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IRENE STORNIOLO DÀIMONES 1 - Altervista

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INDICE<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

1. Introduzione: demonologia e dàimones:<br />

Il concetto di dàimon<br />

Platone e il dàimon socratico (greco)<br />

gli Stoici e Plutarco (greco)<br />

Apuleio (latino)<br />

Agostino (latino)<br />

Blake (inglese)<br />

gli Illuminati (storia)<br />

Arthur Schopenhauer: la natura "demoniaca" (filosofia)<br />

Demoni "sui generis":<br />

Callimaco e i Telchini (greco)<br />

il diavoletto di Maxwell e l'entropia (fisica)<br />

2. Spiritismo e satanismo:<br />

Dante Gabriel Rossetti e le sedute spiritiche (storia dell'arte)<br />

Chi è Lucifero? (religione) *<br />

Padre Amorth e gli esorcismi (religione)<br />

Il pianeta "luciferino": Venere (scienze)<br />

Filostrato II: Apollonio di Tiana e la vampira (greco)<br />

lo spiritismo in Pirandello e Svevo (italiano)<br />

Edgar Allan Poe, Ligeia (inglese)<br />

3. Magia e alchimia:<br />

Hermes Trismegisto (religione-greco) *<br />

il Corpus Hermeticum (greco)<br />

Asclepius (latino)<br />

Hitler e il nazismo magico (storia) *<br />

4. La donna come demone:<br />

Fosca, la donna-vampiro (italiano)<br />

il mito di Salomè:<br />

Franz Von Stuck (storia dell'arte)<br />

Aubrey Beardsley (storia dell'arte)<br />

Gustav Klimt (storia dell'arte)<br />

Oscar Wilde, Salomè (inglese)<br />

J.K. Huysmans (italiano)<br />

Gustave Moreau (storia dell'arte)<br />

D'Annunzio e Lucrezia-Salomè (italiano)<br />

5. Il "caso" Dalì:<br />

"L'ultima cena" (storia dell'arte)<br />

la sezione aurea (matematica)<br />

il pentagramma e il teorema della corda (matematica)<br />

Bibliografia e sitografia:<br />

N.B.: gli argomenti contrassegnati con un asterisco sono stati svolti tramite un lavoro di<br />

gruppo.<br />

1<br />

pag. 2<br />

pag. 2<br />

pag. 4<br />

pag. 5<br />

pag. 6<br />

pag. 8<br />

pag. 10<br />

pag. 12<br />

pag. 16<br />

pag. 16<br />

pag. 23<br />

pag. 9<br />

pag. 28<br />

pag. 29<br />

pag. 31<br />

pag. 36<br />

pag. 39<br />

pag. 41<br />

pag. 43<br />

pag. 45<br />

pag. 48<br />

pag. 50<br />

pag. 59<br />

pag. 63<br />

pag. 63<br />

pag. 66<br />

pag. 67<br />

pag. 69<br />

pag. 72<br />

pag. 72<br />

pag. 75<br />

pag. 79<br />

pag. 81<br />

pag. 92<br />

pag. 95


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

1. INTRODUZIONE<br />

DEMONOLOGIA E δαίμονες<br />

IL CONCETTO DI δαίμων<br />

Di etimologia incerta, il termine δαίμων è forse legato al verbo δαίομαι, "spartire", "distribuire", e quindi<br />

significherebbe "chi assegna o distribuisce il destino"; Platone invece, nel Cratilo (398 b), lo fa derivare da<br />

δαήμων, "sapiente", ma l'etimologia è improbabile; la verità è che si tratta di un termine dal significato oscuro<br />

e spesso ambiguo.<br />

Già in Omero si nota una differenza nell'uso di questo vocabolo; esso infatti nell'Iliade designa al plurale<br />

(δαίμονες) l'insieme degli dei olimpici, oppure singole divinità come Afrodite; nell'Odissea, invece,<br />

individua talvolta una potenza oscura e malvagia che si impossessa dell'uomo. Più frequentemente e<br />

genericamente, esso esprime però un potere divino che, anche se in certi casi viene a coincidere con qualche<br />

specifica divinità, non può essere con quella confusa: δαίμων non è intercambiabile con ϑεός, "dio".<br />

Forse per la sua stessa genericità e nebulosità<br />

semantica, la nozione di δαίμων descrive una<br />

potenza anonima che suscita angoscia,<br />

invisibile e non rappresentabile<br />

plasticamente.<br />

La religione orfica, erede di tradizioni<br />

antichissime, probabilmente di origine<br />

mediorientale, considera il dèmone come<br />

l'essenza stessa dell'anima, imprigionata nel<br />

corpo per una colpa compiuta e da cui cerca<br />

di liberarsi; vedremo come anche Platone sia<br />

portavoce di una concezione dell'anima simile<br />

a questa (è il famoso concetto di σῶμα-σῆμα,<br />

"corpo-tomba", ovvero corpo come carcere<br />

dell'anima, espressa soprattutto nel Fedone).<br />

A partire da Esiodo i δαίμονες cominciano a<br />

configurarsi come potenze intermedie tra gli<br />

dei, gli eroi e i mortali, e tale concezione si<br />

mantiene pressoché invariata fino a Socrate e<br />

a Platone, dove viene però ulteriormente<br />

sviluppata: il δαίμων è anche il compagno<br />

scelto nell'Ade dall'uomo prima di cominciare<br />

la sua esistenza terrena e che, dopo la morte,<br />

guida l'anima sino al luogo in cui deve essere<br />

giudicata.<br />

Phanes, l'Eros orfico, nascente dall'Uovo cosmico<br />

Inoltre Socrate parla di un δαίμων o spirito-guida che lo assiste in ogni sua decisione (si veda ad esempio<br />

l'Apologia di Socrate platonica). Si discute da tempo sull'esatto significato di questo termine: secondo Paolo De<br />

Bernardi (Socrate, il demone e il risveglio, in «Sapienza», vol. 45, editrice Domenicana Italiana, Napoli 1992,<br />

pagg. 425-43) esso sembra essere metafora dell'autentica natura dell'anima umana, della sua ritrovata<br />

coscienza di sé, mentre per Gregory Vlastos (Socrate il filosofo dell'ironia complessa, Firenze, La Nuova Italia,<br />

1998; ed.originale: Socrates: Ironist, and Moral Philosopher, 1991) il δαίμων ha la funzione di stimolare la<br />

ragione di Socrate a fare la scelta più opportuna; Giovanni Reale ritiene che il δαίμων esprima il sommo<br />

grado dell'ironia socratica anche nella dimensione religiosa (Socrate, Milano, Rizzoli, 2000).<br />

Tutto questo non solo non illumina la figura del dèmone socratico, ma rende, se possibile, ancor più oscura la<br />

materia; tanto più che Platone afferma chiaramente che si tratta di una presenza che si fa avvertire non già<br />

per indurre Socrate a compiere certe azioni, ma solo per distoglierlo: «C'è dentro di me non so che spirito<br />

2


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è<br />

come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade<br />

da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte» (Apologia di Socrate, 31 d).<br />

Per Platone il dèmone più importante è tuttavia Eros, che secondo il mito è figlio di Penìa (= Povertà) e di<br />

Pòros (= Espediente): esso infatti è quella forza soprannaturale che innesca nell'uomo il meccanismo<br />

dell'anàmnesi (= reminiscenza) e gli consente di elevarsi verso il mondo delle idee e verso l'idea che assomma<br />

in sé tutte le altre: quella del Bello, che è anche Bene (in sostanza è Dio).<br />

Innamorarsi (spiega Platone sia nel Simposio che nel Fedro) significa né più né meno riconoscere in qualche<br />

essere materiale la scintilla divina del Bello; questo porta con sé un risveglio della memoria, il ridestarsi di un<br />

sapere già presente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato nel momento in cui l'anima<br />

era precipitata nella materia (cioè al momento della nascita) ed era perciò inconscio. Per Platone e i<br />

neoplatonici, conoscere significa ricordare; e l'unica forza che consenta di ricordare è appunto Eros, "un<br />

demone grande", come lo definisce la sacerdotessa Diotima (Simposio 202, d-e). E ribadisce che "tutto ciò che è<br />

demonico è intermedio fra Dio e mortale" ed "opera un completamento, in modo che il tutto sia ben<br />

collegato con sé medesimo", in questo allineandosi, come si diceva, alla visione del dèmone propria di<br />

Esiodo.<br />

La concezione platonica dell'eros, attraverso la mediazione del neoplatonismo, sarà alla base di larga parte<br />

della cultura occidentale, a partire dalla riscoperta di Platone da parte di Marsilio Ficino e Pico della<br />

Mirandola in epoca umanistica. Di essa rimane una potente traccia nel romanzo di Apuleio, le Metamorfosi,<br />

in particolare nella favola di Amore e Psiche che ne occupa la parte centrale.<br />

Sidney Harold Meteyard, Eros, 1900<br />

Senòcrate, discepolo di Platone, ne approfondisce il pensiero sui dèmoni, che considera intermediari tra gli<br />

uomini e gli dèi, più potenti dei primi ma meno dei secondi; inoltre, a differenza di questi ultimi che sono<br />

sempre buoni, tra i dèmoni ve ne sono anche di cattivi: quando gli antichi miti narrano di dèi in lotta fra loro<br />

coinvolti in passioni umane, questi, per Senocrate, parlano di dèmoni, non di dèi. I dèmoni per Senocrate<br />

sono anime umane liberate dai corpi dopo la morte, e poiché permane in loro il conflitto tra bene e male,<br />

essi lo trasferiscono dalla Terra al mondo celeste.<br />

Nel Medioplatonismo la figura del dèmone viene inserita come terzo aspetto della gerarchia del divino<br />

dopo il Dio supremo e gli dèi secondari. Così Plutarco: «Platone, Pitagora, Senocrate, Crisippo, seguaci dei<br />

primitivi scrittori di cose sacre, affermano che i dèmoni sono dotati di forza sovrumana, anzi sorpassano di<br />

molto per estensione di potenza la nostra natura, ma non posseggono, per altro, l'elemento divino puro e<br />

incontaminato, bensì partecipe, a un tempo, di una duplice sorte, in quanto ad una natura spirituale e<br />

sensazione corporea, onde accoglie piacere e travaglio; e tale elemento misto è appunto la sorgente del<br />

turbamento, maggiore in alcuni, minore in altri. Così è che anche tra i dèmoni, né più né meno che tra gli<br />

3


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

uomini, sorgono differenze nella gradazione del bene e del male» (Plutarco, De Iside et Osiride, 25).<br />

Anche gli Stoici sostengono l'esistenza dei dèmoni, che concepiscono come entità che vigilano sugli uomini<br />

condividendone i sentimenti. Così Diogene Laerzio: «Gli stoici dicono, poi, che esistono anche alcuni<br />

dèmoni che hanno simpatia per gli uomini, che vigilano sulle cose umane, e anche che esistono eroi, ossia le<br />

anime sopravvissute dei virtuosi» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi VII, 151).<br />

E' interessante approfondire la concezione del demone propria di Plutarco (I secolo d.C.) ed in particolare la<br />

sua polemica con gli stoici proprio a questo riguardo: come osserva Roberto Radice nella prefazione a<br />

Plutarco e lo stoicismo di Daniel Babut (Vita e Pensiero 2003), sia nel De genio Socratis che nel De defectu<br />

oraculorum, nel De Iside et Osiride e nel De facie in orbe lunae (tutti saggi facenti parte dei Moralia), Plutarco si<br />

pone in netta contrapposizione con la demonologia degli stoici, rifiutando la loro visione del mondo<br />

monistica e proponendone una dualistica, in cui i demoni hanno il ruolo di mediatori tra il mondo e la<br />

divinità, la quale però non è affatto immanente, come per gli stoici, ma si situa nella trascendenza.<br />

Statua di Plutarco a Delfi<br />

Osserva il Babut (pagg. 488-9): "rispetto agli stoici, per Plutarco la demonologia rappresenta nello stesso<br />

tempo di più e di meno [...] poiché i demoni sono gli intermediari indispensabili tra cielo e terra, mentre il<br />

sistema stoico potrebbe a rigori farne a meno"; tuttavia, dal suo punto di vista, "i demoni non risolvono<br />

nessun problema."<br />

Per Plutarco, insomma, i demoni non hanno alcun senso se sono "le potenze oscure e capricciose della<br />

credenza popolare o le divinità di secondo livello della concezione stoica"; al contrario, essi sono per lui<br />

"esseri misti, tutte le manifestazioni dei quali - benigne o maligne - si inscrivono nell'ordine generale di un<br />

universo diviso tra due potenze", in un'ottica quindi pienamente dualistica. In questa concezione<br />

plutarchea, come si diceva, il divino è totalmente trascendente, mentre spetta proprio ai demoni il compito di<br />

fungere da anello di congiunzione tra il divino e il resto del mondo. Inoltre per Plutarco i δαίμονες sono<br />

soggetti a mutazione ed inseriti in un ciclo di trasformazioni che, da anime mortali, li promuove infine al<br />

rango di divinità.<br />

In questo senso Plutarco è chiaramente anticipatore delle posizioni neoplatoniche e gnostiche.<br />

Marco Aurelio, pur essendo un esponente di spicco della Terza Stoà, ha una concezione del dèmone che si<br />

discosta alquanto da quella stoica: il δαίμων per lui è l'anima intellettiva, che bisogna evitare di turbare con<br />

impressioni di origine sensibile: «inoltre rimane la cura di non insozzare il dèmone che ha preso dimora nel<br />

nostro petto, la cura di non turbarlo con impressioni confuse e molteplici; di mantenerlo sereno e benigno,<br />

tributandogli rituale e onore come a un Dio; e non dire nulla che sia contrario al vero; non far nulla contro<br />

giustizia» (Marco Aurelio, A se stesso III, 16).<br />

All'incirca nello stesso periodo di Marco Aurelio (II secolo d.C.), sulla scia del De genio Socratis di Plutarco,<br />

Apuleio pubblicò nel De deo Socratis la sua teoria sul δαίμων.<br />

4


Egli parte dal presupposto che gli dei della<br />

religione ufficiale sono troppo lontani dagli<br />

uomini per occuparsi veramente di loro; l'uomo<br />

perciò resta solo di fronte all'ignoto e non può<br />

portare davanti agli dei le sue preoccupazioni e<br />

le sue pene. A questo punto intervengono i<br />

δαίμονες, concepiti da lui in modo positivo,<br />

come forze benigne, modelli archetipici di<br />

quelli che saranno gli angeli nel Cristianesimo:<br />

messaggeri, portatori delle preghiere degli<br />

uomini, intermediari e ambasciatori tra il cielo<br />

e la terra.<br />

Ogni individuo ha il suo proprio δαίμων,<br />

termine che Apuleio traduce con la parola latina<br />

genius: una sorta di anticipazione dell'angelo<br />

custode.<br />

Nella concezione latina era proprio il genius a<br />

rendere genialis, e se una persona riusciva a<br />

coltivarlo durante la sua vita, lo stesso, dopo la<br />

morte, si evolveva in una forma più nobile<br />

chiamata Lare, divinità domestica, benefica e<br />

protettrice. In caso contrario, esso diventava<br />

una Larva o spirito malvagio.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

5<br />

Apuleio<br />

Apuleio afferma che certe personalità eccezionali, come Socrate o Esculapio, raffinarono il proprio δαίμων al<br />

punto che esso finì per diventare una parte autonoma e visibile di loro stessi, acquistando dopo la loro<br />

morte i caratteri di una divinità locale o collettiva.<br />

Il neoplatonismo, del quale Apuleio è esponente precoce, si pone sulle sue stesse posizioni, ma non sempre<br />

ne deduce le stesse indicazioni di comportamento: Plotino ad esempio (III secolo d.C.) fa coincidere angeli e<br />

dèmoni, considerandoli entrambi portatori di rivelazioni, guide delle anime preesistenti nel viaggio verso<br />

l’incarnazione sulla terra, partecipi della creazione, ma ritiene il loro culto indegno del filosofo, il cui<br />

sguardo dev'essere rivolto a cose spirituali di gran lunga superiori ed il cui scopo fondamentale, la visione<br />

mistica, è in totale contraddizione con la volgarità e la grossolanità delle pratiche magiche atte ad evocare i<br />

δαίμονες (si veda ad esempio John M. Rist, Eros e Psyche, Vita e Pensiero, Milano 1995).<br />

Proprio alla concezione positiva del δαίμων espressa da Apuleio e dai neoplatonici si oppone<br />

fermamente Sant'Agostino, che, pur stimando sia Platone che Apuleio, ritiene che essi siano gravemente in<br />

errore nella concezione dei demoni. Come abbiamo visto, infatti, i demoni erano ritenuti da Platone e dai<br />

neoplatonici intermediari benevoli, ed in una scala di prestigio si trovano sotto Dio ma sopra gli uomini.<br />

Agostino, nel De civitate dei (VIII, 14 segg. e IX passim) parte proprio dalla confutazione di questa<br />

concezione per arrivare alla sua definizione dei demoni, decisamente negativa: è da questo momento in<br />

avanti che i dèmoni diventano demòni, potenze maligne dell'occulto con le quali è possibile, anche a parere<br />

di Agostino, mettersi in contatto, ma soltanto per ricavarne del male.<br />

Ecco i passi fondamentali in cui Agostino spiega il suo pensiero:<br />

14.1. "Si dà, dicono i platonici, una tripartizione di tutti i viventi che hanno l'anima ragionevole, cioè in dèi,<br />

uomini e demoni. Gli dèi occupano la sfera più alta, gli uomini la più bassa, i demoni quella di mezzo. Infatti<br />

la sede degli dèi è nel cielo, degli uomini in terra, dei demoni nell'aria. Come hanno una differente dignità<br />

della sfera, così anche dell'essere.<br />

Perciò gli dèi sono superiori ai demoni e agli uomini, gli uomini sono posti sotto agli dèi e ai demoni tanto<br />

nel grado degli elementi come per differenza di perfezioni. Quindi i demoni sono al mezzo, e come sono da<br />

considerare inferiori agli dèi perché hanno dimora al di sotto di essi, così sono da considerare superiori agli<br />

uomini perché hanno dimora al di sopra.<br />

Hanno infatti comune con gli dèi l'immortalità del<br />

corpo e con gli uomini le passioni dello spirito.


Benozzo Gozzoli, Agostino che legge San Paolo, 1463<br />

(affresco della chiesa di Sant'Agostino<br />

a San Gimignano)<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

6<br />

Dunque non c'è da meravigliarsi, dicono, se godono<br />

dell'oscenità degli spettacoli e delle favole dei poeti,<br />

perché sono soggetti alle inclinazioni umane,<br />

mentre gli dèi ne sono ben lontani e immuni in tutti<br />

i sensi. Se ne conclude che Platone, riprovando e<br />

proibendo le favole poetiche, non privò del piacere<br />

degli spettacoli teatrali gli dèi, che sono tutti buoni<br />

ed eccelsi, ma i demoni."<br />

Ma Agostino corregge Platone, affermando che<br />

non è certo l'occupare un posto più alto che rende<br />

migliori. Infatti:<br />

17.1. "Rimane dunque che i demoni, come pure gli<br />

uomini, sono soggetti alla passione perché sono<br />

viventi non felici ma infelici. 17.2. Per quale<br />

dissennatezza dunque, o piuttosto forsennatezza,<br />

dovremmo renderci schiavi mediante una religione<br />

ai demoni, quando mediante la vera religione siamo<br />

liberati dall'imperfezione in cui siamo loro simili? I<br />

demoni infatti sono mossi all'ira [...]: a noi invece la<br />

vera religione comanda di non essere dominati<br />

dall'ira, ma piuttosto di resisterle.<br />

Mentre i demoni sono blanditi dai doni, a noi la<br />

vera religione comanda di non favorire alcuno<br />

dietro accettazione di doni. Mentre i demoni sono<br />

allettati dagli onori, a noi la vera religione comanda<br />

di non lasciarci in alcuna maniera attirare da essi<br />

[...].<br />

Quale motivo c'è dunque, se non una insipienza ed errore miserevole, di renderti schiavo col culto a uno da<br />

cui desideri esser diverso nella condotta e di adorare con la religione uno che ti rifiuti d'imitare, quando<br />

l'essenza stessa della religione è imitare l'essere che adori?"<br />

I demoni secondo Agostino, dunque, devono essere presi per ciò che sono, cioè esseri malvagi che tramano<br />

contro l'uomo:<br />

20. "[I demoni] sono spiriti smaniosi di fare il male, completamente alieni dalla giustizia, tronfi di<br />

superbia, lividi d'invidia, astuti nell'inganno. Abitano, è vero, nell'aria, ma solo perché, cacciati dalla<br />

sublimità del cielo più alto, sono stati condannati a causa di una caduta senza ritorno a questo, per così dire,<br />

carcere per loro conveniente. Non per il fatto, poi, che l'aria ha la sfera superiore alla terra e all'acqua<br />

essi sono superiori agli uomini in perfezione. Gli uomini anzi li superano di molto, non certo perché hanno<br />

un corpo terreno, ma in quanto hanno, scegliendo il vero Dio in aiuto, una coscienza religiosa.<br />

Essi però dominano come prigionieri e schiavi molti che non sono degni della partecipazione alla vera<br />

religione, e hanno convinto la maggior parte di costoro di esser dèi con fatti meravigliosi e false predizioni.<br />

Tuttavia non sono riusciti a persuadere di esser dèi alcuni individui che erano più attenti e perspicaci<br />

nell'intuire la loro immoralità; allora hanno dato ad intendere di essere intermediari e intercessori di favori<br />

fra gli dèi e gli uomini. Così alcuni individui ritennero di dover loro tributare per lo meno questo onore. Essi<br />

non credevano che fossero dèi, perché sapevano che sono malvagi e ritenevano che tutti gli dèi fossero buoni,<br />

ma non osarono ritenerli completamente indegni dell'onore divino, soprattutto per non contrariare i cittadini<br />

dai quali, come essi osservavano, per inveterata superstizione si offriva il servizio mediante tanti riti sacri e<br />

templi."


Agostino non potrebbe esprimere nel più chiaro dei<br />

modi il suo disprezzo per queste entità intermedie, le<br />

quali, nella sua concezione, sono al di sotto dell'essere<br />

umano, nella misura in cui entrambi hanno in<br />

comune con Dio una qualità, ma quella che l'uomo<br />

possiede è di livello superiore: infatti l'incorporeità<br />

che i demoni posseggono è inferiore alla razionalità e<br />

alla moralità che possiede l'uomo.<br />

L'uomo è dunque più vicino a Dio di quanto lo<br />

siano i dèmoni, e da parte sua l'affidarsi ad essi è<br />

suprema stoltezza.<br />

Agostino tuttavia crede nell'esistenza di potenze<br />

intermedie benevole e positive, gli angeli, ma ne<br />

chiarisce bene le caratteristiche nel libro X del De<br />

civitate Dei, precisando che la loro natura originaria è<br />

esattamente la stessa dei dèmoni, perché nella sua<br />

visione rigorosamente monistica non esiste che il<br />

principio del Bene (Dio), e le differenze determinatesi<br />

in seguito sono dovute unicamente alla libera scelta<br />

di alcuni di essi di allontanarsi dal Bene. Ecco quanto<br />

afferma Agostino a proposito degli angeli:<br />

7.1. "Dunque gli spiriti immortali e felici, stabiliti nelle<br />

sedi del cielo, che godono della partecipazione del<br />

loro Creatore, perché sono stabili della sua eternità,<br />

certi della sua verità, santi nel suo servizio, usano<br />

misericordia nell'amare noi mortali e infelici, affinché<br />

diveniamo immortali e felici.<br />

Giustamente quindi non vogliono che noi<br />

sacrifichiamo a loro, ma a colui del quale sanno di<br />

essere sacrificio assieme a noi. Assieme a loro infatti<br />

siamo un'unica città di Dio. [...] Una sua parte è esule<br />

in noi, l'altra ci viene in soccorso con loro.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

7<br />

Benozzo Gozzoli, San Gerolamo appare<br />

a Sant'Agostino, 1463<br />

(affresco della chiesa di Sant'Agostino a San<br />

Gimignano)<br />

Dalla città celeste, in cui la volontà di Dio è legge intelligibile e immutabile, da essa che in certo senso è la<br />

curia celeste, perché in essa si ha cura di noi, proviene a noi, somministrata mediante gli angeli santi, la<br />

Scrittura che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto. Grandi prodigi hanno comprovato<br />

questo passo della Scrittura, questa legge, simili comandamenti. È manifesto dunque a chi vogliono che noi<br />

sacrifichiamo gli spiriti eternamente felici, i quali desiderano per noi il medesimo bene che per se stessi."<br />

La differenza tra dèmoni (malvagi) ed angeli (buoni) è dunque facilmente comprensibile: i primi chiedono<br />

onore e venerazione per sé, i secondi invece per Dio.


La concezione agostiniana ha influenzato tutto il<br />

pensiero occidentale, e quello cristiano in<br />

particolare, per i secoli a venire.<br />

E' opportuno tuttavia precisare che l'idea e la<br />

percezione del δαίμων sembra comunque attestata<br />

in tutte le culture antiche, riuscendo a<br />

incorporarsi (centralmente o perifericamente) nelle<br />

grandi religioni tradizionali. Nell'Induismo, per<br />

esempio, è noto col nome di Atman, l'aspetto<br />

individuale di Brahman, o Sé universale.<br />

Uscendo da una prospettiva religiosa,<br />

nell'Occidente laico moderno il concetto di<br />

δαίμων è giunto attraverso due principali<br />

medium: quello scientifico-umanistico e quello<br />

artistico.<br />

Numerosissimi sono gli artisti che sono stati<br />

suggestionati dall'idea dei dèmoni, non solo intesi<br />

metaforicamente, come nella concezione della<br />

donna-demone o donna-vampiro tipica del<br />

Decadentismo (che cito solo di passaggio perché<br />

questa prospettiva esula dalle intenzioni della mia<br />

ricerca), ma anche considerati come presenze<br />

reali, positive o negative a seconda dei casi.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

8<br />

William Blake, Il Grande Drago Rosso<br />

e la donna vestita di sole (1806-1809)<br />

Fra i casi più interessanti cito quello di William Blake, il grande pittore e poeta vissuto tra il XVIII e il XIX<br />

secolo, profondamente religioso, ma di una religiosità assolutamente distante da quella ufficiale: egli era<br />

infatti convinto che la religione praticata nel mondo fosse in realtà un culto demoniaco. Era convinto che i<br />

cristiani, anche a causa del loro rifiuto della gioia terrena, in realtà adorassero Satana; egli concepiva Satana<br />

come un errore e come uno stato di morte, per cui riteneva che il modo migliore per adorare Dio fosse quello<br />

di accogliere in sé tutta la gioia possibile.<br />

Si leggano ad esempio questi versi della poesia The Garden of Love: «And priests in black gowns were walking<br />

their rounds, And binding with briars my joys and desires» («e preti in vesti nere vi giravano attorno,<br />

e incatenavano con rovi le mie gioie e i miei desideri»).<br />

Egli quindi si opponeva ai sofismi teologici che giustificano il dolore, ammettono il male e trovano<br />

pretesti per lasciare l'ingiustizia impunita.<br />

Blake sostenne di aver avuto visioni per tutta la vita, e di esse lascia traccia evidente nei suoi dipinti.<br />

Inoltre Blake affermava di ricevere personalmente istruzioni ed incoraggiamento dagli Arcangeli per creare<br />

le sue opere. Di lui William Wordsworth ha scritto: «Non c'è dubbio che questo poveraccio fosse pazzo, ma<br />

c'è qualcosa nella sua pazzia che attira il mio interesse più dell'equilibrio di Lord Byron e Walter Scott».<br />

Un altro caso ben noto è quello di Edgar Allan Poe, i cui Racconti del terrore mettono in scena visioni<br />

inquietanti di non-morti o di strani ectoplasmi, lasciando spesso il lettore in dubbio sulla loro natura (reale o<br />

originata dalla fantasia malata del protagonista?), come nel caso di Ligeia, La maschera della morte rossa o<br />

Morella.<br />

Ma anche scrittori come Pirandello o Svevo hanno ceduto alle suggestioni del mondo demònico, dando<br />

spazio nei loro romanzi (Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno) a sedute spiritiche, sulle quali ironizzano<br />

cautamente, lasciando intendere che potrebbe esserci del vero.


