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il' VIA NAZIONALE

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<strong>VIA</strong> <strong>NAZIONALE</strong><br />

D ella Via Nazionale il giudizio più benevolo, come il più comune,<br />

che m'è accaduto di sentire, è che si tratti di una via «banale»<br />

e, dal punto di vista urbanistico e monumentale, è anche probabile<br />

che il giudizio sia esatto.<br />

Ma ciò che importa nella Via Nazionale, ciò che la raccomanda<br />

e la rende perfino «amabile» ai miei occhi, è piuttosto la sua<br />

origine e il suo « significato ».<br />

Possono dunque le strade avere un significato? V e d i a m o .<br />

* * *<br />

Bisogna ricordare anzitutto quel che del resto tutti sanno, e<br />

cioè che, negli ultimi secoli d'esistenza dello Stato Pontificio, l'in-<br />

gresso principale di Roma - principem Urbis aditum - seguitò<br />

ad essere, come del resto era stato sempre in passato, da Porta<br />

del Popolo: la Porta dove convergevano due tra le maggiori strade<br />

che uniscono Roma al resto del mondo: la Flaminia e la Cassia.<br />

E quei secoli avevano contribuito a rendere quell'ingresso, già<br />

solenne, ancor più solenne. E questo aveva avuto le sue conseguenze<br />

perfino nell'orientamento delle piante cittadine che, dopo alcune<br />

incertezze, a cominciare da quella del Nolli, finiscono con l'orien-<br />

tarsi tutte verso il Nord e avere quindi in testa la Porta del Popolo.<br />

Tutto ciò senza contrasto fino al secolo XIX, che ancora abbel-<br />

lisce l'entrata coi grandi emicicli, e fino alla metà di esso, quando<br />

un famoso pellegrino, Giuseppe Mazzini, entra anche lui - come<br />

tanti altri, adorando - per la Porta del Popolo.<br />

Ma proprio con la metà del secolo XIX una grande scoperta<br />

si affaccia sulla scena del mondo; una scoperta destinata a « rivoluzionare»<br />

a Roma, come del resto in tante altre città, l'orientamento<br />

cittadino: la macchina a vapore, la strada ferrata e quindi<br />

102<br />

la stazione ferroviaria. La stazione ferroviaria diventa dovunque,<br />

infatti, oltre che un edificio importante, un'altra porta e, soprattutto<br />

per qualche tempo - fino a che altre macchine e altre scoperte<br />

non sopravvengano a restituire alle vecchie strade e alle vecchie<br />

porte una parte almeno della loro funzione - la grande e quasi<br />

l'unica porta di comunicazione della città col mondo di fuori, verso<br />

cui presto, quindi, converge, s'adatta e s'orienta l'intera rete stradale<br />

cittadina.<br />

È noto come varie furono le località designate per accogliere<br />

in Roma la nuova stazione - per qualche tempo si pensò perfino<br />

di collocarla dietro al Colosseo - ma sempre, a ogni modo,<br />

quelle località erano a oriente della città: come del resto era forse<br />

, inevitabile, dato che principalmente da quella parte la città si<br />

presentava disabitata e più facili n'erano quindi gli accessi.<br />

È questo il fatto che determina il nuovo orientamento della<br />

città: la stazione ferroviaria diventa quello che fino allora era stata<br />

la Porta del Popolo, e la nuova Via Nazionale, che a Roma è un<br />

po' quello che a Napoli è il rettifilo rispetto alla vecchia Via Toledo,<br />

assolve la funzione che fino allora aveva assolto la Via del Corso.<br />

Così Giuseppe Mazzini, il profeta della Nuova Italia, ancora<br />

nel 1849 entra per la Porta del Popolo e vede anzitutto aprirsi<br />

dinanzi a sé il taglio sottile del Corso: ma passeranno poco più<br />

di vent'anni, e i pratici « realizza tori » della stessa Italia, Giovanni<br />

Lanza e Quintino Sella, scenderanno invece comodamente alla<br />

Stazione di Termini e vedranno dinanzi a sé il solco della strada<br />

appena incominciata: la strada che noi conosceremo poi col nome<br />

di Via Nazionale.<br />

Tale, in breve, come abbiamo detto innanzi, il significato della<br />

Via Nazionale.<br />

* * *<br />

Si noti che la nuova arteria stradale, destinata a congiungere<br />

il centro con la Stazione, era stata studiata, e in parte anche trac-<br />

ciata, fino dall'ultimo decennio del Governo Pontificio, fino dal<br />

tempo di Mons. De Merode, che n'era stato anzi uno dei principali<br />

fautori, ma il suo compimento, e soprattutto la costruzione degli<br />

103<br />

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edifici da cui oggi la vediamo fiancheggiata _se si fa eccezione.<br />

di uno che fa angolo con Via Torino e che confessa di risalire al<br />

quinquennio 1865-70 - appartengono, per la maggior parte, al<br />

primo ventennio del Regno d'Italia.<br />

Per convincersi di questo, non è necessario rispolverare documenti<br />

d'archivio e neppure soffermarsi troppo sui particolari della<br />

sua costruzione: basta percorrere, ad occhi aperti, la via e leggere<br />

insieme le date che è essa stessa ad offrire.<br />

Ecco, dinanzi a Palazzo Antonelli, il piccolo tratto di Mura<br />

Serviane che dichiara d'essere stato scoperto nel 1875, ecco, di<br />

fianco alla salita di Magnanapoli, un palazzetto che accusa la sua<br />

data di nascita in un bel corsivo: 1879. Ed ecco, a metà della<br />

stessa via, il Palazzo dell'Esposizione che è - e lo grid~ dal suo<br />

frontone - del 1882: una data che ricorre anche in una lapide<br />

che si legge sulla facciata dell'Hotel del Quirinale dove, in quell'anno,<br />

è morto un uomo del Risorgimento, uno che trenta anni<br />

prima, nel 1849, aveva combattuto sulle mura di Roma e che<br />

perciò appunto si chiamava Medici del Vascello.<br />

E poi la Chiesa Americana, che è del 1874, a principio, la<br />

Chiesa Valdese, che è del 1884, alla fine: due chiese che difficilmente<br />

sarebbero potute sorgere in regime pontificio, e che accusano<br />

i tempi della formula Cavouriana: libera chiesa in libero stato.<br />

Per la Via Nazionale si potrebbe ripetere così quello che s'è<br />

detto per il Risorgimento: e cioè che un Papa, Pio IX, l'ha tenuta<br />

a battesimo, ma che è stato qualcunaltro ad amministrarle il<br />

sacramento della «confermazione ».<br />

È infatti per quella strada, meglio ancora che per la Via XX Set-<br />

tembre, che l'Italia, che la Nazione Italiana entra in Roma; e le<br />

attribuisce un nome che, se si pensa, non potrebbe essere più<br />

appropriato e più significativo.<br />

Tutt'attorno, in quei primi decenni, crescono i nuovi quartieri:<br />

il quartiere del Macao coi nomi delle battaglie del Risorgimento,<br />

il quartiere dell'Esquilino, fino a S. Giovanni, con quelli degli<br />

uomini dello stesso Risorgimento e dei principi di Casa Savoia.<br />

E intanto, lì presso, Quintino Sella posa il gran dado del suo<br />

Ministero, e sul «bel Quirinale» la nuova dinastia ferma il suo<br />

104<br />

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volto e il suo nido. Ma il centro, l'arteria vitale di questo nuovo<br />

mondo di mattoni e di pietre che invade vigne e ville patrizie e<br />

si .dispone a grado a grado, ad anfiteatro, sui colli che s'affacciano<br />

sulla vecchia città nella valle, è proprio qui, nel solco fra Viminale<br />

e Quirinale, in questa via a cui presentano le armi, allineati come<br />

reggimenti, i nomi di tutte le città italiane che vi sboccano da<br />

una parte e dall'altra, a destra e a sinistra: la Via Nazionale.<br />

Così, a grado a grado, la Via Nazionale eredita dal Corso non<br />

solo la funzione di via principale d'accesso e di comunicazione<br />

col centro della città, ma anche quella di rappresentanza, o almeno<br />

una parte di essa.<br />

Naturalmente col passaggio del tempo possono anche cambiare<br />

queste forme di rappresentanza. Mentre sul Corso, feriatae urbis<br />

ippodromum, come, con icastica brevità, lo qualifica la lapide<br />

seicentesca che si legge ancora all'angolo di Via della Vite, decadono<br />

anche le feste che l'avevano reso famoso - dalla corsa dei<br />

Barberi ai Carnevali - e si spengono a mano a mano i « Moccoletti»<br />

e le luminarie che l'avevano «stenebrato », dalla nuova<br />

Stazione, e poi per la Via Nazionale fino al Quirinale, / cominciano<br />

a entrare i cortei che nei secoli precedenti, in forma di cavalcate,<br />

ad ogni arrivo di Sovrano o di nuova Ambasceria entravano per<br />

Porta del Popolo, diretti per il Corso - e poi Cesarini e Via<br />

Papale - in Vaticano.<br />

Con questo non bisogna correre a credere che il Corso abdichi<br />

del tutto e subito alla sua funzione: qui è sempre, soprattutto di<br />

domenica, il grande passeggio cittadino. Qualche nuovo caffè<br />

_ uno soprattutto che è stato aperto in un nuovo palazzo,<br />

Palazzo Marignoli, costruito da un arricchito su una industria<br />

completamente ormai sorpassata, quella delle diligenze - ha ereditato<br />

la fama di altri caffè famosi nel Risorgimento, come centro<br />

della vita politica e parlamentare che si svolge lì attorno e fa capo<br />

a Montecitorio e a Palazzo Madama. Ma in fondo il Corso è in<br />

decadenza: esso non è, per il momento, che una strada chiusa<br />

che fa capo a una Porta d'importanza locale - provinciale - e<br />

che, sul limitare, ha solo ormai due cose che importano: una<br />

grande Villa patrizia e un giardino pubblico, le jardin du Grand<br />

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César, il Pincio. E il più grande avvenimento è ormai quello<br />

quando la folla, assiepata sui marciapiedi, sente passare su di sé<br />

il sorriso d'una bionda regina che, nei pomeriggi d'inverno, torna<br />

appunto dal sole del Pincio e s'inchina verso la folla che applaude.<br />

Ma per le comunicazioni col grande mondo di fuori, per<br />

almeno un trentennio, la Via Nazionale è ormai l'unico mezzo e<br />

la Stazione l'unica porta. È di là che, per un trentennio, è entrata<br />

la nuova Italia, la nuova Europa.<br />

È l'epoca - non va dimenticato - della «sicurezza ».<br />

Su tutti i troni d'Europa c'era allora una testa coronata: anche<br />

in Spagna, anche in Serbia, anche in Bulgaria. E c'era un'Austria,<br />

un Impero Germanico, un Impero di tutte le Russie. Qualche<br />

volta qualcuna di queste teste coronate veniva a Roma a far visita<br />

a questa piccola Italia. Poi c'erano i matrimoni della famiglia<br />

regnante, gli anniversari dei matrimoni, le ricorrenze nazionali e,<br />

in tutte le occasioni, la Via Nazionale, fino alla Stazione, si parava<br />

a festa. Erano addobbi modesti, un po' paesani, che dovevano<br />

conservarsi nei magazzini del Comune e che ricomparivano ogni<br />

volta sempre gli stessi.<br />

Erano aste con bandiere tricolori e pennoni, da un Iato e dall'altro<br />

della strada, e poi archi metallici a gas che la sera s'accendevano<br />

e l'illuminavano tutta di colpo con le loro fiammelle : come<br />

- ma i tempi e il «progresso» avevano intanto camminato _<br />

qualche decennio prima, sul Corso, i «moccoletti».<br />

E oltre a ciò, a data fissa- due volte ogni anno: il 14 marzo<br />

e la prima domenica di giugno - c'erano le riviste. La dinastia<br />

venuta a Roma, la dinastia dei Savoia, era una dinastia guerriera<br />

e amava le parate militari.<br />

Le riviste, fino al 1900, avevano sempre luogo nell'interno<br />

del Macao, e ad esse seguiva la sfilata in Piazza dell'Indipendenza.<br />

Poi le truppe si incolonnavano e scendevano, reggimento per reggimento,<br />

per la Via Nazionale e si disponevano ai Iati della strada<br />

in attesa che, terminata la sfilata, i Sovrani ritornassero al Quirinale.<br />

Sono un bambino e abito in una piccola via tortuosa di un<br />

vecchio quartiere del centro. Mio padre mi conduce sempre a quelle<br />

riviste; specialmente a quella per la festa dello Statuto, che cade<br />

106<br />

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la prima domenica di giugno. Quando arriviamo, le truppe SI<br />

stanno disponendo o sono già appena allineate da un Iato e dall'altro<br />

della strada.<br />

Qualche volta, specialmente quando la folla è molta e i soldati<br />

_ granatieri ad esempio - troppo alti, nessuna speranza per un<br />

bambino come me di vedere oltre quella siepe di corpi. Ma poi,<br />

con un po' di insistenza da parte mia e molta indulgenza dei<br />

vicini, ecco alla fine sono in prima fila: in grado di vedere, sia<br />

pure tra soldato e soldato, tutta la strada sgombra sotto il sole di<br />

giugno.<br />

Tutt'a un tratto cominciano a sentirsi secchi ordini militari,<br />

tutta la linea si irrigidisce e balena di armi: poi cominciano a<br />

sentirsi, prima lontane poi sempre più vicine, le note degli inni e<br />

delle fanfare dei vari reggimenti, e infine ecco, a distanza di pochi<br />

minuti, l'uno dopo l'altro, i due cortei: prima, al trotto, quello<br />

delle carrozze della Regina con le livree rosse, poi quello, al passo,<br />

dei generali e ufficiali superiori, un bel gruppo di divise con a<br />

capo _ in prima fila - lo stesso Re che risponde al saluto della<br />

folla portandosi ogni momento la mano a l'elmo piumato.<br />

Poi, passati i cortei, le fila si rompono, la folla invade la strada,<br />

i reggimenti si ricompongono, battaglione per battaglione, sfilano,<br />

fanfare in testa, nel gran sole di Roma.<br />

Ricorderò finchè campo la musica di quelle fanfare, lo scalpiccio<br />

cadenzato - sulla strada gialla di rena - dei plotoni che<br />

scendono verso Piazza Venezia, ma soprattutto quell'aria di esultanza<br />

e di festa che brilla dovunque attorno, sul volto di tutti,<br />

nell'aspetto di tutte le cose.<br />

Così in Via Nazionale io ho imparato per la prima volta a<br />

conoscere l'Italia e - come avrei potuto altrimenti? - ad amarla.<br />

E quando ora vi ritorno qualche cosa di quel passato ritorna<br />

sempre con me. Sì, è una vecchia strada «banale », ma come<br />

potrei cessare d'esserle affezionato?<br />

La splendida strada del Corso, tanto più bella, più varia, ci<br />

presenta con le facciate dei suoi palazzi - magnalia Urbis -<br />

l'immagine della società romana e della fastosa nobiltà papale che<br />

ha contribuito a crearla tra il 1600 e 1700.<br />

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Ma le facciate un po' severe, un po' chiuse e niente affatto<br />

belle, anche se dignitose, della Via Nazionale sono l'immagine<br />

invece, altrettanto fedele, di un'epoca tanto più vicina a noi, e<br />

di un'altra classe: sono il ritratto della nuova borghesia italiana,<br />

anzi subalpina: laboriosa, ordinata, risparmiatrice. Quella che ha<br />

fatto il Risorgimento, quella che è venuta a Roma, che ha conquistato<br />

il potere e che ora è qui, in piedi, allineata come un<br />

piccolo esercito dietro quelle facciate.<br />

E se non m'imbattessi, salendo, in queste mura di Servio e,<br />

voltandomi indietro, non vedessi lo stelo della Colonna Traiana,<br />

potrei anche pensare per un istante di trovarmi in un quartiere<br />

della vecchia Torino che ho conosciuto tanto più tardi.<br />

Poi, a grado a grado, col passare degli anni, spariscono o almeno<br />

lentamente s'attenuano le differenze tra la « Roma alta» e quella<br />

del centro, fra i vecchi quartieri ed i nuovi: anche perché gli uni<br />

si rinnovano e gli altri invecchiano un poco e acquistano anche<br />

essi il fascino che a una bella creatura aggiunge sempre la scoperta,<br />

sulle tempie, del primo filo d'argento. Ecco, alla Via Nazionale<br />

hanno aggiunto a un certo momento la vista - in fondo _d'una<br />

bella fontana, le hanno aperto, da un lato, prima un traforo come<br />

quello sotto il Quirinale, poi, più di recente, una grande strada:<br />

quella che si chiamò, in principio, Via Regina Elena. La Via Na-<br />

zionale non si presenta più, com'era prima, tutta chiusa e ritrosa,<br />

da principio alla fine, quale l'unica via di comunicazione tra la<br />

stazione e il resto della città: essa ha imparato a dividere con altre<br />

vie questo privilegio e questo peso. Essa, pur conservando il suo<br />

carattere, è diventata più di casa: è come la sposa che, entrata<br />

nella casa della famiglia del marito, rimane per qualche tempo<br />

a sé, chiusa nella stanza che è sua - solo sua - ma poi, a grado<br />

a grado, impara anch'essa ad amare tutta la casa, come impara ad<br />

amare i suoi vecchi. E intanto passano gli anni, ed essa stessa non<br />

è più giovane; ma giovane rimane invece la casa che le è sem-<br />

brata così vecchia il primo giorno che v'è entrata, e giovani riman-<br />

gono i figli che intanto le son nati e che le portano da fuori gli<br />

inni, le bandiere ed i fiori che, sempre diversi, e sempre gli stessi,<br />

crescono e variano ad ogni nuova stagione.<br />

108<br />

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Così, come ho già detto, la Via Nazionale è diventata di casa:<br />

essa è ora una delle tante strade di Roma e non è più in antitesi con<br />

la Via del Corso e con il resto della città, con la quale ha finito<br />

col fondersi, allo stesso modo che le emigrazioni delle varie regioni<br />

si sono fuse con la vecchia popolazione, pur ricambiando ciascuna<br />

qualche cosa del proprio costume, della propria indole, dello stesso<br />

proprio dialetto.<br />

Essa rappresenta e incarna ormai semplicemente un momento<br />

del continuo divenire d'una città come Roma: il momento sub-<br />

alpino dei primi anni d'un regno, del nuovo Regno d'Italia, come,<br />

fra Ponte e Parione, le vie dei Banchi restano a rappresentare il<br />

periodo toscano del Rinascimento, e la Via del Corso quello del<br />

grande «barocco» del Seicento e Settecento.<br />

Ma essa ha ormai chiuso il suo ciclo; ha vissuto i suoi anni<br />

migliori ed è anch'essa ormai superata da altri sviluppi e da altri<br />

indirizzi; tanto che se ne può fare la storia.<br />

* * *<br />

Tuttavia la storia di Via Nazionale non può dirsi completa<br />

senza ancora una piccola aggiunta.<br />

Ricordo un giorno, una stagione fatale, quando il suo destino<br />

sembrò dovesse improvvisamente oscurarsi. Fu durante l'ultima<br />

guerra: primo semestre del 1944.<br />

Attorno a Roma la guerra aveva progressivamente troncato tutte<br />

le comunicazioni ferroviarie e la stazione era, in conseguenza, quasi<br />

del tutto abbandonata e deserta. Si chiudeva così la porta che,<br />

come abbiamo detto a principio, s'era aperta circa ottant'anni<br />

prima a oriente della città. E alla Via Nazionale veniva di colpo<br />

a mancare la sua ragion d'essere, la funzione per cui era stata<br />

disegnata ed aperta. Essa era, per così dire, « degradata» : cessava<br />

di essere quello che per tanti anni era stata anche lei - principem<br />

Vrbis aditum - per ridiscendere al « ruolo» minore di semplice<br />

via di comunicazione interna.<br />

La guerra - aiutata in ciò anche dai nuovi mezzi di comunicazione<br />

che da circa mezzo secolo s'erano aggiunti alla ferrovia -<br />

aveva riscoperto infatti il destino essenziale della città, che è di<br />

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ponte di comunicazione fra Nord e Sud, e riportatolo sulle vecchie<br />

strade: la Cassia e la Flaminia da un lato, l'Appia dall'altro, che,<br />

in Roma, attraverso il Corso e la nuova via dell'Impero, s'incontrano<br />

in Piazza Venezia.<br />

E proprio a Piazza Venezia, ai primi di giugno del 1944, rammento<br />

d'aver visto coi miei occhi fuggire verso il Corso, come<br />

animali stanchi inseguiti, gli ultimi tedeschi e, una sera, arrivare<br />

da Via dell'Impero le prime jeeps americane.<br />

Così la Provvidenza ha collocato la mia vita a un crocevia:<br />

all'incontro di tre epoche e di tre strade. Ho visto spegnersi gli<br />

ultimi moccoletti sulla Via del Corso, ho visto le ultime teste<br />

coronate galleggiare sulla Via Nazionale, ho visto sulla Via del-<br />

l'Impero i primi bagliori delle guerre dei Popoli e dei Continenti.<br />

E nel momento di voltare pagina, e forse di chiudere il Libro,<br />

guardando, come a un ritratto di persona cara, a una pianta della<br />

città, e pensando ai suoi sviluppi, ai suoi futuri destini, mi vien<br />

fatto di chiedere, come l'Apostolo: Quo uadis Domina?<br />

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(Renato Bussi)<br />

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PERCHÈ NON SI RIPRISTINA<br />

L'ACQUA LANCISIANA?<br />

Rorna, oltre al singolare pregio di disporre d'una copia di acqua<br />

derivante dall'affluire concorde di numerosi acquedotti, vantava<br />

anche acque sotterranee, che col volger del tempo andarono<br />

disperse e a causa delle quali, talvolta, erigendosi stabili, si dové<br />

ricorrere a palafitte. Ma non è qui il caso di occuparsi in modo<br />

speciale di quelle, sibbene delle altre tipicamente salubri, siano<br />

esse state soppresse, siano ancora relativamente in uso, a cominciare<br />

dall' Aqua Acetosa, la cui iscrizione in situ assicura «risani<br />

lo stomaco, la milza, il fegato» e « giovi a tutti i mali ». Purtroppo<br />

essa ha chiuso ormai il suo migliore periodo, perché limitata nel-<br />

l'afflusso e in parte «industrializzata» (come quella detta di<br />

S. Paolo), onde minimo è l'uso riservato al pubblico.<br />

Andata dispersa è la celebre Acqua ~rgentina (forse la Fons<br />

Mercurii ricordata da Ovidio), che ancora un secolo fa era tanto<br />

apprezzata, e perciò usata, da trovame il ricordo perfino in una<br />

incisione di Achille Pinelli.<br />

Quella detta del Grillo (proveniente dal Quirinale), leggerissima,<br />

che sgorga ora da una fontanella situata in un localetto del<br />

palazzo Di Robilant, localetto oscuro in fondo ad una autorimessa<br />

e che viene generalmente adoperata per... il lavaggio delle mac-<br />

chine! Eppure un'analisi chimica la dichiarò «di limpidezza perfetta,<br />

litiosa e di molto odore ».<br />

Che dire poi dell' Acqua Santa, sgorgante sull' Appia Nuova<br />

in una piccola tenuta? Ebbe il merito di risanare Alessandro VII<br />

e di giovare a Pio VI. Leone XII amava sostare nel piccolo stabilimento<br />

all'uopo sorto. Oggi i bagni salutari son soppressi e l'acqua,<br />

racchiusa in bottiglie, ha dato motivo anch'essa ad un'industria,<br />

come quella, di recente istituzione, detta «Sacra ».<br />

Ma la perdita maggiore è costituita dalla soppressione del-<br />

l'Acqua Lancisiana, che molti autorevoli medici dichiararono il<br />

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migliore rimedio «per l'uricemia, l'arteriosclerosi e i calcoli<br />

