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STORIA TRENTINA<br />

TRATTA DA WWW.TRENTINOCULTURA.NET<br />

SITO DELL'ASSESSORATO ALLA CULTURA DELLA PROVINCIA DI TRENTO<br />

INDICE<br />

Dalla Prei<strong>storia</strong> all'epoca romana sulla base delle ricerche archeologiche nel Trentino<br />

Importanza dell'archeologia nello studio di un territorio<br />

Definizione di alcuni termini<br />

Importanza della <strong>da</strong>tazione<br />

Nascita della cultura archeologica in Trentino<br />

La Prei<strong>storia</strong><br />

Paleolitico<br />

Paleolitico inferiore<br />

Paleolitico medio<br />

Paleolitíco superiore<br />

Mesolitico<br />

Neolitico<br />

Neolitico antico<br />

Neolitico medio<br />

Neolitico tardo<br />

Introduzione all'età dei metalli: eneolitico o età del Rame<br />

Età del Bronzo<br />

Età del Ferro<br />

L'età romana<br />

I <strong>da</strong>ti storici<br />

Il territorio<br />

Tridentum<br />

Il Trentino occidentale<br />

La Valle dell'Adige<br />

La Val Lagarina<br />

La Val di Non<br />

Approfondimento: La tabula clesiana<br />

Il Trentino orientale<br />

Conclusioni<br />

L'evangelizzazione del Trentino. L'Alto Medioevo (IV-X secolo d.C.)<br />

L'evangelizzazione del Trentino<br />

Come impostare il problema<br />

Prime notizie sulla cristianità del centro urbano<br />

Biografia: San Vigilio<br />

Evangelizzazione del territorio rurale<br />

Santi e santuari<br />

Il Trentino dopo la caduta dell'impero romano. Goti e Longobardi<br />

Il regno dei Goti<br />

Rottura secolare dell'unità della penisola<br />

Occupazione del Trentino<br />

Alleanza franco-bizantina<br />

La presenza della Chiesa<br />

Ingrandimenti territoriali<br />

L'avventura del duca Alachi e la fine dell'autonomia<br />

1


Strutture amministrative del ducato<br />

I Franchi ed il regno d'Italia<br />

Le vicende politiche<br />

Il vescovo Manasse. Il Trentino nell'impero germanico<br />

Il Principato vescovile<br />

Il Principato vescovile <strong>da</strong>lle origini alla secolarizzazione (1027-1803)<br />

Gli imperatori pongono i vescovi a guardia della via verso l'Italia<br />

I vescovi di Trento e di Bressanone ricevono i poteri temporali<br />

Il potere dei vescovi si sviluppa all'ombra dell'Impero<br />

Biografia: Federico Vanga<br />

Approfondimento: Collaboratori e concorrenti del potere vescovile: famiglie comitali, avvocati, ministerialità<br />

La crisi del potere vescovile e la nascita del Tirolo<br />

L'imperatore Federico Il pone a Trento un podestà<br />

Cresce la potenza dei Tirolo-Gorizia<br />

Si ristabilisce il potere vescovile<br />

Biografia: Margherita di Tirolo<br />

Biografia: Nicolò <strong>da</strong> Brno<br />

Trento e Tirolo sono oggetto del contendere sullo scacchiere europeo<br />

Approfondimento: La Chiesa di Trento nel medioevo<br />

Trento e Tirolo: l'alleanza obbligata<br />

Gli Asburgo diventano conti del Tirolo e impongono ai vescovi le "compattate"<br />

I vescovi Giorgio Liechtenstein e Alessandro di Masovia mettono l'alleanza in discussione<br />

Biografia: Giogio di Lichtenstein<br />

Approfondimento: La città, il territorio, i comuni rurali<br />

Dalle seconde "compattate " del 1454 al libello territoriale del 1511: la sovranità dei vescovi nel quadro del<br />

legame col Tírolo<br />

Biografia: Massimiliano I d'Asburgo<br />

Bernardo Cles, il "secondo fon<strong>da</strong>tore" del Principato vescovile<br />

Biografia: Bernardo Clesio<br />

Approfondimento: Quadro sincrono<br />

L'età dei Madruzzo<br />

Una dinastia al governo del principato<br />

Biografia: Cristoforo Madruzzo<br />

Biografia: Ludovico Madruzzo<br />

Trento conciliare: fra Italia e Germania, papato e impero<br />

I rapporti del principato con la contea del Tirolo<br />

Barocco tridentino<br />

La Controriforma nella diocesi di Trento<br />

La vita culturale e la festa barocca<br />

Biografia: Martino Martini<br />

I governi vescovili<br />

La contea del Tirolo nella secon<strong>da</strong> metà del Seicento<br />

Il Settecento: l'età delle riforme e la fine dell'antico regime<br />

Gli Asburgo, l'impero, il principato<br />

Antichi e nuovi contrasti politici nei governi vescovili del Settecento<br />

Il Settecento roveretano<br />

Biografia: Clementino Van<strong>net</strong>ti<br />

Il territorio trentino nel periodo francese: tra Austria, Baviera e Italia<br />

Biografia: Andreas Hofer<br />

2


Il Trentino <strong>da</strong>ll'età della restaurazione alla prima guerra mondiale<br />

Gli anni della restaurazione<br />

Il Trentino sotto la sovranità asburgica<br />

Biografia: Luigi Negrelli<br />

Le strutture amministrative<br />

Il consenso dei trentiní per l'ordinamento politico-amministrativo<br />

I rapporti stato-chiesa<br />

L'atteggiamento della popolazione ed il controllo politico<br />

La situazione economica<br />

Elementi di ripresa dell'attività culturale<br />

Il Biennio rivoluzionario e il breve periodo costituzionale (1848-1851)<br />

Il Trentino di fronte al moto rivoluzionario ed al conflitto tra l'Austria e il Regno sabaudo<br />

