò la presa. Le mani gli caddero pesantemente<br />
lungo i fianchi, e il volto gli si sbiancò.<br />
– No. Chini est? – disse con un filo di voce.<br />
– Issu est! – disse con voce stridula tzia Licca Pilloni, ridendo<br />
a crepapelle. – È tuo nonno. Tuo padre è tuo nonno.<br />
Ma tu non lo sapevi? Ah, ah, tuo padre è tuo nonno, e<br />
tuo nonno è tuo padre, ah, ah! Non lo sapevi? –. E rideva,<br />
rideva, come se fosse diventata scema, oppure come se si<br />
divertisse veramente molto.<br />
139
CAPITOLO XIX<br />
Tziu Manueli Vargiu fu catturato alla fine di quello<br />
stesso mese di giugno in cui era avvenuto il suo ultimo incontro<br />
con <strong>Perdu</strong> presso il “medau” di Tinì.<br />
Si sarebbe detto che il vecchio si fosse ormai rassegnato<br />
a lasciarsi prendere, perché non aveva opposto la<br />
minima resistenza ai carabinieri che lo arrestarono, non<br />
solo, ma era caduto nella trappola che quelli gli avevano<br />
tesa, con una ingenuità troppo grossolana per un uomo<br />
che aveva saputo tenere in scacco le forze dell’ordine per<br />
quasi due anni. Ed infatti, consegnandosi ai carabinieri e<br />
offrendo i polsi alle manette, aveva detto con insolenza:<br />
– Avevo compassione di voi. Mi dispiaceva vedervi<br />
ancora faticare per prendermi.<br />
<strong>Perdu</strong> ebbe notizie della cattura il giorno successivo.<br />
La cosa ch’egli subito desiderò, fu di parlare immediatamente<br />
con tziu Manueli. Non si preoccupò minimamente<br />
del fatto che il nonno si trovasse in prigione.<br />
Le condizioni del ragazzo, dopo l’episodio del colloquio<br />
con tzia Licca Pilloni, si erano fatte allarmanti. Egli<br />
pareva impazzito. Lunghe ore se ne stava disteso sul nudo<br />
pavimento, lassù nel pagliaio, senza né vedere né comprendere<br />
niente. L’idea che la vecchia ancora una volta<br />
potesse avere ragione gli dava acuti deliri. Egli non riusciva<br />
realmente a capacitarsi della enormità ch’era nelle parole<br />
della domestica. Ma le frasi di lei gli rimbombavano<br />
dentro le orecchie, come il fragore delle ruote di venti carri<br />
di grano marcianti tutti insieme su una strada rocciosa.<br />
Era anche la malaria che, risvegliatasi nelle sue vene,<br />
gli fustigava il giovane corpo, già provato duramente dalla<br />
crisi di una troppo rapida crescita. Spesso la fronte gli ardeva,<br />
gli occhi gli si facevano lucidi, il capo accusava vertigini<br />
e nella bocca compariva la sensazione di un invincibile<br />
140<br />
disgusto. Erano i sintomi della perfida febbre malarica.<br />
A causa di tali sue condizioni, <strong>Perdu</strong> non poteva più<br />
recarsi al lavoro. Maddalena Tankis, sfidando ormai apertamente<br />
le ire paterne ed ogni malevola interpretazione<br />
che da qualunque parte potesse darsi alla sua condotta –<br />
il che, per una ragazza sulcitana, è come scendere in<br />
campo contro tutti, e romperla con le tradizioni, il riserbo<br />
e il senso stesso della castigatezza, cui ogni donna, là, è<br />
ferreamente tenuta – si recava anche di giorno e per lunghissime<br />
ore, presso il giaciglio di <strong>Perdu</strong>. Gli aveva anzi<br />
proposto di lasciarsi trasferire nella casa padronale, almeno<br />
fino a che fosse guarito. Ma <strong>Perdu</strong> si era sempre recisamente<br />
rifiutato.<br />
– Non ho nulla – diceva, anche quando era febbricitante<br />
– non ho nulla. Vustè, non si prenda preoccupazione<br />
per me.<br />
Nemmeno si era deciso, mai, a rivelare a Maddalena<br />
le vere ragioni della sua sofferenza interiore.<br />
– Non ho niente, Vustè, non ho niente – era il suo ritornello.<br />
– Ma hai la “temperie”, <strong>Perdu</strong>, sei malato – diceva<br />
Maddalena.<br />
– Se muoio, tziedda, non le darò più tanto fastidio.<br />
Dica che mi sotterrino sotto una siepe di fichidindia. Così<br />
nessuno, per paura di pungersi, verrà a cercarmi. Non mi<br />
faccia sotterrare a Terreluxi. Non voglio andare a Terreluxi.<br />
Là ci sta “issa” – alludeva alla madre. – Non voglio tornare<br />
con lei. Nemmeno morto.<br />
– Sei pazzo, <strong>Perdu</strong> – diceva Maddalena – la febbre ti<br />
dà il delirio. Farò venire il dottore.<br />
– Non lo faccia, Vustè. No, non lo faccia. Scapperei.<br />
Non ho voglia di vedere nessuno. Se a Vustè faccio pena,<br />
non ci venga, se ne stia a casa sua. Là c’è fresco…<br />
«Agnello mio, ma tu sai chi è tuo padre? È tuo nonno.<br />
Non lo sapevi? Issu est, issu est, non lo sapevi? Non io me<br />
lo sono inventato; me l’ha confidato tua madre. Issu est».<br />
141
PERDU<br />
Fra il delirio della febbre, queste erano le parole che gli<br />
tornavano tormentose nella memoria. E il riso di tzia Licca<br />
Pilloni, sinistro, come il gracchiare di uno sciame di corvi,<br />
gli rimbalzava contro le pareti del cranio, incessante.<br />
Per tutta la vita, sostanzialmente, egli era andato alla<br />
caccia affannosa di risolvere quel problema: chi è mio padre?<br />
Questo era stato l’interrogativo angoscioso attorno al<br />
quale aveva ruotato fino a quel giorno la sua esistenza. Mille<br />
volte aveva desiderato conoscere il misterioso genitore;<br />
mille volte, disperato, gli aveva mandato cocenti maledizioni.<br />
Ora ecco: l’uomo, il nome, il volto che gli erano sempre<br />
sfuggiti, che sempre si erano sottratti alle sue ossessionanti<br />
ricerche, di colpo si rivelavano, di colpo il mistero si squarciava,<br />
e l’uomo il nome il volto si concretavano in… Oh,<br />
mio Dio, non è possibile, oh no, non può essere possibile!<br />
«Issu est». Per quattordici anni, quanti <strong>Perdu</strong> ormai ne<br />
contava, persistente e ossessiva era stata l’attesa: chi è mio<br />
padre? Chi è mio padre? «Vedrà Vustè» aveva detto <strong>Perdu</strong><br />
un giorno a tziu Manueli Vargiu «che scoprirò finalmente<br />
chi è quel disgraziato. Lo saprò in ogni caso». Ecco, lo<br />
aveva saputo: «Issu est!». Tutte le soluzioni poteva egli<br />
considerare possibili. Ma questa no, questa no!<br />
La notizia della cattura del nonno fu recata a <strong>Perdu</strong> da<br />
Maddalena Tankis, naturalmente. Era la sola persona che<br />
lo avvicinasse, ormai, tolta qualche fugace visita di tziu<br />
Peppi Ollargiu, il quale, andandosene, scrollava ogni volta<br />
la testa e ripeteva tra sé il vecchio proverbio sulcitano:<br />
«Pianta di lentischio, non dà che olio di semi».<br />
<strong>Perdu</strong> disse a Maddalena:<br />
– Bisogna che gli parli, tziedda, prima che lo portino<br />
via. Devo chiedergli una cosa molto importante, sa, Vustè?<br />
– A tuo nonno? E che cosa? – aveva domandato Maddalena.<br />
– Quello che sono venuto a chiedere a tziu Vissenti<br />
Tankis, il giorno che arrivai qui, si ricorda? Vustè – proseguì<br />
<strong>Perdu</strong> – è ancora convinta che tziu Vissenti Tankis sia<br />
davvero mio padre?<br />
142<br />
Capitolo XIX<br />
– Certo, <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena – perché non dovrebbe<br />
esserlo più?<br />
– Perché non lo è mai stato! – urlò <strong>Perdu</strong>. – No e no!<br />
– e nella mente gli martellavano le tre sillabe: Issu est, issu<br />
est, issu est.<br />
– Vedrai, <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena passandogli le mani<br />