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Se spesso gli artisti hanno fatto oggetto della propria arte i dèmoni, ben più inquietante è il caso di coloro che<br />

si sono personalmente dedicati ad attività occultistiche, divenendo talvolta adepti di sette sataniche o<br />

entrando a far parte di società segrete in vario modo connesse con l'evocazione dei dèmoni.<br />

E' il caso ad esempio di Dante Gabriel Rossetti, caposcuola dei Preraffaelliti, che, ossessionato dalla moglie<br />

suicidatasi per causa sua, Elizabeth Siddal, tentò ripetutamente di mettersi in contatto con lei attraverso<br />

sedute spiritiche e ne fece perfino disseppellire il cadavere, finendo per ridursi in condizioni di quasi totale<br />

dissesto psichico; e, in tempi più recenti, di Salvador Dalì, di cui si dice che sia stato l'ultimo "Ormus" (=<br />

Grande Maestro) dei Rosacroce, notoriamente dedito a pratiche magiche, soprattutto a causa dell'influsso<br />

(qualcuno dice "plagio") esercitato su di lui dalla moglie Gala. Di questa sua attività resta traccia evidente in<br />

alcuni suoi dipinti; uno di questi è, a mio parere, particolarmente interessante in tal senso, e ad esso ho<br />

dedicato un intero capitolo. Si tratta dell'Ultima Cena conservata alla National Gallery of Art di Washington,<br />

del 1955.9<br />

Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70<br />

(la modella è la moglie Elizabeth Siddal, morta nel 1862)<br />

Il concetto di dèmone è stato immediatamente recepito anche dalla psicoanalisi, dove è stato di volta in volta<br />

identificato con i concetti di "anima", "animus", "ombra", "alter-ego", "doppio" o "sé". Una lettura junghiana lo<br />

definirebbe come la forma preconscia dell'individualità, intesa come "io" preconscio e "sé" preconscio insieme,<br />

9


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

ossia come il nocciolo della personalità totale. J. Hillman, ne Il codice dell'anima, rielabora e amplifica la<br />

trattazione platonica esistente al riguardo denominandola "teoria della ghianda": la ghianda è l'immagine<br />

guida del nostro destino, che l'anima si sceglie prima di nascere affidandola non al nostro "io", ma a un<br />

"altro", il δαίμων appunto, che ha il compito di renderla operante, liberandola al momento opportuno e<br />

sfruttando allo scopo ogni possibile situazione, buona o cattiva che sia. "L’io non è padrone in casa sua",<br />

diceva sgomento Freud; "Je est un autre" (io è un altro), diceva esaltato Rimbaud, in accordo con Verlaine:<br />

concetto ripreso da Picasso, che lo riferiva a sé come il suo demone creativo, tormento ed estasi della sua vita<br />

(insieme alle donne).<br />

E' appena il caso di ricordare, poi, che in tempi recentissimi il tema è stato riportato potentemente in auge da<br />

Dan Brown: proprio Angeli e dèmoni è il titolo di un suo celebre best-seller del 2000, dal quale nel 2009 è<br />

stato ricavato anche un film di successo; in esso il concetto del δαίμων viene strettamente collegato con le<br />

pratiche occulte (e, ovviamente, inconoscibili) della setta degli Illuminati, in origine società segreta bavarese<br />

del XVIII secolo, che nella contemporaneità sembra adombrare diverse società massoniche (la cosiddetta<br />

"massoneria deviata"). Queste società segrete, secondo l'opinione di molti, sarebbero di una estrema<br />

pericolosità, non solo perché dedite a pratiche sataniche (le loro filiazioni sataniche più note sarebbero la<br />

Rosa Rossa e la Croce d'Oro, collegate ad alcuni delitti efferati rimasti inspiegati, ad esempio quelli del<br />

"mostro di Firenze", di Erba e di Cogne), ma anche e soprattutto perché riunirebbero fra i loro adepti le<br />

famiglie economicamente più potenti - e quindi politicamente più influenti - del mondo (in totale, si dice,<br />

diciassette: tredici "ufficiali" e quattro "affiliate", fra cui la famiglia Disney); la loro finalità sarebbe il controllo<br />

sulle menti della gente (mind control) attraverso svariati strumenti, principalmente i mass media, il cinema<br />

per bambini, la musica pop, la moda e la pubblicità, allo scopo di produrre una regressione intellettuale e<br />

morale del genere umano ed assicurarsi così il potere assoluto sul mondo, riducendo gli uomini ad una<br />

massa di imbecilli plagiati fin da piccoli (si veda Lady Gaga, i cui video sono disseminati di riferimenti fin<br />

troppo trasparenti agli Illuminati: è il caso ad esempio di quello di Paparazzi, che contiene fra l'altro<br />

un'evidente allusione alla Disney, attraverso il personaggio di Mickey Mouse).<br />

E', né più né meno, la realizzazione dello scenario distopico delineato già da Ray Bradbury in Fahrenheit 451<br />

e da George Orwell in 1984.<br />

Lady Gaga compie un gesto ricorrente nei suoi video,<br />

allusivo alla setta degli Illuminati<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

In anni recenti anche la filosofia, sia pure "debolmente", è sembrata aprirsi all'accoglimento di questo mistero<br />

"psicospirituale" con un testo di Massimo Cacciari (il filosofo più noto come politico ed ex-sindaco di<br />

Venezia), L'angelo necessario, in cui però l'autore distingue nettamente l'angelo dal δαίμων: quest'ultimo<br />

chiama dall'idea alla forma, e per questo è perentorio; l'angelo chiama invece dalla forma all'idea, e per<br />

questo è leggiadro.<br />

Da buon filosofo, Cacciari vede l'oltre solo nell'angelo, mentre da un punto di vista simbolico-contemplativo<br />

sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l'invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in<br />

rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto. Ma non esiste l'uno senza l'altro, fermo restando<br />

che è comunque il δαίμων che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio<br />

compito nel mondo).<br />

A questo proposito, osserva Baldo Lami, "sarebbe interessante e molto educativo per tutti noi poter rileggere<br />

la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine<br />

grazie alla doppia interlocuzione con l'angelo-δαίμων.<br />

Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi "eletti", ma l'esperienza del δαίμων è veramente molto più<br />

comune di quel che non si creda": basti pensare che Eros, come si è detto, è considerato da Platone un<br />

δαίμων, e dell'amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che, conclude Lami, "viene poi confinato e<br />

riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell'innamoramento, anziché<br />

considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo".<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

SCHOPENHAUER: LA NATURA "DEMONIACA"<br />

E' noto che la filosofia di Arthur Schopenhauer (1788-1860) prende le mosse dall'opposizione<br />

all'identificazione hegeliana tra realtà e razionalità. Schopenhauer riprende, pur con alcune differenze, la<br />

concezione kantiana secondo la quale i fenomeni esistono solo in quanto oggetti della percezione,<br />

dissentendo però da Kant sul fatto che la "cosa-in-sé" sia un limite irraggiungibile, posto oltre l'esperienza;<br />

egli la identifica invece con la volontà (Wille).<br />

La volontà non si identifica affatto con l'azione consapevole, come nell'accezione corrente del termine: tutta<br />

l'esperienza del sé, comprese le inconsapevoli funzioni fisiologiche, è volontà. La volontà è l'intima natura<br />

del proprio corpo, che è "rappresentazione", cioè apparenza fenomenica nel tempo e nello spazio.<br />

Schopenhauer concluse che l'essenza del mondo materiale, cioè della natura, è un'unica volontà<br />

universale.<br />

L'uomo può percepire soltanto i fenomeni nel mondo e non la "cosa in sé", ovvero come il mondo realmente<br />

è, a causa del velo di Maya, il velo dell'illusione che ottenebra le pupille dei mortali.<br />

Sollevato il velo di Maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo, dietro l'apparenza razionale<br />

del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che<br />

non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di<br />

vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale.<br />

È questo per Schopenhauer il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà.<br />

Ludwig Sigismund Ruhl, Ritratto di Schopenhauer, 1815<br />

Per Schopenhauer il tragico dell'esistenza scaturisce dalla caratteristica della volontà di vita di spingere<br />

l'individuo al raggiungimento di mete successive senza potersi mai placare, poiché la volontà è infinita.<br />

Essa conduce pertanto l'individuo al dolore, alla sofferenza e alla morte e in un ciclo infinito di nascita, morte<br />

e rinascita.<br />

L'attività della volontà può essere portata alla cessazione mediante un atteggiamento ascetico, nel quale la<br />

ragione governa la volontà cercando di placare la lotta. Questo atteggiamento viene definito noluntas,<br />

12


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

termine che sta ad indicare la condizione della volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua<br />

catarsi definitiva, non più propriamente "volontà", ma "non volontà".<br />

Il tema della morte in Schopenhauer ci introduce nel più chiaro dei modi a questa visione della natura come<br />

concretizzazione del Wille. Questa visione oscilla tra due polarità opposte: la concezione della natura come<br />

produttrice di forme di bellezza e la denuncia della sua essenza demoniaca e cannibale.<br />

Egli parte dalla considerazi Schopenhauer rifiuta di collegare semplicisticamente noncuranza e terrore come<br />

se la prima fosse un modo di reagire e di rimuovere questo terrore sempre incombente, quindi come se vi<br />

fosse tra entrambi un nesso puramente psicologico; e nemmeno accetta una spiegazione razionale, come se<br />

cioè la noncuranza fosse il risultato di una riflessione e di un ragionamento implicito sull'ineluttabilità della<br />

morte. Si tratta piuttosto di scoprire le radici metafisiche di questi sentimenti: esse rimandano all'essenza<br />

del reale che è volontà, e nello stesso tempo al superamento del momento empirico-fenomenico.<br />

Nel terrore di fronte alla morte parla in realtà la voce stessa della natura, intesa come concretizzazione<br />

della volontà, che è essenzialmente volontà di vivere. E proprio questo sentimento attesta che «tutto il nostro<br />

essere in se stesso è già volontà di vita, a cui questa deve valere come il sommo bene, per quanto<br />

amareggiata, breve ed incerta essa sia» (Supplementi, II, XLI, p. 482). E poiché la volontà non è affatto<br />

distribuita e spezzettata fra gli individui, ma è presente nella sua totalità in ciascun individuo, allora si<br />

comprende che l'orrore della morte è orrore che il principio metafisico stesso manifesta di fronte all'idea<br />

della propria autodistruzione.<br />

Caspar David Friedrich, Il naufragio della Speranza, 1823-24<br />

«Nel linguaggio della natura la morte significa annientamento» (ivi, p. 481) - ed è significativo che<br />

l'annientamento sia anzitutto annientamento del corpo che è «oggettivazione immediata della volontà». Ma<br />

anche la noncuranza è, alle sue radifici, noncuranza della natura: la morte - dice Schopenhauer - «dissipa<br />

l'illusione che separa la coscienza individuale da quella universale» (M 324), ricongiungendo la mia vita<br />

alla totalità vivente del mondo. Ed allora possiamo veramente essere noncuranti della morte, e in un senso<br />

13


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

profondo, che può arrivare alla piena consapevolezza dell'intramontabilità del presente che è anche<br />

l'intramontabilità della vita. Il presente è allora paragonabile ad un «eterno mezzogiorno al quale non mai<br />

succede la sera, o come il vero sole che arde ininterrottamente benché sembri tuffarsi nel seno della notte»<br />

(Mondo, 1985, p. 324).<br />

Sullo sfondo di ciò vi certamente sempre il pensiero dell'effimero. Ma questo pensiero deve essere pensato<br />

attraverso l'idea di una ricongiunzione con la totalità, da cui l'individualità è stata scissa per entrare nel<br />

vortice di un mondo che è mera apparenza. In questa totalità la morte è, non meno della nascita, una vicenda<br />

interna della vita, essa appartiene alla vita immortale della natura (Mondo, 1985, § 54, p. 317). Un concetto<br />

non molto lontano da quello di mors immortalis di Lucrezio.<br />

Questa vitalità della natura ha nel ciclo corporeo il proprio modello elementare: in esso vi è acquisizione<br />

ed espulsione di materia e tra acquisizione ed espulsione generazione continua di cellule vitali. E così nello<br />

sviluppo della pianta la foglie e i fiori caduti a terra rappresenteranno il suo concime. La «fresca esistenza»<br />

di ciascuno è «pagata con la vecchiezza e la morte di un defunto, il quale è perito, ma che conteneva il<br />

germe indistruttibile dal quale è nato questo nuovo essere: essi sono un essere solo» (Supplementi, 1986, II,<br />

XLI, p. 521).<br />

one che l'atteggiamento quotidiano dell'uomo nei confronti della morte altalena tra noncuranza e terrore. Di<br />

questi stati affettivi Schopenhauer propone una notevole spiegazione psicologico-metafisica.<br />

La morte incombe su ciascun individuo come un evento che può intervenire in ogni istante in modo più o<br />

meno inatteso, più o meno fortuito. Eppure ciascuno, nella misura del possibile, vive lietamente «come se la<br />

morte non ci fosse» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1985, p. 324). Non appena però ci si trova<br />

realmente faccia a faccia con la morte o anche soltanto ci si immagina di esserlo, a questa noncuranza<br />

subentra il terrore di essa: l'individuo cerca allora con ogni mezzo di fuggirla.<br />

Caratteristica primaria del Wille nella sua immediata concretizzazione naturale è la produzione spontanea di<br />

bellezza. «Ogni pezzetto di terra non coltivato ed inselvatichito, - scrive Schopenhauer - cioè abbandonato<br />

liberamente a se stesso, per quanto sia piccolo, purché la zampa dell'uomo ne resti lontana, si decora<br />

immediatamente nel modo più bello, si veste di piante, di fiori e di cespugli, il cui spontaneo essere, la cui<br />

grazia naturale e il vago raggruppamento dimostrano che non sono cresciuti sotto la sferza del grande<br />

egoista e che la natura ha potuto liberamente svilupparsi. Ogni pezzo abbandonato diviene<br />

immediatamente bello. Su ciò si fonda il principio del giardino inglese, il quale consiste nel nascondere il<br />

più possibile l'arte, in modo da fare apparire che qui la natura ha liberamente dominato. Perché solo allora<br />

essa è perfettamente bella, cioè mostra nella più grande chiarezza l'obbiettivazione della volontà alla vita<br />

ancor priva di conoscenza che qui si dispiega con la più grande ingenuità, perché le forme non sono<br />

determinate, come nel mondo animale, da scopi esteriori, ma solo immediatamente dal suolo, dal clima e da<br />

un misterioso terzo in grazia del quale tante piante, che sono sorte dallo stesso suolo e nello stesso clima,<br />

pure mostrano forme e caratteri così diversi» (Supplementi, 1986, II, XXXIII, p. 418).<br />

Ma vi è in ogni caso, al di sotto di questa spontanea manifestazione di bellezza, un aspetto demoniaco della<br />

natura, che ha le sue radici proprio nella volontà di vivere come principio metafisico. "Non divina, ma<br />

demoniaca merita di essere chiamata la natura" - cita Schopenhauer da Aristotele (Supplementi, I, 1986, p.<br />

362) . E questo demonismo viene fissato da un'immagine terribile: quella di una natura in cui si riversa una<br />

fame insaziabile, della vita universale come un pasto immane, in cui tutti divorano tutti, «ogni individuo è<br />

preda e nutrimento dell'altro», cosicché infine «la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa<br />

di sé in diverse forme il suo nutrimento» (Mondo, 1985, § 27, p. 185).<br />

14


Simeon Solomon, Dioniso, 1867<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

15<br />

Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 1819-<br />

23<br />

La natura, sotto la maschera splendida e sorridente di Dioniso, nasconde le orribili fattezze del Saturno di<br />

Goya (1820-1823), immagine perfetta del cannibalismo della Volontà.


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

DEMONI "SUI GENERIS"<br />

CALLIMACO E I TELCHINI<br />

Callimaco (Cirene, 305 a.C. - Alessandria d'Egitto, 240 a.C.) è il teorizzatore del nuovo modo di intendere la<br />

poesia che si affermò nel III secolo a.C.; com'è noto, nei suoi scritti egli diede ampio spazio alle dichiarazioni<br />

di poetica.<br />

Tra i suoi testi superstiti, quelli da cui ricaviamo i caratteri principali della sua poetica sono i seguenti:<br />

Primo prologo degli Àitia: contiene il racconto dell'investitura poetica di Callimaco da parte delle Muse,<br />

avvenuta in sogno; rimanda allusivamente al prologo della Teogonia di Esiodo, la cui poesia è implicitamente<br />

anteposta all'altisonante epos omerico.<br />

Secondo prologo degli Àitia: contiene la celebre invettiva contro i "Telchini", dèmoni maligni che<br />

adombrano i suoi detrattori. Essi gli rimproverano di non saper comporre grandi poemi: Callimaco si difende<br />

affermando il concetto che "l'arte si misura con l'arte, non con la pertica persiana".<br />

Finale dell'Inno II (ad Apollo): Apollo scaccia con una pedata il demone dell'invidia, Φθόνος (Phthònos), il<br />

quale sostiene che è bella solo la poesia "grande come il mare", contrapponendola ovviamente alle opere di<br />

Callimaco; Apollo, dio della poesia e quindi giudice inappellabile, replica che perfettamente pura è solo<br />

l'acqua che sgorga da una piccola sorgente, mentre l'Eufrate trascina con sé detriti di ogni sorta. Di queste<br />

parole di ricorderà Orazio (Satire 1, 4, 11) nel criticare il suo predecessore Lucilio, di cui dirà che lutulentus<br />

fluebat, "scorreva fangoso".<br />

Presunto ritratto di Callimaco<br />

Epigramma 43: esprime profonda avversione per il ποίημα τὸ κυκλικόν e per "l'amante che a tutti si dona"<br />

(la poesia volgare).<br />

Frammento 398 (epigramma): deride la "Lide" di Antìmaco di Colofone definendola "una grossa donna"<br />

(avversione verso le opere di grandi dimensioni).<br />

Frammento 456 (non identificato): dice testualmente: τὸ μέγα βιβλίον... ἴσον τῷ μεγάλῳ κακῷ (più o<br />

meno "grande libro uguale grande schifezza").<br />

Giambo IV (contesa tra l'alloro e l'ulivo): adombra una contesa letteraria di cui ci sfuggono i termini esatti.<br />

Nella contesa fra le due piante, che rappresentano modi opposti di concepire la poesia (probabilmente l'epos<br />

e la poesia didascalica), ma hanno entrambe una certa dignità, s'intromette un rovo che cerca di dire la sua,<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

ma viene messo seccamente a tacere.<br />

Giambo XIII: Callimaco difende la sua Musa dagli attacchi dei detrattori, riallacciandosi alla tradizione di<br />

Ipponatte e Mimnermo.<br />

Epigramma 21: epitafio per il padre del poeta, in cui Callimaco afferma di avere vinto la βασκανίη (=<br />

maligna invidia).<br />

Epigramma 525: ancora per il padre morto. Callimaco afferma di avere composto carmi κρείσσονα<br />

βασκανίης ("più forti dell'invidia").<br />

Ibis: era tutto (pare) una feroce invettiva contro un avversario ignoto (forse Apollonio Rodio), paragonato,<br />

per motivi che non conosciamo ma che si possono facilmente intuire, all'uccello egiziano dalle discutibili<br />

abitudini igieniche (lo si riteneva coprofago). Lo imitò Ovidio nell'omonimo componimento.<br />

"Contro Prassìfane": opuscolo perduto contro Prassìfane, discepolo di Aristotele, in difesa della propria<br />

poetica.<br />

Il testo di gran lunga più importante è il cosiddetto "proemio dei Telchini", ovvero il secondo proemio<br />

degli Àitia.<br />

Esso è ispirato da un'evidente intenzione polemica nei confronti dei suoi detrattori, definiti appunto<br />

"Telchini" per motivi che chiarirò in seguito, i quali avevano mal giudicato la prima edizione degli Àitia, in<br />

due libri; le accuse vertevano, pare, sulla disorganicità e sulla mancanza di unitarietà dell'opera, composta di<br />

elegie staccate e prive di un centro unificatore, eccezion fatta per il tenue fil rouge costituito dalla finzione<br />

delle domande poste da Callimaco alle Muse che gli erano apparse in sogno nel proemio "esiodeo": ogni<br />

domanda verteva sulle origini o sulle antiche cause di un qualche fenomeno contemporaneo, da cui il titolo<br />

di Àitia, "Origini" o "Cause"; a tali domande le Muse rispondevano soddisfacendo la curiosità del poeta. Si<br />

trattava dunque di poesia "eziologica" (letteralmente: "che ricerca le cause").<br />

Callimaco risponde da par suo alla stroncatura di questi critici: non solo non fa ammenda delle "colpe"<br />

riconosciutegli, ma peggiora la situazione dando alla luce una seconda edizione dell'opera, in quattro libri,<br />

nella quale non solo mantiene intatte le caratteristiche della prima edizione, ma addirittura sopprime la<br />

finzione del botta-e-risposta con le Muse, eliminando così il già sottilissimo legame tra le varie elegie. E' a<br />

questo punto che aggiunge un secondo proemio, senza eliminare il primo: si tratta appunto del "proemio<br />

dei Telchini".<br />

Gustave Moreau, Esiodo e la Musa, 1891<br />

Questo proemio, in aperta polemica con gli avversari del poeta, espone tutti i principi essenziali della<br />

poetica di Callimaco, che sarà fatta propria dall'intero alessandrinismo e più tardi, in Roma, dai poeti<br />

preneoterici (il "circolo di Lutazio Catulo", fiorito verso la fine del II secolo a.C.) e dai poëtae novi, chiamati<br />

ironicamente da Cicerone neoteroi (comparativo assoluto: "abbastanza nuovi"), attivi in Roma nel I secolo a.C.<br />

17


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

e per noi rappresentati quasi solo da Catullo; non a caso questi principi sono noti attraverso la sintetica<br />

formula latina brevitas atque ars e la terminologia in uso per definirli è latina: levitas, brevitas, novitas, ars<br />

(o labor limae), doctrina, varietas.<br />

Più in dettaglio si tratta di questo:<br />

a. insofferenza per l'impegno ideologico e per la retorica; di conseguenza, ricerca del disimpegno e della<br />

leggerezza (levitas, λεπτότης) e concezione della poesia come "gioco" (lusus, παίγνιον);<br />

b. avversione per i componimenti "grossi" (cioè estesi: caso tipico il poema epico-ciclico) e ricerca della<br />

brevitas;<br />

c. disprezzo per il passato poetico della Grecia (dal quale restano esclusi Esiodo, qualche lirico come<br />

Ipponatte e, con riserva, Omero), in una ricerca esasperata della novitas;<br />

d. svalutazione del contenuto rispetto alla forma (poesia "pura" o "verbale") e produzione di<br />

componimenti ricercatissimi sul piano formale, al limite anche astrusi (ars, labor limae);<br />

e. ostentazione dell'erudizione, vero e proprio segno di riconoscimento fra intellettuali, teso ad escludere<br />

dalla fruizione dell'opera la massa degli zotici, ovvero di tutti coloro che non sono in possesso dei mezzi atti<br />

alla decifrazione dell'allusione colta (doctrina);<br />

f. dal punto di vista del contenuto, tendenza al realismo (sia pure, spesso, di maniera), al quotidiano, al<br />

sentimentalismo, oppure alla ricerca di temi mitologici peregrini o marginali, svuotati di ogni pregnanza<br />

ideologica (il mito diventa mitologia, semplice repertorio di favole), nella esasperata rincorsa di una varietas<br />

che renda piacevole e mai noiosa la lettura.<br />

Riporto di seguito il testo del proemio così come si trova nei papiri, con la traduzione di Giuseppe Rosati a<br />

fianco, sottolineando i punti in cui Callimaco espone la sua poetica ed indicando a fianco le lettere che<br />

corrispondono ai princìpi di poetica prima elencati:<br />

Spesso i Telchini mormorano contro la mia arte,<br />

ignoranti, che della Musa non nacquero amici,<br />

perché non un solo canto continuato o di re<br />

a gloria in molte migliaia di versi ho compiuto<br />

Un buffo giocattolo che rappresenta un Telchino<br />

(è evidente la sua natura anfibia)<br />

18<br />

a.<br />

b.


certo sì io ero poeta di pochi versi, ma supera<br />

di molto la lunga *** la feconda Demetra (1).<br />

E delle due opere, che Mimnermo fu un dolce poeta,<br />

i carmi brevi, non la grande donna (2)<br />

ce l'hanno mostrato. Lungi verso la Tracia dall'Egitto voli<br />

del sangue dei Pigmei godendo la gru,<br />

e i Massàgeti (3) lungi lancino il dardo contro<br />

il Medo; ma più dolci così sono gli usignoli.<br />

Alla malora, funesta stirpe della Maldicenza, e in avvenire<br />

con l'arte giudicate, non con la pertica persiana, la mia<br />

poesia, né da me cercate che un canto molto risonante<br />

nasca; tuonare non spetta a me, ma a Zeus.<br />

Quando infatti la prima volta la tavoletta posi sulle mie<br />

ginocchia, così mi disse Apollo Licio:<br />

«La vittima, o diletto cantore, il più possibile grassa<br />

bisogna allevarla, ma la Musa, o mio caro, sottile.<br />

Inoltre anche questo voglio consigliarti: le vie che non<br />

battono i carri devi calcare, né sulle stesse orme di altri<br />

spingere il cocchio né per largo cammino, ma per sentieri<br />

non calcati, anche se per una via più angusta dovrai<br />

guidarlo». A lui porsi ascolto: ché fra quelli cantiamo che<br />

l'armonioso canto della cicala amano, non il raglio degli<br />

asini. Al modo stesso dell'orecchiuto animale levi il suo<br />

raglio un altro, io sia invece l'esile, l'alata (4),<br />

ah sì in tutto, perché la vecchiaia perché la rugiada: questa<br />

(5) io canti sorbendola, mattutino alimento, dal divino<br />

etere, di quella (6) poi mi spogli, che con tanto peso mi<br />

sovrasta come la tricuspide isola sullo sventurato Encelado<br />

(7). Ma non mi curo: quanti infatti da fanciulli le Muse<br />

guardarono con occhio benigno, da vecchi, a lor cari, non li<br />

abbandonano.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

19<br />

b.<br />

b.<br />

b.<br />

b.<br />

b.<br />

d.<br />

d., b.<br />

a.<br />

a.<br />

a.<br />

a., b.<br />

c.,e.,f.<br />

c.,e.,f.<br />

c.,e.,f.<br />

(1) Probabile allusione alla Demetra di Filita di Cos, poeta elegiaco di poco precedente rispetto a Callimaco e<br />

molto stimato dagli Alessandrini; la lacuna conteneva il nome di un'opera non apprezzata da Callimaco,<br />

forse la Lide di Antìmaco; (2) forse la Smirneide (o la Nannò) di Mimnermo, opere comunque perdute; (3) la<br />

gru e i Massàgeti designano metaforicamente la forma "lunga" della poesia epico-ciclica; (4) la cicala,<br />

ovviamente; (5) la rugiada; (6) la vecchiaia; (7) Encèlado era un gigante che, secondo il mito, stava disteso<br />

sotto l'Etna.<br />

Ma chi erano esattamente i Telchini?<br />

La questione ha due aspetti ben distinti: trattandosi infatti di una metafora, ovvero di un tropo, al<br />

significato letterale si sovrappone un significato figurato: da una parte occorre perciò comprendere chi siano<br />

i Telchini come creature mitiche (significato letterale), dall'altra a chi alluda metaforicamente Callimaco<br />

(significato figurato).<br />

Stranamente, è più facile dare una risposta a questa seconda domanda, dal momento che un papiro noto<br />

come "Scolio fiorentino" ce ne riporta l'elenco. I nemici di Callimaco adombrati come "Telchini" risultano<br />

essere i seguenti:<br />

1. I due Dionisii (?);<br />

2. Asclepiade di Samo;<br />

3. Posidippo di Pella;<br />

4. Prassìfane di Mitilene.<br />

L'identità dei "due Dionisii" non è nota; ovvia la presenza dell'aristotelico Prassìfane, con cui sappiamo che<br />

Callimaco era in polemica; ma abbiamo una doppia sorpresa: la presenza nella lista di Asclepiade e<br />

Posidippo, epigrammatisti, che a noi sembrano condividere pienamente i princìpi di poetica di Callimaco, e<br />

soprattutto l'assenza di Apollonio Rodio, l'allievo "degenere" di Callimaco.<br />

b., d.<br />

b., d.<br />

b., d.<br />

b., d.<br />

a.<br />

a.