La deputazione <strong>trentina</strong> alle costituenti di Francoforte e Vienna-Kremsier<br />

I riflessi nel Trentino del periodo costituzionale<br />

Il neoassolutismo<br />

L'involuzione politica ed i controlli di polizia<br />

La guerra del 1859 e l'attività dei fuorusciti trentini<br />

Il Trentino di fronte all'unità d'Italia<br />

Biografia: Francesco Giuseppe d'Asburgo<br />

Il ritorno al sistema costituzionale<br />

Le istituzioni politiche e la lotta per l'autonomia<br />

Il nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali<br />

La guerra del 1866 e il quadro delle <strong>tratta</strong>tive diplomatiche<br />

Il Trentino durante la guerra e nel dopoguerra<br />

Le leggi fon<strong>da</strong>mentali del 1867. La laicizzazione dello stato e la chiesa <strong>trentina</strong><br />

La presa di posizione dei liberali trentini<br />

La depressione economica<br />

La proposta di riforma elettorale per la Camera dei deputati e lo scontro fra centralismo e federalismo<br />

La nascita dell'irredentismo<br />

Dalla riforma elettorale del 1873 al cambio di secolo<br />

La deputazione <strong>trentina</strong> alla Camera di Vienna<br />

Biografia: Lorenzo Guetti<br />

La presenza alla Dieta di Innsbruck<br />

Le strutture amministrative: le riforme degli "statuti propri" di Rovereto e Trento<br />

L'irredentismo e la politica italiana<br />

La difesa nazionale nel Trentino<br />

Le condizioni economico-sociali<br />

Biografia: Giovanni Segantini<br />

L'età di Paolo Oss.Mazzurana<br />

L'organizzarsi dei partiti politici<br />

Dagli inizi del Novecento alla prima guerra mondiale<br />

L'attività dei deputati trentini alla Camera di Vienna<br />

I lavori dietali e la riforma elettorale provinciale<br />

La riforma elettorale del comune di Trento<br />

Biografia: Gianni Caproni<br />

La questione dell'università italiana in Austria e la lotta nazionale<br />

La cultura <strong>trentina</strong> a cavallo di due secoli<br />

Biografia: Riccardo Zandonai<br />

Le vicende del secolo ventesimo<br />

3


La prima guerra mondiale e il Trentino<br />

Lo scoppio del conflitto ed il periodo della neutralità italiana<br />

Le <strong>tratta</strong>tive diplomatiche per la cessione del Trentino e l'entrata in guerra dell'Italia<br />

Le operazioni militari sul,fronte trentino<br />

Biografia: Cesare Battisti<br />

La guerra e le popolazioni civili<br />

Approfondimento: Dal web<br />

Le iniziative politiche dei trentini in Italia e in Austria<br />

I governi provvisori del dopoguerra<br />

Il Governatorato militare<br />

Il Governatorato civile e la conservazione dell'ordinamento autonomo<br />

La ripresa dell'attività culturale<br />

Biografia: Fortunato Depero<br />

Il Trentino nel ventennio fascista<br />

L'avvento del fascismo<br />

I primi anni del regime<br />

Il consoli<strong>da</strong>rsi del regime<br />

Gli anni neri dell'economia <strong>trentina</strong><br />

L'antifascismo<br />

La cultura <strong>trentina</strong> nell'età del fascismo<br />

Biografia: Ettore Tolomei<br />

Il Trentino nella secon<strong>da</strong> guerra mondiale<br />

I disagi per una guerra considerata estranea<br />

Dalla caduta del fascismo all'armistizio<br />

I venti mesi dell'Alpenvorland<br />

L'occupazione nazista e le popolazioni civili<br />

La resistenza<br />

Dal termine del conflitto allo Statuto d'autonomia<br />

La ripresa della vita politica e le istanze autonomistiche<br />

Biografia: Alcide Degasperi<br />

L'accordo Degasperi-Gruber e l'autonomia regionale<br />

Approfondimento: L'accordo di Parigi<br />

Il secondo dopoguerra e l'autonomia <strong>trentina</strong><br />

Gli esordi dell'autonomia regionale<br />

L'impegno della Giunta regionale nell'opera di ricostruzione<br />

Il Trentino tra crisi politica e "miracolo economico"<br />

La fase della "conciliazione': due case sotto uno stesso tetto<br />

La posizione della Chiesa <strong>trentina</strong><br />

La società <strong>trentina</strong> nell'età dei grandi mutamenti<br />

Biografia: Silvius Magnago<br />

Biografia: Enrico Pruner<br />

Verso un secondo statuto dell'autonomia: le due autonomie provinciali<br />

4


Dalla Prei<strong>storia</strong> all'epoca romana sulla base delle ricerche archeologiche nel Trentino<br />

Importanza dell'archeologia nello studio di un territorio<br />

Definizione di alcuni termini<br />

Prima di proporre i temi di archeologia relativi al territorio trentino, è opportuno chiarire il significato di<br />

alcuni termini.<br />

La parola archeologia è stata già usata nell’antichità, ma con un significato diverso <strong>da</strong> quello attuale. Dionigi<br />

di Alicarnasso (uno storico greco vissuto nel I sec. a.C.), ad esempio, la usava per indicare genericamente<br />

notizie sui tempi antichi.<br />

Successivamente il termine venne adoperato per indicare lo studio delle antichità greche e romane, prive di<br />

un contesto storico, finché nel Settecento Gioacchino Winchelmann la interpretò esclusivamente come studio<br />

dell’arte classica. Nell’Ottocento e fino alla secon<strong>da</strong> guerra mondiale si sono susseguite un’archeologia<br />

esclusivamente filologica ed una esclusivamente storica.<br />

Ora invece l’archeologia è considerata una scienza che cerca di ricostruire, attraverso il costante confronto<br />