sui capelli soavemente. – Babai finirà per convincersi e<br />
ti accetterà come figlio. Perciò pensa a guarire, e lasciati<br />
curare…<br />
143
CAPITOLO XX<br />
Giugno, in sardo, è detto “il mese dei lampi”, che è<br />
un’espressione, oltreché suggestiva, felice, poiché veramente<br />
in quel mese, laggiù, il caldo è tanto che par che<br />
l’aria abbarbagli e lampeggi.<br />
Era infatti una lampeggiante giornata di sole quella in<br />
cui <strong>Perdu</strong>, per la terza volta dopo l’uccisione di Efisio<br />
Manzella, si incontrò con tziu Manueli Vargiu.<br />
Il carcere mandamentale di Iddarta, dove il vecchio si<br />
trovava rinchiuso e dove <strong>Perdu</strong> si recò a trovarlo, è poco<br />
distante dalla piazza di chiesa.<br />
Il capo-carcere Fideli Aresu introdusse <strong>Perdu</strong> nel corridoio<br />
della prigione; è lì che si svolgono generalmente i<br />
colloqui con gli arrestati, sotto la sorveglianza di un secondino;<br />
ma poiché laggiù le regole carcerarie sono ammorbidite<br />
da una interpretazione un po’ campagnola e quasi<br />
familiare, Fideli Aresu, data un’occhiata a <strong>Perdu</strong> e forse<br />
colpito dalla sua aria sgomenta, non ebbe difficoltà a far<br />
passare il ragazzo direttamente nella cella di isolamento<br />
del recluso.<br />
<strong>Perdu</strong> sentiva il proprio cuore sbattere dentro il torace,<br />
come fanno dentro la gabbia gli uccelli che non patiscono<br />
cattività.<br />
Tziu Manueli indossava ancora il costume “maureddu”<br />
con le monetine per bottoni, tutte recanti la testa del<br />
re per emblema, di quel re che aveva pagato i gendarmi<br />
per catturare il gran vecchio.<br />
Il quale, rialzatosi all’apparire di <strong>Perdu</strong> dal saccone su<br />
cui giaceva, salutò il nuovo venuto con apparente gaiezza:<br />
– Salute, nipote, ho piacere di rivederti. Spero che ti<br />
spiaccia di trovarmi qua dentro. Ma non ti preoccupare poi<br />
tanto. Il cinghiale fugge dal cacciatore, ma quando diventa<br />
vecchio è lui stesso che gli si getta fra i piedi e cerca le fucilate.<br />
E io – aggiunse dopo un po’ – sono un cinghiale<br />
144<br />
vecchio –. Rise, stridulo, come se facesse il verso del barbagianni.<br />
Questo discorso, come <strong>Perdu</strong> notò, era per tziu Manueli<br />
uno spreco di loquacità. La prigione, evidentemente,<br />
apriva il suo cuore alla comunione con gli uomini.<br />
<strong>Perdu</strong> non disse niente.<br />
– Bah, questa, nipote – riprese tziu Manueli senza curarsene<br />
– è l’ultima volta che noi ci vediamo –. E, indicando<br />
con entrambe le mani il pavimento, aggiunse: – Qui –.<br />
Come per significare “in questo mondo”.<br />
– Fra un mese o due – disse ancora Manueli Vargiu<br />
con molta calma, – tuo nonno sarà bell’e fatto –. Si puntò<br />
l’indice di una mano alla tempia e fece il gesto di chi spari<br />
con la pistola; poi stropicciò fra loro le mani e concluse:<br />
– Acabau. Finito. Questa volta non ci sarà remissione<br />
per me. “Premeditazione” e “recidiva”! –. Compitò queste<br />
due ultime parole in italiano, storpiandole, e di nuovo rise,<br />
sempre col verso del barbagianni.<br />
– Fortuna che tu, agnello mio – terminò Manueli Vargiu,<br />
– sai ormai camminare con le tue proprie gambe.<br />
<strong>Perdu</strong> guardava il vecchio, allibito. Cercava di richiamare<br />
nel suo cuore i sentimenti tumultuosi che lo avevano<br />
sconvolto fino a un minuto prima. Invano. Il cuore<br />
pareva esserglisi svuotato d’un tratto. Ma egli non si sentiva<br />
per ciò sollevato; si sentiva invece stanchissimo, come<br />
colui che ha recato un pesante fardello per un lungo sentiero,<br />
e giunto alla meta depone il suo carico e quindi si<br />
accascia. La sua voce, quando gli uscì dalle labbra, era<br />
neutra e remissiva, quasi umile.<br />
– Jaju – disse – sono venuto per domandarle una cosa<br />
sola: è vero che Vustè è mio padre?<br />
<strong>Perdu</strong> era in piedi, con le spalle verso la porta. Anche<br />
tziu Manueli era in piedi, ritto dinanzi al ragazzo. La luce<br />
che spioveva dalla “bocca di lupo” investendo alle spalle<br />
il “maureddu” circonfondeva la sua figura e gli illuminava<br />
intensamente la chioma, la zazzera singolare e quasi muliebre<br />
dei vecchi sulcitani.<br />
145
PERDU<br />
Tacquero lungamente tutt’e due. Si percepivano dal<br />
cortile, attraverso la “bocca di lupo”, i ronzii dell’estate.<br />
– Ascolta, figliolo… – cominciò tziu Manueli, senza<br />
muovere un muscolo, e come se, così cupamente stagliato<br />
contro la chiarità della luce, fosse diventato di sasso.<br />
Di colpo l’angoscia riaffluì tempestosa, nel cuore sospeso<br />
di <strong>Perdu</strong>. E con l’angoscia, l’orgasmo e la paura.<br />
– È mio padre, sì o no? – urlò <strong>Perdu</strong>, avvinghiandosi,<br />
con le mani dietro la schiena, allo stipite della porta. Le<br />
sue unghie raschiavano il legno come zampe di cane.<br />
Altro silenzio, che a <strong>Perdu</strong> parve lunghissimo. E in<br />
quel silenzio un furore cupo, e tuttavia paralizzante, come<br />
se la paura lo frenasse e lo rallentasse, invadeva l’animo<br />
del ragazzo.<br />
– Forse! – disse Manueli Vargiu, quasi all’improvviso,<br />
con voce sommessa, levando una mano e passandosela<br />
sotto il mento, come per accarezzare sul rovescio la barba.<br />
<strong>Perdu</strong> si sentì raggelare e avvampare nel medesimo<br />
tempo. Sentì che le ossa, i muscoli, soprattutto le articolazioni<br />
delle ginocchia e dei gomiti erano attraversate da<br />
brividi, mentre il viso, e in particolar modo le orecchie,<br />
diventavano brucianti. O forse era tutto il contrario: non<br />
riusciva a capire più chiaramente. Freddo o caldo, egli fu<br />
scosso violentemente da sussulti e da scrolli, come un<br />
giovane albero sotto i primi colpi di scure.<br />
– Forse? Ma allora è vero? Allora mia madre ha fatto<br />
anche con Vustè…?<br />
Le unghie cessarono di raschiare la porta. Una forza,<br />
un impeto subitaneo svegliatosi nelle sue membra, lo sollecitava<br />
in avanti, verso la figura del vecchio che lo fissava.<br />
Ma una sorta di sorpresa lo fermò. Che cosa aveva<br />
detto? Quale il senso esatto delle parole che egli stesso<br />
aveva pronunziate? Non se n’era reso ben conto, dicendole.<br />
Fu il suono, il rumore che produssero piombando nel<br />
silenzio che gliene fece apparire chiaramente il significato.<br />
Appena ebbe compreso che quella domanda significava<br />
una cosa tremenda, fu invaso dallo stupore. Arretrando<br />
146<br />
Capitolo XX<br />
si appoggiò con la schiena al battente della porta, vi si<br />
schiacciò tutto contro, aderendovi per l’intera lunghezza del<br />
corpo, come se temesse di perdere l’equilibrio e cadere,<br />
oppure come se cercasse, col proprio peso, di sfondare il<br />
battente e fuggire all’indietro per allontanarsi da qualche<br />
cosa di spaventoso che gli si parava davanti. Si ricordò allora,<br />
improvvisamente, di quel remoto sogno che aveva fatto<br />
la notte in cui era stata uccisa sua madre. Manueli Vargiu<br />
camminava nella radura del bosco, e d’un tratto si convertiva<br />
in belva, in un essere immondo che i carabinieri del re…<br />
