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Il Bartolone - Konsulgroup Italia

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<strong>Il</strong> <strong>Bartolone</strong><br />

(la voce di dentro)<br />

Casa di Reclusione Rebibbia<br />

Via Bartolo Longo, 72<br />

00156 Roma<br />

1


<strong>Il</strong> <strong>Bartolone</strong> (la voce di dentro)<br />

Casa di Reclusione Rebibbia<br />

Via Bartolo Longo, 72<br />

00156 Roma<br />

Referente: Dottoressa Anna Rita Fraiegari Tel. 06.415201<br />

A cura di<br />

Istituto John Von Neumann<br />

Via Pollenza, 115<br />

00156 Roma<br />

Tel. 06.4103639<br />

Referente: Professor Paolo Portone Tel. 320.0768004<br />

Redazione<br />

Professor Paolo Portone<br />

Professor Giovanni Iacomini<br />

Gianni Barosco<br />

Driss Ben Brahim<br />

Sergio Boeri<br />

Salvatore Bonaffini<br />

Gianluca Crepaldi<br />

Stefano Circi<br />

Domenico Di Ronza<br />

Luigi Germano<br />

Augusto Guerrieri<br />

Franco Mazzelli<br />

Giovanni Santoro<br />

2


<strong>Il</strong> <strong>Bartolone</strong><br />

A Roma, vicino le rive del fiume Aniene,<br />

sorge un magnifico complesso, dove le<br />

persone vivono felici, non devono pagare le<br />

tasse, non devono preoccuparsi delle bollette,<br />

possono anche non lavorare e trovare in ogni<br />

caso tre pasti il giorno, una stanza<br />

riscaldata e un comodo letto, l’acqua calda a<br />

tutte le ore , televisione e giochi di ogni<br />

genere.<br />

Poi c’è la scuola che ti pagano per<br />

frequentare, circoli culturali che promuovono iniziative d’ogni genere, il teatro per sentirsi<br />

un po’ artisti il campo di calcio, da tennis, la palestra per mantenersi in forma. Tutti<br />

vanno d’accordo con tutti, giovani e anziani, bianchi e neri, e anche gialli e marroncini,<br />

non c’è razzismo, nessuna xenofobia. Chi crede nel dio cattolico può pregare in Chiesa, chi<br />

è d’altra religione può incontrare il suo maestro di culto, e anche chi è ateo può esserlo<br />

senza destare le critiche di nessuno.<br />

E poi ci sono uomini e donne in divisa, che controllano che non succeda niente, che<br />

nessuno possa disturbarti che tu possa dormire tranquillo e perciò vengono la notte a<br />

vedere che tu stia bene, più volte, a tute le ore.<br />

Cosa aspetti? Vieni a trovarci subito!<br />

<strong>Il</strong> <strong>Bartolone</strong> quartiere di Rebibbia, chiuso 24 ore su 24.<br />

la redazione<br />

3


Errando discitur<br />

Sbagliando s’impara ! Quante volte è capitato di<br />

sentire quest’antica massima in occasione dei<br />

piccoli e grandi sbagli della vita, magari talvolta<br />

con l’aggiunta che perseverare nell’errore è<br />

diabolico? A casa, a scuola, in palestra e poi sul<br />

lavoro, in famiglia, di nuovo dai propri figli in<br />

una catena infinita che si allunga per tutto il<br />

corso dell’esistenza, il proverbio torna a<br />

riecheggiare, esortando a fare tesoro delle<br />

esperienze negative, a trarre appunto<br />

insegnamento da ciò che ha destato la<br />

riprovazione degli altri e della propria coscienza.<br />

Forse il nocciolo sapienziale della massima latina<br />

sta nel suggerire di trarre il meglio da ogni<br />

aspetto dell’esistenza, facendo tesoro anche, e<br />

soprattutto, di quelle esperienze che altrimenti si<br />

vorrebbe per sempre cancellare dalla memoria.<br />

Secondo un antico proverbio russo per ricordarsi<br />

di una parola bisogna averla scordata almeno<br />

sette volte. Certo è difficile immaginare di avere<br />

nella vita altrettante opportunità per imparare<br />

dai propri errori: ripetere sette volte il medesimo<br />

sbaglio potrebbe essere per un verso diabolico, se<br />

non autolesionistico, d’altro canto rivelare una<br />

drammatica inattitudine nel fare tesoro delle<br />

proprie esperienze.<br />

Eppure, volendo anche ammettere tal<br />

eventualità, l’esperienza quotidiana insegna che<br />

non è cosi frequenti ripartire da dove si è fallito.<br />

Spesso è più facile e soprattutto meno dispendioso<br />

voltare pagina. Forse sarà anche per questo che il<br />

verbo ripetere rimanda, nel linguaggio usuale, ad<br />

un’azione noiosa, che richiede un esercizio<br />

passivo dell’intelletto, spesso collegata a rituali<br />

alienanti come il ripetere una lezione, un<br />

movimento, un anno scolastico o un esame<br />

universitario. Si è portati a rifiutare, quasi<br />

istintivamente, l’idea di ritornare sui propri passi,<br />

sia si tratti di correggere un comportamento o di<br />

ripensare un giudizio errato, sia nel caso di un<br />

semplice ripasso di nozioni che si pensa già di<br />

possedere. La varietà e la novità indubbiamente<br />

esercitano un fascino maggiore; hanno il potere di<br />

far sentire gli individui sempre diversi, come i<br />

frammenti di vetro colorati che si ricompongono<br />

in mutevoli disegni all’interno di un<br />

caleidoscopio. Ma ciò avviene per l’appunto<br />

senza alcuno sforzo, per inerzia.<br />

Al contrario quando siamo chiamati ad esercitare<br />

attivamente la nostra mente, come ad esempio<br />

nello studio, ci si accorge che ad ogni nozione<br />

acquisita corrisponde uno sforzo autonomo<br />

d’appropriazione e di rielaborazione. E’<br />

l’intelletto individuale a ricomporre le tessere del<br />

mosaico, e lo fa mediante un’operazione che costa<br />

fatica: l’apprendimento. Coessenziale in questo<br />

processo di rielaborazione è proprio il<br />

consolidamento delle nozioni mediante la<br />

ripetizione costante; operazione niente affatto<br />

involontaria che richiede, al contrario, la massima<br />

concentrazione e presenza da parte del discente.<br />

Repetita juvant, non è massima da applicarsi solo<br />

in determinate circostanze, magari quando si<br />

vuole un concetto che altri non vogliono<br />

intendere. Essa può essere recepita sia come un<br />

invito esplicito a mantenere la mente in costante<br />

allenamento, sia come un’esortazione a<br />

consolidare le sue basi intellettuali.<br />

Apprendere dai propri errori, in questo senso<br />

ripeterli, come recita il proverbio russo, è dunque<br />

un esercizio prezioso nella scuola come nella vita;<br />

una pratica permanente utile per affinare<br />

l’intellettuale e al contempo essenziale per<br />

trovare il proprio baricentro, necessaria per<br />

crescere nella consapevolezza dei propri limiti e<br />

delle proprie potenzialità. Indispensabile, infine,<br />

per realizzare la propria natura profonda, quella<br />

che i greci chiamavano Δαίμον (daimon), e che<br />

oggi s’indica con il termine talento. Nella<br />

prospettiva della vita, si è sempre nella<br />

condizione di esperire e dunque di sbagliare, ma è<br />

grazie all’intelletto e alla sua capacità di<br />

tesaurizzare gli eventi negativi(di rammentare<br />

l’errore e la sua correzione) che si ha la<br />

grand’opportunità di crescere, di maturare e di<br />

progredire sapendo di non sapere, realizzando,<br />

lungo la strada della conoscenza, forse la più<br />

stabile delle felicità: quella che permette all’uomo<br />

consapevole di trasformare il fango in un fiore di<br />

loto.<br />

<strong>Il</strong> Portone<br />

4


Un calcio ai pregiudizi:<br />

la squadra degli internati romani<br />

continua<br />

la sua marcia verso la qualificazione al<br />

palio di Roma<br />

Anche quest’anno, la squadra<br />

dei detenuti, formata da Lello,<br />

Salvatore, Gennaro, Giovanni,<br />

Francesco, Salvatore, Corrado ,<br />

Chohri, Saverio, Andy,<br />

Emanuele e allenata da<br />

Vincenzo, sta guadagnando , a<br />

suon di vittorie, la qualificazione<br />

alla seconda fase della quarta<br />

edizione del Palio di Roma .<br />

Salvatore<br />

Qualcuno ricorda i simpatici giocatori di<br />

football americano di “Quella sporca<br />

ultima meta”?<br />

Si trattava di ragazzoni detenuti, in un<br />

carcere duro, chiamati a disputare la partita<br />

della vita contro la squadra dei loro<br />

custodi.<br />

A Roma, ormai da qualche anno, una<br />

squadra di calcio a cinque, formata dai<br />

detenuti della casa di reclusione Rebibbia,<br />

partecipa ad un torneo vero e proprio “il<br />

palio di Roma” organizzato dalla UISP con<br />

il patrocinio della provincia e del comune<br />

di Roma, non per giocare la partita della<br />

vita, ma per dimostrare che persone di<br />

diverso talento ed estrazione possono dar<br />

vita ad un gruppo unito capace di<br />

esprimere un buon livello tecnico.<br />

La squadra del penale è a punteggio pieno<br />

ed aspetta di giocarsi lo spareggio per il<br />

primo posto nello scontro diretto con<br />

l’altra capolista “Associazione vita e<br />

salute”.<br />

L’avventura continua per la gioia dei<br />

giocatori e dei loro sempre più numerosi<br />

sostenitori.<br />

Un caloroso ringraziamento a tutto lo staff della UISP Roma, in particolare al presidentissimo<br />

Andrea Novelli, all’incaricato presso questo Istituto Andrea Ciogli, all’onnipresente Orlando e a<br />