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Eppure è lui il primo al quale avremmo pensato, sia perché i Telchini sono originari di Rodi, sia perché<br />

sappiamo che Apollonio era entrato in aspro conflitto con il maestro dopo che gli era stata attribuita l'ambìta<br />

carica di epistàtes della Biblioteca di Alessandria, carica che ben più sensatamente avrebbe dovuto essere<br />

attribuita a Callimaco. Proprio Apollonio, pare, costituiva il bersaglio dell'Ibis.<br />

Ma non è questo che importa dal punto di vista della mia ricerca: di gran lunga più interessante è capire chi<br />

erano i Telchini secondo il mito.<br />

Un Telchino nella fantasia di un cartoonist giapponese<br />

In genere la loro figura viene ricostruita così: i Telchini erano dèmoni originari dell’isola di Rodi, protettori<br />

dell’arte siderurgica e molto gelosi della loro arte, terribilmente invidiosi di chi era più bravo di loro e capaci<br />

di fare del male con il potere dello sguardo.<br />

Essi erano messi in rapporto con il dio del mare Posidone, che essi avevano allevato, così come i Cureti (con i<br />

quali hanno molti aspetti in comune) avevano allevato Zeus. Una evidente primordialità caratterizza i<br />

Telchini, che risultano anfibi, con tratti marini e terrestri, e ambivalenti. Oltre che anfibi erano anche<br />

polimorfi, avendo la facoltà di cambiare forma. L'ambivalenza si esprime nel fatto che, pur avendo una<br />

potenza malefica nello sguardo (il "malocchio", appunto), erano anche inventori e artisti; e potevano far<br />

cadere la pioggia, sia benefica sia distruttiva.<br />

I Telchini erano diciassette in tutto: Aktaios (Actaeus), Argyron, Atabyrius, Chalcon, Chryson, Hormenius,<br />

Lykos (Lycus ou Lyktos, l'eroe eponimo della Licia), Megalesius, Mylas, Nicon, Simon, Zenob, Skelmis,<br />

Damnameneus, Damon (Demonax), Megalesios, Ormenos.<br />

Ma ancor più interessante e insolito è ciò che trovo nel libro di un autore albanese, Aristidh Kola, intitolato<br />

Gjuha e perëndive: egli infatti fa notare come i Telchini facciano parte della mitologia albanese (!).<br />

Vediamo come e perché, attraverso le parole di un sito internet dedicato a questo insolito argomento.<br />

"I Telchini (in albanese Telhinë) sono demoni che vivono sotto la superficie terrestre, ma anche nelle<br />

profondità del mare e sulla terraferma. A causa di questa loro molteplice dislocazione, li consideriamo come<br />

esseri anfibi che hanno forme strane e illimitate possibilità di trasformazione. Nell’isola di Rodi, che è<br />

considerata la loro patria, li chiamavano maghi. Erano proprio loro [i Telchini] che, secondo le leggende,<br />

20


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

fecero sprofondare sul fondo del mare l’isola di Rodi, facendola poi riemergere in superficie molto più tardi<br />

delle altre isole.<br />

Il mito dei Telchini è collegato con quello del fuoco. Gli studiosi li considerano una personificazione delle<br />

forze vulcaniche marine; nell'antichità erano indicati come la causa principale dei terremoti nelle terre<br />

isolane. [...] Erano considerati maestri nella lavorazione dei metalli."<br />

A questo punto l'autore avanza un'ipotesi etimologica che fa risalire il nome "Telchini" alla lingua albanese:<br />

"Telchino è un nome la cui prima parte deriva dal verbo albanese del (uscire), e la cui seconda dall’altro verbo<br />

albanese hin (entrare). In questa maniera un Telchin (Telhin) è colui che entra ed esce (dall’acqua), cioè un<br />

essere anfibio; oppure, secondo un’interpretazione ugualmente valida, una figura mitologica in grado di<br />

causare lo sprofondamento negli abissi di un’isola oppure il suo riemergere. La parola poi è stata<br />

trasformata da delhin (telchin) in telhin."<br />

Ma non è finita: c'è un'altra ipotesi: "P. Karolide, nella sua introduzione dell’opera “La storia del popolo<br />

greco” di K. Papariguli (prima parte, p.96), collega la parola Telhi alla parola armena del (medicina)."<br />

Un'ulteriore curiosità è poi costituita dall'affinità che, secondo l'autore, esiste tra delfino e Telchino: "la<br />

parola delfino, in albanese delfin, potrebbe aver avuto origina da del (esce) e fus (entra), rispecchiando il<br />

comportamento del delfino che [...] entra ed esce (dall’acqua)."<br />

Bassorilievo raffigurante Anfitrite, Posidone e creature marine<br />

Altre ipotesi etimologiche vengono avanzate da Robert Graves nel suo libro “La mitologia greca”, a pagina<br />

215:<br />

"Telchin (Telhin): i grammatici greci riconducevano questa parola al termine ϕέλγειν (fèlghein), che significa<br />

attrarre, stregare. Ma visto che la donna, il cane e il pesce rappresentavano motivi ricorrenti nei dipinti della<br />

Scilla Tirrena, così come in quelli di Creta, oppure anche nelle figure delle polene delle navi Tirrene, questa<br />

parola può essere intesa come variante della parola “Tirin”, oppure “Tirsin”. Sembra che i Telchi fossero<br />

divinità adorate da un antico popolo della Grecia, di Creta, della Lidia e delle varie isole del mar Egeo, nelle<br />

quali vigeva un regime matriarcale, e che gli aggressori greci, organizzati viceversa in uno stato patriarcale, li<br />

avessero costretti ad emigrare verso nord. L’origine di questo popolo sembra di essere quindi riconducibile<br />

all’Africa Orientale."<br />

L'interpretazione di Graves viene giudicata assurda dall'autore dell'articolo. Personalmente non saprei per<br />

quale di queste ipotesi propendere: mi pare che l'unico dato su cui tutti concordano sia quello della<br />

definizione dei Telchini (qualunque sia la loro origine e l'etimologia del loro nome) come dèmoni maligni,<br />

legati sia al mare che alla terra, la cui cattiveria si manifesta soprattutto attraverso lo sguardo.<br />

21


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Quest'ultimo dettaglio è il più interessante: nella cultura greca è ben raro incontrare il "malocchio", cioè il<br />

potere di attirare il male contro una persona odiata usando lo sguardo. E' un concetto molto più tipico della<br />

cultura latina, notoriamente superstiziosa (si veda ad esempio Catullo, carme 5): e proprio al potere dello<br />

sguardo è etimologicamente collegato il verbo latino invidere (letteralmente "guardare contro").<br />

L'invidia dunque, tanto per i greci quanto per i latini, è una forma di odio e di cattiveria molto pericolosa,<br />

perché ha la capacità di danneggiare qualcuno attirando la sfortuna contro di lui, e lo strumento attraverso il<br />

quale viene attirata la sfortuna è lo sguardo, da cui etimologicamente "mal-occhio".<br />

La metafora è chiara: gli avversari di Callimaco, essendo fabbri, non sono in grado di lavorare i<br />

metalli preziosi e compensano la scarsa qualità con la grande quantità (i molti versi che compongono, che<br />

però sono vile ferraglia). L'"orefice" Callimaco invece crea gioielli preziosi e raffinati, necessariamente di<br />

piccole dimensioni, perché l'oro è un metallo raro e non si trova in abbondanza in natura. I "Telchini" sono<br />

malvagi e calunniatori come i loro progenitori mitici e come Φθόνος, il dèmone dell'invidia, che compare<br />

nel finale dell'Inno II ad Apollo, sostiene tesi analoghe a quelle dei Telchini e viene allontanato con una<br />

pedata dal dio.<br />

I "Telchini" quindi, non potendo essi stessi raggiungere le vette della poesia, si comportano come tutti gli<br />

invidiosi: ovvero si sforzano di danneggire chi è migliore di loro, nel tentativo di sminuire la sua fortuna e il<br />

suo successo e di ridurlo al loro infimo livello.<br />

La loro azione non va mai sottovalutata: nell'invidia infatti c'è la volontà del male e l'invidioso fa il male<br />

intenzionalmente, godendo del dolore causato ad altri; proprio per questo è un individuo spregevole, ben<br />

degno di essere classificato come un dèmone.<br />

22


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

IL DIAVOLETTO DI MAXWELL E L'ENTROPIA<br />

23<br />

«Se concepiamo un essere con una vista così acuta<br />

da poter seguire ogni molecola nel suo movimento,<br />

pur avendo le medesime nostre limitazioni<br />

per quanto riguarda altri attributi,<br />

questi potrebbe fare ciò che a noi oggi è impossibile»<br />

(James Clerk Maxwell)<br />

Il diavoletto di Maxwell, detto anche demone di Maxwell, è una minuscola creatura immaginaria che può<br />

controllare una botola in un gas per separare gli atomi caldi da quelli freddi. Maxwell propose questo<br />

esperimento intellettuale circa 150 anni fa come una sorta di sfida, per verificare se il secondo principio della<br />

termidinamica sia veramente un principio, e come tale inviolabile.<br />

L'esperimento infatti sembrava offrire un modo piuttosto semplice di violarlo, producendo una variazione<br />

di temperatura tra due corpi senza alcuna spesa di energia e riducendo così l'entropia 1 in un sistema<br />

isolato 2 .<br />

Esistono molte formulazioni equivalenti del secondo principio della termodinamica; quelle storicamente<br />

più importanti sono le seguenti:<br />

1) È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo<br />

più freddo a uno più caldo (formulazione di Clausius).<br />

2) È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di<br />

tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea (formulazione di Kelvin-Planck).<br />

3) Non è possibile - nemmeno in linea di principio - realizzare una macchina termica il cui rendimento sia<br />

pari al 100%.<br />

4) In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo.<br />

Nella fisica moderna la formulazione più ampiamente usata è quest'ultima.<br />

(1) L'entropia è una grandezza che viene interpretata come una misura del caos in un sistema fisico o più in<br />

generale nell'universo; descrive il fenomeno per il quale le trasformazioni fisiche avvengono invariabilmente<br />

in una direzione sola, ovvero quella verso il maggior disordine.<br />

(2) Un sistema si dice isolato se non permette un flusso né di energia né di massa con l'ambiente esterno.


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il ben noto teorema di Carnot impone una limitazione essenziale nella resa di un motore termico ciclico: il<br />

motore può trasformare solo una parte del calore in energia meccanica e il rendimento non è mai del<br />

100%.<br />

Naturalmente nulla va perduto: lo vieta il primo principio della termodinamica, detto della conservazione<br />

di energia, il quale afferma che la quantità totale di energia di un sistema isolato è costante, cioè che il suo valore<br />

si mantiene immutato nel tempo.<br />

Tuttavia una parte dell'energia assume la forma di calore degradato, che si disperde nell'atmosfera e non può<br />

più essere riutilizzato.<br />

In sintesi: nessuna trasformazione di energia da una forma in un’altra presenta un rendimento del 100%;<br />

una certa quantità va sempre perduta in una forma inutilizzabile, rappresentata dal calore che viene<br />

disperso nell’atmosfera.<br />

L'energia complessiva di un sistema, quindi, per il primo principio della termodinamica, si conserva<br />

indefinitamente, ma si trasforma da energia nobile a energia termica sempre più degradata, fino a non<br />

poter più essere utilizzata per ottenere lavoro.<br />

La misura della non disponibilità di un sistema a compiere lavoro si chiama entropia; essa può essere<br />

interpretata come una misura del disordine: quanto maggiore è l'entropia di un sistema, tanto più grande è<br />

il suo disordine.<br />

In definitiva, nel caso di sistemi isolati, chiamata S l'entropia, B il sistema nello stato finale della<br />

trasformazione e A il sistema nello stato iniziale, si ottiene:<br />

per qualunque trasformazione termodinamica nel sistema.<br />

Quest'ultima espressione è precisamente l'espressione del secondo principio in termini di entropia: nei sistemi<br />

isolati l'entropia è una funzione non decrescente, ovvero può solo aumentare o rimanere inalterata.<br />

Questo fatto viene talvolta indicato in meccanica statistica come morte termodinamica dei sistemi isolati:<br />

infatti, per tempi lunghi, l'entropia tende a raggiungere un valore massimo, che corrisponde a una<br />

temperatura uniforme ovunque nel sistema. In questo caso, il sistema non è più in grado di compiere alcun<br />

lavoro.<br />

Le implicazioni del secondo principio sono di importanza cruciale per comprendere le sorti dell'universo, in<br />

quanto, considerando l'universo come un sistema chiuso 1 , si ha che l'entropia dell'universo aumenta nel<br />

tempo, mentre l'energia disponibile diminuisce. Questo conduce inevitabilmente al caos e al disordine, ed<br />

alla fine alla morte.<br />

Un'immagine della "morte termodinamica" dell'universo<br />

(1) Un sistema si dice chiuso se consente un flusso di energia ma non di massa con l'ambiente esterno,<br />

attraverso il suo confine (tramite calore e/o lavoro e/o altra forma di energia); ne è un esempio una bombola<br />

tenuta chiusa da una valvola, che può scaldarsi o raffreddarsi ma non perde massa.<br />

24


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Alla fine di tutte le trasformazioni energetiche possibili, il calore si distribuirà in modo uniforme, non<br />

consentendo il funzionamento di alcuna macchina, e non esisterà nemmeno la vita.<br />

This is the way the world ends<br />

This is the way the world ends<br />

This is the way the world ends<br />

Not with a bang but a whimper<br />

Così finisce il mondo<br />

Così finisce il mondo<br />

Così finisce il mondo<br />

Non con fragore ma con un gemito<br />

scrive il poeta e drammaturgo statunitense naturalizzato inglese Thomas Stearns Eliot (1888-1965) nella<br />

poesia The Hollow Men ("Gli uomini vuoti") del 1925; i versi fanno riferimento alla teoria del Big Bang, lo<br />

scoppio fragoroso da cui avrebbe avuto origine l'universo, ed ipotizzano che tutto si concluda con il gemito<br />

silenzioso prodotto dal massimo di entropia irreversibile.<br />

Ma torniamo al diavoletto.<br />

La sfida lanciata da Maxwell era basata sul fatto che il secondo principio, a differenza del primo, ha<br />

carattere statistico.<br />

Se si descrive un gas (o in generale un corpo macroscopico) come un insieme di particelle, si può<br />

reinterpretare lo stato di equilibrio termodinamico di un sistema chiuso come quello più probabile, e quindi<br />

quello più di frequente realizzato dalle particelle, quello al quale le particelle tendono. Nulla però vieta, in<br />

linea di principio, l'esistenza di fluttuazioni termodinamiche che possono portare il sistema in uno stato<br />

diverso da quello di equilibrio: esse sono escluse solo sulla base della loro improbabilità, non per ragioni<br />

fisiche codificate dalle leggi della meccanica. E dunque nulla vieta che il diavoletto possa agire nel rispetto di<br />

tali leggi.<br />

Può farcela? In apparenza sì, e in modo assai semplice.<br />

Si immaginino infatti due contenitori A e B, riempiti con un gas identico e alle stesse temperature, posti uno<br />

a fianco dell'altro, separati solamente da una piccola botola che ne permette la comunicazione.<br />

25


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il piccolo diavoletto sta a guardia della botola, mantenendola chiusa e osservando le molecole nei due diversi<br />

contenitori. Quando una molecola più veloce delle altre si dirige verso la botola, il diavoletto la apre e lascia<br />

che la molecola passi dal contenitore A al contenitore B.<br />

La velocità media delle molecole in B quindi è aumentata, mentre quella delle molecole in A è diminuita.<br />

Ora, all'aumento della velocità media delle molecole corrisponde un aumento della temperatura: la<br />

temperatura in A è infatti diminuita, mentre la temperatura in B è aumentata, e questo senza dispendio di<br />

energia: ed ecco la smentita del secondo principio della termodinamica.<br />

Semplice, no?<br />

Peccato che, quando dalla teoria si passa alla pratica, le cose cambino completamente aspetto.<br />

Fin dai tempi di Maxwell sono state proposte numerose versioni del diavoletto termodinamico, la più<br />

semplice delle quali prevede di produrre una differenza di pressione consentendo a tutte le molecole,<br />

indipendentemente dalla loro velocità, di passare da A a B, ma impedendone il passaggio nel verso<br />

opposto. Dopo un breve intervallo di tempo, la maggior parte delle molecole si sarà concentrata in B, mentre<br />

in A si produrrà un vuoto parziale. Ad un aumento di pressione corrisponde un aumento di temperatura, ed<br />

ecco che il diavoletto avrebbe ottenuto il suo scopo.<br />

Questo diavoletto appare molto più verosimile della creatura originale di Maxwell, dato che non è necessario<br />

che sia in grado di vedere e di pensare. Non vi è motivo immediatamente evidente che impedisca di<br />

realizzarlo, ad esempio con una valvola a flusso unidirezionale per le molecole, utilizzando dispositivi<br />

inanimati, come un minuscolo battente a molla. Come il diavoletto di Maxwell, questo dispositivo a<br />

pressione potrebbe costituire una sorgente illimitata di energia per molte macchine.<br />

Non appena si scende nel concreto, però, cercando di produrre un modello reale del diavoletto, ci si scontra<br />

con una serie di problemi che rendono evidente la natura fondamentale del secondo principio, che quindi<br />

non è violabile con trucchetti di questo genere.<br />

Uno di questi problemi è legato al fatto che è necessario individuare le particelle (determinare ad esempio<br />

se provengono da un lato o dall'altro) tramite qualche meccanismo, che a sua volta richiede energia (ad<br />

esempio l'invio di un fotone) e che è necessario implementare una struttura decisionale che consenta al<br />

"diavoletto" di agire in modo diverso a seconda del verso di provenienza della molecola: il diavoletto va<br />

quindi modellizzato come un computer, che necessita a sua volta di energia per poter funzionare.<br />

26


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Inoltre il demone, così come è stato concepito da Maxwell, dovrebbe aprire e chiudere la botola ad istanti ben<br />

precisi; per fare ciò egli dovrebbe essere in grado di conoscere posizione e velocità di ogni atomo in ogni<br />

momento, in evidente contrasto con il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale a<br />

livello subatomico la velocità e la posizione di una particella in movimento sono sempre del tutto<br />

indeterminate, cioè rimangono sempre indefinite: quanto maggiore è l'accuratezza nella misurazione della<br />

posizione di una particella subatomica, tanto minore è la precisione inerente alla misurazione della<br />

velocità e viceversa.<br />

Il diavoletto di Maxwell, dunque, non sembra avere alcuna chance.<br />

27


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

2. SPIRITISMO E SATANISMO<br />

CHI È LUCIFERO?<br />

E' noto che Dante pone Lucifero, il Principe di tutti i dèmoni (o per meglio dire, cristianamente, demònii), al<br />

centro della terra; il suo ombelico corrisponde al centro dell'universo dantesco, che come sappiamo<br />

è tolemaico.<br />

Nel XXXIV canto dell'Inferno il poeta, giunto con Virgilio al termine della prima parte del suo viaggio, si<br />

trova al cospetto di Satana, raffigurato come un mostro con tre volti e sei ali (com'è tipico dei Serafini) che,<br />

immobile al centro della ghiaccia di Cocìto, mastica pensosamente Giuda, Bruto e Cassio e non sembra<br />

accorgersi della presenza dei due viandanti, con i quali non interagisce minimamente.<br />

Appigliandosi al busto villoso di Lucifero, e risalendo lungo le sue cosce, Dante e Virgilio si ritrovano<br />

nell'emisfero australe, all'interno di una grotta naturale (la "natural burella") attraverso la quale potranno<br />

uscire "a riveder le stelle" fra 21 ore (il viaggio nell'Inferno è infatti durato 24 ore dal tramonto nella selva<br />

oscura e ne occorreranno altre 21 per risalire verso la superficie terrestre, dal mattino alla notte successiva,<br />

con l'arrivo poco prima dell'alba al monte del Purgatorio).<br />

Gustave Doré, Lucifero al centro della terra, illustrazione per la Divina Commedia (1861-68)<br />

Mentre i due riprendono il cammino Dante chiede a Virgilio di dirimergli qualche dubbio, cosa che<br />

Virgilio farà puntualmente (vv. 100-126): che fine abbia fatto il ghiaccio, perché Satana sia conficcato<br />

sottosopra e come mai in poco tempo il sole abbia fatto il tragitto dalla sera alla mattina di circa dodici ore.<br />

Virgilio inizia la sua spiegazione dicendo a Dante che essi sono nel nuovo emisfero, poiché essi hanno<br />

oltrepassato il punto al quale tendono tutti i pesi, ovvero il centro della terra. Il ghiaccio è sparito perché essi<br />

ora camminano su una piccola sfera che copre l'altra faccia della Giudecca, dell'ultima zona del lago<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

ghiacciato; riguardo alla terza domanda spiega che quando di là è notte di qua è mattino (man); e che<br />

Lucifero, infine, sta esattamente come stava prima.<br />

Spiega quindi perché Lucifero si trovi laggiù: egli, quale angelo ribelle, quando cadde dal cielo sprofondò<br />

da questo emisfero a testa all'ingiù, e la terra, per non toccarlo, si nascose sotto al mare, sporgendo tutta<br />

dall'altro emisfero e creando la montagna del Purgatorio; il Diavolo rimase conficcato al centro della terra e<br />

ciò che gli stava intorno, per fuggire ulteriormente, si spostò fuggendo verso l'emisfero australe, facendo il<br />

vuoto attorno a Lucifero.<br />

Ma chi è Lucifero? La domanda è tutt'altro che banale e presenta risvolti a dir poco inquietanti.<br />

Notoriamente la tradizione cattolica, alla quale Dante si allinea, lo identifica con Satana e vede in lui il<br />

principio stesso del Male; secondo molti interpreti biblici tuttavia si tratta di due entità diverse, di cui Satana<br />

è più potente ed è malvagio fin dal principio, mentre Lucifero (la cui natura è peraltro superiore a quella di<br />

Satana) no. Essi corrisponderebbero a due angeli diversi: Sataniel e Helel.<br />

Anche il più celebre esorcista del mondo, padre Amorth, sostiene la stessa cosa: i diavoli che egli scaccia<br />

dagli indemoniati, a suo dire, appartengono a due schiere diverse, quella di Satana e quella di Lucifero, e si<br />

distinguono anche solo per il fatto che le persone invasate dall'uno hanno il globo oculare ruotato verso<br />

l'alto, mentre quelli infestati dall'altro lo hanno verso il basso.<br />

Guillaume Geefs (1805-1883), statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)<br />

Ma la sorpresa più sconcertante si ha quando si scopre che nessun testo biblico parla della caduta degli<br />

angeli ribelli!<br />

Si tratta, a quanto pare, di erronee interpretazioni di due passi biblici (Isaia ed Enoch), portate avanti<br />

esclusivamente dai Padri della Chiesa.<br />

Se cerchiamo di far luce (è proprio il caso di dirlo) sulla questione, rischiamo di confonderci ulteriormente le<br />

idee; e tuttavia voglio provarci.<br />

Nella mitologia romana, Lucifer è una divinità corrispondente alla divinità greca Eosforo (o "Torcia<br />

dell'Aurora"), nome dato alla "Stella del mattino". Era figlio di Eos (l'Aurora) e di Astreo e fu padre di Ceice<br />

(Ceyx), re di Tessaglia, e di Dedalione. Infatti il termine Lucifer in latino significa semplicemente "Portatore di<br />

29


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Luce", ed era anche il nome che gli antichi diedero al pianeta Venere, perché era la prima luce che anticipava<br />

il sole.<br />

Abbiamo quindi appurato che il termine "Lucifero" esisteva molto prima della cristianizzazione; ma c'è di<br />

peggio.<br />

Accanto alla tradizione teologica e letteraria "classica" riguardo a Lucifero si sviluppò, già nei primi tempi di<br />

fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che tentò la reinterpretazione della<br />

figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l'uomo dalla tirannia del Dio Creatore, identificato<br />

dagli Gnostici con il malvagio Demiurgo: secondo tale dottrina, che ha radici tanto nel Marcionismo quanto<br />

nel Manicheismo, il serpente/Lucifero descritto nella Genesi sarebbe colui che ha indotto l'uomo alla<br />

conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque ha consentito l'elevazione dell'uomo a divinità, pur contro la<br />

volontà del Dio supremo, che avrebbe voluto invece mantenere l'uomo quale suo suddito e schiavo, cioè<br />

quale essere inferiore.<br />

In tale dottrina il nome Satana scompare quasi del tutto in favore di Lucifero, che viene interpretato alla<br />

lettera come "Portatore di luce" e viene perciò eletto quale salvatore dell'uomo.<br />