Sì, ricordava; egli era solo dinanzi a quella metamorfosi, ed<br />
aveva paura, come ora, e qualcuno urlava e urlava, ed era<br />
invece la mamma che Efisio Manzella stava uccidendo.<br />
– Ascolta… – disse nuovamente Manuele Vargiu, fissando<br />
a sua volta il ragazzo e stringendo gli occhi, sui<br />
quali le palpebre si accartocciavano come foglie morte.<br />
– Ascolto – disse docilmente <strong>Perdu</strong>. Anche aprire la<br />
bocca per dire questo, gli costava fatica. Lo stato di stupore<br />
perdurava. La paura gli si convertiva stranamente in<br />
una sorta di ebetudine attonita, quasi di estasi. Soltanto la<br />
nausea, avvertiva: un senso di disgusto e di vomito, che<br />
chissà per quanta parte era dovuto alla febbre malarica,<br />
chissà per quant’altra alla luce improvvisa che, come una<br />
rivelazione, gli aveva illuminato, così credeva, la mente.<br />
Manueli Vargiu si sedette pesantemente sul tavolaccio,<br />
con un tonfo sordo e attutito come di un sacco di crusca<br />
caduto in terra. Una riga di sole vivido, ora che il vecchio<br />
si era tolto d’innanzi, lambiva i piedi di <strong>Perdu</strong> scendendo<br />
obliqua dall’alto.<br />
– Io non so se sono o non sono tuo padre, “piccioccu”<br />
– prese a dire il “maureddu”.<br />
<strong>Perdu</strong> lo interruppe:<br />
– Lo è!<br />
– Non posso dirlo – proseguì tziu Manueli senza badare<br />
al ragazzo. – Io ti ho detto una volta che nessuno nel<br />
mondo può essere sicuro d’esser figlio di Fulanu piuttosto<br />
che di Nannai Peddis. Dio solo può dirlo.<br />
147
PERDU<br />
– È Vustè, mio padre – si ostinava <strong>Perdu</strong>, con gli occhi<br />
sbarrati.<br />
– Può darsi – disse il vecchio alzando le spalle e guardandosi<br />
le mani che teneva intrecciate fra le cosce, mentre i<br />
pollici, come sogliono fare i vecchi per passatempo, ruotavano<br />
velocemente l’uno attorno all’altro. Sembrava che egli,<br />
fatta quest’ammissione, non avesse proprio altro da dire.<br />
Il ragazzo guardò Manueli Vargiu seduto e chino: sembrava<br />
un coltello a serramanico dalla lama richiusa.<br />
Fu proprio nel considerare il vecchio così chino e raccolto,<br />
che <strong>Perdu</strong> si scrollò subitamente dal suo torpore.<br />
Curva e vasta era la schiena dell’uomo, e <strong>Perdu</strong>, risvegliatosi<br />
il suo animo all’ira, sentì l’impeto di saltargli addosso e<br />
riempirla, quella schiena, di pugni. Ma si trattenne. Disse:<br />
– Mamai, dunque… anche con Vustè!<br />
Ripeteva, in fondo, le parole già dette. Ma stavolta più<br />
consciamente e in tono non più di domanda, bensì di<br />
disprezzo e di accusa.<br />
– Con Vustè! Anche con Vustè!<br />
Il vecchio non dette risposta. <strong>Perdu</strong> aggiunse:<br />
– Ed era sua figlia, e Vustè era suo padre.<br />
Il vecchio taceva sempre.<br />
– Perché non parla? – gridò pieno di furore il ragazzo.<br />
Tziu Manueli volse in alto la faccia e guardò <strong>Perdu</strong><br />
con attenzione. Pareva curioso di leggergli in viso i pensieri.<br />
E pareva stupito, sia pure blandamente, di scorgervi<br />
la sofferenza.<br />
Si levò, puntellando le braccia sulle ginocchia e gemendo<br />
– ohi, ohi faceva – quasi gli seccasse di alzarsi e<br />
di entrare nella discussione.<br />
– Tua madre non c’entra – disse, quando fu in piedi.<br />
– Ero io che la costringevo. Che altro vuoi sapere da me?<br />
–. La sua voce, ora, era dura ed autoritaria.<br />
– Non ci credo – disse <strong>Perdu</strong>. Ma, rapida ed improvvisa,<br />
giunse sulla faccia di lui una percossa sonora.<br />
– Ah! – fece <strong>Perdu</strong>, e si portò la mano incerta sulla parte<br />
dolente del viso. Non disse altro. L’ira si placò, il cervello<br />
148<br />
Capitolo XX<br />
prese a ronzargli. Sembrava che dentro la testa non avesse<br />
pensieri, ma suoni, come se uno sciame di api vi fossero<br />
entrate non diversamente che in un’arnia. E tuttavia percepì<br />
quel che tziu Manueli a un certo punto aveva detto.<br />
Tziu Manueli aveva detto:<br />
– Non era mia figlia.<br />
– Non era? – domandò <strong>Perdu</strong> a voce alta, stupito. Ma<br />
poi gli parve che il vecchio volesse ingannarlo come altre<br />
volte. – Ah – aggiunse quasi beffardo – questo mi fa piacere.<br />
– Piacere o no – disse Manueli Vargiu – così è. Uhm –<br />
riprese il vecchio – nemmeno a questo, ora, tu credi –. E<br />
gracchiò quel suo strano riso di gola, comico e lugubre,<br />
che pareva il lamento di un uccello notturno. Forse, con<br />
quel riso, il “maureddu” intendeva compassionare <strong>Perdu</strong><br />
che non credeva, o forse se stesso che non era creduto.<br />
Oppure intendeva più semplicemente significare che non<br />
sapeva proprio che farci.<br />
– Ci credo – disse <strong>Perdu</strong>, sempre beffardo. – Mia madre<br />
non era la figlia di Vustè. Era la sorella.<br />
– Sorella? No – disse il vecchio – era la figlia di mia<br />
moglie. Lo sai, “burricu” – aggiunse subito dopo, troncando<br />
con questo epiteto l’interruzione che vide spuntare<br />
sulle labbra di <strong>Perdu</strong>, – lo sai che da giovane avevo ucciso<br />
un uomo?<br />
<strong>Perdu</strong> non rispose. Non riusciva a capire che cosa<br />
c’entrasse questa storia. Il “maureddu” si lasciò di nuovo<br />
cadere sul tavolaccio e ripiegatosi ancora su se stesso prese<br />
a lisciarsi le ginocchia rimaste a nudo, fuor delle brache<br />
d’orbace, e ad osservare per terra.<br />
– Lo avevo ucciso per gelosia – prese a narrare il vecchio,<br />
quasi parlasse con qualcuno sottoterra. – Perché c’era<br />
una donna che mi piaceva e piaceva anche a quello. Io l’ho<br />
ucciso e mi sono preso la donna. La dovevo ben sposare<br />
per… Bah, si poteva fare anche senza sposarsi, ma non si<br />
usava. Quando la sposai i carabinieri mi arrestarono. Perciò<br />
non potetti… Ih, ih.<br />
149
PERDU<br />
Il vecchio si guardò le mani, sul dorso e sul palmo,<br />
poi riprese a passarsele carezzevolmente sulle ginocchia.<br />
– Dodici anni mi hanno fatto fare di prigione. E quando<br />
tornai, la donna che avevo sposata senza poterla… era<br />
morta.<br />
Tziu Manueli levò in alto le mani e le batté insieme con<br />
forza sulle cosce, ripetendo quest’atto più volte come fanno<br />
le prefiche nelle mercenarie disperazioni. Alla fine si alzò.<br />
– Uff! – disse. – Era morta, al diavolo anche lei. Ma<br />
c’era rimasta tua madre. Come poteva essere, per il demonio,<br />
mia figlia, se io con la madre di lei non…?<br />
<strong>Perdu</strong> ascoltava in silenzio. Non sapeva se credere o<br />
se non credere al vecchio, a proposito di ciò che questi<br />
diceva sul conto di Angiuledda. Era o non era sua figlia, la<br />
mamma? Ma non è questo che importava. Una cosa ben<br />
più importante, per lui, era fuori di dubbio: il vecchio era<br />
suo padre.<br />
«È mio padre» si ripeteva con sgomento. «Questo è mio<br />
padre». Lo aveva cercato per tanto tempo e lo aveva avuto<br />
sempre sotto gli occhi. «Questo è mio padre». Lo osservava<br />
muoversi, gesticolare, sedersi; lo udiva ridacchiare in quel<br />
modo irritante, gorgogliante, soffocato nella strozza. C’era<br />
stata sempre in lui, segreta, non confessata neppure a se<br />
stesso, una trepidazione infantile, quasi tenera, nell’ansia<br />