Marco che segue gli allenamenti della squadra di calcio.<br />

5


Detenuto<br />

in terra<br />

“straniera”<br />

Tra i motivi che<br />

inducono un ragazzo<br />

extracomunitario a<br />

venire nel nostro paese,<br />

oltre alla volontà di<br />

sfuggire dalla miseria,<br />

dalla guerra e spesso<br />

dalla persecuzione<br />

politica, c’è sicuramente<br />

la mala informazione<br />

che questo apprende dai<br />

media, in particolare<br />

dalla televisione.<br />

Nell’epoca dei grandi<br />

cambiamenti dovuti alla<br />

tecnologia, dei media e<br />

della società localizzata,<br />

lo stimolo ad abbandonare<br />

la propria terra d’origine è<br />

riconducibile al<br />

martellamento che le<br />

coscienze dei giovani<br />

africani, asiatici e<br />

sudamericani subiscono<br />

dalle emittenti televisive,<br />

che hanno esercitato e<br />

continuano a svolgere un<br />

ruolo devastante con la<br />

pervasività dei programmi<br />

trasmessi, che diffondono<br />

di un’idea distorta e molto<br />

lontana dalla realtà del<br />

modello di vita<br />

occidentale.<br />

Basti pensare a questo<br />

proposito al ruolo svolto<br />

dalla Rai e dalle emittenti<br />

private italiane nel<br />

diffondere nel bacino del<br />

Mediterraneo la falsa<br />

immagine di un paese<br />

dove si mangia<br />

lautamente, ci si veste in<br />

modo raffinato, ci si<br />

muove con auto<br />

costosissime e in cui<br />

invece di guadagnare da<br />

vivere con il lavoro basta<br />

presentarsi ad un<br />

videoquiz per diventare<br />

milionario.<br />

Inevitabilmente, una volta<br />

in <strong>Italia</strong>, alcuni con<br />

permesso di soggiorno,<br />

altri come clandestini, la<br />

realtà si rivela ben diversa<br />

da quelli immaginata e da<br />

qui per uno straniero in<br />

terra straniera<br />

incominciano i veri<br />

problemi: come<br />

sopravvivere e cercare di<br />

dare una svolta alla<br />

propria esistenza evitando<br />

a tutti i costi il fallimento<br />

di un ritorno forzato nel<br />

paese natio.<br />

Dal momento in cui si è<br />

entrati in “paradiso”, per<br />

chi proviene dal Sud del<br />

pianeta, iniziano i veri<br />

problemi: chi è più<br />

fortunato riesce a fare<br />

conoscenze giuste che lo<br />

indirizzeranno verso un<br />

lavoro, ma per molti altri,<br />

com’è facile immaginare,<br />

si tratterà di percorrere<br />

una lunga trafila, di cui,<br />

con gran difficoltà, si<br />

riesce a intravedere la<br />

fine, ragione per la quale<br />

taluni per debolezza, altri<br />

per ignoranza o per<br />

semplice necessità sono<br />

spinti a delinquere,<br />

scegliendo la via breve,<br />

quella che conduce alla<br />

criminalità in parte<br />

organizzata, che aspetta a<br />

braccia aperte i nuovi<br />

immigrati per reclutare<br />

manodopera.<br />

<strong>Il</strong> passo successivo, anche<br />

questa volta, è di facile<br />

intuizione: com’è<br />

inevitabile per chi<br />

infrange la legge, alla fine<br />

ci si trova a confrontarsi<br />

con lei e non sempre la<br />

prigione rappresenta per i<br />

ragazzi stranieri una<br />

salvezza dalla strada.<br />

Molti di loro, infatti, nel<br />

proprio paese hanno<br />

lasciato le famiglie<br />

andando via in cerca di<br />

lavoro. Una volta dentro,<br />

gli stranieri, oltre al<br />

trovarsi privi della libertà,<br />

si trovano emarginati da<br />

una struttura che in linea<br />

di massima non li accetta.<br />

Circondati talvolta dal<br />

pregiudizio dei propri<br />

stessi compagni di cella,<br />

così come dalla diffidenza<br />

del personale addetto alla<br />

loro custodia, i detenuti<br />

extracomunitari molto<br />

spesso nel duro e<br />

gerarchicamente ordinato<br />

universo carcerario<br />

finiscono con il divenire<br />

una sorta di gruppo a sé<br />

stante, impossibilitato a<br />

comunicare con il mondo<br />

esterno per la mancanza di<br />

6


strumenti culturali<br />

adeguati, a cominciare<br />

dalla non padronanza<br />

della lingua italiana, e<br />

quel che è peggio<br />

incapace di utilizzare a<br />

pieno dei diritti che pure<br />

l’ordinamento giuridico, il<br />

codice che regola gli<br />

istituti di pena e<br />

soprattutto la<br />

Costituzione<br />

garantiscono ai cittadini,<br />

pur privati della loro<br />

libertà. La durezza della<br />

vita in cattività rischia in<br />

tal modo di essere<br />

aggravata, stavolta senza<br />

alcuna ragione d’ordine<br />

giuridico e tanto meno<br />

morale, dal diverso<br />

colore della pelle, da<br />

tradizioni culturali e<br />

religiose differenti<br />

Un momento di riflessione<br />

NOI, CONTRARI<br />

L’esperienza<br />

ALLA<br />

carceraria<br />

PENA DI<br />

e<br />

MORTE,<br />

il bisogno di Dio<br />

rispetto alla<br />

maggioranza della<br />

popolazione detenuta.<br />

Appare necessario, di fronte ad un tema tanto delicato, non formulare giudizi, ma<br />

cercare di capire.<br />

A parole, scritte o verbali esse siano, siamo tutti propensi ad accettare il nostro<br />

prossimo, convinti, con i dovuti distinguo, che l’integrazione del prossimo sia<br />

necessario.<br />

Un momento di riflessione impone invece immedesimarsi nelle persone che<br />

frettolosamente giudichiamo, nel trasporre noi stessi in una realtà straniera, senza<br />

disponibilità economiche, con la logica difficoltà di espressione di una lingua diversa,<br />

con i morsi allo stomaco per la fame nostra e dei nostri figli.<br />

In questa condizione, senza pietismo ma con forte senso di responsabilità, anche critico,<br />

forse potremo capire meglio.<br />

Non è certo un augurio di trovarsi in tali condizioni, ma appunto solo un momento di<br />

riflessione.<br />

ULTIMA ORA<br />

GIUSTIZIATO<br />

SADDAM HUSSEIN<br />

CON IMPICCAGIONE.<br />

NON VOGLIAMO COMMENTARE.<br />

Driss<br />

7


Da sempre, è insito in qualsiasi comunità il bisogno<br />

di rapportarsi con il divino, in ogni sua forma e<br />

manifestazione. La ricerca di una spiegazione sulla<br />

nostra origine, sulla nostra vicenda terrena e su<br />

quanto ci aspetta nell’aldilà, fa parte di quelle<br />

domande che ogni essere umano si è posto fin dalla<br />

prima comparsa della nostra specie. Un bisogno<br />

che diventa ancor più pressante in alcune<br />

circostanze della nostra esistenza, come ad<br />

esempio, in occasione della scomparsa di un nostro<br />

caro o di un grave problema che sradica all’improvviso le nostre certezze.<br />

Nella popolazione carceraria<br />

,forse , si ha un maggior bisogno<br />

di accostarsi al divino rispetto a<br />

chi sta fuori, ma il motivo per<br />

cui si chiede ascolto al proprio<br />

Dio non sfugge generalmente da<br />

una concezione economica della<br />

religione, molto spesso si è<br />

portati a chiedere qualche<br />

vantaggio in cambio di<br />

un’offerta o di una preghiera,<br />

abbassando la spiritualità alle<br />

nostre più materiali esigenze.<br />

Tuttavia la ragione profonda che spinge a<br />

cercare “quel contatto” non può essere<br />

trascurata, poiché mantiene intatta la sua<br />

ragione di fondo. Per questo motivo è<br />

assolutamente necessario che al detenuto sia<br />

offerta dall’amministrazione carceraria e dal<br />

personale laico e religioso che ruota attorno<br />

al carcere la creazione di corsi qualificati per<br />

un’istruzione religiosa, meglio ancora,<br />

interreligiosa. <strong>Il</strong> problema è che spesso, tra<br />

le sbarre, si arriva a pregare senza avere una<br />

conoscenza dell’oggetto delle nostre<br />

preghiere. Questa potrebbe essere la chiave<br />

di volta per un’effettiva formazione religiosa<br />

e per una crescita reale della propria<br />

spiritualità.<br />

La religione, quindi, dovrebbe rappresentare<br />

l’apertura della mente di tutti i detenuti, che<br />

per origini, censo, ed estrazione culturale<br />

non sono stati in grado di poter pervenire ad<br />

una formazione religiosa. L’apporto dei<br />

seguaci di qualsiasi fede, dovrebbe aiutare a<br />

far maturare e crescere questo bisogno di<br />

divino. Una spesa mirata in questo senso<br />

potrà altresì contribuire un domani al<br />

reinserimento sociale del detenuto e a un<br />

suo più consapevole essere al mondo.<br />

Giovanni<br />

8


A Rebibbia “La notte bianca”<br />

Ormai è un successo consolidato, voluta<br />

e spronata da Veltroni, Sindaco di<br />

Roma poliedrico dalle mille risorse e<br />

dalle cento idee la notte bianca fa ormai<br />

parte integrante dell’estate romana.<br />

Anche noi qui nel nostro piccolo, abbiamo<br />

aspettato la notte magica, sia pure in forma<br />

ridotta senza le luci accattivanti, con uno<br />

spettacolo di canzoni e poesie raccontate<br />

dai protagonisti.<br />

Indubbia la capacità di recitare da parte di<br />

“ attori”, d’uomini ristretti che, “ nell’altra<br />

vita sono stati protagonisti di tutt’altre<br />

attività.<br />

Truffatori, ladri, rapinatori, omicidi, tutti uniti qui, nel voler dire al mondo: viviamo anche<br />

noi.<br />

Nelle prove che hanno preceduto lo<br />

spettacolo, encomiabile il senso del dovere d’ogni “attore”.<br />

Mani trepidanti, voci alla meno peggio che risucchiavano i suggerimenti per l’impostazione<br />

della voce, ripassi sottovoce con paura di sbagliare, il tutto impegnato da una meritevole<br />

ansia per la bontà del debutto.<br />

La sera dello spettacolo i “ reietti” si sono superati, hanno vinto, hanno recitato, cantato,<br />

declamato versi; per una notte, non più in seconda fila, ma l’onore e la gioia di un onere<br />

voluto così semplicemente, per dire al mondo, aiutateci ad essere migliore.<br />

Forse anche un semplice spettacolo teatrale può essere fonte di profonde riflessioni interiori,<br />

complici, la notte, la luna, le stelle e un’atmosfera magica.<br />

Questa sera, forse, siamo tutti buoni.<br />

Tutti; buoni e cattivi.<br />

Luigi<br />

In Istituto abbiamo la Compagnia Teatrale più vecchia di tutto il circuito carcerario.<br />

Si chiama “Stabile Assai” ed è diretta attualmente da Marco Valeri.<br />

L’Educatore di riferimento è Antonio Turco, al quale va un sentito ringraziamento per<br />

l’impegno costantemente profuso nel rendere l’esperienza teatrale un motivo di<br />

confronto, una base culturale multietnica che supera ogni barriera di razzismo e aiuta<br />

a comprendere meglio come la diversità sia veramente un motivo di crescita e non di<br />

divisione.<br />

La Compagnia “Stabile Assai” sarà protagonista al Teatro Parioli il 6 gennaio 2007.<br />

9


Mezzo secolo<br />

Tra un quarto di secolo mi vedo in una casa bellissima, non enorme ma terribilmente mia, con mio marito<br />

senza capelli, ma anche senza pancia, che torna a casa alle otto dopo aver passato la giornata a caricare e<br />

scaricare camion, i suoi camion, e va in giardino, tra la sua uva e le sue dive.<br />

Vedo 3 splendidi ragazzi intorno ai 20 anni, qualcuno farà grandi cose, altri spero solo siano felici e sani,<br />

vedo cani da farne un canile, gatti vagabondi che girano indifferenti e ogni altro tipo d’animale che non<br />

sarà mai ucciso per essere mangiato, starà solo bene, bene e basta.<br />

Poi vedo io stessa, una donnona tante tette e tanto culo,<br />

capace ancora di far girar la testa, che si sente bella grazie ai<br />

suoi capelli lunghi, ai suoi occhi, sinceri e ai suoi gioielli super<br />

costosi, eredità di una nonna tanto strana quanto speciale, mi<br />

vedo camminare a testa alta perché sicura e fiera di ciò che<br />

sono diventata col tempo, risultato di un progetto iniziato<br />

tanti anni prima.<br />

Mi vedo arrivata, non al top, perché a qualcosa si deve pur<br />

rinunciare, ma pur sempre titolare di una felice carriera,<br />

coronata da veri successi senza mai essersi dovuta sporcare le<br />

mani.<br />

Vedo la nonna dei miei figli, indispensabile come sempre e finalmente serena, vedo il loro nonno,<br />

instancabile e inarrestabile, che ha sempre un’idea nuova per la testa, anche se non te se parlerà mai fino in<br />

fondo, i suoi occhi saranno ancora misteriosi e la sue parole “ marziane”, come anni addietro del resto.<br />

Vedo un fratello, mio cardine, ancora da capire e analizzare, finalmente felice nella sua ricchezza<br />

sfacciata, sereno nei suoi vestiti firmati, nelle sue borse e penne d’èlite, alla ricerca della dama giusta,<br />

mentre si diletta tra una e l’altra per capire.<br />

Vorrei vedere una bellissima ragazza di 28 anni, alle prime armi con il lavoro ma di grandi promesse,<br />

iniziata dal padre alle grandi cose.<br />

Questo è più o meno il mio sogno, e voglio continuare a credere che anche per noi pensare positivo non sia<br />

impossibile.<br />

Ricordiamoci tra una venticinquina d’anni di confrontare le ipotesi e godere del risultato.<br />