renali ».<br />

La salutare acqua venne scoperta dal dotto Alessandro Petroni,<br />

archiatra di Gregorio XIII. Ma fu il Lancisi che, molto più tardi,<br />

ebbe occasione di esperimentarla e di rilevarne l'importanza, onde<br />

indusse Clemente XI (di cui era medico) a condurla nell'interno<br />

dell'ospedale di S. Spirito per uso di quei degenti e della popolazione.<br />

Per quest'ultima però venne riservata una bocca all'esterno<br />

che .fu soppressa quando Leone XII, costruendo il porto che da<br />

lui prese il nome (incontro al palazzo Salviati), adornò il sito con<br />

una fontana notevole.<br />

Ma appena morto il pontefice venne rivolta una supplica' al<br />

suo successore, Pio VIII (1829), «da parte dei popoli della Longara<br />

e della Salita di S. Onofrio, sudditi fedeli ed oratori umilissimi<br />

di S. Santità ». Ricordavano questi «popoli» che Clemente XI<br />

aveva fatto «edificare detta fontana d'acqua nobilissima per uso<br />

e benefizio pubblico », ma la fonte fu tolta dall' Autorità superiore<br />

nel 1828, con danno sommo e dispiacimento e senza averne potuto<br />

investigare un serio motivo ». Dimandavano perciò che venisse<br />

restituita «loro l'acqua della suddetta fontana, il che umilmente<br />

.e fervorosamente imploravano e con fermezza speravano dalla<br />

;sperimentata carità e paterna benevolenza della Santità Sua verso<br />

fedelissimi sudditi ». Questo memoriale, di cui si trova copia<br />

presso l'Archivio Capitolino, indusse Pio VIII ad incaricare<br />

mons. Lancellotti, presidente delle Acque, di esaminare attenta-<br />

mente la questione e provvedere di conseguenza. II magistrato<br />

diede parere favorevole; ma l'ospedale di S. Spirito chiese ed<br />

-ottenne che la fonte pubblica venisse trasferita nelle vicinanze del<br />

Porto Leonino, il che avvenne, e nell'agosto del 1830 il flusso<br />

.dell'Acqua Lancisiana veniva ripristinato.<br />

La fontana fu disposta precisamente in prossimità dello scom-<br />

parso ponte dei Fiorentini, al disotto del livello stradale, e vi si<br />

.accedeva per una scaletta di 27 gradini. Venne ornata da due<br />

iscrizioni: una dedicata a Clemente XI e l'altra a Pio VIII.<br />

Nel luglio 1897 furono intrapresi i lavori per la sistemazione<br />

del Lungotevere in quella zona e la fonte sembrò destinata a<br />

sparire; ma in seguito alle insistenze della stampa e di autorevoli<br />

cittadini, ciò fortunatamente non avvenne. Fu sistemata a destra<br />

dello sbocco di detto ponte e addossata al costruito muraglione.<br />

Vi si accedeva - come si può constatare tutt'oggi - per due<br />

scalette convergenti che uniscono da questa parte il piano della<br />

strada a quello del fiume. Fu disposta in modo che sgorgasse<br />

sull'ultimo pianerottolo di detta scalinata a circa cinque metri<br />

dal pelo estivo del Tevere, entro due nicchiette per due rami,<br />

fornito ciascuno di due bocche, che versavano l'acqua dentro<br />

vasche rettangolari incassate nei muraglioni stessi.<br />

Passarono alcuni anni e poi improvvisamente si dispose che<br />

l'acqua venisse limitata, perché venduta in parte ad una società<br />

la quale, come l'Acetosa, l'avrebbe imbottigliata e rivenduta al<br />

pubblico.<br />

Ma una mattina - siamo ai tempi recenti - mentre i soliti<br />

bevitori si recavano alla fonte, constatarono con meraviglia che<br />

l'acqua era scomparsa! Un agente informava che la chiusura era<br />

avvenuta in seguito a sospetti d'inquinamento, dovuto forse alla<br />

costruzione del collettore del Gelsomino, il quale porta le acque<br />

dalla Pineta Sacchetti; durante la sistemazione di un cunicolo<br />

si sarebbe rotta una vena. In seguito a ciò, allarme dell'Ufficio<br />

d'Igiene e soppressione della fonte.<br />

Passano i mesi; molti si recano a vedere se sia avvenuto il<br />

miracoloso ritorno della Lancisiana; ma constatano che la fonte<br />

è sempre secca, e per evitare affollamenti se ne è chiuso l'accesso<br />

con un tavolato! Forse della Lancisiana non si parlerà più...<br />

Giova richiamare in particolar modo l'attenzione delle autorità<br />

su quest'acqua pregiatissima, nella speranza che chi di dovere<br />

comprenda l'opportunità, dopo nuovi e attenti esami, di ripristinarne<br />

l'uso, il che è nei voti di tutti i romani.<br />

Né i lavori di ripristino dovrebbero risultare difficoltosi, tenuto<br />

conto che sussistono tuttora due modeste vene ancora in attività:<br />

una nell'interno dell'ospedale di S. Spirito e l'altra nel monastero<br />

dei Sette Dolori in via Garibaldi. Quindi la zona di ricupero<br />

non avrebbe un'eccessiva estensione.<br />

P. ROMANO<br />

112 113<br />

Il<br />

I<br />

1:1I1\<br />

I<br />

lini<br />

I


CINQUECENTO ROMANO<br />

114<br />

A CASA D'IMPERIA<br />

I<br />

cm'arillegro, signora... Eh, 'sti palazzi,<br />

sotto Giulio Seconno o so', perdiana,<br />

de monsignori in abbiti paonazzi,<br />

o so' de quarche illustre cortiggiana!<br />

lmperia, er vostro spopola... E qui arazzi,<br />

qui marmi e bronzi de l'età romana,<br />

e vasi e soprammobbili e pupazzi<br />

e tappeti a la turca e a la persiana.<br />

Nun c'è un mattone spiccio... L'invitato,<br />

drento 'sta reggia vostra a Ponte Sisto<br />

nun sa dove sputà': tutt'occupato!<br />

P6 rovinà' tappeti de valore?...<br />

E allora, in tanto lusso, quarche tristo<br />

sputa addrittura... in faccia ar serpitore!<br />

II<br />

Aria de paganesimo... Arte antica...<br />

Ecco Roma de 'st'epoca... È 'na gara.<br />

Tutti a comprasse l'anticaja rara<br />

che voi potete avè'... senza fatica.<br />

Co' voi, poetessa, nun t'annoji mica.<br />

Ciavete un estro!... E giù!... Canto e ghitara.<br />

Lo sa Agostino Chiggi a la Lungara<br />

quanto costeno l'estri de l'amica!<br />

lmperia, stella de' Rinascimento,<br />

chi disegnò 'sta casa?... Raffaello?...<br />

Apposta puro lui ciappizza drento.<br />

,Ghiggi protegge l'Arte e fa benone...<br />

E voi, quann' esce questo, uprite a quello<br />

p'assicurallo de 'sta protezzione!<br />

III<br />

Accicoria che cene!... Er piatto passa,<br />

luccica er gabbarè, schizza er turaccio...<br />

_ Banchiere, com'annamo co' la cassa?...<br />

E tu, poeta?.. Un antro scartafaccio?...<br />

Voi raccontate la storiella grassa;<br />

ridate vita a l'arte der Boccaccio...<br />

E Agostino ce ride e se la spassa,<br />

e l'umanista trinca... e canta a braccio.<br />

, Bella la Musa, jotti l'invitati.<br />

Ponte Sisto, ogni sera, è un formicaro:<br />

nobbili, dotti, artisti, letterati...<br />

Quanno torneno, a l'arba, a casa loro,<br />

pe' la Regola s'arza er vaccinaro,<br />

er conciapelle attacca er su' lavoro...<br />

GIULIO CESARE SANTINI<br />

115


UN OLIO MIRACOLOSO<br />

Era già noto agli studiosi di storia della medicina, per averne<br />

tramandato il ricordo Andrea Mattioli nel suo «Dioscoride », il<br />

curioso esperimento fatto eseguire da Clemente VII «in anima<br />

nobili» (come si diceva) su due condannati a morte, allo scopo<br />

di provare le virtù d'un certo antidoto preparato dal' chirurgo<br />

bolognese, ed ex frate, Gregorio Caravita (1). Oltreché contro i<br />

veleni l'antidoto era ritenuto efficace anche contro la peste, non<br />

diversamente da quel prodigioso smeraldo, che allo stesso Clemente<br />

VII donò nel novembre del 1525 il marchese di Bitonto<br />

Giovanni Francesco Acquaviva: detto, nella lettera che accompagnava<br />

il regalo, pietra « optima con tra peste, Contra veneno et<br />

contra male epileutico» (2).<br />

Numerosi furono nel Cinquecento gli esperimenti medici su<br />

condannati a morte. Consapevoli o ignari, costoro si sottoponevano<br />

alla prova, che nel caso di esito fortunato poteva liberarli anche<br />

dalla pena capitale. Il più famoso, in ragione della sua crudeltà<br />

e della celebrità dell'autore, fu quello eseguito a Pisa dal grande<br />

anatomico Gabriele Falloppio su due criminali concessigli dal<br />

duca Cosimo. Negata dal Tiraboschi e da altri la storicità del<br />

racconto, che si legge nelle opere dello stesso Falloppio, essa fu<br />

provata da Alfonso Corradi, il quale si è occupato dell'argomento<br />

in una dotta memoria dove, insieme a parecchi altri esperimenti<br />

del genere, ricorda, citando il Mattioli, anche quello romano, che<br />

sembra essere il più antico (3).<br />

(1) P. A. MATTIOLI, Il Dioscoride, Venezia, 1548, p. 560.<br />

(2) M. RosI, Un rimedio contro la peste offerto a Clemente VII, in<br />

«Arch. della Società Romana di Storia Patria », XXI, (1898), p. 244.<br />

. (3) A. CORRADI,Degli esperimenti tossicologici in anima nobili nel Cinquecento,<br />

in «Memorie del R. 1st. Lomb. di Scienze e Lettere », XVI,<br />

(1886), p. 4 (estr.). -<br />

-116<br />

. .<br />

" ';. . ... ...~ :~" ~ :: \~_.._.<br />

, -<br />

. .-::.~..u ::..~-_...<br />

Pietro Paolo Magni, Discorsi intorno al sanguinar i corpi humani,<br />

il modo di attacare le sanguisuche e venose e far frittioni e vesicatorii.<br />

[Roma, tipo Bartolomeo Bonfadini,] 1584.<br />

1a ediz. sconosciuta ai bibliografì, esposta alla « Mostra del libro<br />

illustrato romano del Cinquecento» dalla Biblioteca Angelica.<br />

(Esemplare della Biblioteca Nazionale di Roma - tav.2")<br />

Il<br />

I<br />

Il''<br />

Il<br />

t.


"<br />

Ora di questo esperimento avvenuto a Roma, a cui il testimone<br />

oculare Mattioli dedica poche righe, mi è capitato di trovare<br />

la narrazione particolareggiata, anzi la relazione ufficiale, in un<br />

opuscolo di quattro carte, un esemplare del quale si conserva nella<br />

Biblioteca Marciana di Venezia. L'opuscolo in 40 è privo di note<br />

tipografiche, ma l'anno di pubblicazione si può fissare al 1524 e i<br />

caratteri rivelano che lo stampatore fu senza dubbio il comasco<br />

Francesco Minizio Calvo, il quale esercitò in Roma l'arte del<br />

tipografo per un decennio circa, a partire dal 1523. Il Calvo fu<br />

conterraneo e amico di Paolo Giovio, il principale autore, come<br />

vedremo, dell'esperimento. Insieme ad alcune edizioni di maggior<br />

mole (monumentale la traduzione latina di Ippocrate, a cura del<br />

ravennate Marco Fabio Calvo, del 1525)e a numerose bolle papali,<br />

Francesco Calvo pubblicò diversi opuscoli, per lo più anonimi,<br />

contenenti relazioni, lettere, documenti, estratti di opere maggiori:<br />

stampe in genere assai rare.<br />

L'opuscolo in questione s'intitola: «Testimonium de verissima<br />

ac admirabili virtute olei compositi contra pestem et omnia venena.<br />

De quo iussu Clementis VII Pont. Max. periculum fecere viri<br />

clarissimi Romae in Capitolinis aedibus anno MDXXIIII mense<br />

Augusto ». È qUIndi una specie di attestato solenne, non sappiamo<br />

se sollecitato dall'interessato stesso, o fatto da lui pubblicare, che<br />

s'indirizza «omnibus bonis mortalibus» e reca in fine tre firme:<br />

« Petrus Borgesius senator Urbis », «Paulus lovius S.D.N. physicus<br />

» e « Thomas Biliottus aromatariae tabernae pontificiae magister<br />

». Il Giovio, medico e storico, è personaggio troppo noto perché<br />

debba essere qui illustrato; quanto a Pietro Borghese, di Siena,<br />

basterà precisare ch'egli era stato senatore negli anni 1510, 1515<br />

e 1516, mentre nel 1524 ricopriva tale carica il fiorentino Simone<br />

Tornabuoni (4).<br />

Ritengo possa offrire qualche interesse il riassumere la finora<br />

sconosciuta versione ufficiale dell'esperimento capitolino: essa<br />

viene a correggere in alcuni punti e ad arricchire di curiosi particolari<br />

il racconto già noto del Mattioli.<br />

(4) A. VENDETTINI,Serie cronologica de' Senatori di Roma ecc., Roma,<br />

1778, pp. 101 55.<br />

118<br />

\<br />

L<br />

T<br />

Eftimonium<br />

cotra peftem & omnia uenena. de quo.<br />

de uerifuma ac ad..<br />

mirabiliuirtuteolei compofiti<br />

iuffu Clelnentis. V I I. Ponte Max. peri..<br />

culum fecere uiri clariff. Romz in Ca..<br />

pitolinis zdibus anno. MeD. XXI I I I.<br />

menfe Augufto.<br />

Durante la terribile pestilenza infierita nell'Urbe sotto il pontificato<br />

di Adriano VI, nell'autunno del 1522 (quando il papa s'era<br />

ridotto a dare udienze dalla finestra, tutti i cardinali tranne uno<br />

avevano lasciato Roma, e nella città i morti - per dirla col Belli -<br />

« fioccaveno a carrette »), il chirurgo bolognese Gregorio Caravita,<br />

che s'era prodigato a curar gli appestati nell'ospedale di San Giovanni<br />

in Laterano, aveva potuto preservarsi immune dal contagio<br />

grazie a un olio di sua preparazione, mentre quasi tutti gli altri<br />

suoi colleghi erano morti, vittime del dovere. È noto che in quella<br />

triste circostanza la superstizione popolare, come suole avvenire,<br />

era ricorsa con esaltata fiducia ai rimedi più assurdi, fino al rito<br />

pagano dell'immolazione d'un toro allo scopo di placare la divinità<br />

(5). È quindi spiegabile come il ritrovato dell'olio miracoloso<br />

procurasse subito al suo inventore «honestas divitias et clarum<br />

nomen ». Il successore di Adriano VI s'interessò della cosa e ordinò<br />

l'esperimento, bene accetto al Caravita.<br />

(5) M. ROSI, op. cit., p. 242.<br />

119


Nientemeno che «in excelso cacumine Apaennini montis in<br />

Umbria» fu mandata a cogliere la pianta velenosa, scelta per<br />

provare l'efficacia dell'antidoto. Essa era il napello, « herba mortifera<br />

quae antiquitus vocabatur aconitum », e che in realtà è una<br />

varietà dell'aconito.<br />

Ridotto il napello a una polvere giallastra, e mescolata questa<br />

in quantità di mezz'oncia a una «placenta saccaracea, quam<br />

marzapanem vocant », il Caravita e compagni si recarono alle<br />

carceri capitoline, dove due «sicarii et crassatores insignes» di<br />

nazionalità corsa, certi Giovanni Francesco e Ambrogio, languivano<br />

in attesa della fatale scure. Era già lì il boia, pronto a entrare<br />

in azione, e alcuni uomini pii (probabilmente dell'arciconfraternita<br />

di San Giovanni Decollato) assistevano, come d'uso, i ladroni e li<br />

confortavano, quand'ecco entrare i medici, recanti con sé la torta<br />

insidiosa e una fiasca di vino. Ai disgraziati i sopravvenuti danno<br />

a intendere che il papa, per intercessione di alcuni pezzi grossi<br />

sotto i quali i due un tempo avevano militato, s'era risolto a conce-<br />

der loro la libertà «ad certum tempus ». Vengono allontanati i<br />

pii consolatori e il carnefice, che per il momento non servivano più,<br />

e le cavie umane, fuori di sé dalla gioia, sono rifocillate con marza-<br />

pane avvelenato e vino genuino. Ad Ambrogio, il più giovane e<br />

più criminale, la torta non va a genio: egli si dibatte, la risputa<br />

e s'attacca al vino. L'altro invece, Giovanni Francesco, che la<br />

riconciliazione con Dio e la rassegnazione dovevano aver messo<br />

di buon appetito, si divorò la propria porzione e quella del compagno,<br />

mentre inveiva santamente contro la sua empia sfiducia<br />

nella Provvidenza divina e negli uomini.<br />

Il contegno inaspettatamente diverso dei due còrsi dové causare<br />

nei medici un momentaneo imbarazzo, che però superarono brillantemente<br />

col somministrare ad Ambrogio, in luogo del marzapane<br />

rifiutato, un uovo fresco, debitamente iniettato della mede-<br />

sima dose di napello zuccherato «ut exaequato veneno, uterque<br />

pariter eodem periculo conflictaretur ». (Il Mattioli trascura di<br />

riferirci il particolare dell'uovo, e dice soltanto che «quello che<br />

più napello si mangiò in un marzapane, volsero i medici, che fusse<br />

unto dell'olio»). Si tolgono le manette ai due ladroni, e mentre<br />

il cattivo, con le catene ai piedi, è abbandonato al suo destino,<br />

quello buono viene fatto passare in una vicina cella, dove sarà<br />

sottoposto alla cura. Su ambedue il napello aveva cominciato<br />

intanto a fare il suo terribile effetto: «aestuare, suspiria trahere,<br />

conqueri de oppressione cordis, pallescere, et nausea vomituque<br />

agitari coeperant ».<br />

Ecco entrare in azione il dottor Caravita : egli afferra Giovanni<br />

Francesco, lo spalma ben bene del suo olio alle tempie alle braccia<br />

ai piedi, nei punti «ubi pulsatiles arteriae sentiuntur»; gliene<br />

versa alcune gocce nella regione del cuore, che strofina mollemente.<br />

Il buon còrso si riprende, rivive, e ingoiata della mollica di pane<br />

inzuppata di vino «corsicano» entra in sudore, vomita, fa un<br />

goccio d'acqua... In capo a due giorni è bell'e guarito. Il papa<br />

gli fa dono della vita e lo condanna alle galere. L'altro, è superfluo<br />

aggiungere, nello spazio di poche ore era crepato in mezzo ad<br />

atroci sofferenze.<br />

La fama vola per tutta Roma; il Caravita è coperto di gloria.<br />

Ma gli scrupolosi esaminatori non si 'contentano: essi vogliono<br />

ripetere l'esperimento con un diverso veleno. Tornati alle carceri<br />

capitoline, prelevano un altro omicida, certo Antonio Mantovano,<br />

e questa volta alla presenza di una folla di curiosi, tra cui il corrispondente<br />

del marchese di Mantova (che poi ne scriverà al suo<br />

principale), gli propinano due uova all'arsenico. Dopodiché con<br />

le proprie mani - ad evitare il pericolo che il Caravita, « circumforaneorum<br />

chirurgorum more, aliquo versatili argutarum manuum<br />

ioco nos eluderet, oleoque aliud antidotum supponeret, quo nos<br />

omnino deciperemur» - gli ungono d'olio il corpo nei punti<br />

strategici. Ma pare che l'intervento fosse questa volta un po' tardivo,<br />

tanto che il disgraziato stava per andarsene all'altro mondo,<br />

e già gli si erano freddati i piedi. Dové essere ricreato con un<br />

mattone caldo e con l'aspersione, sul volto e alle estremità, di vino<br />

e aceto rosaceo. Tuttavia anche sul mantovano l'olio ebbe effetto<br />

positivo, e - uomo fortunato - andò a passare il resto della<br />

vita nelle galere pontificie.<br />

L'opuscolo conclude: «Tanta re feliciter comprobata, Gregorius<br />

apud omnes lauream mirabilium operum meruit, et a Pontifice<br />

120 121<br />

ai


liberaliter susceptus est, ita ut illi amplius terrarum orbis non sit<br />

ad quaerendas opes pererrandas».<br />

Dopo il duplice riuscito esperimento (per giudicare il quale<br />

gioverà tener presente l'osservazione del Corradi: « ...si guardava<br />

unicamente all'esito, senza tener conto delle circostanze in mezzo<br />

alle quali la prova si conduceva, e neppure di ciò che s'adoprava<br />

») (6), l'agente del marchese di Mantova, testimone oculare della<br />

seconda prova, cercò di ottenere dal Giovio un saggio dell'olio<br />

miracoloso da portare al suo signore. Nella lettera al marchese<br />

egli riferisce: «Se existima ch'el Papa vorrà il secreto et che lo<br />

pubblicherà per ben comune» (7).<br />

Quale sarà stato il «segreto », ossia la ricetta dell'antidoto?<br />

Secondo il Mattioli si trattava probabilmente di «vecchio olio,<br />

se di cent'anni tanto meglio, nel quale, infuse piante odorose,<br />

erano stati cotti vivi scorpioni colti ne' giorni canicolari, et aggiuntivi<br />

parecchi aromi con teriaca eletta e mitridato (8). La ricetta<br />

sembrerà oggi piuttosto originale, ma lo era assai poco allora, se<br />

già nello scritto di Marsilio Ficino intorno alla peste ne troviamo<br />

una pressoché identica (9). Tuttavia il Caravita ricavò dal suo olio,<br />

sul momento, onori e guadagno: il che sarà stato almeno un reale<br />

beneficio arrecato a un uomo da quell'orrenda mistura.<br />

FRANCESCO BARBERI<br />

(6) A. CORRADr,op. cit., p. 46.<br />

(7) La lettera, riprodotta dal Corradi, era stata pubblicata per la<br />

prima volta da A. Luzio in P. GIOvIO, Lettere tratte dall'Archivio Gonzaga<br />

di Mantova, Mantova, 1885, Append., p. 47.<br />

(8) Cito dal CORRADI,op. cit., p. 46.<br />

(9) «Adunque come prima alcuno si sente in questi tempi molto<br />

gravare il capo, e tutti i membri, e febbre... quanto prima puoi ungni<br />

subito con olio di scorpioni, e con triaca i polsi delle tempie, delle mani,<br />

de piedi, le nari del naso, la nuca, gola, petto, e circa la bolla, e postema,<br />

se apparisce. L'olio vero è questo. Recipe olio d'anni cinquanta, once otto,<br />

fa bollire dentro scorpioni cinquanta, in modo s'infondino, fallo di State,<br />

massime d'Agosto, e serba, et ungni, è cosa mirabile contra 'l veleno» ecc.<br />

Il consiglio di M. MARsrLIO FrcINo fiorentino contro la pestilentia.."<br />

Venezia, Giunta, 1556, p. 30.<br />

122<br />

;,,'ra<br />

, L<br />


UN GRANDE ARCHITETTO ROMANO DI ROMA<br />

SCONOSCIUTO AI ROMANI<br />

Tra i pochi monumenti ancora intatti della bella città di Dresda<br />

in Sassonia, un tempo chiamata l'Atene della Germania per i<br />

tesori d'arte delle sue raccolte, ora quasi tutti dispersi dalla furia<br />

dell'ultima guerra, s'innalza, nel cielo, l'aereo campanile della<br />

Chiesa di corte.<br />

Gaetano Chiaveri, nato a Roma nell'anno 1689, ha costruito<br />

questo bellissimo tempio, con magnifico impeto creativo e si può<br />

ben dire, che forse nulla di così perfetto hanno, sul suolo tedesco,<br />

creato i numerosi Lombardi, Grigionesi e Francesi, che sino dal<br />

Cinquecento, sono andati in quelle terre per arricchirle delle loro<br />

nobili architetture.<br />

Fin dall'anno 1717 Gaetano Chiaveri lasciava Roma dopo<br />

avere ammirato le antiche architettute classiche e quelle allora<br />

moderne di Gian Lorenzo Bernini, di Francesco Borromini e di<br />

Carlo Rainaldi, romano, ed era andato a lavorare in Russia. Ancora<br />

giovane doveva essere considerato maestro maturo, se già nel<br />

1720, l'imperatore Pietro il Grande, allora tutto affaccendato nel<br />

far costruire dal nulla, sulle sponde paludose della Neva, la nuova<br />

capitale, lo nominava membro della Cancelleria imperiale per le<br />

costruzioni.<br />

Nell'anno 1724 Gaetano Chiaveri succedeva all'architetto<br />

Mustarnowy nella direzione della costruzione del Museo di storia<br />

naturale e della Biblioteca delle scienze, collaborando con Domenico<br />

Trezzini.<br />

Suo è anche il disegno della bella sala centrale dell' Accademia<br />

delle scienze a Pietroburgo e, secondo suoi disegni, sono state<br />

modellate le decorazioni della grande chiesa di Sant'!sacco.<br />

Gli architetti italiani dominavano allora in Russia, seguendo<br />

le orme dei loro predecessori del Rinascimento e fra essi divenne<br />

123


en presto grande la fama del geniale architetto romano, che però<br />

passò ben presto al servizio di Augusto III, elettore di Sassonia<br />

e re di Polonia, costruendo palazzi e ville a Varsavia e nei dintorni.<br />

Seguì poi il suo magnifico signore a Dresda, dove, nell'anno<br />

1738, cominciò a costruire la Chiesa di Corte, vicino al palazzo<br />

reale, nel quale, già durante il Cinquecento, avevano lavorato<br />

architetti e scultori italiani: chiesa che è monumento mirabile<br />

della sua arte, ed il palazzo del principe Massimiliano, del quale<br />

purtroppo la bella facciata, che conosciamo da un disegno originale<br />

del Chiaveri stesso, è stata in gran parte mutata nell'anno 1783.<br />

Tornato a Roma, nel 1741, il nostro architetto fu chiamato a<br />

far parte dell' Accademia di San Luca ed io almeno non conosco<br />

sue opere nella nostra città.<br />

Egli pubblicò allora un suo interessante libro, trattando del-<br />

l'argomento sempre vecchio, sino dal Cinquecento, e sempre nuovo,<br />

della stabilità della gran cupola vaticana: Sentimento sopra pretese<br />

riparazioni... nella cupola di San Pietro. In quel tempo lo<br />

Zucchi incise in rame e stampò, in sessantaquattro tavole, una<br />

serie di suoi motivi decorativi per porte e finestre, che precedette<br />

quella famosa di Giambattista Piranesi, che vide la luce<br />

nel 1769.<br />

Gaetano Chiaveri, colla sua chiesa di corte a Dresda, portò in<br />

Germania un'eco vigorosa dell'architettura settecentesca, così composta<br />

e nobile, quale fioriva allora splendidamente in Roma, come,<br />

pochi anni prima, Giovanni Francesco Guernieri, anch'esso romano<br />

di Roma, aveva portato dalla sua città natale a Cassel, nell' Assia,<br />

le linee grandiose dell'architettura romana di tradizione cinquecentesca,<br />

creando, per il Langravio, l'immensa fontana del parco<br />

di Wilhelmshohe, che copre, con le sue strutture, tutto il fianco<br />

di un colle e ricorda le nostre grandi fontane di Tivoli e di Frascati.<br />

Non mi è possibile, in così breve spazio, di ricordare i vari<br />

lavori di Gaetano Chiaveri, sparsi in Sassonia, in Polonia ed in<br />

Russia, ma sul suo capolavoro, la chiesa di corte a Dresda, al<br />

quale ho già accennato, voglio dire poche parole.<br />

Essa si leva, snella ed elegante, sullo sfondo dell'antico palazzo<br />

reale, con la massa delle sue altissime mura. Da questa sua altezza,<br />

124<br />

GAETANO CHIAVERI: LA CHIESA DI CORTE A DRESDA<br />

(foto Alinari)