Tutto ciò è in evidente antitesi con la concezione classica del Cristianesimo, secondo la quale invece<br />

l'aspetto luminoso di Satana è solo un mascheramento e uno strumento di seduzione. San Paolo per primo<br />

afferma infatti che "anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi<br />

servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere» (2 Corinzi 11,14-15).<br />

Non resta quindi che sospendere il giudizio. Interessante è comunque l'identificazione pagana di Lucifer con<br />

il pianeta Venere, al quale ho accennato anche a proposito della "sezione aurea" o phi, perché questo pianeta<br />

traccia ogni otto anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto:<br />

Non è certamente un caso che il pentacolo, figura sacra ai Pitagorici, sia diventato uno degli emblemi<br />

luciferini per eccellenza (soprattutto nella sua variante "rovesciata").<br />

Vorrei quindi dedicare un'attenzione più approfondita, e soprattutto più scientifica, a questo pianeta.<br />

30


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

IL PIANETA"LUCIFERINO": VENERE<br />

Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare in ordine di distanza dal Sole, con un'orbita della durata di<br />

224,7 giorni terrestri. Il suo simbolo astronomico è la rappresentazione stilizzata della mano della dea Venere<br />

che sorregge uno specchio (♀).<br />

È l'oggetto naturale più luminoso nel cielo notturno, con l'eccezione della Luna, raggiungendo una<br />

magnitudine apparente di -4.6. Venere raggiunge la sua massima brillantezza poco prima dell'alba o poco<br />

dopo il tramonto, e per questa ragione è spesso chiamata impropriamente la "Stella del Mattino" o la "Stella<br />

della Sera". E' a volte è definito il "pianeta gemello" della Terra, poiché i due mondi sono molto simili per<br />

quanto riguarda criteri quali dimensioni e massa. Tutto il resto però è drammaticamente differente, per cui<br />

Venere risulterebbe per noi un pianeta assolutamente invivibile.<br />

Confronto delle dimensioni dei quattro pianeti terrestri: da sinistra, Mercurio, Venere, la Terra e Marte.<br />

Venere è uno dei quattro pianeti terrestri del sistema solare, il che significa che, come la Terra, è un corpo<br />

roccioso.<br />

In dimensioni e massa, come dicevo sopra, è molto simile alla Terra, ed inoltre sta subendo la stessa<br />

evoluzione che ha avuto la Terra nella sua formazione.<br />

Il diametro di Venere è inferiore a quello terrestre di soli 650 km, e la sua massa è l'81,5% di quella terrestre.<br />

A causa di questa differenza di massa, sulla superficie di Venere l'accelerazione di gravità è mediamente pari<br />

a 0,88 volte quella terrestre. A titolo di esempio, si potrebbe affermare che un uomo dalla massa di 70 kg che<br />

misurasse il proprio peso su Venere, facendo uso di una bilancia tarata sull'accelerazione di gravità terrestre,<br />

registrerebbe un valore pari a circa 61,6 kg.<br />

Tuttavia, a dispetto di queste somiglianze, le condizioni sulla superficie venusiana sono molto differenti da<br />

quelle terrestri, a causa della sua atmosfera, molto spessa e composta essenzialmente di biossido di carbonio<br />

o anidride carbonica. La massa dell'atmosfera di Venere, infatti, è costituita per il 96,5% da biossido di<br />

carbonio, mentre il restante 3,5% è composto soprattutto da azoto.<br />

Venere ha l'atmosfera più densa tra tutti i pianeti terrestri; la notevole percentuale di biossido di carbonio è<br />

dovuta al fatto che Venere non ha un ciclo del carbonio per incorporare nuovamente questo elemento nelle<br />

rocce e nelle strutture di superficie, né una vita organica che lo possa assorbire in biomassa. È proprio il<br />

biossido di carbonio ad aver generato un potentissimo effetto serra, a causa del quale il pianeta è divenuto<br />

così caldo che si ritiene che gli antichi oceani di Venere siano evaporati, lasciando una asciutta superficie<br />

desertica con molte formazioni rocciose. Il vapor acqueo si è poi dissociato a causa dell'alta temperatura e<br />

l'idrogeno è stato diffuso nello spazio interplanetario dal vento solare.<br />

L'effetto serra ha fatto aumentare la temperatura alla superficie fino a 400 K (127° C), con punte di 740 K<br />

(467° C, abbastanza per fondere il piombo). Questo ci toglie ogni speranza di poter rendere "vivibile"<br />

Venere, almeno in un prossimo futuro.<br />

Paradossalmente, quindi, la superficie di Venere è dunque più calda di quella di Mercurio, sebbene sia<br />

quasi due volte più distante dal Sole.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

La pressione atmosferica sulla superficie del pianeta è altissima, pari a 92 volte quella della Terra, ed è data,<br />

appunto, per la maggior parte dal biossido di carbonio e da altri gas serra. Il pianeta è inoltre ricoperto da un<br />

opaco strato di nuvole composte da acido solforico, altamente riflettenti, che, insieme alle nubi dello strato<br />

inferiore, impediscono alla sua superficie di essere visibile dallo spazio; l'apparenza del pianeta è infatti<br />

molto ingannevole, tanto da dare l'impressione di un pianeta gassoso:<br />

L'impenetrabilità delle nubi che circondano il pianeta ha originato molteplici discussioni, perdurate fino a<br />

quando i segreti del suolo di Venere furono rivelati dalla planetologia nel ventesimo secolo. Ecco la<br />

superficie di Venere quale essa è in realtà:<br />

La superficie di Venere è stata mappata nel dettaglio solo nel corso degli ultimi venti anni; il progetto<br />

Magellano ha elencato circa un migliaio di crateri di meteoriti: un numero sorprendentemente basso se<br />

confrontato a quello della Terra.<br />

Si è quindi scoperto che circa l'80% della superficie di Venere è formata da lisce pianure vulcaniche. Il resto<br />

è costituito da due altipiani definiti continenti, uno nell'emisfero nord del pianeta e l'altro appena a sud<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

dell'equatore. Il continente più a nord è chiamato Ishtar Terra, da Ishtar, la dea babilonese dell'amore, e ha<br />

circa le dimensioni dell'Australia. I Monti Maxwell, il più alto massiccio montuoso su Venere, si trovano su<br />

Ishtar Terra. Nel punto più alto i monti raggiungono gli 11 km al di sopra dell'altezza media della superficie<br />

del pianeta. Il continente a sud è chiamato Aphrodite Terra, dalla dea Greca dell'amore, e ha circa le<br />

dimensioni del Sud America. La maggior parte di questo continente è ricoperta da un intrico di fratture e di<br />

faglie.<br />

Mappa topografica di Venere<br />

Oltre a crateri da impatto, montagne e valli, comuni ai pianeti rocciosi, Venere è caratterizzata da alcune<br />

strutture di superficie assolutamente peculiari. Fra queste vi sono: strutture vulcaniche chiamate farra,<br />

larghe da 20 a 50 km e alte da 100 a 1000 m; fratture radiali, a forma di stella chiamate novae; strutture con<br />

fratture sia radiali sia concentriche chiamate aracnoidi per la loro somiglianza con le tele di ragno; e infine le<br />

coronae, anelli circolari di fratture a volte circondate da una depressione. Tutte queste strutture hanno<br />

un'origine vulcanica. In effetti, la superficie di Venere appare geologicamente molto giovane, i fenomeni<br />

vulcanici sono molto estesi, e lo zolfo nell'atmosfera dimostrerebbe, secondo alcuni esperti, l'esistenza di<br />

fenomeni vulcanici attivi ancora oggi. Tuttavia, questo solleva un enigma: l'assenza di tracce del passaggio<br />

di lava che accompagni una caldera tra quelle visibili.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Anche se vi sono poche informazioni dirette sulla sua struttura interna, si ritiene che Venere avere una<br />

struttura interna simile a quella della Terra: un nucleo, un mantello e una crosta.<br />

Le dimensioni leggermente inferiori di Venere suggeriscono che le pressioni siano più basse nella parte<br />

interna rispetto a quelle terrestri.<br />

Il nucleo interno di Venere si pensa sia ferroso, appunto perché il pianeta è molto simile alla Terra sia in<br />

struttura che dimensioni, e sia allo stato fuso perché ne viene data conferma da un pur debole campo<br />

magnetico, a parte quello indotto dall'effetto del vento solare.<br />

Si ritiene che il nucleo abbia uno spessore di circa 3000 km ed il mantello di circa 2900 km, mentre la crosta<br />

dovrebbe essere di poco inferiore a quella terrestre, cioè circa 60 km. Le analisi compiute dalle sonde<br />

sovietiche indicano che la struttura della crosta e della superficie è simile al granito ed al basalto.<br />

A causa della convezione del mantello sulla superficie si producono alcune anomalie (corrugamenti,<br />

rigonfiamenti, spaccature ecc.) che sono però concentrate in piccole zone e non al limite delle zolle tettoniche.<br />

Il decadimento radioattivo all'interno del pianeta genera calore che arriva all'esterno tramite forme di<br />

vulcanismo e zone dove la crosta è sottile generando caratteristiche formazioni dette duomi.<br />

Venere non ha satelliti naturali, sebbene l'asteroide 2002 VE68 attualmente mantenga una relazione quasi<br />

orbitale col pianeta e una ricerca del 2006 di Alex Alemi e David Stevenson del California Institute of<br />

Technology, sui modelli del Sistema Solare primordiale, faccia ipotizzare che Venere avesse inizialmente<br />

almeno una luna, creata da un gigantesco evento da impatto, come similmente si ipotizza per la formazione<br />

della luna terrestre. Questo satellite si sarebbe inizialmente allontanato per via delle interazioni mareali, allo<br />

stesso modo della Luna, ma un secondo gigantesco impatto avrebbe rallentato, se non invertito la<br />

rotazione di Venere, portando la luna venusiana a riavvicinarsi e infine collidere col pianeta.<br />

Una spiegazione alternativa alla mancanza di satelliti è costituita dai forti effetti mareali del Sole, che<br />

potrebbe destabilizzare grossi satelliti che orbitino attorno i pianeti terrestri interni.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Venere in transito rispetto al Sole<br />

L'orbita di Venere è quasi circolare e le variazioni della sua elongazione massima (cioè l'angolo formato tra<br />

il Sole e il pianeta, visto dalla Terra) sono dovute più alla variazione della distanza tra Terra e Sole che alla<br />

forma dell'orbita di Venere. Queste misurano sempre un angolo compreso tra 45º e 47º, dando al pianeta una<br />

visibilità più prolungata prima del sorgere del Sole o dopo il tramonto. Quando l'elongazione è massima,<br />

Venere può restare visibile per diverse ore.<br />

La rotazione di Venere è retrograda e molto lenta: un giorno dura circa 243 giorni terrestri. Alcune ipotesi<br />

sostengono che la causa sia da ricercarsi nell'impatto con un asteroide di dimensioni ragguardevoli. A causa<br />

della rotazione retrograda, il moto apparente del Sole è opposto a quello terrestre; quindi, chi si trovasse su<br />

Venere, vedrebbe l'alba a ovest e il tramonto a est.<br />

Siccome il pianeta impiega 225 giorni terresti per compiere un'intera rivoluzione attorno al Sole, su Venere<br />

il giorno è più lungo dell'anno. Tuttavia, tra un'alba e l'altra trascorrono soltanto 117 giorni terrestri,<br />

perché, mentre il pianeta ruota su se stesso in senso retrogrado, esso si sposta anche lungo la propria orbita,<br />

compiendo il moto di rivoluzione, che procede in senso opposto rispetto a quello di rotazione; ne deriva che<br />

lo stesso punto della superficie si viene a trovare nella stessa posizione rispetto al Sole ogni 117 giorni<br />

terrestri.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

APOLLONIO DI TIANA E LA VAMPIRA<br />

Fra i contatti "paranormali" dell'antichità classica i più noti sono senz'altro l'incontro ravvicinato del filosofo<br />

Atenodoro con un fantasma, narrato da Plinio il Giovane in una sua lettera (VII, 27, 5-11) e la storia del lupo<br />

mannaro raccontata da uno dei commensali della Cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio (61-62).<br />

Meno nota, ma non meno interessante, è la storia della vampira narrata da Filostrato II, uno dei principali<br />

rappresentanti della Seconda Sofistica, nella biografia elogiativa del celebre santone e taumaturgo<br />

Apollonio di Tiana, esponente del neopitagorismo.<br />

Questi, vissuto nel I secolo d.C., ebbe fama di uomo straordinariamente buono e giusto, in grado di compiere<br />

veri e propri miracoli, alcuni dei quali analoghi a quelli di Gesù Cristo: si dice ad esempio che abbia<br />

risuscitato una ragazza morta a Roma.<br />

Nel quarto capitolo della Vita di Apollonio di Tiana Filostrato narra la storia incredibile di un tal Menippo di<br />

Licia, un bellissimo venticinquenne che fu concupito da un dèmone di sesso femminile, una vampira,<br />

tecnicamente una Làmia.<br />

Le Làmie, nel mito greco, erano figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi<br />

seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne.<br />

Lamia era la bellissima regina della Libia, figlia di Belo, amata da Zeus, dal quale ebbe il dono di levarsi gli<br />

occhi dalle orbite e rimetterli a proprio piacere. Era si vendicò del tradimento uccidendo quasi tutti i figli che<br />

suo marito ebbe da Lamia. Questa, lacerata dal dolore, iniziò a divorare i bambini delle altre madri, dei quali<br />

succhiava il sangue. Così facendo si trasformò in un essere di orribile aspetto, capace però di mutare forma e<br />

apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue. Per questo motivo la lamia viene<br />

considerata una sorta di vampiro ante litteram.<br />

Herbert James Draper, Lamia, 1909<br />

Le Làmie venivano spesso chiamate anche Empuse, sebbene queste ultime, figlie o serve di Ecate, fossero<br />

alquanto differenti: erano infatti mostri soprannaturali femminili, che terrorizzavano i viaggiatori divorando<br />

coloro che percorrevano i sentieri o le strade da esse frequentati. Le Empuse potevano assumere qualsiasi<br />

forma: le più ricorrenti erano quelle di cagna o di vacca e, per attirare le proprie vittime, potevano mutare<br />

l'aspetto in quello di donne deboli o seducenti; in quest'ultimo caso si potevano intrufolare nei letti dei<br />

giovani. L'aspetto più inquietante del mito è il fatto che, se le si osservava attentamente, le Empuse<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

rivelavano ancora caratteri mostruosi o bizzarri, come una gamba di sterco d'asina e una di bronzo, oppure il<br />

retro d'asina e sandali di bronzo.<br />

Il giovane di cui Filostrato narra la storia, perdutamente innamorato della sua demoniessa, fu salvato in<br />

extremis da Apollonio, che avvertì intorno a lui un'aura negativa e subodorò immediatamente la presenza di<br />

una creatura diabolica.<br />

Leggiamo la stranissima vicenda:<br />

"Tra i discepoli di Demetrio di Corinto v'era Menippo di Licia, giovine di venticinque anni, eletto di spirito e<br />

bellissimo di forme, simile a un atleta per bellezza e portamento. Si credeva che Menippo fosse amato da una<br />

donna straniera,e questa donna era detta bellissima e stravagante, oltre che molto ricca: ma non era nessuna<br />

di queste cose, se non pura apparenza.<br />

"Un giorno che Menippo camminava da solo lungo la strada che reca a Cenchrae, un fantasma d'aspetto<br />

femminile gli era apparso, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto d'amarlo da molto tempo. Aveva<br />

aggiunto d'essere fenicia, e di vivere in un sobborgo di Corinto.<br />

Dicendogli il nome del sobborgo, aveva aggiunto: Vieni a trovarmi questo pomeriggio e mi ascolterai<br />

cantare.Ti offrirò da bere un vino quale non hai mai gustato. Non avrai rivali sulla tua strada, e vivremo<br />

insieme felici: io che sono bella, e tu che lo sei quanto me. Il giovane si lasciò lusingare da queste parole<br />

perchè, pur avendo abbracciato la filosofia, purtuttavia era dominato da Eros.<br />

John William Waterhouse, La Lamia e il soldato, 1905<br />

"Andò quel pomeriggio alla casa indicata, e per molto tempo frequentò la donna come amante, senza mai<br />

dubitare che non donna fosse, ma uno spirito immondo. Un giorno, Apollonio prese a scrutare Menippo<br />

misurandolo con lo sguardo come fa uno scultore, e dopo averlo studiato a lungo, gli disse:Sai tu, che sei<br />

bello e desiderato dalle donne più belle, che abbracci una serpe, ed è una serpe che ti abbraccia?<br />

Menippo rimase attonito, e Apollonio seguitò: "Tu hai una donna che non è tua moglie: ma pensi forse che lei<br />

ti ami?<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

"Certamente!, rispose il giovine. Lei si comporta con me come fa una donna che ama.<br />

"Intendi sposarla?<br />

"Sì: è fonte di gioia sposare una donna che ama.<br />

"Apollonio replicò: Quando celebrerai le nozze?<br />

"Presto, rispose il giovane, forse domani stesso.<br />

"Apollonio attese il giorno della festa nuziale e, quando i convitati furono giuinti, entrò anch'egli nella sala.<br />

"Dov'è la bella per la quale siamo venuti?, chiese.<br />

"Qui, disse Menippo alzandosi e arrossendo in volto.<br />

"E di chi sono l'oro, l'argento e tutti gli ornamenti di questa sala?<br />

"Di mia moglie, rispose il giovane, io non possiedo che questo, e mostrò il suo mantello.<br />

"Apollonio, rivolgendosi allora a tutti, chiese: Conoscete il giardino di Tantalo, che a un tempo esiste e non<br />

esiste?<br />

"Sì, risposero gli ospiti, lo abbiamo letto in Omero, perché non siamo mai scesi nell'Ade.<br />

"Lasciatemi dire, allora, proseguì Apollonio, che queste decorazioni sono simili a esso:sono soltanto<br />

l'apparenza insostanziale di una sostanza.Perché possiate comprendere meglio, sappiate che la seducente<br />

fidanzata è un Vampiro, una di quelle Empuse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri<br />

sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare<br />

coloro che vogliono divorare.<br />

"La donna allora gridò: Taci e vattene via!, e si mostrò indignata per quelle insinuazioni, scagliandosi contro<br />

il filosofo e chiamandolo insensato. Ma, all'improvviso, le coppe che sembravano d'oro e i vasi che<br />

sembravano d'argento svanirono tutti; scomparvero anche, dopo il discorso di Apollonio, tutti i coppieri, i<br />

cuochi e i servi.<br />

"Allora lo spirito immondo finse di piangere, supplicando di far cessare i tormenti che l'avrebbero costretto a<br />

rivelare la sua vera natura. Ma Apollonio insistè finchè quello non confessò di essere un Vampiro che aveva<br />

invischiato Menippo coi piaceri del sesso per poterne poi divorare il corpo. Infatti, per nutrirsi, lei sceglieva<br />

sempre i giovani belli e forti, perché hanno il sangue assai fresco.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

LO SPIRITISMO IN PIRANDELLO E SVEVO<br />

Sia Pirandello sia Svevo descrivono una seduta spiritica; in entrambi i casi i loro protagonisti approfittano<br />

dell'occasione per fini sentimentali, ma gli autori lasciano emergere chiaramente la loro opinione sullo<br />

spiritismo.<br />

Ne “Il fu Mattia Pascal” Adriano Meis (alias Mattia Pascal) riesce a baciare nell’oscurità la sua amata<br />

Adriana: “Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca, poi, non contento mi<br />

chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato tra noi”.<br />

Disegno raffigurante Luigi Pirandello<br />

Il personaggio di Pirandello, nonostante si renda conto che la seduta sia stata organizzata da Papiano per<br />

loschi fini (egli infatti durante la seduta deruba Mattia di ben 12.000 lire), alla fine è colpito e turbato, pieno<br />

di dubbi: "Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto<br />

gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max:<br />

bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro.<br />

Chi dunque aveva agito? Chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?".<br />

L'interessamento per fatti inspiegabili alla luce della ragione e della scienza, come lo spiritismo, delinea in<br />

Pirandello la crisi del razionalismo positivista, che sottrae all'uomo ogni rassicurante certezza.<br />

Il tono di Svevo è molto diverso: durante la seduta spiritica in casa Malfenti, che vede come medium il suo<br />

rivale in amore Guido, Zeno mantiene un atteggiamento cinico e distaccato: “io non ho alcun’avversione per<br />

i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là”, pensa, e conclude: “ero anzi seccato di non avere<br />

introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino giacché vi otteneva tale successo”.<br />

Come per Mattia-Adriano, il suo interesse non è rivolto alla seduta spiritica, ma alla conquista dell'amata<br />

Ada; sennonché si verifica un grottesco equivoco: infatti Zeno approfitta del buio per farle la sua<br />

dichiarazione: “Io vi amo Ada! - dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire<br />

meglio”, ma ecco la sorpresa: “La fanciulla non rispose subito. Poi con un soffio di voce, però quella di<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Augusta, mi disse: perché non veniste per tanto tempo?”.<br />

Italo Svevo in una caricatura<br />

Zeno manifesta per le pratiche esoteriche un assoluto scetticismo, pienamente condiviso da Svevo; egli<br />

manipola continuamente la seduta per ridicolizzare Guido, suo rivale in amore, fino alla brutale rivelazione<br />

del trucco: “Dovete scusarmi, signor Guido, mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere. Sono stato io<br />

che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome”.<br />

Lo scetticismo è del resto tipico di Zeno, perennemente in dubbio su tutto, ma sempre autoironico. Zeno,<br />

proprio grazie al disagio che vive, al suo sentirsi "inetto", è distaccato da tutto, "estraneo a se stesso", come<br />

dichiara il suo stesso nome, che deriva da ξένος, "straniero".<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

EDGAR ALLAN POE, LIGEIA<br />

"Ligeia" is an early short story by American writer Edgar Allan Poe, first published in 1838.<br />

The unnamed narrator describes the qualities of Ligeia, a beautiful, passionate and intellectual woman,<br />

raven-haired and dark-eyed, that he thinks he remembers meeting "in some large, old decaying city near the<br />

Rhine." He is unable to recall anything about the history of Ligeia, including her family's name, but<br />

remembers her beautiful appearance.<br />

Her beauty, however, is not conventional. He describes her as emaciated, with some "strangeness". He<br />

describes her face in detail, from her "faultless" forehead to the "divine orbs" of her eyes. They marry, and<br />

Ligeia impresses her husband with her immense knowledge of physical and mathematical science, and her<br />

proficiency in classical languages. She begins to show her husband her knowledge of metaphysical and<br />

"forbidden" wisdom.<br />

Ligeia by Harry Clarke,1919<br />

After an unspecified length of time, Ligeia becomes ill, struggles internally with human mortality, and<br />

ultimately dies. The narrator, grief-stricken, buys and refurbishes an abbey in England. He soon enters into a<br />

loveless marriage with "the fair-haired and blue-eyed Lady Rowena Trevanion, of Tremaine."<br />

In the second month of the marriage, Rowena begins to suffer from worsening fever and anxiety. One<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

night, when she is about to faint, the narrator pours her a goblet of wine. Drugged with opium, he sees (or<br />

thinks he sees) drops of "a brilliant and ruby colored fluid" fall into the goblet. Her condition rapidly<br />

worsens, and a few days later she dies and her body is wrapped for burial.<br />

As the narrator keeps vigil overnight, he notices a brief return of color to Rowena's cheeks. She repeatedly<br />

shows signs of reviving, before relapsing into apparent death. As he attempts resuscitation, the revivals<br />

become progressively stronger, but the relapses more final. As dawn breaks, and the narrator is sitting<br />

emotionally exhausted from the night's struggle, the shrouded body revives once more, stands and walks<br />

into the middle of the room. When he touches the figure, its head bandages fall away to reveal masses of<br />

raven hair and dark eyes: Rowena has transformed into Ligeia.<br />

The story is supposed to be the narrator's opium-induced hallucination and there is debate whether it was a<br />

satire or not. After the story's first publication in The American Museum, it was heavily revised and reprinted<br />

throughout Poe's life.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

3. MAGIA E ALCHIMIA<br />

HERMES TRISMEGISTO<br />

Con il termine ermetismo, come chiarisce il sito dell'Università di Siena (sezione Hermes latinus), si usa<br />

denotare una forma di pensiero filosofico e tecnico-operativo caratterizzato da una spiccata sensibilità<br />

religiosa, che affonda le sue origini nell'antico Egitto e che, a contatto con la civiltà greca classica, apre la<br />

strada ad una riflessione che darà origine ad una vasta produzione di carattere filosofico e teologico, che<br />

investirà anche l’astrologia, la magia e soprattutto l'alchimia.<br />

Alla figura di Hermes Trismegisto, e ad altri personaggi mitici con cui egli viene talvolta identificato, come<br />

Germa Babiloniensis, Enoch, o ancora a suoi discepoli, come Aristoteles, Belenus, Flaccus Africus,<br />

Harpocration, Thoz Graecus, Thabit, vengono attribuiti diversi scritti, che saranno poi classificati nel Corpus<br />

Hermeticum.<br />

Hermes Trismegisto non sarebbe altri che il dio egizio Thoth o Theuth "tre volte grandissimo" ("trismegisto"<br />

in greco significa appunto questo), lo stesso di cui parla Platone nel Fedro attribuendogli l'invenzione di tutto<br />

ciò che porta all'evoluzione della civiltà umana, dal gioco degli scacchi alla scrittura.<br />

La sua identificazione con il dio greco Hermes si spiega alla luce del sincretismo religioso determinatosi in<br />

seguito alla conquista dell'Oriente da parte di Alessandro Magno ed alla fondazione di Alessandria d'Egitto,<br />

vero e proprio crogiolo di culture diverse e principale polo culturale della prima età ellenistica.<br />

Hermes Trismegisto in un mosaico del Duomo di Siena<br />

L’idea fondamentale dei testi ermetici è quella dell’unità del tutto, sulla quale si fondava una visione olistica<br />

della realtà, espressa nella dottrina cosiddetta della sympàtheia universale, presente anche nella dottrina<br />

dello stoico Posidonio di Apamea e ripresa nella Tabula Smaragdina, testo fondamentale dell’alchimia.<br />

Gli autori dei testi ermetici si definiscono filosofi, ma conferiscono al termine filosofia un significato più<br />

ampio rispetto a quello di comprensione razionale della realtà. Come abbiamo visto, infatti, la filosofia<br />

ermetica presenta i tratti di un’antica tradizione sapienziale, in cui il sapere è trasmesso come una<br />

rivelazione dal maestro al discepolo (spesso gli scritti hanno la forma di dialoghi) o per illuminazione<br />

immediata dal dio Ermete, per poi tradursi in una operatività che mira alla trasformazione della realtà.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Nel Medioevo tuttavia, come si accennava, questo articolato insieme di saperi, che conoscerà ampia fortuna<br />

nel Rinascimento, non fu trasmesso, e buona parte delle informazioni che circolarono su Hermes furono<br />

ricavate da autori cristiani tardoantichi, che assunsero atteggiamenti diversi nei confronti dell’ermetismo:<br />