(quando è possibile) con il documento o il <strong>da</strong>to storico, le civiltà antiche e la loro evoluzione, attraverso lo<br />

studio dei reperti affiorati negli scavi, talvolta fortuiti, condotti in vari territori, nonché attraverso lo studio di<br />

strutture architettoniche, prodotti artistici, iscrizioni, monumenti appartenuti alle civiltà antiche e giunti,<br />

magari in frammenti, fino ai giorni nostri.<br />

L’archeologia è una scienza amplissima che viene distinta in molti settori: orientale, biblica, classica,<br />

cristiana, egiziana, precolombiana, medievale, industriale, ecc.<br />

Un particolare tipo di archeologia è quella preistorica, cioè la paletnologia che cerca di individuare e definire<br />

gli aspetti culturali che hanno caratterizzato lo sviluppo delle società umane prima della comparsa della<br />

scrittura.<br />

Oggetto di questo capitolo saranno: l’archeologia preistorica, cioè la paletnologia, e l’archeologia romana<br />

inerenti il Trentino.<br />

È importante notare prima di tutto che l’ambiente naturale ha sempre avuto una particolare influenza sulla<br />

vita dell’uomo, sulle sue attività culturali, sulla formazione delle società, ecc. È quindi importante conoscere<br />

esattamente le condizioni ambientali nelle quali sono vissuti gli uomini nell’antichità e per fare questo è utile<br />

avvalersi di varie discipline: la geologia ad esempio, che studia la composizione e la struttura della crosta<br />

terrestre, permettendo così di conoscere l’evoluzione di un territorio sin <strong>da</strong>lla sua origine (terreno vulcanico,<br />

sedimentario, presenza di ghiacciai, di laghi, fiumi, ecc.); la paleozoologia, la paleobotanica e la palinologia,<br />

che studiano i resti animali, vegetali e i pollini; la climatologia, che permette di risalire al tipo di clima<br />

presente nelle varie epoche.<br />

L’antropologia e l’etnologia, poi, <strong>da</strong>nno la possibilità di conoscere rispettivamente l’evoluzione fisica e<br />

culturale dell’uomo sin <strong>da</strong>lla sua prima comparsa sulla terra, i suoi usi, costumi ed abitudini sotto molteplici<br />

aspetti, <strong>da</strong>l tipo di alimentazione, all’abbigliamento, alla vita sociale, al tipo di sepoltura e di abitazione.<br />

La prei<strong>storia</strong>: con questo termine si suole indicare il periodo che precede la <strong>storia</strong>, quello cioè in cui non vi<br />

sono testimonianze scritte e che quindi si può conoscere solo attraverso lo studio dei manufatti e delle opere<br />

materiali dell’uomo, l’unico essere vivente che si è sin <strong>da</strong>ll’origine distinto <strong>da</strong> tutti gli altri per essere in<br />

grado di produrre strumenti finalizzati ad un determinato scopo. Nell’Ottocento gli esperti europei hanno<br />

diviso la prei<strong>storia</strong> in tre età, ognuna delle quali è stata poi sottoposta ad ulteriori suddivisioni in base ai tipi<br />

di manufatti o alle caratteristiche proprie di un determinato gruppo umano. È <strong>da</strong> notare che tali distinzioni<br />

sono soltanto indicative perché non è possibile dividere cronologicamente in modo esatto i vari eventi, che<br />

spesso non sono avvenuti contemporaneamente in tutte le parti del mondo.<br />

Importanza della <strong>da</strong>tazione<br />

Nell’archeologia è molto importante <strong>da</strong>tare i reperti, cioè tutto il materiale rinvenuto. Per fare questo è<br />

possibile basarsi su due diversi tipi di analisi cronologica:<br />

– la cronologia relativa: indica se i reperti sono più antichi o meno antichi di altri, senza alcun riferimento<br />

agli anni;<br />

– la cronologia assoluta: ad un reperto si attribuisce un’età espressa in anni (x anni prima o dopo Cristo, o x<br />

anni <strong>da</strong>l presente).<br />

In tempi recenti si è scoperto un nuovo metodo per determinare la <strong>da</strong>tazione assoluta, la cosiddetta <strong>da</strong>tazione<br />

radiometrica, che si basa sugli isotopi radioattivi. Si <strong>tratta</strong> di atomi di uno stesso elemento che, essendo<br />

