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Perdu - Sardegna Cultura

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BIBLIOTHECA SARDA<br />

N. 58


In copertina:<br />

Carmelo Floris, Ragazzo (1928 circa)<br />

Paride Rombi<br />

PERDU<br />

prefazione di Maria Giacobbe


Riedizione dell’opera:<br />

<strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori, 1953.<br />

Rombi, Paride<br />

<strong>Perdu</strong> / Paride Rombi ; prefazione di Maria Giacobbe.<br />

Nuoro : Ilisso, c2000.<br />

167 p. ; 18 cm. (Bibliotheca sarda ; 58)<br />

I. Giacobbe, Maria<br />

853.914<br />

Scheda catalografica:<br />

Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro<br />

© Copyright 2000<br />

by ILISSO EDIZIONI - Nuoro<br />

ISBN 88-87825-15-7<br />

7 Prefazione<br />

26 Nota biografica<br />

28 Nota bibliografica<br />

PERDU<br />

33 Capitolo I<br />

38 Capitolo II<br />

45 Capitolo III<br />

55 Capitolo IV<br />

59 Capitolo V<br />

64 Capitolo VI<br />

72 Capitolo VII<br />

76 Capitolo VIII<br />

80 Capitolo IX<br />

INDICE<br />

87 Capitolo X<br />

93 Capitolo XI<br />

97 Capitolo XII<br />

104 Capitolo XIII<br />

109 Capitolo XIV<br />

117 Capitolo XV<br />

123 Capitolo XVI<br />

129 Capitolo XVII<br />

133 Capitolo XVIII<br />

140 Capitolo XIX<br />

144 Capitolo XX<br />

154 Capitolo XXI<br />

165 Capitolo XXII


PREFAZIONE<br />

Paride Rombi nacque nel 1921 da una famiglia di<br />

oriundi genovesi, a Calasetta, nell’isola di Sant’Antioco, la<br />

più grande delle isole dell’arcipelago sulcitano, a sud-ovest<br />

della <strong>Sardegna</strong>. Ultimo di quattro fratelli, trascorse l’infanzia<br />

nel paese natale dove fece le scuole elementari. Frequentò<br />

poi il ginnasio e il liceo a Iglesias e infine, «nei<br />

tempi oscuri della fine della guerra e del dopoguerra», si<br />

trasferì a Cagliari per studiarvi giurisprudenza. Come ci racconta<br />

Armando Congiu che in quel periodo lo frequentò<br />

quotidianamente, insieme ad alcuni «studenti di Ottana<br />

che stavano a pensione in Via Baylle». 1 Questi avevano la<br />

fortuna, in quegli anni di razionamenti e di fame, di avere<br />

alle spalle delle famiglie «di grossi armentari e agricoltori»<br />

che li rifornivano di abbondanti quantità di cibo di cui anche<br />

gli amici meno abbienti potevano godere.<br />

Finiti gli studi universitari, i due giovani si persero di<br />

vista, entrambi assorbiti dagli impegni professionali e attratti<br />

in orbite culturali e politiche almeno apparentemente<br />

diverse. Si ritrovarono nel 1961, come membri della giuria<br />

del “Premio Iglesias” cui parteciparono per molti anni durante<br />

i quali ebbero modo di ristabilire su basi più solide<br />

e durature la loro amicizia.<br />

Dell’amico di gioventù, com’era stato durante l’ormai<br />

lontano periodo cagliaritano, Armando Congiu ci dà un vibrante<br />

ritratto nel testo col quale introduce la traduzione<br />

in sardo sulcitano dell’Antigone di Sofocle, curata da Paride<br />

Rombi e pubblicata dalla “Lao Silesu” di Iglesias nel<br />

1983: «Lo ricordo perfettamente: asciutto, biondo, con le<br />

mani nelle tasche di un soprabito forse un po’ piccolo per<br />

1. A. Congiu, “Motivazione”, in Antigone di Sofocle, traduzione in sardo<br />

(campidanese-sulcitano) di P. Rombi, Iglesias, Lao Silesu, 1983, p. 3.<br />

7


lui e con una lunga sciarpa avvolta con un solo giro intorno<br />

al collo e abbandonata per il resto lungo i fianchi fin<br />

quasi a lambire l’orlo del cappotto.<br />

Di che cosa ci occupassimo, non ricordo: non dovevano<br />

essere cose di gran conto se è vero che a me non<br />

ne è rimasta memoria alcuna: neppure se ci fu un parlare<br />

della guerra, e del fascismo e dei tedeschi e di quello che<br />

succedeva al di là del Tirreno». 2<br />

Però, per chi abbia letto <strong>Perdu</strong>, non è difficile immaginare<br />

che, qualunque fosse l’oggetto o gli oggetti delle conversazioni<br />

di quel gruppetto di studenti durante i loro vagabondaggi<br />

«fra la Via Roma, il Largo e la Piazza Martiri, in<br />

un dolce far nulla e nulla progettare», 3 uno di loro – quello<br />

“asciutto e biondo” con la lunga sciarpa attorno al collo e<br />

il “cappotto forse un po’ piccolo per lui” – pur in quella<br />

Cagliari devastata dalla guerra, nel segreto della fantasia e<br />

della memoria continuasse a sentirsi immerso nell’atmosfera<br />

stregata dei luoghi della sua infanzia. «Una terra vergine,<br />

selvatica, potente nelle manifestazioni spesso tragiche delle<br />

forze della Natura, ma al tempo stesso tranquilla, favorevole<br />

alla nostalgia e alla poesia». 4<br />

La sua regione natale, il Sulcis, domina in ogni caso<br />

con le sue luci e le sue ombre su quasi ogni pagina di <strong>Perdu</strong>,<br />

il romanzo col quale nel 1952 Paride Rombi vinceva il<br />

“Premio Grazia Deledda”, allora alla sua prima edizione.<br />

Nel frattempo, dopo una parentesi di tre anni in cui<br />

aveva fatto il militare in aeronautica come sottufficiale e<br />

poi ufficiale, Paride Rombi si era laureato a pieni voti, si<br />

era sposato, era diventato padre di quattro figli e, dal<br />

1947, era entrato in magistratura. Nel 1953, quando <strong>Perdu</strong><br />

veniva presentato al pubblico italiano nella prestigiosa<br />

collana “La Medusa degli Italiani” di Mondadori, l’autore<br />

2. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 3.<br />

3. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 4.<br />

4. Cfr. p. 35 della presente edizione.<br />

8<br />

Prefazione<br />

risiedeva da alcuni anni a Sondrio, con la funzione di<br />

Giudice istruttore presso quel tribunale.<br />

Non erano dunque mancate al giovane intellettuale<br />

sulcitano esperienze di altri luoghi e di altre condizioni di<br />

vita ma, come è quasi regola per molti artisti, a imporglisi<br />

nel momento creativo erano i paesaggi e la condizione<br />

umana che avevano improntato il suo mondo negli anni<br />

formativi dell’infanzia. È ciò che accade in questo suo romanzo<br />

d’esordio, dove il Sulcis è presente o per i riferimenti<br />

diretti a questa particolare regione come scenario<br />

del dramma, o per l’esplicito richiamarla alla memoria<br />

rapportandosi ad essa, quando la vicenda s’è temporaneamente<br />

spostata in altri luoghi.<br />

Così, per esempio, nella poetica descrizione dell’arrivo<br />

a Cagliari del piccolo protagonista del romanzo, possiamo<br />

leggere: «<strong>Perdu</strong> dimenticò ogni cosa, anche il processo e<br />

sua madre, dinanzi a questo spettacolo. A bocca aperta,<br />

appena fuori il portone della stazione, sotto il palmizio e i<br />

banani … egli mentalmente comparava tutto ciò che vedeva<br />

con i luoghi silenziosi e semplici nei quali era sino<br />

allora vissuto. Come era lontana da lì, Terreluxi! Le sue<br />

poche case, i campi seminati, i filari dei mandorli e i ciuffi<br />

radi degli ulivi e le siepi di fichidindia e gli scogli, i grandi<br />

sassi bruni del monte Tamara …». 5<br />

Questi «luoghi silenziosi e semplici» ma, come si vedrà,<br />

tanto drammatici, Paride Rombi ce li presenta distesamente<br />

già in apertura di romanzo con un brano stilisticamente<br />

tipico per lui, in cui la volontà di dar loro una obiettiva<br />

collocazione geografica («dalle ultime frange della pianura<br />

campidanese, subito dopo Siliqua, fino al golfo di Teulada<br />

…»), è travolta dalla spiccata propensione alla metafora<br />

del giovane scrittore: «Il Sulcis, forse più che altre zone<br />

della <strong>Sardegna</strong>, offre spettacoli stranamente misti di pianto<br />

5. Cfr. p. 73.<br />

9


e di riso, di violenza selvaggia e di soavità, di cupa severità<br />

e di incantevole grazia. Quel ribollimento di alture, di<br />

gobbe, di tumuli di terra e di roccia, insomma di monti,<br />

ora nudi e austeri ora morbidi di vegetazione, e non disposti<br />

a catena come tutti gli altri monti, ma affastellati a<br />

spintoni, sbalordiscono per la varietà di prospettive, per i<br />

silenzi e le solitudini paurose che vi si spalancano, per la<br />

pace stagnante che vi regna. Il Sulcis è tutto così. Di balza<br />

in balza, dalle ultime frange della pianura campidanese,<br />

subito dopo Siliqua, fino al golfo di Teulada e alle isole<br />

dell’arcipelago sulcitano, il sole bacia e indora, infuoca e<br />

arroventa, carezza e castiga la terra, che il mare a sua volta<br />

blandisce e culla, quando però non la schiaffeggia di<br />

onde con una collera che ha del titanico». 6<br />

È questa dunque la regione dove si svolgerà il dramma<br />

che è di <strong>Perdu</strong>, ma che è anche della comunità di cui <strong>Perdu</strong><br />

è figlio. Figlio ripudiato e vittima, ma non perciò meno<br />

figlio. Un dramma nel quale quella tale società e quella<br />

particolare regione fanno dunque da scenario ma anche da<br />

coro. E finiscono per esserne deuteragonisti e conditio sine<br />

qua non.<br />

Come è nella logica interna di un racconto come <strong>Perdu</strong>,<br />

dove la corrispondenza tra la natura circostante e<br />

l’intrecciarsi e il divampare dei sentimenti che si vivono è<br />

totale, nel libro alla descrizione del territorio segue immediatamente<br />

quella accorata e quasi disperata della gente<br />

che vi abita: «Qui vive una stirpe dimenticata e povera, di<br />

abitudini semplici e ignara di come sia grande il mondo,<br />

e complicato e assurdo, e diverso dalla loro terra. Gli uomini<br />

sono pochi in rapporto alla vastità dello spazio, e<br />

questo fa sì che per lunghissimi tratti la campagna sia talmente<br />

vuota, solitaria e desolata. Anche nel carattere degli<br />

abitanti si rispecchiano questi elementi di contrasto fra<br />

6. Cfr. p. 35.<br />

10<br />

Prefazione<br />

letizia e amarezza. Le ragazze, se cantano, cantano nenie<br />

simili a lamentazioni, anche se parlano d’amore. Gli uomini<br />

sono tranquilli e sereni, mansueti, ma, come quando il<br />

vento si desta rabbioso e acquista repentinamente una<br />

violenza inaudita, sì da riuscire a spezzare perfino i sugheri,<br />

quegli stessi uomini si trasformano completamente<br />

allorché la passione li travolga. Una sola cosa domina comunque<br />

su tutto, la miseria». 7<br />

Questo Sulcis arretrato e povero, con la sua spesso violenta<br />

bellezza e la sua guatante tragedia, appare all’autore<br />

come la quintessenza stessa della <strong>Sardegna</strong> in un tempo<br />

quasi mitico ma vagamente collocabile nella prima metà del<br />

XX secolo, e fu il paesaggio fisico e umano che, come si<br />

può desumere anche dai già citati ricordi di Armando Congiu,<br />

Paride Rombi continuò a portarsi dentro tutta la vita<br />

come il luogo concreto nel quale anche il suo impegno intellettuale<br />

e politico trovava la sua collocazione più sentita.<br />

Nella miseria, nell’ignoranza e nella solitudine inizia,<br />

matura e si compie il destino di <strong>Perdu</strong>, il piccolo protagonista<br />

del libro. Figlio di “padre ignoto” e di Angiuledda, una<br />

ragazza bella e chiacchierata, che deve guadagnarsi la vita<br />

servendo qua e là presso famiglie di proprietari benestanti,<br />

<strong>Perdu</strong> cresce sino ai sette anni e mezzo insieme al nonno,<br />

un vecchio burbero e taciturno che sembra incapace di<br />

esprimere e forse anche di provare sentimento alcuno.<br />

<strong>Perdu</strong> è invece un bambino sensibile e aperto che,<br />

aiutato dalla sua innocenza e dalla sua ignoranza, può vivere<br />

quei suoi primi anni di silenziosa solitudine in una<br />

specie d’inconsapevole atarassia solo turbata dal mistero,<br />

che intuisce vergognoso e che però anela a svelare, di cui<br />

è circondata la sua nascita. Su di essa corrono voci che<br />

<strong>Perdu</strong> percepisce ma sulle quali né il nonno né Angiuledda<br />

vogliono dargli certezza.<br />

7. Cfr. pp. 35-36.<br />

11


«La sua esistenza era, in definitiva, serena. La stessa<br />

miseria nella quale viveva non poteva realmente affliggerlo<br />

perché, essendovi nato e non avendo la possibilità di<br />

conoscere come si possa vivere meglio, gli mancava quell’elemento<br />

di comparazione che forma il sostrato dell’ansietà,<br />

dell’invidia e dei desideri inappagati di cui noi tutti<br />

soffriamo. Egli se ne stava tranquillo nella casa del nonno,<br />

in attesa dei brevi ritorni di sua madre». 8<br />

Col passare del tempo però, il bisogno di riuscire a scoprire<br />

l’identità del padre diventa per <strong>Perdu</strong> quasi un’idea<br />

fissa. «In questa ostinata ricerca – tema dominante del libro<br />

e nel quale forse è adombrata un’allegoria dell’uomo<br />

alle prese col proprio mistero – <strong>Perdu</strong> è seguito … di tappa<br />

in tappa, di inganno in disinganno, fino a quando non<br />

scopre la verità o quella che crede tale», scrive Adriano<br />

Vargiu nella sua antologia di scrittori sardi contemporanei,<br />

Un’isola tra passato e futuro. 9<br />

La prima “tappa”, o tregua, nella tormentosa ricerca di<br />

<strong>Perdu</strong>, che a questo punto della storia dunque ha da poco<br />

compiuto i sette anni, è costituita dalle nozze di Angiuledda<br />

con un uomo che anche di fronte alla legge lo<br />

riconosce come suo figlio. Per qualche tempo, <strong>Perdu</strong> può<br />

illudersi che questo riconoscimento sia la risposta alle speculazioni<br />

che, nel suo piccolo cuore, minacciavano di travolgere<br />

anche il rispetto, che voleva conservare e l’amore<br />

che sentiva illimitato, per sua madre.<br />

Ma la tregua è solo l’attimo di quiete prima dell’esplosione<br />

della tempesta che – con la morte di Angiuledda,<br />

trucidata in un raptus di gelosia dal marito che a sua volta,<br />

qualche anno più tardi, viene ucciso a sangue freddo<br />

dal nonno di <strong>Perdu</strong> – travolge tutti i personaggi del dramma<br />

sino alla morte dello stesso <strong>Perdu</strong>.<br />

8. Cfr. p. 37.<br />

9. A. Vargiu, Un’isola tra passato e futuro, Messina-Firenze, G. D’Anna,<br />

1976, p. 377.<br />

12<br />

Prefazione<br />

Nel penultimo capitolo del libro, <strong>Perdu</strong> ormai quattordicenne,<br />

quasi folle per una rivelazione atroce fattagli dal<br />

nonno, che è in carcere e che poco dopo si darà la morte<br />

con le sue stesse mani, fugge all’impazzata e, dopo una<br />

corsa di una notte e un giorno, giunge «stremato in vista<br />

dei monti di Iglesias, la sera del primo giorno di luglio». 10<br />

«Profondamente stanco <strong>Perdu</strong> si adagiò sul terreno all’indietro<br />

giacendo così supino finché le stelle si accesero<br />

ed arsero nel curvo cielo. Stando così sembrava che neppure<br />

la sete si sentisse più tanto. Era solo affaticato, era<br />

stanco. Ma non aveva più paura. Ecco, adesso gli sembrava<br />

veramente di non avere più nemmeno paura». 11<br />

Con quest’immagine di riposo e quasi di pace si chiude<br />

la tenebrosa storia di <strong>Perdu</strong>, l’infelice bambino di Terreluxi,<br />

“Terra di luce”, toponimo di fantasia come Iddarta, “Paese<br />

alto”, che è l’altra località in cui, ormai adolescente, esso<br />

precipita alla fine del suo tragico itinerario esistenziale.<br />

Il breve capitolo seguente, che è l’ultimo, è dominato<br />

dalla minuziosa e sconvolgente descrizione del cadavere<br />

di un ragazzo in stato di avanzata decomposizione, come<br />

venne trovato dai «carabinieri di Gonnesa, avvertiti da una<br />

squadra di mietitori».<br />

I carabinieri prontamente ne diedero «informazioni<br />

all’autorità giudiziaria di Iglesias. Dalla pretura di Iglesias<br />

un giovane magistrato fu mandato sul posto per gli accertamenti<br />

del caso. Il magistrato vi si recò, seguito dal<br />

cancelliere, da un medico e da un brigadiere di polizia.<br />

Il drappello era guidato dal maresciallo dei carabinieri di<br />

Gonnesa, che aveva effettuato le prime costatazioni …<br />

L’autorità giudiziaria accertò che il ragazzo era morto da<br />

quindici o venti giorni e che era presumibilmente da<br />

escludersi una causa delittuosa. Questo fu tutto. Nonostante<br />

le più diligenti indagini non si venne mai a sapere<br />

10. Cfr. p. 163.<br />

11. Cfr. p. 164.<br />

13


né chi fosse quel ragazzo, né per qual ragione propriamente<br />

egli fosse morto. Nessuno in quella regione lo conosceva,<br />

nessuno lo aveva mai visto; nessuno ne reclamò<br />

il cadavere, nessuno ne chiese notizie. Ancor oggi, negli<br />

archivi della giustizia, se si andasse a cercare il fascicolo<br />

di quella “pratica” si noterebbe che sul frontespizio campeggia<br />

la parola: “ignoto”». 12<br />

La precisione e l’asciuttezza di queste pagine prive di<br />

ambizioni letterarie, e dove gli stessi nomi delle località –<br />

Gonnesa e Iglesias – realmente esistenti nella toponomastica<br />

sarda e italiana e non, come Terreluxi e Iddarta, inventate<br />

dal romanziere, sono in forte contrasto stilistico<br />

con gli altri capitoli del libro.<br />

Queste pagine però nelle intenzioni dell’autore hanno<br />

probabilmente la “funzione” – e non so se il merito – di<br />

offrire una chiave di lettura del romanzo, suggerendo tra<br />

le righe l’informazione (non indispensabile) che l’inquirente,<br />

cui era toccata la sventura di dover condurre quell’indagine<br />

fallimentare e che dovette rassegnarsi ad archiviarla<br />

sotto il terribile titolo “ignoto”, era identico al narratore del<br />

romanzo.<br />

Se Paride Rombi nella sua veste di magistrato era stato<br />

costretto a chiudere in modo così sconfortante quella<br />

“pratica” che forse fu una delle prime nella sua carriera,<br />

da privato cittadino non aveva potuto cancellare dalla sua<br />

memoria e dai suoi sentimenti l’immagine di quel ragazzo<br />

che ufficialmente aveva dovuto affidare all’oblio totale<br />

senza neppure un nome, e che per sempre era stato sepolto<br />

sotto il peso immane di una sua misteriosa tragedia<br />

conclusasi nel silenzio e nella solitudine più assoluti.<br />

Il giovane intellettuale sulcitano aveva continuato a<br />

portare dentro di sé il ricordo di quel morto anonimo sino<br />

a che, alla fine, l’ignoto di cui nessuno aveva chiesto né<br />

dato notizie, che nessuno ricordava di aver mai visto, di<br />

12. Cfr. pp. 165-166.<br />

14<br />

Prefazione<br />

cui nessuno aveva reclamato il corpo ebbe un nome, una<br />

storia e un luogo di nascita attraverso i quali anch’esso<br />

aveva potuto trovare, almeno nella realtà della letteratura,<br />

quella collocazione nella comunità umana cui, buona o<br />

anche cattiva che essa sia, ogni nato di donna dovrebbe<br />

aver diritto. La sensibilità e la fantasia del magistrato-poeta<br />

erano state il terreno fertile dove quel seme caduto in un<br />

caldo pomeriggio di luglio nelle campagne di Gonnesa<br />

aveva germogliato e aveva continuato a crescere.<br />

E così era nato <strong>Perdu</strong>, un libro che a me sembra avere<br />

tutte le caratteristiche positive e negative di un’opera maturata<br />

nella zona segreta tra il conscio e l’inconscio dove<br />

ha preso forma e dalla quale infine è scaturita quasi di<br />

forza propria, quasi per un’esigenza naturale insita al racconto<br />

stesso che chiedeva di venire alla luce.<br />

Una genesi letteraria che, in questa mia formulazione,<br />

può forse sembrare romantica o magari innecessariamente<br />

misteriosa ma che – mi sia concesso dirlo – io stessa, insieme<br />

a molti altri scrittori, conosco per esperienza personale<br />

e alla quale io, come donna, ho più di una volta dato una<br />

connotazione quasi fisiologica assomigliando la stesura del<br />

libro a un parto facile e felice dopo una gravidanza non<br />

del tutto voluta e per una parte del suo decorso inavvertita.<br />

Queste “nascite” quasi miracolose non sono tanto infrequenti<br />

soprattutto per molte “opere prime”, e – oltre che<br />

il vantaggio per l’autore di una gestazione e un parto non<br />

troppo sofferti – possono avere degli esiti felici per l’opera<br />

stessa. Come <strong>Perdu</strong> e il meritato ed eccezionale successo<br />

di pubblico che ebbe in Italia e all’estero dimostrano. 13<br />

13. <strong>Perdu</strong> incontrò in Italia un tale immediato successo che due ristampe<br />

si resero indispensabili nel giro dello stesso anno. Ebbe anche risonanza<br />

oltre i confini nazionali e fu accompagnato da una serie di traduzioni in<br />

diverse lingue europee: tedesco, francese, inglese, spagnolo, bulgaro,<br />

svedese, danese ecc.<br />

15


Ma simili “parti miracolosi”, specialmente nel caso di<br />

“opere prime” (che non di rado finiscono per diventare<br />

“opere uniche”), non mancano di presentare anche qualche<br />

problema, o svantaggio, dovuto il più delle volte all’ingannevole<br />

facilità con cui il testo è stato composto e<br />

alla conseguente mancanza di quella severa autocritica<br />

che nella scrittura dovrebbe sempre seguire la fase creativa<br />

e che, quando e se manca, fa rischiare all’autore di<br />

mandare per il mondo un figlio un po’ claudicante. O più<br />

claudicante di quanto non avrebbe potuto essere dopo<br />

un’energica e rigida fisioterapia postnatale.<br />

Vantaggi e svantaggi, e cioè anche pregi e difetti.<br />

Dei pregi di <strong>Perdu</strong> così scriveva nel 1952 la Commissione<br />

presieduta da Marino Moretti e composta da Francesco<br />

Casnati, Mario Ciusa, Carmelo Cottone, Giuseppe Ravegnani<br />

nell’atto di conferire al suo autore il “Premio Grazia<br />

Deledda”: «Scrittore giovane, e del tutto inedito alla repubblica<br />

italiana delle lettere con un romanzo, che ha in sé le<br />

virtù necessarie per richiamare l’attenzione sincera della critica<br />

e il giusto successo da parte del pubblico. Romanziere<br />

per dono di natura, alieno da ogni moda letteraria, sicuro<br />

animatore di ambienti e di caratteri umani, Paride Rombi ci<br />

dà con <strong>Perdu</strong> un’opera piena di pathos e sincera, ricca di<br />

fatti e di personaggi, fortemente drammatica nella sua felice<br />

brevità, scritta con mano franca, in un linguaggio aderente<br />

e schivo da ogni bellezza estrinseca. Paride Rombi<br />

vuole soltanto raccontare; ed è questa la prima sostanziale<br />

virtù dell’autentico romanziere. Nella sua opera, tuttavia, il<br />

realismo che osserva e rappresenta con occhio lucidissimo<br />

il tragico dell’esistenza, o, come oggi si dice, della condizione<br />

umana, e le sue brutture e le sue crudeltà, non si<br />

esaurisce nei fatti narrati, non ne limita la portata nella fedeltà<br />

di una cronaca, nell’impassibile precisione di un rogito<br />

o di un verbale, ma ne cerca le cause o meglio le lascia<br />

intuire nella violazione delle grandi leggi morali della vita.<br />

Ed è per questo che la Commissione è certa di aver avuto<br />

16<br />

Prefazione<br />

la fortuna di scoprire nel Rombi, che per sorte è nato nella<br />

terra di <strong>Sardegna</strong>, un nuovo romanziere della nostra letteratura<br />

contemporanea». 14<br />

Molti anni son passati da quel lontano 1952, e i critici<br />

della giuria del “Grazia Deledda” videro sicuramente giusto<br />

premiando <strong>Perdu</strong> e lodando con tanto calore e convinzione<br />

le “virtù” del romanzo e dell’autore.<br />

Per quanto mi riguarda devo onestamente confessare<br />

– anche se la sede forse può sembrare inopportuna – che,<br />

dopo un’attenta rilettura del libro e col maggiore bagaglio<br />

d’esperienza umana e letteraria che il tempo ha depositato<br />

dentro di me, oggi son propensa a dar loro ragione<br />

più di quanto non riuscissi a dargliene allora, quando di<br />

questo romanzo più che alle “virtù” io avevo reagito a<br />

quelli che secondo me erano i “vizi”, o difetti e limiti.<br />

Difetti e limiti che ancora oggi mi disturbano ma ai<br />

quali allora, forse a causa della mia ancora acerba preparazione<br />

culturale, reagii con una severità che oggi mi sembra<br />

eccessiva e perciò ingiusta. Se val la pena di parlarne<br />

in questo contesto, è perché quella mia reazione, del tutto<br />

solitaria e privatissima, era probabilmente condivisa a<br />

mia insaputa da altri miei coetanei italiani, e sardi in modo<br />

particolare, che come me anche nelle loro letture cercavano<br />

delle nuove strade. E che in questo libro non le<br />

avevano trovate.<br />

Solo pochi anni prima eravamo usciti senza quasi nessuna<br />

esperienza di cultura moderna dal mondo soffocantemente<br />

ermetico e conservativo – in senso politico ma anche,<br />

in parte, letterario – del ventennio e della guerra. La<br />

cui fine, col conseguente socchiudersi delle nostre finestre<br />

verso mondi che sino ad allora ci erano stati inaccessibili,<br />

aveva corrisposto per la mia generazione all’età emotiva e<br />

ansiosamente fertile dell’adolescenza.<br />

14. Come da seconda di copertina, in P. Rombi, <strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori,<br />

1955.<br />

17


La pace era stata per noi un’esplosione d’informazioni<br />

ad ogni livello che, allargando il nostro orizzonte, non saziavano<br />

anzi aumentavano il nostro desiderio di conoscere<br />

di più. Ci dominava l’ansia d’affacciarci, al più presto<br />

possibile e quanto più estesamente possibile, oltre il chiuso<br />

del nostro vecchio orto che ci pareva piccolo e inadeguato<br />

al bisogno che sentivamo oscuro ma fortissimo<br />

d’entrare nella modernità. Cioè di diventare culturalmente<br />

contemporanei a noi stessi.<br />

Subito ci eravamo gettati a divorare, più o meno per<br />

caso e disordinatamente, tutti i libri che riuscivamo a trovare<br />

nelle librerie e nelle smilze biblioteche pubbliche e<br />

private della nostra provincia. Alla rinfusa ci arrivavano<br />

dal loro mondo anglossassone e col loro per noi ancora<br />

inaudito modo di raccontarlo Steinbeck, Hemingway, Dos<br />

Passos, Caldwell, Orwell, D. H. Lawrence…<br />

Poi scoprimmo Le mani sporche di Sartre e, ancora<br />

più importante, La peste di Camus… (Simone de Beauvoir<br />

arrivò, almeno per me, un po’ più tardi ma il suo spirito<br />

era nell’aria. Come nell’aria, più che nei testi teoretici di<br />

Sartre che non erano di tanto facile accesso, era già – forse<br />

mal digerito ma presente – l’esistenzialismo che con la<br />

poesia di Prévert ci giungeva attraverso le voci di Juliette<br />

Gréco e di Ives Montand).<br />

Intanto vedevamo con la stessa avidità e nello stesso<br />

disordine nuovi e vecchi film francesi, americani e russi e,<br />

nelle riviste gratuitamente distribuite dall’U.S.I.S., leggevamo<br />

articoli divulgativi sulle nuove frontiere della psicologia<br />

e della sociologia. Alla radio ascoltavamo, col trasporto<br />

con cui duemila anni fa i neofiti dovettero ascoltare la<br />

Parola del Signore, Zoo di vetro e Un treno chiamato desiderio<br />

di Tennessee Williams.<br />

Ma anche le voci italiane avevano cominciato a giungerci,<br />

sempre più persuasive, col Vittorini delle Conversazioni<br />

in Sicilia e di Garofano rosso, con Pratolini e la sua Firenze<br />

civilissima e proletaria, con Pavese di Lavorare stanca<br />

e dei suoi sconvolgenti racconti in La bella estate, Il diavolo<br />

18<br />

Prefazione<br />

sulle colline, Donne sole, Il compagno, La luna e i falò, nei<br />

cui personaggi, sentendoli nostri contemporanei, potevamo<br />

almeno in parte identificarci. Un processo psicologico-intellettuale<br />

che ci era necessario operare e incessantemente<br />

rinnovare per non continuare a sentirci troppo strani e soli<br />

in un mondo in cui non ci riconoscevamo e dal quale ci<br />

sentivamo imprigionati.<br />

In quegli stessi anni di quasi affannose e – per quanto<br />

mi riguardava – disordinate e solitarie letture, c’imbattemmo<br />

in Calvino con il suo giovanile Il sentiero dei nidi di<br />

ragno e nel paradigmatico Cristo si è fermato a Eboli di<br />

Carlo Levi che io accolsi come l’attesa e necessaria rivelazione<br />

di un nuovo stile e di un nuovo approccio a una<br />

realtà sociale e umana che sentivo somigliante alla mia.<br />

Intanto Il Mondo di Mario Pannunzio aveva cominciato<br />

le sue pubblicazioni e, a chi voleva ascoltare – e non<br />

erano pochi ma disgraziatamente neanche tanti e tanto organizzati<br />

da avere il peso necessario nel conflitto culturale<br />

e politico che divideva l’Italia – portava settimanalmente<br />

quell’ossigeno di cultura, di stile e di etica politica di cui<br />

l’Italia in quel momento (ma non solo allora!) aveva tanto<br />

bisogno. E dava «informazioni esatte e proposte ragionevoli<br />

su quei problemi immediati della vita italiana che i<br />

capi dei partiti ignorano, mentre risolvono altri problemi<br />

per via di licitazioni private». Come scriveva Gaetano Salvemini,<br />

auspicando per l’Italia una «terza via … nella quale<br />

si incanalerebbero le anime disperse, visto che – constatava<br />

– una “terza forza” disgraziatamente non esiste». 15<br />

E attraverso le colonne de Il Mondo cominciavano a<br />

diventarci familiari i nomi di Anna Maria Ortese, di Anna<br />

Garofalo, di Corrado Alvaro, di Fortunato Seminara, di<br />

Rocco Scotellaro, di Leonardo Sciascia, di Giovanni Russo,<br />

tanto per farne solo alcuni fra quelli che molto importarono,<br />

e nei quali riconoscevamo una parte di noi.<br />

15. G. Salvemini, in A. Garofalo, Cittadini sì e no, Firenze, 1956, pp. VIII-<br />

IX.<br />

19


Il neorealismo nella letteratura e nel cinema stava rinnovando<br />

in Italia il modo di vedere e di raccontare gli uomini<br />

e la vita e corrispondeva al nostro bisogno di un linguaggio<br />

sobrio e trasparente che proprio in forza della sua sobrietà<br />

e trasparenza potesse incidere su quella realtà sociale intollerabilmente<br />

ingiusta che sentivamo, fra l’altro, come principale<br />

causa ed effetto dei pesanti anacronismi che ancora<br />

caratterizzavano la nostra esistenza anche come sardi.<br />

Nelle nostre ansie e aspirazioni, solo il presente contava<br />

e, perché era insoddisfacente, bisognava modificarlo.<br />

E non era nel passato, neppure letterario, che dovevamo<br />

e volevamo trovare i modelli.<br />

Soprattutto per questi motivi, quelli che allora eravamo<br />

giovani non eravamo idonei – io non ero idonea – ad<br />

accogliere <strong>Perdu</strong> con la stessa simpatia con cui la giuria<br />

del “Grazia Deledda” lo accolse nel 1952 e con cui oggi,<br />

quasi cinquant’anni più tardi, sotto impulsi e con bisogni<br />

diversi l’ho appena riletto.<br />

La giuria che li aveva premiati parlava delle “virtù”<br />

del libro e del suo autore, io con l’assolutistica e impietosa<br />

severità dei giovani, e nella mia solitudine intellettuale<br />

che mi teneva felicemente libera da un dovere d’obiettività<br />

critica, mi permettevo di concentrarmi sui loro “peccati”,<br />

quasi “vizi”.<br />

<strong>Perdu</strong> mi sembrò un’eco del passato letterario sardo, un<br />

anacronismo, forse anche un’occasione mancata, nonostante<br />

il suo successo. Non per la storia che vi si raccontava, la<br />

cui solenne ineluttabilità da tragedia greca avrebbe potuto<br />

affascinarmi anche allora, ma per la sovrabbondanza di colore<br />

con cui l’autore l’aveva rappresentata, con ciò relegandola<br />

quasi automaticamente (così mi sembrò) in una riserva<br />

indiana di rusticana esoticità, tanto remota e statica da urtare<br />

la mia urgenza giovanile di prospettive e di sbocchi.<br />

L’abuso di metafore e di quasi automatiche e perciò<br />

stucchevoli e poco persuasive analogie tra il mondo umano<br />

e quello della natura non solo mi disturbava esteticamente<br />

20<br />

Prefazione<br />

(come ancora mi disturba) ma mi feriva nel mio bisogno di<br />

concretezza, di semplicità e di aderenza a una realtà umana<br />

contemporanea e modificabile di cui allora sentivo tanto<br />

l’urgenza. Allo stesso tempo, quasi paradossalmente, mi pareva<br />

che – anche in concomitanza con queste imperfezioni<br />

stilistiche – la stessa insistenza con la quale già nella prima<br />

pagina del libro l’autore s’affannava a definire l’unicità etnica<br />

(“razza sulcitana”, “tipi sulcitani”, “i bambini sulcitani”, “le<br />

ragazze sulcitane”, «abitudine diffusissima fra le ragazze sulcitane»,<br />

«un “maureddu” di stampo antico», ecc.) 16 della regione<br />

in cui si sarebbe svolta la storia di <strong>Perdu</strong>, contribuisse<br />

a estraniarla da un contesto storico reale e in possibile divenire<br />

nel quale potessi sentirmi coinvolta. Me la faceva sentire<br />

remotissima, ma non abbastanza remota e purificata dal<br />

contingente da diventare mitica.<br />

La gelosia e la vendetta, la violenza e gli abusi sui<br />

bambini e sulle donne, che sono purtroppo tragici fenomeni<br />

universali e che sono il filo rosso di questo romanzo,<br />

mi sembrava che così vi venissero ridotti alla dimensione<br />

di fenomeni esotici e folkloristici. La tragedia di <strong>Perdu</strong> che,<br />

senza dover rinunziare all’indignazione suscitata da una situazione<br />

precisa e particolare, avrebbe potuto essere la<br />

metafora di una condizione esistenziale umana generale,<br />

diventava invece la storia disperata di un piccolo gruppo<br />

etnico senza legami col mondo. E senza futuro. Il che allora,<br />

nella mia ansia di trasformazioni, mi disturbava come la<br />

cosa più negativa e più grave.<br />

Scrivendo probabilmente di getto sotto la piena dei<br />

sentimenti e delle immagini che il mistero dello sconosciuto<br />

trovato morto in un pomeriggio d’estate continuava a<br />

suscitare nel suo spirito, il giovane scrittore non aveva avuto<br />

l’esperienza e l’autocontrollo che l’avrebbero aiutato a<br />

evitare quegli abusi di colore e le generalizzazioni che forse<br />

erano del suo linguaggio di magistrato ma che io allora,<br />

16. Cfr. p. 33.<br />

21


nella mia giovanile intolleranza e inesperienza, avevo interpretato<br />

come la scelta deliberata di quel supposto “modello<br />

deleddiano” che in <strong>Sardegna</strong> alcuni consideravano<br />

ancora come l’unico valido per un racconto “d’ambiente<br />

sardo”. Ma che a me, come probabilmente a molti dei<br />

miei coetanei, pareva abominevole.<br />

Questo “modello deleddiano” (non Grazia Deledda e i<br />

suoi libri, che forse in quel periodo non molti leggevano)<br />

era per me il fantasma d’un ipotetico e statico “ambiente<br />

sardo” avulso dalla storia italiana, europea e mondiale e<br />

separato dal resto del mondo come un pianeta a sé stante.<br />

Il “modello deleddiano” pesava ancora in modo deteriore<br />

su alcuni scrittori o aspiranti scrittori sardi di quel periodo,<br />

relegandoli nel folklore e ostruendone la strada verso il<br />

mondo reale e contemporaneo. Io, nella mia solitaria insofferenza,<br />

lo omologavo a certe tendenze anche politiche<br />

che, mitizzandone il passato, cercavano di ostacolare l’ingresso<br />

della nostra Isola nel presente.<br />

C’era chi a quel modello si era rifiutato, e i nomi di<br />

Giuseppe Dessì, di Emilio Lussu e di Francesco Brundu<br />

(Francesco Fancello) sarebbero sufficienti, ma mi piace<br />

aggiungere ad essi quelli degli allora giovanissimi Franco<br />

Solinas e Giuseppe Zuri, alias Salvatore Mannuzzu. Il primo<br />

morì disgraziatamente troppo presto lasciandoci un<br />

solo romanzo, Squarciò, che merita di non venir dimenticato;<br />

il secondo ha da molto lasciato lo pseudonimo e<br />

continua ad arricchire la letteratura italiana e sarda con<br />

opere dove la sardità non è d’ostacolo alla modernità del<br />

sentire e del vivere.<br />

Nel mio bisogno di rompere la catena degli anacronismi<br />

in cui, anche nelle sue espressioni letterarie ed artistiche,<br />

relegandola nel folklore, mi pareva che si tendesse a<br />

continuare a tenere la mia regione, e nel gusto della semplicità<br />

e trasparenza che gli autori anglossassoni e i neorealisti<br />

e meridionalisti italiani mi stavano dando, avevo<br />

dunque rifiutato <strong>Perdu</strong> senza riuscire a gradirne neppure<br />

22<br />

Prefazione<br />

le distese e innamorate evocazioni di paesaggi e di atmosfere,<br />

i forti ritratti di alcuni personaggi anche secondari,<br />

nonché la sincera e impietosa denunzia dell’ignoranza e<br />

dell’arretratezza sociale che pure conteneva. Non ricordo<br />

neppure di averne apprezzato i teneri e allo stesso tempo<br />

acuti approfondimenti della psiche infantile che oggi mi<br />

sembrano mirabili.<br />

Oggi la prospettiva storica è cambiata e anche le mie<br />

motivazioni personali di lettrice sono diverse. Il “modello<br />

deleddiano” non è più un pericolo incombente, la <strong>Sardegna</strong><br />

bene o male è entrata nel mondo attuale e, a mezzo<br />

secolo dal suo concepimento, il romanzo di Paride Rombi<br />

ha, e oggi può permettersi di avere, una sua patina.<br />

In un certo qual modo è come se “l’età gli abbia donato”:<br />

gli avvenimenti e le persone che vi sono descritti ci<br />

sembrano appartenenti a un passato lontano e indefinito<br />

che ha avuto – se le ha avute – una sua realtà e una sua<br />

attualità nelle quali oggi però sarebbe assurdo cercare risposte<br />

al nostro presente e tanto meno indicazioni per il<br />

nostro futuro. A questa distanza di tempo vi si delinea con<br />

più chiarezza persino quella dimensione mitica che allora<br />

ci pareva messa in ombra dalle troppe precisazioni sul<br />

contingente. Un contingente che con gli anni si è trasformato<br />

esso stesso in mito.<br />

Per questo mi sembra giusto riproporre <strong>Perdu</strong> alla lettura<br />

di un pubblico nuovo di lettori e di critici con esigenze<br />

diverse da quelle che avevamo noi che eravamo giovani<br />

al momento della sua pubblicazione e che vi abbiamo inutilmente<br />

cercato ciò che allora ci occorreva, ma che questo<br />

libro fuori del suo e del nostro tempo non poteva darci.<br />

Almeno secondo quanto mi risulta da questo mio manchevole<br />

osservatorio copenaghese, dove molto di ciò che<br />

si scrive in Italia e in <strong>Sardegna</strong> può sfuggirmi, non sono<br />

molte le pagine che i critici e gli storici sardi (tutti probabilmente<br />

all’incirca miei coetanei) hanno dedicato a Paride<br />

Rombi nelle loro opere sulla letteratura sarda moderna.<br />

23


Ancora meno, quasi ovviamente, gliene hanno dedicato<br />

i critici e gli storici italiani che solo di rado hanno<br />

avuto voglia e tempo d’accorgersi di ciò che avveniva e<br />

avviene in quest’Isola italiana d’oltremare.<br />

In <strong>Sardegna</strong>, Giovanni Pirodda cita Paride Rombi e<br />

<strong>Perdu</strong> nella sua vasta bibliografia, ma nel volume non dedica<br />

loro una sola frase. 17<br />

In Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Nicola Tanda scrive di lui un<br />

po’ più a lungo di altri, ma con terribile severità: «Paride<br />

Rombi si muove sul medesimo terreno della Deledda, ripetendone<br />

in peggio i difetti: la sua narrazione ha una<br />

partenza naturalistica che, come definizione culturale è<br />

anteriore alla Deledda medesima e la vicenda nasce da un<br />

montaggio documentario che segue i luoghi comuni del<br />

romanzesco deteriore, sebbene non manchi, proprio per<br />

questo, di suggestione». 18<br />

Giovanni Mameli, in Scrittori sardi del Novecento, è<br />

più clemente e scrive: «Quello di Paride Rombi è stato un<br />

caso letterario clamoroso … È un peccato che Rombi abbia<br />

interrotto la sua carriera letteraria agli inizi, non andando<br />

al di là di due romanzi, il secondo dei quali non<br />

ha una storia “forte” come il primo». 19<br />

Invano ho cercato nella mia collezione di riviste e libri<br />

sardi degli ultimi quarant’anni – che però, occorre forse ripetere,<br />

è molto incompleta e piuttosto fortuita – altri articoli<br />

su quest’autore e questo libro che pure meritano di non venir<br />

dimenticati, ma che, dal silenzio che è calato su di loro,<br />

quasi sembrerebbe che siano passati nel cielo sardo e italiano<br />

come meteore presto scomparse senza lasciar traccia.<br />

Forse all’oblio ha contribuito anche la scarsa frequentazione<br />

e presenza di Paride Rombi, dopo il parto miracoloso<br />

17. G. Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi – <strong>Sardegna</strong>,<br />

Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 67.<br />

18. G. Dessì, N. Tanda, Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Milano, Mursia, 1965, p. 16.<br />

19. G. Mameli, Scrittori sardi del Novecento, Cagliari, 1989, pp. 165-166.<br />

24<br />

Prefazione<br />

di <strong>Perdu</strong>, a quella che la giuria del Deledda chiamava “la<br />

repubblica italiana delle lettere”.<br />

Con l’eccezione di alcune novelle e del romanzo Il raccolto,<br />

pubblicato con scarso successo nel 1969, Paride Rombi<br />

tornò alle stampe solo con la già menzionata traduzione<br />

dell’Antigone che seguì la sua traduzione in campidanesesulcitano<br />

del monologo di Amleto, del Discorso della montagna,<br />

del brano finale dell’Apocalisse, del dialogo di Giulietta<br />

e Romeo, che aveva pubblicato nel n. 16-17 della<br />

rivista La grotta della vipera.<br />

In questo impegnativo lavoro di traduzione dei «brani<br />

più sublimi della letteratura universale» lui, non linguista,<br />

si era gettato per dimostrare che Giovanni Lilliu aveva<br />

torto quando affermava che «solo o prevalentemente il logudorese<br />

potesse, come variante della lingua sarda, esprimersi<br />

compiutamente come lingua letteraria di più alto ed<br />

elaborato livello». Paride Rombi era convinto che «qualunque<br />

dei vari “sardi” parlantisi nell’Isola fosse in grado e<br />

dunque in dignità di svolgere ogni tema per eccelso che<br />

fosse in iscienza e in letteratura». 20<br />

Ma l’impegno solitario e testardo di Paride Rombi per<br />

dimostrare la nobiltà e la duttilità della lingua sarda nelle<br />

sue diverse varianti non fu notato da molti. Le sue traduzioni<br />

non ebbero la meritata risonanza neppure in <strong>Sardegna</strong>,<br />

e oggi sono ingiustamente dimenticate. Paride Rombi<br />

era un cane sciolto che non entrò mai per davvero in<br />

quella tale “repubblica italiana delle lettere”. Forse era, anche<br />

nella sua vita privata, troppo silenzioso e raccolto per<br />

il mondo chiassoso e presenzialista in cui, da circa mezzo<br />

secolo, siamo costretti a vivere.<br />

Maria Giacobbe<br />

20. A. Congiu, “Motivazione” cit., p. 5.<br />

25


NOTA BIOGRAFICA<br />

Paride Rombi nacque nel 1921 a Calasetta, nell’isola di<br />

Sant’Antioco. Nel piccolo centro trascorse l’infanzia e compì<br />

i suoi primi studi rimanendovi fino al 1931, anno in cui<br />

si trasferì con la famiglia a Cagliari. Sottufficiale prima e<br />

poi ufficiale in aeronautica durante la seconda guerra mondiale,<br />

nel dopoguerra si laureò in giurisprudenza nell’Ateneo<br />

del capoluogo sardo, si sposò e, nel 1947, entrò nei<br />

ruoli della magistratura, ove percorse la carriera fino a diventare<br />

Giudice della Corte Costituzionale.<br />

Nel 1952 gli venne assegnato il “Premio Grazia Deledda”<br />

(allora per opere di narrativa inedite) per il romanzo<br />

<strong>Perdu</strong>, che lo stesso Rombi confessava essere la sua vera<br />

“opera prima” non avendo egli in «precedenza … per davvero<br />

mai scritto neanche una novella, tolte semmai le consuete<br />

e insignificanti sperimentazioni ginnasiali». 1 L’opera<br />

fu pubblicata nel gennaio del 1953 da Mondadori, nella<br />

prestigiosa collana “La Medusa degli Italiani”; a cinque<br />

mesi dalla prima seguì una seconda edizione e ancora una<br />

terza nel marzo del ’55.<br />

Nel 1965 pubblicò – prima in tedesco e poi in italiano<br />

(nel 1969, presso le edizioni Leader di Milano alle quali,<br />

in quello stesso anno, si deve anche la quarta edizione di<br />

<strong>Perdu</strong>) – un secondo romanzo, intitolato Il raccolto, che<br />

non ebbe però la stessa fortuna del primo.<br />

Dopo il successo di <strong>Perdu</strong>, al quale da subito si riconobbe<br />

una felice compiutezza ed ebbe quindi un grande<br />

1. Cfr. l’“Autobiografia” scritta dal Rombi per il programma radiofonico<br />

Antologia. Scrittori sardi contemporanei, della “Rai-Trasmissioni Regionali<br />

della <strong>Sardegna</strong>”, andato in onda il 5 dicembre 1981, a cura di Adriano<br />