I-<br />

veramente singolare, si volle indurre che il Chiaveri cercasse e<br />

certamente mirabilmente riuscisse, a soverchiare non solo colla<br />

costruzione materiale, ma ancor più, nell'espressione, colla sua<br />

bella chiesa cattolica romana, quella anche grandiosa, la Franen-<br />

kirche, che l'architetto sassone Georg Bahr andava costruendo<br />

non per il re cattolico ma per il Comune protestante.<br />

Ciò che sorprende nella chiesa del Chiaveri e che può giustamente<br />

considerarsi come una novità tutta sua personale, nel campo<br />

ar:::hitettonico italiano, è l'altezza veramente straordinaria delle<br />

mura perimetrali rispetto alla pianta ed in ciò si è voluto vedere,<br />

ed io credo a ragione, un accostamento veramente geniale alle<br />

caratteristiche dell'architettura tedesca.<br />

Infatti in genere gli architetti italiani in Germania hanno spesso<br />

seguìto quelli locali, loro contemporanei, nel dare un sapore, direi<br />

quasi goticizzante, quanto alle proporzioni, alle alte facciate cuspidate<br />

delle loro chiese, persuasi, e secondo me non a torto, che<br />

l'allineamento prettamente italiano delle facciate, come si vede,<br />

ad esempio, nel palazzo della Residenza nella città di Landshut<br />

presso Monaco di Baviera, costruito da architetti mantovani scolari<br />

di Giulio Romano, interrompesse non piacevolmente, colla sua<br />

facciata a cornicione piano, la linea delle facciate gotiche coll'alto<br />

tetto.<br />

Non sottomissione all'arte indigena ma sensibilità di ragione-<br />

vole accostamento alle forme locali e di armonico adattamento<br />

all'ambiente. Le mura perimetrali della chiesa di Gaetano Chia-<br />

veri giungono, come ho detto, ad inusitata altezza, e al disopra<br />

delle terrazze, che le coronano, si innalza, in facciata, lo slanciato<br />

campanile, che per le sue proporzioni rispetto al corpo centrale<br />

del tempio, può ricordare quello medievale gotico del Duomo di<br />

Ulma. Non conosco un altro monumento di architettura barocca<br />

che possa paragonarsi a questo per la sua straordinaria forma.<br />

Purtroppo gli architetti locali, mossi da gelosia, attaccarono il<br />

maestro italiano, manifestando dubbi e timori sulla stabilità della<br />

altissima costruzione, il che ricorda le malevoli critiche, che si<br />

levaro)1o a Roma contro quella borrominiana di Sant' Agnese a<br />

125


Piazza Navona. Dinanzi a così grande ardimento costruttivo le<br />

critiche furono tali e tante che i lavori dovettero essere interrotti<br />

e non furono ripresi che dopo un giudizio rassicurante del pittore<br />

Raffaello Mengs, che tanto ha lavorato nella nostra città, ed era<br />

grande ammiratore del Chiaveri. Però i contrasti e le critiche<br />

non ebbero tregua tanto che l'architetto ritornò a Roma, dove<br />

fu accolto, con grande onore, nell' Accademia di San Luca. Il cam-<br />

panile fu però compiuto, seguendo fedelmente i suoi disegni, dagli<br />

architetti locali Johann Christoph Knaffel e Julius Heinrich<br />

Schwarze, che coronarono la costruzione romana colla cuspide'<br />

a cipolla, caratteristica delle torri barocche tedesche. La bella<br />

costruzione del Chiaveri fu spesso riprodotta nelle pitture di Bernardino<br />

Bellotto, veneziano, che tanto lavorò a Dresda per<br />

Augusto 111, elettore e re nel Settecento:<br />

L'insieme della chiesa che, colle sue terrazze laterali, animate<br />

da paraste e da nicchie riccamente decorate, ricorda facciate di<br />

costruzioni civili, è veramente insolito e ci fa vedere che Gaetano<br />

Chiaveri era un architetto che aveva idee proprie e nuove. L'accoppiamento<br />

delle colonne e dei pilastri ricorda senza dubbio gli organismi<br />

borrominiani, come ad esempio il campanile di Sant' Andrea<br />

delle Fratte, ma questo è superato da quello del Chiaveri per<br />

maggiore armonia di linee e fusione mirabile delle varie parti.<br />

Più che le opere del Borromini il nostro architetto ricorda quelle<br />

di Carlo Rainaldi, romano, creatore della bellissima chiesa di<br />

Santa Maria in Campitelli e della maestosa costruzione absidale<br />

di Santa Maria Maggiore. Rassomiglianza per non poche affinità<br />

di stile, come ad esempio l'accoppiamento delle colonne, ma non<br />

di più, ché nella pianta ed in tutto il nuovissimo organismo architettonico<br />

il Chiaveri è assolutamente originale e non ha seguìto<br />

che la propria ispirazione e fantasia.<br />

Quanto alle ricche decorazioni interne ed esterne, che sono<br />

opera di artefici locali, i disegni risalgono al Chiaveri, che ha avuto<br />

a collaboratore, nelle plastiche che ornano l'esterno, lo squisito<br />

scultore vicentino Lorenzo Mattielli.<br />

126<br />

La chiesa di corte di Dresda può giustamente considerarsi come<br />

uno dei capolavori di quell'immaginoso e colorito Settecento<br />

romano, che nelle opere di Pietro Bracci, di Filippo Barigioni, di<br />

Carlo Rainaldi, di Nicola Salvi e di Alessandro Specchi e di altri<br />

minori, tutti romani, dette forma e carattere a tanta parte della<br />

nostra gloriosa città con le belle e scapigliate sculture, con il<br />

Porto di Ripetta, la Scala di Spagna, la Fontana di Trevi e la<br />

facciata postica di Santa Maria Maggiore.<br />

FEDERICO HERMANIN


128<br />

LA POSTA A L'ANETRE Ma, mentre sto a pensà du' garganelle<br />

CJ)opp'esse stati a caccia 'stammatina<br />

eccoce, arfine, a fa la «posta ». È sera,<br />

l'àncora più sicura pe chii' spera<br />

da portà a casa un po' de servaggina.<br />

Stracchi, infangati, co' un ginocchio a tera,<br />

drent'a un capanno o intorn'a 'na pescina<br />

se sp'ia sortanto in fonno a la marina<br />

pronti pe' scaricà la cartuccera.<br />

Ma nove vorte sopra dieci: gnente.<br />

Sortanto su li' stagni, a la lontana,<br />

quarche «stampo» ch'ondeggia lentamente.<br />

E richiami d'amore... e cantilene<br />

de pecorari... e tòcchi de campana:...<br />

invito a tutti de volesse bene!<br />

passeno su de noi. Du' schioppettate...<br />

poi dieci... cento... inzin' a che, ascellate,<br />

nun tònfeno tra certe pantanelle.<br />

I Povere cocche mie! chi v'à impiommato?<br />

II<br />

Notti rivelatrici! Notti belle<br />

ch'oprite er core a cose mai pensate!...<br />

Bando - per oggi e sempre - a 'st'imboscate<br />

contro chi, cor volà, sfiora le stelle...<br />

11I<br />

quanno v'ò visto da 'sto capannello<br />

nun ò sparato più, nun ò sparato.<br />

E si so' corso a riccojevve è solo<br />

pe' medicavve l'ale e, sur più bello,<br />

come a l'inzogni mia, ridavve er volo!...<br />

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ROMOLO LOMBARDI<br />

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LO LOTTE E LILÌ BONAPARTE santé. Aussitot que sa toilette le permettra, je la ménerai chez<br />

l'empereur, et je suis persuadée d'avance qu'elle sera bien reçue ».<br />

Fu difatti ben ricevuta, e per un momento si vociferò, persino, che<br />

Napoleone, allora liberatosi di Giuseppina mediante il divorzio,<br />

volesse elevarla al suo fianco sul trono imperiale. In realtà l'autocrate<br />

d'Europa e della famiglia pensò di sposarla col principe delle<br />

Asturie, ma anche i nuovi colloqui a distanza finirono in burrasca:<br />

Luciano reclamò a gran voce la restituzione della figlia, ottenuta<br />

N acquero in terra di Francia, la prima il 23 febbraio 1795, la<br />

seconda nell'ottobre del 1798, ma dal 1804 divennero romane,<br />

qualità civica che ipso iure acquisirono, come tutti i membri della<br />

loro famiglia, quando il padre fu innalzato da Pio VII alla dignità<br />

di Principe di Canino.<br />

La prima ebbe imposti i nomi di Cristina e Carlotta, la seconda<br />

quelli di Cristina Carlotta Alessandrina Egitta (era il tempo in cui<br />

Napoleone coglieva inutili allori in Egitto) : il padre, sempre poeta<br />

e capriccioso, usò chiamarle Lolotte e Lilì.<br />

Com'è noto, perdettero presto la madre, Caterina Cristina<br />

Boyer, anima timida e dolce che lasciò le sue creature nel 1800.<br />

Poi venne la matrigna, l'affascinante sirena, Alessandrina di Bleschamps,<br />

vedova d'un bancarottiere. Non fece mai difetto alle due<br />

fanciulle l'esuberante affetto paterno, ma come dovettero sentire<br />

la mancanza di quello della madre!<br />

Giungeva appena al dodicesimo. anno Carlotta, quando già il<br />

potente zio che rinnovava le glorie ed il fasto dei Cesari, in uno<br />

dei mille tentativi di venire a patti col ribelle fratello Luciano,<br />

parlò di disporre della sua manina, ancor quasi infantile. Ma per<br />

quella volta ogni trattativa fu tempestosamente troncata nell'urto<br />

delle due risoluzioni fraterne: quella di Luciano di voler mantenere<br />

al suo fianco, legittima sposa, Alessandrina, e quella di Napoleone<br />

di non volerla assolutamente riconoscere quale cognata.<br />

Tre anni dopo, la discussione fra le Tuileries e il palazzo Bonaparte<br />

di via Condotti a Roma venne ripresa: l'imperatore volle<br />

aver la nepote alla sua corte. Affidata a sicura compagnia, la<br />

fanciulla fu.mandata a Parigi in casa della nonna Letizia, la quale<br />

1'8 marzo 1810 scriveva a Luciano: «Lolotte est arrivée en bonne<br />

130<br />

la quale poco stette a prendere il largo, diretto in America, per<br />

andare a finire in Inghilterra.<br />

Alla corte dello zio la fanciulla aveva mostrato che la sua testo-<br />

lina sapeva pensare da sé; e pensava così bene a spese della società<br />

in cui si trovava, alcune illustri figure della quale si trovavano<br />

lepidamente giudicate in certi quadernucci facilmente scoperti,<br />

che il bel mondo parigino fu pieno di pettegolezzi e di caute<br />

risate.<br />

Ma Carlotta non era maligna: l'aveva urtata la società in<br />

mezzo alla quale era venuta a cadere. Priva di ambizioni, amava<br />

la sua casa e la propria vita; non cercava altro. Si può ben comprendere<br />

quindi come non andasse, consapevolmente, incontro alla<br />

felicità quando accettò la mano del principe Mario Gabrielli, che<br />

ai suoi vent'anni contrapponeva un'età assai più avanzata. Ma<br />

Luciano, salito di fresco al principato, doveva trovare, per la sua<br />

primogenita, un principe, e forse non v'era molto da scegliere in<br />

quella categoria. Per le altre figlie poi si contentò di marchesi<br />

e di conti.<br />

Dal matrimonio nacquero - se le nostre notizie non sono<br />

incomplete - cinque figli: Placido, Francesca, Lavinia, Cristina<br />

ed Emilia. Placido, nel 1856, sposò la cugina Augusta, figlia di<br />

Carlo Luciano. Lavinia andò a marito a Ferrara, col conte Aventi<br />

(un busto in marmo di Lavinia fanciulla si trova nel Museo Napo-<br />

leonico): le altre figlie non sappiamo chi sposassero.<br />

Rimasta vedova del principe Gabrielli, Lolotte passò a seconde<br />

nozze, sebbene fosse prossima alla cinquantina. Il Misciattelli,<br />

annotando la lettera n. 206 dell'epistolario di Letizia, afferma che<br />

il secondo marito di Lolotte, sposato, egli dice, nel 1842, sarebbe<br />

131


stato un medico chiamato Settimo Tettamanti. In verità egli era.<br />

il cavaliere Settimio Centamori, ed infatti dopo questo nuovo<br />

connubio Lolotte nelle lettere si firmava «Carlotta Bonaparte<br />

Centamori ». Non possiamo dire se il titolo di cavaliere venisse al<br />

Centamori per eredità o pér recente onorificenza ottenuta dal<br />

governo pontificio. Egli era nativo di Trevi e suo padre si chiamò<br />

Pietro. Aveva anche una sorella maritata a certo Bussotil, di nome<br />

Cristina, la quale, morendo, vedova, il 6 agosto 1867, nominò il<br />

fratello esecutore testamentario, lasciando alcuni pii legati, fra i<br />

quali uno per la confraternita dei Fornai, presso S. Maria di<br />

Loreto alla Colonna Traiana, nella qu~l chiesa, infatti, il suo nome<br />

figura tra i benefattori del sodalizio.<br />

. La matrigna Alessandrina ebbe di che prendersela con Lolotte<br />

quando credette intuire, non senza fondamento, ch'ella avesse ispirata<br />

nell'ultima delle sue figlie, Costanza Bianca, nata il 30 gennaio<br />

1823, la vocazione religiosa, per cui, non ostante il contrario<br />

avviso della madre, nel 1841 entrò nell'Ordine del Sacro Cuore<br />

fondato da S. Sofia Barat. Fu l'unica delle principesse Bonaparte<br />

che entrasse in monastero.<br />

Carlotta - ormai il vezzeggiativo era dimenticato - restò<br />

sempre intimamente affezionata a quella sorellina di ventott'anni<br />

più giovane, e per rafforzare i legami spirituali stabilitisi fra loro,<br />

si ascrisse in Roma alla Congregazione di S. Rufina, una specie di<br />

terz'Ordine del S. Cuore, che aveva per oggetto la particolar<br />

devozione ai SS. Cuori di Gesù e di Maria.<br />

Il secondo matrimonio fu per Carlotta forse più infelice del<br />

primo. Tra il Centamori e il figliastro Placido nacquero degli<br />

attriti, da prima per la educazione del giovane, alquanto insofferente<br />

della tutela del patrigno, poi per gl'interessi. I contrasti 'si<br />

acuirono dopo il matrimonio di Placido, tanto che Carlotta dovette<br />

rinunciare ad abitare nel palazzo Gabrielli a M~nte Giordano.<br />

Tuttavia ella assicurava alla sorella Costanza che tra il figlio e<br />

il marito regnava sempre la più grande armonia, essendo - aggiungeva<br />

- «tanto buono il mio Placido! ». Anche della nepote e<br />

nuora Augusta non si lagnò mai.<br />

132<br />

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J. B. WICAR: LUCIANO BONAPARTE E LA FAMIGLIA A CANINO<br />

(Museo Napoleonico)<br />

Fu lieta Carlotta quando (1850 o 1851) ottenne che il nepote<br />

Pompeo, figlio di Lavinia, venisse ammesso nel Collegio dei Nobili<br />

di Roma, amministrato dai Gesu~ti, anche perché (scriveva alla<br />

sorella Costanza) gli sarebbe stato più facile avvicinare il rettore<br />

di esso, P. Enrico Vasco, dalla cui parola si riprometteva un gran<br />

bene per l'anima sua. Ormai ella non viveva più se non per pregare<br />

e beneficare, alla quale ultima virtù crediamo fossero da attribuire<br />

le strettezze in cui si trovava.<br />

Negli ultimi anni tornò ad abitare a palazzo Gabrielli, dove<br />

settantenne si spense il 6 maggio 1865. Sua nepote Giulia Bona-<br />

parte del Gallo di Roccagiovine, ricevuta a Parigi la notizia, annotava<br />

nel suo ben noto Diario: «Ma tante Carlotte, soeur ainée<br />

.de mon père, est morte aujourd'hui à midi Y2 au palais Gabrielli,<br />

entourée de son fils, de ses filles et de ma bonne soeur Augusta;<br />

cette dernière me dit que sa belle mère laisse à Napoléon III un<br />

livre d'heures qui appartenait à Madame Mère... hélas, les objets<br />

durent plus que les personnes!... ». La medesima principessa Giulia,<br />

buttando giù un breve « portrait » della zia (datato Parigi 12 marzo<br />

1866), così concludeva: « Sa dépouille mortelle repose dans l'église<br />

de Sainte Marie sur Minerve. On peut dire de la princesse Charlotte:<br />

elle a passé en faisant le bien ».<br />

Da osservare che le due sorelle Carlotta e Cristina, figlie di<br />

primo letto del vecchio Luciano, erano rimaste ignorate dal secondo<br />

imperatore, il quale, sedutosi sul rialzato trono del grande zio, si<br />

era affrettato a chiamare presso di sé i parenti, e a quelli della<br />

discendenza del principe di Canino, se non aveva voluto accordare<br />

le prerogative di altezze imperiali, aveva però largito un assegno<br />

di ventimila franchi annui. Ma la pia ed umile Carlotta nel suo<br />

testamento non dimenticava il nepote imperatore, e gli lasciava<br />

un libro di preghiere già appartenuto alla grande Letizia.<br />

Lavinia Aventi il 6 ottobre 1865 mandava ai parenti intimi<br />

un necrologio della madre scritto dal P. Vasco, e nella lettera con<br />

"la quale lo accompagnava, inviandolo a suor Costanza, scriveva:<br />

« lo avrei voluto che il buon P. Vasco si fosse esteso di più sopra<br />

certe virtù che mi sembravano tanto marcate, come la sua pazienza,<br />

affabilità ecc. ecc.; invece lui si è diffuso molto sulle opinioni poli-<br />

133


tiche: avrà pensato fossero cose più adattate nel momento presente,<br />

ma per me mi danno meno divozione ».<br />

Se in definitiva Lolotte non si può dire trovasse la felicità, meno<br />

fortunata ancora fu certamente Lilì.<br />

La delicata Cristina, che si dice non fosse né bella né perfetta<br />

della persona, ma graziosa nella sua delicatezza, andò pure sposa<br />

a vent'anni. Malaugurata quella primavera del 1818 in cui fu<br />

stretto il nodo coniugale fra lei e il conte svedese Arved de Possé.<br />

«Le bonheur (scrisse di lei la nepote Giulia) ne fut jamais le<br />

partage de Christine, qui n'avait pas connu sa mère, et qui de<br />

la grandeur ne connut que les épines! ». Era una giovane di spirito,<br />

afferma la principessa Giulia, che ce la dipinge come appresso:<br />

«Ses yeux noirs petits et perçants animaient sa figure longue et<br />

pale, encadrée de cheveux très noirs; son pied charmant, tout<br />

petit, toujours bien chaussé, etait une des célébrités de Stockolm,<br />

lorsque arriva dans cette ville Lord Dudley Stuart. Quoique légèremement<br />

contrefaite, la Comtesse de Possé était charmante; le<br />

jeune anglais en devint fou; son esprit étrange et cultivé lui ouvrit<br />

des horizons nouveaux; il passait des heures entières à l'écouter,<br />

ce que n'étonnera pas ceux qui connaissent l'éloquence des Bonaparte<br />

».<br />

Ma il conte di Possé non era un uomo colto e spirituale. Egli<br />

amava la caccia e le cose materiali della vita. Non si accordava<br />

affatto con la spiritualità di Cristina. Aveva veduto giusto la<br />

nonna Letizia quando si era dichiarata contraria a quelle nozze.<br />

In una lettera del 21 febbraio 1818 alla regina Giulia, moglie del<br />

re Giuseppe, ella aveva scritto: «On m'a annoncé la conclusion<br />

du mariage de Cristine avec M. de Possé, et elle m'a beaucoup<br />

déplu, parceque je ne l'ai pas crue convenable sous plusieurs<br />

rapports... ». Si disse perfino che quando i dissidi tra i due coniugi<br />

si fecero acuti, il conte di Possé giungesse a maltrattare brutalmente<br />

sua moglie. Influì sullo scioglimento l'idillio nato nella<br />

capitale svedese fra Cristina e Lord Stuart, di cui la principessa<br />

Giulia ci ha serbato ricordo? Comunque, nel 1822, il male assortito<br />

matrimonio venne sciolto dal divorzio, e non cerchiamo le cause<br />

134<br />

che vennero addotte per annullarlo. Due anni dopo la giovane<br />

divorziata passava a nuove nozze col gentiluomo irlandese, e così<br />

dopo la Svezia andò a provare l'Inghilterra, dove però già aveva<br />

vissuto da fanciulla insieme con la famiglia.<br />

Dal secondo marito Cristina ebbe un figlio, Frank. Questa<br />

nuova vita coniugale parve svolgersi, per alcuni anni, sotto buoni<br />

auspici, ma il clima delle isole settentrionali dicono che minacciasse<br />

seriamente la vita della lady romana. Infine non ne poté più e,<br />

lasciando il marito ed il figlio, se ne tornò in Italia.<br />

Nel 1838 fu a Firenze, ospite della regina Giulia, poi si stabilì<br />

a Roma, alla Trinità dei Monti, nella casa di Federico Zuccari.<br />

Diego Angeli ha detto delle conversazioni che teneva ne' suoi<br />

salotti. La principessa Giulia ci racconta che andava quasi tutte<br />

le sere a teatro, oppure riceveva alcuni intimi. Una volta la settimana<br />

passava la serata a palazzo Bonaparte, a piazza Venezia, e<br />

Carlo Luciano suo fratello «la taquinait toujours ». Durante l'estate,<br />

continua la diarista, Cristina « allait quelque fois au palais Bonaparte,<br />

chez l'incomparable princesse Zénaide, et là, dans ce petit<br />

salon où était morte Madame Mère, au dessous d'un portrait du<br />

grand Napoléon, la famille réunie lisait à haute voix les chefs<br />

d'oeuvres de Racine et de Corneille. Christine excèllait dans le<br />

rOle d'Hermione ». Era la passione del vecchio Luciano e di Alessandrina,<br />

ancora vivente, ma lontana da Roma, che riaffiorava nei<br />

figli e nei nepoti: la recita dei grandi tragici. Tutti attori, oratori,<br />

poeti i Bonaparte discendenti da Luciano!<br />

Furono nove anni di vita tranquilla e serena, questi ultimi di<br />

Lady Dudley Stuart nata Bonaparte. Nel 1847, riabbracciato il<br />

figlio Frank, venuto a trovarla, scendeva anche lei nella tomba.<br />

O, per essere più esatti, passata di questa vita, fu relegato il suo<br />

corpo in un deposito dove rimase parecchi anni.<br />

Successe infatti questo di strano: che dopo i funerali il feretro<br />

venne deposto in un locale attiguo alla chiesa di S. Maria del<br />

Popolo e poi nessuno ci pensò più. I parenti di Roma credettero<br />

che Lord Stuart lo avrebbe mandato a prendere per farlo discendere<br />

nella tomba di famiglia, mentre il vedovo dovette pensare<br />

che al sepolcro della moglie avrebbero provveduto i congiunti di<br />

l. 135


lei. Ma il bello è che nessuno si curò di verificare se l'una parte<br />

o l'altra provvedesse alla tumulazione.<br />

Ben nove anni dopo, non diciamo nove mesi, la sorella Carlotta<br />

si accorgeva, con suo gran disappunto, che i resti della povera<br />

Cristina giacevano ancora dimenticati, come ciarpami fuori uso,<br />

nell'accennato locale, e così ne scriveva (lettera 7 febbraio 1856) a<br />

suor Costanza « ...io stavo nella persuasione che Lord Stuart avesse<br />

fatto trasportare il suo corpo in Inghilterra, ma solo da pochi<br />

mesi ò saputo che era restato in deposito nella chiesa della Madonna<br />

del Popolo, ma in modo poco conveniente, e che non gli fanno<br />

avere quei suffragi che avrebbe quell'anima che ci deve interessare,<br />

come se fosse, o nel cimiterio pubIico a S. Lorenzo, o almeno avesse<br />

un postarello e sua semplice lapide in una chiesa. Ù dunque interessato<br />

quanti ò potuto in famiglia per questo. A S. Lorenzo non<br />

ànno piacere che sia trasportata e per metterla in una cappella o<br />

sepoltura in chiesa, o lì ove sta, o nella mia Parochiale, come già<br />

avrei combinato con il mio buon curato, ci vuole una sommetta<br />

che io sola non posso dare. Ù avuto l'altro giorno risposta di<br />

Parigi ed ò avuto la promessa di 800 fr. che danno in parte il<br />

nostro buon Luciano, Giuseppe, GiuIia ed altri nostri cari, chi<br />

100 fr. chi 150. Con altri due o trecento franchi si potrebbe avere<br />

per nostra sorella una capella in S. Quirico e Giulitta; ed il motivo<br />

per cui ò proposta questa mia parrocchia è che essendo povera<br />

ed ora il curato a forza di lemosine avendola restaurata, à delle<br />

cappelle da dare, e così con una spesa molto minore che a S. Maria<br />

del Popolo, ove il curato dice non potersi contentare di una sepoltura<br />

modesta, ma esige qualche monumento per ornamento della<br />

chiesa, e invece a S. Quirico con mille franchi avrebbe la capella<br />

del Rosario e con una semplice lapide sarebbe tutto çonveniente<br />

e di vantaggio per quella anima a noi cara. Questa opera di mille<br />

franchi è il meno che si possa fare, e per la licenza della capella<br />

e le altre spese di trasporto ecc... ed ora vi domando, cara sorella,<br />

se volete e potete contribuire anche voi qualche cosa per questa<br />

opera pia; allora potreste farmi rimetter dalle nostre madri del<br />

Sacro Cuore di Roma ciò che la vostra pietà vi suggerirà, e vi<br />

prego in ogni modo di farmi presto sapere cosa decidete... ».<br />

136<br />

11II<br />

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Ed ecco come Lilì, nata a Parigi nel gaudio dei primi trionfi<br />

di Napoleone in Egitto, andò a finire a Roma, nella oscura chiesuola<br />

intitolata ai SS. Quirico e Giulitta all' Arco dei Pantani,<br />

sepolta per carità fraterna, con una piccola somma racimolata a<br />

fatica tra parenti, dopo una triste attesa di ben nove anni sopra<br />

terra.<br />

Evidentemente Lilì non aveva pensato a disporre le sue cose<br />

per testamento, perché alla sua morte saranno ben rimasti più di<br />

mille franchi di quello che fino allora nella vita romana le aveva<br />

permesso di figurare degnamente tra le dame dell'Urbe.<br />

m ~<br />

PIO PECCHIAI<br />

(Giovanni Consolazione)