5


instabili, emettono radiazioni fino a raggiungere una forma stabile.<br />

Uno degli isotopi più usati nella <strong>da</strong>tazione radiometrica è il carbonio 14, isotopo radioattivo del carbonio<br />

normale 12.<br />

Il carbonio 14 si forma costantemente nella parte superiore dell’atmosfera, successivamente si unisce<br />

all’ossigeno <strong>da</strong>ndo origine all’anidride carbonica, che viene assimilata <strong>da</strong>lle piante per mezzo della<br />

fotosintesi clorofilliana trasformandosi in composti organici. Il carbonio 14 si trova quindi anche negli<br />

animali erbivori e nei carnivori che si sono nutriti di essi. Anche negli esseri umani (che sono onnivori) una<br />

piccola quantità del carbonio presente è rappresentata <strong>da</strong>l carbonio 14. Il rapporto tra il carbonio 12 e il<br />

carbonio 14 rimane costante negli esseri viventi ma, quando un organismo muore, il carbonio 14 inizia a<br />

decadere riducendosi della metà ogni 5700 anni circa (tempo di dimezzamento). Perciò, nei reperti di origine<br />

organica (ossa, residui di legno, brandelli di tessuti, ecc.), è possibile stabilire il momento in cui è iniziato il<br />

decadimento del carbonio 14. Infatti, misurando il rapporto tra la quantità residua del carbonio 14 e il<br />

carbonio 12 presenti in un reperto, è possibile, con opportuni calcoli matematici, risalire al momento in cui<br />

l’organismo è morto.<br />

Con il metodo del carbonio 14 la <strong>da</strong>tazione non va oltre i 50.000- 60.000 anni. Per reperti più ‘vecchi’ si<br />

prendono in considerazione gli isotopi radioattivi di altri elementi, ad esempio il potassio, il rubidio, il<br />

piombo, l’argon, che hanno tempi di dimezzamento più lunghi.<br />

La <strong>da</strong>tazione radiometrica è attualmente la più usata perché applicabile a reperti di diversa natura.<br />

Nascita della cultura archeologica in Trentino<br />

In Trentino l’interesse per le culture presenti nell’antichità è sorto piuttosto precocemente già tra gli studiosi<br />

del XVI secolo, raccolti alla corte dei principi vescovi. Nello stesso periodo in cui Andrea Palladio studiava i<br />

ruderi di Palestrina e di Roma, e Pirro Ligorio intraprendeva gli scavi nella villa di Adriano a Tivoli, nobili<br />

letterati trentini diedero vita ad un vasto collezionismo archeologico incentrato soprattutto sulla<br />

documentazione romana. Già durante il secolo precedente, d’altra parte, si era an<strong>da</strong>to sviluppando in tutta<br />

Italia un certo interesse per l’antichità classica legato al desiderio di rintracciare esattamente sul territorio i<br />

luoghi dove si erano verificati eventi importanti citati nei testi antichi.<br />

Soprattutto nel XVIII secolo, in particolar modo in Val Lagarina e in Val di Non, si diffuse l’interesse per la<br />

prei<strong>storia</strong> e per l’in<strong>da</strong>gine diretta sul territorio, anche se ancora allo stato embrionale. A ciò contribuì, tra<br />

l’altro, l’attività svolta <strong>da</strong>ll’Accademia roveretana degli Agiati sorta nel 1750 a Rovereto.<br />

Nel XIX secolo gli studi archeologici si intensificarono in tutta Europa ed anche in Trentino, dove talvolta<br />

sfociarono in vere e proprie discussioni, ad esempio tra il roveretano Bartolomeo Stoffella <strong>da</strong>lla Croce<br />

(1800-1833) e il conte Benedetto Giovanelli (1775-1846). Lo Stoffella infatti riteneva che i Galli Cenomani<br />

e non i Reti avessero abitato la regione durante l’età del Ferro, mentre Benedetto Giovanelli era convinto che<br />

l’origine etnica degli abitanti del Trentino durante l’età del Ferro fosse retica e che i Reti avessero un’origine<br />

etrusca.<br />

Nella secon<strong>da</strong> metà del secolo le numerose scoperte di vari siti archeologici, tra cui quello palafitticolo di<br />

Fiavè (1853), il ritrovamento della cosiddetta ‘Tavola Clesiana’, nonché il rinvenimento fortuito di reperti sia<br />

preistorici che romani su tutto il territorio, hanno contribuito sensibilmente ad ampliare le conoscenze<br />

relative alle popolazioni che hanno abitato il Trentino nell’antichità.<br />

Negli stessi anni sono stati condotti anche molti studi toponomastici. Il glottologo Christian Schneller, nel<br />

1866, interpretò molte iscrizioni rinvenute sul territorio come appartenenti al cosiddetto alfabeto- reto-<br />

etrusco.<br />

Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento in<strong>da</strong>gini di particolare interesse scientifico sono<br />

state condotte <strong>da</strong> Paolo Orsi (1859-1935).<br />

Nel XX secolo gli studi archeologici sono stati interrotti, in tutta Europa, solo durante i due conflitti mondiali<br />

e hanno acqui<strong>sito</strong> caratteri sempre più scientifici. Lo scavo, spesso considerato in precedenza, <strong>da</strong>i non addetti<br />

ai lavori, una semplice caccia al tesoro, si è infatti trasformato in una raccolta sistematica di materiali, nel<br />

loro studio tipologico, in un esame dettagliato dei singoli siti. In Inghilterra si è inaugurata una moderna<br />

tecnica di scavo basata sulla stratigrafia, poi comunemente adottata <strong>da</strong>gli archeologi.<br />

Lo scavo stratigrafico consiste nel rimuovere, uno dopo l’altro, gli strati di terreno che si sono via via<br />

accumulati. Essi si formano per sovrapposizione, in tempi successivi, di materiale incoerente, che ha<br />

raggiunto un certo spessore. Questo materiale può essersi accumulato su manufatti vari (abitazioni, tombe,<br />

ecc.) o semplicemente contenere oggetti o frammenti di oggetti appartenuti all’uomo antico. Nel rimuovere<br />

gli strati bisogna tenere conto della loro reciproca posizione e considerare più vecchio lo strato (e quindi<br />