Agostino attaccò duramente questa forma di religione pagana, mentre positivi furono i giudizi di Lattanzio e<br />

Quodvultdeus, discepolo di Agostino e autore di un trattatello Adversus quinque haereses, che fecero di Ermete<br />

un precursore della rivelazione cristiana.<br />

Il Corpus Hermeticum rappresentò invece la fonte di ispirazione di tutto il pensiero ermetico e neoplatonico<br />

rinascimentale a partire dalla sua riscoperta, dovuta a Cosimo de' Medici ed alla traduzione da lui<br />

commissionata nel 1460 a Marsilio Ficino, ed ha continuato ad influenzare la cultura occidentale anche nei<br />

secoli successivi, attraverso la trasmissione occulta avvenuta in seno a numerose sette esoteriche.<br />

Ricostruzione della "porta ermetica" del Marchese Palombara a Roma<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

IL CORPUS HERMETICUM<br />

Il Corpus hermeticum, così come era noto agli studiosi in età<br />

medievale, era composto da 17 trattati, numerati da 1 a 14 e<br />

da 16 a 18 (il quindicesimo trattato, inserito nel corpus nel<br />

1554 dal filologo Adriano Turnebus, era in realtà un insieme<br />

di tre estratti dell'antologia di Stobeo).<br />

Si tratta di una serie di testi raggruppati ed ordinati in età<br />

bizantina, scelti probabilmente per la loro ispirazione<br />

filosofica e l’assonanza delle dottrine ivi presentate con gli<br />

elementi della cultura cristiana. Da questa collezione<br />

risultano infatti eliminati, o comunque sensibilmente<br />

ridotti, quegli aspetti legati alle pratiche occulte (magia,<br />

astrologia, alchimia) che spiccavano invece nei titoli delle<br />

più antiche testimonianze greche attribuite ad Hermes che ci<br />

sono pervenute. Alla scomparsa (o meglio, all'occultamento)<br />

della letteratura ermetica contribuì in modo decisivo<br />

l'attacco sferrato contro di essa da molti filosofi e dai Padri<br />

della Chiesa, tanto che il Cristianesimo definì l'ermetismo<br />

una dottrina eretica, mettendo al bando definitivamente<br />

ogni tipo di trattato di matrice ermetica.<br />

45<br />

Hermes Trismegisto<br />

Passò quindi molto tempo prima che si sentisse ancora parlare di ermetismo, tanto più essendo sparito tutto<br />

il corpus dei trattati. Gli scritti di magia, medicina magica ed astrologica, alchimia che in età medievale<br />

circolarono sotto l’attribuzione ad Hermes, furono in gran parte tradotti dall’arabo, sebbene originariamente<br />

costituiti da materiali risalenti all’età ellenistica.<br />

Fu Michele Psello, uno studioso bizantino vissuto a cavallo del XI secolo, a dare nuova vita alla dottrina<br />

ermetica e al Corpus Hermeticum, che però rimase ignoto in Occidente. L'esistenza del testo venne<br />

probabilmente resa nota in occasione del concilio tenutosi a Firenze sotto Cosimo de' Medici nel 1438 nel<br />

tentativo di sanare lo scisma d'Oriente.<br />

La data del 1438 è veramente epocale, perché in quell'occasione l'imperatore Giovanni VIII di Bisanzio e il<br />

patriarca di Costantinopoli Gennadio II arrivarono in Italia con un seguito di ben 650 studiosi, eruditi ed<br />

ecclesiastici. Fra i testi resi noti in quell'anno c'è anche il Timeo di Platone, fino ad allora sconosciuto.<br />

Nel 1460 Cosimo riuscì a procurarsi la copia originale appartenuta a Michele Psello ed ordinò a Marsilio<br />

Ficino di tradurre immediatamente il Corpus. Ficino completò il suo lavoro nell'arco di tre anni (in realtà<br />

tradusse solo i primi 14 trattati) ed ebbe come premio una villa.<br />

La raccolta dei 17 trattati (logoi) che formano il Corpus Hermeticum rimase intatta fino al momento in cui<br />

alcuni editori del XVI secolo decisero di metterci mano; il primo, nel 1554, fu Turnèbe, che pensò bene di<br />

aggiungere alla fine del XIV logos altri tre brani ermetici (in realtà si trattava solo di frammenti) scritti da<br />

Stobeo.<br />

Vent'anni dopo fu la volta di Flussas, che aggiunse a sua volta un brano tratto dalla "Suda"; per staccare<br />

questi ultimi quattro logoi del corpus originale, ne fece un logos a parte, ordinando il Corpus Hermeticum in<br />

18 trattati - da a I a XVIII - dei quali l'aggiunta costituiva il XIV.<br />

In seguito i logoi tornarono a essere 17, ma senza che fosse rimaneggiato il contenuto: fu semplicemente<br />

deciso di escludere dalle successive pubblicazioni il XIV, così da passare direttamente dal XIII al XV.<br />

Esistono tuttavia molti altri trattati ermetici che non fanno parte del Corpus: col passare del tempo, infatti,<br />

prese corpo una raccolta di testi e riferimenti a opere note agli eruditi, scritti in varie epoche. Si venne così a<br />

delineare una vera e propria raccolta secondaria di trattati ermetici, la cui origine affondava perfino negli<br />

scritti dell'imperatore Giuliano "L'Apostata" e di Sant'Agostino.


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Tra le opere ermetiche di Giovanni Stobeo vanno ricordate "La Vergine del Mondo" e il Florilegium<br />

(un'antologia dove Stobeo aveva inserito ben 27 brani ermetici raccolti negli anni).<br />

Un'immagine del dio Thoth<br />

L'Asclepius - tra tutti - è considerato quello di maggiore rilevanza dopo il Corpus Hermeticum, tanto da venire<br />

considerato una sua appendice. Aggiunto alla raccolta di scritti di Lucio Apuleio - il cosiddetto "Corpus<br />

Apuleianum" - l'Asclepius veniva considerato una parte fondamentale della tradizione ermetica e si riteneva<br />

che Apuleio ne fosse stato il traduttore o addirittura l'autore.<br />

Sparito in Occidente dopo la morte di Sant'Agostino, l'Asclepius riapparve solo verso il XII secolo; ma durante<br />

questo lungo periodo la sua esistenza è fuori discussione, essendo documentata da tutti gli autori che ne<br />

parlano nei loro trattati ed alimentando la corrente ermetica durante tutto il Medioevo.<br />

All'epoca del Ficino il Corpus era attribuito all'antichità egizia ed era ritenuto addirittura precedente a Mosè:<br />

lo si riteneva opera di Hermes Trismegisto ed era spesso interpretato come preannuncio del Cristianesimo.<br />

In seguito però Isaac Casaubon, nel De rebus sacris et ecclesiasticis (1614), datò la composizione del<br />

Corpus all'epoca tardo-ellenistica e mise in dubbio la reale esistenza storica del suo autore. In effetti, come si<br />

diceva prima, il nome stesso di Hermes Trismegisto sembra risalire ad un'epoca non antecedente a quella<br />

alessandrina e non si spiega se non con il sincretismo religioso e culturale tipico dell'età ellenistica; ma il<br />

problema della cronologia del nome e della formazione del Corpus non necessariamente è legato con quello<br />

della datazione dei contenuti.<br />

Oggi infatti la tesi di Casaubon è generalmente accettata per la composizione del Corpus hermeticum, che<br />

dunque è di età ellenistica, mentre rimane tuttora irrisolto il problema della cronologia dei contenuti, che<br />

potrebbero essere di gran lunga precedenti alla sua redazione; lo studioso Martin Bernal, ad esempio, ha<br />

contestato i risultati di Casaubon e riaffermato con forza l'origine egiziana del Corpus hermeticum.<br />

E' da notare infine che alcuni dei testi appartenenti al Corpus sono stati rinvenuti anche tra i Codici di Nag<br />

Hammâdi, scoperti nel 1945; essi risalgono al IV secolo d.C. circa.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il testo a noi noto è probabilmente frutto di un rimaneggiamento compiuto da Michele Psello verso il 1050; è<br />

plausibile che egli abbia eliminato elementi magici e alchemici per rendere il Corpus più accettabile per la<br />

Chiesa ortodossa.<br />

Ancora l'ingegnoso dio Thoth<br />

Il Corpus viene generalmente diviso in due parti:<br />

Pimander o Poimandres: è la parte tradotta nel 1463 da Marsilio Ficino, consta di quattordici trattati e<br />

riguarda la creazione.<br />

Asclepius: già circolante in epoca medievale, come si diceva, nella versione latina attribuita ad Apuleio, è un<br />

trattato di magia nel quale si espongono le pratiche dei sacerdoti egizi volte all'animazione di statue, tramite<br />

il coinvolgimento di forze sovrannaturali (δαίμονες).<br />

Dal mio punto di vista è di particolare interesse questa parte del corpus; tuttavia è opportuno dedicare<br />

attenzione anche alla parte restante.<br />

Poimandres, ovvero Pimandro, significa "uomo pastore", o forse, più appropriatamente, "pastore di<br />

uomini", e questo potrebbe forse spiegare il motivo per cui i primi custodi di questa antica tradizione<br />

esoterica amavano raffigurarsi come pastori (cfr. Poussin e il mito dell'Arcadia). Il Poimandres è una sorta di<br />

cammino iniziatico attraverso il quale il fedele viene condotto alla comprensione del nous ed alla rinascita in<br />

Dio, mediante l'insegnamento del suo messaggero Hermes Trismegisto. Tutto ciò in ossequio ad uno dei<br />

principi cardine della dottrina ermetica: l'uomo deve compiere un viaggio per liberare dai vincoli terreni la<br />

sua parte divina (l'intelletto) e giungere così alla salvezza, rappresentata dal lògos, la verità del Poimandres.<br />

Non tutti però saranno in grado di compiere questo percorso, riservato a pochi eletti.<br />

Al Poimandres e all'Asclepius si è aggiunto, in epoca recente, il cosiddetto Kybalion, vero e proprio compendio<br />

della sapienza ermetica e - ammesso ovviamente che sia da considerare autentico - complemento del Corpus<br />

Hermeticum, in particolare della parte di esso chiamata Tabula Smaragdina.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

L'ASCLEPIUS<br />

L’unica opera filosofica attribuita ad Hermes Trismegisto che fu letta e commentata nel Medioevo è<br />

l’Asclepius, traduzione di un originale greco che ci è pervenuto in modo frammentario attraverso l’opera del<br />

cristiano Lattanzio, dal titolo Logos teleios (= "Discorso perfetto"), datato solitamente intorno al III secolo.<br />

Inserito nel "Corpus Apuleianum", l'Asclepius veniva ricondotto ad Apuleio di Madaura: si diceva che ne fosse<br />

stato il traduttore o addirittura l'autore.<br />

Scopo dichiarato di quest'opera è l’insegnamento, ottenuto mediante rivelazione, di un mysterium che<br />

permetterà l'accesso del discepolo alla gnosi.<br />

Il testo ha uno stile oscuro e solenne, che solo gli iniziati possono comprendere, e un carattere asistematico<br />

che crea agli interpreti non poche difficoltà di comprensione. Il messaggio che si riesce a cogliere è che il<br />

concetto di gnosi è strettamente correlato ad una visione complessiva di Dio, del mondo e dell’uomo, che<br />

viene esposta al discepolo.<br />

Dio è l’essere privo di nomi che allo stesso tempo li possiede tutti, è padre ma è maschio e femmina; è<br />

onnipotente (primipotens, ‘potente tra i primi’) e buono, ma non è il Sommo Bene dei platonici; è conoscibile<br />

per l’essere umano solo attraverso l’intelletto ed esprime la sua potenza nella creazione del mondo, che poi<br />

governa mediante la provvidenza.<br />

L’Asclepius afferma l’unità di creatore e creatura in questi termini: “Non ho detto infatti che tutto è uno e uno<br />

è tutto, cosicché nel creatore c’erano tutte le cose prima che tutte le creasse? Non è detto male affermare che<br />

egli è tutto, poiché le sue membra sono tutte le cose”.<br />

In una visione cosmologica piena di punti oscuri, il primo Dio è presentato come il signore dell’eternità;<br />

secondo è il cosmo, terzo viene l’uomo.<br />

František Kupka, La via ermetica, 1903<br />

Tra Dio e il mondo è istituito un complesso rapporto di mediazione, rappresentato da una gerarchia di dèi<br />

minori e di dèmoni: la fede nell'esistenza dei dèmoni conduce alla teurgia (magia rituale): addirittura si<br />

afferma che gli uomini possano introdurre nelle statue da loro fabbricate il principio divino, per dar loro il<br />

dono della profezia. Proprio questo è il motivo per cui Sant'Agostino esprime un giudizio negativo su<br />

Hermes Trismegisto, che considera un profeta ispirato dai dèmoni e portatore di un culto pagano<br />

idolatrico.<br />

L’antropologia dell’Asclepius è profondamente ottimistica: pur ribadendo il dualismo tra anima e corpo, e la<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

superiorità della prima, che ha una natura divina, sul secondo, considera positiva questa doppia natura<br />

dell'essere umano: grazie ad essa, infatti, questi, come un microcosmo, contiene in sé tutti gli aspetti della<br />

realtà, e di conseguenza ha la capacità di governare il mondo, che gli esseri puramente spirituali non hanno.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

HITLER E IL "NAZISMO MAGICO"<br />

Il cosiddetto "hitlerismo esoterico" o "nazismo magico", il cui principale rappresentante fu Heinrich<br />

Himmler ed il cui esito più noto fu la costituzione, nel 1935, della cosiddetta Ahnenerbe ("Società di ricerca<br />

ed insegnamento dell'eredità ancestrale"), affonda le sue radici in alcuni movimenti neotemplari e neocatari<br />

formatisi a partire dall'inizio del Novecento.<br />

Ripercorriamo le fasi essenziali del fenomeno.<br />

1. Jörg Lanz Von Liebenfels.<br />

Nel 1907 Jörg Lanz Von Liebenfels, un monaco cistercense espulso in seguito dall’Ordine, fondò, in una<br />

fortezza sul Danubio, l'Ordine dei Nuovi Templari; al nuovo Ordine affiancò una rivista, Ostara, organo<br />

ufficiale per la diffusione di una nuova dottrina, l'Ariofilosofia, che predicava, tra l'altro, la superiorità della<br />

razza germanica. Il tutto derivava da una personale interpretazione dei testi biblici in base alla quale il<br />

termine Angelo veniva letto Euroariano ed i popoli dei fiumi mesopotamici venivano fatti discendere<br />

direttamente da una razza subumana chiamata Pagutu.<br />

Jörg Lanz Von Liebenfels<br />

L’idea di Von Liebenfels diede lo sprone alla nascita di nuovi gruppi, tutti dai nomi vagamente marziali<br />

quali Armen Order, Ordo Novi Templi, Germanen Order e la famigerata Società Thule. Il primo a<br />

riconoscere in questi eventi una materializzazione oscura fu Carl Gustav Jung, il quale ribattezzò il<br />

proliferare di questi movimenti come "l’Archetipo Wotan", mettendo tutti in guardia contro i pericoli che ne<br />

sarebbero potuti derivare.<br />

2. La Thule Gesellschaft, i Superiori Sconosciuti e la Terra cava.<br />

I "Nuovi Templari" non erano l'unica società esoterica della Germania prenazista. Tra il 1900 e il 1930, come<br />

sempre accade nei periodi di crisi e di confusione ideologica, molti tedeschi cercavano nel soprannaturale<br />

quelle certezze e quell'identità venute a mancare nel mondo reale.<br />

Sulla scia delle dottrine predicate dall'americana "Società Teosofica Internazionale" (fondata a New York il<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

17 Novembre 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, nobildonna russa nonché celebre medium e occultista, e<br />

dal colonnello americano H.S. Olcott) e dall'inglese "Golden Dawn" (fondata nel 1887 e diretta in questo<br />

periodo dal sinistro Aleister Crowley), e, forse, ispirati anche da una cattiva interpretazione della filosofia del<br />

"Superuomo" di Nietzsche, videro la luce molti "ordini" caratterizzati dall'idea ossessiva della necessità della<br />

rifondazione di una Razza Superiore originata millenni addietro dai "Superiori (o Maestri) Sconosciuti".<br />

Questi ultimi erano concepiti come semidei che controllavano i destini del mondo standosene nascosti - a<br />

seconda dei casi - nelle viscere della terra, in profonde gallerie scavate nell'Himalaya o in altri luoghi<br />

inaccessibili.<br />

Madame Blavatsky<br />

Nel 1910 fu fondata la "Società di Thule" (Thule Gesellschaft), la quale identificava l'origine della razza ariana<br />

nell'antica Thule di cui parla il geografo greco Pytheas (IV sec. a.C.), forse l'attuale Islanda; questa razza era<br />

costituita da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo dominavano il<br />

mondo, successivamente perso per aver consumato relazioni sessuali con membri di altre razze, inferiori,<br />

subumane e in parte animali. In effetti, nel mito thuleano di una terra abitata da una razza umana sotto certi<br />

aspetti "superiore", identificata sovente con il popolo degli Iperbòrei, organizzata in una società pressoché<br />

perfetta, si possono facilmente ritrovare alcune della basi del mito - accolto e divulgato dal nazismo - della<br />

razza ariana, superiore a qualsiasi altra e dunque inevitabilmente dominante sul mondo.<br />

La "Società di Thule" attinse a piene mani dalle teorie di Von Liebenfels e di Madame Blavatsky, la quale<br />

sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi "Superiori sconosciuti". Essi, che a suo dire erano i<br />

sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra Tibet e Nepal, si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa<br />

catastrofe nelle viscere della terra, dove avrebbero fondato una straordinaria civiltà sotterranea, la mitica<br />

Agarthi. I superstiti rimasti sulla superficie terrestre si sarebbero trasferiti parte in Tibet, parte nel nord<br />

Europa, dando origine alla razza ariana (la riprova sarebbe l'analogia tra il nome del regno degli Dei nordici,<br />

Asgard, e Agarthi, nome del mitico centro spirituale nascosto in Tibet).<br />

Anche per la "Società del Vril" (il Vril è l'enorme quantità di energia che possediamo e di cui non utilizziamo<br />

che una piccolissima parte nella vita quotidiana, il nucleo della nostra potenziale divinità) i<br />

Superiori Sconosciuti si trovavano nelle viscere della terra, ed era possibile diventare simili a loro soltanto<br />

purificando la razza.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Thule (qui indicata come Tile) in una carta di Olao Magno del 1539<br />

Un "ingegnere" autodidatta, Hans Hörbiger, formulò nel 1925 una teoria sul "mondo di ghiaccio", secondo la<br />

quale l'universo sarebbe nato dalla collisione di blocchi di "ghiaccio cosmico" dotati di movimento a spirale<br />

con enormi masse di fuoco. Dal ghiaccio, che tempra corpi e spirito, sarebbero nati sulla terra i Superiori<br />

Sconosciuti, dispersi in vari cataclismi tra cui quello di Atlantide, ma destinati a riorganizzarsi in una nazione<br />

germanica.<br />

Queste società fecero entusiasticamente propria la "teoria della Terra cava" dell'americano Symmes: quale<br />

miglior nascondiglio dell'interno della Terra, per una civiltà superiore di origine ariana?<br />

Non mancò chi, come Bender, fondatore del gruppo della "Hohl Welt Lehre", sostenne che l'umanità vivrebbe<br />

addirittura all'interno di una sfera di cui il Sole costituisce il centro. Sappiamo che Hitler fu un convinto<br />

sostenitore delle teorie di Hörbiger e di Bender.<br />

Una straordinaria "mappa della terra cava" realizzata per un gioco<br />

da Exile Game Studio nel 2005<br />

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3. La personalità di Hitler fra mistico e maniaco.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère, racconta in un suo sito che secondo August Kubizek, uno dei<br />

pochi amici di Hitler durante la sua giovinezza a Linz, in Austria, le ossessioni magico-politico-razziali del<br />

futuro Führer si rivelarono d'improvviso attorno al 1904, quando Hitler aveva quindici anni. Dopo aver<br />

assistito a Rienzi, un'opera di Wagner impregnata d'esoterismo dedicata al tribuno Cola di Rienzo, il giovane<br />

Hitler cominciò a parlare di "una missione che il destino gli aveva riservato" e che "avrebbe affrancato la sua<br />

razza dalla servitù". Sempre secondo Kubizek, in quell'occasione Hitler parlò per la prima volta con quella<br />

voce frammentata e caratterizzata da violenti toni d'ira che sarebbe divenuta tristemente famosa grazie ai<br />

suoi discorsi, e che però - fatto singolare, noto solo agli intimi - non era la voce "normale" con cui si esprimeva<br />

quotidianamente. "Pareva lui stesso stupito" scrisse Kubizek - "come se sentisse le parole di un altro uscire<br />

dalla propria bocca".<br />

C'è chi vede in questo i primi sintomi di una forma di schizofrenia che l'avrebbe accompagnato per tutta la<br />

vita, chi invece azzarda l'ipotesi di una vera e propria possessione demoniaca.<br />

Adolf Hitler<br />

Sta di fatto che da quel momento Hitler cominciò a occuparsi, quasi a tempo pieno, di misticismo orientale, di<br />

astrologia, di ipnosi, di mitologia germanica, di occultismo. Era morbosamente affascinato dalle tematiche<br />

esoteriche delle opere di Wagner, di cui presto scoprì la fonte di ispirazione: la poesia medioevale di Wolfram<br />

Von Eschenbach, autore di un Parsifal dalla complessa simbologia ermetica. Un personaggio del poema lo<br />

colpì in modo particolare. Si trattava di un certo Klingsor che, secondo Hitler, era la trasposizione letteraria<br />

di una persona realmente esistita, il tiranno Landolfo II di Capua, scomunicato nell'875 per aver praticato la<br />

magia nera con l'intento di acquisire il potere assoluto. Con ogni probabilità Hitler si identificò con lui, anche<br />

perché soffriva della stessa anomalia fisica: erano entrambi monorchidi, ovvero dotati di un solo testicolo (si<br />

sa infatti che gli Alleati cantavano una marcetta, "Hitler has only got one ball", su un'aria simile a quella di<br />

Colonel Bogey, forse inventata dallo stesso Servizio Segreto Inglese a scopo denigratorio).<br />

Hermann Rauschning descrive così le stranezze del comportamento di Hitler: «Una persona di quelle della<br />

sua intimità mi disse che egli si sveglia la notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del<br />

letto, si trova come paralizzato. E’ preso da un panico che lo fa tremare al punto che il letto si scuote.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Proferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa<br />

persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che io mi rifiuterei di credere se la fonte non fosse<br />

così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando e guardando intorno a sè con un’aria allucinata. "E’<br />

lui! E’ lui! Lo vedo qui!" egli borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce.<br />

Repentinamente pronunciò delle cifre senza senso alcuno, poi parole, pezzi di frase. Era orribile. Egli<br />

impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo tornò nuovamente silenzioso<br />

continuando però a muovere le labbra. Gli si fecero frizioni, gli si diede da bere una bevanda. Poi,<br />

improvvisamente, egli ruggì: "Lì, lì! Nell’angolo. Cosa c'è lì?" Batteva il piede sul pavimento di legno e urlava.<br />

Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e allora egli, a poco, a poco, si calmò» (Hermann<br />

Rauschning, "Hitler m’a dit", in "Hitler et la Tradition Cathare", Parigi 1939).<br />

Una celebre fotografia di Adolf Hitler<br />

"Seguo il cammino che la provvidenza mi indica con la sicurezza di un sonnambulo", diceva Hitler: il che<br />

conferma la sua convinzione di disporre di poteri paranormali. Ma da dove avrebbe egli ricevuto tali poteri?<br />

Dalla Società Thule che lo aveva iniziato all’esoterismo orientale? Dal misterioso "monaco dai guanti verdi"<br />

inviato dai saggi del Tibet? O da una rivelazione più antica?<br />

Fra l’altro, per quanto possa sembrare paradossale, Hitler odiava i cacciatori: credeva nella reincarnazione<br />

delle anime in corpi di animali, proprio come i buddisti e i catari. Un giorno dichiarò: «Chi si suicida ritorna<br />

fatalmente alla natura-corpo, anima e spirito» (Hitler Adolf, "Libres Prepos", Flammarion, Paris, in "Hitler et<br />

la Tradition Cathare"); dichiarazione in totale contrasto con la scelta del suicidio che attuò nel 1945.<br />

Sapendo tutto questo, non c'è da stupirsi che già nel lontano 1909, a vent'anni, Hitler abbia preso contatto con<br />

Von Liebenfels, e che 1919 sia stato iniziato alla Società Thule da Dietrich Eckart, che in quel periodo ne era<br />

il leader, rimanendo profondamente e durevolmente influenzato da tutte le teorie sopra descritte.<br />

4. Hitler e l'esoterismo.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Difficile comprendere se sia stata l'ossessione di Hitler per queste teorie esoterico-razziali a fargli<br />

intraprendere la sua carriera politica, in modo da poterle mettere in pratica, oppure le abbia adottate "a<br />

posteriori" come base filosofica della sua politica; con ogni probabilità le due ossessioni interagirono. Sta di<br />

fatto che Adolf Hitler fece sua questa accozzaglia di dottrine.<br />

Che ci credesse sul serio o, come si suol dire, "ci marciasse" (ma la prima ipotesi è la più attendibile), Hitler si<br />

circondò di legioni di maghi, astrologi, occultisti, ricercatori psichici, alchimisti. Non a caso, nel 1920, scelse<br />

un simbolo magico, la svastica, come marchio del partito nazionalsocialista. Gliel'aveva suggerito Friedrich<br />

Krohn, un occultista del gruppo "Germanenorder", ma Hitler aveva preteso una modifica: la direzione delle<br />

braccia della svastica fu invertita, trasformando questo antico simbolo solare e positivo in un simbolo<br />

notturno e negativo.<br />

Uno stupefacente disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life,<br />

raffigurante gli incubi di Hitler (tutti a forma di svastica!)<br />

Paradossalmente, l'occultista più seguito da parte di Hitler era un ebreo, tal Erik Jan Hanussen, che non solo<br />

gl'impartì lezioni di oratoria, ma anche curò la teatralità dei gesti del futuro dittatore. A far data dal 1932<br />

(sebbene altri futuri alti gerarchi nazisti abbiano fatto ricorso al medium già a partire dal 1924) Hitler ricorse<br />

più volte alle "cure" di Hanussen ogni qual volta doveva prendere decisioni importanti o si sentiva deluso dai<br />

risultati elettorali, tanto che nel 1932 l'esoterista, a quel tempo secondo solo ad Harry Houdini per fama, gli<br />

preannunciò la conquista del potere per l'anno seguente, il che effettivamente si verificò nella data<br />

prestabilita, in quanto "questo hanno deciso le potenze celesti e nulla potrà mutare tale verdetto se scritto nel<br />

destino". Nel corso di un'intervista, Hanussen ebbe modo di affermare circa Hitler ed il nazismo: "Hitler? Sì,<br />

un ottimo direttore d'orchestra! Però, lo spartito... - rammentate bene - ebbene quello l'ho scritto io!".<br />