Vargiu, al quale va il nostro ringraziamento per la segnalazione e l’uso<br />

della fonte.<br />

26<br />

consenso di critica e di pubblico (testimoniato anche da<br />

un considerevole numero di traduzioni straniere), non si<br />

dedicò alla letteratura con l’assiduità degli esordi e, anzi,<br />

interruppe di fatto l’attività di narratore.<br />

Dal ’62 al ’78 fu addetto, in qualità di “scrittore fantasma”<br />

– come egli stesso amava definirsi – all’Ufficio della<br />

Presidenza della Repubblica.<br />

Nella sua attività artistica intercalò ai lunghi “silenzi”<br />

una discontinua produzione di varie opere minori: racconti,<br />

recensioni, noterelle di costume firmate con pseudonimo,<br />

sceneggiature di film. Ebbe modo di misurarsi anche<br />

nel campo della poesia con una raccolta di versi intitolata<br />

I salmi delle tenebre, rimasta però inedita.<br />

Negli anni Ottanta si dedicò ad alcune traduzioni in<br />

campidanese-sulcitano: il monologo di Amleto, il Discorso<br />

della montagna, il brano finale dell’Apocalisse, il dialogo<br />

di Giulietta e Romeo, pubblicate nella rivista La grotta della<br />

vipera, e l’Antigone di Sofocle, edita dalla Lao Silesu di<br />

Iglesias nel 1983.<br />

Morì a Napoli, dove si era trasferito dieci anni prima, il<br />

18 agosto 1997.<br />

27


NOTA BIBLIOGRAFICA<br />

SCRITTI DI PARIDE ROMBI<br />

<strong>Perdu</strong>, Milano, Mondadori, 1953, 1955; Milano, Leader,<br />

1969.<br />

Der knabe und die furien, Amburgo, Claassen Verlag,<br />

1954.<br />

Født i skyld, Copenaghen, Schønberg, 1954.<br />

<strong>Perdu</strong>, New York, Harper, 1954.<br />

<strong>Perdu</strong> and his father, Londra, Rupert Hart-Davis, 1954.<br />

<strong>Perdu</strong>, enfant sarde, Parigi, Mercure de France, 1954.<br />

<strong>Perdu</strong>, Stoccolma, Albert Bonnier Förlag, 1955.<br />

<strong>Perdu</strong>, Buenos Aires, Ed. Guillermo Kraft [1955-56].<br />

Un drama na Sardenha, Lisbona, Livros do Brasil [1955-56].<br />

“Introduzione”, in Paesaggi in Alto Adda e Mera, Lecco,<br />

Stefanoni, 1956.<br />

Piotr, Varsavia, Panstwowy Instytut Wydawniczy, 1956.<br />

“Presentazione”, in G. Mascioni, Teglio di Valtellina, Sondrio,<br />

G. Bonazzi, 1960.<br />

Proces om vader, Parigi, Desclée de Brouwer, 1962.<br />

Il raccolto, Milano, Leader, 1969.<br />

“Esercizi di traduzione in sardo”, in La grotta della vipera,<br />

Cagliari, a. V, n. 16-17, primavera-estate 1980, pp. 54-62.<br />

“Autobiografia”, in Antologia. Scrittori sardi contemporanei,<br />

programma radiofonico a cura di A. Vargiu, RAI <strong>Sardegna</strong>,<br />

1981.<br />

Antigone di Sofocle, traduzione in sardo (campidanesesulcitano),<br />

Iglesias, Lao Silesu, 1983.<br />

28<br />

SCRITTI SU PARIDE ROMBI<br />

F. Alziator, Storia della letteratura di <strong>Sardegna</strong>, Cagliari,<br />

Edizioni della Zattera, 1954, p. 502.<br />

N. Valle, “Prosatori nostri”, in Il Convegno, Cagliari, 1957.<br />

G. Dessì, N. Tanda, Narratori di <strong>Sardegna</strong>, Milano, Mursia,<br />

1965, pp. 16, 279-284.<br />

A. Vargiu, Un’isola tra passato e futuro, Messina-Firenze,<br />

G. D’Anna, 1976, pp. 377-397.<br />

G. Contini, “La letteratura in Italia del Novecento”, in La<br />

<strong>Sardegna</strong>, a cura di M. Brigaglia, vol. I, Cagliari, Edizioni<br />

della Torre, 1982, p. 53.<br />

A. Congiu, “Motivazione”, in Antigone di Sofocle, traduzione<br />

in sardo (campidanese-sulcitano) di P. Rombi, Iglesias,<br />

Lao Silesu, 1983.<br />

M. Brigaglia, Tutti i libri della <strong>Sardegna</strong>, Cagliari, Edizioni<br />

della Torre, 1989.<br />

G. Mameli, Scrittori sardi del Novecento, Cagliari, Edisar,<br />

1989, pp. 165-166.<br />

P. De Gioannis, G. Serri, La <strong>Sardegna</strong>, cultura e società:<br />

antologia storico letteraria, Scandicci (Firenze), La Nuova<br />

Italia, 1991, pp. 28, 490.<br />

G. Marci, Narrativa sarda del Novecento. Immagine e sentimento<br />

dell’identità, Cagliari, Cuec, 1991, pp. 205-212.<br />

G. Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia. Storia e testi<br />

– <strong>Sardegna</strong>, Brescia, Editrice La Scuola, 1992, p. 67.<br />

29


PERDU<br />

Ecce: in iniquitate conceptus sum,<br />

et in peccato concepit me mater mea.<br />

(Ps. 51 v. 6)


CAPITOLO I<br />

La storia di <strong>Perdu</strong> incomincia dal giorno in cui Angiuledda<br />

Vargiu, sua madre, andò sposa ad Efisio Manzella.<br />

<strong>Perdu</strong>, in quel giorno di metà maggio, aveva esattamente<br />

sette anni e mezzo.<br />

La vita del bambino, prima di quel giorno, era stata<br />

priva di storia, simile, vale a dire, a quella di tanti altri<br />

bambini del Sulcis che, come polloni di lentischio spuntati<br />

all’insaputa di tutti nel bosco, conducono la loro ignorata<br />

esistenza in quel mondo ignorato.<br />

Angiuledda Vargiu, figlia di “tziu” Manueli Vargiu contadino<br />

delle terre del conte Salazar, aveva appena quindici<br />

anni ed era ancora nubile quando le nacque il bambino,<br />

cui ella, per devozione a San Pietro Apostolo, pose il<br />

nome di <strong>Perdu</strong>, che in sardo significa appunto Pietro.<br />

Il bambino, fino all’età che si è detta, crebbe nella casa<br />

del nonno, gracile al pari di una canna d’avena selvatica<br />

venuta su fra le rocce. La sua esistenza trascorse in un<br />

quasi totale abbandono. La mamma stava sempre lontano,<br />

a Iddarta o in altri paesi, a servire come domestica presso<br />

qualche famiglia, secondo un’abitudine diffusissima fra le<br />

ragazze sulcitane. Si diceva anzi che fosse in una di queste<br />

lunghe migrazioni fuori di Terreluxi che la ragazza<br />

avesse rimediato quella maternità; naturalmente lo si diceva<br />

d’arbitrio, senza nessuna sicurezza. Quanto al nonno,<br />

bisogna osservare che tziu Manueli Vargiu non era nato<br />

per allietare il suo prossimo e tanto meno per educare alla<br />

gioia un bambino. Tziu Manueli Vargiu era infatti un<br />

“maureddu” di stampo antico, refrattario a commuoversi<br />

per qualunque ragione, chiuso in se stesso come un guscio<br />

di castagna ancora acerba, e riluttante non solo a comunicare<br />

ma anche a lasciar trapelare i propri sentimenti,<br />

seppure ne aveva. Era di quei tipi che, pure sotto l’aspetto<br />

33


PERDU<br />

meramente fisico, si vanno facendo sempre più rari anche<br />

nell’interno del Sulcis. Vestiva il costume di orbace nero,<br />

austero, che pochi sulcitani portano ormai oggidì, composto<br />

di “berritta” lunga ricadente sull’omero, giubbotto corto<br />

con maniche attillate, camicia bianca, brache larghissime<br />

come sacchi di frumento, e uose, anch’esse di orbace,<br />

avvolgenti strettamente la gamba da sotto il ginocchio,<br />

dove giunge la falda dei calzoni, fin sulla scarpa pesante<br />

e chiodata.<br />

Si potrebbe pensare che, in compagnia di un uomo<br />

come Manueli Vargiu, <strong>Perdu</strong> crescesse apatico, arido, se<br />

non scontroso e intrattabile. Ma non fu così. Per una strana<br />

compensazione di caratteri, e forse perché il bambino<br />

aveva ereditato dalla madre una certa passionalità silenziosa,<br />

<strong>Perdu</strong> crebbe con un desiderio sempre più marcato<br />

di affezionarsi, di rivelarsi, di comunicare con gli altri.<br />

Aveva, questo sì, un’aria malinconica e rassegnata e stava<br />

per lo più taciturno, assorto in chissà quali pensieri; ma il<br />

suo animo non era mai nudo e deserto come, nell’apparenza,<br />

quello di suo nonno; era anzi aperto e aspettante,<br />

alla pari di un fiore nella segreta attesa della fecondazione.<br />

La sua rassegnazione era un adattamento alla rinunzia,<br />

non un consentimento ad essa; la sua taciturnità era un<br />

modo di raccogliersi spiritualmente, non il rifiuto di aver<br />

contatto con gli altri.<br />

Questa ricchezza interiore dell’animo del bambino traboccava<br />

attraverso gli occhi, che erano belli e mansueti, simili<br />

agli occhi di sua madre. Per il resto, nel fisico, il bambino<br />

era, come si è già accennato, qualcosa di delicato e di<br />

fragile. Era straordinariamente piccolo anche per un bambino<br />

di razza sulcitana. I suoi coetanei, quei pochi che avvicinava,<br />

lo chiamavano per canzonarlo “Seme d’oliva”<br />

tanto la sua corporatura appariva minuscola. Aveva folti<br />

capelli, le sopracciglia diritte, la bocca larga e il naso<br />

schiacciato e tondo come quei riccioli di pasta che in <strong>Sardegna</strong><br />

si chiamano “maloreddus”. Era, ad ogni modo, un<br />

34<br />

Capitolo I<br />

bambino grazioso, e lo sarebbe stato di più se, per la sua<br />

povertà, non fosse stato costretto ad andare vestito di miserabili<br />

panni.<br />

Non c’è nulla da dire di questa prima fase della vita<br />

di <strong>Perdu</strong> se non che egli cresceva pian piano e si meravigliava<br />

del mondo circostante.<br />

Il Sulcis, pur nel suo terribile squallore, racchiude non<br />

poche bellezze. È una terra vergine, selvatica, potente nelle<br />

manifestazioni spesso tragiche delle forze della Natura,<br />

ma al tempo stesso tranquilla, favorevole alla nostalgia e<br />

alla poesia. Il Sulcis, forse più che altre zone della <strong>Sardegna</strong>,<br />

offre spettacoli stranamente misti di pianto e di riso,<br />

di violenza selvaggia e di soavità, di cupa severità e di incantevole<br />

grazia. Quel ribollimento di alture, di gobbe, di<br />

tumuli di terra e di roccia, insomma di monti, ora nudi e<br />

austeri ora morbidi di vegetazione, e non disposti a catena<br />

come tutti gli altri monti, ma affastellati a spintoni, sbalordiscono<br />

per la varietà di prospettive, per i silenzi e le solitudini<br />

paurose che vi si spalancano, per la pace stagnante<br />

che vi regna. Il Sulcis è tutto così. Di balza in balza, dalle<br />

ultime frange della pianura campidanese, subito dopo Siliqua,<br />

fino al golfo di Teulada e alle isole dell’arcipelago<br />

sulcitano, il sole bacia e indora, infuoca e arroventa, carezza<br />

e castiga la terra, che il mare a sua volta blandisce e<br />

culla, quando però non la schiaffeggia di onde con una<br />

collera che ha del titanico. Qui vive una stirpe dimenticata<br />

e povera, di abitudini semplici e ignara di come sia grande<br />

il mondo, e complicato e assurdo, e diverso dalla loro<br />

terra. Gli uomini sono pochi in rapporto alla vastità dello<br />

spazio, e questo fa sì che per lunghissimi tratti la campagna<br />

sia talmente vuota, solitaria e desolata.<br />

Anche nel carattere degli abitanti si rispecchiano questi<br />

elementi di contrasto fra letizia e amarezza. Le ragazze, se<br />

cantano, cantano nenie simili a lamentazioni, anche se parlano<br />

d’amore. Gli uomini sono tranquilli e sereni, mansueti,<br />

ma, come quando il vento si desta rabbioso e acquista<br />

35


PERDU<br />

repentinamente una violenza inaudita, sì da riuscire a spezzare<br />

perfino i sugheri, quegli stessi uomini si trasformano<br />

completamente allorché la passione li travolga.<br />

Una sola cosa domina comunque su tutto, la miseria. È<br />

una miseria così totale, così spalancata al sole, così accettata<br />

rassegnatamente dalle popolazioni, che sembra il risultato<br />

di una volontaria rinunzia, un’opera meravigliosa di poesia.<br />

La terra è povera. I contadini che le affidano il grano,<br />

nel tempo delle seminagioni, non sognano le messi rigogliose<br />

dell’estate; essi hanno quasi il gesto di chi si spoglia<br />

e si disfà consapevolmente di un bene prezioso. Vi sono<br />

anche fiori, certo; e sono fiori che nessuno coltiva; che esaltano<br />

la povertà, che l’adornano, per renderla più suggestiva,<br />

come sono suggestivi i letti dei ruscelli disseccati, sui<br />

bordi dei quali corrono, inverosimilmente fiorite, siepi di<br />

oleandri meravigliose; come sono suggestive le selve anelanti<br />

per sete, quando si impomellano dei fiorellini del mirto<br />

nei cui calici trapelano già, come occhi, le bacche viola;<br />

come sono suggestive e sorprendenti le tumultuose assemblee<br />

dei fichidindia spinosi, sulle cui pale irte di aculei stranamente<br />

fioriscono fiori scarlatti sui frutti già panciuti.<br />

A queste bellezze e a queste miserie si aprivano lentamente<br />

gli occhi di <strong>Perdu</strong> negli anni della sua prima infanzia.<br />

Terreluxi è un villaggio assai piccolo situato sotto le<br />

pendici del monte Tamara, e quindi nel pieno cuore di<br />

questo Sulcis. È, come tutti i villaggi sulcitani, un luogo dove<br />

raramente accade qualcosa. Le novità di cui la gente per<br />

lo più si pasce, sono le eterne antichissime novità di tutti<br />

gli anni, la crescita del bestiame, la luna nuova che uccide<br />

le germinazioni, la morte degli uni e la nascita degli altri, la<br />

festa di Nostra Signora del Santo Rimedio. Una sola parte<br />

del Sulcis, la zona delle miniere, è passata da qualche tempo<br />

sotto il vento delle trasformazioni e del progresso. Ma il<br />

Basso Sulcis, il Sulcis agricolo di cui qui si parla, è rimasto<br />

come cent’anni fa, come mill’anni fa, immobile nella sua<br />

pace, nelle sue tradizioni e concezioni di vita.<br />

36<br />

Capitolo I<br />

Non fa meraviglia dunque se anche a <strong>Perdu</strong> non accadde<br />

nulla nei primi anni di vita. La sua esistenza era, in<br />

definitiva, serena. La stessa miseria nella quale viveva<br />

non poteva realmente affliggerlo perché, essendovi nato<br />

e non avendo la possibilità di conoscere come si possa vivere<br />

meglio, gli mancava quell’elemento di comparazione<br />

che forma il sostrato dell’ansietà, dell’invidia e dei desideri<br />

inappagati di cui noi tutti soffriamo. Egli se ne stava tranquillo<br />

nella casa del nonno, in attesa dei brevi ritorni di<br />

sua madre. Questi costituivano le sue autentiche gioie, poiché<br />

poteva stare con lei, giocare assieme a lei e prendere<br />

sonno nel suo grembo. Brevi erano, piuttosto, codeste apparizioni.<br />

Angiuledda subito ripartiva, e la vita di <strong>Perdu</strong> ripiombava<br />

nell’isolamento. Il bambino non osava turbare i<br />

silenzi del nonno.<br />

Così gli anni passarono. Ora il nonno sedeva all’aperto<br />

sotto il mandorlo del cortile e fumava, tutto raccolto sul<br />

suo sgabello di sughero, e ciò significava che era estate o<br />

primavera o autunno. Ora il nonno, sullo stesso sgabello,<br />

si accoccolava dinanzi al focolare e fumava, e ciò significava<br />

che era inverno. Calmi, lunghi giorni che si sfogliavano<br />

l’un dietro l’altro, come foglie da un albero.<br />

Ma ecco che <strong>Perdu</strong> ebbe sette anni e mezzo e allora<br />

accadde nella sua vita qualcosa di veramente nuovo ed<br />

insolito: sua madre si sposò.<br />

37


CAPITOLO II<br />

Rintoccava, come irata, la campana della chiesa. Chiamava<br />

gli sposi alla cerimonia e pareva rimproverare gli indugi.<br />

«Est hora, est hora» si disse da ogni parte. E ci si avviò.<br />

C’era una grande confusione di gente, quella mattina,<br />

e per tutto il tempo che durarono i preparativi <strong>Perdu</strong> non<br />

riuscì a vedere né Angiuledda né il nonno.<br />

Rivide l’uno e l’altra in chiesa. Tziu Manueli Vargiu<br />

era vestito del suo costume “maureddu” più nuovo, con<br />

tutte le monetine lucenti sulla doppia bottoniera, la camicia<br />

bianca inamidata e la zazzera pettinata. Benché i suoi<br />

capelli, già quasi candidi, fossero tagliati in una foggia<br />

che dovunque altrove, e ormai anche in <strong>Sardegna</strong>, sarebbe<br />

giudicata muliebre, l’intero suo aspetto era forte e fiero,<br />

atteggiato a quella solennità e serietà che caratterizzano,<br />

o caratterizzavano, i vecchi sardi.<br />

Quanto a Angiuledda Vargiu, essa apparve a <strong>Perdu</strong>, in<br />

quel mattino, nel mezzo della chiesa affollata, come la Madonna<br />

Santissima. Una gonna di velluto color vino le fasciava<br />

la vita, e le copriva le gambe con dense pieghe. E il<br />

corpetto di broccato dorato, aderente, le snelliva il busto<br />

e le sollevava il petto come un canestro ricolmo. Un fazzoletto<br />

di pizzo sovrapposto alla cuffia rossa e ricoperto a<br />

sua volta dalla mantiglia bianca a bande azzurre, simbolo<br />

di agiatezza, scendeva dalla fronte verso la nuca, raccogliendole<br />

il viso come in una nicchia, come in uno scrigno.<br />

Ed era veramente un gioiello da scrigno, il viso, in<br />

tutta quella gloria.<br />

Il viso, che le sulcitane riguardano gelosamente sì che<br />

anche le contadine conservano spessissimo la pelle candida<br />

e delicata come quella delle vere signore, appariva,<br />

nell’ombra trasparente delle trine del “mucadori”, come la<br />

bellezza e la grazia stupendamente fuse insieme.<br />

38<br />

Si spiegava, vedendola, perché lo zoppo Efisio Manzella<br />

si fosse così furiosamente innamorato di lei. Si spiegava<br />

perché, quantunque in paese la considerassero tutti<br />

non molto maritabile, egli si fosse viceversa fitto in capo<br />

con ostinazione di farla sua moglie, mettendosi contro tutta<br />

la sua famiglia e rischiando e sfidando i fulmini del padre,<br />

tziu Baingiu Manzella.<br />

Ed ecco Efisio Manzella, in piedi accanto alla sposa inginocchiata.<br />

Efisio Manzella non vestiva il costume sulcitano.<br />

Egli apparteneva già alla nuova generazione che rifugge<br />

da questo ossequio al passato, e perciò indossava un vestito<br />

da “signore”, come si dice laggiù, cioè uno dei nostri soliti<br />

vestiti borghesi. Era alto e magro, né giovane né vecchio,<br />

tutto compunto nell’espressione che voleva essere di<br />

dignità, ma sotto le apparenze pago e ben soddisfatto di sé.<br />

<strong>Perdu</strong> osservava tutte queste cose con attenzione e curiosità,<br />

e con un po’ di sbalordimento. Egli stesso di buon<br />

mattino era stato infagottato in un abito nuovo, un paio di<br />

brachette marrone, una giacca piuttosto larga, una camicia<br />

abbottonata fin sotto il mento e un cappello a visiera che<br />

ora rigirava distrattamente fra le mani; ma, novità delle<br />

novità, gli avevano messo ai piedi calze e scarpe nuove. E<br />

questo gli cagionava stupore, poiché egli, estate e inverno<br />

che fosse, non se n’era mai viste finora ai piedi.<br />

La cerimonia ebbe inizio con la comunione degli sposi.<br />

Officiava Don Nicolino Cuccu, il “vicario” di Terreluxi,<br />

un prete adusto e robusto di razza contadina che sembrava<br />

sprizzato da una siepe di fichidindia. Aveva un fare zotico<br />

e quasi manesco che non si confaceva troppo alla sua<br />

qualità di uomo di chiesa, quale noi siamo abituati a concepirla,<br />

ma che doveva essere efficace per le anime affidate<br />

alle sue cure, perché riusciva a fare entrare nei cervelli,<br />

con le imprecazioni e si starebbe per dire con le bestemmie,<br />

la parola di Dio, che invece, con gli ordinari mezzi<br />

della persuasione e della dolcezza, sarebbe rimasta inascoltata.<br />

E forse Dio, nel Sulcis, ha più bisogno di questi<br />

rudi mandriani che dei suoi veri e propri ministri.<br />

39


PERDU<br />

Don Nicolino fece il suo ingresso nel presbiterio in<br />

cotta e stola, seguito da un chierichetto pieno di capelli<br />

arruffati e cinto di una sottana corta e sfilacciata alla estremità;<br />

il chierichetto era anche scalzo. Prete e inserviente si<br />

genuflessero assai svogliatamente dinanzi all’altare, quindi<br />

Don Nicolino si volse e disse agli astanti, in sardo:<br />

– Potevate venire un po’ prima, che il diavolo vi porti!<br />

Sono io che devo aspettare voi o siete voi che dovete<br />

aspettare me? Cominciamo male, “piccioccus”.<br />

Ciò detto ascese l’altare, e mentre il chierichetto si<br />

portava dal lato dell’Epistola per recitare il Confiteor, trasse<br />

un mazzo di chiavi da sotto la tonaca e con una di<br />

quelle aperse la porta del tabernacolo. Nel mazzo di chiavi,<br />

<strong>Perdu</strong> notò che era appesa anche la “leppa” del vicario,<br />

cioè quel lungo coltello a serramanico che usano per<br />

lavoro e per difesa i contadini del Sulcis.<br />

Don Nicolino si genuflesse dinanzi alla porta spalancata<br />

del piccolo ciborio e, toltane una pisside color argento<br />

coperta da una mantellina di raso sudicia, scoperchiò il recipiente,<br />

tornò a inginocchiarsi, e finalmente si volse verso<br />

i fedeli tenendo una tonda particola tra l’indice e il pollice<br />

e disse, in latino:<br />

– Domine, non sum dignus… –. Lo disse per tre volte<br />

a voce alta, guardando bene in faccia i presenti quasi volesse<br />

convincerli che quelle parole, chiaramente intelligibili<br />

per chi parli la lingua sarda, si riferivano non a lui che<br />

le diceva ma a ciascuno di loro.<br />

Anche Efisio Manzella, fulminato dalle occhiate del vicario,<br />

si era inginocchiato accanto alla sposa.<br />

Gli altri parenti facevano semicerchio attorno. Tziu Manueli<br />

Vargiu, rigido e impassibile come un vecchio tronco<br />

di quercia, stava in piedi impalato accanto alla figlia. Accanto<br />

allo sposo, invece, era la sorella di lui, Leonora<br />

Manzella, candida come un giglio, la quale non cessava<br />

di piangere silenziosamente; piangeva in un modo così<br />

sereno che le lacrime parevano un distillato spontaneo e<br />

40<br />

Capitolo II<br />

ordinario dei suoi bellissimi occhi. Soltanto <strong>Perdu</strong>, data la<br />

sua età e la sua speciale parentela con la sposa, era stato<br />

lasciato fuori del gruppo, accanto alla transenna di legno<br />

che, interrompendo la navata, chiudeva il presbiterio.<br />

Don Nicolino scese dall’altare e si portò dinanzi agli<br />

sposi. Il chierichetto consegnò nelle mani di Efisio la patena<br />

d’ottone.<br />

Don Nicolino, ripescata dalla pisside una particola,<br />

gesticolò alquanto con quella sul capo dello sposo, quindi<br />

disse:<br />

– Corpus Domini Nostri Jesu Christi perducat te ad vitam<br />

aeternam, amen – e, prima di posare l’ostia sulla lingua<br />

del comunicando, colto da un subito dubbio, aggiunse,<br />

in sardo: – Avrai mica mangiato o bevuto alle volte,<br />

animale?<br />

Efisio Manzella, rapito nella religiosità del momento,<br />

teneva gli occhi chiusi, la bocca aperta e la lingua così<br />

smoderatamente in fuori che sembrava uno strangolato. A<br />

quella diretta domanda, spalancò gli occhi, e senza reinghiottire<br />

la lingua, scrollò energicamente la testa in segno<br />

di diniego. Don Nicolino, tranquillizzato, gli concedette<br />

l’Eucaristia.<br />

Quindi passò ad Angiuledda.<br />

– Corpus Domini Nostri Jesu Christi perducat te ad vitam<br />

aeternam, amen – ripeté il sacerdote, introducendo<br />

fra le labbra della donna l’ostia bianchissima con le sue<br />

mani rozze.<br />

Angiuledda ricevette la comunione con grazia, spalancando<br />

sul celebrante i suoi occhi mansueti di cervo.<br />

Nell’istante in cui la madre riceveva la comunione,<br />

anche <strong>Perdu</strong>, attratto singolarmente dallo spettacolo, fece<br />

d’istinto il gesto di chi inghiottisce qualcosa.<br />

Dopo aver riposto la pisside nel tabernacolo e avere<br />

richiuso la porta di questo, Don Nicolino si avvicinò ancora<br />

al genuflessorio degli sposi. Il chierichetto aveva recato<br />

un grande libro rosso con segnalibri di fettuccia violetta.<br />

41


PERDU<br />

Don Nicolino lo sfogliò lentamente, inumidendosi il dito<br />

sulla lingua e, postoselo dinanzi al viso, rivolse la domanda<br />

rituale allo sposo:<br />

– Efisio Manzella – disse in italiano, con enfasi, come<br />

se, anziché un seguace di Cristo che si accostava umilmente<br />

al sacramento del matrimonio, apostrofasse un reprobo<br />

o un imputato di un grave delitto – vuoi tu prendere<br />

la qui presente Vargiu Angela in tua legittima consorte<br />

secondo il rito della Santa Madre Chiesa?<br />

– Sissi! – disse a bassa voce Efisio Manzella usando<br />

l’affermazione della lingua sarda.<br />

– Sì, e non sissi – tuonò Don Nicolino; – ti costa tanto<br />

rispondere come si deve?<br />

La domanda solenne fu quindi rivolta alla sposa:<br />

– Angela Vargiu, vuoi tu prendere il qui presente Manzella<br />

Efisio in tuo legittimo marito, secondo il rito della<br />

Santa Madre Chiesa?<br />

– Sì – disse la sposa; e gli occhi le sfavillarono.<br />

– Ego coniungo vos – disse il prete, e pareva proprio<br />

che questa volta parlasse in sardo, – in nomine Patris et<br />

Filii et Spiritus Sancti amen.<br />

– Amen – gridò il chierichetto, mettendo fuori una<br />

voce squillante e al tempo stesso porgendo al celebrante<br />

il secchiello con l’aspersorio.<br />

Don Nicolino brandì l’aspersorio e benedisse gli sposi,<br />

i fedeli presenti e gli anelli che il chierichetto aveva recati<br />

sul piatto di vetro che ora si divertiva a scuotere per farne<br />

tintinnare gli anelli.<br />

– Bah, finiscila! – gli disse in sardo burberamente Don<br />

Nicolino tracciando con l’aspersorio le ultime benedizioni;<br />

e quasi con la stessa intonazione perentoria di voce, come<br />

se anche a Dio desse un ordine, aggiunse: – Benedic, Domine,<br />

anulum hunc quem nos in tuo nomine benedicimus.<br />

Gocce d’acqua santa, cadendo sul cristallo, vi si appiattivano<br />

e rilucevano come lacrime che fossero state per divozione<br />

raccolte.<br />

42<br />

Capitolo II<br />

Gli sposi si scambiarono gli anelli. Angiuledda Vargiu<br />

prima di infilare la fede nell’anulare di Efisio baciò il cerchietto<br />

d’oro e quindi baciò anche la mano del neomarito.<br />

Don Nicolino Cuccu, tornato all’altare e continuando a<br />

leggere sul grande libro rosso dai segnalibri violetti, recitò<br />

la preghiera latina che dice: «Volgi lo sguardo, o Signore,<br />

sopra questi tuoi servi … e quelli che si uniscono per il tuo<br />

volere siano salvi per il tuo aiuto …». Il chierichetto dalla<br />

testa arruffata, le piante dei piedi nudi nere di sudiciume<br />

esposte alla vista dei fedeli e le natiche poggiate sulla sommità<br />

dei talloni, assecondava l’officiante, dicendo ogni tanto<br />

«amen» o «Deo gratias» con quanto fiato aveva in gola.<br />

Anche <strong>Perdu</strong> si era voltato verso l’altare. Ma non seguiva<br />

le preghiere latine che del resto non comprendeva.<br />

La sua mente era assorta e non riusciva a pensare. Guardava<br />

l’altare eppure non vedeva né i candelabri con le<br />

candele accese, né i mazzi di margherite e violacciocche<br />

che erano stati disposti per ornamento e nemmeno le facce<br />

estatiche e un po’ intontite delle due statue di legno<br />

che procombevano sul presbiterio, tra sciarpe di ragnatela:<br />

Sant’Eusebio e San Simmaco, patroni di Terreluxi. Vedeva<br />

soltanto la luce che penetrando dalla finestra dell’abside<br />

sembrava, attraverso gli occhi, riempirgli tutta l’anima<br />

di una sorta di stordimento. Cinguettii di passeri entravano<br />

con la luce, nelle pause di silenzio, entro il vuoto della<br />

chiesa; erano i passeri che abitavano il mandorlo nell’orto<br />

del vicario dietro la chiesa, e che, creature spensierate come<br />

sono, celebravano al pari di ogni giorno i loro amori,<br />

assai meno solenni di quelli degli uomini e in fondo non<br />

tanto più fugaci. Ecco, pensava a tratti <strong>Perdu</strong>, la mamma si<br />

sposava, ma che importa? Come garrivano, i passeri, e com’era<br />

luminosa la giornata di maggio! Quell’azzurro là, oltre<br />

i vetri della finestra, che gli uccelli lampeggiando attraversavano,<br />

era di una lucentezza struggente. La mamma si<br />

sposava! Già, si sposava! Se ci si potesse arrampicare come<br />

i calabroni su questa scala di luce, sbieca, che sfiora<br />

43


PERDU<br />

verso sinistra i piedi di Sant’Eusebio, che mette in agitazione<br />

tutta questa polvere bionda, e degrada giù giù fino a<br />

stampare un tondo occhio, quasi caldo, là dove pende la<br />

fune della campanella, sulla parete sporca che tutta si accende<br />

e sorride! La mamma si sposa! Non è Efisio Manzella,<br />

non è lui, certo, suo padre. Perché vogliono farglielo<br />

credere? Non importa, non importa. L’azzurro è denso e<br />

carico, quasi corporeo. Ma se fosse vero che Efisio Manzella<br />

è suo padre?<br />

Così, mentre il prete pregava, passavano lampi di idee<br />

nella mente del bambino. D’un tratto Don Nicolino cessò<br />

le sue nenie e levatosi in piedi e voltatosi ai fedeli disse in<br />

sardo a mo’ di congedo e d’augurio:<br />

– Fattu est! Ora siete marito e moglie. Potete andare.<br />

Deus vos assistat.<br />

La cerimonia era finita. Anche <strong>Perdu</strong> si volse. Gli sposi<br />

erano già in piedi. Angiuledda era tutta sorridente e mentre<br />

il vicario usciva per la porta di sagrestia, tziu Manueli<br />

Vargiu le si avvicinò e le segnò col pollice della mano destra<br />

un piccolo segno di croce sulla fronte. Pure Leonora<br />

Manzella si sollevò sulle punte dei piedi e tracciò lo stesso<br />

segno sulla fronte dello sposo.<br />

Fu in quel momento che il sole, guadagnato finalmente<br />

il centro della chiesa, precipitò vividamente nella navata<br />

e le fiamme delle candele ancora accese impallidirono,<br />

come se la luce dell’astro, tanto più potente della loro, le<br />

avesse di colpo agghiacciate.<br />

44<br />

CAPITOLO III<br />

<strong>Perdu</strong> si era sentito nei primi mesi completamente felice.<br />

I suoi rapporti con Efisio Manzella si erano presto<br />

stabiliti sul metro del sentimento che entrambi, sebbene<br />

variamente, li legava ad Angiuledda. Efisio era tanto innamorato<br />

di lei, che, come non aveva indietreggiato dinanzi<br />

all’esistenza di quel bambino prima del matrimonio, così<br />

ora lo tollerava con benignità e anzi in seguito perfino<br />

con trasporto. A sua volta <strong>Perdu</strong>, il cui cuore mansueto<br />

non chiedeva altro che effondersi in affetto come un fiore<br />

si effonde in profumo, aveva finito per voler bene ad Efisio<br />

come ad un vero padre.<br />

E qui conviene dire in qual modo precisamente si fosse<br />

formato tale sentimento di <strong>Perdu</strong> nei confronti di Efisio<br />

Manzella, e quali idee avesse il bambino intorno alla propria<br />

nascita.<br />

<strong>Perdu</strong> non ignorava che, rispetto agli altri bambini, la<br />

sua posizione era diversa; mentre cioè tutti avevano un<br />

padre del quale fare il nome ogni volta che occorresse<br />

spiegare chi fossero, egli non poteva mai nominare altro<br />

che sua madre; il padre era come non esistesse. Se qualcuno<br />

per curiosità o per malignità gliene chiedeva notizia,<br />

egli si stringeva nelle spalle e senza volerlo arrossiva. Non<br />

è detto però ch’egli pensasse di non avere alcun padre.<br />

Dopo una certa età, come tutti i bambini sulcitani che acquistano<br />

con straordinario anticipo nozione di queste cose,<br />

seppe che un padre l’aveva lui pure, soltanto non si<br />

conosceva. Perché poi non fosse dato conoscerlo, egli per<br />

un bel pezzo non riuscì chiaramente a spiegarselo. Né gli<br />

riusciva di comprendere come mai, sia la mamma che il<br />

nonno non gli parlassero di quell’uomo.<br />

Un giorno si era deciso a chiedere a tziu Manueli.<br />

– Jaju – gli disse – nonno, chi è mio padre?<br />

45


PERDU<br />

Tziu Manueli, con la sua abituale apatia, aveva tolto la<br />

pipa di bocca e liberando dalle labbra una nuvoletta di fumo<br />

azzurro aveva sputato lontano dicendogli poi asciuttamente:<br />

– Dio lo saprà!<br />

Non c’era da sperare di ricavar qualcos’altro dal nonno.<br />

Ma <strong>Perdu</strong>, ansioso, si era provato a interrogare la madre:<br />

– Mamai – le aveva detto – dov’è mio padre?<br />

Angiuledda aveva tagliato corto:<br />

– È all’altro mondo – aveva detto – è morto – ed era<br />

diventata improvvisamente seria e pensosa, come se quel<br />

discorso la affliggesse oltremodo e perfino la spaventasse.<br />

– Ma chi era? Come si chiamava? Dove è seppellito? –<br />

aveva domandato il bambino.<br />

Impetuosamente e del tutto inaspettatamente Angiuledda<br />

si era accucciata accanto al bambino che, in piedi,<br />

la fissava con attenzione.<br />

– Ascolta, <strong>Perdu</strong> – aveva detto – queste cose non me<br />

le devi mai chiedere, per ora. Sei piccolo, ora; pensa soltanto<br />

a crescere. Quando sarai grande te lo dirò, se il Cielo<br />

vorrà – ed era scoppiata a piangere, stringendosi la testa<br />

del bambino contro la spalla.<br />

Per la prima volta nella sua vita, <strong>Perdu</strong> aveva avvertito<br />

quel giorno un sentimento che mai aveva provato per una<br />

persona adulta, tanto meno per sua madre: la compassione.<br />

Qualche cosa di tenero, di comprensivo e di indulgente<br />

si era rimescolato stranamente nel fondo del suo cuore,<br />

risalendo poi su, occupando tutto il suo essere e facendogli<br />

balenare per la prima volta l’idea che anche i grandi,<br />

talora, hanno bisogno di essere perdonati.<br />

Il problema della paternità rimaneva tuttavia insoluto.<br />

In Terreluxi cominciavano a correre voci che il padre di <strong>Perdu</strong><br />

fosse un certo Vissenti Tankis, che era stato a suo tempo<br />

il “padrone” di Angiuledda, quando costei si era recata da<br />

lui a servire. Erano voci forse prive di fondamento ma che<br />

acquistavano sempre più credito nel paese. <strong>Perdu</strong>, che raccoglieva<br />

taluna di queste voci, non riusciva a capacitarsi.<br />

46<br />

Capitolo III<br />

Non aveva mai visto Vissenti Tankis benché ne avesse sentito<br />

parlare, e tuttavia, chissà perché, si “rifiutava” di essergli<br />

figlio. Comunque, l’ignoto padre, pensava il bambino, come<br />

mai non sentiva il dovere di farsi avanti?<br />

Per <strong>Perdu</strong>, la consapevolezza che, essendo Angiuledda<br />

tuttora nubile, ella non avrebbe dovuto – o potuto? –<br />

mettere al mondo un bambino, cominciò a insinuargli nell’animo<br />

il primo remoto sentore della colpa di sua madre.<br />

Vagamente intuì che la propria nascita si riconnetteva a<br />

qualcosa di non onesto, di illecito. Il ricordo delle lacrime<br />

dalla madre versate in quel giorno, gliene offriva indiretta<br />

conferma. E poiché specialmente sugli assenti e sugli sconosciuti<br />

con maggior facilità noi siamo soliti riversare i nostri<br />

risentimenti, così <strong>Perdu</strong> attribuì quasi tutta la colpa del<br />

peccato, che si trovava all’origine della sua vita, a colui<br />

che rifiutava di manifestarsi padre.<br />

Questa fu, fino all’annunzio delle nozze di Angiuledda,<br />

la opinione del bambino circa la propria venuta al mondo.<br />

Ma quando gli fu detto che fra breve la mamma avrebbe<br />

sposato Efisio Manzella, e quando la mamma stessa gli raccontò<br />

che proprio Efisio e non altri era l’ignoto padre (dimenticando<br />

Angiuledda la scena di pianto che viceversa<br />

<strong>Perdu</strong> ricordava benissimo), nell’animo del bambino si scatenò<br />

un nuovo dramma. Efisio Manzella suo padre? <strong>Perdu</strong><br />

trasecolava. Era impossibile questo. Intanto Efisio non gli<br />

rassomigliava per niente, <strong>Perdu</strong> lo conosceva bene: aveva<br />

una faccia lunga come un cavallo, i denti un po’ sporgenti<br />

come un rastrello da fieno, e gli occhi così duri e piccoli<br />

che sembravano le bocche delle canne di una doppietta.<br />

Controllando allo specchio le proprie sembianze, <strong>Perdu</strong><br />

doveva concludere che somiglianza non c’era. Ma altre ragioni<br />

lo conducevano a escludere ogni rapporto di filiazione<br />

tra se stesso ed Efisio Manzella.<br />

Non da un giorno soltanto <strong>Perdu</strong> conosceva i Manzella.<br />

Essi abitavano sulla strada scoscesa che va verso il torrente<br />

in una casa assai vasta preceduta da un’ampia corte dove si<br />

vedevano sempre cavalli e buoi. E quando <strong>Perdu</strong> si recava<br />

47


PERDU<br />

nel caseificio lì vicino, per avere dai servi dei Manzella<br />

una fetta di ricotta calda o di siero di latte, sovente gli era<br />

capitato di vedere Efisio smontare da cavallo davanti al<br />

portale della corte e non degnare di uno sguardo il bambino.<br />

Sovente anche lo aveva incontrato da solo a solo nei<br />

viottoli di campagna, dove non è possibile fingere di non<br />

vedersi, e mentre <strong>Perdu</strong> rispettosamente diceva «bonas tardas,<br />

tziu Efisi», quegli orgogliosamente e scortesemente<br />

neppure rispondeva. E una volta gli era perfino accaduto<br />

di andare a spigolare nei campi dei Manzella, e lui, proprio<br />

lui, Efisio Manzella, che veniva a “scherzare di grasso”<br />

con le donne, gli aveva detto: «Piccioccu, dovevi mandarci<br />

tua madre, qui, e tu andartene da tuo padre, se ne hai».<br />

Come era possibile dopo tutto questo che oggi, d’un<br />

tratto, Efisio Manzella si rivelasse suo padre?<br />

L’idea che i grandi volessero fargli credere una grossa<br />

bugia affliggeva sommamente il bambino. Il suo senso logico,<br />

la memoria ch’egli serbava degli episodi accennati,<br />

una certa antipatia involontaria nutrita nei confronti del<br />

Manzella, gli consigliavano di rifiutarsi a credere vera una<br />

simile assurdità.<br />

Tuttavia a poco a poco, prima ancora che il matrimonio<br />

si celebrasse, la sua posizione di incredulità gradualmente<br />

scemava per cessare del tutto in seguito; e arrivò<br />

addirittura il momento in cui <strong>Perdu</strong> fu certo che Efisio<br />

Manzella fosse suo padre. Perché? Perché non c’è cosa<br />

che sia più facile che accettare per vero quello che noi<br />

stessi vorremmo che vero fosse. <strong>Perdu</strong> aveva spesso desiderato<br />