6


anche i materiali in esso contenuti) che si trova al di sotto rispetto a quello ad esso superiore. Ciò è vero però<br />

solo nel caso in cui non siano avvenuti dei rimaneggiamenti degli strati, dovuti a forze naturali (cadute di<br />

frane, ecc.) oppure dovuti ad azione volontaria ma inconsapevole dell’uomo (lavori di sbancamento,<br />

fon<strong>da</strong>menta di costruzioni, ecc.).<br />

Fino agli anni ’60 un notevole contributo alla conoscenza della <strong>storia</strong> antica del Trentino è stato fornito <strong>da</strong>lle<br />

in<strong>da</strong>gini archeologiche di Giacomo Roberti (1874-1960).<br />

In quello stesso periodo e negli anni successivi sono state compiute moltissime ricerche. A Renato Perini si<br />

devono le in<strong>da</strong>gini compiute ai Solteri e a Montesei di Serso, nonché alla palafitta di Fiavè- Carera e presso<br />

Ciaslìr del M. Ozol in Val di Non. È a Bernardino Bagolini che si devono alcune tra le più importanti<br />

ricerche paletnologiche compiute in Trentino negli ultimi 30 anni tra cui Riparo Gaban e il <strong>sito</strong> del<br />

Colbricòn, situato a 1920 metri di altezza nei pressi di S.Martino di Castrozza.<br />

Negli ultimi decenni sono stati fatti molti passi avanti anche grazie allo sviluppo di ‘in<strong>da</strong>gini preliminari’<br />

fatte sul territorio. La fotografia aerea, in particolare, si è rivelata molto utile nello studiare rapi<strong>da</strong>mente aree<br />

territoriali molto ampie come la Gran Bretagna e l’Europa nord- occidentale. Grazie a questa tecnica e alla<br />

‘ricognizione del territorio’, che consiste nel percorrere a piedi un’area selezionata alla ricerca di reperti e<br />

strutture <strong>da</strong> poter annotare su di una carta topografica, si sono ampliate notevolmente le conoscenze<br />

archeologiche di tutta Europa.<br />

Anche in Trentino le in<strong>da</strong>gini e gli scavi che vengono condotti <strong>da</strong>gli studiosi del Museo di Scienze Naturali e<br />

dell’Ufficio Beni Archeologici permettono di individuare molti nuovi siti e di avere una conoscenza<br />

archeologica sempre aggiornata di tutto il territorio trentino.<br />

La Prei<strong>storia</strong> di Maria Raffaella Caviglioli<br />

Paleolitico<br />

Il Paleolitico è un periodo molto ampio, che occupa quasi tutta la prei<strong>storia</strong>, concludendosi soltanto intorno<br />

ai 10.000 anni <strong>da</strong>l presente.<br />

Occupa il Pleistocene, cioè il primo periodo del quaternario o neozoico, l?era geologica attuale, interessata<br />

<strong>da</strong> 5 glaciazioni (Donau, Gunz, Mindel, Riss e Würm), durante le quali si sono avuti forti abbassamenti della<br />

temperatura media annua, che provocarono la comparsa di vaste aree ghiacciate sulle maggiori catene<br />

montuose e su ampie aree dei continenti e degli oceani.<br />

Tra una glaciazione e l?altra ci sono stati dei periodi interglaciali. Ciò ha determinato continui cambiamenti<br />

climatici con profonde alterazioni nella distribuzione della vegetazione e dell?acqua di superficie disponibile.<br />

Ad esempio, alle medie latitudini, gli interglaciali erano caratterizzati <strong>da</strong>lla diffusione di foreste boreali in<br />

zone precedentemente occupate <strong>da</strong> steppa, tundra e ghiaccio.<br />

Queste variazioni hanno chiaramente influito in modo determinante sulla occupazione o meno <strong>da</strong> parte dell?<br />

uomo preistorico delle varie aree geografiche.<br />

Il Paleolitico comprende varie fasi: il paleolitico inferiore, il paleolitico medio e il paleolitico superiore.<br />

Paleolitico inferiore<br />

Questo periodo è il primo del Pleistocene con cui inizia l’era quaternaria. Non è ancora possibile fissarne dei<br />

limiti cronologici precisi, per quanto concerne il continente europeo, a causa della rarità dei resti umani e dei<br />

manufatti in pietra rinvenuti. Comunque le testimonianze più antiche risalgono a circa 1.000.000 di anni fa,<br />

quando è attestata la presenza dell’homo erectus, che quasi tutti gli studiosi considerano il primo<br />

rappresentante del genere umano, perché aveva una posizione completamente eretta e possedeva un cervello<br />

più grande dell’homo habilis, il suo discusso predecessore, nel quale si iniziavano a vedere abilità di tipo<br />

umano come la capacità di rendere taglienti ciottoli fluviali (i cosiddetti ‘choppers’) staccando, tramite un<br />

colpo apportato per mezzo di un altro ciottolo, alcune schegge su una o entrambe le facce.La presenza<br />

dell’uomo primitivo in Europa è stata documentata in varie località; in Francia, ad esempio, importanti sono i<br />

ritrovamenti presso la Grotta di Vallo<strong>net</strong> a Mentone sulla Costa Azzurra. Per quanto riguar<strong>da</strong> l’Italia,<br />

risultano interessanti le scoperte di Isernia la Pi<strong>net</strong>a, in Molise, di Quinzano e di Monte Gazzo, nonché di<br />

altre località del Monte Baldo e della zona dei Lessini.<br />

In Trentino, per la presenza di ampie zone coperte <strong>da</strong>i ghiacci, è stato fatto solo qualche sporadico<br />

rinvenimento di manufatti in selce, attribuibili alla fine del Paleolitico inferiore o all’inizio dell’epoca<br />

successiva, presso il confine meridionale della regione, ad esempio al Passo Fittanze (1393 m.s.l.m.) a sud di<br />