Hanussen morì un anno esatto dopo aver predetto la vittoria hitleriana, nella primavera del 1933, ma<br />

sembra ormai accertato che Hitler non fosse coinvolto nel suo omicidio; lo erano piuttosto, pare, Himmler e<br />

Gōring. Hanussen infatti aveva predetto a Göring la caduta del Terzo Reich, e questa fu una delle probabili<br />

cause della sua morte.<br />

Il giorno prima di morire Hanussen scrisse con l'inchiostro simpatico una lettera all'ex segretario Juhn: "Tu<br />

non credi nell'occulto, ma il nuovo padrone della Germania ci crede eccome! Leggi quanto profetizza il mio<br />

collega, il profeta Daniele nel capitolo 8 ("13. Udii parlare un santo e un altro santo dire a quello che parlava:<br />

«Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il santuario<br />

e la milizia calpestati?». 14. Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa<br />

giustizia»"). Calcola bene gli anni e saprai quando cadrà l'uomo malvagio che cerca di sottomettere il mondo<br />

con la forza bruta. Calcola gli anni da quando cento sinagoghe saranno distrutte in un'unica sera ("Notte<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

dei cristalli", 1938) e saprai quando cesserà il suo barbaro sogno".<br />

Il giorno dopo Hanussen morì in circostanze oscure.<br />

Hanussen a parte, molti episodi del nazismo rimangono non del tutto chiariti. Ad esempio l'operazione che<br />

passò alla storia col nome de "La Notte dei Lunghi Coltelli" (1934), voluta da Hitler, dal ministro degli<br />

Interni Göring e dal leader delle SS, Himmler, potrebbe essere, secondo alcuni, un regolamento di conti a<br />

sfondo non solo politico, ma anche esoterico.<br />

5. Himmler e il neo-paganesimo.<br />

Nel 1933, con il beneplacito di Hitler, il Reichsführer e fondatore delle SS (Schutz Staffel, "Forza Protettiva"),<br />

Heinrich Himmler, noto per la sua devozione maniacale alle arti magiche, mise insieme una vera e propria<br />

religione neo-pagana.<br />

Tutte le organizzazioni occulte furono obbligate a sospendere le loro pratiche per ordine di Himmler, il quale<br />

si riteneva unico depositario dell’ermetismo nazista; rimase in vita solo il famigerato Ordine Nero da lui<br />

fondato, un movimento occulto nato con l’unico scopo di contrastare gli alleati servendosi di pratiche<br />

magiche. Contemporaneamente Hitler fece eliminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi,<br />

esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze, iniziò a divulgare nuove teorie ed ordinò<br />

l’insegnamento delle prime nozioni misteriosofiche ad una speciale sezione delle S.S. dedita esclusivamente<br />

all'esoterismo.<br />

Come centri di culto furono scelti Exernsteine, considerata la Stonehenge tedesca, e, soprattutto,<br />

Wewelsburg, dove venne edificata una vera e propria cattedrale esoterica, con una Tavola Rotonda per<br />

tredici commensali (Himmler e i suoi "dodici apostoli") attorno alla quale venivano progettati i genocidi delle<br />

"razze inferiori" e degli omosessuali. Qui le giovani SS (la cui genealogia era stata controllata fino al 1750, per<br />

appurare che in loro non scorresse sangue ebreo) subivano un rito di iniziazione, dopo il quale potevano<br />

indossare la divisa nera con il teschio d'argento.<br />

La sala di Wewelsburg, con il "sole nero" sul pavimento<br />

Himmler si occupava anche di cerimonie scaramantiche contro simboli o monumenti che riteneva di cattivo<br />

auspicio; durante la guerra fu ossessionato dall'idea di sabotare le campane di Oxford, presso Londra, che<br />

secondo lui portavano sfortuna alla Luftwaffe, l'aviazione tedesca, impedendole di colpire a fondo sul<br />

territorio inglese.<br />

Nel 1938, in occasione dell'Anschluss, ovvero l'annessione forzata dell'Austria, Hitler si affrettò a<br />

impadronirsi dell'Heilige Lanze, la "Lancia Sacra" con cui, secondo la leggenda, il pretoriano Longino aveva<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

trafitto il costato di Cristo crocifisso, custodita nel palazzo Hofburg di Vienna. Hitler la riteneva un<br />

potentissimo talismano e la fece portare a Norimberga, il centro principale del Partito Nazista. Qui essa venne<br />

provvisoriamente collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove venne allestito un vero e proprio santuario<br />

mistico-esoterico, e presentata come simbolo della sacralità della missione germanica, ricollegandovi<br />

nuovamente un mito di invincibilità. In seguito Hitler la fece murare in un bunker segreto.<br />

La "Lancia Sacra", oggi conservata a Vienna<br />

Sempre agli anni immediatamente antecedenti al<br />

conflitto risalirebbero alcune esplorazioni in Tibet,<br />

allo scopo di identificare la mitica Agarthi, e la ricerca<br />

del Santo Graal. A quest'ultima vicenda è legata la<br />

misteriosa morte dell'archeologo Otto Rahn.<br />

Rahn, colonnello delle SS, e il filosofo Alfred<br />

Rosenberg, amico di Hitler, furono incaricati di<br />

cercare il Graal. Indagarono a Montségur e in altre<br />

fortezze catare. Subito dopo le ricerche, di cui mai si<br />

seppe alcun risultato, il 13 Marzo del 1939 il corpo di<br />

Rahn venne ritrovato in fondo ad una scarpata tra le<br />

montagne dell'Austria, a Kitzbühel. L'episodio non fu<br />

mai ben chiarito: le tesi ufficiali parlano di suicidio,<br />

ma si è ipotizzato che si trattasse di un'esecuzione.<br />

57<br />

Otto Rahn<br />

Ne "Il Mattino dei Maghi" Jacques Bergier sostiene che le spedizioni continuarono fino al 1943, ma la loro<br />

realtà non è storicamente accertata. Si sa però che nel giugno del 1944 la II divisione delle S.S. "Das Reich"<br />

mise a ferro e fuoco il paese di Oradour-sur-Gland, massacrandone gran parte della popolazione, rea di aver<br />

occultato, a suo dire, la reliquia che Hitler aveva cercato disperatamente per mezza Europa. E' confermato<br />

anche il fatto che, dopo la caduta di Berlino, i sovietici rinvennero i cadaveri di molti tibetani in uniforme<br />

tedesca. Chi erano, e cosa facevano nella capitale del Reich?<br />

Nel frattempo Hitler continuava la sua frequentazione di veggenti: nel 1942 si recò in Bulgaria a consultare<br />

la celebre Vangelia Pandeva ("Baba Vanga"), che viveva nella città di Petrich.<br />

Probabilmente l'incontro non fu dei più felici, giacché Hitler fu visto uscire scuro in volto. Si faceva anche<br />

commentare da un sedicente esoterista, tal Ludwig Birzer, i passi di Nostradamus, della Monaca di Dresda, di<br />

San Malachia, Mother Shipton e dell'anonimo monaco tedesco noto con lo pseudonimo de "Il Ragno Nero" (in


tedesco "der Schwarze Spinne").<br />

6. Ipotesi e interrogativi.<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Questi i fatti accertati. Ma secondo alcuni studiosi Hitler non era soltanto un paranoico ossessionato dalla<br />

magia, bensì un iniziato "di mano sinistra", un lucido e potentissimo "mago nero" che aveva stretto un patto<br />

con oscure potenze, a cui offriva sacrifici rituali in cambio del potere assoluto, come il suo ideale<br />

predecessore Landolfo II di Capua. Quest'alleanza spiegherebbe la sua fulminea carriera e l'inspiegabile<br />

carisma che il Führer, pur essendo fisicamente insignificante, riusciva ad esercitare a livello quasi ipnotico su<br />

sterminate moltitudini di concittadini.<br />

Ancor più inquietante l'ipotesi che lo stregone non fosse Hitler, ma qualcun altro che teneva nascostamente<br />

le fila e lo usava come fantoccio. Ma ci fu davvero qualcuno al disopra di Hitler? E se sì, chi era e che fine ha<br />

fatto?<br />

Nel volume "La Guerra Segreta", lo storico e narratore inglese Dennis Wheatley afferma che tra il '40 e il '45<br />

potenti maghi "bianchi" di tutte le nazionalità si sarebbero coalizzati contro Hitler e i suoi stregoni,<br />

attaccandoli sul piano psichico. In Inghilterra le attività dei "maghi bianchi" sarebbero state coordinate da<br />

un'apposita sezione del Servizio Segreto, sorta con il beneplacito di Winston Churchill; tra i più potenti<br />

"oppositori psichici" di Hitler in Italia c'era - si dice - lo stesso Padre Pio di Pietralcina.<br />

Un giovanissimo Padre Pio<br />

In Germania (e questa notizia è storicamente sicura) il pranoterapista personale di Himmler, Felix Kernsten,<br />

un potente sensitivo di cui il Reichsführer delle SS era letteralmente dipendente, riuscì a "influenzarlo<br />

mentalmente" salvando la vita a centinaia di ebrei (Kernsten venne di seguito decorato dagli Alleati per aver<br />

reso "servigi così preziosi da non poter essere comparati con nessun precedente").<br />

Sintomatico il fatto che, come si è detto, una volta preso il potere, Hitler si sia subito premurato di far<br />

sterminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue<br />

strettissime dipendenze.<br />

Ma, evidentemente, questa precauzione non bastava: Hitler non riuscì a sfuggire al destino che, come nel<br />

mito di Faust, attende chi stringe un'alleanza con il Maligno. Chiuso in un bunker sotto una Berlino rasa al<br />

suolo dalle bombe e devastata dagli incendi, il Führer attese il 30 aprile 1945 prima di suicidarsi: era il<br />

giorno che si conclude con la notte di Valpurga, la notte in cui i poteri delle tenebre celebrano la loro festa<br />

trionfale.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

4. LA DONNA COME DEMONE<br />

FOSCA, LA DONNA-VAMPIRO<br />

Vorrei essere un’iena, addentrarmi nei sepolcri e pascermi delle ossa dei morti.<br />

A questo mondo io non vedo che teschi e stinchi. Se una donna mi bacia, io non sento che freddo;<br />

se mi sorride, vedo i suoi denti muoversi senza gengive, minacciando di uscire di bocca; se mi abbraccia,<br />

non ho che la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta.<br />

(Iginio Ugo Tarchetti, da Pensiero)<br />

Iginio Ugo Tarchetti nacque a San Salvatore Monferrato, vicino ad Alessandria, nel 1839. Studiò a Casale e a<br />

Valenza, e si arruolò giovane nell'esercito. Le cronache del suo tempo ci descrivono Tarchetti come un<br />

giovane alto all'incirca un metro e ottantaquattro, con volto ovale, il naso diritto, gli occhi azzurri. Un<br />

bell'uomo, capace di provare e scatenare grandi passioni.<br />

Ugo Iginio Tarchetti<br />

Un aspetto di re merovingio avea […] un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di<br />

ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche<br />

critico oggi lo chiamerebbe un “féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale<br />

proclamava al pari d’un altro sconfinato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore<br />

della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste<br />

famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi!<br />

(Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Treves)<br />

Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava<br />

superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla<br />

confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le<br />

donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua<br />

idealità d’artista.<br />

(Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N.)<br />

Verso il mese di novembre dell'anno 1865 Tarchetti si trovava a Parma, ove aveva incarichi militari. Nella<br />

città emiliana Tarchetti conobbe una donna, una certa Carolina (o Angiolina, sul nome c'è incertezza),<br />

parente di un suo superiore. Essa era malata di epilessia e prossima alla morte. Pur non essendo bella, ella<br />

suscitò subito un'attrazione da parte dello scrittore, forse per i grandissimi occhi neri e le trecce color ebano.<br />

Tarchetti stesso ci descrive la donna: "Quell’infelice mi ama perdutamente… il medico mi disse che morrà<br />

fra sei o sette mesi, ciò mi lacera l'anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d'una misera<br />

e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni e v'ha la natura che mi respinge da lei".<br />

La relazione fra i due fu uno scandalo, ma la donna fu l'ispirazione più diretta di Tarchetti per la creazione<br />

del personaggio di Fosca.<br />

Nel 1865 Tarchetti abbandonò la vita militare, adducendo la ragione a motivi di salute, e si trasferì a Milano,<br />

dove entrò in contatto con gli ambienti della Scapigliatura. Nel capoluogo lombardo trascorse i suoi ultimi<br />

anni conducendo una frenetica attività letteraria, scrivendo articoli, romanzi, racconti e poesie.<br />

Malfermo di salute, morì di tifo nel 1869, a soli trent’anni. La sua morte precedette quella della malata<br />

Carolina, la quale sopravvisse a Tarchetti e onorò la scomparsa del poeta mandando fiori alla sua lapide il<br />

novembre di ogni anno.<br />

Iginio Ugo Tarchetti è oggi sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano.<br />

Fosca è considerato la prova migliore di Tarchetti, che lavorò a questo romanzo fino alla morte. Non riuscì<br />

però a completarlo: stese i due capitoli conclusivi, ma la parte mancante, la notte d’amore di Giorgio e<br />

Fosca, venne scritta dall’amico Salvatore Farina per permettere la pubblicazione dell’opera, che uscì a<br />

puntate sul «Pungolo», quello stesso anno.<br />

La vicenda, nella finzione narrativa, trae origine da un manoscritto (espediente manzoniano) in cui Giorgio,<br />

un giovane ufficiale, racconta in prima persona le due passioni amorose, risalenti a cinque anni prima, che<br />

hanno profondamente segnato la sua vita.<br />

Egli, ritiratosi dalla vita militare a causa di una malattia al cuore, si reca a Milano, dove incontra Clara, il cui<br />

"nome parlante" allude alla natura chiara e solare di questa donna giovane e bella, sposata, con la quale vive<br />

una intensa relazione d’amore.<br />

Dopo appena due mesi di inebriante felicità, Giorgio, risanato nel corpo e nello spirito, viene richiamato in<br />

attività e destinato a una monotona cittadina di provincia circondata da una landa desolata. Qui avviene<br />

l’incontro con Fosca, la cugina del suo colonnello; anche in questo caso il "nome parlante" ha una diretta<br />

corrispondenza con l'aspetto fisico e la personalità di questa donna, non bella, di orribile magrezza, consunta<br />

da una non meglio identificata malattia psicofisica.<br />

Da questo momento, mentre l’immagine di Clara diviene via via più remota, Fosca entra sempre più<br />

prepotentemente nella vita e nella mente di Giorgio, fino a contagiarlo con il suo morbo.<br />

Il tema dell’amore è presente nel romanzo secondo due modelli contrapposti: da una parte quello<br />

romantico, con l’adulterio che assume il valore di conflitto con le regole sociali, dall’altra il modello, tipico<br />

della Scapigliatura, dell’amore visto nei suoi risvolti morbosi, patologici, associato alla malattia e alla morte.<br />

È così, infatti, che Tarchetti-Giorgio descrive il rapporto con Fosca: «Più che l’analisi di un affetto, che il<br />

racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho<br />

sentito, l’ho subito».<br />

Ed è di questo amore che il protagonista vuole scrivere: le parti che fanno capo a Clara, infatti, sono soltanto<br />

brevemente evocate, come ricordi sereni ma statici, chiusi, di un tempo felice.<br />

Il contrasto fra le due donne, che attiene non solo al loro aspetto fisico, ma altresì alla realtà che le circonda,<br />

è messo in evidenza già nel modo in cui ci vengono presentate.<br />

Clara, giovane, serena, d’una bellezza florida e sana, sembra permeare di sé tutti gli elementi che<br />

interagiscono con lei. Il rapporto Giorgio-Clara è raffigurato sulla pagina come una sorta di cammeo, dove<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

tutto è perfetto e in sé compiuto: il tempo è quello della primavera, gli spazi sono quelli aperti di prati in<br />

fiore attraversati da limpidi ruscelli, oppure quelli chiusi di una capanna disabitata, “il loro tabernacolo”,<br />

custode della loro intimità. Clara rappresenta la luce e la vita, è colei che con la sua forza e insieme la sua<br />

dolcezza risana e rigenera: emblematica è a questo proposito l’assimilazione tra la bellezza di lei e quella che<br />

doveva aver avuto la madre di Giorgio quand'egli nacque.<br />

Edvard Munch, Vampiro, 1893-94<br />

L’entrata in scena di Fosca, invece, è preceduta da un alone di inquietante mistero che induce nel lettore<br />

una crescente suspense: ci viene presentata attraverso le parole del cugino, del medico, ma intanto è lì, in<br />

absentia, il suo posto a tavola, sempre accanto a quello di Giorgio, contrassegnato da un fiore. Prima ancora<br />

di “vederla”, poi, assistiamo improvvisamente alla parossistica manifestazione della sua terribile<br />

malattia: urla acute, strazianti e prolungate echeggiano nella sala e richiamano alla mente di Giorgio, per la<br />

prima volta, l’idea della morte. Infine Fosca appare, straordinariamente orribile e insieme intensamente<br />

attraente: la descrizione del volto, con gli zigomi e le ossa delle tempie spaventosamente sporgenti, rimanda<br />

all’immagine di un teschio; il pallore del volto contrasta con i capelli d’ebano, folti e lucentissimi, e con gli<br />

occhi grandi, nerissimi e vividi; la sua persona, alta e scheletrica, prodotto del dolore fisico e delle malattie,<br />

ha però una grazia e un’eleganza sorprendenti.<br />

Fosca incarna la malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali, dietro alla quale si cela la morte,<br />

evocata attraverso immagini di sapore espressionistico, violentemente contrapposte: l’orrore che quel corpo<br />

già incadaverito suscita nel protagonista mentre lo avvinghia come se volesse trascinarlo con sé nella tomba,<br />

e il fascino che, nelle scene notturne, promana da quel volto come trasfigurato.<br />

Si avverte potentemente, in queste immagini, l'influsso di Edgar Allan Poe, autore molto amato da Tarchetti,<br />

e specialmente quello del racconto Ligeia (leggibile in traduzione italiana qui), del 1838: in esso infatti<br />

Poe contrappone due donne dalle caratteristiche fisiche assai simili a quelle di Fosca e Clara: Lady Ligeia,<br />

l'amatissima prima moglie del narratore, dai capelli corvini e dai meravigliosi occhi neri, donna di<br />

grandissimo fascino e di straordinaria cultura, con spiccati interessi esoterici, che ricambia l'amore del marito<br />

con una "devozione piu' che appassionata" che "sfiora l'idolatria", ma dalla salute malferma che la conduce<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

presto alla morte; e Lady Rowena, la seconda moglie, una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi,<br />

giudicata insignificante e banale dal marito, che non riuscirà mai ad amarla.<br />

Valeria D'Obici interpreta Fosca nel film "Passione d'amore" del 1981,<br />

tratto dal romanzo di Tarchetti<br />

Dopo appena un mese di matrimonio Lady Rowena si ammala a sua volta, e quando il marito le somministra<br />

un vino medicamentoso ha la visione di alcune gocce di una sostanza misteriosa che cadono nel bicchiere. La<br />

donna beve il vino, peggiora ed in breve muore.<br />

Durante la veglia funebre il marito ha più volte l'impressione di notare segni di vita nel corpo della defunta.<br />

Alla fine il cadavere, avvolto nel sudario, si alza, si pone al centro della stanza, e, di fronte all'uomo<br />

sconvolto, si toglie le bende dalla testa: ed ecco apparire le chiome corvine di Ligeia, ecco aprirsi i suoi<br />

occhi nerissimi. Ligeia è tornata dalla morte per amore del marito, impadronendosi del corpo di Lady<br />

Rowena.<br />

Le analogie fra le due vicende sono evidenti: anche Fosca, come Ligeia, è una creatura malata e<br />

inquietante, intimamente connessa con l'idea della morte, una creatura quasi demoniaca che incute terrore ed<br />

orrore; ed anche lei è disposta a tutto per amore del suo uomo. In entrambi i casi la rivale non ha la benché<br />

minima chance: sia Clara che Lady Rowena sono troppo "normali", troppo graziose e femminilmente<br />

rassicuranti, per poter fare breccia nell'animo dei due protagonisti, profondamente attratti dal macabro e dal<br />

fascino malsano della morte.<br />

Ciò che rende Fosca attuale per il lettore moderno è, in ultima analisi, l’inquietudine che l’attraversa, il<br />

dubbio, le dicotomie fra le opposte realtà della vita e dell’io, espresse non solo nello sdoppiamento Clara-<br />

Fosca, ma anche nella duplicità che caratterizza Fosca in se stessa: l'oscillazione continua fra logica e<br />

desiderio, razionale e irrazionale, luce e ombra.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

IL MITO DI SALOMÈ<br />

Masolino D’Amico, nel saggio che accompagna una recente edizione della Salomè di Oscar Wilde (ES 2010),<br />

definisce Salomè "il personaggio femminile più emblematico per la sensibilità della cosiddetta decadenza.<br />

Salomè è infatti l’ultima incarnazione del mito romantico della donna fatale, corrotta e innocente al tempo<br />

stesso, irresistibile e distruttrice; un mito che si incarna di volta in volta nella Belle Dame Sans Merci di Keats,<br />

nella Carmen di Merimée, nella Monna Lisa di Leonardo descritta da Walter Pater. In Salomè questa femme<br />

fatale assume i connotati estremi nel segno della decadenza: estrema è la crudeltà (e allo stesso tempo,<br />

l’innocenza); estrema è la giovinezza (già nel Medioevo Salomè viene rappresentata come poco più di una<br />

bambina); estrema è la carica sacrilega del mito, ed estrema è la componente erotica (la danza discinta, il<br />

sangue)».<br />

Franz Von Stuck, Salomè e la danza dei sette veli, 1906<br />

Artisti e letterati di ogni epoca hanno subito il fascino di questo archetipo femminile, ma senza dubbio la<br />

corrente letteraria che ne risentì maggiormente fu il Decadentismo, come testimonia bene l'arte figurativa: il<br />

solo Gustave Moreau dedicò a Salomè numerosi dipinti, due dei quali celebrati con toni entusiastici da<br />

Huysmans in À Rebours.<br />

Salomè è dunque la femme fatale per definizione, personificazione stessa della donna dèmone o donna<br />

vampiro che così irresistibilmente attrae gli uomini alla ricerca di sensazioni forti, la perfetta sintesi di eros e<br />

thanatos di cui la sensibilità malata dell'esteta decadente ha bisogno per vincere la noia che lo attanaglia e gli<br />

fa sembrare vuote e prevedibili le donne "normali".<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

La vicenda biblica<br />

I personaggi implicati nell’episodio della decollazione di Giovanni Battista sono quattro:<br />

- Erode Antipa (figlio di Erode il Grande e fratello di Erode Filippo);<br />

- Erodiade (nipote di Erode il Grande, moglie di Erode Filippo e madre di Salomè);<br />

- Salomè, nata dal matrimonio fra Erodiade e Erode Filippo ma figlia adottiva di Erode Antipa in seguito al<br />

secondo matrimonio della madre;<br />

- Giovanni Battista, il profeta che annuncia la venuta di Cristo.<br />

Erodiade, contravvenendo alla legge ebraica, sposò in seconde nozze Erode Antipa: ella infatti, già moglie di<br />

Erode Filippo, aveva abbandonato assieme alla figlia la corte romana, preferendo a questa quella giudaica.<br />

La legge ebraica permetteva di sposare in seconde nozze il fratello del proprio marito solo in caso di<br />

avvenuta morte di questi o di sterilità dello stesso; proprio la contravvenzione alla suddetta legge fu<br />

motivo di conflitto fra il profeta Giovanni Battista e la regina Erodiade.<br />

In occasione dei festeggiamenti del genetliaco di Erode Antipa, la diabolica regina organizzò un piano di<br />

vendetta: fece in modo che l'affascinante figlia, figliastra del festeggiato, si esibisse in una seducente danza<br />

d’intrattenimento (la "danza dei sette veli"); deliziato ed eccitato dall'esibizione della giovane, Erode promise<br />

all’abile danzatrice qualsiasi dono, finanche “metà del proprio regno”.<br />

L’ingenua fanciulla, istigata dalla madre, chiese la testa del Battista su un piatto d’argento. Suo malgrado il<br />

tetrarca, vincolato alla promessa fatta, acconsentì alla richiesta.<br />

Il racconto biblico si conclude con l’allontanamento dalla reggia degli adepti del profeta che trasportano fuori<br />

il corpo del martire decollato.<br />

Léon Herbo, Salome, 1889<br />

Le testimonianze bibliche<br />

Presento qui di seguito i passi biblici in cui compare Salomè (Vangelo secondo Matteo 14,1-12 e Vangelo<br />

secondo Marco 6,14-29), chiamata, come si vede, non col proprio nome, bensì con l’appellativo “figlia di<br />

Erodiade”. E’ solo con lo storico Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche XVIII 136-139) che si viene a<br />

conoscenza del nome della “figlia di Erodiade”, Salomè.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Matteo 14, 1-12<br />

«In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: "Costui è<br />

Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui". Erode aveva arrestato<br />

Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo<br />

fratello. Giovanni infatti gli diceva: "Non ti è lecito tenerla!". Benché Erode volesse farlo morire, temeva il<br />

popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in<br />

pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse<br />

domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: "Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista". Il<br />

re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a<br />

decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la<br />

portò a sua madre. I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne<br />

Gesù».<br />

Marco 6, 14-29<br />

«Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: "Giovanni il<br />

Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui". Altri invece dicevano: "E` Elia";<br />

altri dicevano ancora: "E` un profeta, come uno dei profeti". Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: "Quel<br />

Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!". Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva<br />

messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva<br />

a Erode: "Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello". Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe<br />

voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su<br />

di lui; e anche se nell`ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno<br />

propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i<br />

notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora<br />

il re disse alla ragazza: "Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò". E le fece questo giuramento: "Qualsiasi cosa<br />

mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno". La ragazza uscì e disse alla madre: "Che cosa<br />

devo chiedere?". Quella rispose: "La testa di Giovanni il Battista". Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta<br />

dicendo: "Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista". Il re ne fu rattristato;<br />

tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una<br />

guardia con l`ordine che gli fosse portata la testa. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su<br />

un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputa la cosa,<br />

vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro».<br />

Salomè nella letteratura e nell'arte<br />

E' Charles Baudelaire a dare il La all'interesse del Decadentismo per la figura di Salomè, ispirando le liriche<br />

27 e 28 della sezione 'Spleen et Idéal', contenuta ne Les Fleurs du Mal del 1857, alle figure di Erodiade e della<br />

figlia, ma concentrando la propria attenzione soprattutto su quest'ultima. Più labile è il nesso con il<br />

personaggio nel poema incompiuto Hérodiade di Stéphane Mallarmé del 1866, incentrato particolarmente<br />

sulla figura della madre.<br />

Nel 1876 viene esposto al Salon International il dipinto Salomè danza davanti ad Erode di Gustave Moreau<br />