NESSUNO<br />

fijiggiPatocco?.. Lui? Te basta er nome<br />

pe' capì ch'è 'n'oracolo, ma più è acceso<br />

ner discorso che fa, più nun sai come<br />

te poi decide a ride o a daje peso,<br />

però te lascia sempre un po' sorpreso.<br />

- lo so' nessuno, dice, solo... e vado<br />

sopra a na strada che nun cià mai fine,<br />

confonno gioje e pene, rose e spine,<br />

e de come va er monno nun ce bado,<br />

perchè er pensiero mio nun cià confine.<br />

So' nessuno, davero, chi me guarda<br />

se crede che so' io... e ch'io so' un tale,<br />

ciò 'na vita vabbè, ma che me vale<br />

si puro lei è un po' farsa e un po' buciarda<br />

e artificiale tra l'artificiale?..<br />

Chi se cura de me?... Chi sa ch'esisto?...<br />

Com'omo su la terra io so' quell'uno<br />

de li tanti der numero, nessuno;<br />

primo a perdesse tra l'acciaccapisto,<br />

o ammalappena l'ombra de quarcuno.<br />

Come un gnente me mischio e me confonno,<br />

tramezzo a tutto quanto er formicaro<br />

de la gente che abbiteno er monno,<br />

che lotteno e che cercheno un riparo,<br />

spignenno pe' sta' a galla, l'antri a fonno.<br />

lo campo e me nutrisco ar modo stesso<br />

de qualunque animale de la tera,<br />

c'è la rivoluzione o c'è la guera,<br />

nun guardo chi va avanti o chi viè appresso,<br />

tanto aggisch(lno tutti a 'na maniera!<br />

Sento spesso parlà da questo e quello,<br />

d'umanità e de pace necessaria;<br />

pe' me dico che questa sia 'na caria<br />

che se diverte a rosicà er cervello,<br />

ma resta un' espressione letteraria.<br />

Sicuro! perchè c'è chi dice er vero<br />

e cerca d'evità pene e dolori<br />

che ce cascheno addosso... E chi dà fori<br />

da li punti più fonni der pensiero<br />

quer bene che te sogni sin che mori?<br />

Tu sei nessuno, io so' nessuno, e insieme<br />

guardamo er celo armati de 'na fede,<br />

ma la luce che speri nun se vede:<br />

t'accorghi forse che sprofonni er piede<br />

tra 'st'aria che te soffoca e te preme?<br />

Noi s'illudemo che montanno sopra<br />

a cento verità s'ariva ar sole,<br />

ricamanno parole su parole,<br />

ma nun c'è caso che nessuno scopra<br />

dove sta la ferita che ce dole.<br />

Chi so'?.. Nessuno. E poi che te n'importa?<br />

Nun è mejo così d'esse dispersi<br />

tra 'sto fiume de lava, che ce porta<br />

a sbatte uguale a 'na natura morta,<br />

tra li scoji puntuti più diversi?.. -<br />

Giggi Patocco ride, e drento a l'occhi<br />

ci vedi un foco ch'arde p'un momento,<br />

te guarda, te saluta, e lento lento,<br />

strascinannose sopra a li ginocchi,<br />

se ne va come fusse più contento.<br />

GoFFREDO CIARALLI<br />

138 139<br />

liII


IL GRANDE SEDILE<br />

C oncluso l'Anno Giubilare; chiuse le Porte Sante delle quattro<br />

basiliche, varchi delle indulgenze, l'odierno quadro della Via della<br />

Conciliazione, pur dissimile dalle prospettive animate dei mesi<br />

scorsi, e differente nei suoi equilibri di proporzione e di movimento,<br />

ci appare tuttora nel prestigio e nella luce di una memorabile<br />

realtà.<br />

Una nuova generazione, fra venticinque anni, ripercorrerà<br />

quest'ultimo tratto della grande via del perdono, e così nei secoli<br />

e per i secoli, cum jucunditate (1) dietro l'infallibile guida di un<br />

chiarore e di una verità irrevocabili.<br />

Quel grande àlveo della fiumana dei popoli verso la foce divina,<br />

sebbene oggi quasi deserto, ci si offre, ricomposto nel proprio<br />

lineamento di festività e di devozione, guardando il suo grande<br />

sedile di travertino girare con arbitrario stile intorno agli obelischetti<br />

fuggenti in prospettiva verso il colonnato di San Pietro;<br />

sapiente contrappunto di panchine e di piccole guglie, dalla pàtina<br />

eguale e fluida, davanti alla grande guglia di Domenico Fontana.<br />

Fresco di timbro, di colore e di significato, l'interminabile sedile<br />

immesso nel flusso degli eventi artefici e protagonisti, ci aiuta a<br />

ricomporre aspetti del passato, nel movimento spirituale della<br />

loro essenzialità. Offerto al riposo, alla curiosità, all'ammirazione,<br />

diciamo anche al divario ricreativo di un pubblico stupefatto più<br />

che assorto avanti allo sfilare dei cortei e delle croci, è sembrato<br />

soffice al corpo ed allo spirito, e lo spirito ed il corpo han sognato<br />

e aderito al sogno visionario che tutto sospinge con moto inavvertito<br />

verso uomini ed eventi contemplati a distanza di anni, a<br />

distanza di secoli. E chi, stando lì in piedi, ha rivisto Dante e<br />

(1) È l'Antifona intonata dal Papa e proseguita dai cantori nella<br />

cerimonia di chiusura della Porta Santa,<br />

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Giotto e Petrarca in quella stessafolla di pellegrini venuti ad acquistare<br />

il Giubileo e a rendere omaggio al Santo Padre; e chi ha<br />

visto in realtà re e regine e artisti e capi di Stati, e ministri e<br />

principi e poeti, e fra questi ultimi anche Claudel, il più grande<br />

poeta cattolico dei nostri tempi.<br />

Ed un visionario stanco, più degli altri stanco, giacché i visio-<br />

nari sono gli stanchi della vita e gli agili del sogno, ha potuto<br />

vedere anche l'Assuero della favola, pellegrino d'eccezione, anelare<br />

la tregua su quel grande sedile, desideroso di spezzare la fatale<br />

continuità del suo cammino, la dolente inquietudine del suo<br />

eterno andare. Ma per quel formicolìo di croci e di cristiani che<br />

passavan lì davanti, Assuero è fuggito, senza concedersi requie,<br />

diretto contro quella corrente di croci e di cristiani, sempre più<br />

lontano dalla grande foce divina.<br />

E quanti mai han lasciato, su quelle pietre del riposo, la polvere<br />

del loro viaggio, o le briciole del loro pasto frugale? E qualcosa<br />

di più qualcuno vi ha lasciato: l'abbandono soddisfatto del viandante<br />

della fede, la sosta di colui che venne a Roma a piedi<br />

sommesso penitente, invocando Gesù metro per metro, offrendo<br />

in lietezza la propria fatica, in virtù la propria fede, mormorando<br />

una sola preghiera, il cui gloria s'innalzò ai piedi della sacra soglia.<br />

Sosta breve, saporosa di acquisita dolcezza per colui che sol-<br />

tanto lì, quasi per scrupolo, alla fine del suo viaggio lesse sulla<br />

tessera di pellegrino: «Tu porti nel cuore il desiderio di veder<br />

Roma, questa tua seconda patria, tua e di tutti: tu porti su questa<br />

carta l'attestato del pellegrino, puoi dunque andare con libertà»<br />

e, subito rialzatosi, fu sollecito a riprendere il viaggio con la lunga<br />

carovana, a purgare ogni amarezza.<br />

Il posto ancor tiepido è subito occupato, perché il grande sedile,<br />

per tutto l'Anno Giubilare, è stato la linea episodica di questa<br />

essenzialità fluente, figliolanza di Cristo.<br />

Una donna, una madre, non regge alla tensione della stan-<br />

chezza; quell'odore aspro di folla la svigorisce ancor più, perché<br />

insieme al suo rosario quella mano nodosa di contadina regge<br />

anche il suo amore umano, il bimbo, figlio del suo dolore; né re,<br />

né Messìa, ma inciso ugualmente nel cuore; ed il grande sedile<br />

141


l'accoglie, ed il corteo con la croce in testa rallenta il passo e come<br />

la Magna Mater, confusa e identificata nel simbolo, si slaccia il<br />

seno per offrirlo al piccolo, mentre il fiume umano fluisce, così<br />

come fluiscono tutte le linfe nella lode al Signore.<br />

Via della Conciliazione è stata divinamente episodica. Strada<br />

di cielo pavimentata con pietre del Paradiso, il suo grande sedile<br />

di travertino non fu, fra esse, pietra profana lungo il tragitto per<br />

la Gerusalemme celeste.<br />

Passarono folle strane vestite di strani costumi, nel vodo di<br />

strane favelle. Neri, come l'ebano della loro croce condottiera,<br />

ventisei negri dell'Uganda, che avevano venduto tutto il loro<br />

bestiame per venire a Roma, si allineano nella corrente dei pellegrini<br />

ramificando il ceppo della virtù missionaria, coerede di tutte<br />

le grazie concesse dal Grande Perdono.<br />

Una bimbetta, che non può superare con gli occhi il grande<br />

spettacolo, sale trionfante col suo palloncino colorato su quelle<br />

pietre calde di sole. La nuvoletta di porpora legata al filo tènuissimo<br />

è la realtà che la esilara più dello spettacolo di folle ondeggianti,<br />

e la nuvoletta sale, sale più in alto, le sfugge di mano e<br />

va a toccare il cielo. Una piccola lacrima disperata luccica di<br />

dolore, e cade sulle pietre del grande sedile; lacrima di penitenza<br />

anch'essa, lacrima che ha toccato il cielo prima di scendere fra<br />

gli uomini.<br />

A piedi per duemilaottocento chilometri, attraversando paesi<br />

nemici della religione cattolica, si è coricato stanco sul grande<br />

sedile per tutta una notte di luna il giovane evangelista Kalianyov<br />

e, coperto della brina aurorale ha poi ripreso il cammino per<br />

deporre sulla vicina soglia del perdono il suo ultimo Sia lodato<br />

Gesù! Mille e mille volte lo ha ripetuto lungo le strade tenebrose<br />

in risposta alle offese al Figlio divino.<br />

Uguale itinerario, nel Giubileo del 1400, ebbe a percorrere<br />

Venceslao IV, re di Boemia, facendosi scudo di quella lode fra<br />

terre barbare e straniere, ma Venceslao IV re di Boemia trovò,<br />

presso papa Tomacelli, un trono di superbi cuscini per il regale<br />

riposo.<br />

Il mosaico mobile di Via della Conciliazione ha i suoi più<br />

strani disegni. Ecco al centro due cavalieri, non dell'Apocalisse<br />

con saio del color di terra bruciata, tuttavia non vi è teatralità<br />

nell'eccezione.<br />

Hovine, insegnante di equitazione, viene a cavallo da Parigi,<br />

quasi per dovere professionale; il melodramma termina in penitenza<br />

ed in umiltà. Prima di lui, su « la bella Gisella », l'amazzone<br />

pellegrina Elena dei conti di Ketschendorf, scese dagli speroni<br />

alpestri della Carinzia per la quiete dell'anima, e venne a Roma a<br />

vestire lo scapolare bianco degli Oblati benedettini, e sotto lo<br />

stemma degli Olivetani diventò Maria Francesca Romana.<br />

Scomposto un disegno se ne ricompone un altro centrato dal<br />

grande sedile, episodico protagonista sulla tela intatta dell'esultanza<br />

in Dio.<br />

Allineati lungo le sue parallele, carrozze, carrozzelle, vecchie<br />

vittorie da livrea, perfino le diligenze e automobili grandi e piccole,<br />

trasporti di tutte le epoche, han deposto ivi il loro carico umano<br />

e la via è ripresa a piedi verso la sicura regione della grazia, con<br />

l'unico biglietto di viaggio intestato al pellegrino cattolico, per la<br />

mèta comune: Roma mihi patria. Il passo non è uguale per tutti,<br />

ma tutti, a differenza dei discepoli di Emmaus, si accorgono di<br />

viaggiare con Cristo; il cieco, lo storpio, il paralitico; una breve<br />

sosta di recupero e di respiro sulle pietre riscaldate dall'aurora al<br />

tramonto, ed il cieco, lo storpio, il paralitico riprendono la via.<br />

Il Signore, come nella casa del Dottore in Galilea ha detto ad<br />

ognuno di loro: Che cosa credi dunque che sia più facile a dire:<br />

ti sono rimessi i tuoi peccati, oppure: sorgi e cammina? E i peccati<br />

sono stati loro rimessi, e lo spirito risorto nella mortificazione della<br />

carne ha sospinto i discepoli alla soglia del gran perdono.<br />

Vera via dei Trionfi, la via della Conciliazione ha visto tutto<br />

un mondo di penitenza, di preghiera e di convegno col Martire<br />

della Croce, sfilare fra le sue ali che mostrano una statura di<br />

epoche, di stili e di religiosità.<br />

E il 7 giugno dell'Anno Giubilare, il suo grande sedile apparve<br />

come un immenso inginocchiatoio, per coloro che ebbero la fortuna<br />

di vedere, alla distanza fisica di pochi metri, ed al contatto<br />

mistico di una eccelsa apparizione, il prezioso Reliquario di Ugo-<br />

142 143


lino da Vieri, racchiudente il Sacro Lino del Miracolo Eucaristico<br />

di Bolsena: il Corporale di Orvieto dell'Anno Santo 1950, che al<br />

canto del Pange Lingua (2) fu portato alla venerazione del popolo<br />

romano, e di tutta la cattolicità presente, sull' Ara Somma della<br />

Basilica di San Pietro. In quel momento l'unum necessarium fu<br />

che gli uomini inginocchiati amassero Dio; e nessuno fu desideroso<br />

di vedere di più.<br />

* * *<br />

C'è una logica nell'architettura delle grandi strade, come negli<br />

sviluppi del pensiero umano, come nei movimenti creativi del-<br />

l'ingegno, negli accostamenti spirituali fra il tempo e l'arte che<br />

lo rappresenta.<br />

Il grande sedile di via della Conciliazione è nella logica di<br />

questa legge comune. Le sue linee parallele confluiscono le correnti<br />

umane verso il faro della cristianità; potrebbero cominciare dalle<br />

o~curità de' secoli ignari e concludersi nel gaudio della celeste<br />

luce e, più realmente, così come è, nella sua prospettiva allegorica,<br />

la cupola di Michelangelo. Principiano in verità dalla Mole Adriana<br />

e terminano al traguardo berniniano; l'una segna l'epoca durante<br />

la quale, col rescritto a Minucio Fondano (3) comincerà ad ingentilirsi<br />

la persecuzione pagana anticristiana, l'altro raccoglie l'ultimo<br />

umanesimo di papa Alessandro VII esaltante, nel mistico abbraccio<br />

del colonnato, la méta del grande viaggio della Fede.<br />

Fra le due spalliere, al seguito della Croce, è passata tutta<br />

l'Umanità penitente durante il Giubileo dei Giubilei.<br />

MARIO LIZZANI<br />

(2) Pange Lingua, l'Inno di San Tomaso d'Aquino: canta o lingua<br />

il mistero del glorioso Corpo, composto quando da Urbano IV fu istituita<br />

la festa del Corpus Domini. Costituisce l'Inno dei Vespri.<br />

(3) San Giustino, asiatico, sotto il proconsolato di Fondano, riproduce<br />

il rescritto. Vedi: San Giustino I, Apolog. 68.<br />

144<br />

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SECOLO<br />

XVIII<br />

Ossatura di un cannone gigante? Traliccio di un mostruoso tubo in cemento<br />

armato? Scheletro di uno smisurato telescopio? Armatura dell'orvietano Pozzo di<br />

San Patrizio? No, no: è puramente e semplicemente una bizzarria prospettica. Il<br />

fotografo si è collocato a pianterreno ed ha puntato l'obiettivo in alto ritraendo,<br />

complice un'accorta disposizione di luci, la «scala a lumaca» di un palazzo romano<br />

famoso.<br />

. Alessandro Specchi regalò questo gioiello architettonico all'edificio tardo-barocco<br />

mnalzato in Roma a piazza San Marcello, su commissione di Livio de Carolis, nel<br />

secondo decennio del '700. Questo magnifico palazzo dopo essere passato per vari<br />

proprietari, da molti anni è del Banco di Roma.<br />

SCELEDRO


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Coro di Satiri e Fauni che precede festeggiando per le nozze di Amore e<br />

Psiche (Carnevale 1805).<br />

GLI DEI PER IL CORSO<br />

Veramente, della mascherata mitologica del 1805 il Silvagni<br />

ed il Clementi hanno scritto in lungo e in largo, attingendo alle<br />

stesse fonti cui attingo io, e ad altre ancora, che non ho potuto<br />

identificare. Ma chi avrà la pazienza di confrontare i loro racconti,<br />

più o meno romanzati, con le descrizioni contemporanee, che<br />

trascrivo alla lettera, s'accorgerà, come qualche particolare nuovo<br />

risulti da queste copie fedeli. Il Clementi ha riprodotto due delle<br />

tre stampe che io presento, e non s'è accorto, come la serie si<br />

riferisca alla comparsa del lunedì e del martedì grasso, non a<br />

quella del giovedì grasso del 1805. Ma procediamo con ordine,<br />

e leggiamo quanto scrive il principe Agostino Chigi, nel suo diario<br />

autografo (voI. II, «dal primo agosto 1802 a tutto li 30 settembre<br />

1805 »):<br />

« Mercoledi 20 detto [febbraio 1805]... In tutti questi giorni vi è<br />

stato grandissimo da fare, per una mascherata di carattere, che deve uscire<br />

domani per il Corso e domani sera al festino a Aliberti. Giovedi 21 detto.<br />

Essendo riuscita, fuori dell'aspettazione, una giornata bellissima, è stata<br />

eseguita la mascherata, il di cui soggetto è stato «Il Concilio degli Dei<br />

per le nozze di Psiche ». Tutti i componenti la medesima si sono radunati<br />

al palazzo già di Venezia, nelle camere di Lebzeltern, di dove, verso le 22<br />

145


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(cosi tardi, in grazia della s.ra marchesa Torlonia, che si è fatta aspettare<br />

infinitamente), sono usciti sopra un carro tirato da quattro miei cavalli di<br />

fronte, che sono stati Ariano e Dispensiero, Navicello e Mansueto, con<br />

finimenti ornati di fiori, e guidati dal m.ro di' stalla Domenico Amantini.<br />

Dopo aver fatto 1>\ngiro per il Corso, scortati da alcuni soldati di cavalleria,<br />

e preceduti da un altro carro a due cavalli, ove era Bacco, con la<br />

banda vestita tutta con abiti di satiri, in mezzo agli applausi e battimenti<br />

di mani, e dopo aver girato anche un poco dopo il secondo sparo, per<br />

privilegio particolare accordato alla maschetata, sono venuti a fermarsi,<br />

' sin che si è fatta la corsa, in piazza Colonna, da dove sono poi passati al<br />

teatro d'AIiberti, e nelle stanze della guardarobba hanno presa qualche<br />

ora di riposo. Intanto è cominciato il festino, che, quest'anno, invece della<br />

scorsa notte, è stato fatto oggi in prima sera; e quando è stato sufficientemente<br />

pieno, la mascherata, preceduta dalla banda, è scesa in teatro, e,<br />

dopo fatto un giro, si è posta (situandosi ciascuno nelle debite attitudini)<br />

per un poco di tempo in cima alla gradinata, e, in seguito, a sedere in<br />

fondo del palco. Dopo di che, ciascuno è rimasto nella sua libertà. Il festino<br />

è terminato dopo le 4 e tutti abbiamo cenato in società nelle solite stanze<br />

della guardarobba, e si è pagato paoli 14 a testa. I nomi delle persone<br />

componenti la mascherata sono i seguenti: Giunone, marchesa Torlonia;<br />

Venere, Marina Bischi; Paliade, principessa Chigi; Diana, contessa Gallo;<br />

Cerere,. contessa Carradori; Psiche, duchessa di Zagarolo; Ebe, duchessa<br />

!iella Floresta; Flora, duchessa Braschi; Proserpina, principessa Giusti.<br />

niani; Amore, figlia di Torlonia; Giove, conte Litta; Saturno, don Fabio<br />

Crivelli; Marte, conte Guerrieri; Apolio, conte Porti; Mercurio, don Luigi<br />

Santacroce; Nettuno, cavaliere Lebzeltern; Plutone, conte Crivelli di<br />

Milano; Esculapio, conte Carradori; Giano, Settimio Bischi; Vulcano,<br />

Lauretti; Bacco, conte Pappafava; Imene, Sandrino [Alessandro Chigi,<br />

figlio primogenito del diarista]. Venerdì 22 detto... In prima sera, siamo<br />

stati in casa di Fidanza, a sentire improvisare il sig.r Biondi, che ha cantato<br />

molto bene sul «Ratto di Proserpina» e sul soggetto della mascherata di<br />

ieri... Lunedì 25 detto. Non ostante un tempo molto cattivo, con piccola<br />

pioggia e freddo, si è replicata la mascherata, coll'aggiunta di un terzo<br />

carro, rappresentante Apollo colle Muse. Tre delle signore, cioè la duchessa<br />

Braschi, [la duchessa della] Floresta e la contessa Gallo, si sono trasformate<br />

in M use; le altre sono state donne di servizio. Anche la rappresentazione<br />

principale era cangiata, esprimendosi, questa seconda volta, «Il convito<br />

degli Dei per le nozze di Amore e Psiche ». In mezzo al carro era la<br />

tavola, guarnita di un servizio appartenente a casa Borghese, tutto ornato<br />

di corallo. Oltre Sandrino [Chigi], che ha fatto da Ganimede, vi era<br />

anche Mondino [Sigismondo Chigi, secondogenito del diarista], in costume<br />

d!Amore colla benda etc., e due figli di Torlonia. La mascherata, dopo<br />

aver goduto di un superbo «ambigu» del conte Khevenhiiller, è andata<br />

sulIa piazza de' SS. Apostoli, a farsi vedere dal duca di Bracciano, e<br />

quindi a fare l'intiero giro del Corso, sempre con molto incontro...<br />

Martedì 26 detto ... La mascherata è uscita oggi per la terza volta ed è<br />

andata a farsi vedere per Roma, essendo venuta al tardi per il Corso.<br />

146<br />

Dopo la corsa, sono andati ad Aliberti, dove vi è stato il festino in prima<br />

sera, sino alIe quattr'ore in punto, con una calca indicibile. La mascherata<br />

vi ha fatto un giro. Dopo il festino si è cenato, al solito, nelIa guardarobba<br />

e alle 6 eravamo tutti a casa. Mercoledì 27 detto. Le Ceneri ... La<br />

spesa delIa mascherata (non compreso l'importo del rispettivo vestiario<br />

di ciascheduno dei componenti la medesima) è ammontata a piastre 32,<br />

inclusovi anche il regalo di una ripetizione d'oro al cav. Landi direttore.<br />

Venerdì primo marzo ... Circola sottomano un componimento satirico<br />

sulIe signore, che hanno figurato nella mascherata delIo scorso carnevale,<br />

e si crede opera del conte Giovanni Giraud, ma non riscuote un grande<br />

applauso ».<br />

Non molto aggiunge la relazione, che della mascherata fa il<br />

Diario ordinario del Cracas, n. 18, in data del 2 marzo 1805.<br />

Il Clementi ne riporta gran parte, ma da trascrizione affrettata.<br />

Rileverò soltanto come sul secondo carro « in forma di due bighe<br />

unite agli estremi, di carattere antico, veniva rappresentata », il<br />

giovedì grasso, «la querela di Venere contro Psiche amata da<br />

Amore; che, assoluta da Giove, ordina [questi, non Psiche!] a<br />

Mercurio, che faccia presentare da Ebe a Psiche il nappo coll'ambrosia,<br />

per renderla immortale. Vi erano a consiglio i Dei<br />

principali, appresso a poco come sono immaginati alla Farnesina<br />

dal celebratissimo Raffaele ». Il lunedì ed il martedì, la mascherata<br />

rappresentava « le nozze di Psiche, soggetto dell'altro gran quadro<br />

della Farnesina, dipinto pure dal già lodato Raffaello... Il secondo<br />

---------<br />

Le principali Deità adunate in convito per le nozze di Amore e Psiche<br />

(Carnevale 1805).<br />

147<br />

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Apollo con le MU3e cantano epitalamj per le nozze di Amore e Psiche<br />