con la quale aveva cercato di scoprire chi fosse suo padre.<br />
Ora si sentiva defraudato di qualche cosa. Eccolo lì,<br />
suo padre: un vecchio, un assassino. Di suo padre, quando<br />
non lo conosceva, soleva dire: «quel disgraziato» «quel<br />
vigliacco», ma sapeva che, ritrovatolo, si sarebbe sentito<br />
afferrare da uno strano senso di gioia. Ora no, questo non<br />
accadeva. Suo padre era costui, e non provava nessuna<br />
gioia, ma orrore. Che freddo aveva sentito lungo la spina<br />
dorsale quando il “maureddu” rievocando quel suo lontano<br />
omicidio si era guardato le mani. Ora poteva vederlo,<br />
toccarlo, suo padre.<br />
<strong>Perdu</strong> capiva perfettamente dove il vecchio voleva arrivare.<br />
Voleva persuaderlo che “issa”, cioè sua madre, non<br />
150<br />
Capitolo XX<br />
gli era figlia, e che non c’era stato quindi vero peccato.<br />
Furbo il vecchio! Ma <strong>Perdu</strong> non s’arrendeva. Stava attento<br />
al racconto del “maureddu”, unicamente per sentirlo giungere<br />
all’episodio di quando loro due, padre e figlia, si erano…<br />
e poi lui era nato.<br />
– Io non so come sia avvenuto – diceva Manueli Vargiu.<br />
– “Issa” non voleva; protestava che era mia figlia e che<br />
era peccato. Non era mia figlia, per il demonio, chi poteva<br />
saperlo meglio di me? Hai capito che non era mia figlia?<br />
<strong>Perdu</strong> annuì, rassegnato. Aspettava che il racconto<br />
proseguisse. Ma il vecchio lo guardò drittamente e, avanzando,<br />
gli si pose dinanzi.<br />
– Tu non ci credi – disse.<br />
– No – disse <strong>Perdu</strong>.<br />
Il vecchio disse:<br />
– Non l’ho mai confidato a nessuno che non era mia<br />
figlia, perché questo significava disonorarsi. L’ho detto a<br />
te, e tu non ci credi. Ah, ci trattiamo davvero da padre e<br />
figlio.<br />
– Dunque vede che è vero che Vustè è mio padre e<br />
che…<br />
– Ascolta, “piccioccu” – disse Manueli Vargiu aggrottando<br />
la fronte. – A te preme sapere se io sono tuo padre.<br />
Lo sono. Così credo. Ma a me preme tu sappia che “issa”<br />
non era mia figlia. Non era – ripeté il vecchio urlando –<br />
era figlia di un altro che si era presa mia moglie mentre io<br />
ero in prigione.<br />
– E come è avvenuto – domandò <strong>Perdu</strong>, fisso nel suo<br />
pensiero – che Vustè… che “issa”… che Vustè è mio padre?<br />
– Che diavolo vuoi sapere? Te l’ho detto. L’ho costretta.<br />
Mi volevo anche vendicare, rifare… Forse era una dannazione.<br />
Il capo-carcere Fideli Aresu batté con la scarpa nella<br />
porta della cella e disse:<br />
– È ora di chiusura. Sbrigatevi.<br />
Il rumore dei suoi passi si perdeva nel corridoio.<br />
– Io… – riprese Manueli Vargiu.<br />
151
PERDU<br />
<strong>Perdu</strong> lo interruppe. Disse:<br />
– L’altra volta aveva dunque mentito. Dica adesso la verità.<br />
La notte in cui “issa” fu uccisa Vustè era venuto per…<br />
Tziu Manueli non rispose.<br />
– Non era certo soltanto venuto per vederla – insistette<br />
ancora <strong>Perdu</strong>. Sentiva la lingua appiccicata al palato, la<br />
bocca secca e arsa e un pulsare continuo delle vene sulle<br />
tempie. Le parole gli uscivano a stento, sibilando, dai denti<br />
stretti.<br />
Tziu Manueli scosse la testa in segno di diniego. Era<br />
schietto. La sua zazzera bianca ondeggiò.<br />
– E anche quella sera – domandò <strong>Perdu</strong>, stringendo<br />
ancor più le mascelle – avete…<br />
Il ‘‘maureddu’’, vicinissimo a <strong>Perdu</strong>, scosse le spalle,<br />
seccato. Non era vero, era solo un abbaglio di <strong>Perdu</strong>, ma<br />
il ragazzo fu convinto che la barba del vecchio, su e giù<br />
per due volte, si fosse abbassata sul petto, in segno d’assenso,<br />
tra le due file di monetine del giustacuore.<br />
– Io… – disse per la terza volta Manueli Vargiu.<br />
<strong>Perdu</strong> lo interruppe ancora.<br />
– E “issa”, che diceva quella sera, non voleva?<br />
Il ragazzo si era ricordato del bacio che, quella sera,<br />
sua madre gli aveva dato. Rimboccandogli le coperte, all’improvviso,<br />
quasi a tradimento, Angiuledda gli aveva<br />
schioccato un bacio, vicinissimo all’occhio, essa che non<br />
lo baciava mai. Era stato l’ultimo bacio, prima di morire.<br />
<strong>Perdu</strong> si toccò ancora la guancia dove aveva ricevuto<br />
lo schiaffo. Forse non era lo schiaffo che gli aveva fatto<br />
dolore. Era ancora quel bacio…<br />
Manueli Vargiu perdette la pazienza.<br />
– Finiscila – gli disse – e lasciami parlare. Io, lo creda<br />
o no, non ho mai avuto altro figlio che te, seppure tu sei<br />
mio figlio. Figlio ho sempre creduto te, non figlia tua madre,<br />
sebbene senza mai dirtelo. Che importa, dirlo? Ora, io<br />
me ne andrò certo all’inferno, ma prima…<br />
– No – gridò <strong>Perdu</strong>, come impazzito, rinculando verso<br />
152<br />
Capitolo XX<br />
la porta e tentando davvero di sfondarla. Aveva capito l’intenzione<br />
del vecchio, che già del resto levava alta la mano.<br />
Lo voleva benedire, secondo la tradizione, col segno di<br />
croce in fronte, tracciato col pollice della mano destra intinto<br />
nella saliva.<br />
Tziu Manueli restò con la mano a mezz’aria, incerto,<br />
interrogativo, e una volta tanto sbigottito del terrore del<br />
ragazzo.<br />
Si riudirono passi nel corridoio e la porta si spalancò.<br />
Per poco <strong>Perdu</strong> non cadde all’indietro.<br />
– Adiosu – disse Manueli Vargiu, con uno strano sussulto,<br />
in tutto simile a quel suo buffo, doloroso riso.<br />
Fu quando Fideli Aresu già si accingeva a passare il<br />
catenaccio della porta che <strong>Perdu</strong> non si dominò più. Scostò<br />
il capo-carcere con uno spintone, riaperse l’uscio, rientrò<br />
nella cella, e si trovò nuovamente a faccia a faccia col<br />
vecchio. Allora con sicurezza, con estrema padronanza dei<br />
propri atti, lo agguantò con una mano per il panciotto<br />
d’orbace, e con l’altra gli strinse la barba come si stringe<br />
un manipolo di spighe. La bocca di <strong>Perdu</strong> era arida e non<br />
gli fu facile radunarvi della saliva. Ma ci riuscì. Ecco, ora<br />
doveva sputargliela in pieno viso.<br />
La scena durò un istante. Il ragazzo mirava alla fronte<br />
dell’uomo. Era lì, tra i due occhi, gialli e leggermente acquosi,<br />
del vecchio, che egli intendeva indirizzare lo sputo.<br />
“A sa furca” voleva dirgli, con uno sputo. Qualcosa però<br />
lo fermò. Un trabalzo del cuore o un barbaglio, un lampo<br />
inatteso piombato nel suo cervello. Non poteva. Perché<br />
non poteva? Era suo padre. Malgrado tutto era suo padre.<br />
Non poteva sputare in faccia a suo padre.<br />
Non durò più di un istante, la scena. Le mani che<br />
stringevano la barba e il panciotto si allentarono, ricaddero<br />
in basso, pesantissime.<br />
Il ragazzo arretrò. Non sapeva se le parole che disse<br />
si rivolgessero al vecchio o se le dicesse a se stesso.<br />
– “A sa furca” – disse fuggendo.<br />
153
CAPITOLO XXI<br />
<strong>Perdu</strong> rientrò a casa correndo. L’aria afosa della giornata<br />
si era fatta più greve, perché il vento di scirocco, il<br />
quale reca sulle coste della <strong>Sardegna</strong> meridionale il fiato<br />