I sogni a volte diventano realtà.<br />

lettera da una figlia<br />

E’ comunque vero che noi per primi siamo gli artefici del nostro destino, fermarsi e<br />

pensare ai nostri progetti aiuta indubbiamente a trovare la strada giusta.<br />

<strong>Il</strong> segreto sta nel non abbattersi mai, nell’interpretare ogni giorno con giusta energia e<br />

consapevolezza.<br />

A volte anche un pizzico di follia aiuta a raggiungere obiettivi importanti.<br />

10


Caro Cuore Matto,<br />

Cuori matti<br />

sono un ragazzo di trentatré anni, fuori di qui facevo l’operaio, poi per una<br />

serie d’eventi sfortunati mi sono ritrovato in carcere.<br />

Ora che mi trovo carcerato, sento di più la mancanza di una persona che mi<br />

voglia bene e a cui io possa darne.<br />

Si dà il caso però, che abbia un po’ le idee confuse in proposito. Mi guardo intorno e non capisco ancora a<br />

chi devo dare il mio affetto.<br />

Sono, lo ammetto, indeciso se innamorarmi di un ragazzo o di una ragazza. <strong>Il</strong> mio sentimento confuso mi<br />

crea qualche imbarazzo e non ti nascondo, anche un po’ di sofferenza. Mi guardo intorno e le persone con<br />

cui vivo non sempre capiscono la mia situazione. Come devo comportarmi?<br />

Caro amico,<br />

ti ringrazio per la bella e schietta lettera<br />

Lettera firmata<br />

che mi hai scritto: Oggi, grazie al cielo, l’omosessualità non<br />

è più né un reato né da molti più considerata un peccato.<br />

Certo, alcuni pregiudizi sono duri a morire, anche nella nostra “libera” società. A Napoli c’è<br />

un proverbio molto colorito ma che rende chiaro ciò che io penso a riguardo del tuo dubbio<br />

amoroso: “Ogni buco è pertuso”. Voglio affermare che in amore ciò che più conta è la<br />

reciprocità e il rispetto. Quando due persone si amano non importa qual è il colore della<br />

pelle, la fede religiosa, il conto in banca oppure il sesso. Quando il cuore batte forte quel che<br />

conta ,caro amico, è l’emozione che noi proviamo in quel istante, in quel momento di pazzia,<br />

che per un attimo ci fa sentire in compagnia degli angeli, che , com’ è noto…non hanno<br />

sesso.<br />

Cuore Matto<br />

11


La scuola: un bene<br />

prezioso<br />

La scuola in carcere<br />

costituisce un’opportunità<br />

per ampliare gli orizzonti<br />

culturali del detenuto; essa<br />

non solo permette a chi è<br />

privo della libertà di<br />

evadere<br />

momentaneamente dalla<br />

propria condizione, ma<br />

consente altresì di<br />

riesumare nozioni<br />

acquisite in passato ed allo<br />

stesso tempo di<br />

consolidarle nella<br />

memoria.<br />

Confrontandolo con<br />

l’esterno, di certo,<br />

l’ambiente didattico è più<br />

flessibile, ed anche i<br />

professori sono più<br />

indulgenti verso gli<br />

studenti molto diversi per<br />

età e pensieri da quelli che<br />

normalmente frequentano<br />

la scuola esterna.<br />

Non si creda tuttavia che<br />

il mestiere di “studente”<br />

sia facile per chi sta<br />

dentro; infatti, oltre alle<br />

difficoltà dovute<br />

all’ambiente, ciò contro di<br />

cui si deve combattere<br />

quotidianamente è la<br />

propria disistima. In<br />

effetti, la scuola ha tra i<br />

suoi pregi quello di<br />

lavorare in senso<br />

costruttivo nel<br />

consolidamento<br />

dell’opinione di sé del<br />

detenuto.<br />

Ciò nonostante, sempre<br />

più numerosi sono i<br />

detenuti che frequentano<br />

la scuola d’ogni ordine e<br />

grado fino all’università:<br />

alcuni svolgono mansioni<br />

lavorative nelle prime ore<br />

del mattino attendendo<br />

con impazienza, degna di<br />

uno scolaro al suo primo<br />

giorno, l’apertura della<br />

scuola. Tale entusiasmo<br />

rischia però di essere<br />

spento talora da<br />

lungaggini ed impacci<br />

burocratici di varia natura.<br />

<strong>Il</strong> “privilegio” di poter<br />

impiegare il proprio<br />

tempo nello studio<br />

andrebbe perciò facilitato<br />

ed ulteriormente ampliato,<br />

permettendo ai detenuti<br />

scolarizzati un più facile<br />

accesso all’attività<br />

didattica e, nello stesso<br />

tempo, avvicinerebbe alla<br />

scuola quanti non sono<br />

ancora inseriti attraverso<br />

iniziative d’ampio respiro<br />

che possono stimolare<br />

l’interesse per<br />

l’apprendimento<br />

(cineforum, ecc.).<br />

In questo modo molti<br />

saranno quelli che<br />

potranno innamorarsi<br />

dello studio, poiché è solo<br />

con il<br />

libero accesso e con<br />

l’armonizzazione tra lo<br />

studio e il lavoro che la<br />

scuola nel carcere potrà<br />

crescere e radicarsi. Nella<br />

direzione , ad esempio,<br />

dell’ottimizzazione degli<br />

orari, basterebbe stabilire<br />

un criterio più razionale<br />

nella definizione<br />

dell’orario di apertura del<br />

magazzino, e non affidarsi<br />

al caso (come sovente<br />

avviene) e dunque alla<br />

discrezione dell’agente<br />

che lo gestisce.<br />

Far collimare scuola e<br />

lavoro è un dovere<br />

dell’istituto e prima<br />

ancora delle istituzioni<br />

che hanno il compito di<br />

sostenere e consolidare il<br />

recupero dei cittadini , che<br />

in futuro torneranno a far<br />

parte a pieno titolo della<br />

società. Preservare la<br />

nostra scuola significa non<br />

chiuderla al resto della<br />

comunità, ma ampliare i<br />

suoi spazi e la sua offerta<br />

formativa nel corso<br />

dell’anno.<br />

Stefano<br />

In Istituto, oltre alla scuola elementare di alfabetizzazione, è possibile conseguire il<br />

diploma di scuola media e successivamente iscriversi ai cori di Operatore Turistico,<br />

triennale, con lezioni che si svolgono la mattina e Ragioneria, quinquennale, con<br />

frequenza il pomeriggio.<br />

12


L’INDULTO: una riflessione<br />

dall’interno<br />

Nel pianeta carcerario, l’indulto è un<br />

evento talmente eccezionale da<br />

provocare una gioia così immensa che<br />

risulta difficile da descrivere a coloro<br />

che vivono fuori, nel mondo libero.<br />

Anche stavolta, come in passato, il<br />

provvedimento è stato adottato per<br />

sopperire a problematiche di carattere<br />

emergenziale, come ad esempio, il<br />

sovraffollamento degli istituti di pena. Ma<br />

questo è solo uno, e forse è quello più<br />

evidenziato dai media, dei molteplici<br />

aspetti che si celano dietro le enormi<br />

carenze delle strutture penitenziarie. Uno<br />

sconto di pena, in questa cornice di<br />

giustizia lenta e spesso dura con i deboli e<br />

debole con i forti, significa , per persone<br />

comuni, private della loro libertà, un<br />

qualcosa di cui è difficile dare conto.<br />

Giusto per fare un esempio, quando l’<strong>Italia</strong><br />

ha vinto l’ultimo mondiale, nella casa di<br />

reclusione di Rebibbia, è esploso un boato<br />

durato diversi minuti, ma che in paragone a<br />

quello che si è sentito dopo il voto finale,<br />

che ha dichiarato legge l’indulto, è<br />

sembrato come il banale sbattere di un<br />

cancello.<br />

Dall’entrata in vigore dell’indulto ad oggi,<br />

i media, citando i fatti più cruenti, relativi a<br />

detenuti tornati appena usciti a delinquere,<br />

si sono scagliati contro questo<br />

provvedimento, dimenticando le ragioni<br />

politiche e umanitarie che hanno portato il<br />

Parlamento, a maggioranza, a vararlo.<br />

Questo è detto, non per giustificare chi di<br />

nuovo è tornato a infrangere la legge, ma<br />

per sollevare un legittimo interrogativo<br />

sulla natura della pena che ogni persona<br />

riconosciuta colpevole deve secondo la<br />

legge espiare. Si tratta di riprendere il filo<br />

di quel discorso che iniziò nel XVIII<br />

secolo con la pubblicazione de “Dei delitti<br />

e delle pene” e che ha portato il nostro<br />

Paese all’avanguardia in campo giuridico<br />

in tutto il pianeta. L’<strong>Italia</strong>, non<br />

dimentichiamolo, vide un suo Stato, <strong>Il</strong><br />

Granducato di Toscana, abolire dal proprio<br />

ordinamento la pena di morte il 30<br />

novembre del 1786. Per Beccaria era<br />

importante che il detenuto fosse messo<br />

nelle condizioni di poter risarcire, al<br />

meglio, la società tutta, per il danno a lei<br />

arrecato. <strong>Il</strong> punto è ancora oggi di<br />

grand’attualità, se si pensa che le carceri<br />

assorbono dall’erario<br />

milioni d’euro ( stipendi<br />

dei dipendenti, amministrazione, vitto,<br />

scuole, assistenza medica, ecc) con<br />

l’obiettivo, sulla carta, di recuperare il<br />

detenuto guidandolo al suo reinserimento.<br />

Si tratta perciò di spendere meglio i soldi<br />

dello Stato, di rendere la giustizia più<br />

celere, di consentire per i reati minori, il<br />

risarcimento “attraverso pene alternative<br />

alla carcerazione” (lavori socialmente utili,<br />

come già avviene in altri paesi europei).<br />

Solo così, si potrà realisticamente pensare<br />

di combattere quel tasso di recidiva che nel<br />

nostro Paese è superiore al 90 %.<br />

Gianluca<br />

13


E adesso cosa resta?<br />

dalla collana” racconti brevi dal carcere” di Doc Soviet<br />

E’ tanto piccola questa cella, almeno quanto era grande la casa dove sono<br />

nato e cresciuto.<br />

In verità questa nauseabonda sensazione di chiuso l’avevo già provata, in<br />

collegio e al servizio militare, ma almeno lì non c’erano le sbarre. <strong>Il</strong> lungo<br />

corridoio senza un quadro appeso, con il davanzale delle finestre come<br />

contenitore percicche di sigarette, le pedate delle scarpe di chi si ferma ore ad<br />

aspettare che il buio oscuri la luce del giorno, mi fanno perdere ogni collegamento con la mia<br />

identità fino ad impedire di riconoscermi, se non confondendomi nel gruppo degli utenti presenti al<br />

momento.<br />

In tutti i casi, il liet motiv è quando finirà, in collegio la scuola, in caserma la naia, in carcere la<br />

condanna.<br />

La data è certa, ma la speranza che un qualche shocks esterno possa modificare la realtà, tanto<br />

forte da alimentare una speranza giornaliera.<br />

A volte accade, nel post sessantotto si continuava ad occupare le scuole e per motivi di sicurezza<br />

si anticipavano le vacanze, sotto il militare c’era sempre la possibilità di una licenza, in carcere le<br />

speranze si moltiplicano, indulto amnistia grazia affidamento semilibertà permesso premio<br />

forniscono una buona ragione per arrivare fino a sera e andare a dormire per ricominciare domani,<br />

ancora da zero, a sperare.<br />

Tre foto, una in bianco e nero, l’altra vecchia, una recente, raffigurano quei momenti della mia vita,<br />

uguali se pure distinti, pieni di riflessione, colmati da una profonda ricerca dell’io, gonfi di un amore<br />

che solo la lontananza sa acuire fino all’estremo.<br />

Le ho incorniciate insieme quelle tre foto, incollate con il vinavil su un cartoncino bristol formato A4<br />

color avorio, appeso alla parete della cella, vicino al letto, la sublimazione di quanto Goethe<br />

esprimeva nelle affinità elettive, o forse solo i dolori di un non più giovane Werther.<br />