di avere come gli altri bambini un padre; di avere<br />

le carezze le cure i rimproveri e magari gli scapaccioni di<br />

un padre; questo egli bramava. Ed è quindi logico che offertaglisi<br />

l’occasione di avere in Efisio Manzella un uomo<br />

che, sia pure in flagrante contraddizione col suo passato,<br />

gli si professava padre, non si ostinasse a respingerlo,<br />

tanto più che la madre, per quanto anch’essa in contraddizione<br />

con se stessa, avallava la cosa.<br />

48<br />

Capitolo III<br />

Così avvenne che una volta tanto <strong>Perdu</strong> si sentisse di<br />

appartenere ad una vera famiglia. Tutto questo ebbe anzi<br />

una consacrazione ufficiale perché <strong>Perdu</strong>, avendo ottenuto<br />

di andare a scuola, ebbe la sorpresa di sentirsi chiamare,<br />

almeno dalla maestra, Pietro Manzella e non già Pietro<br />

Vargiu. Efisio Manzella, infatti, aveva deciso di legittimarlo.<br />

Ma tutto ebbe una durata assai breve. Di gennaio, dopo<br />

otto mesi, accadde ancora qualcosa.<br />

Il “padre” era partito. Si era recato lontano, in un paese<br />

del Campidano, per l’acquisto di certi porcellini pregiati<br />

da allevamento. Il suo ritorno era previsto fra sette giorni.<br />

La sera del secondo giorno dalla sua assenza piovve<br />

per molte ore. <strong>Perdu</strong>, tornato da scuola nel primo pomeriggio,<br />

si era rintanato in casa ed era rimasto per tutto il<br />

tempo accucciato dinanzi al camino, dove bruciavano i<br />

grossi ceppi di radice d’ulivo che Efisio Manzella aveva<br />

approntati dietro la casa durante l’estate. Era una giornata<br />

di freddo iroso; pareva che tutto il gelo del mondo affluisse,<br />

chissà da dove, nella breve conca di Terreluxi, superando<br />

la barricata del tozzo monte Tamara. E, come la<br />

casa stava leggermente spostata dal resto del paese verso<br />

lo stradale di Iddarta, il vento che si levò dopo cessata la<br />

pioggia, l’abbracciava e fischiava contro gli spigoli e metteva<br />

in tumulto le chiome dei mandorli, di cui qualcuno<br />

(<strong>Perdu</strong> l’aveva notato con accoramento il giorno prima)<br />

s’era già arrischiato ad adornarsi di fiori.<br />

Angiuledda Vargiu sedeva anch’essa accanto al camino,<br />

senza far altro che guardare la fiamma. Ogni tanto <strong>Perdu</strong>,<br />

che le sedeva vicino, e che sentiva la schiena attraversata<br />

da brividi di freddo pur avendo la faccia e le gambe affocate,<br />

piegava la testa nel caldo grembo di lei.<br />

Per lunghi intervalli tacevano. E in quelle lunghe pause<br />

di silenzio, in cui, tra il crepitare delicato del fuoco,<br />

l’impeto della tempesta si faceva più udire, <strong>Perdu</strong> si sorprendeva<br />

a pensare dove mai andasse a finire il vento, e<br />

donde provenisse, chi mai lo suscitasse contro le case e le<br />

49


PERDU<br />

siepi e i timidi mandorli che già desideravano la primavera.<br />

Lo chiese a sua madre.<br />

– Mamai – disse – chi fa il vento, e dove va quando<br />

passa dalla nostra terra?<br />

Angiuledda carezzò la testa del bambino che teneva<br />

adagiata sul grembo e rispose:<br />

– Che discorsi fai, <strong>Perdu</strong>! Il vento? Lo manda Dio. Tutto<br />

quello che succede nel mondo proviene da Dio. Dio, il<br />

mondo, se l’è fabbricato e lo governa come vuole.<br />

– Ma poi dove va?<br />

– Il vento? Chi lo sa! Sopra il mare e su un altro paese:<br />

il mondo è grande!<br />

Il discorso cadde, come appunto cade, talora, il vento.<br />

<strong>Perdu</strong> fantasticava come potesse essere grande il mondo.<br />

– Vorrei andare – disse improvvisamente – dove finisce<br />

il mondo, girare tutti i paesi. Vorrei vedere se quello<br />

che dice la maestra di città così belle che neppure le sogniamo<br />

e di monti più alti dei nostri, è tutto vero.<br />

Angiuledda non interloquì subito come se il discorso<br />

del bambino non le interessasse. Dopo un poco, però, osservò<br />

come parlando anche lei a se stessa:<br />

– In fondo è tutto uguale. Il mondo, da qualunque<br />

parte si vada, rassomiglia sempre. Non ci sono tante differenze<br />

come si crede.<br />

– La maestra – disse <strong>Perdu</strong> – dice che la gente qui è<br />

ignorante e cattiva, che non fa altro che ammazzare e rubare<br />

e vendicarsi. Invece, in Continente…<br />

– La maestra è continentale – interruppe Angiuledda –<br />

e i continentali sono tutti così. Ci disprezzano, dicono che<br />

siamo soltanto banditi e assassini. Il fatto è che loro hanno<br />

paura di vedere i coltelli.<br />

– I coltelli?<br />

– I coltelli che servono per ammazzare e per tenere gli<br />

altri in rispetto. In fondo noi, se usiamo il coltello, lo facciamo<br />

sempre per una ragione d’onore. E non è vero che<br />

rubiamo.<br />

50<br />

Capitolo III<br />

Altra pausa. <strong>Perdu</strong> rifletteva che a buon conto non si<br />

deve né rubare né ammazzare. Considerò bene il perché<br />

di questi divieti: ma non lo trovò; comunque disse:<br />

– Anche ammazzare però non sta bene.<br />

– Hai ragione, <strong>Perdu</strong> – disse la mamma sorridendo<br />

nella penombra della stanza, la quale, ormai, dalla finestrella<br />

provvista di grata che dava sull’occidente riceveva<br />

una luce fioca e come malinconica, mentre il vento continuava<br />

a fischiare e gemere in tutte le connessure. – Hai<br />

ragione. Non si deve nemmeno ammazzare perché… –.<br />

Esitò alquanto. Forse non trovava una ragione neppure<br />

lei. Poi aggiunse, tanto per concludere: – Perché altrimenti<br />

vengono i carabinieri del re e portano in prigione.<br />

Pausa. A <strong>Perdu</strong> pareva di udire, fra il vento, lo scalpito<br />

dei cavalli dei carabinieri del re che arrivano per arrestare<br />

un omicida. Le donne gridano e si disperano, ma quelli<br />

niente, impassibili traggono l’omicida in prigione. Per questo<br />

sono stati inventati. Domandò:<br />

– Dove li prendono i carabinieri?<br />

Angiuledda rise.<br />

– Dalla gente, li prendono. Chiunque voglia fare il carabiniere<br />

gli mettono la divisa, ed eccolo carabiniere.<br />

Impossibile, pensava <strong>Perdu</strong>. Una distinzione nettissima<br />

tra bene e male, tra legge e delinquenza, tra uomini<br />

perfetti e spietati e uomini che ammazzano per vendetta<br />

o per altro e poi si agitano e fuggono, non poteva essere<br />

l’effetto di una divisa. Ma non gli riuscì di approfondire la<br />

questione. Nel vento gli pareva di udire ancora gli zoccoli<br />

dei cavalli dei carabinieri del re.<br />

– Nonno – domandò nuovamente alla mamma – è<br />

stato anche lui portato in prigione dai carabinieri del re?<br />

– Sì – disse la mamma, di mala voglia.<br />

– Perché? – domandò <strong>Perdu</strong>.<br />

– Aveva ucciso un ragazzo, da giovane. Ma ormai è<br />

passato tanto tempo.<br />

– Per vendetta l’aveva ucciso?<br />

51


PERDU<br />

– Non proprio per vendetta. Per gelosia. È una specie<br />

di vendetta.<br />

<strong>Perdu</strong> non insistette nel domandare. Aveva capito che<br />

quel discorso infastidiva Angiuledda.<br />

– Ma perché – disse poco dopo – non lo facciamo venire<br />

a vivere con noi? In questa casa, è tanto che ci abitiamo<br />

e lui non ci è mai venuto.<br />

– Babai non vuole – disse Angiuledda che si era alzata<br />

e si era poi rimessa a sedere sulla sua bassa seggiola,<br />

guardando cupamente il fuoco.<br />

– E perché? – chiese <strong>Perdu</strong>, osservando con attenzione<br />

sul riverbero della fiamma il profilo della donna che<br />

pareva arrossato e come lavato di sangue.<br />

– Perché, perché… Tu, <strong>Perdu</strong>, non sai che domandare<br />

il perché d’ogni cosa. Smettila una buona volta.<br />

Così disse Angiuledda. Poi un’ombra passò sul suo<br />

volto che parve ammorbidirsi e schiudersi alla dolcezza.<br />

– Ascolta, <strong>Perdu</strong> – disse. – Nonno non viene qui, perché<br />

babai non lo vuole vedere e neanche io lo voglio vedere.<br />

Capisci?<br />

<strong>Perdu</strong> corrugò la fronte e stette un poco immobile a<br />

guardare la madre. Poi scosse il capo in segno di diniego:<br />

– No che non capisco.<br />

– Va bene, non ha importanza – disse Angiuledda tornando<br />

a dominarsi. – Io volevo dire che siccome il nonno<br />

non vedeva di buon occhio che mi sposassi con babai,<br />

babai gli serba rancore e non lo vuole più vedere.<br />

– Ma Vustè, lo vuole vedere? Se lo vuole vedere, domani<br />

glielo dico e lui può venire, adesso che babai non è<br />

a casa.<br />

– Non farai questo, guai! – disse Angiuledda seccamente.<br />

– Perché? – domandò incorreggibilmente il bambino.<br />

– Ho detto che fai troppi perché. Sei petulante.<br />

– Mi dica allora perché il nonno non vedeva di buon<br />

occhio che Vustè si sposasse con babai.<br />

52<br />

Capitolo III<br />

– Domandaglielo a lui quando lo vedi. Ma adesso,<br />

<strong>Perdu</strong>, lasciami in pace con questi discorsi. Ora preparo<br />

la cena.<br />

Succedette un lunghissimo silenzio. <strong>Perdu</strong> pensava al<br />

nonno. Lo vedeva solitario nella sua casa deserta. Anche là<br />

d’inverno si udiva il vento fischiare e far vibrare le canne<br />

del tetto, alcune delle quali, ancora vestite di qualche filo<br />

dal tempo in cui furono colte, emettevano suoni prolungati<br />

ed acuti come lingue di merli. Chissà se il nonno era ancor<br />

sveglio o se già si era messo a dormire. Chissà come doveva<br />

essere enorme la sua solitudine in quella vecchia casa.<br />

Ma perché babai non lo voleva vedere? E perché neppure<br />

la mamma voleva vederlo?<br />

D’un tratto, di nuovo, toc toc nel ruggito del vento ecco<br />

gli zoccoli dei cavalli dei carabinieri del re, scalpitanti<br />

sullo stradale di Iddarta: toc toc, ma erano sul serio scalpiti<br />

di cavalli?<br />

Spinta dentro dal vento come una foglia d’albero, entrò<br />

senza bussare Tottona Corrias, la figlia del macellaio<br />

che abitava nella casa più vicina ai Manzella.<br />

– Bonas tardas, tzia Angiuledda. Avete due uova per<br />

il mio fratellino malato, ché le nostre galline hanno avuto<br />

la peste e quelle che si salvano sono in ritardo nel fare le<br />

uova? Eh, come soffia questo maledetto vento!<br />

<strong>Perdu</strong> sorrise all’apparizione della bambina. Non erano<br />

dunque gli zoccoli dei cavalli dei carabinieri del re<br />

quei battiti che si erano uditi sulla strada di Iddarta. Erano<br />

gli zoccoli di legno che la bambina calzava, enormi, quasi<br />

fabbricati per ancorarla alla terra, per tema che, piccola<br />

com’era, volasse via nella procella di vento.<br />

La bimba andò via con le uova, ringraziando ripetutamente<br />

e profondendosi in cerimonie, non senza augurare<br />

a tzia Angiuledda felice notte.<br />

– E anche a te, <strong>Perdu</strong> – aggiunse – buona notte.<br />

– Va con Dio – le augurarono madre e figlio, quasi in<br />

coro, secondo l’addio in uso nel Sulcis.<br />

53


PERDU<br />

– Rimanetevene con Sua Madre – concluse la bambina,<br />

con voce armoniosa, rispondendo al saluto nella più<br />

stretta osservanza della tradizione.<br />

La notte ormai fatta se la risucchiò, e si riudirono per<br />

qualche istante i suoi zoccoli battere lo stradale di Iddarta.<br />

Angiuledda versò la minestra nelle scodelle di coccio.<br />

Trasse il tavolino accanto al fuoco e completò l’apparecchiatura<br />

della mensa con una brocca per l’acqua, pure di<br />

coccio. Mangiarono. <strong>Perdu</strong> disse:<br />

– Domani la maestra ci deve portare l’album degli<br />

animali feroci.<br />

– Domani – disse Angiuledda – non andrai a scuola.<br />

Debbo recarmi a lavare i panni al torrente se fa bel tempo<br />

e ho bisogno di te.<br />

– Domani?<br />

– Se Dio vuole.<br />

– E gli animali feroci? Mamai, volevo vederle le figure<br />

con gli animali feroci. La maestra dice che sono molto<br />

belle. Al torrente potremo andare dopodomani.<br />

– Dopodomani ci sarà da preparare la farina, poi il pane,<br />

poi arriva babai. Non si può rinviare se la giornata<br />

non sarà come oggi.<br />

<strong>Perdu</strong> scolandosi il piatto direttamente in bocca e succhiando<br />

le ultime gocce della densa minestra, si augurò<br />

che la giornata di domani fosse per essere peggiore di<br />

quella di oggi. Poi disse:<br />

– Va bene, mamai, come Vustè comanda.<br />

54<br />

CAPITOLO IV<br />

Terminata la cena, <strong>Perdu</strong> se ne andò a letto. Cascava<br />

dal sonno. Rapidamente si spogliò e si infilò seminudo nel<br />

suo giaciglio, in un angolo di quella stessa stanza che, oltre<br />

a far da cucina, aveva molti altri usi. La casa nuova che<br />

Efisio Manzella si era costruita per venirvi ad abitare con<br />

la nuova famiglia, constava di due soli ambienti, quello di<br />

uso promiscuo dove si soggiornava abitualmente e dove<br />

dormiva il bambino, e l’altra che serviva da camera matrimoniale.<br />

Questa ristrettezza, soltanto in parte era dipesa<br />

dalla premura con cui la casa era stata messa su, per accelerare<br />

le nozze; in parte dipendeva dal fatto che Efisio<br />

Manzella avendo rotto i rapporti coi suoi famigliari a causa<br />

di quelle nozze e avendogli suo padre negato ogni sostanza,<br />

si era trovato in grandi difficoltà finanziarie.<br />

Quando <strong>Perdu</strong> fu coricato, Angiuledda che aveva già<br />

rigovernato le poche stoviglie e spento il fuoco, rimboccò<br />

le coperte al bambino, gli aggiustò sui piedi la pelle di<br />

capra che il marito usava per la campagna e – cosa insolita<br />

– gli arruffò carezzevolmente i capelli e lo baciò sulla<br />

tempia dicendogli nell’orecchio a bassa voce:<br />

– Domani ti lascerò andare a vedere le bestie feroci.<br />

A lavare i panni, andrò sola.<br />

– Oh, mamai, bellixedda! – disse <strong>Perdu</strong> e, schizzato<br />

fuori dalle coperte, buttò le braccia al collo della madre,<br />

teneramente.<br />

Non passò molto che <strong>Perdu</strong> era già addormentato. E,<br />

fossero i legumi dentro il suo stomaco, o il malessere fisico<br />

che gli serpeggiava fra le ossa fin dal mattino, o l’eco<br />

dei discorsi fatti con la madre, fece molti sogni scombinati<br />

e strani.<br />

Gli parve dapprincipio che il mondo fosse tutto popolato<br />

di bestie feroci, di orsi, di tigri, di cinghiali grufolanti<br />

55


PERDU<br />

e di altre singolarissime bestie che si rincorrevano e si affannavano.<br />

Esse sulle prime erano piccine e numerose come<br />

topi, poi, diradandosi ed avvicinandosi a lui, si ingrandivano<br />

fino a diventare mostruose, orrende, spaventevoli,<br />

la bocca aperta e bramosa come per divorarlo. Ma ecco,<br />

toc, toc, lo scalpito dei cavalli dei carabinieri del re, e le<br />

belve arretravano ringhiando e fiammeggiando dagli occhi.<br />

Però i cavalli si impennavano, rifiutavano di marciare<br />

contro quel plotone di fiere, nitrivano e buttavano schiuma<br />

dal freno; e i soldati che li cavalcavano, apparivano,<br />

sulle loro schiene brune e vaste, come uomini piccolissimi,<br />

impotenti, nella loro frenetica e ridicola agitazione, a costringere<br />

i destrieri ad avanzare. Ora tutto si dissolveva e<br />

svanivano, chissà dove, belve ed assalitori. Si vedeva Manueli<br />

Vargiu, il nonno, camminare tranquillo nella stessa<br />

radura ov’erano apparsi leoni tigri e cinghiali. Era tutto truce<br />

in volto, ma non diverso dal solito. Senonché improvvisamente<br />

si metteva a correre, a correre, e ad ansimare. La<br />

“berritta” di orbace, lunga come una calza, si agitava nel<br />

vento a guisa di pennacchio nero e lugubre, finché cadde<br />

per terra sull’erba, e la zazzera del nonno, quasi candida,<br />

parve una rasa criniera. Strane urla uscivano dal petto del<br />

vecchio, le sue mani diventavano adunche e lunghe e le<br />

sue gambe, che sembravano scricchiolare nelle giunture<br />

tanto avevano perduto elasticità e agilità, guizzavano tuttavia<br />

nella selva come gambe di cervo. Orrore, il nonno non<br />

era più il nonno, diventava una cosa da far paura, una<br />

specie di belva sconosciuta e agghiacciante. Ma, toc, toc,<br />

eccoli di nuovo i cavalli dei carabinieri del re; oh no, no,<br />

lo volevano ammazzare? Ma i cavalli svaniscono come nubi<br />

d’estate. <strong>Perdu</strong> è adesso, solo, nel mezzo di una radura<br />

davanti al pauroso essere in cui si è convertito il nonno.<br />

No, non è solo: una mano preme sulla sua spalla, ma è<br />

una mano che non appartiene a nessuno; strano, è una<br />

mano che sembra di persona amica. È forse la mano di<br />

Efisio Manzella? Essa ha la pelle arsa e secca, con le vene<br />

56<br />

Capitolo IV<br />

in rilievo, e nel dito sfavilla l’anello d’oro. Ma come va che<br />

a questa mano non è attaccato nessuno? E dove può essere<br />

Efisio Manzella? Più nessuno c’è. Non c’è nulla. È svanita<br />

anche la visione spaventevole di quell’essere sconosciuto.<br />

Non sono rimasti che gli alberi tutt’attorno e piante di<br />

euforbia e asfodeli. Ma ecco che gridano nel folto della<br />

selva. Gridano. Chi grida? Sembrano le urla di un cinghiale<br />

azzannato dai cani; di un cinghiale sventrato, i cui visceri,<br />

bianchi e fumanti, i cani dilaniano guaiolando e ringhiando.<br />

Tonfi e tonfi. Non è un cinghiale. Gli arbusti della selva,<br />

benché bassi, impediscono a <strong>Perdu</strong> di avanzare per vedere.<br />

Bisogna abbatterli: picchiare con una roncola sulla<br />

loro base. Come rintrona! Non sono di un cinghiale queste<br />

urla, e non si odono più i cani. La selva si apre, c’è un’altra<br />

radura. Ma non si vede nessuno. Le urla non sono cessate<br />

ma non si vede nessuno. Chi è che urla? D’un tratto la<br />

terra si apre e un urlo più lacerante risuona, come se la<br />

terra stessa gridasse attraverso quella voragine…<br />

<strong>Perdu</strong> si svegliò di soprassalto. L’urlo l’aveva destato.<br />

Era un urlo del sogno? Era una cosa reale? Succedette un<br />

silenzio. Una lama di luce netta tagliava la buia stanza ove<br />

<strong>Perdu</strong> dormiva, dall’uscio dell’altra camera fino ai piedi<br />

del focolare. E questa volta non in sogno, ma sveglio, <strong>Perdu</strong><br />

udì una cosa terribile: un vero urlo, di bestia, immenso<br />

e atroce, riempì la casa facendone tremare i muri, tremulo<br />

esso stesso come se contenesse una quantità insopportabile<br />

di dolore. <strong>Perdu</strong> restò atterrito. Ma prima che il suo<br />

cervello potesse mettersi a funzionare normalmente, un<br />

lampo lo attraversò, una intuizione improvvisa, rapida come<br />

la folgore: la mamma!<br />

Balzò precipitosamente dal letto e mentre altri tonfi si<br />

udivano nell’altra camera, sbatacchiò la porta che si trovava<br />

accostata, spalancandola. E si trovò nella luce.<br />

Egli era scalzo e seminudo, la rotondità della pancia,<br />

che aveva un po’ gonfia come è sempre il ventre dei<br />

bambini sulcitani carichi di malaria, era tutta scoperta<br />

57


PERDU<br />

giungendogli la maglietta fino a metà del busto, e pareva,<br />

quella pancia, sotto la viva luce, con la ditata dell’ombelico<br />

sul sommo della convessità, uno di quei pani sulcitani<br />

di semola e cruschello, larghi e rotondi e con un buco nel<br />

mezzo, che là si chiamano “moddizzosus”.<br />

La luce gli offese gli occhi ed egli se li stropicciò per<br />

vedere, innanzi di procedere.<br />

La mamma giaceva in mezzo al letto, ignuda, e col<br />

ventre squarciato, come quel cinghiale che <strong>Perdu</strong> aveva<br />

dianzi sognato.<br />

Angiuledda Vargiu era morta appena allora.<br />

58<br />

CAPITOLO V<br />

<strong>Perdu</strong> credette di aver smarrito la ragione. La stanza<br />

era piena di luce, di quella luce bianca abbagliante che<br />

fanno le lampade a gas acetilene, molto comuni nel Sulcis,<br />

dove soltanto adesso nei principali paesi arriva la luce elettrica.<br />

Quella luce della lampada fugava ogni ombra, rendeva<br />

sguaiata, esasperava la nefandezza di ciò che mostrava.<br />

Nella camera non c’era nessuno, tranne “quella cosa”<br />

tremenda che non si poteva guardare. Nessuno. Nessuno?<br />

<strong>Perdu</strong> fu attraversato da un brivido di nuovo atroce spavento.<br />

Dalla finestra spalancata entrava, nera e gelida, la notte<br />

di gennaio della bassa regione sulcitana. Ed entrava,<br />

come un fiato demoniaco, il vento ancora impetuoso, che<br />

faceva oscillare le imposte aperte e curvava la fiamma<br />

della lampada sul cassettone. E col vento, dal sottostante<br />

cortile dei polli giungevano anche, per rendere più grottesco<br />

l’insieme, mansueti chioccolii di galline, destate nel<br />

buio e impaurite.<br />

Attraverso le sbarre della controspalliera del letto, <strong>Perdu</strong>,<br />

atterrito e allucinato, guardava “quella cosa” con gli<br />

occhi fuori delle orbite. Il corpo di Angiuledda giaceva supino,<br />

scomposto, impiastricciato di sangue.<br />

Movendosi finalmente dal posto in cui era rimasto inchiodato,<br />

ma assolutamente al di fuori di ogni impulso<br />

della sua volontà, <strong>Perdu</strong> si avvicinò al letto dalla parte del<br />

capezzale, come per una assurda curiosità. Stette anche<br />

bene attento, senza rendersene conto, di non mettere i<br />

piedi nudi nel sangue che fluiva sul pavimento. Ecco l’altra<br />

metà del corpo di sua madre: sangue sul seno, sul collo,<br />

e molto sangue sul costato. Anche qua, un’altra ferita di<br />

coltello, di punta, e il sangue già raggrumato. Non è vero,<br />

non è vero. Questa non è sua madre; è una donna nuda<br />

59


PERDU<br />

ammazzata, ma non è sua madre. La faccia non si vede. La<br />

faccia è rivoltata, reclina sul bordo dell’origliere, coperta di<br />

capelli lunghi, neri, tutti impastati anch’essi di sangue. Non<br />

è sua madre. Perché dovrebbe esserlo? Non si vede la faccia<br />

e perciò non è lei.<br />

E se si vedesse la faccia? Tesa come una corda d’arco,<br />

la mente del bambino non è occupata che da questo essenziale<br />

pensiero. Nessun legamento logico coordina le<br />

sue reazioni. Il suo cervello è fermo come un meccanismo<br />

perfetto che si sia “incantato” a causa di un granello di<br />

polvere. Libera, autonoma, non mossa da alcun comando<br />

consapevole, la mano di <strong>Perdu</strong> si leva lenta avvicinandosi<br />

guardingamente alla testa del cadavere. Tocca i capelli. La<br />

mano si ritrae, si volta, si offre agli occhi. Sangue. Quanto<br />

sangue! È rosso come il succo delle more di gelso. La mano<br />

si riavvicina, tremante, al mucchio dei capelli, li stringe,<br />

si prova a sollevarli come se fossero pesantissimi. Ora<br />

gli occhi di <strong>Perdu</strong>, il suo cervello, sono fissi e appesi a<br />

questa operazione, a ciò che fa, di sua iniziativa, la mano.<br />

Una paura cupa, densa, si riversa in lui; le sue orecchie<br />

rintronano come se respirasse coi timpani, e i timpani raccogliessero,<br />

assiduamente, voci di tuoni lontani. Il tempo<br />

è l’eternità, e l’eternità dura un attimo. Stringe i denti. La<br />

mano ha riafferrato i capelli, li butta indietro, il volto appare.<br />

È sua madre!<br />

È sua madre, diventata una cosa macabra. Una ciocca<br />

di capelli, che è ancora rimasta incollata sul viso, lo attraversa<br />

dall’alto in basso sinuosamente come un serpe nero.<br />

E la bocca è stravolta in una smorfia spaventosa; sembra<br />

che urli, sembra che sghignazzi e che maledica. Ma non le<br />

si possono guardare gli occhi. Perché anch’essi, tra palpebre<br />

di sangue coagulato, guardano e ammiccano, guardano<br />

e parlano, vitrei, e fanno paura.<br />

Vedere tutto questo, ributtare con terrore i capelli su<br />

quel volto, e urlare, fu per <strong>Perdu</strong> una cosa soltanto. Ma<br />

non è proprio dire: urlare. Non urlare. Nell’urlo c’è della<br />

60<br />

Capitolo V<br />

minaccia, o una lontana speranza di salvezza. A <strong>Perdu</strong><br />

non si addiceva questo. I cani che si bastonano fino al<br />

sangue, fino a spezzar loro le ossa, non urlano: latrano. Il<br />

latrato esprime l’angoscia, la paura, l’infelicità rassegnata<br />

dei cani. Anche <strong>Perdu</strong> era un cane. In quel momento era<br />

nient’altro che un miserabile cane.<br />

Finché si udì come uno scoppio di bomba. La porta<br />

della cucina era stata spalancata con violenza e fragore.<br />

Passi si udirono, di grosse scarpe chiodate, attraversare<br />

concitatamente la prima stanza, poi un uomo piombò nella<br />

camera, una figura alta e azzoppata.<br />

L’uomo non ebbe un attimo di esitazione. Si avventò<br />

sul bambino e gli sferrò, fortissimamente, due ceffoni in<br />

pieno viso. L’ululato di <strong>Perdu</strong> cessò di colpo. I suoi occhi,<br />

sbarrati si fermarono sull’uomo: era Efisio Manzella.<br />

Pareva che agli angoli della bocca due ganci invisibili<br />

stirassero negli opposti versi le labbra di lui diventate sottili<br />

ed esangui, e gli occhi, già crudeli e durissimi per loro<br />

natura, pareva sprigionassero fiamme.<br />

<strong>Perdu</strong> lo guardò inebetito, incapace di capire qualunque<br />

cosa, nudo dinanzi all’uomo e indifeso, la bocca spalancata<br />

e il mento scosso da sussulti. Ancora con inaudita<br />

violenza Efisio Manzella percosse il bambino. <strong>Perdu</strong> vacillò<br />

come un covone di grano rovesciato dal vento, e cadde<br />

senza un lamento sull’impiantito. Cadde nel sangue della<br />

madre morta, il quale gli arrossò la sfericità del ventre e le<br />

gambe, chiazzandogli la pelle come un mosto appiccicoso.<br />

Si alzò sveltamente e senza pronunziare parola si rimise<br />

dinanzi ad Efisio Manzella.<br />

Efisio Manzella non era assolutamente padrone di sé.<br />

Stringeva i denti e li arrotava come un mastino da pastore.<br />

Piantato a gambe larghe a piedi del letto, guardava<br />

ora il cadavere, ora il bambino e respirava pesantemente,<br />

con affanno, con il respiro da mantice che noi pensiamo<br />

sia il respiro dei draghi. E di scatto, come già le due prime<br />

volte, si scagliò per la terza volta contro il bambino,<br />

61


PERDU<br />

ma non più con ceffoni, bensì afferrandogli come in una<br />

morsa la camiciola sul petto e sollevandolo con una mano<br />

sola, come i contadini fanno talvolta per valentia sulle<br />

aie del moggio colmo di frumento, e quando ebbe il<br />

bambino all’altezza della propria statura, lo avvicinò a sé,<br />

gli sputò sul viso e lo sbatacchiò con forza sul canterano.<br />

Ma non si sentì pago di questo. <strong>Perdu</strong>, che aveva battuto<br />

la nuca sul muro, restò un po’ intontito, ma non disse<br />

verbo, né si toccò le parti doloranti. Guardava sempre<br />

fisso la faccia di Efisio Manzella ma come se non sentisse<br />

odio per lui, come se i suoi occhi fossero meramente rivolti<br />

a indovinare ciò che l’uomo avrebbe ancora fatto.<br />

Ancora Efisio Manzella si avvicinò; gli torse all’interno<br />

le braccia come si torcono i tralci cresciuti male, gli sollevò<br />

le mani, le appoggiò contro il muro stritolandogli il<br />

palmo sotto i suoi pugni immensi, e con una ginocchiata<br />

gli chiuse seccamente la bocca, sì che si udì lo scatto osseo<br />

dei denti che si toccavano. Quindi, gli disse:<br />

– Apri gli occhi, bastardo, e guardami bene. Io ti ammazzerò,<br />

come ho ammazzato quella cagna di tua madre.<br />

Ma voglio che tu prima mi dica chi era qui questa sera.<br />

Dimmelo, cane, immonda bestia, dimmelo, o ti spedisco<br />

al demonio a pezzi come una carogna marcia.<br />

<strong>Perdu</strong> non parlò. Non capiva ciò che volesse sapere<br />

Efisio Manzella, né ciò che significassero le sue parole;<br />

tranne una: bastardo. Capì che Efisio Manzella, suo padre,<br />

lo chiamava bastardo.<br />

Con le braccia sempre inchiodate sul muro, come<br />

crocifisso, il volto convulso dell’uomo vicinissimo al suo,<br />

<strong>Perdu</strong> guardava Efisio Manzella con aria di implorazione.<br />

Non emise un gemito, non gli uscì dagli occhi una sola<br />

lacrima. Lo guardava attonito e non riusciva a capire.<br />

Allora, come la grandine su un recipiente di latta capovolto,<br />

piovvero sopra di lui, con ritmo sempre più intenso<br />

e rapido, altre percosse. Il viso del bambino si gonfiò<br />

e divenne bruciante. Il suo corpo, appallottolatosi<br />

62<br />

Capitolo V<br />

istintivamente come il dorso di un riccio, rotolò dal canterano<br />

e ricevette potenti calci dalle grosse scarpe dell’uomo.<br />

Calci nei fianchi, nella schiena, anche in faccia, malamente<br />

riuscendo il bambino a proteggerla con le piccole mani.<br />

Era una gragnuola che non cessava mai. E con i calci, altri<br />

insulti, all’indirizzo suo e della madre, che Efisio Manzella<br />

affermava, proclamava, si vantava di avere ammazzata.<br />

– Bastardo, cane, non parli, non vomiti tutto quello<br />

che sai. Prendi, prendi. Vattene anche tu all’inferno, con<br />

lei, che il demonio vi affoghi nel letame, carogne.<br />

<strong>Perdu</strong> capì subitamente che Efisio Manzella si proponeva<br />

di ucciderlo. Capì che aveva ucciso lui la madre, e<br />

che adesso si accingeva a commettere il secondo delitto.<br />

Ma non si spaventò. Una sorta di stanchezza gli si insinuò<br />

nello spirito, suggerendogli che dopo tutto era meglio così:<br />

meglio morire. Vivere, era troppo crudele; in quelle<br />

condizioni, morire era una cosa desiderabile, certamente<br />

desiderabile e dolce, se nella morte non si sente più niente,<br />

né il dolore dei calci nei fianchi, né le parole atroci, né<br />

il sangue, tutto questo sangue che si sentiva sul viso, dentro<br />

la bocca, dentro gli orecchi e perfino sull’orlo delle<br />

palpebre, oltreché sulle mani, e che non sapeva più ormai<br />

se fosse il sangue raccolto in terra e fluito dalle ferite della<br />

madre, o se fosse il sangue del suo proprio corpo. Meglio<br />

morire, se nella morte non si sente più niente…<br />

Così che, quando i tonfi cessarono di rintronare nelle<br />

sue ossa, e non si sentì più niente, <strong>Perdu</strong> credette che<br />

davvero la morte attesa fosse venuta e se lo fosse adagiato<br />

tra le braccia, piano piano, per non risvegliare il dolore<br />

della sua carne battuta.<br />

63


CAPITOLO VI<br />

Molti a Terreluxi pensavano che <strong>Perdu</strong> sarebbe sicuramente<br />

morto in seguito alle percosse ricevute. E molta<br />

gente, più che compassionare la sorte del bambino, si<br />

rammaricava, perché, se egli moriva, veniva a mancare la<br />

possibilità di sapere come si erano svolte veramente le cose<br />

nella drammatica notte.<br />

La scoperta del delitto era stata fatta la mattina dopo da<br />

quella stessa bambina che la sera avanti si era recata nella<br />

casa di Angiuledda a cercare uova e che, andandosene, aveva<br />

augurato alla donna e a <strong>Perdu</strong>, con tanta querula spontaneità,<br />

la buona notte e la protezione della Madre di Dio.<br />

Tottona Corrias era una ragazzetta giudiziosa. Passando<br />

dinanzi alla casa dei Manzella, quella mattina, aveva<br />

notato che la porta era spalancata, malgrado il freddo, e<br />

che, sebbene nella corte giacessero sparpagliate alcune<br />

fascine di rame che qualcuno – o forse il vento? – aveva<br />

rovesciato dal tetto del pollaio, nessuno della casa si era<br />

dato pena di togliere quell’ingombro. E pensò che era<br />

strano. Perciò decise di entrare e di dare una voce. Chiamò<br />

infatti più volte dall’uscio:<br />

– Tzia Angiuledda! Tzia Angiuledda!<br />

Ma nessuno rispose. Tottona entrò decisamente nella<br />

cucina e vide il tavolo rovesciato e una brocca di coccio<br />

per terra, ridotta in pezzi. Si avanzò fino alla seconda stanza<br />

e corse via come un’allodola che abbia udito lo sparo<br />

del cacciatore. Il cuore le saltava in gola. Alla prima persona<br />

che incontrò, cercò di spiegare a precipizio tutto ciò<br />

che aveva veduto. Ma nessuno capì niente, tranne che bisognava<br />

accorrere dove lei diceva, il più in fretta possibile.<br />

Dapprincipio <strong>Perdu</strong> fu creduto morto. Poi qualcuno si<br />

accorse che il suo corpo, a differenza di quello di Angiuledda,<br />

era ancora caldo. Qualche altro disse che la madre<br />

«non si poteva toccare» fino all’arrivo dell’autorità, ma che<br />

64<br />

al bambino poteva essere prestato soccorso. Perciò <strong>Perdu</strong><br />

fu condotto per le prime medicazioni in casa di Boiccu<br />

Corrias, padre di Tottona.<br />

Frattanto, verso sera, l’autorità giunse a Terreluxi. Si trattava<br />

di due carabinieri, di cui uno sardo, e di un brigadiere.<br />

Tutti e tre cavalcavano magnifici cavalli.<br />

Il sottufficiale non poté concludere molto in quei primi<br />

frangenti. Ispezionò la casa dei Manzella, metro per<br />

metro, misurò le distanze dei muri, delle porte, della finestra,<br />

perfino dei cocci della brocca andata in frantumi;<br />

prelevò oggetti nella stanza della morta, si chinò sulle ferite,<br />

si affacciò nel pollaio. Alla fine allargò le braccia e riconobbe<br />

che non aveva capito niente.<br />

I suoi subalterni intanto avevano perlustrato i dintorni<br />

della casa, chini sul terreno come cani levrieri. Invano.<br />

Ogni traccia e ogni orma erano state cancellate dall’acqua<br />

che ancora inzuppava la terra.<br />

La gente interrogata si stringeva nelle spalle. Chi ne<br />

sapeva niente? Tottona Corrias fu invitata a ripetere innumerevoli<br />

volte tutto ciò che aveva visto la notte avanti e la<br />

mattina dopo. Essa era colei che, pur non sapendo niente,<br />

ne sapeva più di tutti.<br />

Il brigadiere continentale si mostrò innervosito.<br />

– Possibile – diceva – che l’abbiano uccisa i fantasmi?<br />

Gli avevano spiegato che la donna aveva marito.<br />

– Dov’è questo marito? – chiedeva.<br />

Gli dissero che era assente, che si trovava lontano. –<br />

Bene – commentava il brigadiere – troverà un bell’affare<br />

al suo ritorno. Ha altri parenti sul posto la donna?<br />

– Sissi – gli fu detto; e ci si meravigliò che Manueli<br />

Vargiu non si fosse ancora fatto vivo né per vedere la figlia<br />

morta né per visitare il nipote agonizzante. Ma come<br />

mai, egli che era il parente più prossimo, non era subito<br />

accorso? Possibile che non sapesse ancora niente?<br />

Tziu Manueli, avvertito da un carabiniere, sopraggiunse<br />

ben tosto. Il suo viso, come al solito, non mostrava alcuna<br />

particolare emozione.<br />

65


PERDU<br />

Il brigadiere gli si fece innanzi:<br />

– Come va che arrivate adesso, con tanto comodo, a<br />

veder vostra figlia morta e vostro nipote agonizzante?<br />

Il “maureddu” non rispose. L’uomo della legge lo fissava<br />

negli occhi, con la sua diffidenza professionale abituata<br />

a sospettare di tutti.<br />

– Rispondete – disse seccamente.<br />

Tziu Manueli restò ancora muto. I suoi occhi striati di<br />

giallo, stringendosi tra le palpebre appassite, guardavano la<br />

faccia liscia sbarbata e bella del giovanotto in divisa senza<br />

staccarsene un istante. Vaghe ombre passavano in quegli<br />

occhi. Ma, per leggervi dentro qualcosa, bisognava essere<br />

più sperimentati psicologi del brigadiere continentale.<br />

– Perché non rispondete? – urlò il brigadiere.<br />

– Non sapevo ancora niente – disse tziu Manueli con<br />

voce tranquilla, in sardo, lisciandosi la barba. – E se anche<br />

l’avessi saputo – aggiunse con maggiore impeto – credete<br />

che venendo qui subito, avrei risolto qualcosa? Quello che<br />

risolve Vustè, avrei risolto!<br />

Il carabiniere sardo tradusse al sottufficiale le parole<br />

del vecchio.<br />

– Non ha poi tutti i torti – brontolò il brigadiere. – In<br />

fondo non siamo venuti a capo di niente, almeno per ora.<br />

E chi è morto resta morto.<br />

Tziu Manueli entrò nella stanza dove giaceva sua figlia<br />

e la guardò a lungo, a lungo, senza commuoversi.<br />

L’ingresso nella stanza era stato vietato a chiunque, dopo<br />

l’arrivo dei carabinieri, ma per il padre della morta era<br />

stata fatta eccezione. Il cadavere era ancora sconciamente<br />

scoperto; nessuno si era preoccupato di velare quell’orrore.<br />

Sull’anulare della mano sinistra della morta si poteva<br />

tuttora vedere la fede d’oro che Don Nicolino Cuccu aveva<br />

benedetto quando, celebrando le nozze, aveva pronunziato<br />

le parole: «Ego coniungo vos …».<br />

Quanto a <strong>Perdu</strong>, egli era ancora in coma, disteso sul<br />

lettuccio nella casa di Boiccu Corrias. Anche vicino al suo<br />

66<br />

Capitolo VI<br />

capezzale tziu Manueli si trattenne a lungo, osservando il<br />

bambino in silenzio e con occhi fermi.<br />

Si trattava di fare qualcosa perché il bambino non<br />

morisse. Ma che cosa? Tziu Manueli, interpellato, disse:<br />

– Lo prendo in braccio e lo porto a casa mia. Se deve<br />

morire, muore dove è nato.<br />

Ma tutti si erano opposti. Trasportarlo anche per breve<br />

tratto, poteva significare ammazzarlo. Fu mandato a chiamare<br />

il medico, a Iddarta. Ma bisognava aspettare molto<br />

tempo.<br />

La maestra di <strong>Perdu</strong>, che era accorsa fin dal mattino<br />

ed appariva sconvolta per tutte quelle atrocità, aveva consigliato<br />

di prendere il mezzo più celere e trasportare il<br />

bambino a Iddarta, di qui avviandolo a Cagliari o ad Iglesias,<br />

se si voleva proprio salvarlo.<br />

Nessuno però aveva considerato sensata una simile<br />

proposta. In queste faccende della vita e della morte, nel<br />

Sulcis, ci si rimette alla lunga alla volontà del Signore. E se<br />

poi fosse morto in viaggio?<br />

<strong>Perdu</strong> non morì. Due giorni interi durò il suo sonno.<br />

Il medico era venuto da Iddarta e aveva costatato che le<br />

ferite erano tutte superficiali; lo stato di coma derivava da<br />

choc per le percosse alla testa. Riposo assoluto, aveva<br />

consigliato, e impacchi frequenti di acqua e aceto.<br />

A vegliare il bambino, oltre la moglie di Boiccu Corrias<br />

come padrona di casa, erano rimaste tzia Anna Locci,<br />

sorellastra di tziu Manueli, e un’altra cugina lontana, tzia<br />

Grazia Pintus. Ma anche la piccola Tottona cercava di rendersi<br />

utile; assurta a importanza eccezionale agli occhi di<br />

tutti, ma soprattutto ai propri, per la parte che il destino le<br />

aveva riservato nella triste vicenda, ella si affaccendava attorno<br />

al letto di <strong>Perdu</strong>, portando lavamani d’acqua e pezzuole<br />

e volando come una cincia per tutto quanto occorresse.<br />

Anzi, in un momento in cui restò sola nella camera<br />

del ferito, pensò bene di infilare sotto il guanciale, con<br />

aria furtiva, una foglia d’ulivo benedetto e un cornetto<br />

67


PERDU<br />

d’ottone che sua madre conservava per il malocchio; era<br />

sicura che con quei talismani <strong>Perdu</strong> sarebbe immediatamente<br />

guarito.<br />

E così fu davvero. <strong>Perdu</strong> si risvegliò dal suo sonno<br />

nelle prime ore del pomeriggio. Onde e onde gli danzavano<br />

davanti agli occhi e un senso di beccheggio di tutto<br />

il corpo gli cagionava vaghe nausee. Gli pareva di essere<br />

su un carro tirato da buoi in una strada sabbiosa e che il<br />

timone del carro oscillasse, come se i buoi, imbizzarriti,<br />

scotessero le cervici.<br />

Nella stanza, ad attendere il risveglio di <strong>Perdu</strong>, era<br />

stato lasciato un carabiniere con l’incarico di interrogarlo<br />

appena possibile. E già il carabiniere si chinava sul bambino,<br />

scoprendone i primi sintomi di ritorno alla vita,<br />

quando entrò nella camera la piccola Tottona; visto che<br />

<strong>Perdu</strong> moveva le mani e apriva gli occhi, la bambina, piena<br />