Ala e al Passo di San Valentino, nei pressi di Brentonico (1300 m.s.l.m.).<br />

7


La distribuzione dei siti (dei luoghi) in cui sono stati rinvenuti reperti paleontologici e manufatti di vario<br />

tipo, ha permesso di mettere in evidenza un carattere particolare dell’uomo vissuto in questo periodo: il<br />

nomadismo. Gli uomini cioè erano abituati a vivere sfruttando le risorse naturali. Raccoglievano i frutti<br />

spontanei del terreno e cacciavano animali anche di grosse dimensioni. Quando i territori che frequentavano<br />

si erano impoveriti, li abbandonavano an<strong>da</strong>ndo alla ricerca di nuove zone non ancora sfruttate. Tutto ciò<br />

nonostante fossero dotati di capacità intellettive tali <strong>da</strong> essere in grado di utilizzare il fuoco e, come è<br />

attestato a Northfleet, in Inghilterra, e a Ziegenhain, in Germania, di sfruttare in modo organizzato cave di<br />

pietre e minerali.<br />

Gli habitat preferiti <strong>da</strong>ll’uomo del paleolitico inferiore dovevano essere pascoli aperti con buone riserve di<br />

acqua e selvaggina.<br />

Oltre che nelle grotte, l’homo erectus era abituato a vivere in strutture abitative artificiali, realizzate con<br />

materiali semplici ma resistenti come rami, frasche e pelli.<br />

In questo periodo l’uomo era in grado di produrre strumenti e manufatti, non solo scheggiando la pietra, ma<br />

lavorando anche l’osso, il legno e la selce, termine con il quale si indicano tipi di roccia sedimentaria<br />

costituita <strong>da</strong> silice, sotto forma di calcedonio, quarzo, diaspro. La selce è una fra le pietre più dure che<br />

permette però il distacco di schegge di varia forma e grandezza, mediante la percussione contro, ad esempio,<br />

una grossa pietra posata sul suolo, o contro uno strumento, opportunamente preparato, chiamato percussore.<br />

Nel corso del tempo accanto ai bifacciali realizzati anche con percussori teneri, di legno o di osso,<br />

compaiono strumenti scheggiati e ritoccati, particolarmente utili nella lavorazione della pelle, come<br />

raschiatoi, grattatoi, lame, punte, ecc.<br />

Sono stati rinvenuti anche strumenti litici realizzati attraverso una tecnica particolare, levalloisiana (<strong>da</strong> un<br />

giacimento presso Parigi), che consisteva nel predeterminare la forma voluta delle schegge <strong>da</strong> staccare <strong>da</strong> un<br />

nucleo, <strong>da</strong>ndo ad esso, anticipatamente, una forma ben precisa.<br />

Paleolitico medio<br />

Questo periodo ebbe luogo durante l’ultima interglaciazione e la fase iniziale dell’ultima glaciazione, cioè<br />

alla fine del Pleistocene, tra 150.000 e 40.000 anni fa. I numerosi cambiamenti climatici determinarono la<br />

discesa dei limiti delle nevi perenni e quindi anche della vegetazione d’altura.<br />

L’abbassamento del livello del mare in tutto il mondo, con la conseguente emersione delle piattaforme<br />

continentali, determinò l’aumento del terreno sfruttabile <strong>da</strong>ll’uomo preistorico.<br />

In questo periodo è attestata la presenza dell’Homo sapiens Neanderthalensis, il cui nome trae origine <strong>da</strong>lla<br />

località tedesca di Neanderthal, presso Düsseldorf, dove vennero fatti i primi ritrovamenti (1857).<br />

L’uomo di Neanderthal è caratterizzato <strong>da</strong> una struttura ossea massiccia, un cranio ed un cervello piuttosto<br />

sviluppati, la fronte sfuggente e le arcate sopraccigliari ben marcate. La sua presenza è attestata in tutta<br />

Europa. In Italia sono stati fatti molti rinvenimenti in quasi tutte le regioni, ad esempio in Liguria (Grotta dei<br />

Balzi Rossi di Grimaldi) e nel Lazio (Monte Circeo). Molto più scarse sono le testimonianze nell’area alpina,<br />

soprattutto nelle valli più interne, probabilmente rese impraticabili, a quell’epoca, <strong>da</strong>lla presenza del<br />

ghiaccio.<br />

Nella regione atesina l’uomo poté occupare siti posti ai margini delle Prealpi, in un ambiente interessato<br />

<strong>da</strong>lla steppa e <strong>da</strong>lla tundra, come dimostra l’analisi paleoambientale compiuta, in particolare, presso la grotta<br />

delle Fumane, in Valpolicella.<br />

In Trentino, sono stati rinvenuti diversi strumenti in selce, ad esempio sull’altopiano delle Viotte del<br />

Bondone (1600 metri di altezza) e presso la piana della Marcesina (nella zona dell’altopiano di Asiago).<br />