Non può essere un caso.<br />

Io sono in pratica lo stesso, dall’adolescenza ad oggi solo qualche ruga in più distingue<br />

l’espressione, ma ho mantenuto lo stesso peso, i capelli lunghi ormai biondo cenere, gli occhi<br />

cerulei, un giovane vecchio diventato un vecchio giovane.<br />

È il 22 novembre 2006, il giorno che compio cinquantanni.<br />

Ero rimasto orfano a dodici anni e così mia madre decise che era meglio se<br />

avessi frequentato il liceo vivendo in un convitto, a Perugia, per orfani di medici.<br />

Si trattava di una struttura appena realizzata, con tennis, palestra, piscina e campi<br />

da calcio, divisa in sezioni secondo l’età, dalle elementari ai maturandi.<br />

Arrivai in collegio la prima volta nell’ottobre del 1970, dopo una lunga estate<br />

passata con Biba, mia madre, e Fe, mia sorella, in quell’attico con un gran<br />

terrazzo sul mare che solo pochi mesi prima di morire pa aveva regalato a ma.<br />

Era la prima volta che mi allontanavo dalla famiglia, non ero più il mammone un<br />

po’ edipico degli anni passati, ma soffrivo la nostalgia di casa, degli amici, dei<br />

parenti, non avevo all’epoca alcun’indipendenza, ero fragile.<br />

Ci scappò qualche pianto e tanta disperazione in quel primo anno e, soprattutto, la totale<br />

mancanza d’integrazione nell’ambiente, fatto questo che mi portò a vivere tutti i cinque anni del<br />

liceo come sospeso fra il fattuale quotidiano e quello che invece avrei voluto vivere, una<br />

contraddizione pragmatica.<br />

Invero avevo poco da lamentarmi, c’era tutto, compresi i camerieri che ti davano del lei e ti<br />

servivano colazione pranzo e cena da un menù che era scelto ogni mattina con due o tre varianti<br />

per ogni portata.<br />

Vestivamo una divisa, pantaloni grigi giacca blue e camicia azzurra con cravatta regimental per<br />

andare alla scuola statale, jeans e pullover anch’esso blue internamente. Poteva anche sembrare<br />

ridicolo vedere dei bambini e dei ragazzi così vestiti, in verità io avevo sempre prediletto<br />

l’abbigliamento classico e mi sentivo british style. In ogni caso c’era sempre la possibilità di<br />

personalizzare senza farsi accorgere, un pullover colorato sotto giacca, una cravatta particolare, un<br />

pantalone con taglio diverso da quello d’ordinanza, cercando di non farsi notare, quando la<br />

mattina il vicedirettore passava in rassegna i sapientini, così si chiamavano gli ospiti essendo nato il<br />

14


collegio inizialmente in via della Sapienza, che si accingevano ad uscire dalla gran porta a vetri per<br />

recarsi alle scuole.<br />

Fino al secondo anno di liceo avevamo un educatore, di solito uno studente universitario al quale<br />

offrivano vitto alloggio e stipendio per assisterci. Anche lui si sorbiva i quasi due chilometri di distanza<br />

fra il liceo scientifico Alessi e il convitto del quartiere Elce, percorsi rigorosamente a piedi, nella<br />

migliore espressione della cultura spartana “mens sana in corpore sano”. Anche la libera uscita, il<br />

sabato e la domenica, era in gregge, tutti per Corso Vannucci, la gran vasca centrale che iniziava<br />

dal mussoliniano Hotel Brufani e finiva alla medioevale Piazza della Fontana, per poi proseguire<br />

salendo al cinema Turreno fino a Porta Sole, il punto più alto della città che dava sui tanto<br />

decantati clivi della bellissima città etrusca, capitale della verde Umbria.<br />

Di notte la compagnia non era da meno, una gran camerata per dodici persone, con dodici<br />

bagni e dodici armadi. La sala studio era chiaramente composta di dodici scrivanie, in compenso<br />

c’erano salette per ripassare da soli, magari a voce alta un racconto di Solgenitzin, all’epoca<br />

Arcipelago Gulag era “in”, oppure Mario Silla e la noiosissima storia dell’Impero Romano, “out”.<br />

Poi a sedici anni arrivava la libertà, quella di andare a scuola da solo, di avere una camera singola,<br />

di godere di quattro uscite settimanali, due da tre ore e due da quattro ore, il sabato e la<br />

domenica, il più delle volte finivo per rinunciarci.<br />

Così noi, ragazzi di una generazione che non aveva visto la vera rivoluzione studentesca e per<br />

prima conosceva i divorzi familiari, con sempre meno certezze e pochi ideali, ci raggruppavamo<br />

nella camera di uno o dell’altro, fumando Colombo, MS o Marlboro, secondo le disponibilità<br />

elargite dalla famiglia, bevendo un thè al gelsomino o alla verbena o il classico Earl Grey nero e<br />

denso senza limone, ascoltando Donovan, i Pink Floyd e Cat Stevens incisi nelle bobine di un<br />

impianto Akay, seguendo Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni alla radio, la Carrà in bianco<br />

e nero a Canzonissima sul primo canale Rai, il calcio e quel mitico Perugia dove giocava Sollier,<br />

l’anarchico dai capelli lunghi che fumava beveva e non si allenava mai, però in campo faceva<br />

sognare con i suoi dribbling.<br />

In quei momenti, senza rendercene conto, segnavamo il nostro futuro politico, Gianluigi Rallo e<br />

Pierluigi Vassallo sarebbero diventati comunisti, Augusto Peli e Giancarlo Dezza fascisti, le vie di<br />

mezzo erano abolite, si doveva essere estremisti, Fuan o Lotta Continua, per gentile concessione<br />

alla cultura si tollerava l’iscrizione al Circolo Ezra Pound.<br />

Era anche il periodo dei primi amori, che passavano da Platonici a Socratici, fino a diventare<br />

Boccacceschi, alla scoperta del sesso e alla conoscenza di cosa si nascondeva sotto l’intimo,<br />

anche il proprio.<br />

Nel collegio, pur laico, vigevano disciplina e moralità forte; io per educazione familiare, da parte<br />

del nonno paterno si annoveravano anche parenti nobili, e in passato Cardinali, ero un pò<br />

bacchettone, pensavo al sesso solo come la sublimazione di una storia d’amore, ma il testosterone<br />

cominciava a far vacillare alcune certezze che, evidentemente, non erano tanto<br />

tautologicamente certe quanto date con sufficiente approssimazione per scontate.<br />

Eravamo permeati dalla voglia di trasgressione, ma in fin dei conti, poco più che fanciulli in gabbia<br />

e quasi tutti demandavamo alle vacanze estive le esperienze con il gentil sesso, quasi a<br />

sopravvivere ad una sorta di privazione indotta dal vivere in un posto asettico, bello, ma mai nostro,<br />

privazione che alla fine diventava spontanea, una rinuncia a vivere in pieno il nostro tempo per<br />

riprendercelo con gli interessi, e i conseguenti eccessi, una volta fuori.<br />

C’era tutto in quel convitto, eppure mancava qualcosa, cosa fosse era forse facile da capire,<br />

almeno quanto era forse difficile comprendere, ma a quell’età si va avanti, senza fermarsi troppo a<br />

pensare, cercando di vivere tutto o sopravvivendo in apnea fino a quando non si riemerge dalla<br />

precarietà del momento, io non fui da meno, non mi chiesi mai cosa.<br />

Nel 1975 mi diplomai al liceo scientifico con 54/60, preparai le mie cose e percorsi per l’ultima<br />

volta quel lungo corridoio senza quadri, sempre pulito e deodorato di fresco, presi l’ascensore per<br />

raggiungere quota zero, l’edificio si sviluppava a degradare verso il basso, salutai il Direttore, il Vice<br />

e il Capo Educatore e varcai la soglia della porta vetrata, mi voltai un attimo per lanciare un<br />

leggero sospiro a quegli anni che non sarebbero più tornati, salii sulla macchina di Marco, il figlio<br />

del farmacista venuto apposta dal paese a prendermi. Alla stazione caricammo una mia<br />

compagna di scuola e la sorella, di un anno più grande, ed andammo a mangiare escargot e<br />

bere Barolo in una trattoria sul lago Trasimeno, poi prenotammo due stanze matrimoniali e<br />

festeggiammo la maturità.<br />

Sul calendario Pirelli, appeso alla parete della mia camera, un cerchio sulla data del 4 luglio 1975.<br />

15


Finite le vacanze m’iscrissi all’Università, a Bologna alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, mio padre<br />

era stato un medico, io avrei dovuto fare altrettanto.<br />

Non mi dilungo a raccontare quanto fu intenso il matricolato, scoprii sesso<br />

e amore congiunti, l’indipendenza totale e pochi limiti se non quello della<br />

mia volontà.<br />

Lo studio fu facile il primo anno e diedi subito due esami, ricordo ancora<br />

con piacere un trenta a istologia e con un sorriso furbastro un ventiquattro a<br />

citologia, preparato nei giardini Margherita rotolandomi fra la gonna a fiori<br />

un po’ naif di Patrizia.<br />

Poi mi persi nella libertà incondizionata della quale godevo e mi fermai<br />

tutto l’anno, fino il giorno in cui dovetti partire per il servizio militare, corpo<br />

carristi, scuola a Caserta e assegnazione a Cordenons, un paesino vicino Pordenone.<br />

La caserma era piccola, attraversata da un corridoio buio in granigliato pulito dalla corvetta,<br />

m’imbucai in fureria e in quell’ufficio trascorsi tutta la naia, sottraendomi, dato il ruolo,<br />

all’alzabandiera della mattina e ad altri impegni, fra questi il picchetto che nel freddo del posto era<br />

un vero tormento. Avevo ormai imparato a fare del posto, dove vivevo mio malgrado, una casa a<br />

suo modo confortevole, in questo l’esperienza in collegio mi aveva certamente aiutato.<br />

Quella volta non ci furono pianti, avevo perso ogni debolezza del ragazzino con i calzoni all’inglese<br />

e i calzettoni bianchi dell’adolescenza, non ero più fragile.<br />

<strong>Il</strong> lavoro occupava interamente la mia giornata, oltre le ore richiestami, la macchina per scrivere mi<br />

permetteva di rivedere e cercare di migliorare l’efficienza degli stampati per le domande dei<br />

commilitoni, ero diventato una sorta di consigliore, lo stesso capitano e il tenente mi chiedevano<br />

qualche commissione extra che svolgevo di buon grado.<br />

Poi mi ero anche messo, non posso proprio dire fidanzato, con la figlia del maresciallo, indigena di<br />

nascita e meridionale d’origine, scatenata come solo le donne del sud che vivono al nord sanno<br />

essere.<br />

Poteva essere un periodo normale, anche bello, della mia vita, invece mi ritrovai ancora una volta<br />

ad ibernarmi senza sentirlo appieno, i vestiti buoni a casa e lì quello che non avrei mai indossato<br />

nelle mie uscite serali, una sorta d’autopunizione o, forse più propriamente, il non accettare fino in<br />

fondo la condizione del momento e aspettare solo l’ultimo giorno per ritornare ad essere quello che<br />

volevo.<br />

Non c’era motivo particolare per questa scelta, ma andò così e anche a Cordenons uscii sempre<br />

meno e vissi sempre più dentro. Ero una specie di paguro, Bernardo l’eremita, quello che trova una<br />

chioccia qualsiasi e la trasforma in casa propria, ma sa che non è la sua e domani dovrà<br />

andarsene.<br />

Ricordo gli amici dell’epoca, la branda, i campi di esercitazione sul fiume Tagliamento, le corse<br />

con i carri armati, le strategie di guerra, il mio grado di caporale, la promozione a caporal<br />

maggiore, la divisa, la mimetica e gli anfibi. Mi accorgo oggi di averci pensato molto raramente,<br />

anzi di non averlo praticamente mai fatto, preso dalla quotidianità forsennata che non ti consente<br />

mai di guardare indietro ma solo avanti. Proust aveva ragione nel suo “Alla ricerca del tempo<br />

perduto”, è un esercizio che andrebbe sempre fatto, aiuta a capire e soprattutto a comprendersi, il<br />

peccato spesso è credere speciale una storia normale, a volte il contrario.<br />