di gioia, applaudì e si mise a strillare. E <strong>Perdu</strong> capì da<br />

ciò che non era morto.<br />

Si cercò di interrogare il bambino, per ricavarne quanto<br />

fosse utile all’accertamento della verità sul delitto. Gran<br />

parte delle rivelazioni che ci si poteva attendere da <strong>Perdu</strong><br />

subito al primo giorno, avevano ormai perduto interesse<br />

perché Efisio Manzella, dopo due giorni di macchia, si era<br />

costituito ai carabinieri di Iddarta ed aveva confessato.<br />

Efisio Manzella aveva dichiarato di essere stato lui stesso<br />

l’autore dell’uccisione di Angiuledda Vargiu. Diceva che<br />

tornato improvvisamente a Terreluxi dal suo viaggio nel<br />

Campidano, e giunto a casa sua nel cuore della notte, aveva<br />

scoperto che in camera con sua moglie si trovava un uomo;<br />

ne aveva percepito distintamente la voce, sebbene senza<br />

riconoscerlo. Pazzo di gelosia era penetrato nella casa<br />

per sorprendere gli adulteri, ma l’uomo era già fuggito. Egli<br />

allora si era gettato sulla donna e l’aveva ammazzata a coltellate,<br />

nuda com’era, senza neppure ascoltarla. Circa l’uomo,<br />

non era riuscito ad appurare chi fosse; lanciatosi al suo<br />

inseguimento, per quanto glielo permetteva la sua gamba<br />

68<br />

Capitolo VI<br />

zoppicante, non era riuscito a raggiungerlo. Rientrato a casa<br />

aveva tentato di sapere dal bambino chi fosse quell’uomo;<br />

ma senza frutto; il bambino piangeva e non voleva parlare,<br />

e allora Efisio aveva mezzo accoppato anche lui.<br />

Da <strong>Perdu</strong>, appunto, ci si attendeva che fornisse ragguagli<br />

circa la veridicità del racconto di Efisio, e spiegazioni<br />

sulla identità dell’uomo che Efisio affermava aver<br />

trovato in casa.<br />

Ma <strong>Perdu</strong> non poteva appagare codesta attesa perché<br />

non solo ignorava chi fosse quell’uomo, ma rimaneva<br />

convinto, almeno sul principio, che in casa, quella notte,<br />

non fosse entrato proprio nessuno.<br />

Per più giorni il bambino visse come intontito. Il ricordo<br />

di quella notte, che in determinati momenti gli cagionava<br />

veri e propri incubi, altra volta gli giungeva sfocato,<br />

quasi incomprensibile, suscitandogli reazioni molto ottuse.<br />

Per giorni e giorni non riuscì a rendersi chiaramente conto<br />

che sua madre era morta e che pertanto non sarebbe ritornata<br />

mai più. Fu soltanto con l’andare del tempo che le<br />

immagini recategli dal ricordo lentamente si composero in<br />

un unico quadro, acquistando un significato esatto e terribile.<br />

La notte buia, il suono del vento, la luce sul cassettone,<br />

il letto sconvolto, il sangue, il tonfo delle percosse sul<br />

proprio corpo, tutto questo, ecco, soltanto adesso egli cominciava<br />

a capire quale funzione avesse nella tragedia di<br />

quella notte.<br />

Dapprincipio l’animo del bambino non ebbe che da<br />

macerarsi nel dolore della sua sventura; il dolore lo assorbiva,<br />

ne strizzava le fibre come un lenzuolo dopo la lavatura.<br />

Ma col tempo, ovviamente, sorse in lui il bisogno di domandarsi<br />

il perché di quanto era avvenuto. Il delitto aveva<br />

suscitato immensa eco nel piccolo mondo di Terreluxi, specie<br />

quando si era saputo che l’omicida era Efisio Manzella.<br />

E la gente non sapeva trattenersi dal chiacchierare e dal<br />

congetturare sulle cause della collera sanguinaria che aveva<br />

portato a morte Angiuledda Vargiu. <strong>Perdu</strong> non poteva non<br />

69


PERDU<br />

afferrare taluna delle voci che già cominciavano a circolare;<br />

ed a maggior ragione si faceva in lui impellente l’esigenza<br />

di spiegare a se stesso il perché Efisio Manzella<br />

avesse accoltellato la madre. Certo, un perché doveva esserci.<br />

C’è sempre un perché quando ci si riflette. Gli tornavano<br />

alla mente le parole di Angiuledda, dette proprio alla<br />

vigilia della sua morte: «I nostri uomini, se uccidono, lo<br />

fanno sempre per una ragione d’onore». Era dunque per<br />

una ragione d’onore che Efisio aveva ammazzato la mamma?<br />

E che significa precisamente “ragione d’onore”?<br />

I carabinieri, i compagni, la gente tutta, all’infuori di<br />

tziu Manueli Vargiu e dei parenti di Efisio Manzella, i quali<br />

ultimi sembravano essersi chiusi a questo riguardo nel più<br />

assoluto riserbo, chiedevano insistentemente a <strong>Perdu</strong> di dire<br />

se sapeva chi fosse l’uomo penetrato nella casa la notte<br />

fatale. <strong>Perdu</strong> non poteva rispondere, ma vagamente intuiva<br />

che qui potesse essere la spiegazione del mistero. Per<br />

conto suo nessun uomo era venuto a casa; ma se vi fosse<br />

entrato quando lui già dormiva? L’innocenza dei bambini<br />

sulcitani è cosa un po’ diversa da quella di altri bambini; e<br />

perciò qualche sprazzo di intuizione precoce gli faceva in<br />

qualche modo capire che se davvero un uomo era quella<br />

notte in compagnia della madre, la collera di Efisio Manzella<br />

trovava una qualche giustificazione. «Dimmi chi è<br />

quell’uomo che è stato qui questa sera, dimmelo se no ti<br />

ammazzo» così aveva gridato Efisio Manzella prima di bastonarlo<br />

con tanto furore. C’era dunque una relazione fra i<br />

due fatti: la presenza dell’uomo ignoto e l’ira di Efisio. Ma<br />

di che natura era esattamente codesta relazione?<br />

Un’altra cosa affliggeva particolarmente <strong>Perdu</strong>. Efisio<br />

Manzella lo aveva chiamato bastardo; aveva messo in questa<br />

espressione un tale odio e un tale disprezzo che non<br />

era più lecito equivocare sul reale significato di essa. Efisio<br />

Manzella rinnegava, in sostanza, di essergli padre. Questa<br />

era la vera portata della frase da lui detta. E si era allora<br />

daccapo, riguardo al mistero della paternità. <strong>Perdu</strong> aveva<br />

70<br />

Capitolo VI<br />

dovuto vincere non poche riluttanze prima di persuadersi<br />

che Efisio era suo padre; ora Efisio lo rinnegava. Chi era<br />

dunque suo padre?<br />

La maestra di <strong>Perdu</strong> aveva ottenuto dal nonno che il<br />

bambino tornasse a scuola. Era venuta un giorno in casa<br />

di tziu Manueli e gli aveva tenuto un lungo ed accalorato<br />

discorso. Tziu Manueli l’aveva lasciata parlare e sfogare,<br />

poi aveva alzato le spalle a significare che, per lui, poteva<br />

la maestra fare come credeva. La scuola, le lezioni, i condiscepoli<br />

davano a <strong>Perdu</strong> un po’ di conforto o almeno di<br />

distrazione; se non altro gli impedivano di abbandonarsi a<br />

se stesso ed ai suoi pensieri.<br />

Soltanto, <strong>Perdu</strong> non capiva perché la maestra, dopo<br />

tutto quello che era successo, continuasse a chiamarlo<br />

Pietro Manzella anziché Pietro Vargiu.<br />

71


CAPITOLO VII<br />

Il processo contro Efisio Manzella si celebrò alla Corte<br />

d’Assise di Cagliari dopo circa due anni.<br />

<strong>Perdu</strong> giunse a Cagliari insieme col nonno una sera<br />

d’aprile.<br />

Era l’ora che precede il tramonto, e il sole, che si apprestava<br />

a curvarsi sull’orizzonte, oltre le montagne di Caputerra,<br />

vezzeggiava la città, la baciava, la faceva arrossire<br />

da tutte le facciate candide dei palazzi della via Roma, da<br />

tutte le case biancheggianti sulla balconata del colle fino<br />

al Castello.<br />

La città parve a <strong>Perdu</strong>, in quell’ora, incantata ed immensa.<br />

Quante case, e come grandi! E quanta moltitudine<br />

di gente che s’affannava! Ansietà e frastuono riempivano<br />

le sue vie. Gente di ogni ceto, che non si salutava incontrandosi,<br />

marciava in tutte le direzioni, sollecitata da una<br />

fretta e da una preoccupazione inspiegabili. I veicoli, i<br />

tram, i carretti, le automobili guizzanti dagli incroci come<br />

enormi rospi, i pullman illuminati e gli altoparlanti che assordavano,<br />

producevano tale incessante e confuso clamore<br />

che <strong>Perdu</strong> si domandò se, per essere città, un paese deve<br />

per forza riempirsi di trambusto e fracasso. Ma altri<br />

aspetti, più poetici, rivelò la città a <strong>Perdu</strong> in quel primo affrettato<br />

saluto. Gli offerse il volo dei suoi colombi viola,<br />

che pigramente e quasi voluttuosamente, nella via Roma<br />

arrossata di sole occiduo, si trasferivano dal frontone della<br />

chiesa di San Francesco di Paola ai pinnacoli gemelli del<br />

Municipio, la cui facciata, sotto la patina rossa del sole,<br />

era tutta candida, come quel dolce di mandorle e zucchero<br />

che in <strong>Sardegna</strong> chiamano “candelaus”. Gli offerse inoltre,<br />

primizia assoluta per <strong>Perdu</strong>, il trasalimento lucente del<br />

suo bel mare conchiuso, imprigionato tra i colli dei Sette<br />

Fratelli fino al faro laggiù, oltre la Sella del Diavolo.<br />

72<br />

<strong>Perdu</strong> dimenticò ogni cosa, anche il processo e sua<br />

madre, dinanzi a questo spettacolo. A bocca aperta, appena<br />

fuori il portone della stazione, sotto il palmizio e i banani<br />

che un tempo ornavano la piazza occidentale della<br />

via Roma, egli mentalmente comparava tutto ciò che vedeva<br />

con i luoghi silenziosi e semplici nei quali era sino<br />

allora vissuto. Come era lontana da lì, Terreluxi! Le sue<br />

poche case, i campi seminati, i filari dei mandorli e i ciuffi<br />

radi degli ulivi e le siepi di fichidindia e gli scogli, i grandi<br />

sassi bruni del monte Tamara, tutto gli appariva come cosa<br />

remota di cui, chissà perché, bisognava quasi arrossire.<br />

Tziu Manueli Vargiu strappò il bambino alle sue attonite<br />

contemplazioni:<br />

– Andeus, dobbiamo affrettarci, ti è preso un canchero?<br />

– disse, e lo trascinò per un braccio.<br />

Nonno e nipote corsero, come anatre snidate dai cani,<br />

nel ruscellare del traffico delle vie cittadine. Anche tziu<br />

Manueli Vargiu, che cercava di imporsi a <strong>Perdu</strong> come guida,<br />

dimostrava palesemente di non essere all’altezza del<br />

compito. Il suo costume sulcitano e la bisaccia di lana<br />

multicolore a due tasche, buttata sulla spalla e grave di<br />

provviste, gli conferivano un’aria contadinesca così singolare<br />

e comica fra tutta quella gente di città, che il vecchio,<br />

senza pur darlo a vedere, ne soffriva.<br />

Non perdeva tuttavia la sua imperturbabilità. Un monello<br />

cagliaritano, di quelli che a Cagliari si chiamavano<br />

“piccioccheddus de crobi”, si avvicinò a tziu Manueli e,<br />

dandogli canzonatoriamente del “signore” gli chiese di affidargli<br />

la sua “bertula”, cioè la bisaccia, per portarla a destinazione.<br />

Il vecchio “maureddu” non si scompose: egli<br />

sapeva come va trattata questa genia di bricconi; si fermò<br />

e, con aria di voler aderire, frugò nella bisaccia, ne trasse<br />

un salsicciotto di considerevole volume e con esso, impugnatolo<br />

a guisa di bastone, vibrò una botta secca sulla testa<br />

selvosa del petulante ragazzo dicendogli: – Portami<br />

questa! –. Quindi proseguì col nipote.<br />

73


PERDU<br />

Salirono alla locanda di un compaesano di Terreluxi<br />

che si era trasferito da anni in città per esercitarvi il mestiere<br />

di affittacamere e che dava alloggio pressoché a tutti<br />

i sulcitani in arrivo. Sulla porta d’ingresso, alla luce di<br />

una lampadina elettrica coperta di ragnatele, <strong>Perdu</strong> lesse<br />

su un cartoncino inchiodato al battente: «Alloggio-Cherchi».<br />

Il ballatoio sul quale si apriva anche un altro portoncino,<br />

puzzava orribilmente di pesci fritti e di cavoli.<br />

Le accoglienze di Antonio Cherchi e della famiglia furono<br />

calorose e simpatiche, tanto più che tziu Manueli,<br />

ancora nell’ingresso, fu impaziente di regalare al padrone<br />

di casa i suoi doni portati apposta da Terreluxi. I Cherchi<br />

sapevano le ragioni per cui tziu Manueli e il nipote erano<br />

venuti in città; così essi, esaurita la presentazione dei doni<br />

e scambiate frasi di ringraziamento e proteste di lasciar<br />

correre, furono condotti nella camera loro assegnata affinché<br />

potessero a proprio agio appartarsi.<br />

La casa era situata nel rione Marina e la finestra della<br />

camera in cui <strong>Perdu</strong> si trovava, dava su una piazzetta angusta,<br />

al sommo della via Barcellona. Questa via, lunga e<br />

stretta come un budello, scivola giù verso il mare ed offre,<br />

o meglio offriva un tempo, per chi guardava dall’alto<br />

scavalcando con l’occhio una breve balaustra di chiome<br />

d’alberi – i pitosfori pettinati che orlavano la via Roma<br />

dal lato del mare – una porzione del golfo celeste, popolato<br />

di sartie, di teste di gru intralicciate, e di ciminiere.<br />

Questo vide <strong>Perdu</strong> allorché si affacciò alla finestra per riconoscere<br />

“la città”.<br />

Il giorno moriva ormai, ma l’aria era ancora chiara, e<br />

nuvole color vescovo coi bordi occidentali incandescenti,<br />

indugiavano sopra il Castello dalla parte del Terrapieno.<br />

Il bambino volgeva il capo osservando or queste nuvole,<br />

ora la città alta, ora il porto ed il golfo ed i monti sfumanti<br />

lontano. E d’un tratto, avvenimento cui <strong>Perdu</strong> non era preparato,<br />

accadde il miracolo: tutte le luci, simultaneamente<br />

e come ad un solo comando, si accesero. Luci elettriche<br />

74<br />

Capitolo VII<br />

che palpitavano e si sfrangiavano agli orli come grossissime<br />

stelle. Quale meraviglia! Solo in città si potevano godere<br />

di questi spettacoli. Non a Terreluxi, dove, la sera,<br />

calavano le ombre del monte Tamara e vi si addensavano<br />

come coltri, e soltanto le stelle, quando c’erano, e la luna,<br />

anche essa quando c’era, fornivano l’illuminazione. <strong>Perdu</strong><br />

si domandò se qualcuno, a Cagliari, pensasse mai che nel<br />

mondo c’è anche Terreluxi; e ne dubitava fortemente, parendogli<br />

impossibile che gente così felice, con tali bellezze<br />

e comodità, potesse interessarsi di luoghi tanto abbandonati<br />

e squallidi.<br />

Ancora una volta tziu Manueli trasse <strong>Perdu</strong> dalle sue<br />

meditazioni.<br />

– Domani c’è il processo – disse il nonno – mangia in<br />

fretta e dormi. Bisogna alzarsi per tempo.<br />

<strong>Perdu</strong> mangiò qualcosa delle provviste recate dal nonno<br />

e se ne andò a dormire, assaporando per la prima volta<br />

in vita sua l’elasticità delle molle nel letto. Si addormentò<br />

quietamente e quasi felice.<br />

75


CAPITOLO VIII<br />

La mattina dopo, quando <strong>Perdu</strong> si svegliò, il nonno<br />

non era più nella camera. Si levò sbigottito e con un po’<br />

di timore, ma, rivestitosi in fretta, corse alla finestra e la visione<br />

della città ancora una volta lo rapì. Alla sua immaginazione<br />

si presentavano come altrettante fotografie le facce<br />

attonite dei suoi compagni di scuola; se anche essi<br />

avessero potuto ammirare quello che <strong>Perdu</strong> vedeva, chissà<br />

quale stupore!<br />

Il nonno tornò poco dopo. Posò la bisaccia e disse a<br />

<strong>Perdu</strong>:<br />

– Ora andiamo davanti alla giustizia, se è giustizia! E ricordati<br />

che “lui” non è tuo padre.<br />

Non disse altro, ma gli occhi, unica cosa liscia in tutto<br />

quel volto ispido di peli, gli si fecero ardenti come carboni<br />

accesi.<br />

Andarono. Il palazzo della Corte d’Appello, ove si tenevano<br />

allora le Assise, si trovava in Castello, nella via<br />

che ancor oggi conserva il nome di quell’ufficio giudiziario.<br />

Era un palazzo antico e scadente, dalla facciata rossastra<br />

e, nell’interno, talmente sudicio che i muri, una volta<br />

intonacati di bianco, avevano acquistato una tinta color<br />

tabacco. <strong>Perdu</strong> attraversò col nonno scale ed anditi, ancora<br />

spopolati, dove i passi delle scarpe del nonno risvegliavano<br />

echi.<br />

Per un bel pezzo non accadde niente. <strong>Perdu</strong> e il nonno<br />

sedettero su una panca alla metà di un androne, davanti<br />

ad una porta su cui era scritto, come <strong>Perdu</strong> riuscì<br />

faticosamente a leggere: «Sala di udienza».<br />

– Deve essere qui – aveva detto il nonno. E lì si erano<br />

seduti.<br />

Poi erano incominciati ad arrivare uscieri col bavero<br />

cremisi, avvocati con borse di pelle zeppe di carte, persone<br />

76<br />

di ogni condizione che camminavano da una parte e dall’altra<br />

del corridoio; ma nessuna che si fermasse davanti a<br />

quella porta, né alcuno che si desse la pena di aprirla.<br />

<strong>Perdu</strong> disse:<br />

– Forse non sarà qui.<br />

Il nonno disse:<br />

– Rimanitene tranquillo – e additando il cartello inchiodato<br />

al battente, chiese ancora: – Cos’è che dice?<br />

– Sala di udienza – ripeté <strong>Perdu</strong> scandendo queste parole<br />

in italiano.<br />

– Così è che ha detto l’avvocato – confermò il nonno.<br />

E si rimise pazientemente ed indifferentemente ad attendere.<br />

Un usciere intervenne.<br />

– Che aspettate? – domandò al “maureddu” avvicinandosi.<br />

– La giustizia – rispose tziu Manuele, in sardo, seccato<br />

di quella intrusione che egli dovette giudicare, fra l’altro,<br />

oziosa.<br />

L’usciere, buon cagliaritano, rise di quella uscita e rise<br />

ancor più della pronunzia sulcitana, fortemente rustica:<br />

– La giustizia – disse, scimmiottando la stessa pronunzia<br />

– qui è dappertutto. Questo è il palazzo della giustizia!<br />

– Capperi! – disse il nonno, offeso da quel motteggio.<br />

– Noi qui c’eravamo venuti per comprare degli asini.<br />

L’uomo accusò la botta, corresse la pronunzia e disse:<br />

– I dibattimenti non si fanno in questa sala, oggi. Dovete<br />

recarvi al piano di sopra, terzo corridoio alla mano<br />

destra.<br />

Ci vollero molti giri e domande e indicazioni spesso rivelatesi<br />

errate, prima di ritrovare la sala d’udienza di cui<br />

andavano in cerca. Nelle vicinanze di essa si incontrarono<br />

finalmente col loro avvocato. Disse l’avvocato rivolto a tziu<br />

Manueli:<br />

– Vi avevo detto di essere qui alle nove, e vi fate vedere<br />

adesso. Bah, meno male che l’udienza non è ancora<br />

77


PERDU<br />

iniziata –. Cambiò tono e aggiunse: – Questo è il piccolo?<br />

– e levò la mano verso la testa di <strong>Perdu</strong> come se volesse<br />

carezzarla, ma non la toccò.<br />

Era un uomo non proprio brutto, e in definitiva simpatico.<br />

Aveva solo un gran naso, proprio grande, che gli<br />

scendeva giù come un rostro, soverchiando la bocca. Ma il<br />

suo profilo era fortemente addolcito dal fatto che la testa<br />

era sul sommo calva e lucida e tutt’attorno circondata da<br />

una coroncina di capelli come quella dei frati.<br />

<strong>Perdu</strong> fu lasciato in disparte mentre l’avvocato parlottava<br />

concitatamente col nonno. Data una sbirciatina alla<br />

sala d’udienza, attraverso lo spiraglio di un uscio rimasto<br />

socchiuso, <strong>Perdu</strong> vide un lungo banco ricurvo, e in alto,<br />

inchiodato alla parete, e come troneggiante su un altare,<br />

un enorme Cristo crocefisso, dalla testa reclina e coronata<br />

di spine. <strong>Perdu</strong> restò agghiacciato. Quel simulacro del<br />

Cristo gli metteva nell’anima un presentimento funereo.<br />

Nel corridoio intanto si veniva affollando sempre più<br />

gente. <strong>Perdu</strong> vide molte persone di Terreluxi, alle quali<br />

istintivamente fu portato a sorridere; ma si ricordò che il<br />

nonno gli aveva assolutamente proibito di avvicinare<br />

chiunque, e lo aveva ammonito che tutti quelli di Terreluxi<br />

che avrebbe visto a Cagliari per il dibattimento erano venuti<br />

con il proposito di fare uscire dal carcere Efisio Manzella,<br />

anziché di farlo condannare come meritava per<br />

l’uccisione della moglie. <strong>Perdu</strong> non avvicinò infatti nessuno,<br />

ma si domandò se era possibile che il corso della giustizia<br />

dipendesse da quello che avrebbero detto questi<br />

suoi compaesani di Terreluxi.<br />

Squillò una campana e il dibattimento ebbe inizio.<br />

<strong>Perdu</strong> udì il suo nome pronunziato ad altissima voce<br />

da un uomo vestito di un grande paludamento nero. Altri<br />

nomi tennero dietro al suo e i chiamati man mano si affollavano<br />

davanti all’uscio della sala di udienza. Quando<br />

l’uomo dalla lunga palandrana li spinse dentro, contandoli<br />

come fanno i pastori nel trarre al chiuso le pecore, <strong>Perdu</strong><br />

78<br />

Capitolo VIII<br />

si trovò finalmente al cospetto della giustizia. Il presidente,<br />

cioè l’uomo che sedeva al centro dell’emiciclo, sembrava<br />

uno strano prete, con un berretto assai alto e ben gallonato<br />

sul capo, di contro alla spalliera del suo scranno,<br />

che era davvero imponente. <strong>Perdu</strong> era stato altra volta interrogato<br />

da giudici nel corso delle indagini per l’assassinio<br />

di sua madre; ma giudici come questi, tutti riuniti e<br />

solenni e così numerosi, non ne aveva mai visti.<br />

Ma ecco che gli occhi gli caddero, passando, sulla gabbia<br />

degli imputati. Due carabinieri la custodivano. E dentro<br />

la gabbia Efisio Manzella; questi, pallidissimo, i capelli arruffati,<br />

la camicia sbottonata sul collo, i polsi chiusi l’uno<br />

sull’altro dai ferri, parve al bambino così terribile, ch’egli<br />

temette di veder l’uomo spezzare subitamente i ferri, rompere<br />

le sbarre e precipitarsi su di lui per ammazzarlo.<br />

– Bene, che fai? Vieni avanti – disse il presidente con<br />

voce gentile a <strong>Perdu</strong> che, fermandosi, aveva bloccato tutta<br />

la fila indiana dei testimoni che lo seguivano.<br />

– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>. Poi, pentitosi, rettificò: – Sissignore.<br />

Il presidente aveva il viso bianco come la pettorina di<br />

lino che gli spumeggiava fuori della toga. Infilati gli occhiali,<br />

egli rilesse i nomi dei testimoni. A tutti fece circolarmente<br />

l’ammonizione di dire per intero ed esclusivamente<br />

la verità. Poi con la mano li congedò. <strong>Perdu</strong> fu fatto uscire<br />

con gli altri.<br />

79


CAPITOLO IX<br />

– Tu non hai l’obbligo di giurare – disse il presidente a<br />

<strong>Perdu</strong>, quando questi fu ricondotto nella sala – ma secondo<br />

la legge hai ugualmente il dovere di dirci tutta la verità.<br />

Se non conosciamo la verità, come potremmo fare veramente<br />

giustizia? Bisogna perciò che tu ci dica tutto quello<br />

che sai, senza trascurare nulla, nulla, capito?, come se parlassi<br />

col prete del tuo paese; c’è un prete nel tuo paese?<br />

– Sissignore – disse <strong>Perdu</strong>. E si ricordò di Don Nicolino<br />

che, a proposito delle nozze da lui benedette, commentava:<br />

«Lo sapevo che così doveva andare a finire; lei<br />

in camposanto e lui in galera».<br />

– Bene – disse il presidente – e allora fa’ conto che<br />

qui ad ascoltarti ci sia il prete del tuo paese.<br />

– Sissignore – disse ancora <strong>Perdu</strong>. Se ci fosse stato veramente<br />

Don Nicolino, ad ascoltare, non è detto che <strong>Perdu</strong><br />

si sarebbe sentito più tranquillo e più incline alla confidenza.<br />

Comunque, di fronte a questa pompa della giustizia<br />

<strong>Perdu</strong> si sentiva veramente intimidito. Il presidente aveva<br />

un viso buono e comprensivo, ma gli altri giudici, come lo<br />

guardavano! Pareva che l’odiassero, tanto lo fissavano con<br />

gravità. Il bambino si moveva sulla seggiola e non sapeva<br />

né come disporre le gambe né dove tenere le mani. Un<br />

senso di freddo e di panico gli serpeggiava sotto la pelle.<br />

– Bene – disse per la seconda volta il presidente –<br />

raccontaci dunque che cosa è avvenuto quella sera.<br />

Facile a chiedersi. Quella sera! Che cos’era avvenuto?<br />

La fine del mondo, ecco che cosa era avvenuto. <strong>Perdu</strong><br />

cercò di riordinare i propri ricordi e di dare una certa forma<br />

alle parole che doveva dire. Si ricordò del vento, degli<br />

zoccoli di Tottona Corrias, della lampada ad acetilene, delle<br />

bestie feroci che lui doveva vedere sugli album della<br />

maestra il giorno dopo. La madre gli aveva promesso di<br />

80<br />

lasciarlo andare a vederle, assumendosi di recarsi da sola<br />

al torrente. Doveva parlare di tutto questo? No, certo. Che<br />

poteva importare questo alla giustizia? Ma che cosa doveva<br />

dunque dire? Che la madre era morta? Questo solo, in<br />

fondo, sapeva, e sapeva che, una volta morta, nessuna<br />

giustizia gliela avrebbe più restituita.<br />

Preso dalla paura di non sapere che cosa dire, e vinto<br />

dalla soggezione verso tutti quei giudici, <strong>Perdu</strong> scoppiò<br />

ad un certo punto in lacrime.<br />

– No, no – disse il presidente, passandosi una mano<br />

sui capelli – non vogliamo che tu pianga. Perbacco, che<br />

cosa ti abbiamo fatto? Siamo qui per rendere giustizia anche<br />

a te, che forse più di tutti patisci le conseguenze di<br />

questa sventura. Via, non piangere. Ascolta, conosci quell’uomo<br />

che è dentro la gabbia?<br />

<strong>Perdu</strong> asciugò le lacrime col dorso della mano. Guardò<br />

verso Efisio Manzella e fece cenno col capo che lo conosceva.<br />

– Bene – disse il presidente – che ha fatto quell’uomo<br />

a tua madre?<br />

<strong>Perdu</strong> guardò il presidente.<br />

– L’ha ammazzata – disse con voce bassissima.<br />

– L’ha ammazzata – confermò il presidente – ma tu<br />

l’hai visto quando l’ha ammazzata?<br />

<strong>Perdu</strong> scosse il capo in segno di diniego.<br />

– Come fai, allora, a dire – continuò il presidente –<br />

che è stato lui ad ammazzarla?<br />

– Lo ha detto lui – disse <strong>Perdu</strong>, sempre a voce sommessa.<br />

– Lo ha detto a te?<br />

– Sissignore – disse <strong>Perdu</strong>, quasi temendo che si volesse<br />

dubitare di ciò.<br />

– Lo ha detto anche a noi – informò il presidente. –<br />

Ma perché l’ha ammazzata?<br />

Ecco l’eterna domanda per la quale nella mente di <strong>Perdu</strong><br />

non c’era veramente risposta. Perché? Varie spiegazioni,<br />

81


PERDU<br />

informi e tentatrici, che egli cercava con tutte le forze di<br />

respingere perché parevano intaccare la santità del ricordo<br />

ch’egli voleva conservare di sua madre, gli si offrivano suo<br />

malgrado; frammenti di discorsi dei grandi, non bene compresi<br />

in tutta la loro portata, dubbi che gli nascevano dal di<br />

dentro, intuizioni confuse. Ma il problema, nella sua chiara<br />

e compiuta essenza, sempre gli sfuggiva. Egli sentiva<br />

un’angoscia come di naufrago che si risommerga, un senso<br />

di vertigine come di chi si affacci sull’orlo di un abisso,<br />

una irritazione ed una repugnanza come di chi dia del capo<br />

contro un ostacolo opaco e molle, resistente e viscido,<br />

che sia impossibile vincere. Perché Efisio Manzella aveva<br />

ucciso la madre?<br />

– Non lo so – disse <strong>Perdu</strong>, dopo una certa esitazione.<br />

– Non lo sai – disse il presidente, – ma certo sai che<br />

se l’ha ammazzata doveva esserci una ragione. C’è stato<br />

un bisticcio fra loro? Hai udito qualcuno gridare? Dov’eri<br />

tu? Che facevi?<br />

<strong>Perdu</strong> sembrò ritrovare un po’ di chiarezza nelle proprie<br />

idee.<br />

– Dormivo – disse – dormivo nell’altra stanza, poi ho<br />

sentito delle grida, ma mi sembrava ancora di sognare…<br />

–. <strong>Perdu</strong> parlava adagio, traducendo con difficoltà i pensieri<br />

nella lingua italiana.<br />

– Parla in dialetto – disse il presidente.<br />

In sardo <strong>Perdu</strong> parlò più speditamente.<br />

– Quando ho sentito le grida mi sono svegliato e sono<br />

subito corso nella stanza dove stava mia madre. C’era<br />

la luce accesa e mia madre era distesa sul letto. Era piena<br />

di sangue…<br />

<strong>Perdu</strong> inghiottì la saliva, facendo uno sforzo per non<br />

commuoversi; un groppo di pianto gli saliva dallo stomaco<br />

fino alla gola. Nell’aula, il silenzio era profondo.<br />

– Io – riprese <strong>Perdu</strong> – ero molto spaventato. Non capivo<br />

nulla, credevo che mia madre non fosse ancora morta,<br />

invece era già morta. Io non ho visto altro.<br />

82<br />

Capitolo IX<br />

– E dopo? – domandò il presidente.<br />

– Dopo ho sentito la porta della cucina sbattere e allora<br />

arrivò “lui”.<br />

– Lui, chi? – disse una voce alle spalle di <strong>Perdu</strong>.<br />

– Lui, chi? – ripeté il presidente battendo con la matita<br />

il leggio, per richiamare l’attenzione del bambino che si<br />

era voltato.<br />

– Lui – disse <strong>Perdu</strong> segnando col dito, assai timidamente,<br />

la gabbia dell’imputato.<br />

Numerose domande e contestazioni furono rivolte a<br />

<strong>Perdu</strong> sulla disposizione della camera, delle porte, delle finestre,<br />

sullo stato del letto e sulla stessa posizione del cadavere<br />

di sua madre. Un giudice volle sapere se sul letto<br />

c’erano tracce che vi avesse giaciuto anche un’altra persona,<br />

oltre sua madre. <strong>Perdu</strong> non sapeva che rispondere.<br />

Come si poteva pretendere ch’egli avesse osservato anche<br />

queste cose? Come si poteva pensare che dinanzi allo<br />

spettacolo di sua madre morta egli si fosse potuto occupare<br />

di vedere se sul letto, accanto al cadavere, vi fossero i<br />

segni della giacitura di altri?<br />

Il presidente disse:<br />

– Vedi, figliolo, l’imputato, quello lì, dice che a casa vostra,<br />

prima che lui arrivasse, era venuto un uomo che non<br />

si sa chi sia, e che adesso non ricordo con esattezza ciò che<br />

voleva. Tu sei proprio sicuro che non c’era quest’uomo?<br />

– Sì – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

– Esclude che vi fosse o dice soltanto di non averlo<br />

visto? – domandò alle spalle di <strong>Perdu</strong> la voce di quello<br />

stesso avvocato che aveva parlato prima.<br />

<strong>Perdu</strong> tornò a voltarsi e vide che l’avvocato lo fissava<br />

con occhi verdastri, simile a un gatto che stesse per slanciarsi<br />

sopra di lui.<br />

– Io non l’ho visto – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

Il presidente disse:<br />

– Questo vale per quando ti alzasti dal letto. Ma prima<br />

che tu andassi a dormire era venuto qualcuno a casa<br />

83


PERDU<br />

vostra? Pensaci, figliolo; la circostanza è per noi del massimo<br />

rilievo. Non ti preoccupare, nel caso, se precedentemente<br />

non ne hai mai parlato. Era venuto qualcuno?<br />

Tottona! <strong>Perdu</strong> si ricordò in modo straordinariamente<br />

limpido di Tottona Corrias, la ragazzetta che la notte precedente<br />

il delitto era venuta a cercare delle uova per il fratellino<br />

malato. <strong>Perdu</strong> sorrise. Che poteva mai interessare questo<br />

alla giustizia?<br />

– Sì, signor presidente – disse <strong>Perdu</strong> con un po’ di<br />

perfidia. – Era venuto qualcuno la sera prima.<br />

Le facce dei giudici si fecero anche più attente.<br />

– E chi? – domandò il presidente.<br />

L’avvocato dagli occhi verdi si era spostato dal banco<br />

per avvicinarsi al bambino, portando la mano all’orecchio<br />

come per non perdere una sillaba di quello che <strong>Perdu</strong> doveva<br />

dire.<br />

– Era una bambina – disse <strong>Perdu</strong> – che voleva delle<br />

uova…<br />

L’avvocato del nonno, evidentemente liberato di un<br />

grande peso, starnutì gaiamente.<br />

Il pubblico ministero disse:<br />

– Desidero sia chiesto al teste se sia vero, come si legge<br />

in un verbale da lui firmato, che il Manzella, quando lo<br />

aggredì con schiaffi e calci, gli chiedeva insistentemente<br />

di rivelare chi fosse l’uomo che poco prima era uscito dalla<br />

casa.<br />

– È inutile, pardon, è superfluo, a me sembra, rivolgere<br />

questa domanda – disse precipitosamente l’avvocato<br />

del nonno, prima che <strong>Perdu</strong> riuscisse ad aprir bocca. – Se<br />

il ragazzo nulla ha detto su questo punto allorché fu interrogato<br />

dal giudice istruttore, il quale non può aver certo<br />

mancato di rivolgergli la stessa domanda, non vedo<br />

perché…<br />

– Vedremo se tace adesso – disse l’avvocato con gli<br />

occhi di gatto. – Mi associo alla domanda del pubblico ministero.<br />

84<br />

Capitolo IX<br />

<strong>Perdu</strong> capì da questa schermaglia ch’egli doveva<br />

mentire, se voleva che Efisio Manzella venisse condannato,<br />

com’era desiderio del nonno. Ma <strong>Perdu</strong> non desiderava<br />

che Efisio Manzella venisse condannato. Della cosa non<br />

gli importava niente. Sua madre era morta e restava morta.<br />

A che avrebbe giovato che Efisio Manzella restasse in prigione?<br />

Disse:<br />

– Sissignore. Mentre mi picchiava, diceva: «Dimmi chi<br />

è venuto qui questa notte. Dimmelo, se no ti ammazzo».<br />

– È finita la causa! – urlò con tono enfatico l’avvocato<br />

con gli occhi verdi. E sorrideva con aria di trionfo, annuendo<br />

ripetutamente in direzione di Efisio Manzella.<br />

Seguirono altre contestazioni all’indirizzo di <strong>Perdu</strong>.<br />

L’avvocato difensore che più si agitava (l’altro restava chino,<br />

racchiuso in sé come un rospo e non interloquiva<br />

mai) domandò a un certo punto:<br />

– Sapeva il teste che la Vargiu manteneva rapporti…<br />

di amicizia con un certo Rizzieri?<br />

– Non rivolgo la domanda – disse il presidente. – È<br />

suggestiva e tendenziosa. E non è conferente.<br />

– Noi, signor presidente – disse l’avvocato – abbiamo<br />

assoluto interesse di conoscere la verità. Noi, più ancora<br />

di voi.<br />

– Mi sorprende, avvocato – disse il presidente con tono<br />

asciutto. – La verità ci interessa per lo meno in egual<br />

misura. Inoltre non dimentichi che il teste è un bambino,<br />

e che è figlio della donna morta.<br />

– Se è per questo, signor presidente – intervenne a<br />

dire una voce melliflua e grassa, quasi trasudante – se è<br />

per questo, il ragazzo, dinanzi alla legge, è anche figlio<br />

dell’imputato. Soltanto dinanzi alla legge, però, si badi…<br />

Era l’altro avvocato di difesa che aveva parlato, quello<br />

che se ne stava appallottolato sul banco, tutto gibboso e<br />

con la faccia protundente in avanti. <strong>Perdu</strong> si voltò, lo vide<br />

e, osservandone le guance cascanti, provò un senso di<br />

nausea.<br />

85


PERDU<br />

– Perché, nella realtà, di chi è figlio il teste? – domandò<br />

un giudice popolare.<br />

– Questo non interessa la causa – disse il presidente.<br />

– Chissà! – disse l’avvocato. – Chissà!<br />

<strong>Perdu</strong> fu congedato e andò a sedersi sul banco dei testimoni.<br />