(Carnevale 1805).<br />

[carro] colle divinità dell'Olimpo, e coi due sposi Amore e Psiche<br />

adagiati su dei lettisternii, per quanto lo soffriva la forma del<br />

càrro; ed un terzo carro, di forma elittica ma sempre di carattere<br />

antico, che portava Apollo, circondato dalle Muse, che si suppone<br />

che cantassero l'epitalamio: cosa, che è motivata dallo stesso Raffaello<br />

nel nominato secondo quadro della Farnesina. Non si puoI<br />

esprimere l'incontro generale e piacevole di questa mascherata,<br />

tanto per la bella maniera, con cui era tutta simetricamente disposta,<br />

quanto per il gaio e nobile vestiario, del quale erano adornate<br />

tutte quelle nobili persone; che non solamente per la strada del<br />

Corso, ma anche nelle altre contrade principali di Roma, ove<br />

passò, ricevette dei segni di generale applauso e di comune sodisfazione<br />

».<br />

All'Archivio Capitolino (Armadio XXIII, credenzone XX,.<br />

tomo 109) nella seconda parte dei «Baccanali» della Raccolta<br />

di manoscritti di Francesco Girolamo Cancellieri, è una. copia,<br />

senza nome d'autore, degli epigrammi attribuiti generalmente 'f<br />

Giovanni Giraud. «All'Ecc.ma Adunanza degli Dei del Giovedì<br />

grasso del 1805 ». Il Clementi, che cita questo manoscritto, pubblica<br />

circa la metà degli epigrammi, rabberciandoli (perché spesso<br />

i versi non corrono, nella copia Cancellieri) e scegliendo quelli<br />

148<br />

che riesconomeno incomprensibilia quasi un secoloe mezzo di<br />

distanza. Assicuro il lettore, che egli può contentarsi di quegli<br />

esempi. L'ultimo epigramma, di sei versi (a differenza degli altri,<br />

tutti di due versi) dedicato: «Al Parnasso dell'ultimo Lunedì di<br />

Carnevale », è scioccamente osceno, come tanti versi satirici del<br />

Giraud, buon commediografo, ma mediocre poeta.<br />

Quanto alle tre stampe, esse sono numerate progressivamente<br />

e portano didascalie, che differiscono soltanto nel primo rigo:<br />

«N. I. Coro di Satiri, e Fauni, che precede festeggiando per le<br />

Nozze di Amore e Psiche. Mascherata, eseguita in Roma da una<br />

Nobile Società nel Carnevale dell'Anno 1805 ». Sul sedile del<br />

suonatore di timpani si legge: «Ag. Tofanelli inv. dis. Gio. Petrini<br />

inc. ». «N. II. Le principali Deità adunate in Convito per<br />

le Nozze di Amore e Psiche. Mascherata, etc. ». I nomi del Tofanelli<br />

e del Petrini sono sul predellino del carro. «N. II!. Apollo,<br />

colle Muse, che seguono cantando Epitalamj per le Nozze di<br />

Amore, e Psiche. Mascherata, etc. ». Anche qui i nomi del Tofanelli<br />

e del Petrini si leggono sul predellino del carro. Credo che le<br />

scritte non contraddicano alla mia identificazione del direttore<br />

della mascherata cavalier Landi (al quale fu regalato l'orologio<br />

d'oro da tasca con suoneria), col pittore piacentino Gaspare Landi,<br />

il quale sarebbe stato l'ideatore della mascherata. Agostino Tofanelli<br />

disegnò una propria invenzione, in quanto non trasse il proprio<br />

disegno da una composizione pittorica altrui. Si potrebbe, ancora,<br />

designare le singole persone che figurano nelle stampe, e darne<br />

qualche notizia biografica. Preferisco lasciare questo compito a chi<br />

volesse prenderselo, tanto più che le stampe non hanno nessun<br />

valore ritrattistico. Mi pare che, al massimo, si possa riconoscere<br />

in queste stampe una rappresentazione dei vestiari e degli atteggiamenti<br />

dei personaggi della mascherata. Anzi, le divinità disegnate<br />

dal Tofanelli ed incise dal Petrini sono tanto fredde e<br />

compassate, che non si capisce, guardando le tre stampe, come<br />

i romani del tempo abbiano potuto trovare provocanti le loro<br />

maglie di color carnicino.<br />

GIOVANNI INCISA DELLA RacCHETTA


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UN RaCCHIO DE MARMO<br />

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sIlrmo er martello, armo<br />

lo scarpello: e smartello<br />

in un rocchio de marmo.<br />

Nasce la fronte, gira<br />

er primo sguardo l'occhio<br />

e la bocca respira.<br />

Anni che scavo, anni che me scarmo<br />

co mazzolo e scarpello:<br />

e manco me so accorto<br />

che ride drento ar marmo<br />

una testa da morto.<br />

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(Orfeo Tamburi)<br />

MARIO DELL'ARCO<br />


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SIXTVS V ORD. MIN.<br />

«Lui fa il possibile per esser monaco; io ho fatto il possibile per<br />

non esserlo affatto ». Una frase del genere viene messa in bocca a<br />

Sisto V, quale ironico commento all'evoluzione di Enrico III verso<br />

la fede intransigente. (Ne fa relazione Gabriel Naudé, il famoso<br />

bibliotecario di Mazzarino, nelle sue Considerations sur les coups<br />

d'Etat). E, all'ingrosso, la frase parrebbe attagliarsi al tipo di<br />

Papa Sisto consegnatoci dalla tradizione: uomo pochissimo morbido,<br />

anzi solforoso, imperativo e spicciativo; pontefice che, seppur<br />

di breve tiara, pure, per l'energia addimostrata, fece così accapponar<br />

la pelle ai suoi contemporanei, che il brivido corre ancora<br />

per la schiena della storia.<br />

Ma è poi vera la frase, ed è poi interamente accettabile il<br />

cliché ricevuto di Papa Sisto?<br />

Senza dubbio, chi segua la parabola di lui, dalle ghiandaie di<br />

Grottammare alla villa Montalto sull'Esquilino, al Triregno, non<br />

può che confermare l'idea relativa a un uomo di proposito. Nella<br />

villa Peretti, oggi dissolta, ma del cui fasto ci resta7tnotizie e stampe<br />

(un'incisione dell'epoca s'è ammirata alla recente Mostra della<br />

« Casanatense »), il Cardinal francescano dimostrerebbe di essersi<br />

smemorato della cella conventuale. E certa sua grandiosità di piglio<br />

pontificale, anzi certa sua regalità di concezione, quale autocratico<br />

trasformatore dell'Urbe, certe sue alterezze nei confronti dei diplomatici<br />

stranieri, e la stessa sua preoccupazione dell'etichetta (fu lui<br />

l'ideatore d'una «Congregazione per le Cerimonie»), lo dimostrerebbero<br />

vocato più per lo Speron d'Oro che per il cordone<br />

del Poverello.<br />

E questo è, senza dubbio, il Sisto V più appariscente. Il che,<br />

naturalmente, non vieta che il vero, o, quanto meno, un diverso<br />

151


Sisto V possa rinvenirsi altrove; e per l'appunto in quell'abito che,<br />

pur da Pontefice, egli tenne a indossare in Vaticano.<br />

* * *<br />

«Semel abbas semper abbas » : il motto può valere anche per<br />

Papa Peretti. Abbiamo, infatti, più di una prova che l'eccelso<br />

Pontefice non dimenticò mai l'Ordine a cui apparteneva. Appena<br />

creato Cardinale, si sa che coi primi quattrini messigli a disposizione<br />

provvide a erigere un cenotafio a Nicolò IV, Pontefice umanista<br />

e francescano anche lui. Da Papa, si sa che si affrettò a<br />

promuovere non pochi francescani alla dignità vescovile, e ad<br />

accordare speciali concessioni all'istituto francescano. E se S. Bona-<br />

ventura, francescano, è entrato a far parte della fulgida margherita<br />

dei dottori della Chiesa (dopo S. Tommaso, aggiunto da<br />

Pio V ai quattro Dottori), lo si deve alla sua iniziativa. È un fatto<br />

che Papa Sisto, mentre coi Gesuiti fu più volte alle grosse, e pemn<br />

sul punto di prendere decisioni radicali, arrestate dalla morte<br />

improvvisa, verso i Francescani - Osservanti e Cappuccini _ fu<br />

sempre in amorosi sensi, fino a voler cercare di unificarli. (Dei<br />

Cappuccini, fu sollecito a onorare Felice da Cantalice e Giuseppe<br />

da Leonessa). È noto, altresì, come nella bolla del 1586, che definÌ<br />

le norme di composizione del Collegio Cardinalizio, raccomandò<br />

il reclutamento di almeno quattro cardinali fra gli Ordini mendicanti.<br />

E si può ben immaginare con qual soddisfazione egli conferisse<br />

nel Concistoro del 1586 il cappello rosso al francescano<br />

Costanzo Boccafuoco di Sarnano nella Marca di Ancona : « Costantinus<br />

frater ord. min. theologus eximius... ». Di ciò dà atto a<br />

Sisto V Sthendal (di solito poco riguardoso per la Tiara), ritenendo<br />

che un simile regolamento ha supplito nel secolo XVIII alI'intristimento<br />

della nobiltà italiana, e ha potuto dare alla Chiesa, oltre<br />

Clemente XIV, Pio VII « il solo sovrano che abbia saputo resistere<br />

a Napoleone»; aggiungendo che, al suo tempo, i Cardinali più<br />

degni del Sacro Collegio (Micara, Bianchi) eran, per l'appunto,<br />

monaci.<br />

Il frate Peretti vien fuori in circostanze magari meno rilevate<br />

dai biografi amici del colore, e indotti a sorprendere solo le mani-<br />

152<br />

11II<br />

festazioni di quello che il Leti definì il «gran cervellaccio» di<br />

Sisto V. Il frate era emerso, intanto, in quell'incandescente apostolato<br />

oratorio, a tipo savonaroliano, che aveva fatto assiepare,<br />

quando era semplice predicatore, sotto il suo pulpito un folto<br />

uditorio, e aveva spinto ad appressarglisi devotamente almeno tre<br />

futuri Santi: San Pio V, Sant'Ignazio, San Filippo Neri. (Le prediche<br />

di Fra Felice sono ancora inedite: ce ne resta una raccolta<br />

autografa, fortunatamente data in prestito dal Convento dei<br />

Santi Apostoli, prima del saccheggio, a quello di Sant'Isidoro, e<br />

colà tuttora custodita: una volta tanto, i prestiti dei libri si son<br />

risolti in vantaggio del libro!).<br />

Ma il frate vien fuori anche, da Papa, in non poche deliberazioni:<br />

a cominciare da quelle contenute nella Bolla Cum Uno-<br />

quoque (10gennaio 1586),in cui vengono annunciate varie riforme,<br />

miranti a infrenare i lussi e le spese eccessive. (Prescrizioni relative<br />

agli abiti maschili, femminili, vedovili, nuziali, alle doti - che<br />

non dovranno oltrepassarei cinquemila scudi -, alle spese per<br />

nozze, battesimi, funerali, e così via, con severe sanzioni per i<br />

violatori). Aspetto, questo, pochissimo o niente affatto esplorato,<br />

di un pensiero politico, che in certo senso si allinea a quello dei<br />

più noti riformatori sociali del tempo.<br />

* * *<br />

«Sixtus V Ord. Min. »... Ecco che, imprevedutamente, la<br />

rivendicazione dell'Istituto francescano spicca, certo per suo comando<br />

(e sa quasi di testamentario), nell'epigrafe apposta alla<br />

chiesa da lui ricostruita, un anno prima di morire, presso il porto<br />

di Ripetta, e dedicata a S. Gerolamo degli Schiavoni.<br />

L'accenno ha una sua eloquenza. Se sul frontone della fontana<br />

del Mosé, opera profana, la qualifica. che segue immediatamente<br />

il nome di Papa Peretti è quella relativa alla regione di provenienza<br />

(Sixtus V Picenus); se sulla base degli obelischi da lui elevati<br />

_ affermazione trionfale di pontificato - il riferimento a Sisto V<br />

si connette immediatamente a quello del Pontifex Maximus, viceversa,<br />

sulla facciata della chiesa « titolare» risalta l'umile contrassegno<br />

della origine conventuale, il ricordo dell'Ordine Minore.<br />

153


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Improvvisamente, il Papa drastico e temuto viene a dare testimonianza<br />

di sé quale francescano. Peraltro, a pensarci bene, ordine<br />

francescano noK significa ascesi pura e mortificazione passiva;<br />

implica altresì volontà tenace e tenzone. «Diavolo d'un frate »,<br />

è locuzione che non diminuisce gli uomini dal cappuccio, ma<br />

solo ne sottolinea la pugnacità nel commercio umano: non per<br />

nulla ai francescani è stata commessa la custodia, non davvero<br />

soltanto mistica, ma eventualmente spericolata, di Terrasanta.<br />

L'umiltà, Papa Sisto, la pratica a tempo e luogo. Le cronache<br />

narrano, per esempio, che al rituale banchetto successivo alla presa<br />

di possesso del Laterano, egli preferì un pasto frugale assieme alla<br />

servitù, nella sua villa all'Esquilino. Ma egli sa altresì che non<br />

deve farsi menare pel naso dai maneggioni, e deve trattar da lupo<br />

coi lupi, resistendo ai capoccioni superbi.<br />

Umile, invece, esclusivamente conventuale, minorita, Sisto V<br />

ha preferito presentarsi ai marinai, ai pescatori, ai piccoli mercanti,<br />

che, approdando al porto di Ripetta, trovavan la chiesa del<br />

Papa al sommo del giuoco di scalee scioccamente distrutto dagli<br />

edili della Terza Roma. È una chiesa che Martin Lunghi il Vecchio<br />

disegnò con sobrietà, ispirandosi a una corretta armonia, diremmo<br />

quasi francescanamente, senza cedere ad alcuna tentazione capricciosa.<br />

(Vedetene la riproduzione nell'affresco murale del salone<br />

della Cancelleria).<br />

Quali simboli bonari ed elementari - che sono poi quelli abituali<br />

di Papa Peretti - sul frontone! Simboli cordiali con cui la<br />

gente fa presto a familiarizzarsi: i tre monti, una stella. Ed ecco,<br />

in soprappiù, poche lettere dell'alfabeto, messe lì quasi a dare<br />

una mano al popolo minuto: l'asciutta, umile sigla: «Sixtus V<br />

Drd. Min. »...<br />

154<br />

RODOLFO DE MATTEI<br />

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CALCAGNI: STATUA DI SISTO V (LoRETo _ BASILICA LAURETANA)<br />

t PRESENZE ETERNE<br />

(foto Anderson)<br />

Se volete un posto d'onore a uno spettacolo di cui la maestà<br />

uguaglia la grazia, scegliete a Monte Cavo. Avrete sotto gli occhi<br />

la veduta permanente che i Colli Albani celebrano in mitico conclave<br />

con il Soratte, il Circeo e altre venerabili moli e sacre imma-<br />

gini di favoloso lignaggio geologico e vi ritroverete all'alba dei<br />

secoli, contemplando il «vecchio Lazio » come era al tempo che<br />

l'abbordò padre Enea: con la sola differenza che la costa si<br />

prolungava allora in linea retta, e tutto quello che oggi esce da<br />

questa linea, una volta faceva parte del mare.<br />

ì. uno spettacolo di cui è difficile trovare uno migliore al<br />

mondo, e sta a ricordare che nel mezzo delle più grandi e dolorose<br />

vicissitudini che compongono questa caotica faccenda che chiamiamo<br />

la storia, due cose restano: la terra e la poesia che ci dànno<br />

l'ineffabile contatto del concreto e dell'essere:<br />

La terra e la poesia!<br />

Dante costretto a fuggire le colline di Firenze porta Virgilio<br />

nel cuore, e Virgilio «tu Duca, tu Signore, tu Maestro» non<br />

cessa mai di risuscitare agli occhi dell'amaro pellegrino la loro<br />

grande madre comune, sempre eguale a se stessa, malgrado la<br />

ingiuria degli uomini. Siamo di argilla e non possiamo non amare<br />

e non adorare la terra avita che porta sulle cime una sacra foresta<br />

di verità e di poesia carica di tutta la saggezza dei Maghi e dell'estasi<br />

delle Sibille. Purtroppo noi cerchiamo quasi esclusivamente<br />

nei monumenti e nei libri la conoscenza del passato, e spesso ne<br />

siamo ingannati o delusi. Da questo posto d'onore noi abbiamo<br />

in quella vece sotto gli occhi il teatro naturale dei sei ultimi<br />

libri dell'Eneide.<br />

ì. lo stesso terreno che Virgilio aveva sotto gli occhi. ì. lo stesso<br />

spettacolo che ci spiega davanti a noi immagini più veritiere e che<br />

155


158<br />

MONTE CAVALLO<br />

Quanno ponente pija foco e arossa<br />

lavagne, travertini e terecotte,<br />

già la parija è pronta pe' la mossa.<br />

Ma nun se move! Aspetta che la notte<br />

stènna li tappetoni de velluto<br />

attorno ar Quirinale<br />

pe' fa' le corse matte, senza sbatte<br />

sopr'ar serciato, com'avesse l'ale.<br />

Ché, nun sia mai un rumore, te saluto!<br />

La pizzardoneria municipale,<br />

che se darebbe ar diavolo<br />

pe' métteje er pennacchio giallo e rosso,<br />

je zomperebbe addosso e la parija,<br />

cor morso e co' la brija,<br />

potrebbe più squajàssela cor cavolo!<br />

Je toccherebbe a pèrde la mattana<br />

e a nun spostasse più manco d'un parma:<br />

come qualunque favola de marmo<br />

creata pe' da' gusto a 'na funtana.<br />

ARMANDO FEFÈ<br />

11II<br />

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ANGELO URBANI DEL FABBRETTO: MONTE CAVALLO<br />

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11II<br />

NOTA DIALETTALE ROMANESCA<br />

Sinonimi di Ubbriacatura~ Bere~ Vino<br />

Come già altra volta ho notato in precedenti annate di questa<br />

Strenna, abbondano nel nostro, come in tutti i dialetti, i sinonimi<br />

di oggetti o di sentimenti, o di stati fisici, che toccano più da<br />

vicino il popolo. Così la fame, la miseria, il denaro, la gelosia.<br />

Molti sono naturalmente quelli che indicano il vino, il bere, la<br />

ubbriachezza. Il Trabalza nel suo Saggio di vocabolario umbroitaliano<br />

(Foligno, ed. Campitelli, 1905), ne indica nel dialetto della<br />

sua regione diciotto: sborgna, cotta, lecca, gatta, sventola, squaracognola,<br />

scuffia, slenza, pica, berta, sciabola, caraccola, cilecca,<br />

cirillina, billa, sella, bardella, torpedine. Di questi solo due, sborgna<br />

e cotta, sono comuni al romanesco, ma non sono vocaboli<br />

dialettali e appaiono registrati anche nei dizionari della lingua.<br />

Prima di elencare in ordine alfabetico i sinonimi romaneschi<br />

di ubbriacarsi, bere, vino, voglio soffermarmi un poco su un<br />

vocabolo che mi sembra un vero cimelio, perché lo trovo, se la<br />

mia interpretazione è giusta, fin dal 1308. Il vocabolo è:<br />

INcAPPUCCIATO, che come equivalente di ubbriacato ho sentito<br />

io stesso in bocca di persona del popolo basso qualche decennio fa,<br />

ed oggi credo sia caduto in disuso. Risaliamo dunque al 1308.<br />

In una notte di giugno di quell'anno, o secondo altra fonte nella<br />

notte del 2 settembre, accadde in Roma una grave sciagura:<br />

l'incendio e la parziale distruzione della veneranda basilica di<br />

San Giovanni in Laterano, la cattedrale dell'V rbe. Il terribile<br />

fatto, che arrecò perdite inestimabili all'arte, è ricordato da varie<br />

fonti, tra le quali la Storia del Villani (in Muratori, R. lt. S.,<br />

XIII, col. 434). Gli abitanti della regione risvegliati da insolito<br />

clamore, videro il cielo acceso da bagliori sinistri; la basilica,<br />

custodia di preziose reliquie, ardeva; le travature del tetto cade-<br />

.vano spezzando le colonne di marmi rari, infrangendo altari e<br />

159


sepolcri. Nell'oscurità non fu possibile alcuna opera efficace di<br />

soccorso, ma all'alba gran numero di persone, salite sull'alto e<br />

gettando secchie d'acqua, riuscirono dopo ore di sforzi a domare<br />

il fuoco. Il suolo era ingombro di macerie; il piombo che copriva<br />

l'abside si era liquefatto, e cadendo come pioggia ardente aveva<br />

distrutto pitture e mosaici. Le reliquie sacre furono salvate, e il<br />

popolo si ingindcchiò innanzi al vescovo pisano che le mostrava<br />

benedicendo.<br />

Lo studioso francese Filippo Lauer pubblicò per primo neI suo<br />

volume sul palazzo lateranense (Le palais du Latran, Paris, 1911,<br />

pp. 245-50), un Ritmo in latino sull'incendio, dal manoscritto<br />

F. 61 della Biblioteca Vallicelliana. Alcuni versi possono leggersi<br />

nella mia Roma di Dante (ed. Milano, 1921, p. 356). Il poemetto<br />

è in versi rimati, divisi in quartine, ed è scritto in stile rozzo ed<br />

ingenuo. La causa dell'incendio vi è attribuita ad un sagrestano<br />

francese, addormentatosi senza aver spento il lume, dal quale si<br />

appiccò il fuoco. Sicuramente il canto è opera di un italiano,<br />

probabilmente di un romano, ed 'il Lauer ci vede anche, forse<br />

non a torto, una punta antifrancese, sia contro il papa, che risiedeva<br />

allora in Francia, sia contro colui che con la sua sbadataggine<br />

fu causa del disastro. Il dotto autore pubblica il testo senza dame<br />

una traduzione, che a dir vero per qualche passo non sarebbe<br />

facile, data la sciatteria di quel latino. Ad un certo punto di<br />

questo Rithmus de Basilicae Lateranensi combustione si dice:<br />

In hora primi sompni valde capzulatus<br />

Est sacrista gallicus tormendo datus,<br />

Tunc obpressus nimium sompno jacet status<br />

Lumen non extinguere fuit recordatus.<br />

In ipsa sacristia ignis est accensus<br />

Confestim illic locus flamma comprehensus,<br />

Unde ad ecclesiam subitus extensus<br />

Commisit eam ardens locus est -offensus.<br />

Nel secondo verso il Lauer invece di sacrista vuoI leggere<br />

sacristia, e chiama il colpevole dell'incendio «gardien », mentre<br />

doveva essere un sagrestano. Ma come si dovrà intendere il valde<br />

capzulatus? Avrà voluto il poeta dire che il sagrestap.o era fortemente<br />

immerso, quasi incassato nel sonno? Il caro e grande<br />

amico Pietro Fedele, col quale spesso discutevamo di cose della<br />

Roma medioevale, pensava con me che volesse dire incappucciato,<br />

nel significato cui ho accennato sopra, di ubriaco..<br />

BERE.Nell'Indice delle voci, proverbj o dettati romaneschi, in<br />

qual significato l'usano, che non sono ne' Dizzionarij, che il Peresio<br />

reca in fine al suo Maggio Romanesco (del 1688), sono indicate<br />

come frasi dialettali alzare el gomito, alzare el vetro, la prima<br />

delle quali, come ognun sa, è invece della lingua.<br />

CACONA.Trovasi nel Belli (ed. Morandi, Il, 236) neI sonetto<br />

La sborgna, insieme con cotta e pelliccia, con la nota deI poeta:<br />

«Questi vocaboli, ed altri, sono in Roma sinonimi di ubbriacature.<br />

Nelle pellicce e cotte è poi un equivoco, su cui i Romaneschi<br />

si estendono in frizzanti allusioni ». Per cotta l'allusione è diretta<br />

all'indumento di lino bianco a crespe dei sacerdoti, e infatti il<br />

secondo verso deI sonetto dice: «e ste cotte che qui porti ar<br />

curato»; per pelliccia non trovo sicura spiegazione, a meno che<br />

trattisi della cappa di ermellino dei canonici e grigia dei benefidati.<br />

O nasconderà un significato osceno?<br />

Il Belli ha pure INcAcoNATuRA(Il, 359): «d'incaconature<br />

nun se more », cioè, spiega in nota, di ubriacature. Oggi spento.<br />

CICCHETTO. Il Chiappini lo spiega nel Dizionario « bicchierino<br />

d'acquavite », ed è questo ancor oggi il significato più comune;<br />

ma «annamose a beve (o a fa) un cicchetto », può voler dire<br />

senz'altro «andiamo a bere un bicchiere », anche se di vino.<br />

Cicchettaro è chi frequentemente beve liquori. La voce cicchetto<br />

è registrata anche da qualche dizionario della lingua (Petrocchi),<br />

e in Roma deve essere penetrata dopo il 1870 da dialetti del<br />

settentrione; secondo il Panzini (Dizionario moderno) sarebbe<br />

voce lombarda, cicchet (che non trovo però citata nel Vocabolario<br />

milanese-italiano del Cherubini); secondo il Dizionario Etimolo-<br />

gico Italiano di Battisti e Alessio, in corso di pubblicazione, sarebbe<br />

piemontese, « chichet, bicchierino di liquore; chichetè, sbevazzare,<br />

voce diffusa col gergo militare », dal francese chiquet, che vuoI<br />

dire particella, minuzzolo.<br />

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In Roma, come in ogni parte d'Italia, cicchetto ha anche<br />