(tempera alla quale seguirà a breve il dipinto a olio L’Apparition). L'interpretazione che Moreau dà della<br />

figura di Salomè è del tutto particolare: la ragazza è vista non come una creatura carnale e sensuale, ma al<br />

contrario come un essere quasi androgino, la cui apparenza pura ed innocente fa un sinistro contrasto con il<br />

suo ruolo perverso, i cui gesti composti e ieratici la ritraggono come una inconsapevole sacerdotessa del<br />

Male, un simbolo dell'ineluttabilità del destino che piomba inesorabile sull'uomo: una sorta di angelo caduto,<br />

insomma un vero e proprio dèmone. Questa "lettura" così nuova del personaggio farà scalpore e desterà<br />

un'eco profonda soprattutto nella sensibilità di Joris Karl Huysmans, che nel suo À rebours del 1884, vera e<br />

propria "Bibbia" del Decadentismo, dedica a questi dipinti una lunga digressione, che ho riportato qui. Ma<br />

già l'anno successivo, nel 1877, Flaubert compone l’Hérodias, con ogni probabilità ispirato proprio dai<br />

dipinti di Moreau. Nel racconto flaubertiano Erodiade viene descritta come una donna dominante, mentre<br />

Erode è dipinto come un esteta inesperto ma raffinato. La figlia Salomè appare come uno strumento usato<br />

astutamente dalla madre per raggiungere i propri fini.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il passo successivo è compiuto da Oscar Wilde, che nel 1891, nella sua Salome composta in francese ed<br />

arricchita dalle celebri illustrazioni di Audrey Beardsley, attribuisce a Salomè, e non più ad Erodiade, la<br />

volontà della decapitazione di Giovanni Battista: la principessa infatti si è innamorata perdutamente del<br />

profeta, ma non è corrisposta; la decapitazione è quindi la sua vendetta, e nel contempo la soddisfazione<br />

della sua perversa libidine (alla fine Salomè bacia la bocca del decapitato). All'opera di Wilde ho dedicato un<br />

capitolo a parte.<br />

Aubrey Beardsley, The stomach dance, 1893<br />

La variante proposta da Wilde per la verità non è nuova: ha radici nel poema Atta Troll scritto nel 1843 dal<br />

poeta tedesco Heine. Nel componimento heiniano l’autore racconta di avere assistito in sogno ad una parata<br />

di personaggi illustri in forma di "caccia all'orso", nella quale si staglia la figura della regina Erodiade<br />

accompagnata da Diana, dea della caccia, e dalla fata Abunde. La descrizione dell’episodio onirico si<br />

conclude con l’immagine di Erodiade tornata fanciulla (rappresentata come Salomè) mentre si diletta di<br />

baciare la testa del profeta martire e di giocare con essa.<br />

Anche nella letteratura italiana di quel periodo è presente il mito della femme fatale; notoriamente, chi ne<br />

enfatizza maggiormente i tratti demonici è Gabriele D’Annunzio. Basti ricordare il romanzo Il Piacere, in<br />

cui Elena Muti, una delle protagoniste femminili del testo, induce il protagonista Andrea Sperelli ad un<br />

completo asservimento. Ma il personaggio di Salomè vive nella fantasia dello scrittore abruzzese anche in<br />

senso proprio, e non metaforico, attraverso l'enorme suggestione esercitata su di lui da Lucrezia Buti, una<br />

suora (!) che aveva "posato" come modella per la Salomè di Filippo Lippi, e della quale D'Annunzio asserisce<br />

di essersi perdutamente innamorato: la singolare vicenda è descritta in questa sezione.<br />

66


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Oltre a Gustave Moreau, molti altri pittori di questo periodo dipinsero la figura di Salomè, per lo più però<br />

fornendone un'interpretazione "tradizionale", cioè raffigurandola come una donna lasciva, sensuale e<br />

perversa, anche un po' volgare. Ho riportato in apertura, come esempio, la Salomè di Franz Von Stuck del<br />

1906, che si dice fosse particolarmente apprezzata da Hitler, ma molti altri artisti si cimentarono su questo<br />

soggetto.<br />

Fra questi merita senz'altro di essere ricordato Henri Régnault, che nel 1870 dipinse la Salomè<br />

orientaleggiante riprodotta qui sotto, che destò notevole ammirazione:<br />

Gustav Klimt ritorna invece a dare di questo mito un'interpretazione raffinata ed elegante, fondendo il mito<br />

di Salomè con quello di Giuditta e rappresentandola non più come ragazza, ma come una donna matura, in<br />

linea con le preferenze degli esteti decadenti, che prediligono la donna esperta nella perversione e nella<br />

seduzione. I dipinti da lui dedicati a questo mito sono due, uno del 1901 e l'altro del 1909.<br />

Per quanto riguarda il teatro, dal dramma di Wilde fu tratto il libretto dell'opera omonima, musicata da<br />

Richard Strauss nel 1905. Anche il poeta portoghese Eugenio de Castro scrisse nel 1896 una Salomè.<br />

In seguito il mito di Salomè declina inesorabilmente: sono poche le eccezioni, e due delle più significative<br />

sono proprio italiane.<br />

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Gustav Klimt, Salomè<br />

(Giuditta e Oloferne)<br />

1901<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

68<br />

Gustav Klimt, Giuditta Salomè<br />

1909<br />

Tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, infatti, il grande Carmelo Bene riportò in scena il mito di<br />

Salomè, dandone un'interpretazione triviale che richiama da vicino le atmosfere del Satyricon di Petronio.<br />

Poco o nulla invece aggiunge al panorama complessivo la recente prova operistica allestita da Giorgio<br />

Albertazzi nel gennaio 2007, che tanto scalpore ha suscitato a livello mediatico, più per le nudità portate in<br />

scena dalle protagoniste che per intrinseci pregi artistici (il testo di partenza era ancora una volta quello di<br />

Wilde).


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

OSCAR WILDE, SALOMÈ<br />

La Salomè di Oscar Wilde è un dramma in atto unico dedicato a Pierre Louÿs e scritto in lingua francese<br />

appositamente per l'attrice Sarah Bernhardt, la quale però non interpretò mai il personaggio sulla scena.<br />

Fu pubblicato nel 1893 con le celebri illustrazioni liberty di Aubrey Beardsley: la traduzione in lingua inglese<br />

venne affidata all'amante di Oscar Wilde, Lord Alfred Douglas (detto Bosie o Bosey), ma il ragazzo non si<br />

rivelò all'altezza del compito. Benché la sua traduzione sia stata sostituita con una di autore ignoto, nella<br />

prima edizione Wilde cavallerescamente volle che la dedica fosse comunque "A Lord Alfred Douglas,<br />

traduttore della mia commedia".<br />

La trama del dramma è la seguente:<br />

Erode Antipa, che convive con la ex moglie del fratello Filippo, Erodiade, ed è invaghito della figlia di lei, la<br />

bellissima Salomè, ha organizzato un banchetto invitandovi ospiti giudei, romani, egiziani.<br />

L'opera si apre sulla terrazza del palazzo, dove due soldati discutono sulla bellezza della luna e della<br />

principessa Salomè.<br />

Il tetrarca Erode ha fatto rinchiudere Iokanaan (= Giovanni Battista) in una grande cisterna al centro del<br />

salone, spaventato dalle sue profezie sull'avvento del Messia e dalle sue accuse contro la corruzione che<br />

regna a corte.<br />

Oscar Wilde in un celebre ritratto<br />

Salomè, infastidita dalle attenzioni di Erode e attratta da Iokanaan, chiede alle guardie di potergli parlare.<br />

Iokanaan esce dalla cisterna proferendo parole di sdegno contro Erode ed Erodiade, ma Salomè<br />

rimane affascinata dall'uomo, tanto che gli rivela il suo desiderio di baciarlo: «Bacerò la tua bocca, Iokanaan;<br />

bacerò la tua bocca».<br />

Iokanaan è del tutto indifferente alle profferte erotiche della ragazza, mentre il capitano delle guardie,<br />

segretamente innamorato di Salomè, addirittura si uccide dopo avere sentito queste parole.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Giungono sulla terrazza Erode ed Erodiade; Erode continua ad infastidire Salomè, mentre Iokanaan<br />

denuncia la dissolutezza di Erodiade, la quale, sdegnata, si rende conto che Erode è troppo preso dalla<br />

bellezza di Salomè per pensare a difenderla.<br />

Erode le chiede di danzare per lui, offrendosi di esaudire qualsiasi suo desiderio. Salomè accetta, si prepara<br />

per l'esibizione ed esegue la danza dei sette veli sul sangue del capo delle guardie morto per amor suo.<br />

Finita l'esecuzione, esprime il suo desiderio: «Dammi la testa di Iokanaan».<br />

Erode non vorrebbe uccidere il profeta, ma non può venir meno alla sua promessa: Iokanaan viene<br />

decapitato e la sua testa viene portata, in un bacile d'argento, a Salomè, che finalmente può coronare il suo<br />

macabro sogno: baciare le labbra di Iokanaan.<br />

Erodiade, vedendo il suo accusatore morto, esulta, ma Erode, improvvisamente tornato in sé ed inorridito<br />

dalla ragazza, ne ordina l'uccisione da parte dei soldati.<br />

Questi obbediscono e schiacciano sotto i loro scudi Salomè, uccidendola come uno scarafaggio.<br />

Al singolare dramma decadente di Wilde è stata spesso rimproverata la debolezza dell'impianto<br />

drammaturgico e più in generale quel non so che di sovraccarico che lo caratterizza.<br />

Lord Alfred Douglas, detto Bosie<br />

Una curiosità: nel 1988 il regista Ken Russell portò sul grande schermo la Salomè wildiana in uno strano film<br />

intitolato Salome's Last Dance, a sua volta molto criticato, che dà l'impressione di essere una sorta di<br />

grottesca parodia dell'originale, a cominciare dal fatto di essere ambientato in un bordello e di avere per<br />

protagonista Wilde stesso, mentre nei panni di Giovanni Battista c'è l'amato Bosie.<br />

Ecco la recensione del film (tutt'altro che positiva) di Tullio Kezich (Il filmnovanta: cinque anni al cinema:<br />

1986-1990, Mondadori, Milano, 1990): "La sera del 5 novembre 1892 Oscar Wilde va con il suo protetto Alfred<br />

Douglas, detto Bosie, nel bordello gestito da un certo Taylor, che lo fa assistere alla prima della Salomè,<br />

opera vietata nei teatri pubblici dal Lord Ciambellano.<br />

La sorpresa è la presenza in scena di Bosie nella parte di Giovanni Battista. Sicché la scena in cui Salomè<br />

bacia la testa mozza del profeta spinge l'autore all'identificazione commuovendolo fino alle lacrime. Poi<br />

arriva la polizia, con accuse di atti osceni aggravati, e schiaffa dentro tutti; e c'è di peggio: in una confusione<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

pirandelliana fra Vita e Forma, la protagonista è stata realmente sacrificata alla lancia di un pretoriano.<br />

Tranne la prima e l'ultima scena, tutto il film è rinserrato nel salone del bordello dove si svolge lo spettacolo.<br />

Un calapranzi serve da ascensore per il pozzo del Battista, gli armigeri sono due scaricatori pronti a<br />

ripassarsi Erodiade fra le quinte, il settimino degli ebrei è ridotto a tre nani sessualmente prevaricati dalla<br />

sbirraglia femminile della reggia e l'inviato di Roma è il maggiordomo che si scatena in rutti e scorregge.<br />

In un simile contesto non solo latita il buon gusto, ma non c'è neppure gran traccia dell'estro pirico<br />

dell'autore de I diavoli: tanto che si sarebbe tentati di attribuire la flebile operina a qualche suo imitatore.<br />

L'unica invenzione è Imogen Millais-Scott, una Salomè miniaturizzata che recita come nei disegni animati:<br />

una vivente ironizzazione, a tratti corrosiva, dell'erotismo in stile Lolita."<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

JORIS KARL HUYSMANS: SALOMÈ<br />

J. K. Huysmans, in À rebours, così descrive la passione del protagonista Des Esseintes per la pittura di<br />

Moreau e la figura di Salomè:<br />

"Via via che diveniva più acuto il suo desiderio di sottrarsi a un’odiosa epoca di tangheri indegni, diveniva<br />

per lui dispotico il bisogno di non più vedere quadri che rappresentassero l’umana effigie almanaccante<br />

entro quattro mura del centro di Parigi e sguinzagliata per le strade in cerca di denaro.<br />

Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, aveva deciso di non introdurre nella sua cellula<br />

larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva dunque voluto una pittura sottile e squisita che attingesse in un<br />

antico sogno, in una corruzione vetusta, lungi dai nostri costumi e dai nostri giorni.<br />

Aveva voluto, per diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in<br />

un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con<br />

eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci.<br />

Fra tutti, v’era un’artista il cui talento lo rapiva in lunghe estasi: Gustave Moreau.<br />

Gustave Moreau, Salomè danza davanti ad Erode, 1874-6<br />

Aveva acquistato i suoi due capolavori e, per notti intere, sognava davanti a uno di essi, il quadro di Salomé<br />

così concepito: sorgeva un trono simile all’altare maggiore d’una cattedrale, sotto innumerevoli volte<br />

sprizzanti da colonne tarchiate come pilastri romanici, smaltate di mattonelle policrome, incrostate di<br />

mosaici, incastonate di lapislazzuli e di sardoniche, in un palazzo simile a una basilica, di un'architettura a<br />

un tempo musulmana e bizantina. Al centro del tabernacolo che sormontava l’altare preceduto da gradini a<br />

semicerchio, era seduto il tetrarca Erode, con una tiara in testa, le gambe riunite, le mani sulle ginocchia. Il<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

volto era giallo, incartapecorito, pieno di rughe, devastato dall’età, la sua lunga barba fluttuava come una<br />

nuvola bianca sulle stelle di pietre preziose che costellavano la stoffa ricamata d’oro sul suo petto.<br />

Intorno a questa statua, immobile, fissata in una posa ieratica da divinità indù, bruciavano profumi levando<br />

nubi di vapori, forati, come da occhi fosforescenti di felini, dal fuoco delle gemme incastonate nelle pareti del<br />

trono. Poi il vapore saliva e si stendeva sotto le arcate, dove il fumo bianco si frammischiava alla polvere<br />

d’oro dei grandi fasci di luce che cadevano dalle cupole.<br />

Nell’odore perverso dei profumi, nell’atmosfera surriscaldata di quella chiesa, Salomé, col braccio sinistro<br />

teso in un gesto di comando, il braccio destro piegato, tenendo all’altezza del volto un grande loto, si avanza<br />

lentamente sulle punte, agli accordi di una chitarra di cui una donna rannicchiata pizzica le corde.<br />

Col volto raccolto, solenne, quasi augusto, ella comincia la lubrica danza che deve risvegliare i sensi assopiti<br />

del vecchio Erode; i seni le ondeggiano e, al contatto delle collane agitate, le loro punte si ergono; sul madore<br />

della pelle, i diamanti aderenti scintillano; i braccialetti, le cinture, gli anelli sprizzano faville; sulla veste<br />

trionfale, intessuta di perle, ricamata d’argento, laminata d’oro, la corazza delle oreficerie di cui ogni maglia<br />

è una gemma, entra in combustione, intreccia serpenti di fuoco, fa formicolare sulla carne opaca, sulla pelle<br />

rosa tea, quasi degli splendidi insetti dalle elitre sfolgoranti, venate di carminio, punteggiate di giallo aurora,<br />

screziate di azzurra acciaio, tigrate di verde pavone. Concentrata con gli occhi fissi, simile a una sonnambula,<br />

ella non vede né il tetrarca che freme, né sua madre, la feroce Erodiade, che la sorveglia, né l’ermafrodito o<br />

l’eunuco che sta, con la sciabola in pugno, ai piedi del trono, una terribile figura velata fino alle gote, la cui<br />

mammella di castrato pende con una fiasca sulla tunica variegata di arancione. Il personaggio di Salomé, così<br />

ossessivo per gli artisti e per i poeti, tormentava da anni Des Esseintes. Quante volte aveva letto nella vecchia<br />

Bibbia di Pietro Variquet, tradotta dai dottori di teologia dell’Università di Lovanio, il Vangelo di San Matteo<br />

che racconta in ingenue e brevi frasi la decollazione del Precursore; quante volte aveva sognato su queste<br />

righe:<br />

Il giorno della festa della nascita di Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo della stanza e piacque a Erode. Per<br />

questo le promise, con giuramento, di darle tutto quello che le avrebbe domandato. Ella dunque, indotta da sua madre,<br />

disse: – dammi su un piatto la testa di Giovanni Battista. E il re fu turbato, ma a causa del giuramento e di quelli che<br />

erano seduti a tavola con lui, comandò che le fosse consegnata. E mandò a decapitare Giovanni nella prigione. E la testa<br />

di lui fu portata in un piatto e data alla figlia; ed ella la presentò a sua madre.<br />

Ma né San Matteo, né San Marco, né San Luca, né gli altri Evangelisti indugiavano sul delirante fascino, sulle<br />

attive depravazioni della danzatrice. Essa restava cancellata, si perdeva, in misterioso deliquio, nella lontana<br />

nebbia dei secoli, inafferrabile per gli spiriti precisi e terra terra, accessibile solo ai cervelli scossi, aguzzati,<br />

resi quasi visionari dalla nevrosi; ribelle ai pittori della carne, a Rubens, che la trasformò in una macellaia<br />

fiamminga, incomprensibile per tutti gli scrittori che non hanno mai potuto rendere l’inquietante esaltazione<br />

della danzatrice, la raffinata grandezza dell’assassina.<br />

Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva<br />

finalmente realizzata questa Salomé sovrumana e strana che aveva sognato. Non era più la ballerina che<br />

strappa a un vecchio, con una corrotta torsione delle reni, un grido di desiderio e di gioia; che spezza<br />

l’energia, fiacca la volontà di un re con un agitar di seni, un guizzar del ventre, un brivido della coscia;<br />

diveniva in qualche modo la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la<br />

Bellezza maledetta, scelta fra tutte dalla Catalessia che le irrigidiva le carni e le induriva i muscoli; la Bestia<br />

mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelenava, come Elena greca, tutto ciò che<br />

avvicinava, tutto ciò che vedeva, tutto ciò che toccava. [...]<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Eppure l'acquarello intitolato “L'Apparizione” era forse anche più inquietante. [..] Qui Salomé era<br />

femmina veramente; obbediva al suo temperamento di donna ardente e crudele; era viva d'una vita più<br />

raffinata e selvaggia, più esecrabile e più squisita; più imperiosamente ridestava i sensi in letargo dell'uomo;<br />

ne stregava, ne domava meglio la volontà col suo fascino di grande fiore venereo, nato in amplessi sacrileghi,<br />

allevato in empie serre." (À rebours, capitolo V)<br />

Gustave Moreau, L'apparizione, 1874-6<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

D'ANNUNZIO E LUCREZIA-SALOMÈ<br />

Il mito di Salomè influenzò anche D'annunzio: non solo si coglie una sorta di allusione antifrastica ad<br />

esso nella Francesca da Rimini, ma alla figura di Salomè sono indirettamente ispirate alcune indimenticabili<br />

figure di femme fatale come la Elena Muti de Il piacere.<br />

Questo personaggio biblico esercitò poi il suo fascino su D'Annunzio anche attraverso la mediazione di una<br />

donna la cui storia colpì profondamente il poeta: Lucrezia Buti (si noti come il cognome delle due donne sia<br />

simile).<br />

S'intitola proprio Il secondo amante di Lucrezia Buti la sezione più ampia della raccolta Le faville del maglio<br />

del 1924, frutto di un raptus creativo che D'Annunzio descrive così: «Sono, nel tempo medesimo, beato e<br />

disperato. M'è impossibile di arrestare la vena» (lettera del 4 giugno all'editore).<br />

Il "secondo amante" cui fa riferimento il titolo è D'Annunzio stesso, il quale aveva avuto, per così dire, un<br />

colpo di fulmine per la modella di un dipinto di fra Filippo Lippi (il primo - e unico - amante reale di<br />

Lucrezia) dopo averla vista ritratta appunto nelle sembianze di Salomè.<br />

Gabriele D'Annunzio<br />

La storia di Lucrezia e Filippo, che ai suoi tempi aveva fatto molto scalpore, ci è nota attraverso il Vasari:<br />

frate Filippo Lippi conobbe Lucrezia, monaca nel monastero di Santa Caterina di Prato, nel 1456, quando<br />

stava lavorando alla tavola della e ne rimase subito folgorato.<br />

Pretese ed ottenne dalle monache di averla come modella per il dMadonna che dà la Cintola a san Tommaso,<br />

ipinto, in cui probabilmente Lucrezia prestò il suo volto alla santa Margherita che si vede a sinistra.<br />

Filippo, del tutto incurante della loro condizione di religiosi, la rapì in occasione della processione della Sacra<br />

Cintola, come ricorda il Vasari: "E con questa occasione (del dipinto) innamoratosi maggiormente, fece poi<br />

tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache, e la menò via il giorno appunto<br />

ch'ella andava a veder mostrare la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello" (Vita di fra'<br />

Filippo Lippi).<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Dalla loro unione nacque Filippino Lippi nel 1457 e nel 1465 la figlia Alessandra Lippi. La coppia<br />

scandalosa, grazie all'interessamento di Cosimo il Vecchio de' Medici, ottenne una dispensa dai voti da Pio<br />

II per potersi sposare, ma, come riporta Vasari, i due continuarono a convivere more uxorio, aumentando lo<br />

scandalo.<br />

Filippo Lippi, Madonna che dà la Cintola a san Tommaso, 1456<br />

L'eco di questa storia fu così vasta che se ne trova traccia non solo nella novella LVIII della raccolta del<br />

Bandello, ma anche nel poemetto Fra' Lippo Lippi del poeta romantico Robert Browning e in almeno due<br />

opere di Gabriele D'Annunzio.<br />

La bellissima Lucrezia, ritratta nella celebre Lippina degli Uffizi e probabilmente, come si diceva sopra, nella<br />

Salomè affrescata da Lippi nell'abside centrale della Cattedrale di S. Stefano a Prato, produsse<br />

un'impressione così profonda sulla sensibilità esasperata del poeta, che egli espresse il desiderio di essere il<br />

secondo amante della splendida monaca e ne cantò il fascino anche nell'Elettra.<br />

"Quanto mi piacevano le mie ore mattutine di duomo! Forse quanto a fra' Filippo Lippi non nel mentre<br />

dipingeva a fresco le Esequie di S. Stefano ma nel mentre lavorava il Convito di Erode inebriandosi di<br />

Lucrezia Buti. (...)<br />

Io volgevo il capo indietro per pascermi di Salomè, per saziarmi di Erodiana, per discogliere anche una volta<br />

nella mia avidità il miele e la cera insieme. E anche una volta mi deliziavo nel tormento della scelta. "Chi<br />

delle due sei tu, Lucrezia Buti? Suor Lucrezia agostina, sei tu quella che danza, simile a un fior numeroso<br />

dalla cintola in giù, simile a un fior voluttuoso fatto di pieghe in vece di petali, ora chiuso ora socchiuso ora<br />

dischiuso? O sei quella che seduta alla mensa fa il gesto pacato e spietato verso la testa mozza, o sei quella<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

dalla chioma a grappoli, coronata dell'uva d'engaddi come una baccante giudea che su la mezzanotte attenda<br />

l'evoè convertito in osanna? O veramente tu sei più vera nel palagio comunale, nella tavola di fra' Filippo,<br />

non la Vergine della Cintola ma quella dolce Santa che pone la mano sul capo d'una suora inginocchiata<br />

che certo è Bartolomea de' Bovacchiesi, la tua badessa del tempo di tuo peccato? Non una sei ma tre pel mio<br />

amore, Lucrezia Buti".<br />

O Lucrezia, Lucrezia, dimmi che Filippino non è il tuo figliuolo, dimmi che non sei madre, dimmi che sei<br />

Salomè, non Erodiana! Mi par d'averla sottratta io medesimo al tamburo degli Ufficiali de' Monasteri, con<br />

la mano tremante, col cuore balzante.<br />

Tu non sei madre, tu non sei la madre di Filippino, tu che tanto lieve danzi e con tanto doloso candore nel<br />

convito del Tetrarca. (...) Filippino del Tabernacolo in sul canto a Mercatale non può esser figliuolo se non<br />

della Primavera, o Lucrezia Buti; che, quando passo, ogni volta m'è nova maraviglia la sua freschezza in<br />

campo di splendore. (...)<br />

Gli parlavo dell'agostina fuggiasca con tanta abbondanza e con tanto ardore ch'egli esclamò: "Ma tu m'hai<br />

tutta l'aria del secondo amante di Lucrezia Buti!"<br />

Erodiana e Salomè discendevano dal muro per il confronto e per il giudizio.<br />

Aveva il frescante ritratto Lucrezia in Erodiana o in Salomè?<br />

Rideva graziosamente impazientito il buon maestro, con il mano la pennellessa intrisa nella cera liquefatta.<br />

"Agnolo benedetto, in tutt'e due, non soltanto, ma in tutte le donne del convito, come nella Madonna della<br />

Cintola tutte le persone divine, tranne i Vescovi e la badessa de' Bovacchiesi, hanno l'aria di Lucrezia, sono<br />

del sangue di Lucrezia Buti. Guardale bene."<br />

Afflitto mi lamentavo: "E' vero! E' vero!"<br />

(...) Ora tutte le immagini balenavano, e si dissolvevano per ribalenare. Anche la mia fiamma si divideva in<br />

tante lingue vermiglie come d'un'avventurosa Pentecosta. Tutte le pennellate rosse del Lippi assumevano<br />

una maligna forza dominante, nelle pareti del Coro, e sanguinavano e risanguinavano. Tutto il Duomo, dal<br />

battistero al presbiterio, dalla cappella della Cintola al Tabernacolo dell'Olivo, dal cancello di Bruno Mazzei<br />

all'arca di Simon Bardi, per tutta la crociera, per tutte le tre navate, culminava negli ardimenti del Pisano; si<br />

sveltiva e s'areava dalle arcate minori all'arco massimo; s'appuntava nel sesto acuto verso l'azzurro<br />

meridiano conteso dalle volte, e col serpentino delle sue colonne e de' suoi pilastri si profondava a rifarsi<br />

terrestre nelle cave del Monferrato." (Gabriele D'Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti)<br />