<strong>Il</strong> vassoio di ferro alla mensa per il rancio, il caffè di una tiepida sera d’estate alla macchinetta<br />

posizionata sotto il loggiato, una coca cola allo spaccio, una sigaretta con un amico nel prato<br />

dietro l’alloggio, il pianto di chi si congedava, erano tutti segnali di grande intensità umana, ma<br />

cosa può saperne un ragazzo a quell’età, costretto a vivere un anno per fare qualcosa alla quale<br />

non crede, o almeno non sente sua: aspettare che finisca.<br />

Solo molto tempo dopo quel ragazzo si accorge che valeva la pena vivere quel momento e si<br />

mette a raccontarlo con il ritrovato orgoglio di chi ha servito la patria assolvendo un giusto dovere<br />

civico, tanto odiava la divisa e contava i giorni, tanto oggi vorrebbe ripetere quell’esperienza.<br />

Io e il mio amico Ottobelli di Vigevano parlavano del futuro, con Borghi il ferrarese del suo amore<br />

per Marilena, con Bonometti di Brescia del suo lavoro d’elettricista. Eravamo quattro ragazzi più o<br />

meno coetanei che si erano trovati insieme e che avevano avuto la possibilità di confrontarsi in un<br />

momento della vita che porta intrinsecamente maggiore trasporto nei confronti del prossimo e<br />

consolida con gran facilità i rapporti, nelle situazioni più difficili viene fuori la vera natura delle<br />

persone, si è più scoperti, si abbassa la guardia e si può veramente costruire qualcosa.<br />

Oggi forse saranno tutti sposati, magari loro avranno vissuto un’esistenza meno spinta della mia e<br />

avranno avuto il tempo di raccontare ai figli anche di un certo Augusto, il furiere della Caserma<br />

Carli di Cordenons, ogni tanto sento un fischio lontano all’orecchio sinistro, dalla parte del cuore.<br />

16


Eppure in quei momenti volevamo solo andarcene, nessuno di noi sarebbe rimasto un minuto di<br />

più, se non l’ultima notte, passata a pensare che era passato un anno e, come tutte le avventure<br />

ormai finite, perdeva ogni contorno di malvagità preparandoti alla gran gioia del domani. Noi<br />

congedanti rinunciammo ad ogni rito di nonnismo nei confronti dello scaglione dei nuovi arrivati,<br />

anzi per andare controcorrente mi ricordo convinsi i miei amici a preparare noi il letto a loro, c’era<br />

capitato esattamente il contrario, ma volevamo lasciare un messaggio forte, uno di quelli che<br />

segnano un’epoca calando il sipario su un’usanza che non condividevamo.<br />

La mattina alle 10.30 in punto ero pronto, avevo preparato una borsa con le poche cose che mi<br />

sarei riportato a casa, indossato la divisa da libera uscita, il basco con le mostrine ed ero pronto per<br />

recarmi all’Ufficio Comando per ritirare il foglio di congedo. Feci un salto in ufficio, Giorgio, il mio<br />

successore, mi guardò con quell’ammirazione che solo il sapere che l’altro ha finito provoca, mi<br />

augurò buona fortuna. Mi avvicinai alla scrivania che avevo fatto restaurare da un ragazzo di<br />

Reggio Emilia, un bravo falegname che mi aveva laccato tutti i mobili con vernice all’anilina color<br />

mogano donando a quel luogo un po’ tetro una luce nuova, aprii il cassetto e presi le ultime lettere<br />

ricevute dalla fidanzatina del mio paese, mi ricordai quando mi avevano aperto l’armadietto<br />

approfittando di una delle mie tante licenze premio e rubato tutto, ma non importava più. Mi<br />

dispiaceva invece d’alcune debolezze che avrei potuto evitare, la sigaretta rubata, l’esagerazione,<br />

il non aver saputo aiutare chi magari n’aveva bisogno, adesso che me ne stavo andando capivo<br />

che forse avrei potuto dare di più, senza paura o riserva di farlo. Ci sono attimi in cui, come in un<br />

rewind, ripercorri la strada che hai fatto per arrivare fino a lì, io ho sempre trovato che poteva essere<br />

migliore, quella volta non fu da meno.<br />

Salutai Giorgio con un abbraccio, passai a chiamare Carlo Borghi e Giuseppe Bonometti per<br />

andarcene, Franco Ottobelli, lui se ne sarebbe andato solo due mesi più tardi, già piangeva, negli<br />

altri anche si vedeva la prima acqua di lacrime dolci e amare.<br />

<strong>Il</strong> sottotenente mi disse di raggiungere da solo la Maggiorità, era arrivato un dispaccio dal Ministero<br />

che mi riguardava, mi avviai per quel corridoio che mi sembrò addirittura bello, non c’era nulla di<br />

nuovo, ma lo percorrevo piano quasi a volermi ricordare la sensazione di passare ogni mattonella<br />

per l’ultima volta, nell’aprire la porta carezzai la maniglia.<br />

<strong>Il</strong> Maggiore mi accolse con un sorriso e mi consegnò i gradi da sergente, avevo fatto carriera. Poi<br />

mi fece firmare un cartoncino rosa pervenuto dall’alto dove mi s’indicava che in caso di guerra mi<br />

sarei dovuto presentare senza richiamo, dato l’alto voto ottenuto nella specializzazione del ruolo<br />

assegnatomi, lo proferì con l’orgoglio dell’istruttore, in realtà era la terza volta che lo vedevo e le<br />

precedenti occasioni erano state semplicemente per passargli i resoconti operativi del reparto, mi<br />

appuntò anche una medaglia e mi strinse la mano.<br />

Alla Porta Centrale mi aspettavano i miei amici, parlottavano con un sottotenente appena arrivato,<br />

ostentavamo tutti la forza di un anno d’esperienza e dispensavamo pareri che neanche tanto<br />

velatamente erano dei consigli. Alle 12.00, come rigorosamente convenuto, si aprì la porta di ferro<br />

grigia, varcammo la soglia e contemporaneamente levammo il basco.<br />

Ermanno era venuto a prendermi, salimmo tutti nella macchina. Per arrivare a Pesaro impiegammo<br />

due giorni e, cosa più importante, tre notti trascorse a Bologna che ci ripagarono dei pasti frugali e<br />

del desiderio ormonale represso. Avevamo abbandonato il ruolo di comparse e ci sentivamo<br />

nuovamente primi attori della nostra vita. Questo era quanto pensavamo noi tutti il 20 aprile 1979.<br />

Sono passati quasi trentanni da allora e sto percorrendo ancora un corridoio<br />

lungo e tetro, potrei dire il più tetro di tutti, ma sarebbe banalmente scontato<br />

in un Carcere.<br />

Quel sapientino sergente è diventato un galeotto, più elegantemente un<br />

ristretto, sta pagando gli sbagli che ha commesso.<br />

Ha di nuovo cercato di fare una casa del posto dove si trova, ma questa volta<br />

cerca di capire cosa sta vivendo, non chiude più gli occhi e non aspetta che<br />

sia finita. Ogni sera pensa a quanto non ha fatto con rimpianto e a quanto ha<br />

fatto con rimorso, prova in ogni caso a dare un senso alla sua vita, a fare del<br />

tempo un alleato e non un nemico, a ricostruire una vita andata male.<br />

<strong>Il</strong> ragazzino del collegio e il giovane militare hanno lasciato posto ad un<br />

cinquantenne che deve fare i conti con il passato e con il futuro, che ogni giorno deve provare a<br />

credere in se stesso per riemergere dal fango in cui si è trascinato, con incoscienza e superficialità,<br />

con quel vivere sopra le righe.<br />

Adesso non basta un rewind per ripercorrere le tappe di quella gara che è stata la vita, a volte mi è<br />

difficile scavare nel profondo, arrivare la dove fa male, ma non posso fermarmi, sento di essere<br />

17


vicino a capire e comprendermi, ad avere il coraggio di affrontare la situazione per quello che è,<br />

senza scusanti.<br />

Ho avuto la fortuna di avere tre famiglie, quella di origine, la prima moglie con due figli ormai<br />

universitari, una seconda compagna con una bambina bionda con gli occhi chiari, che mi sono<br />

rimasti vicino, pur nelle mille difficoltà di una situazione che non era nel loro immaginario. Loro sono<br />

la mia forza e la mia debolezza, ma in ogni caso sono ed è tanto. Quando studio, quando recito a<br />

teatro, quando scrivo, quando partecipo a qualche corso, penso a migliorarmi perché questo è<br />

quanto loro si aspettano e non sento alcuna fatica, come sempre accade facendo quello in cui si<br />

crede. E quando al contrario non sono tollerante, quando esagero, quando perdo l’occasione per<br />

qualcosa di positivo penso in ogni modo a loro e provo, provo ancora a cambiare.<br />

La mattina corro nel campo di calcio per prepararmi alla maratona di Roma di fine marzo,<br />

profittando di quei momenti per stare un po’ con me stesso, dare qualche risposta ai miei molti<br />

dubbi e rendermi conto sempre più d’essere certo solo di non essere certo.<br />

Arriva un momento in cui si è costretti a pagare il biglietto, il prezzo della corsa è diverso da persona<br />

a persona, ma la vita in ogni caso presenta il conto.<br />

Non voglio raccontare oggi il mio essere metafisicamente o fisicamente dentro, il tempo, da<br />

galantuomo democratico qual è, verrà da solo e saprà farsi riconoscere. In quel momento saprò<br />

se sarò riuscito a fare di questo periodo di vita un momento da ricordare e non attimi da<br />

dimenticare, perché solo nel primo caso sarà servito per farmi prendere coscienza piena di me<br />

stesso, delle debolezze, degli errori.<br />

<strong>Il</strong> dolore, quella causato, lo riconosco già.<br />

<strong>Il</strong> bilancio in questi lunghi corridoi, la teoria delle 3 C, in ordine non alfabetico collegio caserma<br />

carcere, nella grande C di un corridoio, mostra chiaramente i limiti di quello che pensavo e ciò che<br />

si è realizzato, il mio surplus o per meglio dire la mia<br />

Perdita secca.<br />

90<br />

80<br />

70<br />

60<br />

50<br />

40<br />

30<br />

20<br />

10<br />

0<br />

1970/1975 1978/1979 2004/2006<br />

amore<br />

salute<br />

libertà<br />

collegio caserma carcere<br />

Un domani, me n’andrò, com’è finita la scuola, com’è terminata la naia così anche la pena si<br />

estinguerà.<br />

Percorrerò ancora una volta il corridoio con la leggerezza che solo la felicità sa regalare,<br />

abbraccerò quell’educatore amico diventato amico educatore d’Antonio Turco.<br />

Gianni Barosco il trevigiano vomitaparole e Sergio Boeri il veronese che finge di essere al Campus<br />