il valore di sgridata, sempre derivato dal gergo militare.<br />

CIUCCO,SCIUCCO,SCIUCCARE. Equivale a ubriaco, ubriacarsi.<br />

:È anche del dialetto romagnolo e anconetano, cioè di paesi già<br />

appartenenti allo Stato Pontificio, e quindi in contatto frequente<br />

con Roma. Trdvasi nella Raccolta di voci romane e marchiane,<br />

del 1768; è registrato dal Chiappini e vive ancora. In Romagna<br />

dicesi «pigliar la ciucca ».<br />

CIUFECA.«Vino cattivo, per estensione cosa cattiva» (Chiappini).<br />

Si usa spesso per il caffè fiacco. :È pure dell'anconetano.<br />

Il Belli usa il vocabolo come sinonimo di organo femminile, e<br />

annota: «ciufeco, checchessia di sgarbato e di goffo; dicesi però<br />

più delle persone che delle cose» (VI, 170), e altrove spiega<br />

«sor ciufeco» come «uomo semplice» (111, 330). L'aggettivo<br />

dev'essere derivato dal sostantivo femminile. Si usa anche ciufeca<br />

come vezzeggiativo, rivolto a una ragazzina.<br />

CIURLO, SCIURLO.Ubriaco. :Ègià nell'Indicedel Meo Patacca,<br />

che registra anche il plurale, non solo con quel significato, ma<br />

anche con quello di capelli, e in tal senso usasi ancora, però per<br />

capelli disordinati o radi: «sti quattro ciurli ». Il Belli ha un<br />

sonetto Er ciurlo (VI, 206), cioè l'ubriaco, e in questo significato<br />

ha pure brillo e trillo, allegrotto, cotto, sporpato, «ne' vari gradi<br />

della ebrietà ». Vedasi pure l'altro sonetto Er fattorino imbriaco<br />

(V, 237). Oggi ciurlo non si usa più, ma ancora qualche vecchio si<br />

sente esclamare ciurlo cane!, che pure il Belli (IV, 265) spiega<br />

come imbriaco.<br />

COTTA.:Èdella lingua. Vedasi quanto si è detto sotto cacona.<br />

Derivati: cotto, stracotto, cotto sporpato.<br />

FOJETTA.Misura di vino equivalente a poco più di mezzo litro;<br />

il Belli (I, 67 e II, 265) scrive fujetta. Il vocabolo trovasi fin dal<br />

1586 in una Bolla di Sisto V, che impone la tassa di un quattrino<br />

per ogni foglietta di vino. Il nome si dava anche al recipiente di<br />

vetro, il cui uso, per il vino, si vuole introdotto con l'invenzione<br />

di mastro Maggino, ebreo, di una mistura per fabbricare il vetro,<br />

avvenuta circa il 1588; prima il vino si serviva in boccali di<br />

terraglia. Da altri bandi parrebbe che il nome significasse anche<br />

162<br />

11II<br />

il dazio che si pagava sul vino, quasi equivalente di bolletta. Altri<br />

vogliono che il nome derivi dall'uso di chiudere il recipiente di<br />

vetro con una foglia.<br />

Anche in Francia (per lo meno a Parigi) si dice per una piccola<br />

bottiglia di vino une feuillette. Vedasi anche ROSSI, La foglietta<br />

di M aggino Ebreo; PRoIA-RoMANo,Trastevere, pago 52).<br />

:ÈARTALAPASQUA?A un ubriaco si usa rivolgere per scherzo<br />

tale domanda. La frase si usa quasi sempre interrogativamente;<br />

nel Belli trovasi anche senza interrogativo (111, 79 e V, 237).<br />

PELLICCIA. Vedasi quanto è detto già per cacona e cotta.<br />

PERUCCA.Sbornia. Registrato dal Chiappini, ma oggi raro.<br />

Il Belli (VI, 170) dà al vocabolo un significato osceno.<br />

QUANTEso' QUESTE?Si fa tale domanda a un ubriaco mostrandogli<br />

alcune dita della mano aperta, per constatare se è in<br />

grado di contarle. Uso scherzoso.<br />

SACCOCCIONE. Nel sonetto Er fattorino imbriaco (V, 237)il<br />

Belli scrive: «... Appena t'ho visto entrà la porta, Saccoccione<br />

che sei, me ne so' accorta, Che nun t'aregge sù manco er cappello<br />

». E il Morandi spiega in nota «briaco ». Il Chiappini, derivando<br />

certo dal Morandi spiega pure saccoccione come ubriaco.<br />

Ma quel termine, ancora usato qualçhe decennio fa, e forse più<br />

raramente anche oggi, vuoI designare piuttosto un uomo trasandato,<br />

rilasciato, che veste panni troppo larghi e cadenti.<br />

SBORNIA. :È comune a molti dialetti, e anche della lingua<br />

(Belli, II, 236).<br />

SBRONZA. :Èanche del marchegiano, e di altri dialetti; nel Belli,<br />

se non erro, non si trova mai. Derivato: sbronzone.<br />

SCIMIA.Voce registrata dal Chiappini come sinonimo di sbornia;<br />

ma non l'ho mai sentita.<br />

TOPPA,INTOPPATO. Voce comunissima, per sbornia; molto usata<br />

« toppa a communione ». Non trovo la voce nel Belli, che usa toppa<br />

come mucchio: « una toppa de quadrini» (Il, 236). Nei dizionari<br />

della lingua (Fanfani, Petrocchi, ecc.) si ha stoppa, termine scherzoso<br />

per sbornia, che è usato anche dal Carducci.<br />

TROPEA.Il Belli usa la voce come equivalente di temporale,<br />

tempesta; ma oggi vuoI dire solo sbornia (I, 67 e VI, 282). Il<br />

163


Chiappini spiega il passaggio così: «Ad uno che ha alzato il<br />

gomito si suoI dire per ischerzo: Indove t'ha preso l'acqua; indove<br />

t'ha preso la tropea? ». L'ultimo treno domenicale dai Castelli<br />

romani, specie da Frascati, si dice treno tropea, perché pieno di<br />

ubriachi reduci daU'eccessivo omaggio al buon vino di quei coUi.<br />

ZARLACCA. L'usa il Belli (IV, 265 e V, 237) che la spiega<br />

« imbriacatura », e la registra il Chiappini:<br />

ancora usata dal Belli ».<br />

«voce antiquata,<br />

Come sinonimo di vino il Belli dice «sugo de l'agresta»; i<br />

dizionari deUa lingua recano « agresto, sorte di uva; uva acerba ».<br />

NelIe Aggiunte del Rolandi al Dizionario del Chiappini, trovo<br />

sciurio = vino ottimo. Il BeUi ha pure «sugo de botte ».<br />

ANTONIO MUNOZ<br />

I<br />

~ . 48h '"<br />

A ricordo del IV Centenario della fondazione<br />

(23 febbraio 1551).<br />

del Collegio Romano<br />

..<br />

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-o N-c:o -<br />


LA MANO<br />

Cf2ombo de toni e sbarbajà; de lampi,<br />

scrosci de pioggia a vento<br />

sventajeno sur vetro. Che spavento!<br />

Mamma chiude e se segna: - Dio ce scampi! -<br />

lo che so' ciuco e tremo de paura,<br />

annisconno la faccia<br />

sopr'ar petto de lei che me s'abbraccia,<br />

me parla, me consola e m'assicura.<br />

Tempo così lontano<br />

che la memoria nun s'ariecapezza,<br />

puro si s'aricorda la carezza<br />

de quela mano.<br />

So' quasi vecchio e adesso er temporale<br />

che me spaventa è un antro: viè dar male<br />

che fracica 'sto monno, da la gente<br />

che semina zizzania e nun se pente...<br />

'Sto sconquasso m'accora!<br />

Ma quela mano bianca nun me sfiora<br />

più li capelli e nun me rassicura,<br />

mo che ciò più paura,<br />

più paura d'allora!<br />

FRANCESCO POSSENTI<br />

.iI<br />

1


ATTILIO TAGGI<br />

«Clio roscignolode lla Ciociaria»<br />

Ancora una voce di questa nostra «Strenna» si è spenta.<br />

A pochi giorni di distanza dal grande Trilussa, Attilio Taggi,<br />

il poeta ciociaro, ci ha lasciato anche lui; e se n'è andato quasi di<br />

nascosto, in umiltà, com'era vissuto.<br />

Non era più venuto alle nostre adunanze da quella sera quando,<br />

tre anni or sono, volemmo festeggiarne il ritorno in Roma, dopo<br />

la lunga assenza a causa della guerra, che aVeva condotto lontano<br />

lui e la sua famiglia.<br />

A tavola, tra l'entusiasIno generale, improvvisò «stornegli»<br />

azzeccati per tutti e ci ridisse, come sapeva fare, le più belle liriche<br />

del suo repertorio. Non pensava certamente che allora stava accomiatandosi<br />

personalmente da noi: volendo in cuor suo come<br />

ripagarci del silenzio degli anni precedenti, obbediva invece alla<br />

« paiesanella » che, misteriosamente, gli suggeriva di non lesinarci<br />

per l'ultima volta il dono gioioso della sua poesia. La sua voce<br />

ch'era sempre stata fievole e tremola, divenne ancora più fievole e<br />

parve volersi spegnere del tutto, in lunghi silenzi, quando fu alle<br />

mirabili, preziose terzine del sonetto La Fiarata. La sua intima<br />

commozione ci prese tutti. Lo rivedo ancora, illuminato in pieno<br />

dalla luce delle lampade, con lo sguardo lontano e la mano levata<br />

in un gesto quasi sacerdotale. La devota compagna della sua vita,<br />

quella «pòra figlia» che tutti vedevamo rischiarata in viso dalla<br />

« fiarata », gli era rimasta in un cimitero lontano.<br />

Non era molto cambiato; e diritto, arguto, baffi arricciati e<br />

toscano tra le labbra, era rimasto così nei nostri occhi: sano e<br />

vegeto, nella sua bella vecchiezza. Non Sono stati in pochi perciò<br />

a dolorosamente stupirsi, quando avendo domandato: «Ma, del<br />

166<br />

:~.J<br />

Ciociario, che n'è? » si sono sentiti rispondere che non era più,<br />

dal 26 dicembre mattina.<br />

Lo chiamavamo senz'aItro ciociaro, perché piaceva a tutti, a<br />

questo appellativo, di vederlo impettirsi fieramente e arricciarsi<br />

i baffi, o spostarsi il cappello sulle ventitré, come per dire: I mme<br />

ne vanto!<br />

Dalla nativa Sgurgola, dove vide la luce il 2 settembre 1869,<br />

venne a stabilirsi qui a Roma nell'ottobre del 1899 e conquistò<br />

subito amicizie, simpatie, notorietà, e autorità ancora, nel campo<br />

poetico e giornalistico.<br />

Aveva avuto una giovinezza battagliera e avventurosa e chi si<br />

riporta al clima politico e letterario di quei tempi può immaginare<br />

come la dovesse pensare e operare un giovane che vantava d'esser<br />

figlio d'un garibaldino e compatriota di Pietro Sterbini: la penna<br />

era per lui una spada e fu perciò sempre pronto ad usarla per<br />

esaltare alti ideali e difendere cause sante. Era stato redattore<br />

d'un giornale di Treviso e come tale ebbe un duello con un altro<br />

giornalista; ed in seguito, finito il giornale, e lasciata la Patria,<br />

se n'era andato ramingo per alcuni anni tra l'Egitto e la Grecia.<br />

Qui a Roma invece venne ad occupare un posto burocratico:<br />

all'Istituto Romano S. Michele gli fu affidato un incarico di Vice<br />

Segretario e successivamente quello più importante di Vice Diret..:<br />

tore, che disimpegnò con amore, zelo e probità per oltre un<br />

quarantennio.<br />

Ma tra le carte, le fatture, i protocolli e i bolli non dimenticò<br />

mai le sue vive passioni, il giornalismo e la poesia: fondò e diresse<br />

alcuni giornali, collaborò assiduamente in molti altri, specialmente<br />

in quelli che rispecchiavano i suoi sentimenti patriottici, che ebbe<br />

ardenti; curò studi critici e ricerche storiche ed in questi ultimi<br />

anni, volendo rendere un tributo di riconoscente amore a Roma,<br />

ch'era la sua seconda patria, s'era pure accinto a scrivere la storia<br />

del S. Michele, al quale era rimasto attaccato.<br />

Quest'ultimo lavoro gli stava molto a cuore; purtroppo però<br />

i documenti raccolti pazientemente e quanto aveva già scritto<br />

andarono perduti insieme ad altri lavori di prosa e poesia nel<br />

saccheggio subìto dallà sua casa in momenti tristissimi.<br />

161


Ma a Roma, si può dirlo a ragione, trovò la via vera della<br />

poesia, abbracciando definitivamente la musa ciociara che personificò<br />

in« un'ùttera capigli d'oro» e chiamò Marietta, la «paiesanella<br />

».<br />

E qui del poeta vogliamo parlare, perché meritava davvero<br />

d'esser meglio conosciuto e apprezzato; e non possiamo non rammaricarci,<br />

oggi, sapendo che tanta sua produzione poetica affidata<br />

a giornali e riviste, o rimasta ancora inedita, è andata tutta irrimediabilmente<br />

perduta.<br />

Dobbiamo a Filippo Fichera, che ne ha citato un piccolo<br />

elenco in quel dotto e amoroso studio sull'arte del Taggi, premesso<br />

al volume Roselle de Fratte, se possiamo ora ricordare almeno il<br />

titolo e il soggetto di alcuni lavori tra i più significativi.<br />

Aveva cominciato scrivendo anche lui versi italiani e latini e,<br />

di tanto in tanto, ma solo a titolo di scherzo, qualche sonetto<br />

vernacolo; poi invece furono i versi latini e italiani ad inframmezzarsi,<br />

come divario, ai sonetti, alle liriche e ai poemetti dialettali.<br />

La poesia però egli la portava nel cuore, non poteva perciò<br />

non tradurla un giorno, e naturalmente, in linguaggio dialettale :<br />

egli l'aveva respirata nel cielo, attinta dalla terra, sentita nell'anima<br />

della sua gente; e perciò la sua personalità artistica, ricca e sensibile,<br />

trovò in quel linguaggio un'immediata e felice espressione.<br />

Si può dire infatti che il dialetto, prescindendo dalle su ricordate<br />

esercitazioni giovanili, fu un improvviso bisogno espressivo<br />

del poeta e che tanta vena gli sgorgò dall'imo quando la favella<br />

paesana risuonò più cara, più pura ed efficace nella lontananza;<br />

e prima ancora, inoltre, che egli si proponesse un vero problema<br />

del dialetto quale lingua poetica, perché, altrimenti, è un pensiero<br />

personale, avremmo avuto anche da lui la comune poesia di carattere<br />

ambientale, al posto della limpida espressione del puro mondo<br />

lirico che invece ci ha dato. In altre parole, la poesia del Taggi<br />

è frutto d'intuizione estetica e linguistica, avendo il poeta prima<br />

mirato alla semantica e soltanto dopo, quando cioè la poesia non<br />

poteva esser più sopraffatta, alla fonetica.<br />

Il suo dialetto è pertanto una lingua viva e creatrice, di puro<br />

valore estetico, nata dal cuore di volta in volta, in immediata<br />

168<br />

Il<br />

Il<br />

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A TTILIO T AGGI<br />

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Il


il<br />

adesione all'ispirazione, come un dono della grazia poetica, e con<br />

un sapore di aristocratica espressione.<br />

Il nitore espressivo che lo distingue deriva appunto da ciò,<br />

oltre che dall'amoroso lavoro, direi di cesello col quale il poeta<br />

sapeva render la sua parola duttile e adatta; in ciascuna poesia<br />

vediamo l'espressione dialettale attingere variamente valore, e<br />

proprio a seconda della ispirazione, tanto da poterne avvertire e<br />

gustare un diverso e nuovo sapore, passando dall'una all'altra.<br />

Fino all'ultimo s'è potuto vantare del cuor suo, dell'anima sua,<br />

sempre capaci di scrivere « paggini de seta » : e veramente pagine<br />

chiare che splendono preziosamente come fine seta sono quelle<br />

che egli ha composto a cento a cento.<br />

Il poeta milanese Antonio Negri (i poeti intendono bene i<br />

poeti), cogliendo la potenza creatrice che c'è nella parola del<br />

Taggi, dice che un'occulta divinità spira sempre nei versi del<br />

poeta ciociaro e che le cose che egli rappresenta e alle quali dona<br />

quella sua parola, balzano in piedi come al tocco d'una bacchetta<br />

magica.<br />

C'è stato chi s'è potuto vantare (il Banville, se ben ricordo),<br />

d'aver saputo creare parole belle per esprimere le cose belle e<br />

indicibili, come per esempio, il colore e il profumo delle rose;<br />

il nostro poeta ha saputo creare anche lui servendosi d'un linguaggio<br />

rozzo e povero, parole lievi e lucenti, adatte ad esprimere<br />

la luce, i colori, le trasparenze dell'acqua e dell'aria, il soffio e le<br />

voci più ineffabili, realizzando, per dirla sempre con Antonio<br />

Negri, il continuo miracolo del «sorgi e cammina ».<br />

Con pochi e minimi mezzi infatti il poeta dà sempre vita, da<br />

una realtà contingente, a una realtà poetica di grande evidenza;<br />

e davvero tutto si trasforma e rinasce al soffio della sua parola<br />

creatrice.<br />

Lo potremmo definire così il poeta delle cose belle; ed egli le<br />

sapeva dipingere co' gli coluri / toti alle scelle delle fraffallette.<br />

Bastano pochi soli versi per dirci quanta potenza evocatrice e<br />

descrittiva sapesse infondere alle comuni parole della rozza parlata<br />

paesana, ed eccone una terzina pittoricamente efficace del sonetto<br />

L'Aurora:<br />

169


Clio monto è ruscio, le prata sò verde,<br />

i glio fiumo stà a fà come la seta<br />

color viola i co' pagliuche d'oro.<br />

Una volta mi confessò tanto disappunto per un sonetto, Clio<br />

cocommero, che non gli riusciva: voleva dipingere (possiamo ben<br />

usare il verbo) un monello con mezzo cocomero tra le braccia; dal<br />

viso accaldato del fanciullo doveva capirsi, come per riverbero<br />

d'una «fiara », che il cocomero era rosso come fuoco.<br />

Un'arditezza come vedete, che non arrivava a tradurre in<br />

parole. Gli feci sentire allora un mio sonetto abbruzzese che rappresentava<br />

un'analoga situazione: «Tu, ce si rrescito! Tu, ce si<br />

rrescito! », mi disse con entusiasmo.<br />

Debbo dire, fra parentesi, che la lode mi fece piacere. Era<br />

sempre pronto, il poeta, a incoraggiare e ad applaudire i colleghi :<br />

non sono pochi quelli che egli ha sospinto e sostenuto nell'agone<br />

poetico, ma non sopportava assolutamente la mediocrità o la<br />

presunzione, con le quali talvolta era feroce.<br />

Quest'uomo s'era portato con sé, nel cuore, la Ciociaria per il<br />

mondo, e particolarmente la Sgurgola: dovunque, ed anche qui,<br />

tra le bellezze immortali di Roma, si sentiva un pellegrino nostalgico,<br />

per il quale 'nfunno 'nfunno I glio pajeso è pe' mi tutto glio<br />

munno. E tremava di commozione, come un fanciullo, o si scopriva<br />

come per salutare una bandiera, se nelle vie dell'Urbe, tra la folla,<br />

scorgesse un segno, o udisse una voce di quel suo mondo lontano<br />

e sempre amato.<br />

Nel collegio di Anagni dove fu chiuso alle soglie dell'adolescenza,<br />

e rimase per cinque anni, al ricordo pungente dei giorni<br />

trascorsi spensieratamente nella libertà dei campi e dei colli, e<br />

sulle rive del fiume, il suo animo sensibile e delicato s'andò già<br />

raccogliendo in un mondo di sogni e di fantasie, nel quale, poi,<br />

tutto fece rivivere a nuova vita, per magìa di un'arte squisita,<br />

appena soffusa d'un lieve senso di malinconia.<br />

La sua Ciociaria perciò non era quella reale e attuale, ormai<br />

nuova e diversa; quella che invece cantava e di cui descriveva i<br />

tempi e i luoghi, le stagioni e il paesaggio, le vicende della vita e<br />

delle opere, l'amore e la bellezza delle giovinette, era la Ciociaria<br />

rivissuta, cioè l'essenza, l'anima di quella terra, resa reale e palpitante<br />

non dalla presenza oggettiva, bensì dalla memoria: la Ciociaria,<br />

dico, divenuta mito, e, quindi, fonte di poesia.<br />

Al richiamo della ispirazione la realtà contingente si trasformava<br />

dunque intorno a lui, ed ecco nella notte lunare, o nel<br />

tralucere dell'alba o d'un tramonto, nello splendore meridiano o<br />

nel silenzio notturno, rianimarsi le stagioni e la vita, risorgere<br />

luoghi e creature, il fiume farsi incantato di meravigliosa bellezza;<br />

e tutta la terra, infine, fremere in un canto d'amore e di passione<br />

ed udirla, alta, intonare il canto funebre e ditirambico per la<br />

morte de « glio poveta ».<br />

Questi sogni e visioni, Attilio Taggi, sapeva fermare e rappresentare<br />

con colori vividi e profondo sentimento della natura, del<br />

tempo, delle creature e delle cose; e da qui la magìa di quei sonetti<br />

limpidi, così vivi e pittorici; quel senso di irrealità e di lontananza,<br />

quella sottile vena di sentimento che caratterizza tutta la sua poesia.<br />

Roselle de fratta e Poesie Ciociare, due volumi che raccolgono<br />

il meglio di una vasta produzione di oltre un sessantennio, sono<br />

libri di vera e pura poesia, la espressione d'un mondo di viva<br />

passione e bellezza.<br />

Soltanto in questi ultimi anni il poeta s'era compiaciuto di<br />

tornare a una realtà oggettiva ed aveva rievocato tipi, figure e<br />

vicende del piccolo mondo paesano, obbedendo quasi a un bisogno<br />

fisico di ritrovarsi realmente in quel mondo, nella sua terra.<br />

Ne son venuti fuori i sonetti de Gli fiuri de llo malo, il volume<br />

che ha visto la luce qualche mese prima della sua morte: sonetti<br />

amorosamente fatturati, perché «begli come le rose gli voleva »,<br />

e pieni del sorriso buono e sottile suo, e di chi ha in potere l'arte<br />

e la poesia.<br />

Era l'ultimo tributo offerto alla «paiesanella»: l'ex voto,<br />

direi, del figlio innamorato e pellegrino alla terra natale che forse<br />

pensava di andare a portare egli stesso devotamente.<br />

E forse per quel giorno pensava a una lettura, tra amici,<br />

all'ombra «della saucia» in chello de glio abbato, vicino alla<br />

fontanella che aveva rispecchiato per lui le stelle.<br />

170 171<br />

.I


Non c'era più stato alla sua Sgurgola da oltre dieci anni, salvo<br />

i pochi giorni del quarantanove; ma il cuore volava sempre là e<br />

ci sarebbe certo ritornato, come un tempo, a trascorrervi in pace,<br />

nel mondo dei lontani sogni, una o due settimane.<br />

Jè stongo a Roma da nna cinquantina<br />

d'anni i ce tengo 'na bella famiglia,<br />

i a 'gni morte de papa - ecco la spina!<br />

revaglio a beva l'acqua a la Caviglia.<br />

E c'è ritornato. Aveva cantato di voler morire solo, senza veder<br />

nessuno vicino, per poter chiamare ad arridergli i fantasmi dilettosi<br />

della gioventù; ma il buon Dio, al quale aveva ridato il cuore,<br />

gli concesse invece con grande misericordia, in qualche momento<br />

di lucidità del male, di vedersi accanto le sole creature del suo<br />

sangue: i figli diletti; e certamente un'unica parvenza di tanto<br />

passato: la moglie che «roscia 'nfaccia» gli sorrideva tra lo<br />

sfavilIìodi mille «stelluccette d'oro ». '<br />

Il canto della terra adorata l'aveva già udito, ma tutta la<br />

Ciociaria, accogliendone la salma, nella fredda mattina invernale,<br />

cantò ancora ad anima spiegata per il suo poeta, come un giorno<br />

di grande estate, l'inno eterno della vita, della bellezza e dell'amore.<br />

Così la morte è bella;<br />

non è partire, è non andar Più via.<br />

...Non si muore<br />

così. Così, mio buon fratello,<br />

si resta.<br />

cantò Giovanni Pascoli, per l'ultimo ritorno di Giuseppe Giacosa<br />

a Parella; ed anche lui il buon fratello ciociaro, al tralucere di<br />

un'ultima visione, forse disse al suo cuore: «Fermati! È bello! ».<br />

Era bella la Ciociaria del suo cuore, anche quel giorno; e c'è<br />

rimasto vivo coi suoi canti e col ricordo di un mondo che aveva<br />

fermato in attimi di bellezza, tra coordinate di tempo e spazi ideali.<br />

172<br />

11II<br />

Quella Ciociaria era divenuta un po' anche la nostra e perciò<br />

egli è rimasto pure tra noi. E glie ne siamo grati. Caro poeta<br />

nostro! Egli ci ha dato sempre tanta gioia col suo limpido canto,<br />

ed ora ci ha lasciato nel cuore la sottile nostalgia d'un mondo non<br />

soltanto di bellezza, ma pure di bontà a sollevarci in alto, sempre<br />

in alto, dove la vita riacquista i suoi valori eterni.<br />

Gnent'ivi e gnente si! Ma frato, allora<br />

fa come mi, che nnanzi a' sto sbarbaglio<br />

de luci, rido i nu jastemo più.<br />

1<br />

r.<br />

VITTORIO CLEMENTE<br />

-~ Pj/<br />

(Emilio Greco)


LA FECONDAZIONE ARTIFICIALE<br />

ehe razza d'assassini, ,sti scienziati!<br />

Invece de campà tranquillamente<br />

senza scoprì, senza inventà più gnente,<br />

tireno fora certi aritrovati<br />

che la bomba anatomica assomija<br />

a 'no scherzo, a un giochetto de famija.<br />

Oggi pe' mette ar monno 'na criitura<br />

nun c'è bisogno più... me so' spiegato?<br />

Er frutto de l'amore è diventato<br />

una specie de fijo pe' procura.<br />

Addio baci, addio abbracci, addio passione!<br />

Ar giorno d'oggi abbasta un'ignezione.<br />

lo mo nu' sto a spiegavve er macchiavello,<br />

ma a li scienziati nun je la do vinta;<br />

io seguito a l'antica, è troppo bello!<br />

Ve figurate voi 'na donna incinta,<br />

che resta incinta propio ne la panza<br />

co' un'ignezione? Bella gravidanza!<br />

E ar fijo, quanno nasce, che je dite?<br />

La madre, lo sapemo, è Giggia Amato;<br />

ma er padre? Che buatta j'ammannite?<br />

Je dite ch'è un estratto concentrato?<br />

Ve toccherà de dijelo papale<br />

ch'è fijo de 'no schizzo artificiale!-<br />

NINO BUZZI<br />

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CARLO DOTTARELLI: VICOLO DELLE PALLINE<br />