77


O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,<br />

chiusa città, forte nella memoria,<br />

ove al fanciul compiacquero la Gloria<br />

e la figliuola di Francesco Buti!<br />

(...)<br />

La figlia di Erodiade, apparita<br />

al Tetrarca, in sua frode e in sua melode<br />

magica ondeggia: entro il bacino s'ode<br />

bollire il sangue della gran ferita.<br />

Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita<br />

danza come colei davanti a Erode,<br />

voluttuosa; e il tuo desio si gode<br />

d'ogni piacer quand'ella ti convita.<br />

Ma il Dolore guardar sai fisamente<br />

e la Morte, e le lacrime, e lo strazio<br />

delle bocche e l'orror de' volti muti.<br />

Io ti vedea sopra la sabbia ardente<br />

schiavo in catene; e ti vedea poi sazio<br />

dormir sul seno di Lucrezia Buti.<br />

(...)<br />

Filippino, in sul canto a Mercatale<br />

quante volte intravidi pe' razzanti<br />

vetri del Tabernacolo i tuoi Santi<br />

come i fiori d'un orto angelicale!<br />

Fiori tu dèsti alla città natale:<br />

freschi petali i volti, aiuole i manti.<br />

E intorno alla Maria le tue spiranti<br />

grazie non ebber mai si lievi l'ale.<br />

Vedevi, oprando, la materna porta<br />

ove l'antica suora in atti umili<br />

pregava pel figliuol del suo peccato.<br />

Demoniaco segno, il seggio porta<br />

al piede, come l'ara dei Gentili,<br />

testa bicorne di capron barbato.<br />

(Gabriele D'Annunzio, Elettra)<br />

<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

78<br />

Particolare del Banchetto di Erode<br />

affrescato da Filippo Lippi nel 1452<br />

Autoritratto di Filippino Lippi<br />

figlio di Filippo Lippi e Lucrezia Buti


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

5. IL "CASO" DALÌ<br />

"L'ULTIMA CENA"<br />

L'Ultima Cena, olio su tela di 167 × 268 cm realizzato nel 1955 e conservato alla National Gallery of Art di<br />

Washington, è un chiaro esempio del modo di affrontare il sacro di Salvador Dalì: la sua pittura oscilla fra il<br />

mistico e il blasfemo, sconvolge l'iconografia tradizionale ed utilizza simboli esoterici di difficile<br />

interpretazione.<br />

Questo approccio dissacratorio, particolarmente evidente in relazione ad un tema topico dell'arte sacra, che<br />

richiama immediatamente alla mente il notissimo affresco di Leonardo e quelli di altri celebri artisti, risulta<br />

sconcertante per tutti, credenti e non. Una così intima familiarità con la simbologia religiosa, infatti, è tipica<br />

degli ambienti occultistici, in cui i dogmi e i riti della religione vengono imitati e stravolti; si pensi ad<br />

esempio alle "messe nere" o alle accuse di blasfemia che già venivano mosse ai Templari (accusati per<br />

esempio di sputare sul crocifisso e di calpestare l'ostia).<br />

Le pratiche sataniche utilizzano i simboli cristiani capovolgendo il significato dei simboli, attribuendo<br />

loro una valenza negativa, distorta.<br />

Che sia questa l'intenzione di Dalì, notoriamente dedito all'occultismo?<br />

Proviamo ad analizzare il dipinto.<br />

La prima provocazione consiste nell'aver dato a Gesù sembianze androgine, attribuendogli per di più i<br />

lineamenti di Gala, la donna di Dalì, nota ninfomane. Questo fu considerato blasfemo e suscitò un<br />

comprensibile scandalo all'esposizone dell'opera.<br />

Osservando il dipinto si nota che la figura del Cristo è quasi trasparente e si sta letteralmente dissolvendo<br />

sul paesaggio alle sue spalle, che rappresenta la baia a Port Lligat, vicino alla casa di Dalì. Egli è solo<br />

apparentemente seduto a tavola con i discepoli: in realtà è immerso nell'acqua, con una barca di fronte, ed<br />

indica Dio in alto, lasciando intendere di essere in partenza per il Cielo. Gesù dunque sta lasciando gli<br />

apostoli ben prima della crocifissione.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

Sembra di capire che Dalì aderisca a quella corrente di pensiero legata con i Rosacroce o il<br />

fantomatico Priorato di Sion, il cui Gran Priore risulta essere in quegli anni Jean Cocteau, secondo la quale<br />

Cristo non fu mai crocifisso, ma si mise in salvo (pare in Francia) ed al suo posto fu crocifisso un altro.<br />

Inoltre egli sta compiendo un gesto di cui non è facile comprendere il significato: con la mano sinistra<br />

accenna a se stesso, mentre con la destra sembra indicare Dio sopra di lui ("Io sono Dio?"); ma osservando<br />

meglio il gesto della mano destra si nota che Cristo sembra piuttosto stare contando: due dita sono sollevate,<br />

il dito medio si sta sollevando. Gesù sta contando fino a tre ("Io sono tre", con allusione alla Trinità)? Oppure<br />

intende contare fino a cinque (e in tal caso il significato, come vedremo, cambia totalmente)?<br />

Il Cristo androgino de L'ultima cena<br />

il cui viso è simile a quello di Gala<br />

I dodici apostoli sono disposti in modo perfettamente simmetrico attorno al Maestro ed i loro volti sono<br />

invisibili perché essi sono genuflessi in preghiera; questo rende impossibile comprendere chi di essi sia<br />

Giuda.<br />

Essi inoltre, con il loro atteggiamento e le loro vesti candide, più che di apostoli hanno l'aspetto di iniziati di<br />

qualche setta mistica.<br />

La tavola è completamente spoglia: su di essa c'è solo un pane spezzato ed un comune bicchiere (non un<br />

calice) di vino. Alle spalle del Cristo si vede il torso nudo di una figura umana che simboleggia Dio, ma la<br />

testa è invisibile, proprio come nel murale di Jean Cocteau nella chiesa di Notre Dame de France a Londra<br />

(un dipinto chiaramente ispirato alle dottrine rosacrociane di cui, come s'è detto, Cocteau era seguace), in cui<br />

di Cristo in croce si vedono solo le gambe; inoltre la posizione della figura ricorda quella dell'uomo<br />

vitruviano di Leonardo.<br />

Ma l'elemento più surreale è costituito dall'ambientazione: Cristo e gli apostoli si trovano infatti all’interno di<br />

un dodecaedro.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

Non era la prima volta che Dalì accostava la figura del Cristo a figure geometriche: l'anno precedente, ad<br />

esempio, aveva realizzato il celebre dipinto Crocifissione (corpo ipercubico); ma questa volta l'effetto è<br />

particolarmente surreale; Dalì stesso commentò il quadro dicendo che si trattava di una «cosmologia<br />

aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici», rendendo se possibile ancor più<br />

oscura l'interpretazione del dipinto.<br />

Tuttavia la scelta del dodecaedro riconduce alle filosofie platonica e pitagorica, che quasi certamente Dalì<br />

aveva in mente nel realizzare il dipinto.<br />

Infatti, com'è noto, il dodecaedro è uno dei cinque solidi platonici (disegnati fra l'altro proprio da Leonardo<br />

per il De divina proportione di Luca Pacioli), e non uno qualunque: se infatti gli altri quattro poliedri<br />

(tetraedro, esaedro, ottaedro, icosaedro) sono associati agli elementi base del cosmo (fuoco, terra, aria,<br />

acqua), il dodecaedro è per Platone l'emblema della perfezione stessa dell'universo.<br />

E' ovvio poi che la scelta del numero dodici è in relazione con il numero degli apostoli.<br />

Dodecaedro disegnato da Leonardo da Vinci<br />

per il De divina proportione di Luca Pacioli<br />

E' presente nella tela anche un vistoso riferimento al numero ф (1,6180339887), il “rapporto aureo” che i<br />

Greci consideravano espressione della proporzione ideale. Il numero ф ricorre più volte nelle proprietà<br />

metriche del dodecaedro, le cui facce sono pentagoni regolari, tanto che Pacioli afferma che esso dipende<br />

interamente da ф per la sua costruzione.<br />

Inoltre, se dividiamo la lunghezza della tela dipinta da Dalì per la sua altezza, otteniamo un numero molto<br />

vicino a ф: 1,6047941916.<br />

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Seguendo poi l'esempio di Leonardo, Dalì colloca il piano del tavolo esattamente in corrispondenza della<br />

sezione aurea del lato minore del rettangolo; inoltre pone i due apostoli seduti accanto a Gesù in<br />

corrispondenza della sezione aurea del lato maggiore (nella figura ne ho indicato solo uno).<br />

Anche la tovaglia distesa sulla tavola è suddivisa in rettangoli, molti dei quali sono esattamente rettangoli<br />

aurei.<br />

Ma la provocazione più pesante potrebbe essere un'altra.<br />

Se si osserva attentamente il dipinto, si nota che la figura di Gesù è inscritta in un pentagono regolare, tre<br />

lati del quale sono ben visibili, mentre gli altri due sono solo suggeriti dalle diagonali dei mantelli dei due<br />

apostoli di spalle.<br />

Com'è noto fin dai tempi di Pitagora, se si tracciano tutte le diagonali all'interno di un pentagono regolare, si<br />

ottiene la tipica stella a cinque punte nota come pentagramma, detta anche pentacolo, simbolo della scuola<br />

pitagorica.<br />

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Gesù è inserito al centro di un pentagono regolare<br />

Ma se osserviamo il pentagono disegnato da Dalì, vediamo che il vertice del triangolo aureo è rivolto verso<br />

il basso, e non verso l'alto, come nel pentagono pitagorico. Quindi la stella contenuta all'interno di esso ha<br />

anch'essa la punta rivolta verso il basso.<br />

Se così fosse, la figura all'interno della quale Gesù viene inserito da Dalì non sarebbe un pentagramma<br />

pitagorico, ma il più tipico simbolo satanico: il pentacolo rovesciato!<br />

Infatti, come vedremo, dei cinque vertici del pentagramma, quattro simboleggiano gli elementi naturali<br />

(acqua, aria, terra e fuoco), mentre il vertice rivolto verso l'alto simboleggia lo spirito: quindi, capovolgere il<br />

pentagramma significa affermare il predominio della materia sullo spirito, com'è tipico del satanismo.<br />

Dalì avrebbe dunque attribuito al suo Gesù connotazioni demoniache?<br />

A me non sembra affatto così: anzi, il dipinto mi sembra suggerire un'interpretazione diametralmente<br />

opposta.<br />

Osserviamo nuovamente il pentagono con il pentagramma inscritto al suo interno, che per praticità ho<br />

colorato.<br />

Il pentagono che contiene il pentagramma (quello azzurro) ha il vertice del triangolo aureo rivolto verso<br />

l'alto, ma il pentagono contenuto all'interno del pentagramma (quello giallo) presenta il vertice rivolto<br />

verso il basso.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

A mio parere è all'interno del pentagono giallo, e cioè all'interno del pentacolo, che si trova inserito Gesù,<br />

in modo quindi del tutto "normale" e per nulla satanico.<br />

Questa interpretazione mi sembra molto più logica anche perché in questo modo Dio si trova al di sopra di<br />

Gesù e costituisce il vertice invisibile del pentagramma, senza contare che la stessa posizione delle braccia di<br />

Dio, aperte e distese, suggerisce proprio l'inclinazione dei due lati superiori del pentagono maggiore.<br />

Insomma, lo schema compositivo dovrebbe essere questo:<br />

Personalmente ritengo quindi che l'interpretazione del pentagramma data da Dalì sia quella "benefica"<br />

tipica dei Pitagorici, e non certo quella perversa dei satanisti.<br />

Leggiamo sul Portale del Neopaganesimo quali caratteristiche vengono attribuite dalle religioni neopagane<br />

al pentacolo. Scopriamo anzitutto che esso è legato al pianeta Venere, perché quest'ultimo traccia ogni otto<br />

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anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto. Per questo motivo questa figura geometrica è diventata simbolo<br />

di perfezione.<br />

Inoltre "il pentacolo è una rappresentazione del microcosmo e del macrocosmo, combina cioè in un unico<br />

segno tutta la mistica della creazione, ovvero tutto l'insieme di processi su cui si basa il cosmo. Le cinque<br />

punte del pentagramma interno simboleggiano i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del fuoco,<br />

della terra e dello spirito. [...] L'ultimo elemento, lo spirito, non è altro che l'energia mistica emanata da<br />

Dio; questa energia si elabora e si manifesta condensandosi e andando a costituire le particelle subatomiche<br />

della materia. È l'energia che compone tutto l'universo, e della quale l'uomo non sa spiegare l'origine, la<br />

Fonte.<br />

Il rapporto tra i vari elementi rappresentati all'interno del pentacolo è (...) una riproduzione in miniatura dei<br />

processi su cui si basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il quale si manifesta<br />

dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si verifica partendo dalla Divinità e scendendo verso la<br />

punta in basso a destra, simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita sulla Terra.<br />

Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita (...)."<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

In effetti nel dipinto la figura di Gesù non solo è immersa nell'acqua, ma per così dire ne fa parte: il suo<br />

corpo è trasparente, lascia intravedere il mare e le barche alle sue spalle.<br />

Il vino ed il pane spezzato sulla tavola davanti a Gesù sembrerebbero fare riferimento rispettivamente<br />

all'elemento liquido e a quello solido. L'ombra del bicchiere è particolarmente lunga e si spinge fino a<br />

raggiungere il punto in cui si trova il pane: questo potrebbe significare che l'elemento liquido è quello da cui<br />

deriva l'elemento solido.<br />

Gli elementi sono disposti in modo speculare rispetto a ciò che si vede alle spalle di Gesù, come in un<br />

chiasmo o in una proporzione del tipo rocce : mare = vino : pane, cioè a : b = b' : a'.<br />

Ma proseguiamo con la lettura delle caratteristiche del pentacolo:<br />

"Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale rappresenta le forme di vita sufficientemente<br />

evolute da potersi organizzare da sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro<br />

innocenza originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente, procedendo lungo la<br />

linea orizzontale verso la terra a destra. La terra simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca<br />

può sopportare (...). [Poi] l'essere si allontana dallo spirito, degradando verso il basso, il fuoco,<br />

simboleggiante l'apice della degenerazione."<br />

A dire il vero c'è molta discordanza nelle fonti esoteriche sulla corrispondenza tra gli apici del pentacolo e gli<br />

elementi, che vengono assegnati in modo contraddittorio e fantasioso, con una sola costante: la presenza<br />

dello Spirito in alto e del fuoco in basso.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

La corrispondenza che ricorre più comunemente è quella riprodotta nella figura sottostante (figura A), a mio<br />

parere non molto razionale, perché dallo Spirito si passa direttamente alla Terra o al Fuoco, per poi passare<br />

all'Aria e/o all'Acqua senza alcun nesso logico apparente:<br />

Figura A<br />

Quella descritta dal portale del Neo-paganesimo corrisponde alla figura B, con l'acqua e il fuoco in basso<br />

(come è logico che sia, perché sono rispettivamente l'elemento generatore e quello distruttore), mentre quella<br />

alla quale fa riferimento Dalì sembra essere la medesima, ma con l'acqua in basso a sinistra (figura C):<br />

Figura B Figura C<br />

La figura B si percorre in senso orario, la figura C in senso antioriario.<br />

Il percorso descritto nella figura C è perciò: Spirito - Acqua - Terra - Aria - Fuoco.<br />

Rivediamo ancora l'immagine di Cristo alla luce del legame fra il pentacolo ed i cinque elementi, disposti<br />

come sembra suggerire il dipinto.<br />

Se è così, Gesù sta forse contando fino a cinque (con la mano destra) e lasciando intendere (con la sinistra) di<br />

essere lui stesso l'origine di tutto? E nel contempo indica Dio in alto, di cui Egli non è che un'emanazione?<br />

In tal caso il suo gesto potrebbe essere tradotto così: "Io sono i cinque elementi e sono lo Spirito, che è<br />

l'origine di tutto".<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

C'è però un problema: gli elementi del pentacolo sono tutti chiaramente rappresentati nel dipinto di Dalì,<br />

tanne uno: ci sono l'acqua (in basso), l'aria e la terra (più in alto) e lo Spirito (il vertice invisibile, la testa della<br />

figura di Dio); il fuoco, invece, sembra mancare.<br />

Se però si osserva attentamente la figura del Cristo, si nota che essa sembra riassumere in sé i quattro<br />

elementi (oltre, ovviamente, allo Spirito):<br />

il suo corpo è immerso nell'acqua, il suo torso è per metà nudo (allusione alla materia di cui è composto, cioè<br />

alla terra) e per metà coperto da un manto azzurro (allusione all'aria); i suoi capelli hanno qualcosa di<br />

innaturale, dalla metà in giù sembrano cambiare consistenza ed arricciarsi, assumendo l'aspetto di lingue di<br />

fuoco e proiettando una luce molto intensa sulle dita della mano destra, senza contare che sulla fronte di<br />

Gesù c'è un ciuffo più chiaro simile ad una fiammella.<br />

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Inoltre due degli apostoli, anziché essere vestiti di bianco, indossano una veste rispettivamente azzurra (il<br />

discepolo alla nostra sinistra) e giallo oro (quello alla nostra destra), che forma sul loro collo chino una strana<br />

punta e i cui lembi sembrano facce triangolari.<br />

Ebbene, triangolari sono pure le facce dell'icosaedro e del tetraedro che, fra i solidi platonici, rappresentano<br />

appunto l'acqua e il fuoco.<br />

Ora, sarà forse un caso che i due discepoli dalla veste colorata siano raffigurati esattamente in<br />

corrispondenza delle punte inferiori del pentacolo, quelle corrispondenti appunto all'acqua e al fuoco?<br />

E il discepolo vestito di giallo, corrispondente al fuoco, cioè all'apice della degenerazione, potrebbe forse<br />

essere Giuda?<br />

Tuttavia la degenerazione non significa la fine di tutto: infatti "in seguito alla depressione avviene però<br />

sempre una ripresa, un ritorno alle origini, in questo caso allo spirito (...).<br />

Letto in senso escatologico, questo processo potrebbe anche simboleggiare il ciclo delle reincarnazione,<br />

assimilato da parecchie tradizioni neopagane: lo spirito, in quanto fonte di ogni cosa, è fonte anche<br />

dell'uomo, quest'ultimo (e con esso qualsiasi essere animato o inanimato) completato il suo ciclo esistenziale,<br />

torna ad essere parte dell'Uno cosmico, si unisce a Dio. In seguito a questa unione la sua anima potrà iniziare<br />

una nuova esistenza.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il pentacolo è dunque una riproduzione in miniatura del processo creativo e immanente che regge<br />

l'universo."<br />

Che sia proprio questa la chiave di lettura del misterioso dipinto?<br />

Gesù, concluso il suo ciclo esistenziale, torna a far parte dell'Uno cosmico dal quale proviene e che è<br />

pronto ad accoglierlo.<br />

C'è però un altro elemento di cui bisogna tener conto: il suo aspetto androgino, certamente non casuale, da<br />

collegare anch'esso con il pentacolo in quanto simbolo femminile per eccellenza (come si è detto, ha a che<br />

fare con il pianeta Venere e di conseguenza con Afrodite).<br />

Si potrebbe pensare che la corrente neo-pagana alla quale si ispira Dalì sia la Wicca. Vediamo perché.<br />

Il principio fondante della Wicca è l'opposizione-fusione tra i due principi cosmici rappresentati dal Dio e<br />

dalla Dea, il principio maschile e quello femminile.<br />

Ed in effetti il Gesù di Dalì è nel contempo maschio e femmina.<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

Come leggiamo sul portale del Neo-paganesimo, per la teologia wiccan "il Dio e la Dea sono le forze che<br />

permettono la costituzione armonica e l'equilibrio del mondo. Ogni cosa è costituita dall'eterno incontro e<br />

rapporto di complementarità che sussiste tra le due Divinità. (...) Importante nella teologia wiccan è anche il<br />

concetto della Dea triplice e del dualismo monistico. (...) Ogni cosa attraversa una vita circolare, e la triplicità<br />

della Dea è per questo abbinata anche alle tre fasi principali della vita umana: la nascita, la crescita e la<br />

morte. Tutti attraversano questi tre eventi fondamentali, ed è in questa circostanza che si innesta la visione<br />

escatologica della Wicca. La reincarnazione è una conseguenza della ciclicità del mondo; dopo la morte avrà<br />

inizio una nuova vita."<br />

E' forse a questa rinascita dopo la sua morte che allude Gesù con il suo gesto misterioso (in tal caso<br />

contando fino a tre)?<br />

Inoltre "fondamentale nella visione cosmologica della Wicca è l'idea dei cinque elementi.<br />

Secondo gli wiccan i cinque elementi sono le regole fondamentali del mondo fisico, attraverso le quali si può<br />

giungere al contatto mistico con le due Divinità o con l'Uno. Quattro di questi elementi sono l'acqua, l'aria, il<br />

fuoco e la terra. Oltre a questi vi è lo spirito, chiamato anche etere (aether). Lo spirito è considerato come la<br />

regola organizzatrice dell'equilibrio del mondo, il teorema base dal quale si dipanano tutti i teoremi minori<br />

su cui si regge l'evoluzione ciclica delle cose.<br />

Gli elementi sono abbinati alle cinque punte del pentagramma e del simbolo del pentacolo, essendo<br />

quest'ultimo una rappresentazione simbolica del cosmo."<br />

Il simbolo della Wicca è infatti il pentacolo riprodotto nella figura a fianco, dove il cerchio nel quale è<br />

inscritto il pentagramma simboleggia l'infinito e l'eternità.<br />

Non so se questo sia abbastanza per fare di Dalì un adepto della Wicca, ma certo i punti di contatto sono<br />

impressionanti.<br />

Il simbolo della Wicca<br />

Come si vede, il dipinto di Dalì è destinato a conservare ancora il suo mistero, dal quale dipende in buona<br />

parte il suo fascino.<br />

Tuttavia, comunque lo si legga, esso sembra alludere alla rigenerazione dopo la morte (interpretazione<br />

molto sui generis della resurrezione cristiana), cioè in sostanza all'immortalità dell'anima ed alla<br />

reincarnazione: questo è perfettamente in linea con le teorie di Pitagora e di Platone, che credevano<br />

entrambi nella metempsicosi, e spiega le innumerevoli allusioni alle dottrine pitagorico-platoniche (inclusa la<br />

ricorrenza del numero ф) presenti nel dipinto.<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

IL PENTAGRAMMA E IL TEOREMA DELLA CORDA<br />

Il pentagramma (dal greco pente, "cinque" e gramma, "linea") è una stella a cinque punte.<br />

Geometricamente lo si definisce la figura intrecciata che ha come lati le diagonali di un pentagono<br />

regolare.<br />

Un pentagramma infatti può essere formato da un pentagono regolare capovolto o estendendo i suoi lati, o<br />

disegnando le sue diagonali, e la figura risultante contiene varie lunghezze correlate dalla proporzione<br />

aurea.<br />

Proprio per questo fu molto caro ai pitagorici.<br />

Pentagramma Pentagramma inscritto in un pentagono<br />

Si tratta del più semplice tipo di poligono stellato.<br />

Un poligono stellato regolare ha spigoli tutti di eguale lunghezza, e angoli ai vertici di eguale ampiezza.<br />

Inscrivendo il poligono stellato in una circonferenza di raggio R, si osserva che il segmento che congiunge<br />

due vertici adiacenti è una corda, la cui lunghezza è, per il teorema della corda,<br />

con θ angolo alla circonferenza.<br />

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Teorema della corda<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

In una circonferenza, la misura di una corda è uguale al prodotto della misura del diametro per il seno di<br />

uno degli angoli alla circonferenza che insistono su uno degli archi sottesi dalla corda.<br />

Immaginiamo di muovere il punto C sulla circonferenza; cosa osserviamo?<br />

L'angolo γ cambia solo se il punto C passa da un arco ad un altro. Lungo lo stesso arco l'ampiezza<br />

dell'angolo resta costante.<br />

Immaginiamo ora di muovere uno degli estremi del segmento AB; cosa osserviamo sull'angolo γ?<br />

Questa volta l'ampiezza dell'angolo cambia, proprio perché dipende dalla lunghezza della corda (o,<br />

equivalentemente, dalla lunghezza dell'arco che essa sottende).<br />

Cerchiamo di fare in modo che la corda AC sia un diametro della circonferenza; cosa osserviamo sull'angolo<br />

β?<br />

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<strong>DÀIMONES</strong><br />

In questo caso l'angolo β è retto, perché sottende una semicirconferenza.<br />

Ricordando che nei triangoli rettangoli la misura di un cateto è pari all'ipotenusa per il seno dell'angolo<br />

opposto al cateto, ed osservando che nella figura l'angolo con vertice in C è uguale all'angolo con vertice in<br />

D perché sottendono la stessa corda, si può subito dedurre il seguente<br />

Teorema della corda:<br />

Detto γ l'angolo che sottende una corda AB in una circonferenza di raggio r, vale la seguente uguaglianza:<br />

AB = 2r sin γ<br />

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<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:<br />

Il concetto di δαίμων:<br />

Baldo Lami, Breve storia del dàimon, in Letture Contemplative (Rivista di analisi e sintesi psicospirituale) N. 7,<br />

Milano 2000;<br />

Roberto Renzetti, Superstizione: angeli, demoni, diavoli e santi;<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Demone<br />

Schopenhauer: la Natura "demoniaca":<br />

http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/imago/schopim/schopim.htm<br />

http://skuola.tiscali.it/filosofia-moderna/schopenhauer.html<br />

Callimaco e i Telchini:<br />

http://classicamente-dora.blogspot.com/2011_02_03_archive.html<br />

http://www.sapere.it/enciclopedia/Telchini.html<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Telchini<br />

http://eltonvarfi.blogspot.com/2010/04/i-telchini.html<br />

Il diavoletto di Maxwell e l'entropia:<br />

http://www.cosediscienza.it/fisica/12_entropia.htm<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Diavoletto_di_Maxwell<br />

Chi è Lucifero?<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Inferno_-_Canto_trentaquattresimo<br />

http://esorcismi.altervista.org/diavolo-satana.html<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Lucifero<br />

Il pianeta Venere:<br />

http://www.astrofilitrentini.it/tnp/venus.html<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Venere<br />

Apollonio di Tiana e la vampira:<br />

Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 4. 25, in Storie di vampiri a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Roma,<br />

Newton & Compton, 2003, pp. 971-72<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Lamia<br />

http://www.chupacabramania.com/articoli/utenti/apollonio_di_tiana.htm<br />

Lo spiritismo in Pirandello e Svevo:<br />

http://www.uniurb.it/Filosofia/bibliografie/pirandellospiritismo/index.htm<br />

Edgar Allan Poe, Ligeia:<br />

http://en.wikipedia.org/wiki/Ligeia<br />

Fosca, la donna-vampiro:<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Iginio_Ugo_Tarchetti<br />

http://www.italialibri.net/opere/fosca.html<br />

Il mito di Salomè:<br />

http://ilmitodisalom.blogspot.com/<br />

95


<strong>IRENE</strong> <strong>STORNIOLO</strong><br />

<strong>DÀIMONES</strong><br />

Il pentagramma e il teorema della corda:<br />

http://it.wikipedia.org/wiki/Poligono_stellato<br />

http://www.cnuto.it/lezioni/scienze/matematica/trigo_primoes/il_teorema_della_corda.html<br />

http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/argoment/ParoleMate/Dic_08/teorema_corda.htm<br />

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