I manufatti in selce, realizzati <strong>da</strong>ll’uomo del Paleolitico medio, possono essere attribuiti all’"industria<br />

musteriana".<br />

Con il termine "industria" si indica il metodo di fabbricazione di oggetti vari, in questo caso litici. Con il<br />

termine "musteriana", si vuol fare riferimento ai manufatti litici trovati in una grotta francese, che presentano<br />

caratteristiche simili a molti altri trovati in varie località europee, nello stesso periodo, a cui quindi si è<br />

voluto <strong>da</strong>re un nome comune.<br />

I manufatti prodotti erano realizzati in diverse dimensioni ed erano ottenuti non solo attraverso la<br />

percussione diretta, come nel periodo precedente, ma anche ponendo fra il percussore e la pietra uno<br />

strumento intermedio, come fosse uno scalpello (percussione indiretta).<br />

Le risorse alimentari dell’uomo del paleolitico medio si basavano ancora sulla raccolta di prodotti spontanei<br />

della terra, sulla pesca e sulla caccia, soprattutto di stambecchi, camosci, cervi, orsi, cinghiali, alci, mammut.<br />

In base ai rinvenimenti fatti fino ad ora, sembra che la caccia venisse intrapresa sia <strong>da</strong> singoli individui che<br />

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<strong>da</strong> gruppi, ma non ci sono prove dell’utilizzazione di armi usate specificatamente per uccidere una<br />

determinata specie animale e nemmeno prove di uno sfruttamento selettivo di particolari specie.<br />

Anche durante il paleolitico medio, quindi, l’uomo era nomade e viveva o in caverne o in ripari rocciosi<br />

oppure in strutture artificiali realizzate forse in legno con una sovrastruttura in pelle. Quest’ultima ipotesi è<br />

stata formulata in base al rinvenimento di un recinto ovale di ossa di mammut entro il quale vi erano<br />

manufatti litici e resti di ossa, a Molodova I, in Ucraina.<br />

Paleolitico superiore<br />

Questo periodo, compreso tra i 40.000 e i 10.000 anni fa circa, è stato caratterizzato, in una prima fase, <strong>da</strong><br />

clima rigido con inverni freddi e lunghi. Il ghiaccio occupava ancora l’asse del Gar<strong>da</strong> e dell’Adige fino ad<br />

arrivare alle pendici meridionali del monte Baldo: emergevano solo le zone più elevate di questa catena<br />

montuosa e, più a nord, del Bondone e della Paganella. Tutta la valle dell’Adige, quindi, all’altezza delle<br />

attuali Trento e Rovereto, fino a 1500 metri di quota, era sommersa <strong>da</strong>l ghiaccio.<br />

Intorno a 15.000 anni fa, durante il "tardoglaciale würmiano", è iniziato un sensibile miglioramento climatico<br />

che ha portato ad un graduale arretramento della coltre glaciale, che alla fine di questo periodo ha<br />

abbandonato i grandi alvei vallivi. Ciò ha determinato una serie di cambiamenti sia nella vegetazione che<br />

nella fauna. A basse quote, infatti, piante arbustive ed arboree hanno preso il posto della steppa e si sono<br />

diffusi i cervi, i caprioli e i cinghiali. Tali variazioni però non hanno determinato grossi cambiamenti<br />

nell’economia dell’uomo; in quest’ultima fase del paleolitico è attestata la presenza dell’Homo sapiens Cro-<br />

Magnon e dell’Homo sapiens Grimaldi, i cui resti sono stati trovati in Italia presso la grotta dei Balzi Rossi,<br />

in Liguria. Egli continuò a cibarsi dei prodotti spontanei della terra e della carne degli animali che riusciva ad<br />

uccidere tramite la caccia. Soprattutto in quest’ultimo ambito si verificò un miglioramento nelle tecniche<br />

create per impossessarsi delle prede, grazie all’introduzione dell’arco e delle frecce (i ritrovamenti più<br />

antichi, risalenti a 11.000/10.000 anni fa, provengono <strong>da</strong> Amburgo, in Germania), nonché dell’arpione e del<br />

propulsore, che permetteva di scagliare la lancia con più forza e più lontano.<br />

Vennero anche creati nuovi dispositivi per la pesca, come l’amo. Tutto ciò attraverso la realizzazione di una<br />

gamma di utensili molto ampia, come dimostra la presenza di diverse industrie litiche tra le quali quella<br />

"aurignaziana" e quella "epigravettiana", che si basavano soprattutto sulla tecnica del ritocco.<br />

I manufatti che venivano creati con maggiore frequenza erano le punte, che potevano essere immanicate<br />

all’estremità di aste di legno così <strong>da</strong> fungere <strong>da</strong> frecce, per la caccia, oppure i perforatori, ottenuti rendendo<br />

appuntita una lama o una scheggia ed impiegati per forare l’osso, il corno, le conchiglie, ecc. Per lavorare la<br />

pelle venivano poi usati grattatoi, raschiatoi, coltelli. In questo stesso periodo incominciarono ad essere<br />

realizzati anche manufatti in avorio.<br />

Il ritrovamento di strumenti molto simili ai moderni aghi <strong>da</strong> cucito, realizzati in osso, spinge anche a ritenere<br />

che gli uomini si confezionassero dei vestiti in pelle. Quest’ipotesi è suffragata anche <strong>da</strong>l ritrovamento, a<br />

Sungir (a 210 chilometri a nord - est di Mosca), di una serie di perline disposte variamente sul suolo. Ciò ha<br />

permesso infatti di capire che a quell’epoca esistevano diversi tipi di abiti, tra cui cappucci in pelle, giubbe,<br />

calzoni e mocassini.<br />

L’uomo del Paleolitico superiore era solito trovare rifugio probabilmente nelle caverne, in ripari sotto roccia,<br />

ma anche all’aperto, in strutture abitative artificiali opportunamente realizzate sfruttando legname, pietre,<br />

pelli e dotandole anche di focolari, talvolta complessi.<br />

In Trentino è stato possibile individuare molti siti riferibili a questo periodo, soprattutto lungo il sistema<br />

delle dorsali Monte Baldo- Stivo- Bondone - Paganella.<br />

Tra le zone di maggiore interesse vi è, anche per il Paleolitico superiore, l’altopiano delle Viotte del Bondone<br />