Universitario, mi accompagneranno e ci saluteremo con la voce rotta da un’emozione tanto forte<br />

da non lasciare spazio alla razionalità, o forse saranno loro a salutare me per primi.<br />

Ma questa volta non ci perderemo, la nostra vita insieme è scolpita nel cuore, abbiamo diviso<br />

molto dolore e pochissime gioie e l’abbiamo fatto senza risparmio e senza barriere.<br />

L’uomo cerca sempre di abbandonare i ricordi più brutti, ma noi abbiamo avuto la fortuna di<br />

confrontarci e abbiamo cercato di crescere insieme, per questo non ci dimenticheremo.<br />

Non porterò con me molte cose, ma ne lascerò tante, quello che giorno dopo giorno abbiamo<br />

provato a costruire per essere pronti a non perderci fuori.<br />

L’Ufficio Matricola mi consegnerà delle carte, ci scambieremo educatamente i convenevoli di rito,<br />

capiterà forse di stringere la mano al Direttore, con un sorriso compagno di battaglie condivise e<br />

opposte.<br />

Una volta fuori dalla porta carraia mi guarderò intorno, forse non troverò nessuno questa volta ad<br />

aspettarmi, ma non mi chiederò… e adesso cosa resta?<br />

<strong>Il</strong> giorno, il mese e l’anno ancora sconosciuti.<br />

18


UNO STRANO<br />

CORSO DI TENNIS<br />

“Se vuoi che il rovescio sia incrociato bisogna che<br />

colpisci la palla avanti a te e non lateralmente”<br />

- disse Sergio con un forte accento veneto appena<br />

smorzato da dieci anni in giro per il mondo. Gennaro lo<br />

guardò con un sorriso ironico da napoletano verace, a<br />

confermare che fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.<br />

Massimo, in romanesco sbonfonchiò una frase che si<br />

perse nell’imprecazione, sempre capitolina, di Carlo,<br />

successiva ad un colpo d’Isaac, un peruviano simpatico,<br />

ormai adottato dal belpaese, il cui diritto aveva toccato il<br />

nastro e fatto cadere la palla dalla sua parte, regalando il<br />

set ball all’indigeno di Lima.<br />

Era una bella giornata d’ottobre, da centosettanta anni<br />

non faceva così caldo a Roma in quel mese autunnale, il<br />

clima, il sole e il cielo azzurro terso invogliavano a<br />

giocare.<br />

<strong>Il</strong> tennis li avvicinava, sembravano una consociata<br />

multietnica, ognuno aveva un suo stile, ma tutti gioivano<br />

per un ace fatto e maledicevano un lungolinea incrociato<br />

patito, dai modi diversi di esprimersi si potevano<br />

desumere di ciascuno le origini, la storia e il momento.<br />

Mario e Andrea, i trainers, cercavano di correggere<br />

qualche errore d’impostazione e trattandosi di un corso<br />

per conseguire il patentino da istruttore, non facevano<br />

sconti. Tutto sommato, il gruppo poteva dirsi<br />

disciplinato, non erano più giovanissimi; il più piccolo<br />

d’età ma non di stazza, era Gianni, un altro “romano de<br />

Roma” già trentenne. Probabilmente tutti avevano<br />

acquisito dalla vita l’esperienza per comprendere che<br />

diventare un professore significa essere stato prima un<br />

alunno (senza aggettivo alcuno di qualificazione).<br />

Per giocare si alzavano presto e cercavano di sbrigare i<br />

loro impegni in tempo utile per partecipare al corso; si<br />

cominciava la mattina alle 9.00 e qualcuno era costretto a<br />

scendere con la tuta marrone e gli anfibi da lavoro per<br />

poi cambiarsi direttamente a bordo campo, ma a loro<br />

piaceva, si vedeva che erano coinvolti in un’esperienza<br />

che li faceva felici.<br />

<strong>Il</strong> patentino poi lo avrebbe consegnato il mitico Panatta e<br />

ci sarebbe scappato un autografo, una stretta di mano e<br />

magari una volee a rete con tuffo, vera specialità<br />

dell’Adriano Nazionale, quando vinse nello stesso anno,<br />

il 1976, l’unica insalatiera conquistata dalla nazionale di<br />

Davis, gli Internazionali di Roma e il Roland Garros,<br />

diventando quarto nel<br />

ranking mondiale, miglior<br />

piazzamento di sempre<br />

ancora imbattuto per un<br />

italiano.<br />

I corsisti si erano cimentati<br />

anche in un mini-torneo, che<br />

sembrava essere diventato il<br />

Master, quello dei primi otto<br />

per conquistare il titolo di<br />

Campione del Mondo. Quel<br />

giorno si giocava la finale, al<br />

meglio dei tre set; dopo<br />

quasi due ore di gioco il<br />

punteggio era un set a uno e<br />

sul cinque pari al terzo set<br />

erano andati al tie-break, ed<br />

erano ancora pari.<br />

Sergio serviva per il match,<br />

la palla si alzò per il<br />

servizio: ace, vittoria… anzi<br />

net, ancora la prima battuta,<br />

violenta: rete, via con la<br />

seconda battuta…<br />

Da lontano una voce<br />

echeggiò: “andiamo, si<br />

chiude”, e il tono non<br />

ammetteva repliche.<br />

Non erano al Madoneta<br />

Park, ma nel campo da<br />

tennis in cemento con<br />

qualche crepa mai sistemata<br />

della Casa di Reclusione<br />

Rebibbia e il guardiano era<br />

un agente del carcere.<br />

La palla rotolò, nessuno si<br />

fermò a guardare dove.<br />

I corsisti<br />

19


<strong>Il</strong> Gruppo<br />

Universitario<br />

Quando insieme con un<br />

eterogeneo gruppo di<br />

persone si è deciso di<br />

creare ad un giornale e si è<br />

prospettata l’idea di<br />

riservare uno spazio<br />

all’università vi ho<br />

intravisto l’occasione per<br />

comunicare le aspettative<br />

e le difficoltà connesse ad<br />

un percorso di studi in un<br />

contesto d’istituzione<br />

totale.<br />

<strong>Il</strong> gruppo universitario<br />

nasce nell’autunno del<br />

2005 dall’idea e dalle<br />

esigenze degli studentidetenuti<br />

della Casa<br />

Reclusione Rebibbia, di<br />

affrontare in comune gli<br />

ostacoli dello studio<br />

autodidattico.<br />

Dall’iniziale studio<br />

individuale svolto in cella<br />

si è passati<br />

all’autorizzazione all’uso di<br />

stanzetta di pochi metri<br />

quadri, con due tavolini 120<br />

x 80 e tre sedie, a cui si<br />

accedeva in maniera<br />

saltuaria, per poi giungere<br />

ad una e poi due aule<br />

studio, con libertà di<br />

accedervi in modo<br />

continuato per quasi<br />

l’intero arco della giornata.<br />

Con le aule sono arrivate le<br />

scrivanie e, a seguito di una<br />

donazione, sette computer.<br />

Oggi a fine novembre 2006<br />

il numero degli studenti è di<br />

9 unità.<br />

Ho pensato di iniziare con<br />

la logistica perché in un<br />

ambiente limitato quale il<br />

carcere, gli spazi sono<br />

merce preziosa,<br />

fondamentale, pregiati al<br />

punto da essere valutati<br />

con metodo originale,<br />

primitivo, tarato sul<br />

numero di mattonelle di<br />

20 x 20 centimetri che si<br />

hanno a disposizione, ed<br />

ogni mattonella in più è<br />

vissuta come un<br />

privilegio.<br />

Spesso la facoltà di<br />

utilizzare una piccola area,<br />

come quella che ora<br />

abbiamo a disposizione,<br />

fra la differenza tra un<br />

progetto che riesce ed un<br />

altro che naufraga.<br />

<strong>Il</strong> binomio universitàcarcere<br />

suona insolito e,<br />

ad essere realisti, sarebbe<br />

maggiormente appropriata<br />

la formula autodidattacarcere.<br />

Ciò nonostante<br />

l’iscrizione all’università<br />

mi ha permesso di<br />

guardare la monotona<br />

alienante quotidianità<br />

della vita inframuraria<br />

attraverso la lente del<br />

sognatore e vivere<br />

l’esperienza come<br />

un’avventura.<br />

Ottimista per partito preso<br />

mi sono imposto di<br />

capovolgere una<br />

situazione che definire<br />

negativa è un eufemismo;<br />

trasformando il periodo da<br />

trascorrere ristretto in<br />

meravigliosa opportunità<br />

di crescita personale;<br />

utilizzando il tempo a<br />

disposizione in modo<br />

propositivo; apprendendo<br />

con metodo una materia<br />

un’opportunità lavorativa,<br />

in una reale<br />

concretizzazione del<br />

principio di speranza;<br />

ricercando una sorta di<br />

riscatto sociale;<br />

accettando una sfida che<br />

vede duellare la parte di<br />

me stesso volenterosa con<br />

l’altra arrendevole; pigra,<br />

rinunciataria; inventando<br />

un modo di comunicare<br />

con la società esterna;<br />

disciplinando una vita<br />

20


vissuta all’insegna<br />

dell’incostanza; in breve<br />

mettendomi alla prova;<br />

coscientemente alla<br />

ricerca di un<br />

arricchimento<br />

dell’autostima in un luogo<br />

altrimenti povero<br />

d’avvenimenti premianti.<br />

A malincuore, infastidito,<br />

osservo la deludente<br />

patina dell’ovvietà degli<br />

argomenti, paiono scontati<br />

e non esprimono<br />

adeguatamente il<br />

coinvolgimento<br />

emozionale che sta dietro i<br />

lunghi mesi di studio, le<br />

attese, i dubbi, fino a<br />

giungere al fatidico<br />

momento della prova<br />

d’esame, in cui il timore<br />

di non essere in grado di<br />

riuscire e la soddisfazione<br />

dell’eventuale successo,<br />

culminano in un tourbillon<br />

fantastico, indicibile, di<br />

stati d’animo, un vero e<br />

proprio terremoto<br />

emotivo.<br />

Ho un ricordo vivo del<br />

primo esame, sostenuto<br />

davanti ad una<br />

commissione composta di<br />

persone mai viste, la cui<br />

unica conoscenza<br />

consisteva in un freddo<br />

elenco di nomi fissati su<br />

un anonimo fax, arrivato<br />

qualche giorno prima in<br />

istituto; un professore di<br />

cattedra e due assistenti<br />

giunti appositamente per<br />

valutare un altrettanto<br />

sconosciuto individuo<br />

detenuto, con in più<br />

l’ingombrante presenza<br />

dell’emerito titolare,<br />

autore di numerose<br />

pubblicazioni e<br />

certamente abituato al<br />

confronto con studenti<br />

brillanti.<br />

L’atmosfera anomala,<br />

pregna d’imbarazzo,<br />

palpabile sia per chi mette<br />

piede per la prima volta<br />

qui dentro, sia per chi,<br />

come il sottoscritto,<br />

dall’altra parte si chiede se<br />

ce la farà.<br />

Perché il vero spauracchio<br />

è la brutta figura, lo<br />

scoprire crudelmente di<br />

aver fatto perdere tempo a<br />

questi sconosciuti, o<br />

peggio venire trattato con<br />

sufficienza o benevolenza<br />

spicciola, un colpo<br />

tremendo per l’amor<br />

proprio.<br />

Rivivo l’emozione di quel<br />

giorno, la lunga attesa<br />

prima che mi fosse<br />

annunciato l’arrivo dei<br />

professori, il panico che<br />

quasi non permetteva di<br />

proferire parola, la bocca<br />

asciutta, le gambe<br />

tremolanti, l’ansia, le<br />

mille incertezze, la testa<br />

vuota…. e poi<br />

l’impagabile<br />

soddisfazione di ricevere i<br />

complimenti dopo aver<br />

superato l’esame, una<br />

smisurata voglia che quel<br />

momento durasse ancora a<br />

lungo e non si<br />

interrompesse cosi,<br />

rimanendo un<br />

estemporaneo episodio nei<br />

ricordi dei mesi a venire.<br />

Per maggiori informazioni relative all’attività del Gruppo Universitario scrivere a:<br />