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11II<br />

l,<br />

PULCI, BENVENUTO E LA PANTASILEA<br />

Luigi Pulci batte un giorno alla casa romana dell'orafo Benvenuto<br />

Cellini.<br />

Non è (chiaro!) l'autore del Morgante, ma il diretto nipote.<br />

È bello, è d'ingegno, esperto di lettere, sa cantare e suonare. A<br />

Firenze, ha perfino entusiasmato Michelangelo... Ma adesso è<br />

povero, lacero, malato. Prima di tutto, è cresciuto in un ambiente<br />

malsano (il padre per un ripugnante crimine lasciò la testa sul<br />

ceppo) poi la vita sregolata lo ha ridotto in condizioni miserevoli.<br />

Ma Benvenuto è generoso ed ha il culto dell'amicizia. Si prende<br />

in casa quello sciagurato, lo rianima, lo cura, lo assiste, riesce a<br />

fado rifiorire. Durante la convalescenza gli procura dei libri<br />

«secondo la mia possibilità» dice modestamente l'artista. Pulci<br />

giura eterna riconoscenza; l'altro, che gli voglia bene « da amico ».<br />

Rinfrancato, rimpannucciato, il giovane sente di nuovo spuntare<br />

le ali e si tuffa nel dilettoso mare della corte romana. Riesce<br />

ad allogarsi presso un vecchio prelato veneto, Gerolamo Balbo, e<br />

ad accattivarsi le simpatie del nipote, messer Giovanni, che presto<br />

colma il giovane amico di costosi presenti.<br />

Una sera Benvenuto tiene lieto simposio con amici artisti, capi<br />

scarichi come lui. Vi è pure una donna di mondo, che da un pezzo<br />

è la sua grande fiamma, la sua vorace passione: Pantasilea.<br />

All'improvviso arrivano Pulci e messer Giovanni; fanno un po'<br />

di convenevoli e poi accettano di prender parte all'allegra cena.<br />

Ma passano solo pochi minuti e Benvenuto si sente mordere dalla<br />

gelosia. La bella e volubile donna ha posto gli occhi addosso al<br />

bel giovane...<br />

Finita appena la gaia radunanza, l'orafo chiama il Pulci e gli<br />

parla con tutta schiettezza.<br />

175<br />

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«Oimé, Benvenuto mio, voi ini'avete dunque per un insen~<br />

sato? ».<br />

«Non per insensato, ma per giovane» e aggiunge: «Di lei<br />

non ho un pensiero al mondo, ma di voi mi dorrebbe che per lei<br />

voi vi rompessi il collo ».<br />

Presagio funesto!<br />

Passa qualche giorno e l'artista, con un brivido di gelo, si<br />

accorge che l'incauto si è lasciato irretire dalla procace Circe.<br />

Sa, infatti, che Pulci, su un bello e costoso cavallo, ogni giorno va<br />

a farsi ammirare da Pantasilea...<br />

Poi il dramma precipita.<br />

In un radioso pomeriggio d'estate Benvenuto e la donna sono<br />

invitati a una cena fuori Porta Castello, in casa di un certo Bachiacca,<br />

cena gioconda allietata da vini generosi e da conversari<br />

salaci.<br />

A un certo punto, Pantasilea chiede di assentarsi un momento.<br />

Mentre la sua assenza si prolunga, gli amici seguitano a parlare,<br />

ma Cellini, preoccupato, si guarda intorno, tende l'orecchio fino<br />

a che gli sembra di percepire un cauto parlottare sottolineato da<br />

risa sommesse.<br />

Benvenuto afferra un coltello, fa un balzo alla finestra (poco<br />

rialzata dal suolo stradale) e vede ciò che non vorrebbe vedere!<br />

Pulci è lì, a cavallo e vicino sta la donna che gli dice trepida<br />

e scherzosa:«Oh se quel diavolodi Benvenutoci vedesse!».<br />

«Non abbiate paura - conforta l'altro - sentite il chiasso<br />

che fanno?... ».<br />

Con un balzo felino l'artista scavalca il parapetto, si butta nella<br />

strada, si scaglia contro i due. Afferra il giovane per la cappa<br />

e tenta colpirlo col coltello.<br />

Pulci, come un qualunque casto Giuseppe, lascia la cappa nelle<br />

mani del furente, dà di sproni al destriero e via!...<br />

Fugge pure Pantasilea e corre a nascondersi in una chiesa<br />

vicina.<br />

La cena va all'aria: gli amici, costernati, tentano calmare<br />

Cellini.<br />

Inutile fatica!<br />

Con la spada sottobraccio, tutto solo se ne va in Prati, nella<br />

ampia distesa verde che circonda Castello... e lì rimugina e rinfocola<br />

i propositi di vendetta.<br />

Scende il sole, s'annotta, a passo lento Benvenuto rientra in<br />

città. La calma apparente non è che foriera di tempesta.,<br />

Va alla casa di Pantasilea: se trova i due, saprà fare dispiacere<br />

all'uno e all'altro.<br />

Candida «una servaccia» gli dice che la padrona non è in<br />

casa, e Benvenuto, in quella modesta e paesana Roma del Cinquecento,<br />

sparsa di casupole e di domestici orti, appresta il suo piano<br />

di guerra.<br />

Pantasilea abita «dietro Banchi in sul fiume del Tevero» e<br />

di fronte alla casa c'è il giardino d'un oste, ricinto da una siepe<br />

di pungenti marruche. Cellini ,si ficca lì in mezzo con la spada<br />

in pugno e aspetta.<br />

Bachiacca (che forse non lo ha mai perduto di vista) gli si<br />

appressa, lo chiama affettuosamente «compare» e lo esorta a<br />

lasciar perdere la mala femmina.<br />

Ma l'artista, ormai invaso dall'ira, vede tutto rosso: «se a<br />

questa prima parola voi non mi vi levate dinanzi, io vi darò di<br />

questa spada in sul capo ».<br />

Povero Bachiacca, che paura ne risente!<br />

La notte è fonda; le stelle ardono in cielo. Un mite chiarore<br />

scende dal cielo estivo. Il silenzio è rotto all'improvviso da uno<br />

strepito d'armi e da uno scalpitare di zoccoli. Vengono, vengono!<br />

È una torma d'armati: una vera corte splendente.<br />

C'è l'odiato Luigi, c'è Pantasilea, entrambi sicuri e baldanzosi,<br />

ben guardati da quattro capitani d'armi « con altri bravissimi<br />

giovani soldati: in fra tutti più di dodici spade ».<br />

Uno co~tro dodici; lo comprende anche nel suo furore il<br />

nostro eroe: la disparità è troppo accentuata... Istintivamente si<br />

interna di più nella siepe, ma le marruche gli conficcano le spine<br />

nella pelle, eccitando il sangue a cieco furore, aizzando l'orafo<br />

come un toro muggente. Pure è risoluto a fare un salto e fuggire,<br />

quando...<br />

176 ln


Pulci, che ha girato il braccio intorno al collo della donna<br />

infedele, le dice: «lo ti bacierò ancora una volta a dispetto di<br />

quel traditore di Benvenuto ».<br />

E Benvenuto, terribile come l'arcangelo di Sion, più non frenandosi<br />

balza dallo spinoso groviglio delle marruche, rotea la<br />

spada, caccia un urlo: «tutti siete morti! ».<br />

II primo colpo cade sulle spalle di Luigi, ma a vuoto perché<br />

i compagni lo hanno (le precauzioni non sono mai troppe!...) tutto<br />

inferracchiato di giachi; ma l'eco sinistra delle ferraglie, l'urto,<br />

l'urlo, l'improvvisa apparizione generano confusione.<br />

Quel diavolo di Benvenuto seguita a tirar colpi. Luigi e Panta-<br />

silea rotolano a terra. Bachiacca getta un grido lamentoso e fugge,<br />

l'oste e i suoi clienti accorrono con grande schiamazzo.<br />

Gli armigeri sorpresi dall'impreveduto attacco contrastano e<br />

si urtano fra loro: due cavalli gettano a terra i cavalieri, gli altri<br />

sbandano, tre si feriscono scambievolmente.<br />

In mezzo all'indescrivibile tumulto, sempre mulinando la spada,<br />

Benvenuto esce dal cerchio fatale «non volendo tentare più la<br />

fortuna che il dovere... ».<br />

La notte passa senza ulteriori incidenti. Nei giorni appresso<br />

autorevoli amici si intromettono... tutto torna tranquillo.<br />

Ma un giorno Pulci, saltabeccando sul suo morello che così<br />

bene sa far destreggiare, proprio sulla porta di Pantasilea intrappola<br />

e cade. II cavallo scivola sul terreno bagnato e con tutto il<br />

suo peso va a poggiare sul disgraziato cavaliere. Soccorso pietosamente,<br />

pochi giorni dopo muore in casa della donna.<br />

« Così si vede che Iddio tien conto dei buoni e dei tristi ed a<br />

ciascuno dà il suo merito ».<br />

178<br />

ERMANNO PONTI<br />

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19 APRILE 1950<br />

Nozze Spinetta Spinola - Enzo Valentini di Laviano<br />

Argenta Spinola - Fabio Pizzoni Ardemani<br />

Ezeta nell'allegrezza dell'amore<br />

sen va la bella figlia innamorata:<br />

ride il creato, quando ride il core,<br />

ch'è gioja grande di sentirsi amata.<br />

E la novella spargesi festosa:<br />

Spinetta sposa!<br />

Nella scia luminosa dell'amore<br />

segue Spinetta la minor sorella:<br />

giovinezza amorosa quanto è bella!<br />

Di quanta gioja rifiorisce il core!<br />

Il mondo pare tutto azzurro e rosa:<br />

Argenta sposa!<br />

Benedette da Dio le nostre figlie<br />

lasciano liete il nostro vecchio nido:<br />

e noi, Letizia, soffochiamo un grido,<br />

e di pianto si bagnano le ciglie...<br />

Ma, se nell'impeto<br />

di nuova vita,<br />

un piccol essere,<br />

gridando ajta,<br />

verrà a interrompere<br />

i nostri sonni,<br />

Letizia, allègrati:<br />

saremo nonni!<br />

ANTONIO SPINOLA


I MOTTI E LE ISCRIZIONI<br />

DELLE ANTICHE MONETE PAPALI<br />

A ripensare alle iscrizioni delle antiche monete della Corte<br />

Pontificia, ci sarebbe da mettere insieme un vero e completo trattato<br />

di morale: le brevi ed auree sentenze in esse intagliate, tratte<br />

quasi sempre dai libri santi, raccomandano la elemosina, il buon<br />

uso delle ricchezze, e ricordano la fugacità dei beni terreni.<br />

In alcune in.fatti si legge: Da pauperi, oppure Date et dabitur,<br />

e talora Fac ut juvet, ovvero Defluit et influito<br />

Parecchie altre portano scritto: Modicum justo e Ferro nocen-<br />

tius aurum, e tanti altri sagaci motti, come quelli tolti da Orazio,<br />

di cui si valse Alessandro VII: Temperato splendeat usu, e Crescentem<br />

sequitur cura pecuniam.<br />

Infine, non si possono dimenticare altre sentenze famose, tra<br />

cui quelle di papa Benedetto XIII degli Orsini, Da ne noceat; di<br />

Innocenzo XI, M elius est dare quam accipere; e di papa Albani,<br />

Quis pauper? Avarus.<br />

Questa costumanza ebbe inizio nella prima metà del Cinquecento,<br />

e si affermò quando, per opera di Benvenuto Cellini e di<br />

altri valenti artefici, le monete papali si fregiarono delle immagini<br />

degli Apostoli, e di molte figurazioni simboliche, accompagnate<br />

da iscrizioni di profondo significato. Lo stesso Cellini, nel bizzarro<br />

racconto della sua « Vita », descrive varie monete che eseguì per<br />

Clemente VII e per Pa,olo 111, e nota come egli avesse accettato<br />

di gran cuore l'opera della Zecca, quantunque prima di allora<br />

non si fosse mai esercitato in simili lavori.<br />

« Mi impose Clemente », scrive l'abilissimo orafo e cesellatore,<br />

« che io facessi un modello di un doppione largo d'oro, in nel quale<br />

voleva che fussi un Cristo ignudo con le mani legate, con lettere<br />

che dicessino: Ecce Homo, e un rovescio dove fussi un Papa e un<br />

Imperatore che drizzassino d'accordo una Croce, la quale mostrasse<br />

180<br />

di cadere, con lettere che dicessino: Unus spiritus una fides.<br />

CoIJlIIlessomi il Papa questa bella moneta, sopraggiunse il Bandinello<br />

scultore, il quale non era ancor fatto cavaliere, e con la sua<br />

solita presunzione vestita di ignoranza disse: A questi orafi di<br />

ueste belle cose, bisogna lor fare i disegni. Al quale io subito<br />

~i volsi, e dissi che io nop avevo bisogno dei suoi disegni per<br />

l'arte mia; ma che io speravo bene con qualche tempo che con i<br />

miei disègni io darei noia a l'arte sua ».<br />

Da qui si vede come la modestia non fosse la maggiore virtù<br />

del Cellini. Egli descrive anche un'altra moneta di grande valore,<br />

col ritratto del Papa da un lato, e dall'altro il Cristo che cammina<br />

sulle acque, e porge la mano a S. Pietro, con lettere intorno che<br />

dicono: Quare dubitasti? E parla poi delle stampe degli scudi,<br />

in cui figura S. Paolo, Vas electionis.<br />

In progresso di tempo, oltre alle monete celliniane, i pontefici<br />

ne ebbero altre pregevolissime, come un « paolo» di Gregorio XIII,<br />

con la Fortuna nel rovescio, e la scritta: Prudentis socia, e un<br />

« testone » di Sisto V, con la Giustizia, e il motto: Publicae quietis<br />

parens.<br />

Alessandro VII, rinunciando alle figurazioni, preferì le sentenze<br />

sacre e morali; e vivissimo si mantenne quest'uso anche nei suoi<br />

successori, fino a Clemente XIII. Poi l'arte illanguidì e si spense,<br />

quando Gregorio XVI tralasciò di far battere la sua moneta da<br />

cinque scudi, con S. Pietro e Paolo, per timore che gli eventi del<br />

momento potessero portare alla profanazione delle immagini sacre.<br />

EMMA AMADEI


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I PASSERI ALL'ARGENTINA<br />

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Nella stagione del freddo, al far della sera, non c'è, al Largo<br />

Argentina, un passante che non alzi il viso, sorridente e divertito,<br />

verso le chiome dei pini; e perfino negli autobus si vedono i passeggeri,<br />

il naso appiattito contro i vetri, guardare in alto con aria<br />

lieta ed ammirata. Ci sono i passeri. In tutta Roma si sa oramai<br />

dei passeri dell' Argentina. Cominciarono a comparire, ed erano<br />

già migliaia, due o tre autunni fa. Quest'anno sono miriadi. E tutti<br />

si domandano il perché di questa simpatica novità, da dove essi<br />

vengano e perché proprio qui. Comunque sia, sta il fatto che i<br />

primi ci si devono esser trovati bene. E via via si son data la<br />

voce, creandosi qui il loro quartiere d'inverno. Socievolissimi e<br />

amici dell'uomo, non li mette affatto in soggezione il frastuono<br />

circostante; ed in quanto alla luce elettrica, sembra che essa<br />

piuttosto li attiri e li diverta. E all'ora del sonno ci pensano le ali<br />

a riparare gli occhietti dalla sua offesa.<br />

182<br />

I romani ci hanno fatto subito amicizia, coi passeri. È però<br />

un'amicizia ben diversa da quella dei veneziani per i colombi o,<br />

se volete, di quella dei frequentatori degli zoo delle città del Nord<br />

per i merli e gli scoiattoli. È un'amicizia tutta fresca e gioiosa,<br />

come per un dono nuovo e inaspettato.<br />

Infatti, a quei frulli, a quei cinguettìi che riempiono l'aria fino<br />

alle ultime luci del giorno, su ogni fronte si spianano le rughe ed<br />

ogni occhio, anche il più turbato, par che si illumini per un attimo<br />

di serenità. Miracolo di queste bestioline così fragili e spensierate<br />

che con tanta festa (così almeno a noi pare) conchiudono, inebriate<br />

di cielo, la loro giornata. E forse in più di un'anima stanca,<br />

angustiata, disperata, esse risveglieranno per un momento la spenta<br />

fiducia, al ricordo delle parole del Vangelo: «Guardate gli uccelli<br />

dell'aria: essi non seminano, non mietono, non raccolgono in<br />

granai, e il vostro Padre celeste li nutre ».<br />

I passeri cominciano ad arrivare all'approssimarsi del tramonto,<br />

annunziati dalle loro strida gioiose. Arrivano prima alla spiccio-<br />

lata, quasi alla chetichella. Quindi, a piccoli gruppi, si avvicinano,<br />

volteggiando nell'alto, però ancora guardinghi, quasi indecisi, come<br />

se compissero un'avanscoperta. Poi, come pentiti, sfrecciano con<br />

grida allannate, in lontananza. Ma non sono pentiti; vanno invece<br />

incontro agli stormi grandi che stanno sopraggiungendo da tutte<br />

le direzioni. D'improvviso, il cielo è solcato e forato dai colpi pazzi<br />

di migliaia di ali e lo stridìo è tale, che supera il rumore del<br />

traffico. Per un pezzo, specie se la serata è bella, giostrano così,<br />

facendo evoluzioni arditissime in masse fluide e leggere come nuvole<br />

spiumacciate dal vento. D'un tratto, mutano direzione tutti nel<br />

medesimo istante; e prima prendono quota, e quindi si buttano<br />

in picchiata, meravigliosamente, sui tetti e le grondaie.<br />

È allora che i passanti sostano, più che mai divertiti ed incan-<br />

tati, tutti col sorriso sulle labbra e il naso in su.<br />

Finalmente i passeri si decidono a smettere quel prestigioso<br />

giuoco e, alla spicciolata, piombano sui rami dei pini e dei cipressi<br />

e in pochi istanti scompaiono dal cielo, ingoiati dal fitto e minuto<br />

fogliame. Come per incanto, gli alberi si caricano di frutta gialloverdognole,<br />

di limoncelle piccole ed acerbe, e le punte dei rami<br />

cominciano a piegarsi lievemente al lievissimo peso.<br />

183


Ma non si quietano subito: ché fino a tarda ora si nota un<br />

irrequieto brusÌo, un salteIlare di ramo in ramo, di albero in<br />

albero, accompagnato da un chiacchiericcio sommesso e pettegolo,<br />

fino a che, le testine sotto le ali, tutti fanno la nanna.<br />

Si ode solo, di tanto in tanto, qualche isolato pigolìo, come<br />

un dialogo, con domande e risposte ora dolci ora concitate. Che<br />

cosa si dicono, a quell'ora, i passeri? Forse si mormorano paroline<br />

amorose. Qualche volta, di notte, si riaccende improvviso, per un<br />

momento, un focolaio di pigolii soffocati e indispettiti. Prepotenze?<br />

Gelosie? O, forse, si lamentano degli storni che, da qualche tempo,<br />

facendosi forti dei loro voli compatti e dei loro petti robusti sono<br />

venuti a turbare la pace e a rubare a loro i posti migliori? Li hanno<br />

visti, atterriti, arrivare neIla loro caratteristica formazione a trian.<br />

golo, guidati daIlo storno condottiero, come falangi pronte per il<br />

combattimento, mettendo in fuga il falco che, contro di loro,<br />

torri avevavicine. spiccato il volo daIle altane di palazzo Caetani e daIlB<br />

- Cicciricì - sussurrano i passeretti - Eccoli qua, questi<br />

prepotenti! Non potevano restare suIle cime dei canneti? C'era<br />

proprio bisogno di venire a contenderci questo tiepido rifugio<br />

che noi ci siamo procurato con tanti sacrifici? Sono superbi e<br />

tronfi. Forse perché di loro parla il Poeta?<br />

«E come gli stornei ne portan r ali,<br />

nel freddo tempo a schiera larga e Piena... ».<br />

Ciccì, cicciricì! Stupidi! che forse Dante non parla anche<br />

di noi?<br />

- Cicciccì, zitto, per carità! ché queIli son capaci di spaccarci<br />

il capo col becco!<br />

* * *<br />

Una mattina di gennaio, al primo chiarir del giorno, il custode<br />

degli scavi deIl'Argentina, portò al giornalaio lì vicino due passerotti<br />

morti. Li teneva appesi per le ali, gli occhietti chiusi e un po'<br />

di sangue nel beccuccio. Uno aveva la spaIla spezzata, l'altro il.<br />

cranio spaccato. Ma non erano stati gli storni.<br />

184<br />

11II<br />

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ORAZIO AMATO: PASSERI ALL'ARGENTINA<br />

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_ Ne ho trovati parecchi, per terra. Poveretti, la grandinene<br />