ardente dei deserti nordafricani che neppure duecento<br />
miglia di mare aperto riescono totalmente a spegnere, si<br />
buttava su Iddarta con la volontà di incendiarla.<br />
Vortici di polvere si levavano sulla piazza di chiesa,<br />
quando <strong>Perdu</strong> l’attraversò, come se una gigantesca scopa<br />
si desse violentemente a spazzarla. I vortici si spostavano,<br />
alti e curvi, nel rettangolo della piazza, arricciandosi in cima<br />
come creste bionde.<br />
Identici vortici, ma di pensieri, si formavano nell’animo<br />
del ragazzo, spinti da ben altro vento che non fosse lo scirocco.<br />
Ed egli stesso, <strong>Perdu</strong>, in preda a quel bruciante vento<br />
interiore, si sentiva spazzato come le foglie cadute degli<br />
alberi che tra la polvere mulinavano, nella piazza di chiesa.<br />
Nel cortile dei Tankis non trovò nessuno. Risalì in fretta<br />
nel suo pagliaio e si distese sul pavimento, stringendo<br />
gli occhi e comprimendosi con entrambe le mani la fronte.<br />
Sia la fronte che le mani scottavano.<br />
Così lo trovò Maddalena Tankis quando sopraggiunse<br />
nel tardo pomeriggio. Recava una tazza di brodo e, dentro<br />
un piatto coperto, una fetta di carne di pecora.<br />
– <strong>Perdu</strong>, o <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena a voce bassa,<br />
pensando che il ragazzo si fosse assopito.<br />
Poiché <strong>Perdu</strong> non rispose, Maddalena si inginocchiò<br />
accanto a lui, la tazza ed il piatto in bilico in una mano, e<br />
lo guardò con una compassione dolcissima. Credette veramente<br />
che il ragazzo dormisse e, deposti i recipienti<br />
per terra, si accucciò a sua volta sul pavimento sedendosi<br />
sulle pieghe della sua ampia gonna. Bisbigliando, ma pur<br />
154<br />
pronunziando le parole con le labbra, convinta che il ragazzo<br />
non le avrebbe potute udire, disse:<br />
– Povero <strong>Perdu</strong>, fratellino mio! Non morire, non morire,<br />
fratellino mio!<br />
Con entrambe le mani, esitante, fece per sfiorare lievemente<br />
le mani di <strong>Perdu</strong>, chiuse a pugno e premute sulle<br />
palpebre chiuse. Quasi non lo toccò, e comunque il<br />
suo tocco non fu più pesante di quello di una piuma…<br />
Ma fu proprio allora che, come se viceversa gli avessero<br />
dato una randellata, <strong>Perdu</strong> si drizzò in piedi stravolto e<br />
agitato dalla collera. Fu allora che esplose la sua follia. Per<br />
prima cosa, visti in terra la coppa di brodo ed il piatto coperto,<br />
con un calcio li fece volare lontano. Poi affrontò<br />
Maddalena:<br />
– Se ne vada Vustè, se ne vada. Non voglio vedere<br />
nessuno. Se ne vada.<br />
Le parti sembravano invertite. Pareva lui il padrone<br />
collerico e lei, ancora accucciata per terra e mansueta, la<br />
serva. E al furore inconsulto di lui faceva riscontro l’amore<br />
devoto e non meno inconsulto dipinto sulla faccia di lei.<br />
Poiché Maddalena rifiutava di rialzarsi, <strong>Perdu</strong> si chinò,<br />
l’afferrò per le braccia e con una forza sovrumana la trasse<br />
in piedi. Sbalordita, la ragazza l’osservava, in preda allo<br />
smarrimento. Il “mucadori” le era caduto dal capo, e una<br />
treccia dei suoi capelli, nerissimi, densi e voluttuosi, ch’ella<br />
teneva raccolti a corona sulla nuca, si era sfilata dalla<br />
crocchia e le pendeva davanti, fin sopra il seno.<br />
Caldo era, e il vento, a refoli e buffi, entrava fin nel pagliaio,<br />
col suo fiato bruciante. La fronte di <strong>Perdu</strong> ardeva,<br />
goccioline di sudore vi si formavano, strani ronzii, monocordi,<br />
come voli di calabroni, ossessionavano le sue orecchie.<br />
– Agnello mio – disse <strong>Perdu</strong> a Maddalena con un sorriso<br />
da dissennato – agnello mio, ma tu sai chi è mio padre?<br />
“Issu est”. È mio nonno, non lo sapevi? Mio nonno<br />
non è mio nonno, è mio padre.<br />
155
PERDU<br />
Era come pazzo. Ripeteva, adattandole a sé, e dando<br />
del tu a Maddalena, e chiamandola “agnello mio”, le parole<br />
che tanto lo sconvolgevano, pronunziate da tzia Licca<br />
Pilloni. Pazzo, era; ed orribile, era. E sorrideva divertito<br />
come aveva fatto quel giorno tzia Licca Pilloni.<br />
Maddalena continuava ad osservarlo con compassione.<br />
Non si curava di scuotersi dalla stretta delle sue mani,<br />
forti come tenaglie. Il viso di lei, bianco e puro, manifestava<br />
stupore, ma non spavento; la sua pelle era tenera e<br />
morbida da sembrare incipriata.<br />
– Vattene ora – disse <strong>Perdu</strong> continuando a darle del<br />
tu. – Vattene, non mi sei niente.<br />
Le fece fare con violenza una giravolta sulle spalle e<br />
la spinse lontano, brutalmente, verso la porta della scala.<br />
– Vattene, vattene – continuava a dirle con viso truce.<br />
Maddalena Tankis cadde nei pressi della porta. Ma<br />
<strong>Perdu</strong> non le badò. Una cosa, all’improvviso aveva attirato<br />
i suoi occhi; ed un pensiero balenante gli aveva attraversato<br />
la mente. E come gli occhi parevano essere rimasti<br />
invischiati su quella cosa, così la mente pareva rimanere<br />
ancorata a quel pensiero. Sì buona idea!, si diceva <strong>Perdu</strong>;<br />
con questo sistema si potevano risolvere d’un colpo tutti i<br />
problemi. Buona idea!<br />
Presso la porta nel muro di mattoni, era stata ricavata<br />
in un pilastrino una nicchia; in questa nicchia <strong>Perdu</strong> conservava<br />
per le necessità della notte una candela stearica e<br />
dei fiammiferi. Qui erano caduti i suoi occhi. E questa era<br />
l’idea: accendere un fiammifero, appiccare il fuoco alla<br />
paglia, e far scoppiare un incendio.<br />
Bastava allungare la mano, prendere la scatola degli<br />
zolfanelli, sfregarne uno. Lo zolfo giallo frigge piano piano<br />
nella testa del fiammifero che si annera; ma poi la<br />
fiamma si forma e tutto succede rapido. Una manciata di<br />
fieno, una fiamma più grande, il fieno brucia, il pagliaio<br />
brucia, tutto brucia e s’incendia. È un incendio.<br />
156<br />
Capitolo XXI<br />
Certo, il fienile sarebbe andato distrutto. E anche la<br />
stalla di sotto, e le bestie. Che importa? È roba di Vissenti<br />
Tankis. È ricco, Vissenti Tankis. Ha case, terreni, buoi, e<br />
servi. Mille fienili egli si può riedificare se uno ne va distrutto.<br />
Mille, non solo uno. Non ci si deve preoccupare di<br />
questo. Che importa? Che tutto si bruci, anche le stalle vicine,<br />
anche la casa dove vive Vissenti Tankis, se è necessario.<br />
Tutto il mondo bisognerebbe bruciare, se fosse possibile,<br />
tutto il mondo. Che importa?<br />
Ma, bruciare soltanto per bruciare, a che serve? Altra<br />
idea, più radicale e violenta; morire! Ecco ciò che mancava!<br />
Incendiare il fienile e morirvi dentro. Questa è la soluzione.<br />
Con la morte cessano le sofferenze, i pensieri, il desiderio<br />
stesso di morire. Tutto cessa. Anche in quella notte<br />
in cui Efisio Manzella lo picchiava, aveva desiderato morire.<br />
Efisio Manzella lo picchiava forte come si picchia un<br />
cane. Se fosse morto! Non avrebbe conosciuto più nulla<br />
di queste altre amarezze che la vita gli aveva riservato…<br />
La decisione è presa. Non resta da fare altro, adesso,<br />