Si sentiva svuotato, scontento. Sentiva che tutto<br />

quello che gli era stato domandato, quello che lui aveva<br />

detto, che avevano detto gli altri, era tutto inutile, senza<br />

senso, senza costrutto. Sentiva che la morte della madre,<br />

per la “giustizia”, era nient’altro che un fatto di cronaca,<br />

qualcosa di disseccato e di cartaceo, non una tragedia di<br />

violenza e di sangue che aveva sconvolto la vita di almeno<br />

tre creature: la mamma, Efisio, e lui stesso, <strong>Perdu</strong>. Una<br />

sola cosa aveva per lui di interessante il processo: vedere<br />

se si sarebbe riusciti ad accertare la “causa” dell’uccisione<br />

della madre.<br />

86<br />

CAPITOLO X<br />

Il processo durò ancora tre giorni. I testimoni si succedettero<br />

sulla pedana l’uno dopo l’altro, ma senza recare<br />

nessun positivo elemento a ciò che formava la sostanza<br />

del dibattito giudiziario. C’era un uomo, quella notte, nella<br />

camera di Angiuledda Vargiu? E chi era quell’uomo? Nessuno<br />

su ciò sapeva riferire niente. I testimoni si diffondevano<br />

sull’onestà di Efisio Manzella, sulla sua rispettabilità, sulla<br />

sua buona fama in tutto il paese. Quanto ad Angiuledda<br />

essa era dipinta come una donna di incontenibile lussuria.<br />

Sembrava che tutti, almeno i testimoni maschi, l’avessero<br />

goduta. Ma sull’episodio che aveva dato origine al delitto,<br />

silenzio. I testimoni si stringevano nelle spalle. Aveva la<br />

donna amanti, corteggiatori, amici? Mah, si sentiva dire, si<br />

vociferava… Di costruttivo e concreto, mai niente.<br />

Anche Leonora Manzella era stata interrogata. <strong>Perdu</strong> si<br />

ricordava di quando la bella ragazza, all’uscita di chiesa<br />

dopo la cerimonia delle nozze di Angiuledda, aveva abbracciato<br />

la sposa in modo quasi teatrale, baciandola sulle<br />

due guance e chiamandola «sorella mia» e si era poi chinata<br />

su di lui, carezzandolo e dicendogli «nipotino, ah che<br />

bel nipotino mi sono procurata».<br />

Invece, adesso, Leonora Manzella, parlando di Angiuledda,<br />

diceva:<br />

– Era una donnaccia, signor presidente, fin da molto<br />

tempo prima di sposarsi con mio fratello. Aveva già un<br />

bambino di otto anni, signor presidente, quando si sposò, e<br />

lei ne aveva allora solamente ventidue, signor presidente…<br />

Le accuse contro Angiuledda sconvolgevano <strong>Perdu</strong>;<br />

non solo gli cagionavano il dolore di vedere offesa la memoria<br />

della madre morta, ma gli insinuavano nell’animo il<br />

dubbio che sua madre sul serio non fosse una donna pura,<br />

onesta, come egli aveva sempre ostinatamente creduto.<br />

87


PERDU<br />

Era la convinzione dell’onestà di sua madre che gli impediva<br />

di dare ascolto alle trepidazioni segrete, sorgenti dalla<br />

profondità del suo animo, secondo le quali la causa del<br />

delitto perpetrato da Efisio Manzella poteva essere… No,<br />

non poteva essere. Ed ora ecco che questa convinzione<br />

pareva voler cedere dinanzi alle rivelazioni crudeli che i<br />

testimoni facevano circa la personalità di Angiuledda Vargiu.<br />

Era mai possibile che sua madre…? <strong>Perdu</strong> aveva cominciato<br />

ad avere un remoto sentore della non chiara<br />

condotta di sua madre il giorno in cui gli era accaduto di<br />

considerare che una donna nubile non dovrebbe avere<br />

bambini. Ma a petto dei dubbi che gli attanagliavano il<br />

cuore nel corso del dibattimento, quel tenue sospetto –<br />

seppellito del resto da tempo nei recessi della sua coscienza<br />

– era come una nuvola d’estate paragonata ai<br />

nembi donde scaturiscono i fulmini. Perché, si domandava,<br />

Efisio Manzella aveva ucciso la mamma? Forse perché<br />

la mamma aveva veramente compiuto…<br />

Quando parlò l’avvocato di parte civile, <strong>Perdu</strong> stette<br />

ad ascoltarlo con tanta maggiore attenzione, in quanto<br />

dalle sue parole la figura della mamma usciva purificata,<br />

dopo tutte le brutture e le cattiverie ch’erano state dette<br />

sul conto di lei. <strong>Perdu</strong> riprendeva a sperare che la causa<br />

dell’omicidio compiuto da Efisio Manzella non fosse più<br />

quella da lui paventata, ma un’altra, riguardante direttamente<br />

e solamente la malvagità di Efisio.<br />

L’avvocato diceva con forza:<br />

– Non ci fu, o signori, un uomo, quella sera, nella casa<br />

di Efisio Manzella. Non ci fu, io l’affermo…<br />

La voce dell’avvocato conquistava gli spazi alti dell’alta<br />

sala e pareva la voce della certezza che non ammette più<br />

dubbi, la verità che si impone contro qualunque diniego.<br />

– … Noi vi chiediamo di dirci chi sia mai questo correo<br />

in adulterio che Efisio Manzella avrebbe trovato nella<br />

camera di sua moglie. Come potreste fondare una decisione<br />

su un’ombra? Avete voi la prova che questa asserita<br />

88<br />

Capitolo X<br />

infedeltà non sia un’invenzione infame dell’imputato?<br />

Eccelse, come voli di strali, le parole si levavano nel<br />

profondo silenzio.<br />

– Questo – diceva l’avvocato – non è un omicidio per<br />

causa d’onore. Quale onore? Quella notte Efisio Manzella<br />

non aveva da difendere nessun onore. Nessuna colpa<br />

aveva commesso Angela Vargiu perché ci fosse da difendere<br />

codesto onore…<br />

<strong>Perdu</strong>, con gli occhi nerissimi fermi sull’oratore, mentalmente<br />

applaudiva.<br />

– … La causa del delitto è un’altra – continuava l’avvocato.<br />

– Anche qui, in definitiva, si potrebbe parlare di<br />

onore; ma in una accezione ben diversa da quella sbandierata<br />

dall’imputato. Efisio Manzella, o signori, voi lo vedete,<br />

non è più un fanciulletto, né è mai stato un Narciso.<br />

Quando egli sposò Angela Vargiu, sia per l’età di lui, sia<br />

per un certo passato – non vogliamo negarlo – della donna,<br />

in Terreluxi si rise di quella decisione del maturo innamorato.<br />

Efisio Manzella allora non si avvedeva del discredito<br />

di cui volontariamente si veniva coprendo, perché<br />

in quel momento era accecato da una concupiscenza senile,<br />

da quella lussuria prorompente che prende all’improvviso<br />

certi uomini mantenutisi casti per troppo tempo. Se<br />

ne avvide però dopo le nozze, dopo l’appagamento dei<br />

sensi, cui forse seguì ben presto l’estenuazione, l’inefficienza<br />

virile…<br />

L’avvocato smorzò il suo tono. Fece pausa. Poi, di repente,<br />

come scagliando a manciate le parole sulle facce<br />

dei giudici aggiunse:<br />

– In quel momento per la prima volta l’imputato concepì<br />

il proposito di disfarsi della sua compagna. Voleva riabilitarsi<br />

dinanzi agli occhi dei galantuomini di Terreluxi<br />

che avevano preso a disprezzarlo, voleva redimersi dinanzi<br />

a suo padre che addirittura si proponeva di diseredarlo,<br />

voleva risalire dall’abisso di ridicolo in cui credeva d’essere<br />

con quel matrimonio caduto.<br />

89


PERDU<br />

L’avvocato parlava e parlava. Sembrava non soltanto<br />

che egli esprimesse una convinzione, ma che la convinzione<br />

facesse violenza in lui, così da costringerlo a quella<br />

appassionata perorazione. Alle spalle dell’avvocato, diritto,<br />

antichissimo nel suo costume d’orbace, stava Manueli Vargiu<br />

che, masticando continuamente chissà che cosa, pareva<br />

il suggeritore delle violente espressioni usate dall’oratore<br />

contro Efisio Manzella.<br />

Quando però parlò, lo stesso giorno, il pubblico ministero,<br />

fu per <strong>Perdu</strong> come ricevere una doccia ghiacciata.<br />

Le idee sul conto di Angiuledda si rovesciavano, la colpa<br />

della donna appariva nitida e certa.<br />

Il rappresentante del pubblico ministero era un signore<br />

altissimo, grigio di capelli e dalla faccia cattiva. La sua<br />

voce era disarmonica, senza pieghe e flessioni; sembrava<br />

che, più che esporre una tesi, riferisse il risultato di un<br />

calcolo matematico.<br />

– Non si può ritenere – diceva – che l’imputato abbia<br />

mentito. L’adulterio c’è stato. Aveva l’imputato altro motivo,<br />

razionale, credibile, di uccidere la moglie? Non l’aveva.<br />

Al di là di ciò…<br />

<strong>Perdu</strong> si sentiva ricacciato, da un tale conciso ragionare<br />

per fatti, nella più nera costernazione. Ma allora, pensava,<br />

in tutto quello che aveva detto l’avvocato del nonno,<br />

non c’era più niente di vero?<br />

La costernazione del bambino si fece ancora più cupa<br />

quando l’indomani parlarono i due difensori.<br />

– Sì, noi abbiamo ucciso – disse il primo, quello che<br />

aveva occhi di gatto – lo abbiamo sempre riconosciuto fin<br />

dall’inizio. Ma abbiamo anche sempre proclamato di avere<br />

ucciso per rispetto verso la nostra virilità, perché ci sembrava<br />

che l’omicidio fosse l’unico modo per vendicare l’offesa.<br />

Il viso dell’avvocato era sorridente e cinico come ciò<br />

che diceva. Sembrava che, dopo tutto, l’omicidio di cui<br />

parlava ed al quale, a sentirlo, pareva ch’egli stesso avesse<br />

partecipato, rappresentasse un piacevole scherzo.<br />

90<br />

Capitolo X<br />

– Che importa – diceva – sapere il nome del correo<br />

nell’adulterio? Noi vi abbiamo recato ben più di un nome.<br />

Vi abbiamo recato la certezza della presenza fisica di quell’uomo<br />

fra le braccia della giovane sposa infedele. Vi abbiamo<br />

dimostrato che solo questa era la causa della nostra<br />

azione e non le tortuose resipiscenze riflesse che i nostri<br />

avversari ci hanno attribuite. Chiunque di voi, o signori –<br />

seguitò l’avvocato, facendosi serio e aggrottando le sopracciglia<br />

– chiunque di voi avrebbe agito come noi agimmo,<br />

qualora, Dio ne liberi, si fosse trovato nella situazione<br />

di sorprendere…<br />

«Solo questa era la causa della nostra azione». Queste<br />

parole si impressero nella mente di <strong>Perdu</strong> come se vi fossero<br />

state stampate col fuoco. «L’uomo tra le braccia della<br />

sposa». «Questa sola era la causa». Questa era dunque la<br />

causa? Questo era avvenuto nell’orribile notte?<br />

Nell’animo puerile di <strong>Perdu</strong> qualche cosa franava. Era<br />

come quando dai fianchi del monte Tamara si staccavano<br />

gli enormi sassi che precipitavano al piano, piantandosi<br />

fra le stoppie o il grano verde, mentre lassù, dove prima<br />

stavano, appariva una grande ferita nella rossa terra. Era<br />

la memoria della madre che lentamente franava, di fronte<br />

alla impellenza e alla crudeltà di queste rivelazioni. L’idea<br />

che la mamma avesse potuto peccare, <strong>Perdu</strong> non aveva<br />

mai potuto capirla così nettamente come ora. Terribili,<br />

come morsi di cani, sul suo cuore fanciullo si avventavano<br />

le immagini, intuite nei primi perturbamenti di una<br />

precoce pubertà, delle forme concrete del peccare. Rapido<br />

il pensiero trasponeva codeste immagini sulla figura di<br />

sua madre. La cosa era insopportabile, repellente, come<br />

la pelle dei rospi, come la bava dei buoi, come il puzzo<br />

degli scarafaggi schiacciati. «Questa era la sola causa della<br />

nostra azione».<br />

A Cristo, come diceva Don Nicolino quando spiegava<br />

il Vangelo, i chiodi erano stati ribattuti da due giudei; uno<br />

li piantava, trafiggendo le carni di Nostro Signore, l’altro,<br />

91


PERDU<br />

picchiandoli con un più pesante martello, li faceva penetrare<br />

nel legno, sì che il corpo di Cristo vi rimanesse appeso<br />

e saldato. <strong>Perdu</strong> poteva paragonare se stesso a Cristo, in<br />

questo processo. Dopo che il primo avvocato aveva scatenato<br />

nella sua anima un tale tumulto di sentimenti paurosi,<br />

ecco che il secondo avvocato di difesa lo inchiodava<br />

vieppiù a quella idea dolorosa della colpa di sua madre.<br />

Questo secondo avvocato parlava contorcendosi tutto;<br />

ma nulla vi era di agile in lui; la sua schiena vasta si<br />

agitava come il dimenarsi di un mollusco.<br />

– Proprio dalla parte civile – diceva, con la sua laida<br />

voce che usciva gorgogliante da un pronunziato barbazzolo,<br />

– si è osato parlare di lussuria nei riguardi di Efisio<br />

Manzella. Ma dov’è la lussuria? È in quest’uomo brutto e<br />

rinsecchito come una canna, o è nell’Angela Vargiu che fa<br />

mercato di sé fin da ragazzina, che tresca con i padroni,<br />

che a soli otto mesi dal matrimonio ardisce ricevere amanti<br />

perfino nella casa coniugale?…<br />

Pareva a <strong>Perdu</strong> che l’avvocato scagliasse sassate e<br />

fango sul viso di sua madre.<br />

– … Poteva – continuava l’avvocato – essere l’onesta<br />

moglie di un galantuomo, redimersi dal suo sconcio passato<br />

e dimostrarsi degna e grata della sorte che le era toccata.<br />

No, essa non vuole, o forse la sua libidine è tale che<br />

anche volendo non può. Perché parlate di lussuria voialtri?<br />

Perché proprio da voi ci è venuta l’accusa di aver ubbidito<br />

agli stimoli della concupiscenza? La verità è, signori,<br />

che Efisio Manzella, trovando sua moglie ignuda…<br />

Così si sfogava e si accaniva contro Angiuledda Vargiu,<br />

e contro la memoria di lei che ancora cercava di resistere<br />

entro l’animo del bambino, il secondo avvocato di<br />

difesa. E quando finì, e un attimo di silenzio precedette il<br />

ritiro della Corte, sì che pareva di udire lo spegnersi dell’eco<br />

di quegli insulti, uno scoppio di pianto si levò, strano<br />

e acuto.<br />

Era <strong>Perdu</strong> che non era riuscito a frenare le lacrime.<br />

92<br />

CAPITOLO XI<br />

Cinque anni di carcere furono inflitti complessivamente<br />

ad Efisio Manzella per l’uccisione della moglie e per le<br />

lesioni cagionate al bambino. E, in più, in conseguenza di<br />

un fatto totalmente estraneo al delitto, accaduto lontano, a<br />

Roma, nella casa di un principe reale, uno di quei cinque<br />

anni gli fu condonato. Gli rimanevano perciò da scontare<br />

solamente due anni.<br />

La tesi di Efisio Manzella aveva trionfato. La Corte aveva<br />

ritenuto provata la presenza di un uomo, nella camera<br />

di Angiuledda Vargiu, la notte del delitto, ed aveva conseguentemente<br />

riconosciuto che Efisio Manzella, uccidendo<br />

la moglie adultera, aveva vendicato il proprio onore.<br />

Alla lettura della sentenza c’era stata nell’aula una gran<br />

confusione. Già quando la Corte era rientrata, preceduta<br />

dallo squillo della campana, si era determinato quell’inevitabile<br />

trambusto di gente accorrente, di sedie smosse, di zittii<br />

e mormorii, che sempre accadono in momenti simili nelle<br />

aule giudiziarie. Poi il presidente si era tolto dal capo il suo<br />

alto berretto e deponendolo con entrambe le mani, come<br />

se posasse una tiara, sul leggio del suo banco, aveva preso<br />

a leggere con voce tranquilla la formula della condanna.<br />

<strong>Perdu</strong> aveva afferrato solamente il preambolo della<br />

sentenza. Tutto il resto si era perduto in un improvviso<br />

frastuono. Che era accaduto? Chi è che applaudiva? Chi<br />

gridava? Chi piangeva? Non si era capito più niente.<br />

Ultimata la lettura, la Corte si era subito ritirata. Rigidi i<br />

carabinieri in alta uniforme, rimasti ancora nella sala, parevano<br />

fare la guardia al Cristo crocifisso che con la sua<br />

compassionevole angoscia pendeva dalla parete.<br />

I famigliari di Efisio Manzella avevano dato libero sfogo<br />

al loro giubilo. Si erano avvicinati alla gabbia del condannato<br />

stringendogli le mani tra le sbarre, cercando di<br />

93


PERDU<br />

abbracciarlo e di baciarlo, mentre i carabinieri si affannavano<br />

a respingerli indietro. Efisio Manzella passando da<br />

uno spazio all’altro e affacciando il suo viso tra le sbarre,<br />

pareva un vecchio scimpanzé prigioniero cui avessero<br />

fatto vedere un cibo appetitoso.<br />

Non così Manueli Vargiu. Il vecchio “maureddu” era<br />

rimasto piantato in mezzo alla sala come un ceppo di rovere<br />

tra tutto quel tumultuare di gente. Guardava la parete<br />

di fronte, guardava il Cristo pendente sulla croce e pareva<br />

implorarlo o accusarlo.<br />

– Non c’è stato niente da fare – disse l’avvocato del<br />

nonno, più tardi, nel corridoio, a tziu Manueli Vargiu in<br />

presenza di <strong>Perdu</strong>, – i giudici si sono convinti che un uomo<br />

doveva esserci veramente dentro la stanza con vostra figlia.<br />

Tziu Manueli assentiva con indifferenza.<br />

– È stato un po’ anche colpa di questo bel tipo di vostro<br />

nipote – continuò l’avvocato. – Non gli avevate spiegato<br />

ciò che doveva dire e ciò che doveva tacere?<br />

Tziu Manueli assentiva sempre ma non aperse bocca.<br />

– Cinque anni, via – disse l’avvocato battendo con la<br />

mano sulla spalla del “maureddu” come per consolarlo –<br />

non sono una cosa da niente. È sempre una condanna. È<br />

sempre una lezione severa. Ed è sempre prigione, voi<br />

che ci siete stato. Del resto – aggiunse – il procuratore<br />

generale… la Cassazione…<br />

– Nossi – disse tziu Manueli – la cassazione me la faccio<br />

io, all’occorrenza.<br />

Tziu Manueli e <strong>Perdu</strong> partirono da Cagliari l’indomani<br />

mattina. In viaggio <strong>Perdu</strong> per un buon tratto rimase silenzioso<br />

a guardare dal finestrino. Le campagne fuggivano indietro,<br />

i filari di vigne e di carciofi raggiavano attorno al<br />

treno come le stecche di un ventaglio, ed alberi e pali della<br />

strada ferrata sbatacchiavano velocemente contro il riquadro<br />

del finestrino. Erano campagne squallide e tristi,<br />

quelle che il treno attraversava. Ma il sole fulgente dall’alto<br />

94<br />

Capitolo XI<br />

le impreziosiva e le rendeva assai belle, piegandole alle<br />

proprie carezze come un generoso padrone.<br />

– Vorrei proprio sapere – disse a un certo punto <strong>Perdu</strong><br />

– chi era quell’uomo che si trovava nella stanza con la<br />

mamma.<br />

Tziu Manueli Vargiu, che sembrava assopito sulla sua<br />

bisaccia, socchiuse un occhio senza cambiare posizione e<br />

domandò:<br />

– Che dici?<br />

– Dico – rispose <strong>Perdu</strong> continuando a guardare dal finestrino<br />

– che l’uomo di cui tutti parlano doveva esserci<br />

davvero in casa quella notte.<br />

Manueli Vargiu parve riappisolarsi.<br />

– Certo – rispose dopo una pausa e ad occhi chiusi –<br />

certo che c’era. Soltanto non bisognava farne persuasi i<br />

giudici. Adesso, quello là, anziché mandarlo in galera per<br />

tutta la vita, lo manderanno a casa fra qualche tempo.<br />

<strong>Perdu</strong> si volse e guardò il nonno stupito.<br />

– Come! – disse. – Anche Vustè, dunque, era convinto<br />

che quell’uomo si trovava realmente in casa?<br />

Su e giù, due o tre volte, la testa del nonno fece cenni<br />

d’assenso.<br />

– E come lo sapeva Vustè? – chiese <strong>Perdu</strong> sempre più<br />

meravigliato.<br />

Tziu Manueli pigramente si sollevò sul sedile, si tolse<br />

la “berritta” ficcandovi la mano fino in fondo, ne cavò una<br />

vescica di bue che gli serviva come borsa per il tabacco e,<br />

battendosi con questa borsa il petto, disse fissando <strong>Perdu</strong>:<br />

– Lo sapevo perché quell’uomo ero io! –. E rise, con<br />

la sua bocca dura affondata tra i peli, scoprendo i suoi<br />

denti lunghi e gialli.<br />

– Vustè? – disse <strong>Perdu</strong> sbalordito. E, almeno per un<br />

momento, considerò la faccia di tziu Manueli senza riuscire<br />

a raccapezzarsi. Ma poi capì che il nonno voleva fargli<br />

soltanto uno scherzo.<br />

95


PERDU<br />

– Se fosse stato Vustè – disse <strong>Perdu</strong>, riprendendo a<br />

guardare fuori dal finestrino – non sarebbe fuggito all’arrivo<br />

di Efisio Manzella –. E dopo una pausa aggiunse: – E<br />

non avrebbe lasciato ammazzare la mamma a quel modo.<br />

Il viaggio durò ancora molte ore dopo che i viaggiatori<br />

del treno statale proveniente da Cagliari trasbordarono<br />

sul trenino del Sulcis. Quando giunsero alla stazione<br />

di Iddarta, l’aria era già piena della calura del mezzodì.<br />

96<br />

CAPITOLO XII<br />

Il ritorno in paese di Efisio Manzella, dopo due anni,<br />

all’atto della sua liberazione dal carcere, fu per Terreluxi<br />

un avvenimento importante.<br />

In questo frattempo la vita di <strong>Perdu</strong> subì una seconda<br />

pausa, nel senso che nulla accadde di eccezionale e di<br />

nuovo. Di ritorno da Cagliari <strong>Perdu</strong> era stato riassorbito da<br />

quella addormentatrice uniformità delle cose, che è nel<br />

Sulcis una caratteristica inderogabile. Il bambino aveva ripreso<br />

ad andare a scuola. Per giorni e giorni, anzi per mesi,<br />

egli aveva avuto modo di narrare ai compagni tutte le<br />

cose che aveva potuto osservare nel suo viaggio in città.<br />

Inesauribile era la brama di sapere dei suoi compagni. Volevano<br />

che <strong>Perdu</strong> dicesse se Cagliari era bella e grande,<br />

anzi madornale come si sentiva dovunque ripetere; se Efisio<br />

Manzella era stato impiccato; se era vero che i giudici<br />

facevano baciare il Crocifisso o l’ostia consacrata prima di<br />

far prestare giuramento ai testimoni; se il dibattimento era<br />

una cosa che consisteva nel darsi dei pugni, sì che trionfasse<br />

il più forte; se era vero che i treni reali erano grandi<br />

come le case; se a Cagliari c’erano navi galleggianti sul<br />

mare, più alte e più vaste di tutte le case di Terreluxi messe<br />

assieme. Per molto tempo <strong>Perdu</strong> si era sentito circondato<br />

fra i suoi compagni da una aureola di autentica fama.<br />

Ma altro non era accaduto. In <strong>Perdu</strong> l’angoscia era<br />

sempre viva, e intatta rimaneva la sete di risolvere i due<br />

principali problemi che affliggevano lo spirito di lui: chi<br />

era quell’uomo? Chi era suo padre?<br />

Ed ecco, era passata la primavera ed era tornata, e ancora<br />

era passata ed ancora tornata. Al tempo della mietitura<br />

la maestra se ne partiva; al tempo dell’aratura, quando<br />

le terre del piano si fendono e diventano brune sotto<br />

la lenta penetrazione degli aratri di legno trainati dai buoi,<br />

97


PERDU<br />

la maestra tornava in paese. Giorni e giorni si erano avvicendati:<br />

giorni, cioè cicli del sole, or lunghi or brevi, sulla<br />

curva pancia del mondo. Niente altro. Questa seconda parentesi<br />

della vita di <strong>Perdu</strong> doveva chiudersi soltanto il<br />

giorno del ritorno in paese di Efisio Manzella.<br />

Il nonno aveva condotto <strong>Perdu</strong> a fare una passeggiata<br />

in campagna. Passeggiata, forse, non è termine esatto,<br />

perché nella gente del Sulcis non c’è – tanto meno poteva<br />

esserci in tziu Manueli Vargiu – il gusto di camminare attraverso<br />

i campi per la sola delizia di passeggiare. In campagna<br />

si va per lavorare, non per diletto. Si dirà dunque<br />

che il nonno condusse <strong>Perdu</strong> in campagna per raccogliere,<br />

così egli diceva, della legna da ardere. Ma il risultato<br />

era identico, perché si scoprì che la legna da raccogliere<br />

era soltanto un pretesto. La verità è che tziu Manueli voleva<br />

allontanare quel giorno il nipote dallo spettacolo irritante<br />

di tutta la gente di Terreluxi, raccoltasi all’ingresso<br />

del paese, verso lo stradale di Iddarta, per festeggiare l’arrivo<br />

di Efisio che ritornava.<br />

Due fazioni si erano formate, in Terreluxi, subito dopo<br />

l’uccisione di Angiuledda Vargiu. La prima, che faceva naturalmente<br />

capo ai Manzella, giurava e spergiurava sulla<br />

colpa della donna e sulla legittimità della reazione di Efisio;<br />

la seconda si permetteva quanto meno di dubitare<br />

che Angiuledda fosse veramente in colpa. Ma col tempo i<br />

partigiani di Angiuledda si erano assottigliati nel numero<br />

ed i pochi rimasti fedeli erano diventati quanto mai tiepidi<br />

nel sostenere la propria tesi. Oggi, poi, Terreluxi si presentava<br />

bensì divisa in due fazioni, ma l’una era composta<br />

da tziu Manueli e da <strong>Perdu</strong>, la rimanente da tutti gli altri.<br />

Il nonno condusse <strong>Perdu</strong> per solitari sentieri. Nessuno<br />

dei due parlava, né essi camminavano vicini. Tziu Manueli,<br />

di buon passo, si portava avanti, poi si fermava, in<br />

piedi, incastonato nel paesaggio come una scultura. <strong>Perdu</strong>,<br />

invece, qua e là si attardava. Aveva subito compreso<br />

che il nonno non aveva alcuna volontà di arrivare ad un<br />

98<br />

Capitolo XII<br />

posto preciso, e cominciava a dubitare del vero scopo di<br />

quella singolare scampagnata.<br />

Era bello, del resto, gironzolare sotto il sole. Era maggio,<br />

e il cielo era tutto terso, puro e profondo come il desiderio<br />

di essere felici. Anche <strong>Perdu</strong> si sentiva lo spirito<br />

intriso di quella azzurrità.<br />

Pure la terra era bella. Il monte Tamara bruno e quasi<br />

rossiccio con le macchie di basse querce che gli si arrampicavano<br />

ai fianchi fino a una certa altezza, e più in alto<br />

le spalle nude e forti, come una gigantesca barriera, chiudeva<br />

l’orizzonte; grandi come case penzolavano su Terreluxi<br />

i sassi che il monte reggeva. Più oltre, ai piedi del<br />

colosso e fin verso Iddarta, si spiegavano le colture del<br />

piano; si distinguevano dalle diverse gradazioni del verde:<br />

il grano, l’orzo, le fave, gli orti nelle vicinanze del fiume,<br />

i frutteti sulle pendici del monte Nappa nei pressi<br />

della sorgente. E su tutto emergevano le siepi di fichidindia<br />

che intersecavano il piano, e gli alberi secolari d’ulivo,<br />

che in mezzo alle distese di grano facevano la scolta,<br />

come guardiani.<br />

<strong>Perdu</strong> dietro il nonno si divertiva molto a girovagare.<br />

La terra dei sentieri, ricoperta di muschio, era morbida e<br />

tenera sotto i piedi scalzi; morbide e tenere erano le cime<br />

del caprifoglio che <strong>Perdu</strong> strappava dalle siepi e portava<br />

alla bocca.<br />

Ogni tanto <strong>Perdu</strong>, soffermandosi, si accucciava per<br />

terra e osservava gli insetti, i grilli, gli scarabei. Particolare<br />

interesse gli suscitavano gli scarabei, affaticantisi curiosamente<br />

intorno allo sterco degli asini, dei cavalli e dei<br />

buoi. Strani animali: al vederli, così goffi e panciuti, avidi<br />

di accaparrarsi una fetta di quella laida materia, facevano<br />

al tempo stesso nausea e compassione; e dire che erano<br />

capaci di volare quasi quanto gli uccelli. Anzi, le loro ali,<br />

vibrando nell’aria, producevano suoni monotoni, ma musicali.<br />

Eccoli qua invece, che si avvoltolano nello sterco e<br />

di sterco si nutrono e vivono.<br />

99


PERDU<br />

Frattanto, a lenti passi, nonno e nipote giunsero sulla<br />

carrozzabile di Iddarta. Alla vista della strada sassosa, <strong>Perdu</strong><br />

si accorse d’aver aggirato il colle che sta dinanzi a Terreluxi,<br />

denominato “Su Giganti”, e che si era quasi in vista<br />

della stazione ferroviaria di Iddarta. Quella era la strada<br />

che proveniva dal capoluogo e per la quale era passato o<br />

stava per passare Efisio Manzella diretto a Terreluxi.<br />

– Saranno già passati a quest’ora? – disse <strong>Perdu</strong> al<br />

nonno, alludendo ad Efisio.<br />

– Non ancora – disse il nonno, come se fosse informato.<br />

– Non fermiamoci allora sulla strada – disse <strong>Perdu</strong> –<br />

oppure oltrepassiamola.<br />

– E perché? – disse tziu Manueli – qui non ci sono<br />

quelli che gli devono battere le mani.<br />

Si portarono entrambi sulla strada e presero a salire<br />

verso il colle “Su Giganti”; così l’altura si chiama perché<br />

sulla sommità esistono ancor oggi le rovine di un nuraghe,<br />

leggendariamente abitato da un mitico gigante. I ruderi<br />

del nuraghe infatti apparivano sull’erta, smantellati<br />

dal tempo e arrugginiti dal muschio. Piante d’euforbia e<br />

ortiche crescevano sui bordi della strada, lungo la salita.<br />

Ai piedi del nuraghe il nonno si fermò.<br />

– Sediamoci – disse – e aspettiamo che passino. Voglio<br />

vedere che faccia ha, quel disgraziato!<br />

– Jaju – disse <strong>Perdu</strong> – che ce ne importa? Andiamocene<br />

di qua. Io non voglio restare. Ho paura.<br />

– Paura? – disse Emanueli Vargiu, e sorrise, sedendosi<br />

sopra un masso.<br />

Il bambino l’osservò. Tziu Manueli non pareva davvero<br />

che avesse paura. Sembrava l’appendice del macigno<br />

sul quale sedeva. Aveva tirato sulle ginocchia le larghe<br />

brache d’orbace come per dare aria alle gambe, e le ginocchia,<br />

fra il nero delle brache e delle uose, apparvero,<br />

bianche e scheletriche, lisce nella convessità della rotula<br />

come uova di gallina. Ma salde: erano le ginocchia di un<br />

uomo che non doveva aver mai tremato.<br />

100<br />

Capitolo XII<br />

<strong>Perdu</strong> non sapeva che fare, così impalato in attesa.<br />

Dell’arrivo di Efisio Manzella non gli importava assolutamente<br />

nulla, anzi, avrebbe desiderato non vederlo. Si recò<br />

perciò nella grotta che sottostava al nuraghe e che non<br />

era propriamente una grotta ma il piano a terra del gigantesco<br />

edificio, poi sotterrato nelle sue stesse rovine. Ivi<br />

abitavano pipistrelli e upupe, come <strong>Perdu</strong> ben sapeva per<br />

esservisi recato più di una volta con i suoi compagni di<br />

giochi. Anche quel giorno <strong>Perdu</strong> ritrovò i pipistrelli. Pendevano<br />

dalla volta della spelonca, col capo in giù, come<br />

tanti giustiziati. Ma non li disturbò. Un confuso e remoto<br />

rumore di ruote avvertì il bambino che una carrozza si avvicinava.<br />

Una strana curiosità, più forte della paura, finì<br />

per convincerlo ad uscire all’aperto.<br />

Il calesse dei Manzella stava in quel momento attaccando<br />

la salita di “Su Giganti”. Dopo appena un tratto di<br />

erta, l’abbrivio della cavalla, già lento, finì per smorzarsi.<br />

L’animale procedeva ora al passo. Soltanto tziu Baingiu<br />

Manzella, padre di Efisio, montava quella cavalla quando<br />

si recava nei campi; doveva essere dunque un gran giorno<br />

per il vecchio, se si era deciso a lasciarla attaccare al<br />

calesse che doveva portargli a casa suo figlio. Sul calesse<br />

si vedevano due persone: Efisio, l’una, evidentemente, e<br />

l’altra un servo, forse, oppure un fratello. E dietro, bellissimo,<br />

con la scarmigliata criniera bionda agitata dal moto,<br />

il puledro che la cavalla aveva partorito l’altr’anno.<br />

Anche il nonno guardava verso il calesse, e impassibile<br />

continuava a succhiare la canna della pipa; soltanto<br />

che la pipa doveva essere spenta.<br />

Quando la salita si fece più ripida, la cavalla rallentò<br />

ancora. Così giunse adagio adagio nei pressi del nuraghe.<br />

Non ci si era sbagliati: sul calesse erano Efisio e un servo<br />

dei Manzella.<br />

Anche Efisio Manzella aveva osservato tziu Manueli e<br />

<strong>Perdu</strong> fin da lontano. E doveva averli riconosciuti da un<br />

po’ di tempo, perché quando giunse vicino, il suo viso era<br />

101


PERDU<br />

atteggiato a sgradita sorpresa. Tuttavia volle essere spiritoso<br />

e iattante, e fece addirittura cenno al servo di fermare.<br />

– Ah – disse – ci voleva, questo incontro. Scommetto<br />

che volevate essere i primi a salutarmi –. E rise in maniera<br />

che voleva essere insultante.<br />

– Già! – fece Manueli Vargiu, inchiodato al macigno<br />

su cui sedeva, – volevamo vederti e salutarti. Ci premeva<br />

molto essere davvero i primi.<br />

<strong>Perdu</strong> guardava il nonno, perplesso. Guardava Efisio<br />

Manzella, stupito. Soffriva terribilmente, ma non sapeva<br />

di che né perché. E se ne stava lì in piedi, con la bocca<br />

socchiusa.<br />

– Bene – disse Efisio Manzella, facendo cenno al servo<br />

di riprendere la strada. – Spero che vi faccia piacere di<br />

rivedermi in salute. Per conto mio spero di rivedervi all’inferno.<br />

Voi, con quella bagascia di vostra figlia. Adiosu.<br />

Fu in un attimo, in un attimo solo, che tutto ciò che<br />

seguì queste parole non del tutto ancor spente, si svolse,<br />

al di là d’ogni attesa. <strong>Perdu</strong> stesso, quando più tardi dovette<br />

ricostruire ciò che era accaduto in quell’istante, rimaneva<br />

trasognato.<br />

Velocissimo, come una palla elastica, non appena l’ingiuria<br />

verso Angiuledda si staccò dalle labbra di Efisio<br />

Manzella, il vecchio tziu Manueli era schizzato sul predellino<br />

del calesse. Sembrava che una balestra ve lo avesse<br />

d’improvviso catapultato. Nessuno avrebbe potuto far<br />

niente; nessuno avrebbe potuto evitare che quello che stava<br />

per accadere accadesse: né Efisio Manzella, né il servo,<br />

né <strong>Perdu</strong>, tale fu l’impeto e l’immediatezza e l’imprevedibilità<br />

della cosa.<br />

Tziu Manueli frenò il cavallo, rovesciò con il pugno sinistro<br />

il cocchiere e, folgorante, con la destra, sguainò dalla<br />

cintura la “leppa” che balenò nella luce. Saltò poi giù<br />

dal carro, tagliò la treccia che legava il puledro, afferrò dal<br />

sostegno la frusta e ne vibrò un formidabile colpo sulla<br />

groppa della cavalla che si buttò a precipizio nella discesa.<br />

102<br />

Capitolo XII<br />

Allora gridò, dietro il calesse che già volava per Terreluxi:<br />

– Vai, vai, Efisio Manzella, per farti applaudire da<br />

quelli che ti attendono. Chissà se avrai la voce per rispondere<br />

a tutti i saluti. Noi, a buon conto, ti abbiamo salutato<br />

per primi.<br />

Quindi saltò sul cavallo che aveva staccato dal calesse,<br />

e che, partito questo, aveva provato inutilmente a slanciarsi<br />

dietro, e disse a <strong>Perdu</strong>, a mo’ di saluto:<br />

– Adesso va’ a casa, <strong>Perdu</strong>, e a me non pensare. Non<br />

mi prenderanno. Va’ a casa, va’ a casa.<br />

E basso sulla schiena del puledro, senza sella né briglia<br />

né altri finimenti, vestito della sua veste d’orbace nerissima,<br />

simile a una figura selvaggia e barbara, sotto il<br />

tranquillo sole, batté come una freccia i campi di grano<br />

verde, e si perdette lontano.<br />

Nella strada che scendeva e ondeggiava come un nastro<br />

verso Iddarta, non si vedeva assolutamente nessuno.<br />

103


CAPITOLO XIII<br />

Così Manueli Vargiu aveva vendicato la morte di sua<br />

figlia. Così, applicando l’antica legge del Sulcis, aveva<br />

corretto e raddrizzato d’un colpo quella che egli dovette<br />

ritenere un’insufficienza ed una stortura della giustizia ufficiale,<br />

la quale, nel dibattimento celebratosi alla Corte<br />

d’Assise di Cagliari, gli era probabilmente apparsa come<br />

nient’altro che una macchina per affollare parole.<br />

Quanto ad Efisio Manzella egli giunse già cadavere fra<br />

coloro che l’aspettavano. Le braccia di suo padre e dei<br />

suoi fratelli e sorelle convenuti sullo stradale di Iddarta<br />

per festeggiare il suo primo giorno di libertà, poterono<br />

soltanto stringere il suo cadavere ancora caldo e con la<br />

gola recisa. Il taglio della carotide, netto e trasverso, aveva<br />

ucciso Efisio Manzella sul colpo, senza dargli nemmeno il<br />

tempo di emettere un grido. Il servo che guidava il calesse,<br />

preso alla sprovvista da quell’assalto allucinante, aveva<br />

talmente perduto la testa da non riuscire nemmeno a pensare<br />

di frenare la corsa folle della cavalla proiettata in discesa.<br />

Egli aveva visto bensì il padrone piegarsi all’indietro<br />

come un palo abbattuto, e il sangue fiottare dalla ferita<br />

come quando si sgozza un montone; ma queste cose, lungi<br />

dal suggerirgli di prestare soccorso al ferito, accrescevano<br />

il panico del disgraziato cocchiere.<br />

Forse si notò da qualcuno che il calesse giungeva a<br />

velocità sconsiderata. Ma forse ciò fu interpretato come<br />

indice di giubilo. Quando, frenata la cavalla dai più animosi,<br />

il calesse fu fermo, qualche voce si levò in segno di<br />

saluto. Poi silenzio. Poi clamore. Poi tumulto, con grida<br />

isolate di donne e bestemmie di uomini; e subito uno<br />

scompiglio di gente esterrefatta, e un pigiarsi e sospingersi<br />

di persone intorno all’uomo morto, giunto sulla carrozza<br />

parata a festa, con un affaccendarsi di tutti i presenti,<br />

104<br />

molto simile al brulichio che si nota nei formicai quando<br />

si butta su di essi un mozzicone ardente.<br />

<strong>Perdu</strong> era rimasto solo, sulla strada deserta, ai piedi del<br />

nuraghe di “Su Giganti”. Egli era ancora intontito dalla sorpresa.<br />

Pareva che tutto il sole e la luce della giornata abbacinante<br />

lo stordissero e gli impedissero di coordinare le<br />

idee. I suoi pensieri erano torpidi, e grottescamente secondari,<br />

quasi oziosi. Ciò che doveva rappresentare il fulcro<br />

delle sue sensazioni e idee, sembrava essersi cancellato<br />

sulla lavagna della sua mente. Si sorprese per esempio a<br />

pensare che tornando a casa, ora che il nonno se n’era andato,<br />

non avrebbe saputo che cosa mangiare né come accendere<br />

a sera il lume. Si sorprese anche a pensare ai pipistrelli<br />

visti pochi minuti prima, i quali, come giustiziati,<br />

pendevano col capo in giù dalla volta della spelonca. Si ricordò<br />

perfino – ciò che in quel momento era veramente<br />

assurdo – della lezione spiegata dalla maestra il giorno innanzi:<br />

i cerchi nell’acqua: si getta un sasso dentro il fossato<br />

e la superficie dell’acqua si corruga di cerchi sempre emergenti<br />

dal fondo, anche quando il sassolino ha trovato già<br />

pace adagiandosi e scomparendo nel fango.<br />

Intanto, sentendosi il corpo affranto da un’improvvisa<br />

stanchezza, <strong>Perdu</strong> si era accucciato sull’erba ai margini<br />

della strada. Le sue mani giocavano distrattamente coi fili<br />

della gramigna e con le margherite campestri che, belle,<br />

nel loro stellato sbigottimento, spalancavano su di lui quel<br />

loro giallo occhio stupito, come un bottone d’oro.<br />

Ora l’ombra dei ruderi del nuraghe si allungava sul<br />

terreno. A un tratto si udirono sulla strada petrosa gli zoccoli<br />

di due cavalli procedenti al galoppo. Erano i fratelli<br />

di Efisio Manzella che, forse trattenutisi a Iddarta dopo<br />

l’arrivo del loro congiunto alla stazione ferroviaria, raggiungevano<br />

Terreluxi. <strong>Perdu</strong> si ridestò come da un sogno,<br />

e soltanto allora ricordò veramente ciò che era accaduto.<br />

Si levò in piedi di scatto e pensò di fuggire. Ma già i cavalieri<br />

erano a portata di voce.<br />

105


PERDU<br />

– Ah – disse uno, riconoscendolo, e ridendo sguaiatamente<br />

– ah, “piccioccu”, fuggi come un leprotto. E di che<br />

hai paura? Scommetto che desideravi salutare babai. Ah,<br />

ah! È già passato. Lo saluteremo noi per te e per tuo nonno.<br />

Ah, ah!<br />

Entrambi ridevano e parevano molto soddisfatti e felici.<br />

E continuarono ad andare, curvi sul collo dei loro cavalli,<br />

dondolando le natiche sulle selle di cuoio.<br />

<strong>Perdu</strong> tremò di paura. La fatuità di costoro gli fece<br />

confusamente pena, mentre essi disparivano oltre la gobba<br />

di “Su Giganti”. Fuggire, bisognava, pensò <strong>Perdu</strong>, buttandosi<br />

infatti a perdifiato giù per i campi di grano; bisognava<br />

allontanarsi da tutte queste cose orribili e atroci.<br />

Fuggire. Ma dove? «A casa, va’ a casa» aveva detto il<br />

nonno prima di allontanarsi. A casa? A che fare? Gli sembrava<br />

di non avere ormai più alcuna casa, di essere solo<br />

in un mondo ostile e incomprensibile. Che cos’era successo<br />

dunque, poco prima? Aveva veramente il nonno calato<br />

la rasoiata sulla gola di Efisio? L’aveva ucciso? E perché<br />

l’aveva ucciso? Perché non aveva reagito il servo?<br />

Che cos’era accaduto a Terreluxi? Dov’era andato il nonno<br />

con il cavallo rubato? Dove doveva adesso andare lui<br />

stesso, <strong>Perdu</strong>, disperso sulla terra come un lombrico dissotterrato<br />

dall’aratro? Ed altre ed altre erano le domande<br />

che sempre gli si ponevano. Perché era accaduto questo?<br />

Perché il nonno, il quale era rimasto fino ad un minuto<br />

prima dell’arrivo di Efisio straordinariamente calmo, non<br />

gli aveva fatto parola delle sue intenzioni?<br />

<strong>Perdu</strong> si ricordò che la mamma frequentemente lo<br />

rimproverava per le sue troppe domande. Ma queste erano<br />

un’esigenza della sua natura, il bisogno del suo spirito<br />

di conoscere la ragione delle cose. Erano le cose, purtroppo,<br />

che non si rivelavano mai del tutto a lui, che si ammantavano<br />

di mistero ai suoi occhi, sì che egli si trovava<br />

disperatamente a lottare coi suoi stessi “perché?” senza<br />

riuscire a risolverne neppure uno. Il nonno, ad esempio,<br />

106<br />

Capitolo XIII<br />

aveva ammazzato Efisio per vendetta, per odio, o per gelosia?<br />

E che cos’è la gelosia? E la vendetta, l’odio o la gelosia<br />

esigevano dunque di soddisfarsi e di placarsi nel<br />

sangue altrui, come si placa la sete nell’acqua di una sorgente?<br />

Sangue, sempre sangue! Che cos’è questa furia che<br />

prende i grandi e li fa ardere dal desiderio di uccidere e<br />

sembra che li dissenni e li renda bestiali?<br />

Anche per Efisio Manzella, <strong>Perdu</strong> non riusciva a impedirsi<br />

di provare compassione. Meritava di morire Efisio<br />

Manzella? Aveva ucciso la mamma, certo, ma se la mamma<br />

aveva peccato contro di lui, era egli colpevole? Ecco<br />

un altro e ancora più aggrovigliato mistero. Tutto, in un<br />

modo o nell’altro – questo <strong>Perdu</strong> lo capiva chiaramente –<br />

si riconnetteva al giorno ormai lontano in cui si erano celebrate<br />

le nozze fra la mamma ed Efisio. «Ego coniungo<br />

vos …» gli pareva di riudire le parole pronunziate da Don<br />

Nicolino Cuccu, mentre con l’aspersorio, brandito come<br />

un martello, benediceva gli sposi. Tutto si riconduceva a<br />

quel giorno.<br />

Frattanto <strong>Perdu</strong> camminava per i prati a caso. Non sapeva<br />

dove andare. La giornata pur sempre radiosa aveva<br />

perso per lui ogni fascino. I richiami dei passeri, delle cince,<br />

degli sciami di allodole, i suoni multicordi della campagna,<br />

il respiro stesso della solitudine, non suscitavano<br />

più in lui alcuna eco. Camminava col capo chino, afferrando<br />

ogni ciuffo d’erba che gli capitasse sotto mano, e lo<br />

strappava con forza, disfacendone le cime e buttandole<br />

poi lontano; altrettanto faceva coi fiori dell’asfodelo, questi<br />

altissimi e meravigliosi fiori che si ergono su un gambo<br />

eccelso e terminano in bottoni rosati, fitti e turgidi come<br />

fragole acerbe.<br />

D’improvviso una domanda lo afferrò, perentoria e<br />

pratica: sono io forse un complice? Un brivido gli attraversò<br />

la schiena, non di scrupolo di coscienza, ma di<br />

paura. L’idea di essere arrestato e portato in prigione senza<br />

sapere come difendersi, né che cosa avrebbe potuto dire,<br />

107


PERDU<br />

lo atterrì. Si fermò di botto, sfogliando i petali di un fiore.<br />

Il fiore, un grosso bocciolo aprentesi di rosa selvatica, pareva<br />

ridergli fra le mani. Sono forse un assassino?, pensò<br />

<strong>Perdu</strong>. Buttò il fiore per terra con rabbia e lo schiacciò<br />

sotto il piede scalzo. Riprese a camminare costeggiando<br />

una siepe di fichidindia. Si fermò di nuovo. Raccattò per<br />

terra uno stecco e con quello si diede crudelmente a trafiggere<br />

una foglia grassa di ficodindia, la cui pelle, tra un<br />

ciuffo e l’altro di spine, era liscia e tesa, e teneramente<br />

verde. Dai buchi prodotti dalle punzonate, fuoruscì la materia<br />

bavosa e laida di che il ficodindia si nutre; pareva<br />

che la foglia piangesse. <strong>Perdu</strong> la contemplò distrattamente<br />

e gettò lontano lo stecco che gli era servito per devastarla.<br />

Pensò che altra soluzione non ci fosse se non quella<br />

di costituirsi ai carabinieri di Iddarta. Anche Efisio Manzella<br />

aveva fatto così, dopo aver ucciso la mamma. Forse anche<br />

per questo lo avevano condannato soltanto a cinque<br />

anni di carcere. Quanto al nonno, facesse come credeva.<br />

Senz’altro indugio <strong>Perdu</strong> si incamminò verso Iddarta.<br />

Ma nel tragitto mutò di proposito. Un’idea singolare gli<br />

aveva attraversato la mente: Vissenti Tankis!<br />

Tutti a Terreluxi dicevano che <strong>Perdu</strong> era figlio di Vissenti<br />