SERGIO BOERI<br />

Casa di Reclusione Rebibbia<br />

Via Bartolo Longo, 72<br />

00156 Roma<br />

Sergio<br />

21


Camere neutre<br />

e l’amore tra le sbarre<br />

Ha destato scalpore e scandalo, tra i benpensanti, la<br />

recente proposta avanzata da alcune forze politiche che<br />

mira a introdurre anche nel nostro sistema carcerario<br />

apposite stanze, cosiddette neutre, già presenti nelle<br />

prigioni della cattolicissima Spagna.<br />

Che cosa sono le stanze neutre?<br />

Sono ambienti dove poter passare con la propria moglie,<br />

compagna o conviventi, alcune ore lontano da occhi<br />

indiscreti, in modo da poter scambiare momenti d’affetto<br />

o di profonda intimità. Tutto questo in modo<br />

assolutamente tranquillo, per ridare dignità e<br />

responsabilità a partire dalla sfera primaria degli affetti<br />

familiari.<br />

Nella proposta non<br />

c’è nulla<br />

d’anormale e di<br />

volgare. Al<br />

contrario chi l’ha<br />

avanzata ritiene, a<br />

ragion veduta, che<br />

il progetto di<br />

recupero del<br />

detenuto non può<br />

trascurare<br />

l’affettività, che la<br />

pena oltre a deprimere può seriamente compromettere in<br />

famiglie e coppie già formate, con conseguenze<br />

immaginabili per i coniugi e per i figli.<br />

Al fondo c’è il dettato della nostra Costituzione che<br />

ricorda come scopo della pena è quello innanzi tutto di<br />

educare e reinserire il condannato nella vita reale.<br />

Un’operazione che molto spesso il regime di<br />

segregazione carceraria rischia di vanificare con un grave<br />

dispendio d’energie e di denari da parte dello Stato.<br />

Pensiamo alle difficoltà che il detenuto dopo anni di<br />

detenzione può incontrare nel reinserimento lavorativo,<br />

se poi a queste che potremmo definire fisiologiche si<br />

aggiungono anche quelle affettive, il rischio che l’ex<br />

detenuto possa trovarsi da solo nel momento più delicato<br />

della sua esistenza non è per niente remoto.<br />

Le camere neutre possono in qualche modo soddisfare il<br />

bisogno d’amore anche dietro le sbarre, scongiurando il<br />

rischio che il detenuto una volta scontata la pena possa<br />

ritrovarsi anche senza famiglia. Quando una donna deve<br />

aspettare il suo uomo per molti anni, può succedere di<br />

tutto. Qualcuno ricorderà i versi di quella vecchia<br />

canzone “Tre mesi sono<br />

lunghi da aspettare, quando<br />

l’amore bussa”.<br />

Finalmente, grazie alla<br />

proposta avanzata da alcuni<br />

parlamentari, si comincia<br />

anche qui da noi a parlare<br />

dell’amore in carcere, un<br />

tema che in verità era stato<br />

già analizzato da un noto e<br />

stimato intellettuale,<br />

Umberto Galimberti,<br />

docente all’Università di<br />

Venezia, che a proposito<br />

della pena ha sostenuto che<br />

essa deve limitarsi a togliere<br />

il bene più prezioso per un<br />

cittadino: la libertà.<br />

Motivo per cui sarebbe<br />

ingiusto e controproducente<br />

incrudelire il carattere dei<br />

detenuti privandoli anche<br />

degli affetti primari. La<br />

possibilità di mantenerli, al<br />

contrario, può favorire la<br />

“rieducazione” del<br />

condannato, privandolo<br />

dell’aggressività e<br />

conferendogli invece quella<br />

tranquillità necessaria per<br />

recuperare un domani un<br />

ruolo responsabile nella<br />

società. E’ venuto il<br />

momento per una<br />

discussione costruttiva,<br />

sgombra di pregiudizi, che<br />

riporti l’<strong>Italia</strong> ad essere un<br />

faro in campo penitenziario,<br />

com’è già accaduto in<br />

passato.<br />

Franco<br />

22


<strong>Il</strong> lavoro nobilita l’uomo<br />

Parlare di lavoro in prossimità delle feste natalizie<br />

non è certo ideale, ma non posso sottrarmi, perciò<br />

cercherò di rendervi l’argomento più leggero.<br />

Si parla molto di<br />

lavoro precario,<br />

di retribuzioni<br />

inadeguate, della<br />

difficoltà nel<br />

trovare<br />

manodopera<br />

qualificata.<br />

Penso di aver<br />

trovato una<br />

possibile<br />

soluzione.<br />

Qui a Rebibbia<br />

abbiamo a<br />

disposizione lavoratori che accetterebbero<br />

un’occupazione precaria pur di uscire. Grazie agli sgravi<br />

fiscali della legge Smuraglia, chi assume un lavoratore<br />

detenuto può godere di una serie d’agevolazioni con un<br />

sicuro risparmio.<br />

A Rebibbia tutti i lavoratori sono di continuo sottoposti a<br />

controlli medici, quindi niente sorprese con lunghe<br />

malattie; per la maggior parte sono giovani e di buona<br />

costituzione; i loro documenti sono in regola per cui<br />

datore di lavoro non rischia alcuna denuncia per aver<br />

assunto un clandestino; le istituzioni garantiscono il<br />

rispetto della legalità.<br />

Certo, non tutti hanno voglia di lavorare. Esattamente<br />

come accade all’esterno, molti vogliono lo stipendio con<br />

il minimo sforzo, ma comunque c’è la possibilità di<br />

testare l’operaio prima di inserirlo.<br />

Anche il problema dell’alloggio è risolvibile: esistono<br />

misure alternative al carcere come la semi-libertà, che<br />

permette di uscire il mattino e fare rientro la sera,<br />

sollevando il datore di lavoro dall’incombenza di trovare<br />

un alloggio al detenuto.<br />

Mi chiedo come mai questo potenziale di risorse umane<br />

non sia sfruttato e piuttosto si paghi per tenerlo fermo.<br />

Penso che se veramente la<br />

pena debba tendere al<br />

reinserimento, sia necessario<br />

investire nella formazione e<br />

nell’addestramento al lavoro,<br />

l’unico modo per garantire al<br />

detenuto dignità e futuro.<br />

<strong>Il</strong> primo articolo della<br />

Costituzione <strong>Italia</strong>na recita:<br />

“L’<strong>Italia</strong> è una Repubblica<br />

democratica, fondata sul<br />

lavoro”. Ma come si<br />

pretende che una persona<br />

possa guadagnarsi il pane<br />

con il lavoro se è<br />

discriminata in partenza? Si<br />

sono spesi fiumi d’inchiostro<br />

per descrivere tale<br />

situazione, ora bisogna<br />

passare dalle parole ai fatti,<br />

dimostrando la volontà di<br />

mettere alla prova le persone<br />

che hanno sbagliato, non<br />

tutte saranno in grado di<br />

reinserirsi, ma sicuramente<br />

molti di noi cercano una<br />

possibilità per il proprio<br />

futuro.<br />

Questo può avvenire<br />

trovando il modo di far<br />

entrare in istituto le realtà<br />

economiche esterne, non<br />

solo il no-profit come<br />

avviene oggi, ma anche la<br />

parte profit. Si potrebbero<br />

trovare soluzioni ai problemi<br />

di personale aiutando i<br />

detenuti ad integrarsi nella<br />

società esterna. Noi<br />

vogliamo avere le stesse<br />

possibilità d’ogni altro e non<br />

essere cittadini di serie B.<br />

Gianni<br />

23


Giorni di Rebibbia<br />

La scuola, com’è ridotta oggi, troppo spesso si limita a premiare chi non ne ha bisogno. Come le<br />

banche, che danno soldi solo a chi già li ha. Ma questa è l’<strong>Italia</strong> di oggi, “catenacciara”. In assenza<br />

di prospettive, ognuno gioca in difesa della propria posizione, benché modesta. I padri mirano a<br />

sistemare i figli; i quali hanno perso la legittima e naturale aspirazione a fare qualcosa di meglio o<br />

comunque di diverso. Nessuno osa, e si vivacchia nella crescita-zero.<br />

Insegno in carcere, diritto ai detenuti. Nell’università del crimine. Tra facile ironia e scetticismo forcaiolo, i<br />

discorsi di fuori scivolano immancabilmente nell’affettata compassione: “deve essere un’esperienza…”, una<br />

frase che suona come una pacca sulla spalla. Ma cosa rappresenta la scuola in carcere, è una domanda che<br />

continuo a pormi da anni. L’istruzione, intesa nell’accezione anglosassone d’educazione, aderisce di più<br />

alla funzione trattamentale che l’ordinamento prescrive per ogni condannato. Ma non mi sembra così<br />

scontato che qualcuno può ergersi a educare, anzi ri-educare qualcun altro.<br />

Quanto alla scuola, fuori come dentro il carcere, la sua funzione è posta in discussione, in una società che<br />

ha scelto altri canali per formare gli individui e regolamentare le loro coscienze. I media forniscono modelli<br />

di comportamento difficili da contrastare. Di fronte alla dirompente potenza attrattiva di certe “polarità<br />

simboliche”, chi si propone di educare arriva tardi e con armi spuntate. I buoni risultati sono frutto di felici<br />

coincidenze. Ci vuole un buon docente, competente nella sua materia, autorevole, molto motivato e<br />

convinto della propria “missione”. Dall’altra parte, il discente deve essere preventivamente dotato di<br />

strumenti d’analisi e critica, aver tanta curiosità e voglia di imparare e un ampio orizzonte di tempo da<br />

dedicare agli studi. Casi rari.<br />

Gli strumenti a disposizione sono scarsi e inadeguati: il libro, la vecchia lavagna, il gesso che sporca i<br />

vestiti, la lezione frontale sui programmi ministeriali, fermi su Manzoni e il Risorgimento. Può essere<br />

sconveniente azzardare un parallelo tra Pietro Micca e le donne kamikaze: troppo un problema affrontare<br />

la complessità della realtà contemporanea. Un retro gusto d’inchiostro su banchi di formica stride nell’era<br />

delle nano-tecnologie. In più, non sempre il singolo intraprendente trova le istituzioni disponibili ad<br />

assecondarlo nella sua attività. Con alcuni interventi legislativi promossi dai vari governi che, da oltre un<br />

decennio, minano le fondamenta degli irrinunciabili valori – in primis l’eguaglianza – su cui poggia la<br />

democrazia. Di fronte alle continue trasformazioni della società, la scuola può svolgere un ruolo per<br />

qualche verso insostituibile nel reinserimento del condannato, cui per Costituzione deve mirare la pena.<br />

Non è un caso se il nostro ordinamento attribuisce un certo rilievo (stanziando relativi fondi) al diritto<br />

all’istruzione impartita anche a persone private delle libertà fondamentali. Ma i giudizi degli insegnanti<br />

restano confinati nel piano didattico, non entrando più di tanto nelle considerazioni che portano il<br />