che morire. Perché vivere? Nella morte non si sente più<br />
niente. Non si sente il bruciore nel sangue, il martellamento<br />
nel capo, il ronzio negli orecchi; più niente. Non si sentono<br />
riecheggiare eternamente le parole di tzia Licca Pilloni<br />
e risonare come colpi di maglio le affermazioni di<br />
Manueli Vargiu: «Tu, sei mio figlio. Tu, sei mio figlio». Allucinato<br />
e assorto nella sua pazza idea, <strong>Perdu</strong> realmente si<br />
avvicina alla nicchia e ne toglie la scatola dei fiammiferi.<br />
Ne accende uno, attende che la fiamma si sollevi, la guarda,<br />
come incantato, poi l’avvicina allo stoppino della candela<br />
stearica. Soffia sopra il fiammifero e lo depone con<br />
cura già spento, come fa ogni sera nel fondo della nicchia,<br />
affinché non ne nasca pericolo. Ora la sola candela è accesa.<br />
La sua fiamma è oscillante ed incerta, inverosimilmente<br />
pallida nella luce del giorno. Che senso ha quella<br />
157
PERDU<br />
candela accesa? si domanda. Una candela accesa, di giorno.<br />
Altre candele, sì, aveva visto, così smorte ed inutili,<br />
come questa, accese di giorno. Quand’è che aveva visto, e<br />
dove, candele accese di giorno? D’un tratto si ricordò dell’altare<br />
della chiesa di Terreluxi nel giorno dello sposalizio<br />
di sua madre. Don Nicolino Cuccu, il chierichetto scalzo,<br />
le fedi d’oro, l’acqua benedetta che pioveva sulle teste<br />
dall’aspersorio del prete, e i passeri che cantavano sul<br />
mandorlo dietro la chiesa! Ed Efisio Manzella che doveva<br />
essere suo padre…!<br />
Maddalena Tankis si era alzata da terra ed aveva riattraversata<br />
la stanza chinandosi per raccogliere il suo “mucadori”<br />
da terra. Rialzandosi aveva visto <strong>Perdu</strong> incantato<br />
dinanzi a quella candela accesa. La febbre della malaria,<br />
pensò Maddalena, lo aveva fatto andare in delirio. Effettivamente<br />
la febbre della malaria dà dei deliri durante i<br />
quali l’ammalato si alza e agisce come un sonnambulo.<br />
Maddalena si avvicinò al ragazzo e lo toccò sulla spalla.<br />
– <strong>Perdu</strong> – gli disse – non startene così; devi riposare.<br />
Hai la febbre, lascia che chiami il medico…<br />
Ma <strong>Perdu</strong> non l’ascoltava. Pensava: la fiamma della<br />
candela è piccola che nemmeno si vede; ma aspetta; basta<br />
prendere una manciata di fieno e avvicinarla allo stoppino,<br />
e il fuoco divamperà. Una manciata di fieno, ci vuole;<br />
una manciata di fieno.<br />
– <strong>Perdu</strong> – disse ancora Maddalena, – <strong>Perdu</strong>, non mi<br />
ascolti? Perché non mi ascolti?<br />
<strong>Perdu</strong> si volse e la guardò imbambolato. Sembrava non<br />
riconoscerla. La guardava con occhi sbarrati e tenendo le<br />
labbra socchiuse. Non capiva. Che voleva questa donna?<br />
– Guarda – disse Maddalena passando il palmo della<br />
mano sulla fronte che sempre ardeva ed era umida di sudore,<br />
– guarda, hai la febbre, <strong>Perdu</strong>. Sei malato, devi lasciarti<br />
curare.<br />
– Sì – disse <strong>Perdu</strong> – malato. Sono malato. Devo lasciarmi<br />
curare.<br />
158<br />
Capitolo XXI<br />
Si allontanò dalla nicchia quasi volesse dirigersi verso<br />
il suo giaciglio e distendervisi, obbedendo a Maddalena.<br />
Ma istantaneamente, come folgorato da un diverso pensiero,<br />
si chinò di repente, e raccolse una manciata di fieno.<br />
Le cose si svolsero fulmineamente. Rapida la manciata<br />
di fieno esarse nella mano di <strong>Perdu</strong>. Lingue di fuoco, violacee<br />
e rosa, si sprigionarono.<br />
– <strong>Perdu</strong>! – urlò Maddalena terrorizzata. Soltanto allora<br />
ella aveva capito.<br />
Sfuggendo alle braccia della ragazza che a precipizio<br />
si era slanciata su di lui, <strong>Perdu</strong> si arrampicò sopra il mucchio<br />
di fieno. Squassava la fiamma che già gli bruciava la<br />
mano, come un pazzo incendiario. Aiutato dal vento che<br />
penetrava da tutte le feritoie delle pareti, il fuoco si apprese<br />
subito al fieno disseccato. Alto sopra il mucchio, già<br />
circondato di vampe, <strong>Perdu</strong> cercava caparbiamente, nel<br />
fanatismo del suo proposito folle, cercava con le braccia<br />
alzate di far appiccare il fuoco alle travi del tetto…<br />
Senza perdere tempo, senza dare in ismanie, senza<br />
neppure urlare, – perché poi urlare? sapeva che nessuno<br />
avrebbe potuto udirla – Maddalena tentò di spegnere con<br />
le mani, coi piedi, con le gonne, buttandovisi a volte addosso<br />
con tutto il corpo, i piccoli focolai che <strong>Perdu</strong> andava<br />
follemente spargendo. Era la figlia di Vissenti Tankis, in<br />
quel momento, la quale badava alla conservazione della<br />
sua proprietà; istintivamente, per una voce del proprio<br />
sangue essa si comportava da figlia di Vissenti Tankis. Ma<br />
dopo – e non tanto perché capisse che l’impresa era ormai<br />
disperata, quanto perché nel suo cuore fece impeto quell’unico<br />
pensiero – si buttò tra le fiamme, di null’altro occupandosi<br />
che di salvare il ragazzo. Non era più, adesso, la<br />
figlia di Vissenti Tankis; era la sorella di <strong>Perdu</strong>, era l’amica<br />
di <strong>Perdu</strong>, era l’unica salvezza che per lui esisteva. In questo<br />
fienile Maddalena e <strong>Perdu</strong> avevano trascorso lunghissime<br />
ore. Ivi la ragazza aveva provato, come un’anticipazione<br />
di maternità, le dolcezze che può dare l’amore per un<br />
159
PERDU<br />
fanciullo. Ivi <strong>Perdu</strong>, alla sua volta, nonostante tutte le sue<br />
amarezze e le contrarietà e le angosce, aveva assaporato la<br />
bellezza di essere oggetto d’amore da parte di qualcuno. Ed<br />
ecco che in questo stesso luogo, mentre già si levavano le<br />
fiamme, <strong>Perdu</strong> e Maddalena si rincorrevano, in una strana<br />
gara, lui per sfuggire alla vita e lei per sottrarlo alla morte.<br />
Maddalena raggiunse <strong>Perdu</strong> e lo avvinghiò fra le sue<br />
braccia improvvisamente diventate fortissime. Il ragazzo si<br />
dibatteva come un forsennato. Entrambi, così avvinghiati,<br />
rotolarono nel fieno. Fiamme sorgevano dallo strame e si<br />
levavano verso il soffitto, tra vortici di fumo. Tutto il fienile<br />
era invaso dal fumo. La paglia crepitava rapidissimamente,<br />
mentre le lingue di fuoco, azzurre, rosse, viola,<br />
danzavano sinistramente sulla superficie dei cumuli. Sibili<br />
si udivano, come lontani richiami; e il vento ancora entrava<br />
a sbuffi come per soffiare sul fuoco.<br />
A un tratto <strong>Perdu</strong> si sentì sollevare di peso e contro<br />
ogni sua resistenza si sentì trasportare con impeto verso<br />
l’uscita. Il fuoco acquistava voce. Come da gole misteriose<br />
uscivano lunghi ululi e piccoli boati; e un crosciare continuo<br />
delle fiamme, vagamente simile al rumore delle spighe<br />
mature quando il vento le curva.<br />
Le forze di Maddalena dovevano essersi centuplicate.<br />
Il suo passo era traballante, nel calpestare il fieno e nell’attraversare<br />
barriere di fiamme; ma riuscì a raggiungere<br />
la porta e discendere, sempre con quel peso, la scala.<br />
Gente era già accorsa alla vista del fumo. Un’agitazione<br />
frenetica scoteva tutti, ma nessuno sapeva che fare. Dal<br />