Tankis. Perché non presentarsi a lui, a conoscerlo, finalmente,<br />

e vedere che faccia avesse, e poi chiedergli protezione<br />

ed aiuto? Chissà, forse era lui veramente suo padre.<br />

Elettrizzato da questa nuova idea e quasi da essa sospinto,<br />

si mise a correre e correre, per giungere in fretta a<br />

Iddarta.<br />

108<br />

CAPITOLO XIV<br />

Non molto diversa da Terreluxi è Iddarta, ma le colline<br />

che la circondano e su una delle quali si assidono le<br />

sue case, hanno contorni più morbidi e fianchi più verdeggianti<br />

delle cupe montagne di Terreluxi. Inoltre, il fatto<br />

che Iddarta sia capoluogo non solo del comune ma anche<br />

del mandamento, le conferisce, anche urbanisticamente,<br />

maggiore ampiezza e per così dire minore selvatichezza e<br />

rusticità. Una bella piazza, addirittura illeggiadrita da alberi,<br />

si apre infatti nel centro del paese, davanti all’antica<br />

chiesa, e dà all’abitato un tono come di chiarità.<br />

Nondimeno le case di abitazione hanno lo stesso aspetto<br />

di quelle di Terreluxi. Esse sono in un certo senso improntate,<br />

oltreché – per la maggior parte – alla miseria della<br />

gente che vi abita, anche al carattere dei sulcitani, quale<br />

nella miseria perdurante da secoli si è venuto formando.<br />

Sono cioè basse e ostili, non mai o quasi mai aprentisi sulla<br />

via pubblica alla quale voltano la schiena, ma sulla corte<br />

interna che dà verso i campi, e tuttavia tutte quante di disegno<br />

semplice, senza ornamenti, nude nelle loro linee e taluna<br />

neppure in squadra o coi muri a piombo.<br />

<strong>Perdu</strong> arrivò a Iddarta stanchissimo, dopo aver superato<br />

attraverso i campi la strada ferrata, e aver percorso,<br />

non più correndo ma sempre di buon passo, la carreggiata<br />

che mena dalla stazione al paese.<br />

Egli girovagò qualche tempo senza una precisa meta.<br />

Nonostante fosse stato numerose volte a Iddarta, non sapeva<br />

quale fosse la casa di Vissenti Tankis. Inoltre, nell’immediatezza<br />

dell’incontro con lui, l’impresa di presentarglisi<br />

non gli sembrava più tanto facile come aveva pensato. Che<br />

dirgli? Non si poteva comparirgli dinanzi e domandargli a<br />

bruciapelo se lui fosse o no suo padre, come a Terreluxi<br />

109


PERDU<br />

universalmente si ripeteva. C’era pericolo di farsi mandare<br />

al diavolo. D’altra parte, bisognava per forza decidersi a<br />

correre l’avventura.<br />

Trovò una vecchia:<br />

– Scusi tzia – disse – dove vive Vissenti Tankis?<br />

La vecchia era sorda. <strong>Perdu</strong> dovette urlare.<br />

– Vissenti Tankis? – disse finalmente la donna, mangiandosi<br />

le parole nella bocca sdentata. – Ecco uno che<br />

non sa dove vive Vissenti Tankis! Lo sanno tutti dove vive.<br />

È il padrone di Iddarta. Tutti sanno dove abita Vissenti<br />

Tankis…<br />

– Va bene, tzia, avete ragione – gridò <strong>Perdu</strong> – ma io<br />

non lo so.<br />

Passò una ragazza con un’anfora d’acqua in bilico sul<br />

capo. Si fermò. Disse a <strong>Perdu</strong>:<br />

– Vieni. Ti insegno io. Io sono a servire con tziu Vissenti<br />

Tankis.<br />

La vecchia sorda biascicò ancora qualcosa, ma <strong>Perdu</strong><br />

non l’ascoltò. Si avviò con la ragazza.<br />

La giovane, eretta sul busto per il peso che le gravava<br />

il collo, incedeva solennemente con un portamento che,<br />

pur essendo essa scalza, aveva qualcosa di regale. La strada<br />

era in discesa, ma l’anfora non minacciava minimamente<br />

di ruzzolarle dal capo, sebbene la portatrice non si<br />

curasse di sostenerla col braccio. Le gonne viola, ampie,<br />

lunghe sino ai piedi, ondeggiavano leggiadramente secondando<br />

il movimento flessuoso dei fianchi e il fluttuare<br />

del bacino, cadenzato come un pendolo.<br />

<strong>Perdu</strong> pensò a sua madre, che un tempo era stata anch’essa<br />

al servizio di Tankis e forse anch’essa aveva percorso<br />

questa medesima strada con un’anfora levata in capo.<br />

Arrivarono per una strada traversa in un immenso cortile.<br />

La giovane disse:<br />

– Questa è la casa di tziu Vissenti Tankis.<br />

<strong>Perdu</strong>, trattenendo la ragazza per la gonna prima di<br />

avanzare nel cortile, disse:<br />

110<br />

Capitolo XIV<br />

– Io vorrei parlare con lui. Com’è? È cattivo? Ho un<br />

po’ di paura…<br />

La ragazza osservò il bambino con attenzione, togliendosi<br />

l’anfora di sopra il capo e recandosela con leggerezza<br />

sull’anca. Domandò:<br />

– Proprio con lui vuoi parlare? Ora non è in casa. E che<br />

cosa gli devi dire, che hai paura?<br />

<strong>Perdu</strong> sentì il bisogno di confidarsi. La ragazza gli<br />

sembrava sua madre:<br />

– Devo dirgli se mi prende con sé come figlio – rispose<br />

a bassa voce. – Tutti dicono che io sono suo figlio.<br />

La domestica rise.<br />

– Sarà vero che tu sei suo figlio. Infatti mi sembra che<br />

gli somigli anche un poco. Ma tziu Vissenti, di figli, sparsi<br />

qua e là per il mondo, ne deve avere parecchi. Sarà difficile<br />

che li possa accogliere tutti quanti qui in casa sua –.<br />

Così detto si allontanò, sempre ridendo.<br />

<strong>Perdu</strong> non sapeva che fare. Avanzò titubante attraverso<br />

il vasto cortile. Un’altra donna giovane e bella usciva in<br />

quel momento dalla casa, recando un recipiente per dar<br />

da mangiare al pollame. <strong>Perdu</strong> si avvicinò, e, tra l’altro, la<br />

vista del becchime gli fece ricordare che aveva fame. Senza<br />

dir niente, il bambino si fece avanti e ristette accanto<br />

alla donna che si era a sua volta fermata.<br />

La donna lo guardò con aria interrogativa. La sua pelle<br />

era bianca come una camicia appena lavata; i capelli,<br />

invece, e gli occhi, soprattutto gli occhi, erano intensamente<br />

e splendidamente neri.<br />

– Che vuoi, bambino? – domandò la ragazza gentilmente.<br />

– Io sono di Terreluxi – rispose <strong>Perdu</strong>, impacciato, –<br />

sono venuto, ero venuto… per parlare con tziu Vissenti<br />

Tankis. È la moglie, Vustè?<br />

– No – disse la donna con un sorriso, deponendo per<br />

terra il recipiente pieno di crusca impastata, sul quale i pennuti<br />

si avventarono, saltandovi dentro tutti assieme, con un<br />

111


PERDU<br />

frastuono assordante, – io sono la figlia. Dovevi dirgli<br />

qualcosa per conto di tuo padre?<br />

– Oh no – disse <strong>Perdu</strong>, accorato. E aggiunse con vivo<br />

interesse: – È veramente la figlia, Vustè?, così grande?<br />

– Certo – rispose la donna – perché? Non ci credi?<br />

– Ci credo – disse <strong>Perdu</strong>. E la fissò curiosamente. Era<br />

dunque costei un’“altra” figlia di Tankis? Che cosa strana!<br />

Doveva essere grande per lo meno quanto la mamma.<br />

Possibile che fosse sua sorella o sorellastra?<br />

– Mia mamma – disse <strong>Perdu</strong>, allontanando da sé i<br />

pulcini che gli venivano a razzolare fra i piedi – era stata<br />

a servire con tziu Vissenti Tankis, molto tempo fa.<br />

– Ah sì? – disse la donna che si era chinata, e con<br />

mosse precise afferrava i pulcini ballonzolanti ai piedi di<br />

<strong>Perdu</strong> e li rinserrava nel suo grembiule di cui aveva sollevato<br />

le cocche con una mano. I pulcini, impauriti, si libravano<br />

goffamente per qualche tratto sui monconi delle loro<br />

nascenti ali, nel tentativo di fuggire, ma presto venivano<br />

catturati e scomparivano nel pugno facendosi silenziosi,<br />

per prendere poi a pigolare nell’oscurità del grembiule.<br />

– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, chinatosi a sua volta per aiutare la<br />

donna nella bisogna. Nelle sue mani, più piccole, i pulcini<br />

non scomparivano del tutto, ma cacciavano fuori il capo<br />

furbescamente, agitandosi con veemenza e piando a<br />

tutto spiano; i loro occhi, vivaci, sembravano chicchi di<br />

pepe. Ed in quegli attimi <strong>Perdu</strong> avvertiva la sensazione<br />

curiosa, già altra volta provata nel catturare dei passeri, di<br />

stringere nel pugno, da assoluto padrone, la vita di un altro<br />

essere, il cui cuore batteva trepido, e il cui corpo era<br />

caldo e pieno di una misteriosa dolcezza. – Sì. Mia madre<br />

era stata qui per due anni nel tempo in cui sono nato.<br />

– Ah sì? – ripeté la donna – e come si chiama tua madre?<br />

– Ora è morta – disse <strong>Perdu</strong>, osservando la chioccia,<br />

che, legata con uno spago ad un cavicchio, stiracchiava la<br />

112<br />

Capitolo XIV<br />

zampa impastoiata, e gridava, nel tentativo di accorrere in<br />

aiuto ai suoi piccoli. – Si chiamava Angiuledda Vargiu.<br />

A questo nome la giovane donna si volse vivacemente<br />

verso il bambino e il grembiule le cadde, sì che tutti i<br />

pulcini le si rovesciarono giù dal grembo.<br />

– Angiuledda Vargiu! – disse levandosi lentamente in<br />

piedi – tu sei dunque il bambino di Angiuledda Vargiu?<br />

– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, alzandosi anch’egli e dimenticando<br />

i pulcini. – Vustè ha conosciuto mia madre?<br />

– Sì, certo – disse la ragazza, dopo un silenzio, – oh,<br />

Deus meus e tu sei…? Come ti chiami?<br />

– <strong>Perdu</strong> – disse il bambino.<br />

– Ah, <strong>Perdu</strong>! – disse la ragazza. – E quanti anni hai?<br />

– Più di dodici – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

La giovane sospirò.<br />

– Deus meus! – disse. – Dodici anni! Tua madre è<br />

morta da quattro anni, non è vero?<br />

– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>; e aggiunse come se volesse circostanziare<br />

il fatto per ragione di esattezza. – L’ha ammazzata<br />

Efisio Manzella.<br />

– Lo so – disse la figlia di Vissenti Tankis. – Lo so. Poveretta!<br />

Era una ragazza molto sventurata. Ma Efisio Manzella<br />

era stato messo in prigione, no?<br />

– Sì – disse <strong>Perdu</strong>, – ma per poco, perché… perché…<br />

Bah, non importa. Proprio oggi doveva tornare a casa<br />

sua… Lo avevano messo fuori dalla prigione e doveva…<br />

– Perché doveva? Non l’hanno messo più fuori?<br />

– Sì, ma… – disse <strong>Perdu</strong>; e qui non seppe se doveva<br />

continuare o no. Fece una pausa e poi aggiunse: – È morto.<br />

– È morto? – esclamò la ragazza. – Proprio oggi? E come?<br />

<strong>Perdu</strong> di nuovo esitò. Non voleva compromettere il<br />

nonno.<br />

– L’hanno ammazzato – disse semplicemente, chinando<br />

il capo e grattando la polvere col piede scalzo.<br />

113


PERDU<br />

– Ammazzato! E quando? E chi l’ha ammazzato?<br />

– Oh, Vustè – disse il bambino. – Forse non l’hanno<br />

proprio ammazzato. Io non so. Io credo che sia morto, ma<br />

forse non lo è.<br />

– Ma quando è avvenuto questo, e dove?<br />

– Un’ora fa – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

– Ma tu come sai questo? Eri presente?<br />

– Tzia, posso dirglielo? L’ha ammazzato mio nonno. Lui<br />

passava, noi eravamo fermi. Non gli avevamo fatto niente e<br />

lui ha parlato male di mia mamma. Allora mio nonno… Lui<br />

aveva detto che mia madre… Allora mio nonno gli è saltato<br />

addosso col coltello… Ma forse non è morto. Oh, tzia,<br />

mi raccomando, Vustè non dica niente, se le chiedono.<br />

– Tuo nonno è Manueli Vargiu, non è vero? E adesso<br />

dov’è andato?<br />

– Non lo so. È fuggito…<br />

– E tu sei venuto subito qui?<br />

– Sissi, tzia, dove potevo andare?<br />

– E perché sei venuto qui, te lo ha detto tuo nonno di<br />

venire qui?<br />

– Oh, no, Vustè, non me l’ha detto nessuno. Ci sono<br />

venuto da me.<br />

– E perché?<br />

<strong>Perdu</strong> guardò la ragazza negli occhi.<br />

– Vustè non ha mai sentito dire che Vissenti Tankis…?<br />

Già, non può averlo sentito dire; Vustè non mi conosceva.<br />

– Sentito dire che cosa? – domandò la ragazza.<br />

– A Terreluxi – cominciò <strong>Perdu</strong>, – tutti dicono che io<br />

sono figlio di tziu Vissenti Tankis. Io non so se sia vero.<br />

Mia mamma mi aveva detto che io ero figlio di Efisio<br />

Manzella, invece poi non era vero…<br />

La ragazza ad un certo momento aveva preso a guardare<br />

con aria fra spaventata e stupita al disopra della testa<br />

del bambino. Un uomo si era avvicinato e fermato alle<br />

spalle di <strong>Perdu</strong>. Era Vissenti Tankis.<br />

114<br />

Capitolo XIV<br />

– Ma la gente di Terreluxi – seguitò <strong>Perdu</strong>, senza avvertire<br />

la presenza dell’uomo – continua a ripetere che<br />

mio padre è Vissenti Tankis, che io gli assomiglio, che mia<br />

madre… così che io, tziedda, sono venuto… vorrei… domandare<br />

a Vissenti Tankis se è lui mio padre.<br />

– Bene! – disse Vissenti Tankis, dando una grossa manata<br />

sulle spalle di <strong>Perdu</strong>. – È un discorso da uomo! Ma<br />

come potrebbe fare Vissenti Tankis a sapere se è lui o no<br />

tuo padre?<br />

<strong>Perdu</strong> si era voltato di scatto. L’uomo che gli stava di<br />

fronte era grande e florido, vestito di velluto verde con<br />

un panciotto da cacciatore, nelle cui tasche, alte fin sullo<br />

sterno, teneva affondate le mani. <strong>Perdu</strong> non sapeva che<br />

quello fosse Vissenti Tankis. Lo guardò intimidito, osservandolo<br />

dai gambali di cuoio e risalendo poi su fino alla<br />

faccia di lui.<br />

– Tziedda – disse poi, rivolgendosi alla ragazza – se<br />

Vustè ha da fare, io posso ritornare più tardi per parlare<br />

con tziu Vissenti Tankis.<br />

– Sono io, Vissenti Tankis – disse l’uomo ridendo ed<br />

assai divertito.<br />

– Vustè è Vissenti Tankis? – disse <strong>Perdu</strong>, stupefatto; e<br />

sembrava quasi in procinto di mettersi ginocchioni.<br />

– Già – disse l’uomo, sempre piantato a gambe larghe<br />

dinanzi al bambino. – Non mi conoscevi? Ecco, dimmi ora<br />

come faccio io a risponderti se sono o no veramente tuo<br />

padre –. E rideva.<br />

– Ma io… – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

– Anzitutto non sai – disse Vissenti Tankis, ancora ridendo<br />

– che un uomo e una donna, per avere un bambino,<br />

devono essere sposati?<br />

– Mia madre – disse <strong>Perdu</strong>, dopo un po’ – non era<br />

sposata, eppure io sono nato lo stesso.<br />

– Ah – disse Vissenti Tankis, colpito, – non mi sembri<br />

uno stupido. Però – aggiunse, con finta serietà – bisogna<br />

115


PERDU<br />

sempre che tra l’uomo e la donna succeda qualcosa, se no<br />

i figli non nascono; non ti pare?<br />

Intervenne la ragazza.<br />

– Dovrebbe vergognarsi, Vustè – disse, scandalizzata<br />

e irritata, – di parlare così a un bambino. Vergognarsi.<br />

E, preso per mano <strong>Perdu</strong>, lo trascinò quasi di corsa<br />

dicendogli: – Vieni con me.<br />

Vissenti Tankis non si adontò. Continuando a sghignazzare<br />

gridò dietro ai due:<br />

– Ma certo, bisogna che succeda qualcosa…<br />

116<br />

CAPITOLO XV<br />

Maddalena Tankis era una ragazza piissima che viveva<br />

sempre con la paura di peccare. Aveva ventidue anni al<br />

tempo del suo primo incontro con <strong>Perdu</strong>. Era di carattere<br />

dolce e remissivo, e così umile e schiva che non pareva<br />

neppure accorgersi della sua grande, pallida bellezza. Come<br />

molte fanciulle sulcitane delle famiglie ricche, essa faceva<br />

vita quasi claustrale. Era orfana di madre da molto<br />

tempo, ed era figlia unica, e perciò la sua vita, essendole<br />

inibito, secondo il costume, di ingerirsi nelle faccende di<br />

suo padre, trovava scopo e sfogo prevalentemente nelle<br />

pratiche religiose. A nulla le serviva la sua ricchezza, poiché<br />

non è là costume che le donne facciano pompa di sé<br />

e si adornino con troppo lusso, tranne che nelle festività.<br />

Aveva niente altro che il ruolo di una domestica, nella sua<br />

casa, con appena qualche differenza di rango. La personalità<br />

di suo padre, docile come essa era, la soggiogava totalmente.<br />

In nulla essa avrebbe saputo opporsi a lui. E nella<br />

sua mansueta sottomissione, nella ristrettezza di orizzonti<br />

che le si aprivano nella vita – essa infatti, quando così a<br />

suo padre sarebbe piaciuto, avrebbe lasciato la casa paterna<br />

per cadere in un’altra schiavitù, quella del marito che il<br />

padre avrebbe scelto per lei – essa trovava conforto nell’attendere<br />

solamente da Dio le pure gioie di cui riempire<br />

il proprio cuore soave.<br />

Maddalena Tankis aveva conosciuto Angiuledda Vargiu,<br />

al tempo in cui questa prestava servizio nella casa dei<br />

Tankis, e benché fosse piccola, aveva saputo, forse aveva<br />

capito da se stessa per qualche episodio svoltosi sotto i<br />

suoi occhi, che la bella domestica piaceva a suo padre.<br />

Quando Angiuledda Vargiu era rimasta incinta ed aveva<br />

poi generato il bambino, Maddalena aveva subito dubitato<br />

che Vissenti Tankis potesse essere il padre della creatura.<br />

117


PERDU<br />

Allorché, poi, cominciarono a circolare fra la gente le prime<br />

voci in tal senso, il dubbio si era in lei convertito in<br />

certezza; il bambino di Angiuledda era sicuramente figlio<br />

di tziu Vissenti.<br />

Erano passati ormai molti anni da allora, ma questa<br />

convinzione non era venuta mai meno. Anche di altri<br />

bambini, anzi di molti, messi al mondo da domestiche<br />

della casa o da contadine che lavoravano sui fondi di Vissenti<br />

Tankis, si diceva più o meno apertamente che fossero<br />

figli di lui. Ma, stranamente, Maddalena si rifiutava di<br />

credere. Chissà perché si era fitto in capo che solo il bambino<br />

di Angiuledda poteva attribuirsi a Vissenti Tankis, e<br />

non passava giorno senza che ciò le tornasse alla mente.<br />

Ella non aveva mai visto <strong>Perdu</strong>, e non aveva nemmeno<br />

mai desiderato di vederlo, pur avendone la possibilità.<br />

Anche questo poteva spiegarsi soltanto con la sua natura<br />

scrupolosa ed ombrosa, piena di strane idee circa la divinità.<br />

Aveva promesso al Signore ed a se stessa che avrebbe<br />

visto il bambino soltanto quando avesse potuto riceverlo<br />

come fratello, quale essa lo considerava.<br />

Non è raro che nel Sulcis, dove la gente ostenta una<br />

così grande freddezza in materia di religione, le ragazze<br />

delle famiglie più benestanti, forse appunto a cagione del<br />

genere di vita che esse conducono, abbiano l’anima intrisa<br />

di misticismo. Tale era Maddalena Tankis. Il pensiero che il<br />

padre avesse un figliuolo disconosciuto e spurio, abbandonato<br />

alla sua sorte, le dava gran pena. Le pareva che la<br />

vendetta di Dio fosse sospesa sulla sua casa. E non tanto<br />

ella giudicava la colpa di suo padre, quanto piuttosto la<br />

sua propria colpa, sentendosi anch’essa colpevole di fronte<br />

a quell’ignoto bambino. A se stessa, non al padre, attribuiva<br />

la maggior parte delle responsabilità per il fatto che un<br />

suo fratello crescesse chissà mai dove, nella miseria e nell’abbandono,<br />

mentre lei viveva nell’abbondanza. Chi mai<br />

avrebbe potuto ottenerle agli occhi di Dio perdono per<br />

una simile disparità e ingiustizia? Già per la sua esaltazione<br />

118<br />

Capitolo XV<br />

religiosa ella aveva in uggia di essere nata nel seno di una<br />

famiglia ricca; già soltanto di questo ella chiedeva ogni<br />

giorno perdono a Dio. Immaginarsi, quindi, come ancor<br />

più penosa le riuscisse la sua condizione, allorché la comparava<br />

alla condizione di inedia nella quale pensava che il<br />

bambino veniva allevato. E nel far voto a Dio di adoprarsi<br />

per rendere possibile il ritorno di quel fratello nella casa<br />

paterna, essa volentieri poneva come prezzo di perdere<br />

anche tutta quanta la sua ricchezza e la sua qualità di unica<br />

erede delle masserie e delle case di tziu Vissenti Tankis.<br />

Nonostante ciò, Maddalena mai trovava il coraggio di<br />

realizzare concretamente quel voto. La ragazza conosceva<br />

suo padre. Sapeva che nulla, se non un miracolo, avrebbe<br />

potuto indurlo ad accettare come figlio lo spurio rampollo<br />

di una domestica. Maddalena, del resto, poteva ben poco<br />

sul cuore di lui. Si è già detto come per lui provasse un timore<br />

reverenziale così profondo che rasentava la schiavitù;<br />

e si è già detto come le ragazze del Sulcis abbiano poco<br />

peso e poca ingerenza negli affari degli uomini. Le<br />

donne non ci si devono mai immischiare. Le donne attendano<br />

ai lavori di casa, e quando è il momento partoriscano<br />

figli. Il resto non le riguarda. Così era anche per Maddalena,<br />

e se essa avesse valicato questa netta barriera e<br />

distinzione di compiti, temeva fortemente che avrebbe ottenuto<br />

con ogni probabilità il risultato contrario.<br />

In tal modo gli anni erano passati, Angiuledda – come<br />

Maddalena ben presto aveva saputo – era morta, ed ecco<br />

che ora il bambino inaspettatamente e spontaneamente<br />

veniva a cercare ciò che Maddalena aveva invano sperato<br />

di ottenergli con i suoi buoni uffici. Che fare?<br />

Parve a Maddalena che una sola cosa importasse, per<br />

il momento: far sì che <strong>Perdu</strong> rimanesse nella casa. Magari<br />

come servo, ma che rimanesse.<br />

<strong>Perdu</strong> riuscì a convincersi di questo progetto, sia pure<br />

con qualche difficoltà, dopo che ebbe ascoltato tutti i discorsi<br />

che Maddalena gli fece, una volta portatolo via dalla<br />

119


PERDU<br />

presenza di Vissenti Tankis. L’animo del bambino era ancora<br />

sconvolto. Le emozioni violente di quel giorno lo<br />

avevano messo in uno stato da paragonarsi ad un ininterrotto<br />

stupore. Niente gli risultava più chiaro nella mente.<br />

La sua vita cambiava d’un tratto. Il nonno si era allontanato<br />

su quel cavallo rubato, forse non sarebbe ritornato più,<br />

per paura dei carabinieri del re. Morta la mamma, perduta<br />

la certezza che Efisio Manzella fosse suo padre, scomparso<br />

il nonno, che cosa gli rimaneva? Ecco: Vissenti Tankis.<br />

<strong>Perdu</strong> non era molto convinto che Vissenti Tankis fosse<br />

veramente suo padre. La delusione che aveva provato a<br />

proposito di Efisio Manzella, gli serviva a non lasciarsi cattivare<br />

da nuove speranze. Eppure, se lo dicevano tutti che<br />

Vissenti Tankis era suo padre, perché non credere almeno<br />

ad una blanda possibilità della cosa? Era venuto per questo<br />

quaggiù, a Iddarta. Ma no. Vissenti Tankis! Quello, suo<br />

padre? Quell’uomo dagli stivali e dal giubbotto di velluto,<br />

che sghignazzava? Mah, tutto poteva essere, non c’era più<br />

nulla di certo, non si poteva sapere nulla. Anche Efisio<br />

Manzella… Sì, forse, non era male restare, anche come<br />

servo. Del resto, non aveva altra scelta.<br />

Meno facile era stato per Maddalena convincere Vissenti<br />

Tankis. Che cosa era, questa storia? Era pazza, Maddalena?<br />

Gli desse qualche lira e un tozzo di pane, a quel<br />

cencioso bambino, e lo rimandasse alla madre. Era morta?<br />

Ah, già, era morta. Allora al padre. Non ne aveva? Allora<br />

all’inferno. Non capiva, Maddalena, che ci si rendeva ridicoli<br />

con questa faccenda, e che la gente non si sarebbe<br />

saziata di ripetere stupide chiacchiere sul suo conto?<br />

Vissenti Tankis capitolò dopo molti sforzi. Al diavolo!<br />

Era una colossale imbecillità, questa di prendersi tanta pena<br />

per un bastardo qualunque. Ad ogni modo lo tenesse,<br />

se le faceva piacere. Lo si poteva mandare con Peppi Ollargiu,<br />

ad accudire alle stalle. Ma subito. Non glielo facesse<br />

più trovare fra i piedi, il bambino, e non gli riparlasse<br />

più di lui.<br />

120<br />

Capitolo XV<br />

Maddalena diede da mangiare a <strong>Perdu</strong>, in fretta, e,<br />

per non irritare maggiormente il padre, lo fece condurre<br />

subito dal capo dei servi, tziu Peppi Ollargiu.<br />

Era già scesa la sera e <strong>Perdu</strong> non fece altro che andare<br />

a dormire nel luogo che Peppi Ollargiu si prese cura di<br />

assegnargli, cioè nel fienile.<br />

– Dormi – gli disse tziu Peppi Ollargiu, vedendogli il<br />

volto rigato di lacrime – vedrai che se dormi tutto ti sembrerà<br />

più bello.<br />

<strong>Perdu</strong> si sistemò nel fienile. L’odore acre, asciutto e<br />

quasi violento della paglia e del fieno gli opprimeva la<br />

gola. Il fienile era al piano elevato di un edificio in mattoni<br />

tutto traforato di finestrelle per dare aria al locale. Peppi<br />

Ollargiu aveva consegnato a <strong>Perdu</strong> un sacco e una pelle<br />

di montone. Il bambino vi si distese sopra, e, giacendo<br />

supino, osservava il soffitto. Malgrado la stanchezza, non<br />

riusciva a dormire. Nell’incerta luce che ancora penetrava<br />

dalla porta e da tutti quei pertugi, <strong>Perdu</strong> contemplava le<br />

travi del tetto che, come grossi tendini bruni in una mano<br />

di bifolco, si innervavano a ventaglio sul culmine e affondavano<br />

nel buio.<br />

Via via che la luce si illanguidiva, <strong>Perdu</strong> era assalito da<br />

una paura non mai provata. Gli sembrava di vedere ancora<br />

il nonno sguainare la leppa e tagliare la gola ad Efisio<br />

Manzella. Ed Efisio gridava, come gridava…! D’improvviso<br />

scoppiò il coro dei grilli. Il loro canto tremulo e modulato<br />

dava al bambino la sensazione che qualcuno gli grattasse<br />

con delicatezza l’epidermide. La paura si accrebbe. Il vello<br />

di montone, sotto la schiena, lo confortava come una cosa<br />

viva. <strong>Perdu</strong> vi affondava le mani e stringeva i peli con forza.<br />

Nel vano della porta, balzata dal cielo resosi repentinamente<br />

nero come l’inchiostro, si collocò qualche stella.<br />

Vinto dalla stanchezza <strong>Perdu</strong> si abbandonava già all’incoscienza<br />

del sonno, quando udì, vicinissimo, pronunziare<br />

il suo nome nel buio.<br />

– <strong>Perdu</strong>, o <strong>Perdu</strong>! – bisbigliava una voce.<br />

121


PERDU<br />

Non subito si riscosse. Nella nebbia del suo torpore<br />

tutto poteva considerarsi accadibile; anche che quella voce<br />

fosse una voce di spiriti, la voce di sua madre, o di Efisio<br />

Manzella, oppure del nonno che d’improvviso tornava.<br />

Forse <strong>Perdu</strong> emise un gemito senza pure destarsi interamente.<br />

Forse il richiamo era una cosa irreale, come irreali<br />

erano le sue sensazioni. Ma ecco che due mani subitamente<br />

lo toccarono. Dapprima premettero sugli stinchi e sulle<br />

ginocchia, poi risalirono, fino a raggiungere il viso, dove<br />

indugiarono in una lieve carezza. Erano mani leggere leggere.<br />

In un attimo pensò che la madre lo stesse toccando<br />

per risvegliarlo. Poi si svegliò veramente e balzò di scatto a<br />

sedere. Col capo buttato avanti urtò allora contro qualcosa<br />

di morbido e di saldo, di tiepido e di rotondo e due braccia<br />

gli circondarono il capo e lo tennero ivi accolto, mentre<br />

una voce, bassa, trepida e timorosa, si udì che diceva:<br />

– <strong>Perdu</strong>, ti sei spaventato? Sono io, Maddalena.<br />

122<br />

CAPITOLO XVI<br />

Un anno e mezzo <strong>Perdu</strong> rimase al servizio di Vissenti<br />

Tankis. E per un anno e mezzo, con prodigiosa costanza<br />

Maddalena Tankis condivise con lui ogni notte, tolta qualche<br />

saltuaria eccezione, il giaciglio nel fieno. Era questo il<br />

solo modo in cui essa poteva, per ora, ottenere da Dio<br />

perdono di non essere riuscita, malgrado tutti i suoi sforzi,<br />

a convincere Vissenti Tankis di accettare il bambino come<br />

figlio e non più tenerlo per servo.<br />

Quegli incontri notturni fra <strong>Perdu</strong> e Maddalena avevano<br />

qualcosa di strano. La ragazza giungeva furtiva, quasi<br />

nel cuore della notte e nella più completa oscurità, tranne<br />

che non fosse una notte di piena luna. Ella non faceva alcun<br />

rumore. Sembrava che non attraverso la scala e la<br />

porta si introducesse nel pagliaio, ma che vi arrivasse portata<br />

da una forza misteriosa. Non aveva paura dei servi?<br />

Non aveva timore che qualcuno, notando l’assiduità di<br />

quelle visite in ore talmente assurde, interpretasse in maniera<br />

oltraggiosa la sua pazzia? Non aveva almeno timore<br />

dell’oscurità, di fiaccarsi il collo su per le scale, o di incontrare<br />

altri pericoli, un cane, un malintenzionato, un acquazzone?<br />

Nulla, non si preoccupava di nulla. Una voce la<br />

chiamava fin là, e là essa andava, senza deflettere, senza<br />

curarsi di altro, giudicando anzi ridicolo ogni pensiero che<br />

le si affacciasse alla mente per stornarla da quella idea.<br />

Le prime volte <strong>Perdu</strong> attendeva Maddalena restando<br />

sveglio. Sperava di udirne i passi, di percepirne l’avvicinarsi.<br />

Invece no; ad un bel momento egli se la trovava già<br />

accanto, invisibile ma presente, un’ombra d’ombra, ma<br />

che si poteva ben riconoscere come persona vivente, toccandola.<br />

In seguito <strong>Perdu</strong> non si preoccupò più di tenersi<br />

desto in attesa che lei giungesse.<br />

123


PERDU<br />

Che si dicevano, quei due, ogni notte, così soli per<br />

tante ore nel buio? Niente. Non si scambiavano quasi mai<br />

una parola. Se <strong>Perdu</strong> era sveglio, o se nella notte si ridestava,<br />

Maddalena gli carezzava i capelli con lenta dolcezza<br />

finché lo risentiva dormire. Se dormiva, gli si accucciava<br />

vicino adagiandogli il capo sul proprio grembo e cullandolo<br />

piano piano. Dormiva essa mai? <strong>Perdu</strong> non lo sapeva.<br />

Forse, invece che dormire, pregava. Ma prima che l’alba<br />

pungesse il cielo, Maddalena fuggiva come se avesse<br />

paura della luce, come se soltanto allora il timore si impossessasse<br />

di lei.<br />

La cosa più singolare era che, incontrandosi di giorno,<br />

<strong>Perdu</strong> e Maddalena parevano entrambi ignorare l’intimità<br />

che c’era stata fra loro la notte scorsa e quella che vi sarebbe<br />

stata la notte successiva. D’istinto, senza nessun accordo,<br />

essi ridiventavano estranei, ci fossero o no altre<br />

persone presenti: lei la padrona, lui il servo, lei la figlia di<br />

tziu Vissenti Tankis, lui lo spurio bambino che Vissenti<br />

Tankis si era degnato di accogliere fra i propri dipendenti.<br />

Innegabilmente <strong>Perdu</strong> provava sentimenti di affetto e<br />

di gratitudine per Maddalena Tankis; e tuttavia tali sentimenti<br />

non erano né così intensi, né così incondizionati<br />

come, dato il temperamento di <strong>Perdu</strong>, ci si sarebbe potuti<br />

aspettare.<br />

La verità è che l’animo del bambino si era venuto in<br />

tutto questo tempo trasformando di molto. Fosse l’umiliazione<br />

della sua condizione di spurio e di servo, fosse il<br />

sentirsi così senza guida in preda alle proprie angosce segrete<br />

ed alle proprie paure, fatto sta che <strong>Perdu</strong> sentiva in<br />

sé crescere ogni giorno una sorda ribellione. Non era più,<br />

intanto, un bambino nel senso vero e proprio: non solo i<br />

giorni si accumulavano ai giorni e i mesi ai mesi, recando<br />

ciascun giorno e ciascun mese un accrescimento insensibile<br />

di quella graduale ed istintiva maturità che chiunque<br />

avverte, fosse pure isolato in mezzo all’oceano; ma la vita<br />

stessa che <strong>Perdu</strong> conduceva gli offriva esperienze diverse<br />

124<br />

Capitolo XVI<br />

da quelle sinora vissute e ne mortificava ogni giorno le<br />

speranze, i sogni, le illusioni. Questo significa diventar<br />

grandi. Egli faceva parte della servitù dei Tankis; viveva<br />

insieme ai domestici e alle domestiche, persone, tutte, anche<br />

le più giovani, assai più anziane di <strong>Perdu</strong>, e imparava<br />

da loro molte cose che prima non conosceva. Imparava le<br />

trivialità, le bassezze dei servi, imparava la facilità con cui<br />

fra i grandi si considerano le faccende dell’amore carnale.<br />

Un bambino come <strong>Perdu</strong>, cresciuto nel Sulcis, non è mai<br />

uno specchio di innocenza come noi siamo abituati a concepirla.<br />

I bambini sulcitani hanno molto per tempo nozioni<br />

concrete ed esatte circa i rapporti fra l’uomo e la donna,<br />

desunti così dai discorsi degli adulti come dalle<br />

osservazioni dirette nel mondo degli animali. E tuttavia,<br />

per loro fortuna, essi riescono ancora a salvare una loro<br />

fondamentale innocenza, che consiste nel non percepire<br />

quel che di malvagio, di compiaciuto e insistito si usa vedere<br />

in quelle cose, fra i grandi. È soltanto con lo sviluppo<br />

che, appunto, il corrompimento si determina; e ciò<br />

succede per effetto dei malsani discorsi che gli adolescenti<br />

raccolgono dagli anziani, e nei quali con maggiore consapevolezza<br />

riescono ad afferrare l’aspetto meno limpido.<br />

Fu dunque nei contatti con i compagni di servitù che <strong>Perdu</strong>,<br />

anche in questa materia, riuscì a farsi spregiudicato e<br />

vissuto, per simpatia con l’atteggiamento dei grandi. Ma<br />

egli vedeva anche le malignità, gli arrivismi, le gelosie dei<br />

grandi, la venalità di alcuni, la spudoratezza di altri, l’odio<br />

onde molti tra loro si odiavano senza alcuna apparente ragione,<br />

la perfidia alla quale molto spesso improntavano i<br />

loro rapporti. Furono queste molteplici esperienze che<br />

contribuirono in grado elevato a mutare il carattere di <strong>Perdu</strong>.<br />

Assai di frequente l’amarezza lo sopraffaceva. Né lui<br />

sentiva di volere bene ad alcuno dei suoi compagni, né<br />

da alcuno di loro si sentiva amato. <strong>Perdu</strong> anzi si convinceva<br />

che una cieca inimicizia, una specie di incomprensibile<br />

rancore sta alla base della convivenza degli uomini, e che<br />

125


PERDU<br />

è questo sentimento che genera, esplodendo al di fuori,<br />

tutte le violenze e le atrocità di cui ripetuti esempi, e clamorosi,<br />

erano nel passato avvenuti sotto i suoi occhi.<br />

Comprese, o almeno in qualche modo vagamente intuì,<br />

che gli uomini sono sempre dei solitari, anche quando<br />

non hanno l’astiosa selvatichezza di tziu Manueli Vargiu.<br />

Ognuno pensa principalmente a se stesso, e non si preoccupa<br />

del male o del dolore che può cagionare ad altri con<br />

le proprie azioni. Ognuno ha presente sempre ed essenzialmente<br />

se stesso, anche quando si piega a fare, apparentemente,<br />

una buona azione.<br />

Per tutto questo <strong>Perdu</strong>, il quale un tempo sentiva di<br />

voler bene istintivamente al mondo intero, pian piano si<br />

accorse che il mondo non sapeva che farsene del suo bene,<br />

e dall’uggia di questa costatazione, come un naturale<br />

reagente, si radicò gradualmente in lui una sempre più<br />

estesa avversione contro tutto e contro tutti.<br />

Così mutato e così “invecchiato”, <strong>Perdu</strong> non poteva<br />

non porre alcune riserve anche nei propri sentimenti verso<br />

Maddalena Tankis. Specialmente nei primi mesi egli era<br />

rimasto sbigottito della generosità e delle premure di lei,<br />

talché, malgrado la sua condizione di servo, sentiva d’essere<br />

un po’ come quei passeri che il gelo fa cadere tra le<br />

siepi e che un viandante di buon cuore raccoglie e riscalda<br />

sul seno. Ma poi aveva cominciato a porsi delle domande.<br />

Perché Maddalena Tankis faceva questo? Era convinta<br />

che lui fosse suo fratello? Perché allora tollerava che<br />

lui rimanesse ancora come servo? Lo faceva soltanto per<br />

compassione? E perché proprio per lui? E qual senso aveva<br />

per lei perdere tanto tempo, tante ore di sonno e di riposo<br />

la notte, per restarsene accanto a lui?<br />

Quanto alla convinzione di Maddalena, che cioè Vissenti<br />

Tankis fosse suo padre, <strong>Perdu</strong> aveva acquistato tanta<br />

incredulità da riuscire perfino a sorriderne. Il pensiero che<br />

Vissenti Tankis non potesse essere suo padre, era in <strong>Perdu</strong><br />

diventato chiaro e preciso, e senza giustificazione, tanto<br />

126<br />

Capitolo XVI<br />

quanto era chiaro e preciso, e senza giustificazione, in senso<br />

contrario, il pensiero di Maddalena. Egli sentiva anzi di<br />

odiare Vissenti Tankis, non già per le sue ricchezze o perché<br />

si rifiutava di accettarlo come figlio; ma unicamente<br />

per quel suo modo beffardo e altezzoso di parlare con lui.<br />

Ciò dimostra quanto bastasse un piccolo stimolo per suscitare<br />

un sentimento di avversione nell’animo del ragazzo.<br />

Piuttosto, questo rifiuto di riconoscere in Vissenti Tankis<br />

il proprio ignoto padre, manteneva <strong>Perdu</strong> nella continua<br />

incertezza circa il problema che principalmente lo assillava.<br />

Egli non aveva rinunziato a sperare di trovare un<br />

giorno suo padre, per lo meno di riuscire a scoprire che<br />

nome egli avesse. Questa ricerca e questa ansia, in <strong>Perdu</strong><br />

traevano origine dalla consapevolezza sempre più profonda<br />

che sua madre aveva serbato una condotta colpevole.<br />

Egli riusciva ora a giudicarla spietatamente; e delle proprie<br />

amarezze e sofferenze faceva ormai risalire ogni responsabilità<br />

su di lei, ed a lei non sapeva pensare se non con un<br />

sordo rancore. Se del proprio padre <strong>Perdu</strong> si preoccupava,<br />

ciò era specialmente per accertare con chi esattamente<br />

la madre aveva commesso l’imperdonabile colpa di mettere<br />

lui al mondo.<br />

Una notte, vinto dall’oppressione di questi pensieri,<br />

<strong>Perdu</strong> rimase appositamente sveglio per parlare di ciò con<br />

Maddalena. Non aveva ormai altri cui confidarsi.<br />

<strong>Perdu</strong> raccontò alla ragazza ciò che lui stesso aveva visto<br />

la tragica notte in cui era stata uccisa Angiuledda, e le<br />

riferì quanto era risultato nel processo di Assise.<br />

Maddalena disse:<br />

– Non credo che la Giustizia abbia avuto ragione. Sono<br />

convinta che in casa con Angiuledda non c’era nessuno,<br />

tranne te. Efisio Manzella era pazzo quella sera, era annebbiato<br />

dalla gelosia.<br />

– Ma, Vustè – disse <strong>Perdu</strong> – non era la prima volta che<br />

mia mamma se ne andava con gli uomini. Non è forse per<br />

questo che io sono nato?<br />

127


PERDU<br />

Maddalena cercò nell’oscurità la bocca di <strong>Perdu</strong> e gliela<br />

chiuse con una mano. Le pareva orribile ciò che il bambino<br />

aveva detto.<br />

Rispose dopo una lunga pausa:<br />

– Non devi parlare così di tua madre.<br />

– E perché non devo? – disse <strong>Perdu</strong>. – Forse devo soffrire<br />

in santa pace tutto quello che soffro, e non devo<br />

neppure parlare? E lei, allora, forse “doveva” fare ciò che<br />

ha fatto? “Doveva” mettere al mondo me, per farmi fare il<br />

garzone di tziu Vissenti Tankis, preso in giro da tutti e ingiuriato<br />

da tutti? “Doveva” buttar fuori un bastardo? Proprio<br />

lo “doveva” fare? La obbligavano forse a farlo?<br />

Eccitato, <strong>Perdu</strong> parlava a voce alta, e le sue parole<br />

rimbombavano nelle cavità profonde e oscurissime del<br />

pagliaio.<br />

– <strong>Perdu</strong>, non gridare, sei pazzo? E non parlare in questo<br />

orribile modo. Se parli ancora così me ne vado. Cerca<br />

di dormire, non parlare.<br />

– E se ne vada, Vustè, che m’importa? Non le ho chiesto<br />

io di venire. È Vustè che ci viene; perché le faccio<br />

compassione e pena. Se ne vada, Vustè, se vuole. Io so<br />

stare anche solo.<br />

Il bambino e l’adulto lottavano ancora in <strong>Perdu</strong>, ma<br />

questa volta prevalse il primo e <strong>Perdu</strong> finì per piangere.<br />

Maddalena se lo sedette sulle ginocchia e, cullandolo<br />

con l’oscillamento del busto, cercò di calmarlo e di farlo<br />

dormire. Ma quando <strong>Perdu</strong> fu addormentato appoggiò la<br />

faccia tra i capelli di lui, e pianse a sua volta.<br />

128<br />

CAPITOLO XVII<br />

Del nonno, <strong>Perdu</strong> si era quasi del tutto dimenticato, ormai.<br />