Magistrato di sorveglianza alla concessione dei benefici.<br />

Le ore di lezione sono momenti di “evasione” in cui anche il galeotto più incallito può porre attenzione su<br />

argomenti che mai avrebbero potuto sfiorare la propria sfera d’interesse. Si offre a ognuno l’opportunità di<br />

intravedere spiragli alternativi. Tanto più che, anche in questioni non strettamente rientranti nelle attività<br />

curricolari, l’insegnante può fornire un esempio di persona (presumibilmente colta) che fonda i propri<br />

giudizi e l’intera propria esistenza su ideali profondamente diversi da quelli che hanno portato alla<br />

devianza. Di converso, l’insegnamento in carcere può generare notevoli obiezioni ad<br />

alcune certezze tipiche di chi non avrebbe mai avuto modo di confrontarsi con realtà<br />

troppo lontane dal proprio stile di vita. S’instaura, dunque, un interscambio in cui<br />

ciascuno ha modo di arricchire la propria esperienza. Tanto più che, in un carcere “aperto”<br />

come il penale di Rebibbia, le classi risultano composte di pochi elementi, in buona parte<br />

non motivati dalla sola esigenza di uscire dalla cella. Rivolto a una ristretta cerchia,<br />

l’insegnante può davvero svolgere la sua lezione nel migliore dei modi, dedicando la giusta<br />

attenzione a tutte le esigenze degli studenti.<br />

Venite a scuola, “parvulos” e meno “parvulos”.<br />

Giomini<br />

24


Lettera aperta al Ministro Mastella<br />

Gentilissimo Ministro,<br />

noi, detenuti della Casa di Reclusione Rebibbia, abbiamo seguito<br />

con interesse la Sua partecipazione alla trasmissione di Maurizio Costanzo su <strong>Italia</strong> 1<br />

(Altrove, n.d.r.), tema la vita nelle carceri in <strong>Italia</strong>. Non nascondiamo un certo stupore nel<br />

vedere come una TV privata, oltretutto fortemente criticata, abbia il coraggio di affrontare<br />

un tema impopolare quale la detenzione, senza la spasmodica ricerca dell’auditel, ma per<br />

concedere momenti di riflessioni, impiegando le telecamere come un occhio al di qua del<br />

muro. D’altro canto, nonostante l’indubbia sensibilità mostrata dall’attuale Governo, la<br />

TV pubblica e la stampa sembrano titubanti (riluttanti?) ad abbattere l’omertà che<br />

circonda gli Istituti di Pena fin quasi paradossalmente a sostenere nelle trasmissioni e<br />

negli articoli le critiche che piovono da tutte le parti sull’Indulto del 31 luglio 2006 e i<br />

malefici dello stesso senza distinguo alcuno, adducendo a Lei, Ministro, responsabilità<br />

condivise dai due/terzi del Parlamento.<br />

Una riflessione accurata, almeno approfondita, consentirebbe affermare che i numeri non<br />

sono per niente preoccupanti, anzi di sotto la soglia fisiologica del delinquere, ammesso e<br />

non concesso che esista una fisiologia del reato (che suona essere quasi un ritorno alle<br />

teorie antropologiche del criminale descritto dal Lombroso) o lo stesso non sia più<br />

complicatamente il frutto multifattoriale dell’ultima teoria criminologica.<br />

Non ci sembra in ogni modo opportuno fare statistica sui casi umani che riguardano la<br />

carcerazione e le vittime dei carcerati, non potendo i numeri per caratteristiche endogene<br />

esprimere adeguatamente i disagi dello status, essi sono portatori di valore assoluto, ma<br />

non quantificano l’intensità. Ci appare più convincente partire da un semplice assunto<br />

che concerne l’iter legislativo, il quale prevede che sia un giudice (e a riprova dell’unicità<br />

di tale figura lui e lui solo) a sentenziare una condanna prevista dal Codice Penale e non<br />

un plebiscito popolare che ricorda più le lapidazioni e i roghi d’antica memoria, dove tutti<br />

partecipano ad un verdetto senza aver studiato o almeno letto la causa.<br />

La totale disinformazione e, più spesso purtroppo la malainformazione, sulla vita nelle<br />

Carceri stagnano il pregiudizio e non permettono di rimuoverlo, rendendo vacuo il<br />

dettato costituzionale compreso il rispetto dei principi fondamentali assolutamente<br />

inviolabili. I progressisti dicono “<strong>Il</strong> carcerato non è un cittadino minore, è chi ha<br />

sbagliato, ma va aiutato a ricostruirsi una vita”, raggruppando nella parola carcerato<br />

un’unica tipologia, spesso allegramente sostituita (dai conservatori) con delinquente,<br />

tanto per gradire.<br />

Così le genti di destra di centro e di sinistra, assolutamente ignare, anzi convinte che<br />

negli Istituti esistono solo criminali incalliti, non distinguono; se sei in carcere non conti<br />

più nulla, perdi ogni diritto, poco importa se sei un drogato che trascina la vita fra<br />

gocce e crisi, oppure un rapinatore che ha ucciso la guardia giurata, se hai rubato un<br />

motorino o massacrato una famiglia in una faida, i ristretti sono democraticamente<br />

eguali, stereotipatamene eguali, superficialmente eguali.<br />

L’<strong>Italia</strong> è piena d’aspiranti Commissari Tecnici che si dilettano a stilare le formazioni<br />

della Nazionale di calcio, perché i Media tutti (TV di Stato in primis) fanno a gara per<br />

illustrare ogni dettaglio delle partite, della tattica e della strategia. Allo stesso modo<br />

l’<strong>Italia</strong> è piena d’aspiranti Giudici che invece non sanno nulla del carcere e dei carcerati,<br />

meno ancora di giurisprudenza, ma sentenziano e sono anche ipercritici.<br />

Nessuno vuole mettere in dubbio il bisogno di sicurezza del cittadino, né tanto meno<br />

confutare di dover pagare i reati commessi, ma è necessario un distinguo e la reale<br />

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individuazione, e prosecuzione, di un percorso di rieducazione personalizzato. Se è vero<br />

che siamo tutti uguali davanti all’Onnipotente (sia esso Dio o Maometto) è altrettanto<br />

vero che nessun individuo è eguale all’altro e non è comprensibile sottoporre tutti allo<br />

stesso metro di giudizio e alla stessa tipologia di sconto della pena.<br />

L’indulto, pur con i dovuti distinguo per taluni reati, andrebbe condiviso se non altro per<br />

aver consentito di sgravare un peso opprimente e mettere in condizione le Istituzioni di<br />

operare in una dimensione d’efficienza, rispettando un Codice che condanna il reo, ma che<br />

è disatteso per quanto concerne il trattamento dello stesso e non perché ci siano aguzzini o<br />

speculatori, semplicemente per una questione di soldi, d’endemica mancanza di denaro<br />

per investire in strutture e infrastrutture, ormai fattiscenti.<br />

Si crea una situazione dicotomica con la condanna, si punisce il colpevole e si<br />

trasgrediscono le norme della sua punizione restando impuniti, anzi continuando a<br />

gridare vendetta con un giustizialismo che potrebbe anche essere corretto se asserito con<br />

cognizione, ma stride se asserito senza conoscenza alcuna. Lo sforzo quindi dovrebbe<br />

essere quello di aprire le porte carraie e consentire alla realtà sociale di incontrarsi e<br />

conoscere la realtà carceraria, permettendo alla Democrazia Diretta (quella vera, esercitata<br />

dal popolo) d’essere protagonista di giuste considerazioni, votando riforme che partono da<br />

una presa di coscienza del problema e tendano a risolvere lo stesso costruttivamente e non<br />

distruttivamente.<br />

Dentro le mura del carcere il cittadino troverà storie ancora più crude di quanto non<br />

possa immaginare, ma troverà anche vicende umane contro le quali scagliarsi è un atto<br />

di forza che non vale la pena esercitare perché forse basterebbe una parola, un gesto,<br />

un consiglio. Ancora troverà gente distrutta dal peso degli errori, gente irridente al peso<br />

degli anni di condanna. E poi troverà chi spera e chi ha smesso di farlo, chi vuole<br />

cambiare vita e chi non lo farà mai, chi migliora e chi peggiora. Troverà tutto questo,<br />

negli estremi e nelle figure interposte, e continuerà a chiamare tutti delinquenti,<br />

semplicemente perché sarà più facile massimizzare che non entrare in un’analisi dei<br />

termini della questione.<br />

Così non ci sarà mai la forza, da parte della politica, di combattere veramente il male, la<br />

paura di perdere voti e consensi non consentirà mai l’attuazione delle riforme, si<br />

continuerà a fare finta che il problema è sotto controllo e si renderà irreversibile un<br />

processo di degrado. Questo non significa concedere benefici, semplicemente ragionare per<br />

arrivare a soluzioni che siano largamente condivise che, nel conservare idee pregresse<br />

(puntualizzando idee e non ideali) non sono mai prese. Non è più possibile parlare del<br />

carcere e del trattamento senza mettere al centro dello stesso l’individuo, lui è l’oggetto<br />

vero della questione, se meriterà un aiuto gli sia concesso, se non lo meriterà gli sia tolto,<br />

se dimostrerà di poter ritornare nella società sia reinserito, altrimenti rimanga in carcere.<br />

Tutto questo senza buonismo o perbenismo, ma attraverso una reale critica che sappia<br />

essere analitica e meritocratica, e che con il dovuto distinguo non continui a darci del voi<br />

ma del tu. Vorremmo poter offrire un contributo a questo pensiero raccontando le nostre<br />

storie per portare a casa degli <strong>Italia</strong>ni, di tutti i nostri concittadini, la verità in tutte le sue<br />

sfaccettature, con la crudeltà che solo la verità sa dimostrare. Una verità necessaria per<br />

non fare di un problema un falso problema, solo così la classe dirigente troverà il coraggio<br />

dell’azione e non avrà paura di una trasmissione che continua a chiamare tutti<br />

stupratori, anche se tali reati rappresentano un millesimo di un pianeta sconosciuto.<br />

Tutti dobbiamo concorrere per arrivare a valori alti che portino attenzione.<br />

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La bozza e il progetto<br />

“<strong>Il</strong> <strong>Bartolone</strong>”<br />

è patrocinato da<br />

Liberi dagli Stereotipi<br />

grazie alla collaborazione<br />

dei Professori Paolo Portone e Giovanni Iacomini<br />

e al gentile contributo concesso<br />

dal Presidente della Repubblica<br />

Giorgio Napolitano<br />

<strong>Il</strong> progetto “Liberi dagli Stereotipi” muove i primi passi nel 2004 alla C.C. Civitavecchia e trova la sua<br />

realizzazione nella C.R. Rebibbia, grazie ad una congiuntura d’eventi verso lo stesso obiettivo. In<br />

particolare l’incontro fra l’ideatore, Augusto Guerrieri, e Gaetano Campo, responsabile della<br />

Compagnia Teatrale “Stabile Assai”, ha creato una base solida cementata dalla messa in opera<br />

della piece, auto prodotta, “Ma che razza di Città”, in memoria di Pier Paolo Pasolini. In tale<br />

manifestazione è stata presentata “L’Umana Realtà ”, primo volume della trilogia, che porta lo<br />

stesso nome. Nella piattaforma, con libero accesso a tutti quelli che vedono nella cultura la giusta<br />

evasione, sono inseriti Sergio Boeri per i rapporti con l’Università, e Gianni Barosco organizzatore<br />

d’incontri a tema con personaggi del mondo della cultura e dell’economia. Oggi il gruppo, in<br />

continua espansione, è rappresentato da oltre venti detenuti, di varia cultura e nazionalità, ed ha<br />

operato scelte strategiche su tre grandi aree, grazie al patrocinio d’Etica ed Economia, della<br />

Fondazione HP <strong>Italia</strong>, della collaborazione della Direzione, dei referenti interni ed esterni. La finalità di<br />

Liberi dagli Stereotipi è quella di sviluppare un senso autocritico attraverso la formazione culturale e<br />

grazie alla stessa superare le barriere della comunicazione per un giusto reinserimento sociale e nel<br />

mondo del lavoro.<br />

Ogni contributo o provento derivante dai progetti del Gruppo sarà utilizzato per la donazione di<br />

Borse di Studio alla Casa di Reclusione Rebibbia.<br />

Liberi dagli Stereotipi<br />

Casa di Reclusione Rebibbia<br />

Via Bartolo Longo, 72<br />

00156 Roma<br />

e-mail: liberidaglistereotipi@yahoo.it<br />

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