di fuori il fienile pareva una carboniera; gettiti di fumo<br />
uscivano da tutte le feritoie, frammisti, tratto tratto, a delle<br />
lingue di fiamma che per un attimo garrivano nell’aria come<br />
vessilli.<br />
E d’improvviso, lugubri e profondi come gridi d’angoscia,<br />
si alzarono dalla stalla i nitriti dei cavalli. Nitriti e<br />
scalpiti, contro i cancelli, verso i quali finalmente si precipitarono<br />
i servi. E dopo poco, demoniaci, impennandosi<br />
160<br />
Capitolo XXI<br />
uno sull’altro per passare dalle strette delle porte, si slanciarono<br />
all’aperto i cavalli, proiettandosi come bolidi nella<br />
campagna.<br />
Maddalena Tankis, dopo avere disceso le scale, era<br />
caduta a terra svenuta. Tutti urlavano; la voce di Vissenti<br />
Tankis pareva un ruggito…<br />
A differenza di Maddalena, <strong>Perdu</strong> aveva riacquistato<br />
tutta la sua lucidità. Gente si era raccolta intorno a Maddalena.<br />
Alcune donne la soccorrevano. Da tutte le parti si<br />
vociferava e si imprecava. Un terrore folle invase l’animo<br />
di <strong>Perdu</strong>. Capiva ciò che aveva fatto. Si rendeva conto che<br />
tutta quella confusione era stata cagionata dal suo gesto di<br />
poco prima. La voce di Vissenti Tankis alta come un ruggito<br />
si avvicinava.<br />
Una sola cosa c’era da fare: fuggire. Il cielo si era andato<br />
oscurando e la sera lentamente scendeva dai monti. Nel<br />
fienile le fiamme balzavano già dal tetto, crescevano i crepitii,<br />
tutta la costruzione ardeva come una torcia. Un’immensa<br />
colonna di fumo, che il vento squassava e scompaginava,<br />
si levava dal fabbricato.<br />
Bisognava fuggire! Era chiaro che adesso, appena la<br />
gente si fosse resa conto di ciò che era realmente avvenuto,<br />
appena Maddalena Tankis avesse potuto parlare, la<br />
sorte di <strong>Perdu</strong> era segnata; tutti si sarebbero scagliati contro<br />
di lui, lo avrebbero picchiato, massacrato di botte, e<br />
poi forse consegnato ai carabinieri.<br />
Il vento caldo che arrivava dal fienile bruciante disseccava<br />
la pelle e soffocava il respiro. Nessuno ancora badava<br />
a <strong>Perdu</strong>. Nessuno si curava di interrogarlo. Urlavano tutti<br />
insieme, correvano, alzavano la faccia verso le fiamme.<br />
Bisognava dunque fuggire. Ma dove andare? Non importa.<br />
Allontanarsi di qui, occorreva; allontanarsi e fuggire<br />
come i cavalli che avevano fatto irruzione fuori delle stalle,<br />
correndo verso la campagna.<br />
Cercando di non farsi notare – né d’altronde alcuno gli<br />
badava – <strong>Perdu</strong> si allontanò lentamente verso i margini<br />
161
PERDU<br />
del cortile. Qui la campagna si apriva. L’afa dell’incendio<br />
non si avvertiva più tanto. La campagna si andava coprendo<br />
di ombra. D’un balzo, <strong>Perdu</strong> si slanciò veramente in direzione<br />
dei campi e velocissimo, come un cerbiatto inseguito<br />
dai cani, corse e corse senza sapere lui stesso dove.<br />
Nemmeno quando fu giunto nella piana dove è la<br />
strada per Terreluxi, <strong>Perdu</strong> si sentì veramente tranquillo.<br />
Il cuore gli scoppiava nel petto. Ansava terribilmente ma<br />
continuava a correre. Non a Terreluxi egli si poteva fermare,<br />
non a Terreluxi!<br />
Uscendo dalla carrozzabile, <strong>Perdu</strong> ancora si buttò per i<br />
campi. Non a Terreluxi! Soltanto oltre i monti poteva sperare<br />
di non essere raggiunto. Bisognava valicare quei monti.<br />
Bisognava correre, correre, arrampicarsi sui monti e<br />
scendere dall’altra parte. Forse là la vita era diversa. Là comunque<br />
non c’era Vissenti Tankis, né Manueli Vargiu, né<br />
la memoria di sua madre. Là nessuno lo avrebbe più trovato.<br />
Basta correre. I monti sono così vicini! Non è faticoso<br />
né arduo raggiungerne la cima. Basta correre!<br />
Fu invece arduo e faticoso per <strong>Perdu</strong> raggiungere quei<br />
monti e lentamente arrampicarsi sulla loro china. Non si<br />
era avvicinato nel tragitto all’abitato di Terreluxi. Aveva allungato<br />
del doppio la propria strada pur di non passare<br />
per Terreluxi. A un certo momento aveva dovuto cessare<br />
di correre. Il respiro gli mancava. Non poche volte si era<br />
dovuto buttare per terra per riprendere forza. Ma sempre si<br />
era rialzato. Fuggire, era il suo unico proposito, e la paura<br />
la sua unica forza. Volgendosi all’indietro, nella oscurità ormai<br />
fitta, vedeva nettamente, sulla collina di Iddarta, ardere<br />
come un fuoco di gioia, l’incendio che lui stesso aveva suscitato.<br />
Gli sembrava di udire ancora il crepitio delle fiamme,<br />
il sibilo che producevano le lingue del fuoco scagliandosi<br />
contro il cielo.<br />
Una notte ed un giorno durò la lunga marcia di <strong>Perdu</strong><br />
per arrivare nelle terre che stavano al di là dei suoi monti.<br />
Camminò notte e giorno come un cane randagio, esaurendo<br />
162<br />
Capitolo XXI<br />
tutta una vitalità che la malaria non era riuscita a fiaccare,<br />
in questo inesorabile vagabondaggio senza meta e senza<br />
scopo. Nessuna persona si sentiva di avvicinare; a nessuna<br />
casa aveva il coraggio di approssimarsi e di bussare,<br />
nemmeno per chiedere un tozzo di pane.<br />
Molto cammino fece in un giorno ed in una notte.<br />
Molto cammino! Ma le sue forze veramente si esaurirono.<br />
Che cercava? Perché si era portato così lontano da suoi<br />
luoghi? La campagna qui non era diversa dalle campagne<br />
di Iddarta. Perché c’era venuto? Che cosa cercava? Ah, già,<br />
cercava di fuggire dai luoghi in cui aveva tanto sofferto,<br />
cercava di fuggire all’inseguimento di quei servi che certo<br />
Vissenti Tankis aveva sguinzagliato alle sue calcagna. E i<br />
carabinieri? E se Vissenti Tankis aveva avvertito i carabinieri?<br />
I carabinieri sono dovunque. Dovunque perciò egli<br />
poteva essere catturato dai carabinieri.<br />
<strong>Perdu</strong> giunse stremato in vista dei monti di Iglesias, la<br />
sera del primo giorno di luglio. Non aveva più veramente<br />
la forza di procedere oltre. Si sentiva sfinito. Pur non essendogli<br />
ancora scomparsa dal cuore la paura che lo aveva<br />
così ostinatamente sospinto in quella sua folle marcia,<br />
egli non capiva adesso la ragione per cui era venuto fin<br />
qui. Il pensiero gli si faceva lento e faticoso. La febbre lo<br />
consumava. Pareva che il suo sangue si fosse trasformato<br />
tutto in fuoco e che non più circolasse per alimentare il<br />
suo corpo, ma per incendiarlo.<br />
Era giunto nei pressi di un campo di grano, biondeggiante<br />
sulla schiena di una dolce collina. Ai piedi della<br />
collina aveva visto due siepi compatte di canne ed aveva<br />
pensato che là fosse un fiume od almeno un ruscello.<br />
Aveva sete, una terribile sete. Ma quando giunse presso<br />
le canne e faticosamente si fece largo per arrivare al torrente,<br />
vide che il letto di questo era disseccato e che dentro<br />
non vi correva più acqua, ma sabbia; una sabbia fine<br />
e bianca e morbida e sfarinata come rena di mare. Deluso<br />
si trasse indietro. Si sedette per terra, alzò il viso al cielo.<br />
163
PERDU<br />
Era sera ormai, e nel cielo non c’erano nuvole, ma una<br />