ha fatto strage, stanotte.<br />

_ Povere bestiole - soggiunse un passante antelucano - mi<br />

fanno pena. Però, quando hanno da fare questa brutta fine è<br />

meglio una schioppettata. lo faccio chilometri e chilometri in<br />

campagna per ammazzarne tre o quattro: e qui, con un paiodi<br />

bòtte, quant'è vero Dio, ne butterei giù un paio di cento. -<br />

E si passava la lingua sulle labbra, con una smorfia leggermentecrudele.<br />

Interloquì lo scopino di servizio:<br />

_E metti pure, che mi faresti un piacere anche a me, ché<br />

mi sporcano tutti i marciapiedi.<br />

Il giornalaio pensò di regalare gli uccellini al giovane ciecoche<br />

suona la fisarmonica lì all'angolo.<br />

Il caro Robertino Galli, con gli occhi senza luce voltati in alto<br />

a cercare non si sa che, sfiorò appena i passeretti con la punta<br />

delle dita ultrasensibili. Poi li respinse dolcemente:<br />

_ Grazie, ma io questi non li mangio. Gli ho dedicata anche<br />

una poesia, io, ai passeretti. Come posso mangiarli? Non ti sei<br />

accorto che la sera, quando arrivano, suono la fisarmonica piÌL<br />

«de còre »?<br />

(Mimì Carreras)<br />

ORAZIO AMATO


L'INGEGNERE ROMANO<br />

,<br />

CHE ILLUMINO LONDRA<br />

Il 18 aprile del 1782 il Primo Segrètario di Stato del Regno<br />

delle Due Sicilie marchese della Sambuca diresse da Caserta, per<br />

ordine di Ferdinando IV, al principe di Stigliano un lungo dispaccio,<br />

in cui, fra l'altro, era detto:<br />

« Malgrado le varie disposizioni e provvidenze ordinate dalla<br />

paterna cura di S. M. per rendere più sicura di notte la città di<br />

Napoli, e meno soggetta a quei disordini e inconvenienti facili a<br />

succedere col favore dell'oscurità in una vasta e popolosa capitale,<br />

non ha il Re veduto con tali mezzi adempito convenientemente il<br />

suo lodevole e magnanimo fine. Prendendo quindi la M. S. tale<br />

importante oggetto nella più seria considerazione, ed avendo presenti<br />

li salutari effetti che risultano alle più grandi e ben governate<br />

capitali di Europa dalla generale e ben disposta illuminazione<br />

notturna ch'è in esse stabilita e diligentemente mantenuta dalla<br />

vegliante lor polizia, è venuto il Re nella determinazione di adot-<br />

tare e far eseguire somigliante misura per la sua capitale, come il<br />

metodo più opportuno ed efficace, dissipate restando le tenebre<br />

della notte, protettrici della gente di malaffare, ad impedire quantità<br />

di disordini, di eccessi e di oscuri delitti, a prevenire i rei<br />

disegni e gli attentati dei malvagi e degli oziosi, ecc. ecc. ».<br />

Bastò quest'ordine sovrano perché si provvedesse, con lettera-<br />

circolare del 7 maggio, ad interpellare in proposito i Ministri<br />

napoletani residenti a Vienna, a Madrid, a Parigi, a Londra, a<br />

Lisbona, a Torino...<br />

Il carteggio che ne seguì è, per noi, dei più interessanti, anche<br />

se la nostra Roma non venisse chiamata in causa (ché qui, a parte<br />

i lumini de' crocicchi dinanzi alle immagini sacre, doveva trascorrere<br />

ancora più di un decennio prima che i Francesi appiccassero<br />

186<br />

per le strade ben mille lampade ad olio), perchè viceversa risultò<br />

il primato dell'ingegnere romano Giuseppe Bonomi, il quale aveva<br />

già illuminato, in larga parte, Londra.<br />

Non importa che Ferdinando IV, lette attentamente tutte le<br />

relazioni e tutto ben ponderato, decidesse alla fine di lasciar Napoli<br />

al buio e di far vendere, come ferrovecchio, i già acquistati lam-<br />

pioni; quel che resta è tuttavia il vanto del nostro concittadino,<br />

precursore non soltanto per Napoli e Roma ma anche per non<br />

poche altre capitali europee.<br />

Vediamo: il Ministro plenipotenziario di Napoli a Vienna<br />

Tommaso Di Somma rispose il 24 giugno alla richiesta del suo<br />

governo che quella città non possedeva in argomento una vera<br />

regolamentazione; sebbene poi 1'8 luglio inviasse una relazione<br />

manoscritta in tedesco con annessa traduzione in francese, scusandosi<br />

di non aver trovato (neppure nel personale della Legazione?..<br />

Mah!) chi fosse in grado di tradurre in italiano.<br />

Il principe di Raffadali, ambasciatore straordinario a Madrid<br />

rispose «ai sovrani comandi» con una lettera del 28 maggio,<br />

datata da Aranjuez, nella quale prometteva di inviare le maggiori<br />

informazioni al suo ritorno a Madrid. «Credo peraltro prevenire<br />

l'E. V. _ si affrettava a soggiungere - che in tutto il corso de'<br />

miei viaggi non ho veduto più bella illuminazione di quella di<br />

Lisbona, eseguita ultimamente fra lo giro di soli due mesi, tanto<br />

pella maggiore chiarezza dei lumi, che pella buona costruzione dei<br />

fanali ». Prometteva inoltre l'invio di uno di tali straordinari lumi<br />

che egli aveva acquistato, per uso del suo giardino, in Portogallo,<br />

ove, l'anno innanzi, aveva già ricoperto la stessa carica di Ministro<br />

plenipotenziario.<br />

L'incaricato di affari a Parigi Luigi Pio rispose anch'egli<br />

1'11 giugno per riferire quanto il Lenoir, luogotenente generale di<br />

Polizia, gli aveva comunicato al riguardo, e cioè che l'illuminazione<br />

di quella capitale, in luogo d'essere assunta, come altrove, dalla<br />

Municipalità, era stata data in appalto, sino dal 1769, a certi<br />

Lavalar, Sangrin e Bourjois de Chateaublanc, i quali, dietro un<br />

compenso fisso annuo di 43 liures per ogni lampada, si erano<br />

obbligati alla perfetta manutenzione dei lumi per venti anni. Ma<br />

187


dalla lettera del Pio si apprende anche che i gratuiti uffici della<br />

luna, senza nuvole, consentiva periodicamente agli impresari un<br />

buon risparmio d'olio.<br />

Da Torino, Joseph de Ocariz inviò due opuscoli a stampa<br />

delle « Regie patenti colle quali si ristabilisce l'illuminazione nella<br />

città di Torino, con vari provvedimenti, e si fissa per la spesa un<br />

diritto sul fieno che sarà introdotto a Torino (19 marzo 1782)».<br />

Ed eccoci al principe di Caramanico, Inviato straordinario di<br />

Napoli a Londra, il quale rivendica a un italiano, all'architetto<br />

romano Giuseppe Bonomi, il merito di aver dotato largamente<br />

quella città di una illuminazione razionale, ed invia, in data<br />

del 30 luglio, anche il disegno, anzi, un acquarello, delle varie<br />

foggie dei lumi ideati dal nostro concittadino.<br />

Né importa, dicevamo, che il Re di Napoli, dopo tanto carteggio,<br />

non trovasse più il tempo di riesaminare la pratica, che<br />

giacque abbandonata in qualche scaffale burocratico sino al 1787.<br />

Nel giugno di quell'anno, il nuovo Segretario di Stato marchese<br />

Caracciolo la riesumò; e per prima cosa si dedicò ad accaparrarsi<br />

a buone condizioni l'olio necessario. Finalmente, nel giugno 1789<br />

(ed erano già passati sette anni dalla prima idea), disegnò la<br />

distribuzione di 2102 lanterne e preventivò la spesa: per la messa<br />

in opera, ducati 87.283.54; pel mantenimento annuo, ducati<br />

148.638.55 e mezzo.<br />

Cifre grosse! La deputazione incaricata dell'attuazione se ne<br />

spaventò al punto da disporre senz'altro di soprassedere. I lavori<br />

già iniziati vennero sospesi; l'olio già affiuito per mare da Taranto,<br />

le aste già approntate dalle Ferriere di Castellammare, tutto fu<br />

venduto. L'ultima scena ha sapore quasi comico. Indetta l'asta<br />

pel 12 novembre, risultò che si poteva «presso a poco carpire,<br />

daIIi ferri, docati 12 il centaio, e dalli lampioni, docati 6 ognuno,<br />

a riserbo, però, di quei che forse possono ritrovarsi patiti nelle<br />

lastre e nelle ossature ».<br />

Così, la relazione. Il Sovrano firmò, cosparse il suo reale<br />

polverino. E Napoli restò al buio. Frattanto, Londra si arricchiva<br />

sempre più degli innumerevoli fanali disegnati dal Bonomi in varia<br />

foggia, con leggiadri motivi di ferro battuto e perfino con stele<br />

188<br />

di marmo, precorritrici di quelle collocate di recente lungo la via<br />

della Conciliazione, suscitando critiche e polemiche.<br />

Ma dell'ingegnere romano Giuseppe Bonomi non c'è parola<br />

nell'Enciclopedia Italiana, né nel Larousse. Neppure nel Dizionario<br />

storico-ecclesiastico di Gaetano Moroni. Solo nella British<br />

Universities Encyclopaedia, un breve cenno: «architetto nato a<br />

Roma nel 1739; a ventotto anni era in Inghilterra, ove morì il<br />

9 marzo 1806 ». È qualcosa; e pur sempre poco. Dei suoi lavori,<br />

dell'illuminazione di quella capitale, niente.<br />

Ecco (da un acquarello<br />

allegato alla relazione<br />

del principe di Caramanico)<br />

una serie dei<br />

vari lampioni impiantati<br />

a Londra dall'ing.<br />

Bonomi. Ed è curioso<br />

osservare come il primo<br />

di essi somigli stranamente<br />

ai cosidetti obelischi<br />

porta-lampade,<br />

collocati dagli archi tetti<br />

Piacentini e Spaccarelli<br />

lungo la via della<br />

Conciliazione.<br />

GUSTAVO BRIGANTE COLONNA


190<br />

LA MADRE T e sei scordata puro<br />

Ccchelo lì, buttato drent' ar letto,<br />

cor fiato grosso e co' le guance accese,<br />

ridotto 'no straccetto!<br />

Li regazzini fanno 'ste sorprese:<br />

I eri pieni de vita, de pretese,<br />

de capricci, de strilli,<br />

vivaci, prepotenti,<br />

zompanno tutt'er giorno come grilli!...<br />

E mo' li vedi mosci, sonnolenti,<br />

co' l'occhietti velati,<br />

in un fonno de letto, rinnicchiati,<br />

a fasse accarezzà le guance rosse!...<br />

Te sei scordata tutto in quer momento:<br />

Senti solo quer foco ne' la mano,<br />

senti solo la tosse<br />

che je sbatte la testa sur cuscino<br />

e je baci la fronte Piano piano,<br />

pe' sentilla scottà più da vicino.<br />

Che te ne importa de li scarabbocchi<br />

che t'hanno fatto sotto a la finestra?<br />

Che te ne importa de li buci ar muro?<br />

Li cassetti so' rotti? Se rifanno!<br />

Ieri ha risposto male a la maestra?<br />

Eh, capirài, che danno!<br />

d'aveje dato un po' de scappellotti,<br />

d'aveje detto: «... boja!, delinguente!... »<br />

T e viè da piagne e preghi solamente<br />

che la Madonna te lo tiri fori!...<br />

E je prometti cento communioni,<br />

'na montagna de fiori,<br />

perché tu' fìjo torni a rillegratte<br />

co' le mascarzonate de 'na vorta!...<br />

Ma manco s'è riarzato da quer letto<br />

e l'hai fatto sortì da quela porta,<br />

aritorna de novo a scatenasse,<br />

peggio der peggio spirito folletto!<br />

E allora tu ariperdi la pazzienza<br />

e l'arichiami boja, mascarzone,<br />

schifoso, porco, lenza...;<br />

e maledichi er giorno ch'è guarito<br />

ché, si moriva quanno ch'era ora,<br />

mo' stavi mejo, stavi da signora<br />

e avevi già finito<br />

de tribbolà pe' lui, brutta carogna!...<br />

Ch'è l'ora de finilla,<br />

ch'è peggio de la tigna e de la rogna!...<br />

E guasi te convinci<br />

che senza fìji stavi più tranquilla!<br />

Ma appena te riaccòrgi che stà male,<br />

che l'occhi je s'allustreno un pochetto,<br />

l'arificchi de corsa drent'ar letto<br />

e accanto a lui, piagnenno, aricominci!<br />

GIULIETTA PICCONIERI


QUELLO CHE SCRIVEREI SUL MIO« CRACAS »' nessuna annonia nemmeno di linee. Cosicché mentre per arrivare<br />

a Parigi si passa, ad esempio, tra i villini operai di Fontainebleau<br />

(villini lindi e coloriti dai giardini pieni di piante di anemoni<br />

fioriti), qui da noi si passa attraverso borgate e strani agglomerati<br />

dai più singolari nomi: Valco di S. Paolo (un nome che mi fa<br />

Se fossi un editore - voglio dire un editore romano come lo<br />

:Staderini - prenderei un'iniziativa audace. Un'iniziativa che nelle<br />

spese di bilancio segnerei al passivo, ma che nel libro mastro<br />

delle soddisfazioni personali dovrei segnare all'attivo. All'attivissimo,<br />

anzi.<br />

L'iniziativa è questa: ridarei vita al «Cracas» registrandovi<br />

le cose dei nostri giorni, di questa seconda metà di secolo, per<br />

esempio, che ha veduto la luce da pochi mesi.<br />

Sarebbe un bello scrivere ed un bel leggere, ve l'assicuro. Mi<br />

toglierei delle soddisfazioni che altrimenti non mi è dato di togliere<br />

perché nessun giornale vuoI tramutarsi nella «Frusta» di barettiana<br />

memoria, mentre per i tempi che corriamo di fruste ne<br />

sarebbero necessarie molte, scritte e no.<br />

n mio «Cracas» - che come quello famoso sarebbe meglio<br />

-di una «selezione », poiché selezionerebbe non Cose d'altri, ma<br />

notizie di prima mano - registrerebbe cose che oggi poco si possono<br />

dire, che pochi amano sentir dire, ma che molti hanno voglia<br />

- ed una gran voglia - di dire; ed io con loro.<br />

Per esempio: questo fenomeno di cingere Roma d'una collana<br />

di brutture con la scusa di costruire case per il popolo, per i senza<br />

tetto, per i non abbienti, questa mania è cosa che non mi va giù.<br />

Si gridò all'onta delle Borgate, vera cintura di brutture che stringe<br />

d'assedio la città. Ma gli architetti che edificarono le prime borgate<br />

qualcosa di loro ci misero: pensarono a fare grattacieli, ma anche<br />

casette d'un certo movimento che poi mille vicende hanno imbruttito<br />

e rese simili a catapecchie. Ma oggi si costruisce la catapecchia<br />

subito, e senza perderci tempo, senza aspettare che il tempo, la<br />

incuria, gli uomini, le intemperie e le vicende la rendano tale.<br />

Si costruiscono casette striminzite come uova, con stanzette nelle<br />

-quali ci si può appena muovere. E fuori? Nessun abbellimento,<br />

192<br />

ricordare, non so perché, li Vaschi de la Bujosa, dell'indimenticato<br />

Nino Ilari), il Borghetto degli Angeli (un nome come il Pincetto),<br />

il Tufello (qualcosa che sa di grotta, di tufo, di umido, di oscuro),<br />

l'Acqua Bullicante (come dire acqua putrida), il Quarticciolo<br />

(Sing-Sing almeno ha il pregio di essere più divertente come<br />

denominazione) e via dicendo.<br />

Non solo, dunque, si perpetua un costume contro il quale si<br />

protesta (vedi le dichiarazioni di Salvatore Rebecchini prima della<br />

nomina a Sindaco), ma si persiste nell'errore peggiorandone la<br />

fisionomia. Persino nei nomi.<br />

Roma andava famosa per quella sua sana democrazia che era<br />

nata in una popolazione di 160.000 abitanti, ognuno dei quali<br />

sapeva vita e miracoli dell'altro; ma dove ognuno pensava ai casi<br />

suoi e s'infischiava delle beghe altrui. Quella sana democrazia in<br />

virtù della quale nello stesso stabile viveva ed operava il patrizio<br />

(al piano nobile) ed il manovale, magari al mezzanino o sotto al<br />

tetto. Ma s'incontravano per le scale e la moglie del manovale<br />

salutava la signora del patriziato con un « Bbon giorno sora contessa»<br />

e l'altra rispondeva con uguale deferenza «Ve saluto<br />

sora Rosa ».<br />

Ed erano case. Case - a dirla tra di noi - che non hanno<br />

nulla da invidiare alle caratteristiche e persino singolari linee architettoniche<br />

moderne che vediamo sbocciare ai Parioli a 50.000 lire<br />

al mese per tre camere e cucina. Architetture che uno ad essere<br />

padron di casa ci godeva. Dicendo «questa casa è mia» diceva<br />

di avere qualcosa di solido, di costruito, di finito, di eterno. Qualcosa<br />

di annonico anche, dove l'arte faceva capolino da una<br />

trabeazione, dall'annonia di disposizione di un piano di finestre,<br />

dalla sontuosità di un portone carrozzabile. Insomma l'idea di<br />

avere la casa era idea che dava ad intendere opulenza, sicurezza,<br />

sostanza.<br />

193


Ma oggi? Pare d'avere tra le mani qualcosa di caduco, di<br />

fragile, qualcosa di provvisorio. Un palazzo tirato su con i compassi<br />

e con la riga, calcolato a base di metri cubi e di radici<br />

quadrate con qualche consultazione di logaritmi. Ne escono fuori<br />

.quelle singolari e curiose catinelle che qui da noi si ostinano a<br />

chiamare balconcini. .<br />

Perché ogni qualvolta si va fuori di casa bisogna fare l'amore<br />

con quei graziosi chalets, o quelle casette inglesi, svizzere, alto<br />

atesine, olandesi, francesi che si distendono tra serti di giardini e<br />

di siepi lungo strade alberate, come fossero sbocciate fiori archi-<br />

tettonici, in un fiorito giardino? Perché dobbiamo piangere ancora<br />

oggi sull'enorme distanza - 20 chilometri vuoti - che intercorre<br />

tra Roma ed i Castelli? Perché quel vuoto enorme mentre tante<br />

case-giardino avrebbero potuto empire quello spazio e rendere<br />

una vallata, tra le più nobili, fervida di vita, di opere e di bellezza?<br />

Il curioso è come tutti condividano queste idee, ma nessuno<br />

le metta in pratica. Non è mica colpa nostra, per intenderci, o<br />

meglio, non è tutta, né sempre, colpa nostra. Ce la tirano.<br />

Guardate un poco se io debbo farmi il cattivo sangue per<br />

correre alle elezioni, accapigliarmi per una lista o per l'altra, per<br />

un candidato o per l'altro e poi quando ho eletto la mia brava<br />

gente, quando m'hanno tirato fuori un sindaco che mi piace (in<br />

fondo a me Rebecchini va a genio), e quando penso che tutto<br />

debba risolversi per il meglio, ecco che Sindaco, Giunta, Consiglio<br />

Comunale non possono fare altro che della normale amministrazione,<br />

perché se escono dai limiti, se si mettono in testa cose<br />

audaci, cose risolutive, interviene l'Autorità tutoria e boccia tutto.<br />

Ma il Municipio cosa ci sta a fare? Degli ospedali non se ne<br />

può occupare. Non è cosa di sua competenza. Ed a Roma c'è<br />

bisogno di nuovi ospedali, o almeno di svecchiare quelli che ci<br />

stanno. Vuole interessarsi della stazione? No: non c'entra. È il<br />

Ministero dei Trasporti che deve pensarci. Lui il Municipio, il<br />

Sindaco, non possono metterei bocca. Si limitano a creare i giardinetti<br />

davanti alla stazione (con quegli alberelli, con quei cipressetti,<br />

con quelle qualità variegate di fiorelluzzi, sai che bel vedere<br />

davanti alla maestosa facciata del Cenotafio centrale!).<br />

Dice: c'è l'E.U.R., potrebbe essere una ricchezza se valorizzata.<br />

No: con l'E.U.R. il Comune non c'entra. È l'Ente a pensarei.<br />

Magari non pensa a niente, ma tuttavia ci sta; corrono stipendi e<br />

corrono anche automobili.<br />

Allora, dice: facciamo le case per i senza tetto così leviamo<br />

gli sfollati dalle scuole. Finanziamento statale come al Municipio<br />

di Peretola. Risultato le borgate di cui si parlava poc'anzi.<br />

Allora, dice: facciamo la Legge speciale per Roma. Eccoci al<br />

punto: si comincia a scrivere: a Roma vogliono il Sindaco con il<br />

'pennacchio. A Roma si credono di essere chissà chi. A Roma<br />

vogliono vivere sulle spalle nostre, di noi che siamo lo Stato. E noi<br />

romani cosa siamo? Non siamo anche noi lo Stato? Noi che dob-<br />

biamo pensare a due Corpi diplomatici, mentre ogni altra Capitale<br />

che gode della sua Legge speciale, ne ha uno solo da curare?<br />

Beh, dice: sai cosa c'è? Ce la tirano tutti. Festeggiamoci il<br />

nostro 21 Aprile.<br />

Eh, no! 1121 Aprile è festa proibita. Festa nostalgica! Quasicché<br />

Roma fosse stata creata vent'anni fa, anziché duemilasettecento e<br />

quattro anni addietro!<br />

Ma noi lo celebriamo lo stesso questo 21 Aprile. Forse saremo<br />

pochi a capirne lo spirito; saremo pochini a godere del suo significato<br />

indistruttibile. Ma tant'è: lo celebriamo lo stesso. Noi e i<br />

senza fissa dimora, senza domicilio, senza patria e senza famiglia,<br />

_ gli zingari insomma o i tipi equivoci - che un'aquila assisa<br />

tra le carte dell'Istituto di Statistica vorrebbe regalarci come ultimo,<br />

grazioso dono o come omaggio per il nuovo anno che s'aggiunge<br />

ai secoli che Roma conta sulla sua chioma. Uno non ha né domi-<br />

cilio, né residenza? Non vuole nemmeno averla, o là dove sta<br />

non lo vogliono? Bene: diventerà cittadino romano.<br />

È semplice. Provvedimenti del genere si prendevano all'epoca<br />

del ratto delle Sabine.<br />

Questo, ma non in questo tono dolcissimo e soave, scriverei<br />

sul mio «Cracas ». Ma per fare l'editore ci vogliono i quattrini.<br />

Per farlo a Roma, poi, ce ne vogliono di più.<br />

GUGLIELMO CERONI<br />

194 195<br />

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MAMMA<br />

196<br />

PREPARA...<br />

90 fo finta de legge, e 'gni tantino,<br />

arzanno su la testa dar giornale,<br />

la guardo d'anniscosto. È tale e quale;<br />

sempre in faccenne accanto a quer camino.<br />

Mai un momento distratta! Mai ch'er sale<br />

sia troppo o amanchi, nun c'è caso! E infino<br />

che nun scodella sopra ar tavolino,<br />

pare che quasi ce se sente male.<br />

Nun vo' che aspetti, pora mamma, dice<br />

che me soffre lo stommico... Ce rido,<br />

ma nun posso risponne, nun me fido,<br />

le parole uscirebbero stroncate.<br />

E bevo brodo e lacrime mischiate,<br />

mentre nun so si soffro o so felice...<br />

ARMANDO MORICI<br />

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«SOMMARUGA, RUGA, RUGA... RUGA»<br />

La stagione letteraria che si nomina da « Bisanzio » o dall'intra~<br />

prendente e prepotente editore milanese significò principalmente<br />

un costume; e per esprimere quella commistione di cultura e di<br />

mercato, quella contaminazione d'arte e di réclame non vedute<br />

prima in Italia, si parlò fino da allora di «americanismo ». In<br />

America, Angelo Sommaruga finì veramente con l'andare, dopo<br />

avere nella terza Roma non solo spettacolosamente alzata, ma<br />

guastata malamente quella sua «gigantesca macchina di pubblicità»<br />

(1). Trascinato anch'egli in mezzo al tumulto, il Carducci<br />

più che maestro apparve il princ.eps della gioventù acclamante<br />

a lui. Le recenti, nuove esperienze d'amore, e la felicità della<br />

ispirazione poetica portarono una specie d'incantamento in colui<br />

che tra il lavoro e le battaglie aveva solo assaporato la «triste<br />

primavera ». Di questo stato d'animo si colorò anche la sua<br />

amicizia per il giovane editore, al quale serbò un'ostinata fedeltà:<br />

e i nomi che usava di «perfido Angelino », «birbante d'Angelino»<br />

erano solo l'affettuosa maschera della benevolenza. Tra un<br />

giocoso ripugnare e ingiuriare, egli espresse con sincerità la suggestione<br />

che di quel mondo sentì, aprendo l'albo della Serao, il<br />

23 ottobre 1882: «Matilde, che volete o come volete che io<br />

scriva alle mani di Angelo Sommaruga? Dopo che i vampiri della<br />

Minerva mi hanno succhiato il più forte sangue delle vene, viene<br />

questo boia meneghino e mi assorbe. lo tendo disperatamente<br />

le mani e i pensieri verso le memorie dell'arte, e le dolci figure<br />

(1) Un ampio volume di GIUSEPPE SQUARCIAPINO,Roma bizantina.<br />

Società e letteratura ai tempi di Angelo Sommaruga, presentazione di<br />

PIETRO PAOLOTROMPEO, Giulio Einaudi editore, 1950 (


di belle donne che adornano le pareti, mi sorridono e mi deri.<br />

dono...» (2). Questi giovanili fantasmi lampeggiarono principal.<br />

mente a Giosuè Carducci, dalle ornate pagine della Cronaca<br />

bizantina.<br />

Più avida di gustare tutti i pomi d'oro dell'albero.della vita, la<br />

«pleiade giovanetta» adunata intorno alla rivista e alle altre<br />

imprese editoriali del Sommaruga. In questi «bizantini », che<br />

amavano certo il nome più per il senso di raffinata bellezza decadente<br />

che per quello originario espresso dal giambico verso del<br />

Carducci, operò fortemente la spregiudicata libertà ideale e pratica<br />

innalzata come bandiera. Disceso dal nativo Abruzzo, Gabriele<br />

D'Annunzio era apparso segnato di grazia gentile e inesperta<br />

prima di trasformarsi nell'amatore di voluttà e di lusso, che<br />

rappresentano i suoi sonetti Ad sodales e quelli mandati a lui<br />

da Edoardo Scarfoglio nella poetica tenzone della primavera 1883.<br />

Ma anche l'avversario mutò, non ostante «il sangue contadino»<br />

e «i lupi della Majella» urlanti nel suo petto, da quei sonetti.<br />

Nel terzo della brigata di questi « bizantini » maggiori (3), Giulio<br />

Salvadori, l'opaca esperienza e il peccato prepareranno arcanamente<br />

la rivelazione di Dio.<br />

L'umore dei neoteroi era vario, con l'editore. Pur accettan-<br />

done le grazie, del resto non troppo sontuose e che si esprimevano<br />

talvolta con scatole di biscotti o canestre di fiori, o esigendone<br />

addirittura in fieri assalti il denaro sonante, ripugnavano alla sua<br />

maniera di mercante d'arte. «Quel bel muso d'ebete porco che<br />

alle volte sostituisce la firma », come il Salvadori in una lettera<br />

a Severi no Ferrari ne decifrò la persona reale sotto il figurato<br />

pseudonimo (4), portava inoltre il giornale al peggio. Narrava il<br />

Salvadori, in altra lettera del tempo nel quale ancora si ritrovava<br />

« in mezzo a questo mercato americano di gloria e di vitupèri »,<br />

di avere tentato con altri di ridurlo a una «castità sana e ragionevole<br />

», ma di riuscirvi male, perché «i bassi istinti che aveva<br />

(2) B. C.[ROCE],L'albo di Matilde Serao, nei Quaderni della «Critica<br />

», n. 11, luglio 1948, pp. 114-19.<br />

(3) Così qualifica i tre lo Squarciapino.<br />

(4) Firenze, senza data, ma del 12 settembre 1882.<br />

198<br />

11II<br />

nel sangue, personificati nel Sommaruga, ogni tanto tornano<br />

fuori ». E aggiungeva: «Tanto che per questa come per altre<br />

mille ragioni, io ci sono in lite ventinove giorni del mese su trenta:<br />

e non me ne separo per questo solo, che è un giornale dove posso<br />

scrivere tutto quello che voglio, come voglio, contro chi voglio» (5).<br />

Né era solo la naturale gentilezza di Giulio Salvadori a essere<br />

offesa: il D'Annunzio, che pur aveva fatto ardere coi suoi poemi<br />

erotici nella primavera dell'83 la famosa « polemica della verecondia<br />

», avrà l'anno dopo il primo grosso urto con l'editore « bizan-<br />

tino» per le crude nudità della copertina imposta furtivamente<br />

al Libro delle Vergini. Nel giugno 1884, l'ultimo e fatale allonta-<br />

namento dai puri ideali dell'arte per la politica di peggiore lega<br />

compiuto con le Forche caudine finì con il far maturare la rivolta<br />

dei neoteroi contro Angelo Sommaruga (6).<br />

Una lettera dello Scarfoglio al Carducci, dello luglio di<br />

quell'anno, fu la prima mossa di guerra. Con un piglio ardito,<br />

che scopre già i suoi spiriti liberi, egli ne chiedeva la collaborazione<br />

a una nuova rivista, che doveva essere « più seria assai della<br />

Bizantina e della Domenica Letteraria» e nasceva con il cortese<br />

proposito di « ammazzare quel mastodonte di carta stampata che<br />

chiamasi Giornale storico ». La chiusa portava una maligna punta<br />

che feriva in persona il maestro: « Il Carducci dunque ci dovrebbe<br />

aiutare: noi non possiamo pagar la sua prosa a peso d'oro, pos-<br />

siamo però pagarlo un pò meglio di quel che fa Sommaruga, che<br />

non lo paga neppure a peso di carta» (7). Non risulta la risposta<br />

del Carducci, ma egli continuò a mandare sCritti al «perfido<br />

Angelino ».<br />

(5) Allo zio Tito Nenci, senza data, ma circa maggio 1884. L'espressione<br />

sul «mercato americano », in altra lettera allo stesso, senza data,<br />

ma circa dicembre 1883.<br />

(6) Si veda Un manifesto contro le «Forche Caudine », da me illustrato<br />

in questa «Strenna» del 1949, pp. 230-38.<br />

(7) Questa e le altre lettere di Edoardo Scarfoglio riprodotte nell'articolo<br />

sono conservate nella Biblioteca e Casa Carducci di Bologna, e<br />

si pubblicano con il cortese consenso di quel sindaco e degli eredi Carducci.<br />

La nuova rassegna fu la Rivista critica della letteratura italiana, che<br />

si prese a pubblicare in Firenze dal luglio 1884.<br />

199


Quei giovani gli davano brighe sempre più grosse e gli facevano<br />

più nemici, come una volta lamentò arrabbiato, di quanti se<br />

n'era fatti egli « coi Giambi, con le Battaglie e con gli sgarbi e le<br />

villanie volute ». L'impertinenza arrivò a ferire una delle donne<br />

della sua poesia, con «un brutto affare» che venne fuori in<br />

quell'estate, dalle pagine ancora non pubblicate del Libro di<br />

Don Chisciotte. La donna, la romana dalle belle forme Adele<br />

Bergamini, aveva ispirato l'ode « Fuori della Certosa di Bologna »,<br />

era salita con lui «su Monte Mario»; e preziosamente egli ne<br />

aveva esaltato «l'aree capitolina de 'l collo fidiaco» e «la via<br />

sacra de le lunate spalle» (8). Per questa sua amorosa amicizia,<br />

il poeta intervenne alla difesa.<br />

Tra la donna che rimeggiava alla maniera della «scuola<br />

romana» e l'impetuoso scrittore «bizantino» non correva buon<br />

sangue. Il primo colpo dovette scendere dalla mano di lui, se il<br />

Carducci, nel settembre 1883, la consolava con queste parole:<br />

« Senza l'idea di riparare con un complimento a Voi, vi dico che<br />

dello Scarfoglio avete in gran parte ragione », e seguitava a scusa<br />

di lui: «è la vostra Roma che ha guastato lo Scarfoglio... I vostri<br />

giornalisti, i vostri politici, le vostre donne (orrendi e spregevoli<br />

pericoli), guastano tutto peggio d'un morbo pediculare. Del resto,<br />

lo Scarfoglio ha ingegno da vero, e lo rifarà. E se non lo rifarà,<br />

poco bene, poco male. Sono stufo dell'ingegno, della letteratura,<br />

della politica, della coltura. A quando l'ultima linea delle cose? ».<br />

Mal per lei, la donna non raccolse l'alto pensiero, e... rispose.<br />

Da Pescara, Gabriele D'Annunzio segnalava al conterraneo lo<br />

scritto, il 18 ottobre: «Vedi la Bergamini? Lessi non so quanti<br />

giorni fa, un articolo stupidissimo di lei in difesa della famosa<br />

(8) In «Ragioni metriche », che il Trompeo, nella presentazione al<br />

citato volume dello Squarciapino dice «la più preziosa, la più cesellata,<br />

la più gauteriana delle poesie del Carducci ».<br />

Su Adele Bergamini, si veda MICHELE SAPONARO,Carducci. Con<br />

24 ritratti e 2 lettere autografe, Garzanti (1946), pp. 292-93. Le lettere<br />

del Carducci a lei, delle quali diede un anticipo MANARAVALGIMIGLI,Da<br />

lettere inedite del Carducci, nel «Corriere della Sera », 26 agosto 1936,<br />

si sono incominciate a pubblicare nel voI. XII delle Lettere, ZanicheIli<br />

(1949).<br />

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