Gli aveva parlato soltanto una volta, due mesi dopo la<br />

sua assunzione al servizio di Vissenti Tankis, incontrandosi<br />

con lui a Terreluxi, di notte, nella casa di tziu Diegu Puddu.<br />

Sisinnio Puddu, figlio di tziu Diegu, era venuto a chiamarlo<br />

nel pomeriggio, annunziandogli con fare misterioso<br />

che “una persona” desiderava parlargli. Non era difficile<br />

capire chi potesse essere quella persona. Per un momento<br />

<strong>Perdu</strong> era stato dubbioso se andare o no. I carabinieri di<br />

Iddarta, i quali lo avevano numerose volte sentito come testimone<br />

nelle indagini circa l’uccisione di Efisio Manzella,<br />

ed ai quali <strong>Perdu</strong> aveva raccontato in proposito la schietta<br />

verità, lo avevano ammonito che se si fosse incontrato con<br />

tziu Manueli Vargiu doveva avvertirli immediatamente; se<br />

non lo avesse fatto, essi lo avrebbero tratto in arresto come<br />

favoreggiatore di un bandito. <strong>Perdu</strong> non aveva promesso<br />

niente ai carabinieri, si capisce, malgrado tutte le loro minacce,<br />

e comunque si sarebbe ben guardato dal metterli<br />

sulle tracce di tziu Manueli. Tuttavia, quando Sisinnio Puddu<br />

gli ebbe fatto l’imbasciata, la paura che i carabinieri venissero<br />

a saperlo e mettessero in atto le loro minacce, lo<br />

rese un poco perplesso. Decise però che sarebbe andato.<br />

Tziu Peppi Ollargiu non fece alcuna difficoltà a che <strong>Perdu</strong><br />

si allontanasse.<br />

L’incontro era avvenuto di prima notte. La casa di tziu<br />

Diegu era un po’ staccata dall’abitato di Terreluxi, e per<br />

questo, forse, tziu Manueli vi faceva capo.<br />

Il nonno portava a tracolla il fucile. Era molto invecchiato<br />

in quei due mesi, il “maureddu”.<br />

– Ti avevo detto quel giorno – disse il nonno – di venire<br />

a casa e aspettarmi. Perché non l’hai fatto?<br />

129


PERDU<br />

– Si era dimenticato Vustè – disse <strong>Perdu</strong> con una arroganza<br />

mai usata prima col nonno – di dirmi come potessi<br />

fare a campare, qui solo, nel mentre che attendevo Vustè.<br />

– Ah – disse Manueli Vargiu – ed è per questo che ti<br />

sei scelto come padrone Vissenti Tankis?<br />

– No – disse <strong>Perdu</strong> – non l’ho scelto. Mi ha scelto lui.<br />

– Qui – disse il nonno – avresti trovato lavoro dovunque.<br />

Anche Diegu ti avrebbe preso. E come ti tratta Vissenti<br />

Tankis?<br />

– Bene – disse <strong>Perdu</strong> asciutto asciutto.<br />

– Sei andato da lui perché credevi che fosse lui tuo<br />

padre? – domandò con una punta di scherno Manueli<br />

Vargiu.<br />

– Sissi – disse <strong>Perdu</strong>, irritato. – Debbo venire a capo<br />

di questo, se Dio vuole.<br />

– E che dice Vissenti Tankis? Ti considera figlio?<br />

<strong>Perdu</strong> fissò il nonno.<br />

– No – disse lentamente – mi considera servo. Non è<br />

lui mio padre, qualunque cosa dica la gente. Ma vedrà Vustè<br />

che scoprirò chi sia veramente quel disgraziato. Lo saprò<br />

in ogni caso. Ma Vustè, da me, voleva qualcosa?<br />

– Niente, volevo solo vederti – disse il nonno grattandosi<br />

la barba. E la sua voce pareva essersi piegata a una<br />

sfumatura di dolcezza.<br />

– Lo sa Vustè che i carabinieri del re stanno facendo<br />

di tutto per arrestarlo?<br />

– Lo so – disse Manueli Vargiu con olimpica indifferenza.<br />

Dopo questo incontro <strong>Perdu</strong> non aveva mai più rivisto<br />

il nonno, e gli sembrava quasi di averne dimenticato anche<br />

le fattezze. La taciuta avversione che <strong>Perdu</strong>, col passare<br />

dei giorni, si era abituato a nutrire verso tutti i suoi simili,<br />

non aveva risparmiato neppure Manueli Vargiu. Che<br />

gusto era stato il suo di ammazzare Efisio Manzella e di<br />

darsi alla macchia, lasciando <strong>Perdu</strong> tra le canne, a pensare<br />

a se stesso? La vendetta? E qual risultato aveva ottenuto da<br />

130<br />

Capitolo XVII<br />

codesta vendetta, se ora doveva vivere braccato come una<br />

lepre? E poi che vendetta? Di qual natura era il torto che<br />

Efisio Manzella aveva fatto al nonno? Gli aveva ucciso la<br />

figlia, certo, ma il nonno non ignorava – lo aveva detto lui<br />

stesso sul treno di Cagliari – che Efisio Manzella aveva veramente<br />

trovato un uomo nella camera con lei.<br />

Tziu Manueli Vargiu tornò in primo piano nei pensieri<br />

di <strong>Perdu</strong>, una mattina degli ultimi di aprile.<br />

<strong>Perdu</strong> si alzava presto la mattina, soltanto un’ora o<br />

un’ora e mezzo dopo che Maddalena se n’era andata.<br />

C’erano da rigovernare le bestie e riassettare le stalle e<br />

portare in cucina il latte di pecora munto dai pastori per<br />

il fabbisogno della casa.<br />

Quella mattina <strong>Perdu</strong> trovò in cucina le fantesche che<br />

preparavano il pane. La confezione del pane, in <strong>Sardegna</strong>,<br />

è come una liturgia. Nelle grandi case, essa si svolge<br />

di notte al pari di una segreta e santa funzione. Le donne<br />

lavorano la pasta e cantano le loro dolci e malinconiche<br />

nenie. Poi pasta e donne per un poco riposano. Poi si riprende<br />

il canto e il lavoro interrotto. Poi riposo, poi di<br />

nuovo lavoro. E così fino a giorno.<br />

<strong>Perdu</strong> capitò nella pausa della lavorazione che precede<br />

l’“arrotondamento” dei bianchi pani, cioè il compimento<br />

definitivo dell’opera notturna. Le donne sedevano in un<br />

angolo della cucina, su bassi scanni, la ruota delle gonne<br />

afflosciata per terra; e spettegolavano.<br />

<strong>Perdu</strong>, entrando, udì che tzia Licca Pilloni, la più anziana<br />

delle domestiche, diceva:<br />

– Ve lo dico io, era proprio Manueli Vargiu, altro che<br />

quel Rizzieri. Io ne sono così sicura che potrei giurarlo.<br />

Interdetto, <strong>Perdu</strong> si arrestò. Stavano parlando del nonno.<br />

– Ma com’è possibile – diceva un’altra fantesca – una<br />

cosa così incredibile? Io non ci credo.<br />

– Ve lo dico io – ripeté Licca Pilloni – era Manueli<br />

Vargiu. Quando ebbe sentito il genero che sfondava da<br />

fuori la porta, lui se la filò per la finestra perché già c’era<br />

131


PERDU<br />

dell’odio fra loro. E così quella povera Angiuledda ci ha<br />

lasciato la pelle.<br />

– Povera non tanto – diceva una seconda domestica –<br />

anche a lei piaceva fare la cavalla.<br />

<strong>Perdu</strong> irruppe nella cucina, stupito. Che cos’era quella<br />

storia del nonno che si era trovato nella camera ed era<br />

saltato dalla finestra? Il nonno? Che assurdità era mai questa?<br />

Il nonno era l’uomo tanto da lui cercato? Pazzie! Se<br />

n’erano sentite tante sull’identità di questo uomo! Ma donde<br />

nasceva adesso questa nuova versione? Lentamente,<br />

come da sottoterra (lentamente è un modo di dire poiché<br />

nella sua testa le idee zampillavano fulminee), emerse in<br />

lui il ricordo di quella volta che sul treno di Cagliari il<br />

nonno aveva detto: «Ero io, quell’uomo!». E <strong>Perdu</strong> aveva<br />

creduto che volesse soltanto scherzare.<br />

Le donne, al suo arrivo improvviso nella cucina, cambiarono<br />

discorso:<br />

– Che bellezza se egli l’avesse sposata! – disse una,<br />

tanto per dire qualcosa.<br />

Tzia Licca disse:<br />

– Est hora, piccioccas, è l’ora di “arrotondare”.<br />

Ma una giovane domestica non si seppe trattenere, e<br />

disse rivolta a <strong>Perdu</strong>:<br />

– Tuo nonno era, quell’uomo, lo sapevi?<br />

<strong>Perdu</strong> guardò tutte quelle donne con odio, e per la prima<br />

volta nella sua vita capì da se stesso che non era più<br />

ormai un bambino.<br />

– Chi è che lo dice? – domandò alla servetta che aveva<br />

fatto la spia.<br />

– Tzia Licca, lo dice – rispose la servetta.<br />

132<br />

CAPITOLO XVIII<br />

<strong>Perdu</strong> rivide il nonno per la seconda volta ai primi di<br />

giugno. Tziu Peppi Ollargiu gli aveva comandato di portare<br />

a Tinì delle provviste di cibi ai pastori che colà trascorrevano<br />

l’estate con il bestiame. Si trattava di fare sei ore di<br />

cammino a dorso di cavallo e di trattenersi al “medau” almeno<br />

otto giorni perché uno degli uomini doveva scendere<br />

in paese per sue necessità.<br />

<strong>Perdu</strong> non si attendeva di trovare lassù il nonno, ma lo<br />

desiderava fortemente. Dal giorno in cui egli aveva trovato<br />

le donne nella cucina ed aveva saputo che il nonno non<br />

per ischerzo ma per davvero poteva essere l’uomo che si<br />

era trovato nella camera con la madre, egli non bramava<br />

che di trovarsi a tu per tu con tziu Manueli, per chiedergli<br />

spiegazioni. Gli era entrato nell’anima il rovello che le<br />

chiacchiere di tzia Licca Pilloni non fossero semplice maldicenza.<br />

Il ricordo del giorno in cui, sul treno di Cagliari, il<br />

nonno gli aveva detto «ero io, quell’uomo», sempre gli si<br />

riaffacciava alla mente, e sempre più lo tormentava. Ed egli<br />

che aveva creduto ad una burla del nonno. Ma com’era<br />

possibile questo? Non c’era altra via per uscire dall’incertezza,<br />

che domandarlo direttamente a tziu Manueli.<br />

<strong>Perdu</strong> fece sapere a tziu Diegu Puddu che stava per recarsi<br />

a Tinì; sperava in tal modo che la notizia giungesse alle<br />

orecchie del nonno e che questi potesse colà raggiungerlo.<br />

Tinì è distante molte miglia da Iddarta; ed è situato proprio<br />

nel cuore di quella zona montagnosa e vergine in cui<br />

nessun villaggio, nessuna presenza umana s’incontra, fuorché<br />

l’apparizione sporadica di qualche barbuto pastore, fino<br />

alle sponde del mare sul golfo di Teulada. Tinì è una<br />

regione veramente sarda, nella sua selvaggia primitività e,<br />

sotto questo aspetto, è meravigliosa. Le solitudini di quegli<br />

spazi esaltano lo spirito e lo circondano di una pace perfetta<br />

e quasi terrificante. Non c’è nulla o ben poco che ricordi<br />

133


PERDU<br />

il passaggio dell’uomo: le casupole dei “medaus”, le siepi<br />

dei “chiusi”, alcuni stretti sentieri. Il resto è in balìa della<br />

natura. E la natura sconvolge superbamente le cose sue, sì<br />

che gli spettacoli che qui si spalancano paiono creati nella<br />

concitazione di una passeggera ma stupefacente follia.<br />

I pruni, i sugheri, i lentischi, i peri selvatici, gli olivastri e i<br />

mirti coprono i colli e le valli capricciosamente e tumultuosamente,<br />

tranne che in certi luoghi, dove si diradano per<br />

lasciare che trapeli la nuda cervice del monte, cioè la roccia,<br />

non protetta da un solo dito di musco. Forti e piegate,<br />

come per sofferenza, le querce addentano con radici raggianti<br />

la poca terra. Tutta la vegetazione ha un colore verde<br />

cupo, nemico, a meno che non sia primavera, quando fra il<br />

verde scoppiano con letizia i corbezzoli rossi, grandi come<br />

le arance, per i quali, allora, pare che la selva sorrida.<br />

A Tinì, Vissenti Tankis possedeva un “medau”. Vi sono<br />

nel Sulcis “medaus” costituiti da un vero e proprio minuscolo<br />

villaggio ove la gente abita in modo stabile, attendendo<br />

all’allevamento del bestiame, ed altri che invece si<br />

riducono ad un vasto recinto, coperto di una tettoia di rame,<br />

che serve per radunarvi le pecore durante la notte e<br />

nelle ore della “cama”, cioè della canicola, affiancato ad<br />

un baracchino di legno e di sassi per dar ricovero agli uomini.<br />

Il “medau” di Tinì era di questo secondo tipo.<br />

L’attesa di <strong>Perdu</strong> non restò inappagata. Manueli Vargiu<br />

arrivò a Tinì due giorni dopo l’arrivo di <strong>Perdu</strong>.<br />

Era appena avvenuto il tramonto, e l’odore dei mirti,<br />

sovrastante tutti gli altri profumi della selva, si era fatto dolcissimo.<br />

Manueli Vargiu comparve improvvisamente come<br />

una figura sinistra, balzata dalla stessa selvatichezza del<br />

luogo, eppur contrastante con la stanca serenità della sera.<br />

Il vecchio “maureddu” portava, come l’altra volta, il fucile<br />

a tracolla, ma con le canne rivolte in giù, in modo da avere<br />

la possibilità di impugnarlo rapidamente e puntarlo, sia<br />

pure rovesciato, senza sfilarlo dalla spalla. Con questa manovra,<br />

appunto, Manueli Vargiu si era quasi trovato costretto<br />

ad accoppare il cane del “medau” che, quando l’aveva visto<br />

134<br />

Capitolo XVIII<br />

sbucare dai cespugli, gli si era slanciato temerariamente contro<br />

per azzannarlo.<br />

<strong>Perdu</strong> dovette spiegare al pastore col quale stava in<br />

quel momento conversando, e che era rimasto stupito e<br />

un po’ preoccupato di quella apparizione, che si trattava<br />

di suo nonno.<br />

– Che vuoi? – disse subito Manueli Vargiu a <strong>Perdu</strong>,<br />

senza perdersi in cerimonie, e come si fossero lasciati appena<br />

ieri.<br />

– Debbo parlare a Vustè – disse <strong>Perdu</strong> con altrettanta<br />

prontezza.<br />

“Seme d’oliva” era cresciuto, oltreché d’età e di esperienza,<br />

anche di statura. Stando in piedi davanti al nonno,<br />

quasi lo sovrastava.<br />

– Non qui – disse il nonno – scendiamo più in basso<br />

dove ho lasciato il cavallo. Tu non ti muovere – aggiunse<br />

in tono perentorio, rivolto al pastore. – “In nomine ’e<br />

Deus” non ti muovere. E se venisse qualcuno, avventagli<br />

contro il cane e lascialo abbaiare forte, capito?<br />

Il cavallo del nonno attendeva nel folto di una grande<br />

macchia di alloro. Qui tziu Manueli e <strong>Perdu</strong> si fermarono.<br />

– Cos’hai da dirmi? – domandò ancora il “maureddu”.<br />

Ma senza attendere risposta aggiunse: – Ti sei innamorato di<br />

Vissenti Tankis o di sua figlia, per non farmi sapere più se<br />

sei vivo o crepato, e per non informarti se sono crepato io?<br />

– Mi sono innamorato della figlia – disse <strong>Perdu</strong> con<br />

fatuità. – Tutte le notti viene a dormire con me.<br />

Il nonno armeggiava per caricare la pipa. Stava in piedi,<br />

accanto alla testa bruna del piccolo cavallo, che, tratto<br />

tratto, scoteva la criniera e sbuffava. Il cielo era ancora<br />

perlaceo e l’aria alitava affettuosamente, dolce e placida.<br />

– Oh! E tu la…? – chiese il nonno con molta naturalezza.<br />

– No – disse <strong>Perdu</strong> ridendo. To’, non aveva ancora<br />

pensato a una eventualità di tal genere, e la cosa gli appariva,<br />

in quel momento, buffa. Non considerava assolutamente<br />

che il solo pensare una simile stupidità era già<br />

135


PERDU<br />

recare oltraggio alla soave innocenza di Maddalena.<br />

– Stai bene? – disse Manueli Vargiu. – Mangi e bevi?<br />

Se questo c’è, tutto c’è. Che hai da dirmi, nipote?<br />

– Jaju – cominciò <strong>Perdu</strong> facendosi scuro in volto. – Vustè<br />

deve dirmi chi era l’uomo che si trovava con mia madre<br />

quella notte.<br />

Manueli Vargiu guardò il nipote molto a lungo e in silenzio.<br />

Era il suo modo di manifestare sorpresa e inquietudine.<br />

La cannuccia della sua pipa friggeva piano. Dopo<br />

un bel po’, disse lentamente:<br />

– Ero io. Te l’ho già detto una volta.<br />

– Ma allora è vero! – disse <strong>Perdu</strong>, quasi gridando e<br />

stringendo i pugni. – Ma, è vero, o Vustè sta scherzando?<br />

Il cavallo di tziu Manueli, sorpreso dalle grida di <strong>Perdu</strong>,<br />

aveva voltato la testa e, come affacciandosi al disopra<br />

della spalla del nonno, osservava il ragazzo con molta curiosità.<br />

I suoi occhi grandi, rotondi e neri, visti così da vicino<br />

sembravano pieni di ombre e di malinconia. Sembravano<br />

pieni di bontà, forse di compassione. Chi può dire<br />

se le bestie non hanno compassione degli uomini?<br />

– Non scherzo – disse il nonno alzando le spalle – è<br />

vero.<br />

Sembrò che <strong>Perdu</strong> avesse ricevuto un pugno alla bocca<br />

dello stomaco. Realmente sentiva dolere le viscere come<br />

per una percossa al ventre. Le mani che ancora teneva<br />

chiuse strettamente a pugno, con lentezza si schiusero; ma<br />

un fremito ne percorreva i tendini, come se esse aspettassero<br />

l’ordine per afferrare Manueli Vargiu e strozzarlo.<br />

Gli occhi del “maureddu”, piantati sull’intera figura di<br />

<strong>Perdu</strong>, parevano indovinare ogni sua più profonda reazione<br />

nervosa; pareva che trapassassero abiti e pelle, e vedessero<br />

agitarsi i comandi della volontà e le terminazioni dei<br />

muscoli del ragazzo. Infatti quando – fu un attimo – <strong>Perdu</strong><br />

accennò, solamente accennò (chissà, forse vacillò soltanto),<br />

a slanciarsi in avanti, tziu Manueli con una terribile<br />

prontezza rialzò da dietro la schiena le canne del fucile<br />

che teneva a tracolla e:<br />

136<br />

Capitolo XVIII<br />

– Guardati! – gridò. Poi aggiunse con voce più calma<br />

ma vibrante e netta: – Sei un imbecille, “piccioccu”, per<br />

quello che pensi e che stavi facendo. Ma che credi?<br />

– Jaju – disse <strong>Perdu</strong>, tornando in sé, con tono di voce<br />

sommesso e triste, – non mi faccia del male –. E non si<br />

capì (nemmeno lui lo capiva) se alludesse alle canne del<br />

fucile rialzato o alle spiegazioni che tziu Manueli pareva<br />

voler dare.<br />

– Ero io, sicuro – disse il vecchio, – ma non andavo<br />

per… (<strong>Perdu</strong> si sentì camminare lungo la spina dorsale<br />

una punta di freddo ghiaccia, e una sensazione remota di<br />

vomito risalì verso la gola). Non… che pazzie! Ero venuto<br />

per trovare mia figlia. Era mia figlia, no? Quello non voleva<br />

che io la vedessi. Io volevo invece vederla. Una volta<br />

tanto! Tu eri già addormentato, quella sera. Credevo che<br />

“lui” non tornasse. Invece tornò. È tutto qui.<br />

– Ma perché? – chiese <strong>Perdu</strong> quasi piangendo – perché<br />

Vustè non ha detto tutto questo, mai, a nessuno?<br />

– Credi che sarebbe servito a qualcosa? Tutti avrebbero<br />

pensato che… Se lo hai pensato perfino tu!<br />

– Ma perché, allora, Vustè non è rimasto a casa quando<br />

arrivò Efisio Manzella? Perché Vustè ha lasciato che sua<br />

figlia venisse ammazzata? Perché non ha detto a Efisio<br />

Manzella «guarda che sono io»? Perché Vustè se n’è andato?<br />

Perché?<br />

Tziu Manueli pareva sopraffatto dall’impeto con cui<br />

<strong>Perdu</strong> parlava. Si aveva l’impressione che il ragazzo, parlando,<br />

cercasse di sbarazzarsi con furia dei dubbi che, come<br />

serpi, gli mordevano il cuore.<br />

– Era geloso – disse tziu Manueli.<br />

– Chi? – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

– Issu – disse il nonno. – Efisio Manzella.<br />

– Geloso?<br />

– Geloso. Già, era geloso di me. Non voleva che tua<br />

madre parlasse con me. Quell’idiota!<br />

– Ma perché?<br />

– Chiediglielo, se lo vedi!<br />

137


PERDU<br />

– Forse perché Vustè non voleva che mamai lo sposasse?<br />

– Forse.<br />

– E perché non voleva, Vustè? – chiese <strong>Perdu</strong>.<br />

Il cielo andava facendosi cupo. Nell’oriente comparve,<br />

grossissima, la stella di Vespero.<br />

– Non mi piaceva, “issu” – disse Manueli Vargiu –<br />

mah!, forse temevo che doveva finire così. Ora è tardi, nipote,<br />

debbo andare.<br />

– Ascolti, jaju – disse <strong>Perdu</strong>. – Perché di tutto questo,<br />

almeno a me, Vustè non me ne aveva mai parlato?<br />

– Perché solo adesso mi accorgo – disse il “maureddu”<br />

con accento di grande sincerità – che sei diventato un uomo.<br />

Prima che cosa eri? –. E aggiunse ridendo e mettendosi<br />

in sella: – Eri una foglia di ficodindia appena spuntata.<br />

Adios, <strong>Perdu</strong>, non avere timore.<br />

– Ancora una cosa, jaju – disse <strong>Perdu</strong> trattenendo il<br />

cavallo per il morso. Fece una pausa. Poi disse con voce<br />

accorata: – Vustè non sa proprio chi sia, mio padre?<br />

Il nonno guardò tra le orecchie del cavallo fissamente.<br />

– Non lo so, <strong>Perdu</strong> – disse. – Solo Dio lo sa, se lo sa.<br />

Deus scit tottu, così dicono. Ma degli uomini nessuno sa<br />

con certezza chi sia suo padre.<br />

<strong>Perdu</strong> chinò il capo.<br />

– Va bene – disse – adiosu, jaju.<br />

Tornato a Iddarta, <strong>Perdu</strong> mise alle strette tzia Licca Pilloni.<br />

Voleva sbugiardarla.<br />

– Sissi – disse <strong>Perdu</strong> alla vecchia serva – andatelo pure<br />

a ridire che c’era mio nonno in casa con mia madre la<br />

notte che fu uccisa. È vero. Anche mio nonno riconosce<br />

che è vero. E con questo? Era andato a trovarla perché era<br />

sua figlia. Era sua figlia, no?<br />

– Poveretto! – disse tzia Licca con lingua viperina, incurante<br />

del male che poteva fare al ragazzo. – Poveretto!<br />

Era andato a trovarla come figlia, eh? Perché non ci andava<br />

di giorno?<br />

Era un’obiezione sensata, pensò <strong>Perdu</strong>. Perché proprio<br />

138<br />

Capitolo XVIII<br />

di notte e per di più a notte fonda? Forse per non farsi vedere<br />

dalla gente che avrebbe poi potuto riferirlo a Efisio<br />

Manzella. <strong>Perdu</strong> comunque si rammaricava di non aver<br />

fatto la stessa obiezione al nonno. Forse egli avrebbe potuto<br />

chiarire anche questo punto.<br />

Ma tzia Licca non aveva finito.<br />

– Guardate, a trovare la figlia! E perché è scappato<br />

dalla finestra? E perché non ha mai parlato neanche davanti<br />

alla giustizia, lui che ci teneva tanto a mandare Efisio<br />

Manzella in galera? Se avesse detto che era lui quell’uomo,<br />

e che era andato a trovare la figlia con oneste intenzioni,<br />

Efisio Manzella non sarebbe tornato a casa così presto. Ma<br />

i giudici, a Manueli Vargiu, gnèffete che gli avrebbero creduto.<br />

E gli dovrei credere io? Digli che lo venga a dire a<br />

me, che so cosa rispondergli. Due anni è stata Angiuledda<br />

Vargiu in questa casa, non un giorno, due anni. Era buona,<br />

lei. “Issu” l’ha rovinata, sua figlia. Me lo ha detto lei.<br />

Non me lo sono inventato io; me lo ha confidato proprio<br />

lei, in queste orecchie!<br />

– E stia zitta – urlò <strong>Perdu</strong>, avventandosi sulla vecchia e<br />

afferrandole le braccia. Il viso del ragazzo era veramente<br />

stravolto. Le cose che la donna diceva tanto più gli facevano<br />

male, quanto più gli apparivano, chissà perché, vere e<br />

irrefutabili.<br />

Tzia Licca tacque, ma per poco. Vecchia com’era, e<br />

brutta e scarmigliata, chinò la testa da un lato e disse, comicamente,<br />

a <strong>Perdu</strong> che continuava a tenerla:<br />

– Agnello mio, ma tu sai chi è tuo padre?<br />

<strong>Perdu</strong> lasciò la presa. Le mani gli caddero pesantemente<br />

lungo i fianchi, e il volto gli si sbiancò.<br />

– No. Chini est? – disse con un filo di voce.<br />

– Issu est! – disse con voce stridula tzia Licca Pilloni, ridendo<br />

a crepapelle. – È tuo nonno. Tuo padre è tuo nonno.<br />

Ma tu non lo sapevi? Ah, ah, tuo padre è tuo nonno, e<br />

tuo nonno è tuo padre, ah, ah! Non lo sapevi? –. E rideva,<br />

rideva, come se fosse diventata scema, oppure come se si<br />

divertisse veramente molto.<br />

139


CAPITOLO XIX<br />

Tziu Manueli Vargiu fu catturato alla fine di quello<br />

stesso mese di giugno in cui era avvenuto il suo ultimo incontro<br />

con <strong>Perdu</strong> presso il “medau” di Tinì.<br />

Si sarebbe detto che il vecchio si fosse ormai rassegnato<br />

a lasciarsi prendere, perché non aveva opposto la<br />

minima resistenza ai carabinieri che lo arrestarono, non<br />

solo, ma era caduto nella trappola che quelli gli avevano<br />

tesa, con una ingenuità troppo grossolana per un uomo<br />

che aveva saputo tenere in scacco le forze dell’ordine per<br />

quasi due anni. Ed infatti, consegnandosi ai carabinieri e<br />

offrendo i polsi alle manette, aveva detto con insolenza:<br />

– Avevo compassione di voi. Mi dispiaceva vedervi<br />

ancora faticare per prendermi.<br />

<strong>Perdu</strong> ebbe notizie della cattura il giorno successivo.<br />

La cosa ch’egli subito desiderò, fu di parlare immediatamente<br />

con tziu Manueli. Non si preoccupò minimamente<br />

del fatto che il nonno si trovasse in prigione.<br />

Le condizioni del ragazzo, dopo l’episodio del colloquio<br />

con tzia Licca Pilloni, si erano fatte allarmanti. Egli<br />

pareva impazzito. Lunghe ore se ne stava disteso sul nudo<br />

pavimento, lassù nel pagliaio, senza né vedere né comprendere<br />

niente. L’idea che la vecchia ancora una volta<br />

potesse avere ragione gli dava acuti deliri. Egli non riusciva<br />

realmente a capacitarsi della enormità ch’era nelle parole<br />

della domestica. Ma le frasi di lei gli rimbombavano<br />

dentro le orecchie, come il fragore delle ruote di venti carri<br />

di grano marcianti tutti insieme su una strada rocciosa.<br />

Era anche la malaria che, risvegliatasi nelle sue vene,<br />

gli fustigava il giovane corpo, già provato duramente dalla<br />

crisi di una troppo rapida crescita. Spesso la fronte gli ardeva,<br />

gli occhi gli si facevano lucidi, il capo accusava vertigini<br />

e nella bocca compariva la sensazione di un invincibile<br />

140<br />

disgusto. Erano i sintomi della perfida febbre malarica.<br />

A causa di tali sue condizioni, <strong>Perdu</strong> non poteva più<br />

recarsi al lavoro. Maddalena Tankis, sfidando ormai apertamente<br />

le ire paterne ed ogni malevola interpretazione<br />

che da qualunque parte potesse darsi alla sua condotta –<br />

il che, per una ragazza sulcitana, è come scendere in<br />

campo contro tutti, e romperla con le tradizioni, il riserbo<br />

e il senso stesso della castigatezza, cui ogni donna, là, è<br />

ferreamente tenuta – si recava anche di giorno e per lunghissime<br />

ore, presso il giaciglio di <strong>Perdu</strong>. Gli aveva anzi<br />

proposto di lasciarsi trasferire nella casa padronale, almeno<br />

fino a che fosse guarito. Ma <strong>Perdu</strong> si era sempre recisamente<br />

rifiutato.<br />

– Non ho nulla – diceva, anche quando era febbricitante<br />

– non ho nulla. Vustè, non si prenda preoccupazione<br />

per me.<br />

Nemmeno si era deciso, mai, a rivelare a Maddalena<br />

le vere ragioni della sua sofferenza interiore.<br />

– Non ho niente, Vustè, non ho niente – era il suo ritornello.<br />

– Ma hai la “temperie”, <strong>Perdu</strong>, sei malato – diceva<br />

Maddalena.<br />

– Se muoio, tziedda, non le darò più tanto fastidio.<br />

Dica che mi sotterrino sotto una siepe di fichidindia. Così<br />

nessuno, per paura di pungersi, verrà a cercarmi. Non mi<br />

faccia sotterrare a Terreluxi. Non voglio andare a Terreluxi.<br />

Là ci sta “issa” – alludeva alla madre. – Non voglio tornare<br />

con lei. Nemmeno morto.<br />

– Sei pazzo, <strong>Perdu</strong> – diceva Maddalena – la febbre ti<br />

dà il delirio. Farò venire il dottore.<br />

– Non lo faccia, Vustè. No, non lo faccia. Scapperei.<br />

Non ho voglia di vedere nessuno. Se a Vustè faccio pena,<br />

non ci venga, se ne stia a casa sua. Là c’è fresco…<br />

«Agnello mio, ma tu sai chi è tuo padre? È tuo nonno.<br />

Non lo sapevi? Issu est, issu est, non lo sapevi? Non io me<br />

lo sono inventato; me l’ha confidato tua madre. Issu est».<br />

141


PERDU<br />

Fra il delirio della febbre, queste erano le parole che gli<br />

tornavano tormentose nella memoria. E il riso di tzia Licca<br />

Pilloni, sinistro, come il gracchiare di uno sciame di corvi,<br />

gli rimbalzava contro le pareti del cranio, incessante.<br />

Per tutta la vita, sostanzialmente, egli era andato alla<br />

caccia affannosa di risolvere quel problema: chi è mio padre?<br />

Questo era stato l’interrogativo angoscioso attorno al<br />

quale aveva ruotato fino a quel giorno la sua esistenza. Mille<br />

volte aveva desiderato conoscere il misterioso genitore;<br />

mille volte, disperato, gli aveva mandato cocenti maledizioni.<br />

Ora ecco: l’uomo, il nome, il volto che gli erano sempre<br />

sfuggiti, che sempre si erano sottratti alle sue ossessionanti<br />

ricerche, di colpo si rivelavano, di colpo il mistero si squarciava,<br />

e l’uomo il nome il volto si concretavano in… Oh,<br />

mio Dio, non è possibile, oh no, non può essere possibile!<br />

«Issu est». Per quattordici anni, quanti <strong>Perdu</strong> ormai ne<br />

contava, persistente e ossessiva era stata l’attesa: chi è mio<br />

padre? Chi è mio padre? «Vedrà Vustè» aveva detto <strong>Perdu</strong><br />

un giorno a tziu Manueli Vargiu «che scoprirò finalmente<br />

chi è quel disgraziato. Lo saprò in ogni caso». Ecco, lo<br />

aveva saputo: «Issu est!». Tutte le soluzioni poteva egli<br />

considerare possibili. Ma questa no, questa no!<br />

La notizia della cattura del nonno fu recata a <strong>Perdu</strong> da<br />

Maddalena Tankis, naturalmente. Era la sola persona che<br />

lo avvicinasse, ormai, tolta qualche fugace visita di tziu<br />

Peppi Ollargiu, il quale, andandosene, scrollava ogni volta<br />

la testa e ripeteva tra sé il vecchio proverbio sulcitano:<br />

«Pianta di lentischio, non dà che olio di semi».<br />

<strong>Perdu</strong> disse a Maddalena:<br />

– Bisogna che gli parli, tziedda, prima che lo portino<br />

via. Devo chiedergli una cosa molto importante, sa, Vustè?<br />

– A tuo nonno? E che cosa? – aveva domandato Maddalena.<br />

– Quello che sono venuto a chiedere a tziu Vissenti<br />

Tankis, il giorno che arrivai qui, si ricorda? Vustè – proseguì<br />

<strong>Perdu</strong> – è ancora convinta che tziu Vissenti Tankis sia<br />

davvero mio padre?<br />

142<br />

Capitolo XIX<br />

– Certo, <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena – perché non dovrebbe<br />

esserlo più?<br />

– Perché non lo è mai stato! – urlò <strong>Perdu</strong>. – No e no!<br />

– e nella mente gli martellavano le tre sillabe: Issu est, issu<br />

est, issu est.<br />

– Vedrai, <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena passandogli le mani<br />

sui capelli soavemente. – Babai finirà per convincersi e<br />

ti accetterà come figlio. Perciò pensa a guarire, e lasciati<br />

curare…<br />

143


CAPITOLO XX<br />

Giugno, in sardo, è detto “il mese dei lampi”, che è<br />

un’espressione, oltreché suggestiva, felice, poiché veramente<br />

in quel mese, laggiù, il caldo è tanto che par che<br />

l’aria abbarbagli e lampeggi.<br />

Era infatti una lampeggiante giornata di sole quella in<br />

cui <strong>Perdu</strong>, per la terza volta dopo l’uccisione di Efisio<br />

Manzella, si incontrò con tziu Manueli Vargiu.<br />

Il carcere mandamentale di Iddarta, dove il vecchio si<br />

trovava rinchiuso e dove <strong>Perdu</strong> si recò a trovarlo, è poco<br />

distante dalla piazza di chiesa.<br />

Il capo-carcere Fideli Aresu introdusse <strong>Perdu</strong> nel corridoio<br />

della prigione; è lì che si svolgono generalmente i<br />

colloqui con gli arrestati, sotto la sorveglianza di un secondino;<br />

ma poiché laggiù le regole carcerarie sono ammorbidite<br />

da una interpretazione un po’ campagnola e quasi<br />

familiare, Fideli Aresu, data un’occhiata a <strong>Perdu</strong> e forse<br />

colpito dalla sua aria sgomenta, non ebbe difficoltà a far<br />

passare il ragazzo direttamente nella cella di isolamento<br />

del recluso.<br />

<strong>Perdu</strong> sentiva il proprio cuore sbattere dentro il torace,<br />

come fanno dentro la gabbia gli uccelli che non patiscono<br />

cattività.<br />

Tziu Manueli indossava ancora il costume “maureddu”<br />

con le monetine per bottoni, tutte recanti la testa del<br />

re per emblema, di quel re che aveva pagato i gendarmi<br />

per catturare il gran vecchio.<br />

Il quale, rialzatosi all’apparire di <strong>Perdu</strong> dal saccone su<br />

cui giaceva, salutò il nuovo venuto con apparente gaiezza:<br />

– Salute, nipote, ho piacere di rivederti. Spero che ti<br />

spiaccia di trovarmi qua dentro. Ma non ti preoccupare poi<br />

tanto. Il cinghiale fugge dal cacciatore, ma quando diventa<br />

vecchio è lui stesso che gli si getta fra i piedi e cerca le fucilate.<br />

E io – aggiunse dopo un po’ – sono un cinghiale<br />

144<br />

vecchio –. Rise, stridulo, come se facesse il verso del barbagianni.<br />

Questo discorso, come <strong>Perdu</strong> notò, era per tziu Manueli<br />

uno spreco di loquacità. La prigione, evidentemente,<br />

apriva il suo cuore alla comunione con gli uomini.<br />

<strong>Perdu</strong> non disse niente.<br />

– Bah, questa, nipote – riprese tziu Manueli senza curarsene<br />

– è l’ultima volta che noi ci vediamo –. E, indicando<br />

con entrambe le mani il pavimento, aggiunse: – Qui –.<br />

Come per significare “in questo mondo”.<br />

– Fra un mese o due – disse ancora Manueli Vargiu<br />

con molta calma, – tuo nonno sarà bell’e fatto –. Si puntò<br />

l’indice di una mano alla tempia e fece il gesto di chi spari<br />

con la pistola; poi stropicciò fra loro le mani e concluse:<br />

– Acabau. Finito. Questa volta non ci sarà remissione<br />

per me. “Premeditazione” e “recidiva”! –. Compitò queste<br />

due ultime parole in italiano, storpiandole, e di nuovo rise,<br />

sempre col verso del barbagianni.<br />

– Fortuna che tu, agnello mio – terminò Manueli Vargiu,<br />

– sai ormai camminare con le tue proprie gambe.<br />

<strong>Perdu</strong> guardava il vecchio, allibito. Cercava di richiamare<br />

nel suo cuore i sentimenti tumultuosi che lo avevano<br />

sconvolto fino a un minuto prima. Invano. Il cuore<br />

pareva esserglisi svuotato d’un tratto. Ma egli non si sentiva<br />

per ciò sollevato; si sentiva invece stanchissimo, come<br />

colui che ha recato un pesante fardello per un lungo sentiero,<br />

e giunto alla meta depone il suo carico e quindi si<br />

accascia. La sua voce, quando gli uscì dalle labbra, era<br />

neutra e remissiva, quasi umile.<br />

– Jaju – disse – sono venuto per domandarle una cosa<br />

sola: è vero che Vustè è mio padre?<br />

<strong>Perdu</strong> era in piedi, con le spalle verso la porta. Anche<br />

tziu Manueli era in piedi, ritto dinanzi al ragazzo. La luce<br />

che spioveva dalla “bocca di lupo” investendo alle spalle<br />

il “maureddu” circonfondeva la sua figura e gli illuminava<br />

intensamente la chioma, la zazzera singolare e quasi muliebre<br />

dei vecchi sulcitani.<br />

145


PERDU<br />

Tacquero lungamente tutt’e due. Si percepivano dal<br />

cortile, attraverso la “bocca di lupo”, i ronzii dell’estate.<br />

– Ascolta, figliolo… – cominciò tziu Manueli, senza<br />

muovere un muscolo, e come se, così cupamente stagliato<br />

contro la chiarità della luce, fosse diventato di sasso.<br />

Di colpo l’angoscia riaffluì tempestosa, nel cuore sospeso<br />

di <strong>Perdu</strong>. E con l’angoscia, l’orgasmo e la paura.<br />

– È mio padre, sì o no? – urlò <strong>Perdu</strong>, avvinghiandosi,<br />

con le mani dietro la schiena, allo stipite della porta. Le<br />

sue unghie raschiavano il legno come zampe di cane.<br />

Altro silenzio, che a <strong>Perdu</strong> parve lunghissimo. E in<br />

quel silenzio un furore cupo, e tuttavia paralizzante, come<br />

se la paura lo frenasse e lo rallentasse, invadeva l’animo<br />

del ragazzo.<br />

– Forse! – disse Manueli Vargiu, quasi all’improvviso,<br />

con voce sommessa, levando una mano e passandosela<br />

sotto il mento, come per accarezzare sul rovescio la barba.<br />

<strong>Perdu</strong> si sentì raggelare e avvampare nel medesimo<br />

tempo. Sentì che le ossa, i muscoli, soprattutto le articolazioni<br />

delle ginocchia e dei gomiti erano attraversate da<br />

brividi, mentre il viso, e in particolar modo le orecchie,<br />

diventavano brucianti. O forse era tutto il contrario: non<br />

riusciva a capire più chiaramente. Freddo o caldo, egli fu<br />

scosso violentemente da sussulti e da scrolli, come un<br />

giovane albero sotto i primi colpi di scure.<br />

– Forse? Ma allora è vero? Allora mia madre ha fatto<br />

anche con Vustè…?<br />

Le unghie cessarono di raschiare la porta. Una forza,<br />

un impeto subitaneo svegliatosi nelle sue membra, lo sollecitava<br />

in avanti, verso la figura del vecchio che lo fissava.<br />

Ma una sorta di sorpresa lo fermò. Che cosa aveva<br />

detto? Quale il senso esatto delle parole che egli stesso<br />

aveva pronunziate? Non se n’era reso ben conto, dicendole.<br />

Fu il suono, il rumore che produssero piombando nel<br />

silenzio che gliene fece apparire chiaramente il significato.<br />

Appena ebbe compreso che quella domanda significava<br />

una cosa tremenda, fu invaso dallo stupore. Arretrando<br />

146<br />

Capitolo XX<br />

si appoggiò con la schiena al battente della porta, vi si<br />

schiacciò tutto contro, aderendovi per l’intera lunghezza del<br />

corpo, come se temesse di perdere l’equilibrio e cadere,<br />

oppure come se cercasse, col proprio peso, di sfondare il<br />

battente e fuggire all’indietro per allontanarsi da qualche<br />

cosa di spaventoso che gli si parava davanti. Si ricordò allora,<br />

improvvisamente, di quel remoto sogno che aveva fatto<br />

la notte in cui era stata uccisa sua madre. Manueli Vargiu<br />

camminava nella radura del bosco, e d’un tratto si convertiva<br />

in belva, in un essere immondo che i carabinieri del re…<br />

Sì, ricordava; egli era solo dinanzi a quella metamorfosi, ed<br />

aveva paura, come ora, e qualcuno urlava e urlava, ed era<br />

invece la mamma che Efisio Manzella stava uccidendo.<br />

– Ascolta… – disse nuovamente Manuele Vargiu, fissando<br />

a sua volta il ragazzo e stringendo gli occhi, sui<br />

quali le palpebre si accartocciavano come foglie morte.<br />

– Ascolto – disse docilmente <strong>Perdu</strong>. Anche aprire la<br />

bocca per dire questo, gli costava fatica. Lo stato di stupore<br />

perdurava. La paura gli si convertiva stranamente in<br />

una sorta di ebetudine attonita, quasi di estasi. Soltanto la<br />

nausea, avvertiva: un senso di disgusto e di vomito, che<br />

chissà per quanta parte era dovuto alla febbre malarica,<br />

chissà per quant’altra alla luce improvvisa che, come una<br />

rivelazione, gli aveva illuminato, così credeva, la mente.<br />

Manueli Vargiu si sedette pesantemente sul tavolaccio,<br />

con un tonfo sordo e attutito come di un sacco di crusca<br />

caduto in terra. Una riga di sole vivido, ora che il vecchio<br />

si era tolto d’innanzi, lambiva i piedi di <strong>Perdu</strong> scendendo<br />

obliqua dall’alto.<br />

– Io non so se sono o non sono tuo padre, “piccioccu”<br />

– prese a dire il “maureddu”.<br />

<strong>Perdu</strong> lo interruppe:<br />

– Lo è!<br />

– Non posso dirlo – proseguì tziu Manueli senza badare<br />

al ragazzo. – Io ti ho detto una volta che nessuno nel<br />

mondo può essere sicuro d’esser figlio di Fulanu piuttosto<br />

che di Nannai Peddis. Dio solo può dirlo.<br />

147


PERDU<br />

– È Vustè, mio padre – si ostinava <strong>Perdu</strong>, con gli occhi<br />

sbarrati.<br />

– Può darsi – disse il vecchio alzando le spalle e guardandosi<br />

le mani che teneva intrecciate fra le cosce, mentre i<br />

pollici, come sogliono fare i vecchi per passatempo, ruotavano<br />

velocemente l’uno attorno all’altro. Sembrava che egli,<br />

fatta quest’ammissione, non avesse proprio altro da dire.<br />

Il ragazzo guardò Manueli Vargiu seduto e chino: sembrava<br />

un coltello a serramanico dalla lama richiusa.<br />

Fu proprio nel considerare il vecchio così chino e raccolto,<br />

che <strong>Perdu</strong> si scrollò subitamente dal suo torpore.<br />

Curva e vasta era la schiena dell’uomo, e <strong>Perdu</strong>, risvegliatosi<br />

il suo animo all’ira, sentì l’impeto di saltargli addosso e<br />

riempirla, quella schiena, di pugni. Ma si trattenne. Disse:<br />

– Mamai, dunque… anche con Vustè!<br />

Ripeteva, in fondo, le parole già dette. Ma stavolta più<br />

consciamente e in tono non più di domanda, bensì di<br />

disprezzo e di accusa.<br />

– Con Vustè! Anche con Vustè!<br />

Il vecchio non dette risposta. <strong>Perdu</strong> aggiunse:<br />

– Ed era sua figlia, e Vustè era suo padre.<br />

Il vecchio taceva sempre.<br />

– Perché non parla? – gridò pieno di furore il ragazzo.<br />

Tziu Manueli volse in alto la faccia e guardò <strong>Perdu</strong><br />

con attenzione. Pareva curioso di leggergli in viso i pensieri.<br />

E pareva stupito, sia pure blandamente, di scorgervi<br />

la sofferenza.<br />

Si levò, puntellando le braccia sulle ginocchia e gemendo<br />

– ohi, ohi faceva – quasi gli seccasse di alzarsi e<br />

di entrare nella discussione.<br />

– Tua madre non c’entra – disse, quando fu in piedi.<br />

– Ero io che la costringevo. Che altro vuoi sapere da me?<br />

–. La sua voce, ora, era dura ed autoritaria.<br />

– Non ci credo – disse <strong>Perdu</strong>. Ma, rapida ed improvvisa,<br />

giunse sulla faccia di lui una percossa sonora.<br />

– Ah! – fece <strong>Perdu</strong>, e si portò la mano incerta sulla parte<br />

dolente del viso. Non disse altro. L’ira si placò, il cervello<br />

148<br />

Capitolo XX<br />

prese a ronzargli. Sembrava che dentro la testa non avesse<br />

pensieri, ma suoni, come se uno sciame di api vi fossero<br />

entrate non diversamente che in un’arnia. E tuttavia percepì<br />

quel che tziu Manueli a un certo punto aveva detto.<br />

Tziu Manueli aveva detto:<br />

– Non era mia figlia.<br />

– Non era? – domandò <strong>Perdu</strong> a voce alta, stupito. Ma<br />

poi gli parve che il vecchio volesse ingannarlo come altre<br />

volte. – Ah – aggiunse quasi beffardo – questo mi fa piacere.<br />

– Piacere o no – disse Manueli Vargiu – così è. Uhm –<br />

riprese il vecchio – nemmeno a questo, ora, tu credi –. E<br />

gracchiò quel suo strano riso di gola, comico e lugubre,<br />

che pareva il lamento di un uccello notturno. Forse, con<br />

quel riso, il “maureddu” intendeva compassionare <strong>Perdu</strong><br />

che non credeva, o forse se stesso che non era creduto.<br />

Oppure intendeva più semplicemente significare che non<br />

sapeva proprio che farci.<br />

– Ci credo – disse <strong>Perdu</strong>, sempre beffardo. – Mia madre<br />

non era la figlia di Vustè. Era la sorella.<br />

– Sorella? No – disse il vecchio – era la figlia di mia<br />

moglie. Lo sai, “burricu” – aggiunse subito dopo, troncando<br />

con questo epiteto l’interruzione che vide spuntare<br />

sulle labbra di <strong>Perdu</strong>, – lo sai che da giovane avevo ucciso<br />

un uomo?<br />

<strong>Perdu</strong> non rispose. Non riusciva a capire che cosa<br />

c’entrasse questa storia. Il “maureddu” si lasciò di nuovo<br />

cadere sul tavolaccio e ripiegatosi ancora su se stesso prese<br />

a lisciarsi le ginocchia rimaste a nudo, fuor delle brache<br />

d’orbace, e ad osservare per terra.<br />

– Lo avevo ucciso per gelosia – prese a narrare il vecchio,<br />

quasi parlasse con qualcuno sottoterra. – Perché c’era<br />

una donna che mi piaceva e piaceva anche a quello. Io l’ho<br />

ucciso e mi sono preso la donna. La dovevo ben sposare<br />

per… Bah, si poteva fare anche senza sposarsi, ma non si<br />

usava. Quando la sposai i carabinieri mi arrestarono. Perciò<br />

non potetti… Ih, ih.<br />

149


PERDU<br />

Il vecchio si guardò le mani, sul dorso e sul palmo,<br />

poi riprese a passarsele carezzevolmente sulle ginocchia.<br />

– Dodici anni mi hanno fatto fare di prigione. E quando<br />

tornai, la donna che avevo sposata senza poterla… era<br />

morta.<br />

Tziu Manueli levò in alto le mani e le batté insieme con<br />

forza sulle cosce, ripetendo quest’atto più volte come fanno<br />

le prefiche nelle mercenarie disperazioni. Alla fine si alzò.<br />

– Uff! – disse. – Era morta, al diavolo anche lei. Ma<br />

c’era rimasta tua madre. Come poteva essere, per il demonio,<br />

mia figlia, se io con la madre di lei non…?<br />

<strong>Perdu</strong> ascoltava in silenzio. Non sapeva se credere o<br />

se non credere al vecchio, a proposito di ciò che questi<br />

diceva sul conto di Angiuledda. Era o non era sua figlia, la<br />

mamma? Ma non è questo che importava. Una cosa ben<br />

più importante, per lui, era fuori di dubbio: il vecchio era<br />

suo padre.<br />

«È mio padre» si ripeteva con sgomento. «Questo è mio<br />

padre». Lo aveva cercato per tanto tempo e lo aveva avuto<br />

sempre sotto gli occhi. «Questo è mio padre». Lo osservava<br />

muoversi, gesticolare, sedersi; lo udiva ridacchiare in quel<br />

modo irritante, gorgogliante, soffocato nella strozza. C’era<br />

stata sempre in lui, segreta, non confessata neppure a se<br />

stesso, una trepidazione infantile, quasi tenera, nell’ansia<br />

con la quale aveva cercato di scoprire chi fosse suo padre.<br />

Ora si sentiva defraudato di qualche cosa. Eccolo lì,<br />

suo padre: un vecchio, un assassino. Di suo padre, quando<br />

non lo conosceva, soleva dire: «quel disgraziato» «quel<br />

vigliacco», ma sapeva che, ritrovatolo, si sarebbe sentito<br />

afferrare da uno strano senso di gioia. Ora no, questo non<br />

accadeva. Suo padre era costui, e non provava nessuna<br />

gioia, ma orrore. Che freddo aveva sentito lungo la spina<br />

dorsale quando il “maureddu” rievocando quel suo lontano<br />

omicidio si era guardato le mani. Ora poteva vederlo,<br />

toccarlo, suo padre.<br />

<strong>Perdu</strong> capiva perfettamente dove il vecchio voleva arrivare.<br />