chiarità trasparente che cominciava a acquistare soltanto<br />
allora le prime trepidazioni rossigne dei tramonti nei cieli<br />
sardi.<br />
Il campo di grano frusciava soavemente. Accanto a<br />
<strong>Perdu</strong>, sui bordi delle messi, piante di asfodeli levavano in<br />
alto le loro bacchette fiorite, i turgidi fiori simili a fragole<br />
acerbe.<br />
Profondamente stanco <strong>Perdu</strong> si adagiò sul terreno all’indietro<br />
giacendo così supino finché le stelle si accesero<br />
ed arsero nel curvo cielo.<br />
Stando così sembrava che neppure la sete si sentisse<br />
più tanto. Era solo affaticato, era stanco. Ma non aveva più<br />
paura. Ecco, adesso gli sembrava veramente di non avere<br />
più nemmeno paura.<br />
164<br />
CAPITOLO XXII<br />
Il diciassette di luglio, i carabineri di Gonnesa, avvertiti<br />
da una squadra di mietitori, trovarono nei pressi di un<br />
campo di grano nella regione di Acqualimpia, il cadavere<br />
di un ragazzo dell’età apparente di anni quattordici. Prontamente<br />
essi ne dettero informazioni all’autorità giudiziaria<br />
di Iglesias. Dalla pretura di Iglesias un giovane magistrato<br />
fu mandato sul posto per gli accertamenti del caso.<br />
Il magistrato vi si recò, seguito dal cancelliere, da un<br />
medico e da un brigadiere di polizia. Il drappello era guidato<br />
dal maresciallo dei carabinieri di Gonnesa, che aveva<br />
effettuato le prime costatazioni.<br />
Lo stato del cadavere era veramente spaventevole.<br />
Gonfia e tragica era diventata la testa, gonfia e immonda<br />
la pancia ignuda, che da uno squarcio della camicia di tela<br />
azzurra si offriva al sole. Tutte le parti scoperte di quel<br />
corpo avevano assunto la tinta della pelle dei negri.<br />
Il cadavere giaceva supino, accanto al campo di grano.<br />
Nugoli di mosche verdi con le ali iridate vi ristavano<br />
sopra; tra le uova deposte da queste mosche, e che già si<br />
schiudevano, brulicavano larve minuscole nell’umido delle<br />
palpebre e dentro le narici, nonché sulla bocca, donde<br />
pareva uscire una processione di vermi. Mosche e larve<br />
devastavano il ventre, la cui pelle, più delicata di quella<br />
del viso, si era sollevata sotto l’effetto del sole in immense<br />
bolle, pregne di siero e di linfa.<br />
Gli uomini della legge, per dovere della loro professione<br />
si accostarono a quel cadavere e lo studiarono lungamente.<br />
Una cosa fu particolarmente notata, benché senza<br />
frutto ai fini dell’indagine giudiziaria: cioè che sul volto<br />
del cadavere non erano scomparsi del tutto i segni di una<br />
gentile bellezza e di una soave innocenza. Vi era anzi, diffuso<br />
su quel volto, pur così devastato, un senso di pace<br />
165
PERDU<br />
assoluta come se lo spirito del morto avesse raggiunto<br />
quel cielo azzurro cui la faccia del cadavere pareva ancora<br />
guardare.<br />
L’autorità giudiziaria accertò che il ragazzo era morto<br />
da quindici o venti giorni e che era presumibilmente da<br />
escludersi una causa delittuosa. Questo fu tutto. Nonostante<br />
le più diligenti indagini non si venne mai a sapere né<br />
chi fosse quel ragazzo, né per qual ragione propriamente<br />
egli fosse morto. Nessuno in quella regione lo conosceva,<br />
nessuno lo aveva mai visto; nessuno ne reclamò il cadavere,<br />
nessuno ne chiese notizie. Ancor oggi, negli archivi<br />
della giustizia, se si andasse a cercare il fascicolo di quella<br />
“pratica” si noterebbe che sul frontespizio campeggia la<br />
parola: “ignoto”.<br />
<strong>Perdu</strong> era morto poche ore dopo essersi sdraiato ai<br />
margini di quel campo di grano non mietuto. Le cause<br />
della sua morte, per chi abbia seguito tutta la storia di <strong>Perdu</strong>,<br />
sono del tutto intuibili. Nel corso delle indagini giudiziarie<br />
cui si è accennato, tutti coloro che se ne occuparono<br />
vollero dire la loro opinione, a proposito di queste<br />
cause; così vi fu chi attribuì la morte del ragazzo a delitto,<br />
chi parlò di avvelenamento da erbe tossiche, chi del morso<br />
di un serpe, chi di una malattia, chi di insolazione improvvisa<br />
e chi semplicemente di inedia. A ben guardare<br />
tutte queste ipotesi in un certo qual modo si possono considerare<br />
non lontane dal vero. Forse <strong>Perdu</strong> non attribuiva<br />
la propria sventura alla colpa di sua madre? Forse non fu<br />
– più che il suo corpo, in verità, il suo spirito – avvelenato<br />
dalle tragedie nelle quali la sua vita fu presa? Forse non è<br />
paragonabile ad un morso di serpe la rivelazione che egli<br />
ebbe da tzia Licca Pilloni? Forse non lo piegò la malaria?<br />
Forse non sofferse la fame? E quanto al sole, come dovette<br />
picchiare sulla testa di <strong>Perdu</strong> durante il viaggio del ragazzo<br />
da Iddarta alla conca in cui fu trovato cadavere!<br />
Così si concluse la storia di <strong>Perdu</strong>.<br />
166<br />
Capitolo XXII<br />
Manueli Vargiu non fu condannato a morte dagli uomini,<br />
perché vi si condannò da se stesso impiccandosi nella<br />
cella del carcere prima ancora della celebrazione del giudizio.<br />
Si sentiva vecchio e triste, e veramente inutile; e dopo<br />
l’ultimo colloquio avuto con <strong>Perdu</strong>, conclusosi con la<br />
maledizione del ragazzo, gli sembrò che ci fosse nella sua<br />
vita un terribile vuoto: era il male che aveva fatto, o il bene<br />
che non aveva fatto? Uccidendosi, gli parve nello stesso<br />
tempo di sottrarsi a questo nuovo tormento e di pagare,<br />
non sapeva a chi né con quale risultato, una sorta di<br />
antichissimo debito.<br />
Maddalena Tankis, invece, visse ancora a lungo, e non<br />
si dimenticò mai di <strong>Perdu</strong> ch’essa continuò a considerare<br />
suo fratello e come tale ad amare. Mai seppe ch’egli era<br />
morto dopo due giorni dacché lo aveva salvato, tanto che,<br />
quando morì, ella lo nominò erede universale di tutte le<br />
sue sostanze, nel caso che <strong>Perdu</strong> si fosse fatto vivo a raccogliere<br />
l’eredità. Maddalena, infatti, non si volle mai sposare,<br />
e perciò non lasciava alcun erede diretto. Per chi poi<br />
voglia sapere la causa di questo volontario suo zitellaggio,<br />
sarà sufficiente spiegare che un po’ ciò dipese da tutti i<br />
suoi scrupoli, ai quali si aggiunse quello di aver lasciato<br />
che <strong>Perdu</strong> vivesse nella sua casa, per tanto tempo, ed invano,<br />
da servo; un po’ anche dipese dal fatto che per salvare<br />
il ragazzo in quella tragica sera, la giovane aveva riportato<br />
su varie parti del corpo, e specialmente sul viso,<br />
scottature così forti che il viso le rimase poi sempre sfregiato;<br />
della qual cosa non certo si lamentava, sembrandole<br />
anzi un segno del Signore.<br />
Di tutte le altre persone, poi, nominate in questa storia,<br />
non c’è proprio nulla da dire: esse o sono morte, e<br />
questo è il caso della maggior parte; oppure sono vive,<br />
poiché qualcuna infatti vive veramente ancor oggi, sotto il<br />
cielo del Sulcis che, se non lo turbano nuvole, è veramente<br />
bello ed azzurro.<br />
167
Finito di stampare nel mese di novembre 2000<br />
presso lo stabilimento della<br />
Stampacolor, Sassari