Voleva persuaderlo che “issa”, cioè sua madre, non<br />

150<br />

Capitolo XX<br />

gli era figlia, e che non c’era stato quindi vero peccato.<br />

Furbo il vecchio! Ma <strong>Perdu</strong> non s’arrendeva. Stava attento<br />

al racconto del “maureddu”, unicamente per sentirlo giungere<br />

all’episodio di quando loro due, padre e figlia, si erano…<br />

e poi lui era nato.<br />

– Io non so come sia avvenuto – diceva Manueli Vargiu.<br />

– “Issa” non voleva; protestava che era mia figlia e che<br />

era peccato. Non era mia figlia, per il demonio, chi poteva<br />

saperlo meglio di me? Hai capito che non era mia figlia?<br />

<strong>Perdu</strong> annuì, rassegnato. Aspettava che il racconto<br />

proseguisse. Ma il vecchio lo guardò drittamente e, avanzando,<br />

gli si pose dinanzi.<br />

– Tu non ci credi – disse.<br />

– No – disse <strong>Perdu</strong>.<br />

Il vecchio disse:<br />

– Non l’ho mai confidato a nessuno che non era mia<br />

figlia, perché questo significava disonorarsi. L’ho detto a<br />

te, e tu non ci credi. Ah, ci trattiamo davvero da padre e<br />

figlio.<br />

– Dunque vede che è vero che Vustè è mio padre e<br />

che…<br />

– Ascolta, “piccioccu” – disse Manueli Vargiu aggrottando<br />

la fronte. – A te preme sapere se io sono tuo padre.<br />

Lo sono. Così credo. Ma a me preme tu sappia che “issa”<br />

non era mia figlia. Non era – ripeté il vecchio urlando –<br />

era figlia di un altro che si era presa mia moglie mentre io<br />

ero in prigione.<br />

– E come è avvenuto – domandò <strong>Perdu</strong>, fisso nel suo<br />

pensiero – che Vustè… che “issa”… che Vustè è mio padre?<br />

– Che diavolo vuoi sapere? Te l’ho detto. L’ho costretta.<br />

Mi volevo anche vendicare, rifare… Forse era una dannazione.<br />

Il capo-carcere Fideli Aresu batté con la scarpa nella<br />

porta della cella e disse:<br />

– È ora di chiusura. Sbrigatevi.<br />

Il rumore dei suoi passi si perdeva nel corridoio.<br />

– Io… – riprese Manueli Vargiu.<br />

151


PERDU<br />

<strong>Perdu</strong> lo interruppe. Disse:<br />

– L’altra volta aveva dunque mentito. Dica adesso la verità.<br />

La notte in cui “issa” fu uccisa Vustè era venuto per…<br />

Tziu Manueli non rispose.<br />

– Non era certo soltanto venuto per vederla – insistette<br />

ancora <strong>Perdu</strong>. Sentiva la lingua appiccicata al palato, la<br />

bocca secca e arsa e un pulsare continuo delle vene sulle<br />

tempie. Le parole gli uscivano a stento, sibilando, dai denti<br />

stretti.<br />

Tziu Manueli scosse la testa in segno di diniego. Era<br />

schietto. La sua zazzera bianca ondeggiò.<br />

– E anche quella sera – domandò <strong>Perdu</strong>, stringendo<br />

ancor più le mascelle – avete…<br />

Il ‘‘maureddu’’, vicinissimo a <strong>Perdu</strong>, scosse le spalle,<br />

seccato. Non era vero, era solo un abbaglio di <strong>Perdu</strong>, ma<br />

il ragazzo fu convinto che la barba del vecchio, su e giù<br />

per due volte, si fosse abbassata sul petto, in segno d’assenso,<br />

tra le due file di monetine del giustacuore.<br />

– Io… – disse per la terza volta Manueli Vargiu.<br />

<strong>Perdu</strong> lo interruppe ancora.<br />

– E “issa”, che diceva quella sera, non voleva?<br />

Il ragazzo si era ricordato del bacio che, quella sera,<br />

sua madre gli aveva dato. Rimboccandogli le coperte, all’improvviso,<br />

quasi a tradimento, Angiuledda gli aveva<br />

schioccato un bacio, vicinissimo all’occhio, essa che non<br />

lo baciava mai. Era stato l’ultimo bacio, prima di morire.<br />

<strong>Perdu</strong> si toccò ancora la guancia dove aveva ricevuto<br />

lo schiaffo. Forse non era lo schiaffo che gli aveva fatto<br />

dolore. Era ancora quel bacio…<br />

Manueli Vargiu perdette la pazienza.<br />

– Finiscila – gli disse – e lasciami parlare. Io, lo creda<br />

o no, non ho mai avuto altro figlio che te, seppure tu sei<br />

mio figlio. Figlio ho sempre creduto te, non figlia tua madre,<br />

sebbene senza mai dirtelo. Che importa, dirlo? Ora, io<br />

me ne andrò certo all’inferno, ma prima…<br />

– No – gridò <strong>Perdu</strong>, come impazzito, rinculando verso<br />

152<br />

Capitolo XX<br />

la porta e tentando davvero di sfondarla. Aveva capito l’intenzione<br />

del vecchio, che già del resto levava alta la mano.<br />

Lo voleva benedire, secondo la tradizione, col segno di<br />

croce in fronte, tracciato col pollice della mano destra intinto<br />

nella saliva.<br />

Tziu Manueli restò con la mano a mezz’aria, incerto,<br />

interrogativo, e una volta tanto sbigottito del terrore del<br />

ragazzo.<br />

Si riudirono passi nel corridoio e la porta si spalancò.<br />

Per poco <strong>Perdu</strong> non cadde all’indietro.<br />

– Adiosu – disse Manueli Vargiu, con uno strano sussulto,<br />

in tutto simile a quel suo buffo, doloroso riso.<br />

Fu quando Fideli Aresu già si accingeva a passare il<br />

catenaccio della porta che <strong>Perdu</strong> non si dominò più. Scostò<br />

il capo-carcere con uno spintone, riaperse l’uscio, rientrò<br />

nella cella, e si trovò nuovamente a faccia a faccia col<br />

vecchio. Allora con sicurezza, con estrema padronanza dei<br />

propri atti, lo agguantò con una mano per il panciotto<br />

d’orbace, e con l’altra gli strinse la barba come si stringe<br />

un manipolo di spighe. La bocca di <strong>Perdu</strong> era arida e non<br />

gli fu facile radunarvi della saliva. Ma ci riuscì. Ecco, ora<br />

doveva sputargliela in pieno viso.<br />

La scena durò un istante. Il ragazzo mirava alla fronte<br />

dell’uomo. Era lì, tra i due occhi, gialli e leggermente acquosi,<br />

del vecchio, che egli intendeva indirizzare lo sputo.<br />

“A sa furca” voleva dirgli, con uno sputo. Qualcosa però<br />

lo fermò. Un trabalzo del cuore o un barbaglio, un lampo<br />

inatteso piombato nel suo cervello. Non poteva. Perché<br />

non poteva? Era suo padre. Malgrado tutto era suo padre.<br />

Non poteva sputare in faccia a suo padre.<br />

Non durò più di un istante, la scena. Le mani che<br />

stringevano la barba e il panciotto si allentarono, ricaddero<br />

in basso, pesantissime.<br />

Il ragazzo arretrò. Non sapeva se le parole che disse<br />

si rivolgessero al vecchio o se le dicesse a se stesso.<br />

– “A sa furca” – disse fuggendo.<br />

153


CAPITOLO XXI<br />

<strong>Perdu</strong> rientrò a casa correndo. L’aria afosa della giornata<br />

si era fatta più greve, perché il vento di scirocco, il<br />

quale reca sulle coste della <strong>Sardegna</strong> meridionale il fiato<br />

ardente dei deserti nordafricani che neppure duecento<br />

miglia di mare aperto riescono totalmente a spegnere, si<br />

buttava su Iddarta con la volontà di incendiarla.<br />

Vortici di polvere si levavano sulla piazza di chiesa,<br />

quando <strong>Perdu</strong> l’attraversò, come se una gigantesca scopa<br />

si desse violentemente a spazzarla. I vortici si spostavano,<br />

alti e curvi, nel rettangolo della piazza, arricciandosi in cima<br />

come creste bionde.<br />

Identici vortici, ma di pensieri, si formavano nell’animo<br />

del ragazzo, spinti da ben altro vento che non fosse lo scirocco.<br />

Ed egli stesso, <strong>Perdu</strong>, in preda a quel bruciante vento<br />

interiore, si sentiva spazzato come le foglie cadute degli<br />

alberi che tra la polvere mulinavano, nella piazza di chiesa.<br />

Nel cortile dei Tankis non trovò nessuno. Risalì in fretta<br />

nel suo pagliaio e si distese sul pavimento, stringendo<br />

gli occhi e comprimendosi con entrambe le mani la fronte.<br />

Sia la fronte che le mani scottavano.<br />

Così lo trovò Maddalena Tankis quando sopraggiunse<br />

nel tardo pomeriggio. Recava una tazza di brodo e, dentro<br />

un piatto coperto, una fetta di carne di pecora.<br />

– <strong>Perdu</strong>, o <strong>Perdu</strong> – disse Maddalena a voce bassa,<br />

pensando che il ragazzo si fosse assopito.<br />

Poiché <strong>Perdu</strong> non rispose, Maddalena si inginocchiò<br />

accanto a lui, la tazza ed il piatto in bilico in una mano, e<br />

lo guardò con una compassione dolcissima. Credette veramente<br />

che il ragazzo dormisse e, deposti i recipienti<br />

per terra, si accucciò a sua volta sul pavimento sedendosi<br />

sulle pieghe della sua ampia gonna. Bisbigliando, ma pur<br />

154<br />

pronunziando le parole con le labbra, convinta che il ragazzo<br />

non le avrebbe potute udire, disse:<br />

– Povero <strong>Perdu</strong>, fratellino mio! Non morire, non morire,<br />

fratellino mio!<br />

Con entrambe le mani, esitante, fece per sfiorare lievemente<br />

le mani di <strong>Perdu</strong>, chiuse a pugno e premute sulle<br />

palpebre chiuse. Quasi non lo toccò, e comunque il<br />

suo tocco non fu più pesante di quello di una piuma…<br />

Ma fu proprio allora che, come se viceversa gli avessero<br />

dato una randellata, <strong>Perdu</strong> si drizzò in piedi stravolto e<br />

agitato dalla collera. Fu allora che esplose la sua follia. Per<br />

prima cosa, visti in terra la coppa di brodo ed il piatto coperto,<br />

con un calcio li fece volare lontano. Poi affrontò<br />

Maddalena:<br />

– Se ne vada Vustè, se ne vada. Non voglio vedere<br />

nessuno. Se ne vada.<br />

Le parti sembravano invertite. Pareva lui il padrone<br />

collerico e lei, ancora accucciata per terra e mansueta, la<br />

serva. E al furore inconsulto di lui faceva riscontro l’amore<br />

devoto e non meno inconsulto dipinto sulla faccia di lei.<br />

Poiché Maddalena rifiutava di rialzarsi, <strong>Perdu</strong> si chinò,<br />

l’afferrò per le braccia e con una forza sovrumana la trasse<br />

in piedi. Sbalordita, la ragazza l’osservava, in preda allo<br />

smarrimento. Il “mucadori” le era caduto dal capo, e una<br />

treccia dei suoi capelli, nerissimi, densi e voluttuosi, ch’ella<br />

teneva raccolti a corona sulla nuca, si era sfilata dalla<br />

crocchia e le pendeva davanti, fin sopra il seno.<br />

Caldo era, e il vento, a refoli e buffi, entrava fin nel pagliaio,<br />

col suo fiato bruciante. La fronte di <strong>Perdu</strong> ardeva,<br />

goccioline di sudore vi si formavano, strani ronzii, monocordi,<br />

come voli di calabroni, ossessionavano le sue orecchie.<br />

– Agnello mio – disse <strong>Perdu</strong> a Maddalena con un sorriso<br />

da dissennato – agnello mio, ma tu sai chi è mio padre?<br />

“Issu est”. È mio nonno, non lo sapevi? Mio nonno<br />

non è mio nonno, è mio padre.<br />

155


PERDU<br />

Era come pazzo. Ripeteva, adattandole a sé, e dando<br />

del tu a Maddalena, e chiamandola “agnello mio”, le parole<br />

che tanto lo sconvolgevano, pronunziate da tzia Licca<br />

Pilloni. Pazzo, era; ed orribile, era. E sorrideva divertito<br />

come aveva fatto quel giorno tzia Licca Pilloni.<br />

Maddalena continuava ad osservarlo con compassione.<br />

Non si curava di scuotersi dalla stretta delle sue mani,<br />

forti come tenaglie. Il viso di lei, bianco e puro, manifestava<br />

stupore, ma non spavento; la sua pelle era tenera e<br />

morbida da sembrare incipriata.<br />

– Vattene ora – disse <strong>Perdu</strong> continuando a darle del<br />

tu. – Vattene, non mi sei niente.<br />

Le fece fare con violenza una giravolta sulle spalle e<br />

la spinse lontano, brutalmente, verso la porta della scala.<br />

– Vattene, vattene – continuava a dirle con viso truce.<br />

Maddalena Tankis cadde nei pressi della porta. Ma<br />

<strong>Perdu</strong> non le badò. Una cosa, all’improvviso aveva attirato<br />

i suoi occhi; ed un pensiero balenante gli aveva attraversato<br />

la mente. E come gli occhi parevano essere rimasti<br />

invischiati su quella cosa, così la mente pareva rimanere<br />

ancorata a quel pensiero. Sì buona idea!, si diceva <strong>Perdu</strong>;<br />

con questo sistema si potevano risolvere d’un colpo tutti i<br />

problemi. Buona idea!<br />

Presso la porta nel muro di mattoni, era stata ricavata<br />

in un pilastrino una nicchia; in questa nicchia <strong>Perdu</strong> conservava<br />

per le necessità della notte una candela stearica e<br />

dei fiammiferi. Qui erano caduti i suoi occhi. E questa era<br />

l’idea: accendere un fiammifero, appiccare il fuoco alla<br />

paglia, e far scoppiare un incendio.<br />

Bastava allungare la mano, prendere la scatola degli<br />

zolfanelli, sfregarne uno. Lo zolfo giallo frigge piano piano<br />

nella testa del fiammifero che si annera; ma poi la<br />

fiamma si forma e tutto succede rapido. Una manciata di<br />

fieno, una fiamma più grande, il fieno brucia, il pagliaio<br />

brucia, tutto brucia e s’incendia. È un incendio.<br />

156<br />

Capitolo XXI<br />

Certo, il fienile sarebbe andato distrutto. E anche la<br />

stalla di sotto, e le bestie. Che importa? È roba di Vissenti<br />

Tankis. È ricco, Vissenti Tankis. Ha case, terreni, buoi, e<br />

servi. Mille fienili egli si può riedificare se uno ne va distrutto.<br />

Mille, non solo uno. Non ci si deve preoccupare di<br />

questo. Che importa? Che tutto si bruci, anche le stalle vicine,<br />

anche la casa dove vive Vissenti Tankis, se è necessario.<br />

Tutto il mondo bisognerebbe bruciare, se fosse possibile,<br />

tutto il mondo. Che importa?<br />

Ma, bruciare soltanto per bruciare, a che serve? Altra<br />

idea, più radicale e violenta; morire! Ecco ciò che mancava!<br />

Incendiare il fienile e morirvi dentro. Questa è la soluzione.<br />

Con la morte cessano le sofferenze, i pensieri, il desiderio<br />

stesso di morire. Tutto cessa. Anche in quella notte<br />

in cui Efisio Manzella lo picchiava, aveva desiderato morire.<br />

Efisio Manzella lo picchiava forte come si picchia un<br />

cane. Se fosse morto! Non avrebbe conosciuto più nulla<br />

di queste altre amarezze che la vita gli aveva riservato…<br />

La decisione è presa. Non resta da fare altro, adesso,<br />

che morire. Perché vivere? Nella morte non si sente più<br />

niente. Non si sente il bruciore nel sangue, il martellamento<br />

nel capo, il ronzio negli orecchi; più niente. Non si sentono<br />

riecheggiare eternamente le parole di tzia Licca Pilloni<br />

e risonare come colpi di maglio le affermazioni di<br />

Manueli Vargiu: «Tu, sei mio figlio. Tu, sei mio figlio». Allucinato<br />

e assorto nella sua pazza idea, <strong>Perdu</strong> realmente si<br />

avvicina alla nicchia e ne toglie la scatola dei fiammiferi.<br />

Ne accende uno, attende che la fiamma si sollevi, la guarda,<br />

come incantato, poi l’avvicina allo stoppino della candela<br />

stearica. Soffia sopra il fiammifero e lo depone con<br />

cura già spento, come fa ogni sera nel fondo della nicchia,<br />

affinché non ne nasca pericolo. Ora la sola candela è accesa.<br />

La sua fiamma è oscillante ed incerta, inverosimilmente<br />

pallida nella luce del giorno. Che senso ha quella<br />

157


PERDU<br />

candela accesa? si domanda. Una candela accesa, di giorno.<br />

Altre candele, sì, aveva visto, così smorte ed inutili,<br />

come questa, accese di giorno. Quand’è che aveva visto, e<br />

dove, candele accese di giorno? D’un tratto si ricordò dell’altare<br />

della chiesa di Terreluxi nel giorno dello sposalizio<br />

di sua madre. Don Nicolino Cuccu, il chierichetto scalzo,<br />

le fedi d’oro, l’acqua benedetta che pioveva sulle teste<br />

dall’aspersorio del prete, e i passeri che cantavano sul<br />

mandorlo dietro la chiesa! Ed Efisio Manzella che doveva<br />

essere suo padre…!<br />

Maddalena Tankis si era alzata da terra ed aveva riattraversata<br />

la stanza chinandosi per raccogliere il suo “mucadori”<br />

da terra. Rialzandosi aveva visto <strong>Perdu</strong> incantato<br />

dinanzi a quella candela accesa. La febbre della malaria,<br />

pensò Maddalena, lo aveva fatto andare in delirio. Effettivamente<br />

la febbre della malaria dà dei deliri durante i<br />

quali l’ammalato si alza e agisce come un sonnambulo.<br />

Maddalena si avvicinò al ragazzo e lo toccò sulla spalla.<br />

– <strong>Perdu</strong> – gli disse – non startene così; devi riposare.<br />

Hai la febbre, lascia che chiami il medico…<br />

Ma <strong>Perdu</strong> non l’ascoltava. Pensava: la fiamma della<br />

candela è piccola che nemmeno si vede; ma aspetta; basta<br />

prendere una manciata di fieno e avvicinarla allo stoppino,<br />

e il fuoco divamperà. Una manciata di fieno, ci vuole;<br />

una manciata di fieno.<br />

– <strong>Perdu</strong> – disse ancora Maddalena, – <strong>Perdu</strong>, non mi<br />

ascolti? Perché non mi ascolti?<br />

<strong>Perdu</strong> si volse e la guardò imbambolato. Sembrava non<br />

riconoscerla. La guardava con occhi sbarrati e tenendo le<br />

labbra socchiuse. Non capiva. Che voleva questa donna?<br />

– Guarda – disse Maddalena passando il palmo della<br />

mano sulla fronte che sempre ardeva ed era umida di sudore,<br />

– guarda, hai la febbre, <strong>Perdu</strong>. Sei malato, devi lasciarti<br />

curare.<br />

– Sì – disse <strong>Perdu</strong> – malato. Sono malato. Devo lasciarmi<br />

curare.<br />

158<br />

Capitolo XXI<br />

Si allontanò dalla nicchia quasi volesse dirigersi verso<br />

il suo giaciglio e distendervisi, obbedendo a Maddalena.<br />

Ma istantaneamente, come folgorato da un diverso pensiero,<br />

si chinò di repente, e raccolse una manciata di fieno.<br />

Le cose si svolsero fulmineamente. Rapida la manciata<br />

di fieno esarse nella mano di <strong>Perdu</strong>. Lingue di fuoco, violacee<br />

e rosa, si sprigionarono.<br />

– <strong>Perdu</strong>! – urlò Maddalena terrorizzata. Soltanto allora<br />

ella aveva capito.<br />

Sfuggendo alle braccia della ragazza che a precipizio<br />

si era slanciata su di lui, <strong>Perdu</strong> si arrampicò sopra il mucchio<br />

di fieno. Squassava la fiamma che già gli bruciava la<br />

mano, come un pazzo incendiario. Aiutato dal vento che<br />

penetrava da tutte le feritoie delle pareti, il fuoco si apprese<br />

subito al fieno disseccato. Alto sopra il mucchio, già<br />

circondato di vampe, <strong>Perdu</strong> cercava caparbiamente, nel<br />

fanatismo del suo proposito folle, cercava con le braccia<br />

alzate di far appiccare il fuoco alle travi del tetto…<br />

Senza perdere tempo, senza dare in ismanie, senza<br />

neppure urlare, – perché poi urlare? sapeva che nessuno<br />

avrebbe potuto udirla – Maddalena tentò di spegnere con<br />

le mani, coi piedi, con le gonne, buttandovisi a volte addosso<br />

con tutto il corpo, i piccoli focolai che <strong>Perdu</strong> andava<br />

follemente spargendo. Era la figlia di Vissenti Tankis, in<br />

quel momento, la quale badava alla conservazione della<br />

sua proprietà; istintivamente, per una voce del proprio<br />

sangue essa si comportava da figlia di Vissenti Tankis. Ma<br />

dopo – e non tanto perché capisse che l’impresa era ormai<br />

disperata, quanto perché nel suo cuore fece impeto quell’unico<br />

pensiero – si buttò tra le fiamme, di null’altro occupandosi<br />

che di salvare il ragazzo. Non era più, adesso, la<br />

figlia di Vissenti Tankis; era la sorella di <strong>Perdu</strong>, era l’amica<br />

di <strong>Perdu</strong>, era l’unica salvezza che per lui esisteva. In questo<br />

fienile Maddalena e <strong>Perdu</strong> avevano trascorso lunghissime<br />

ore. Ivi la ragazza aveva provato, come un’anticipazione<br />

di maternità, le dolcezze che può dare l’amore per un<br />

159


PERDU<br />

fanciullo. Ivi <strong>Perdu</strong>, alla sua volta, nonostante tutte le sue<br />

amarezze e le contrarietà e le angosce, aveva assaporato la<br />

bellezza di essere oggetto d’amore da parte di qualcuno. Ed<br />

ecco che in questo stesso luogo, mentre già si levavano le<br />

fiamme, <strong>Perdu</strong> e Maddalena si rincorrevano, in una strana<br />

gara, lui per sfuggire alla vita e lei per sottrarlo alla morte.<br />

Maddalena raggiunse <strong>Perdu</strong> e lo avvinghiò fra le sue<br />

braccia improvvisamente diventate fortissime. Il ragazzo si<br />

dibatteva come un forsennato. Entrambi, così avvinghiati,<br />

rotolarono nel fieno. Fiamme sorgevano dallo strame e si<br />

levavano verso il soffitto, tra vortici di fumo. Tutto il fienile<br />

era invaso dal fumo. La paglia crepitava rapidissimamente,<br />

mentre le lingue di fuoco, azzurre, rosse, viola,<br />

danzavano sinistramente sulla superficie dei cumuli. Sibili<br />

si udivano, come lontani richiami; e il vento ancora entrava<br />

a sbuffi come per soffiare sul fuoco.<br />

A un tratto <strong>Perdu</strong> si sentì sollevare di peso e contro<br />

ogni sua resistenza si sentì trasportare con impeto verso<br />

l’uscita. Il fuoco acquistava voce. Come da gole misteriose<br />

uscivano lunghi ululi e piccoli boati; e un crosciare continuo<br />

delle fiamme, vagamente simile al rumore delle spighe<br />

mature quando il vento le curva.<br />

Le forze di Maddalena dovevano essersi centuplicate.<br />

Il suo passo era traballante, nel calpestare il fieno e nell’attraversare<br />

barriere di fiamme; ma riuscì a raggiungere<br />

la porta e discendere, sempre con quel peso, la scala.<br />

Gente era già accorsa alla vista del fumo. Un’agitazione<br />

frenetica scoteva tutti, ma nessuno sapeva che fare. Dal<br />

di fuori il fienile pareva una carboniera; gettiti di fumo<br />

uscivano da tutte le feritoie, frammisti, tratto tratto, a delle<br />

lingue di fiamma che per un attimo garrivano nell’aria come<br />

vessilli.<br />

E d’improvviso, lugubri e profondi come gridi d’angoscia,<br />

si alzarono dalla stalla i nitriti dei cavalli. Nitriti e<br />

scalpiti, contro i cancelli, verso i quali finalmente si precipitarono<br />

i servi. E dopo poco, demoniaci, impennandosi<br />

160<br />

Capitolo XXI<br />

uno sull’altro per passare dalle strette delle porte, si slanciarono<br />

all’aperto i cavalli, proiettandosi come bolidi nella<br />

campagna.<br />

Maddalena Tankis, dopo avere disceso le scale, era<br />

caduta a terra svenuta. Tutti urlavano; la voce di Vissenti<br />

Tankis pareva un ruggito…<br />

A differenza di Maddalena, <strong>Perdu</strong> aveva riacquistato<br />

tutta la sua lucidità. Gente si era raccolta intorno a Maddalena.<br />

Alcune donne la soccorrevano. Da tutte le parti si<br />

vociferava e si imprecava. Un terrore folle invase l’animo<br />

di <strong>Perdu</strong>. Capiva ciò che aveva fatto. Si rendeva conto che<br />

tutta quella confusione era stata cagionata dal suo gesto di<br />

poco prima. La voce di Vissenti Tankis alta come un ruggito<br />

si avvicinava.<br />

Una sola cosa c’era da fare: fuggire. Il cielo si era andato<br />

oscurando e la sera lentamente scendeva dai monti. Nel<br />

fienile le fiamme balzavano già dal tetto, crescevano i crepitii,<br />

tutta la costruzione ardeva come una torcia. Un’immensa<br />

colonna di fumo, che il vento squassava e scompaginava,<br />

si levava dal fabbricato.<br />

Bisognava fuggire! Era chiaro che adesso, appena la<br />

gente si fosse resa conto di ciò che era realmente avvenuto,<br />

appena Maddalena Tankis avesse potuto parlare, la<br />

sorte di <strong>Perdu</strong> era segnata; tutti si sarebbero scagliati contro<br />

di lui, lo avrebbero picchiato, massacrato di botte, e<br />

poi forse consegnato ai carabinieri.<br />

Il vento caldo che arrivava dal fienile bruciante disseccava<br />

la pelle e soffocava il respiro. Nessuno ancora badava<br />

a <strong>Perdu</strong>. Nessuno si curava di interrogarlo. Urlavano tutti<br />

insieme, correvano, alzavano la faccia verso le fiamme.<br />

Bisognava dunque fuggire. Ma dove andare? Non importa.<br />

Allontanarsi di qui, occorreva; allontanarsi e fuggire<br />

come i cavalli che avevano fatto irruzione fuori delle stalle,<br />

correndo verso la campagna.<br />

Cercando di non farsi notare – né d’altronde alcuno gli<br />

badava – <strong>Perdu</strong> si allontanò lentamente verso i margini<br />

161


PERDU<br />

del cortile. Qui la campagna si apriva. L’afa dell’incendio<br />

non si avvertiva più tanto. La campagna si andava coprendo<br />

di ombra. D’un balzo, <strong>Perdu</strong> si slanciò veramente in direzione<br />

dei campi e velocissimo, come un cerbiatto inseguito<br />

dai cani, corse e corse senza sapere lui stesso dove.<br />

Nemmeno quando fu giunto nella piana dove è la<br />

strada per Terreluxi, <strong>Perdu</strong> si sentì veramente tranquillo.<br />

Il cuore gli scoppiava nel petto. Ansava terribilmente ma<br />

continuava a correre. Non a Terreluxi egli si poteva fermare,<br />

non a Terreluxi!<br />

Uscendo dalla carrozzabile, <strong>Perdu</strong> ancora si buttò per i<br />

campi. Non a Terreluxi! Soltanto oltre i monti poteva sperare<br />

di non essere raggiunto. Bisognava valicare quei monti.<br />

Bisognava correre, correre, arrampicarsi sui monti e<br />

scendere dall’altra parte. Forse là la vita era diversa. Là comunque<br />

non c’era Vissenti Tankis, né Manueli Vargiu, né<br />

la memoria di sua madre. Là nessuno lo avrebbe più trovato.<br />

Basta correre. I monti sono così vicini! Non è faticoso<br />

né arduo raggiungerne la cima. Basta correre!<br />

Fu invece arduo e faticoso per <strong>Perdu</strong> raggiungere quei<br />

monti e lentamente arrampicarsi sulla loro china. Non si<br />

era avvicinato nel tragitto all’abitato di Terreluxi. Aveva allungato<br />

del doppio la propria strada pur di non passare<br />

per Terreluxi. A un certo momento aveva dovuto cessare<br />

di correre. Il respiro gli mancava. Non poche volte si era<br />

dovuto buttare per terra per riprendere forza. Ma sempre si<br />

era rialzato. Fuggire, era il suo unico proposito, e la paura<br />

la sua unica forza. Volgendosi all’indietro, nella oscurità ormai<br />

fitta, vedeva nettamente, sulla collina di Iddarta, ardere<br />

come un fuoco di gioia, l’incendio che lui stesso aveva suscitato.<br />

Gli sembrava di udire ancora il crepitio delle fiamme,<br />

il sibilo che producevano le lingue del fuoco scagliandosi<br />

contro il cielo.<br />

Una notte ed un giorno durò la lunga marcia di <strong>Perdu</strong><br />

per arrivare nelle terre che stavano al di là dei suoi monti.<br />

Camminò notte e giorno come un cane randagio, esaurendo<br />

162<br />

Capitolo XXI<br />

tutta una vitalità che la malaria non era riuscita a fiaccare,<br />

in questo inesorabile vagabondaggio senza meta e senza<br />

scopo. Nessuna persona si sentiva di avvicinare; a nessuna<br />

casa aveva il coraggio di approssimarsi e di bussare,<br />

nemmeno per chiedere un tozzo di pane.<br />

Molto cammino fece in un giorno ed in una notte.<br />

Molto cammino! Ma le sue forze veramente si esaurirono.<br />

Che cercava? Perché si era portato così lontano da suoi<br />

luoghi? La campagna qui non era diversa dalle campagne<br />

di Iddarta. Perché c’era venuto? Che cosa cercava? Ah, già,<br />

cercava di fuggire dai luoghi in cui aveva tanto sofferto,<br />

cercava di fuggire all’inseguimento di quei servi che certo<br />

Vissenti Tankis aveva sguinzagliato alle sue calcagna. E i<br />

carabinieri? E se Vissenti Tankis aveva avvertito i carabinieri?<br />

I carabinieri sono dovunque. Dovunque perciò egli<br />

poteva essere catturato dai carabinieri.<br />

<strong>Perdu</strong> giunse stremato in vista dei monti di Iglesias, la<br />

sera del primo giorno di luglio. Non aveva più veramente<br />

la forza di procedere oltre. Si sentiva sfinito. Pur non essendogli<br />

ancora scomparsa dal cuore la paura che lo aveva<br />

così ostinatamente sospinto in quella sua folle marcia,<br />

egli non capiva adesso la ragione per cui era venuto fin<br />

qui. Il pensiero gli si faceva lento e faticoso. La febbre lo<br />

consumava. Pareva che il suo sangue si fosse trasformato<br />

tutto in fuoco e che non più circolasse per alimentare il<br />

suo corpo, ma per incendiarlo.<br />

Era giunto nei pressi di un campo di grano, biondeggiante<br />

sulla schiena di una dolce collina. Ai piedi della<br />

collina aveva visto due siepi compatte di canne ed aveva<br />

pensato che là fosse un fiume od almeno un ruscello.<br />

Aveva sete, una terribile sete. Ma quando giunse presso<br />

le canne e faticosamente si fece largo per arrivare al torrente,<br />

vide che il letto di questo era disseccato e che dentro<br />

non vi correva più acqua, ma sabbia; una sabbia fine<br />

e bianca e morbida e sfarinata come rena di mare. Deluso<br />

si trasse indietro. Si sedette per terra, alzò il viso al cielo.<br />

163


PERDU<br />

Era sera ormai, e nel cielo non c’erano nuvole, ma una<br />

chiarità trasparente che cominciava a acquistare soltanto<br />

allora le prime trepidazioni rossigne dei tramonti nei cieli<br />

sardi.<br />

Il campo di grano frusciava soavemente. Accanto a<br />

<strong>Perdu</strong>, sui bordi delle messi, piante di asfodeli levavano in<br />

alto le loro bacchette fiorite, i turgidi fiori simili a fragole<br />

acerbe.<br />

Profondamente stanco <strong>Perdu</strong> si adagiò sul terreno all’indietro<br />

giacendo così supino finché le stelle si accesero<br />

ed arsero nel curvo cielo.<br />

Stando così sembrava che neppure la sete si sentisse<br />

più tanto. Era solo affaticato, era stanco. Ma non aveva più<br />

paura. Ecco, adesso gli sembrava veramente di non avere<br />

più nemmeno paura.<br />

164<br />

CAPITOLO XXII<br />

Il diciassette di luglio, i carabineri di Gonnesa, avvertiti<br />

da una squadra di mietitori, trovarono nei pressi di un<br />

campo di grano nella regione di Acqualimpia, il cadavere<br />

di un ragazzo dell’età apparente di anni quattordici. Prontamente<br />

essi ne dettero informazioni all’autorità giudiziaria<br />

di Iglesias. Dalla pretura di Iglesias un giovane magistrato<br />

fu mandato sul posto per gli accertamenti del caso.<br />

Il magistrato vi si recò, seguito dal cancelliere, da un<br />

medico e da un brigadiere di polizia. Il drappello era guidato<br />

dal maresciallo dei carabinieri di Gonnesa, che aveva<br />

effettuato le prime costatazioni.<br />

Lo stato del cadavere era veramente spaventevole.<br />

Gonfia e tragica era diventata la testa, gonfia e immonda<br />

la pancia ignuda, che da uno squarcio della camicia di tela<br />

azzurra si offriva al sole. Tutte le parti scoperte di quel<br />

corpo avevano assunto la tinta della pelle dei negri.<br />

Il cadavere giaceva supino, accanto al campo di grano.<br />

Nugoli di mosche verdi con le ali iridate vi ristavano<br />

sopra; tra le uova deposte da queste mosche, e che già si<br />

schiudevano, brulicavano larve minuscole nell’umido delle<br />

palpebre e dentro le narici, nonché sulla bocca, donde<br />

pareva uscire una processione di vermi. Mosche e larve<br />

devastavano il ventre, la cui pelle, più delicata di quella<br />

del viso, si era sollevata sotto l’effetto del sole in immense<br />

bolle, pregne di siero e di linfa.<br />

Gli uomini della legge, per dovere della loro professione<br />

si accostarono a quel cadavere e lo studiarono lungamente.<br />

Una cosa fu particolarmente notata, benché senza<br />

frutto ai fini dell’indagine giudiziaria: cioè che sul volto<br />

del cadavere non erano scomparsi del tutto i segni di una<br />

gentile bellezza e di una soave innocenza. Vi era anzi, diffuso<br />

su quel volto, pur così devastato, un senso di pace<br />

165


PERDU<br />

assoluta come se lo spirito del morto avesse raggiunto<br />

quel cielo azzurro cui la faccia del cadavere pareva ancora<br />

guardare.<br />

L’autorità giudiziaria accertò che il ragazzo era morto<br />

da quindici o venti giorni e che era presumibilmente da<br />

escludersi una causa delittuosa. Questo fu tutto. Nonostante<br />

le più diligenti indagini non si venne mai a sapere né<br />

chi fosse quel ragazzo, né per qual ragione propriamente<br />

egli fosse morto. Nessuno in quella regione lo conosceva,<br />

nessuno lo aveva mai visto; nessuno ne reclamò il cadavere,<br />

nessuno ne chiese notizie. Ancor oggi, negli archivi<br />

della giustizia, se si andasse a cercare il fascicolo di quella<br />

“pratica” si noterebbe che sul frontespizio campeggia la<br />

parola: “ignoto”.<br />

<strong>Perdu</strong> era morto poche ore dopo essersi sdraiato ai<br />

margini di quel campo di grano non mietuto. Le cause<br />

della sua morte, per chi abbia seguito tutta la storia di <strong>Perdu</strong>,<br />

sono del tutto intuibili. Nel corso delle indagini giudiziarie<br />

cui si è accennato, tutti coloro che se ne occuparono<br />

vollero dire la loro opinione, a proposito di queste<br />

cause; così vi fu chi attribuì la morte del ragazzo a delitto,<br />

chi parlò di avvelenamento da erbe tossiche, chi del morso<br />

di un serpe, chi di una malattia, chi di insolazione improvvisa<br />

e chi semplicemente di inedia. A ben guardare<br />

tutte queste ipotesi in un certo qual modo si possono considerare<br />

non lontane dal vero. Forse <strong>Perdu</strong> non attribuiva<br />

la propria sventura alla colpa di sua madre? Forse non fu<br />

– più che il suo corpo, in verità, il suo spirito – avvelenato<br />

dalle tragedie nelle quali la sua vita fu presa? Forse non è<br />

paragonabile ad un morso di serpe la rivelazione che egli<br />

ebbe da tzia Licca Pilloni? Forse non lo piegò la malaria?<br />

Forse non sofferse la fame? E quanto al sole, come dovette<br />

picchiare sulla testa di <strong>Perdu</strong> durante il viaggio del ragazzo<br />

da Iddarta alla conca in cui fu trovato cadavere!<br />

Così si concluse la storia di <strong>Perdu</strong>.<br />

166<br />

Capitolo XXII<br />

Manueli Vargiu non fu condannato a morte dagli uomini,<br />

perché vi si condannò da se stesso impiccandosi nella<br />

cella del carcere prima ancora della celebrazione del giudizio.<br />

Si sentiva vecchio e triste, e veramente inutile; e dopo<br />

l’ultimo colloquio avuto con <strong>Perdu</strong>, conclusosi con la<br />

maledizione del ragazzo, gli sembrò che ci fosse nella sua<br />

vita un terribile vuoto: era il male che aveva fatto, o il bene<br />

che non aveva fatto? Uccidendosi, gli parve nello stesso<br />

tempo di sottrarsi a questo nuovo tormento e di pagare,<br />

non sapeva a chi né con quale risultato, una sorta di<br />

antichissimo debito.<br />

Maddalena Tankis, invece, visse ancora a lungo, e non<br />

si dimenticò mai di <strong>Perdu</strong> ch’essa continuò a considerare<br />

suo fratello e come tale ad amare. Mai seppe ch’egli era<br />

morto dopo due giorni dacché lo aveva salvato, tanto che,<br />

quando morì, ella lo nominò erede universale di tutte le<br />

sue sostanze, nel caso che <strong>Perdu</strong> si fosse fatto vivo a raccogliere<br />

l’eredità. Maddalena, infatti, non si volle mai sposare,<br />

e perciò non lasciava alcun erede diretto. Per chi poi<br />

voglia sapere la causa di questo volontario suo zitellaggio,<br />

sarà sufficiente spiegare che un po’ ciò dipese da tutti i<br />

suoi scrupoli, ai quali si aggiunse quello di aver lasciato<br />

che <strong>Perdu</strong> vivesse nella sua casa, per tanto tempo, ed invano,<br />

da servo; un po’ anche dipese dal fatto che per salvare<br />

il ragazzo in quella tragica sera, la giovane aveva riportato<br />

su varie parti del corpo, e specialmente sul viso,<br />

scottature così forti che il viso le rimase poi sempre sfregiato;<br />

della qual cosa non certo si lamentava, sembrandole<br />

anzi un segno del Signore.<br />

Di tutte le altre persone, poi, nominate in questa storia,<br />

non c’è proprio nulla da dire: esse o sono morte, e<br />

questo è il caso della maggior parte; oppure sono vive,<br />

poiché qualcuna infatti vive veramente ancor oggi, sotto il<br />

cielo del Sulcis che, se non lo turbano nuvole, è veramente<br />

bello ed azzurro.<br />

167


Finito di stampare nel mese di novembre 2000<br />

presso lo stabilimento della<br />

Stampacolor, Sassari

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