(1600 m.s.l.m.). Qui, nel 1978-1979, sono stati raccolti diversi manufatti in selce, così come nelle vicinanze<br />

del lago di An<strong>da</strong>lo (1000 m.s.l.m.) e a Manzano di Mori.<br />

Recentemente, nel 1999, a Folgaria, in località Cogola, è stato individuato un <strong>sito</strong> con diversi focolari, selci e<br />

resti di fauna (orso e lupo), probabilmente frequentato <strong>da</strong> cacciatori.<br />

Anche presso il lago di Terlago (430 m.s.l.m.) sono state trovate testimonianze del passaggio di cacciatori<br />

epigravettiani e, in particolare, vi è la conferma che l’uomo del Paleolitico superiore sapeva realizzare<br />

oggetti artistici. È stato infatti rinvenuto un ciottolo decorato con alcune linee parallele incise, probabilmente<br />

realizzate usando uno strumento chiamato bulino, che era ottenuto staccando <strong>da</strong> un pezzo di selce una<br />

scheggia alla quale veniva <strong>da</strong>ta la forma di uno scalpello, a<strong>da</strong>tto a realizzare incisioni sull’osso e sul corno.<br />

Presso il Riparo Dalmeri (a 1240 m.s.l.m., sul bordo settentrionale dell’Altopiano di Asiago), in un<br />

insediamento sottoroccia, scoperto nel 1990, a due metri di profondità, oltre a manufatti in selce, punte di<br />

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osso, resti di fauna (stambecco, cervo, tasso, marmotta, pesci, ecc.), sono state riportate alla luce alcune<br />

conchiglie forate (columbella, cyclope) schegge di selce con graffiti. Quindi anche qui, come a Terlago, vi è<br />

la prova della presenza di un certo gusto artistico nell’uomo vissuto alla fine del Paleolitico.<br />

Analoghe testimonianze, d’altra parte, sono rintracciabili in molti altri siti italiani ed europei. Presso il riparo<br />

Villabruna, ad esempio, nella bassa Val Cismòn (Belluno), è stata rinvenuta una sepoltura con alcuni ciottoli<br />

decorati con pitture realizzate in ocra rossa. Presso riparo Tagliente (nella Valpantena, zona dei Lessini) sono<br />

stati raccolti due ciottoli con immagini graffite di un bisonte e di uno stambecco.<br />

Le pareti di varie grotte presenti sul territorio europeo, tra cui Altamira, in Spagna, Lascaux, presso<br />

Montignac, nella Francia sud-occidentale, o Font de Gaume nel Perigord, sempre in Francia, riportano varie<br />

pitture realizzate con ocra e carboni, rappresentanti per lo più animali.<br />

In Liguria, nella grotta dei Balzi Rossi, sono stati trovati, insieme a vari resti scheletrici, una collanina di<br />

conchiglie forate e un cranio coperto di ocra. La presenza di questo pigmento naturale su resti ossei potrebbe<br />

indicare non un elemento ornamentale, ma piuttosto la manifestazione di una qualche forma magicoreligiosa.<br />

A propo<strong>sito</strong> dei Balzi Rossi, a conferma del nascere in questo periodo di un certo senso artistico e di un<br />

sentimento magico religioso, si deve accennare ai ritrovamenti di varie statuette antropomorfe. Si <strong>tratta</strong> delle<br />

cosiddette "Veneri" che rappresentano un tipo di donna in cui sono evidenziati gli attributi della femminilità:<br />

seni, fianchi e natiche. Queste ultime richiamano alla mente la steatopigía di un gruppo etnico dell’Africa del<br />

sud, i Boscimano-Ottentotti. Oggetti del genere sono stati trovati in molte località europee (ad esempio a<br />

Willendorf in Austria) e costituiscono una chiara prova dell’elevata capacità tecnica raggiunta <strong>da</strong>gli uomini<br />

preistorici alla fine del paleolitico, nonché dello svilupparsi di un notevole gusto artistico e un sentimento<br />

religioso. Queste statuine sono state infatti interpretate <strong>da</strong> molti studiosi come idoli legati al culto della<br />

fecondità.<br />

Mesolitico<br />

Intorno a 10.000 anni fa (8000 a.C.), nella secon<strong>da</strong> fase dell’era quaternaria, cioè durante l’Olocene, il clima<br />

divenne più mite e costante, di conseguenza, per la prima volta, l’uomo iniziò a svolgere una vita semi<br />

sedentaria, realizzando insediamenti a mezzacosta, vicino a laghi e torrenti, allo sbocco di valli, sui conoidi<br />

di deiezione, in prossimità del fondovalle, ancora occupato <strong>da</strong> acquitrini benché, già alla fine del Paleolitico<br />

superiore si fosse verificato il ritiro del ghiaccio che aveva occupato fino a quel momento le altitudini meno<br />

elevate. Nella scelta del luogo ove stabilire gli insediamenti, già in quest’epoca l’uomo prediligeva i siti più<br />

vantaggiosi per la caccia, la pesca, l’uccellagione, la vegetazione <strong>da</strong> cui trarre nutrimento.<br />

Gli insediamenti erano ripari sottoroccia, resi più confortevoli probabilmente grazie a strutture realizzate con<br />

pali in legno, canne di palude, pelli di animali, come lasciano presumere i rinvenimenti di buche di palo e<br />

pietre poste intorno ad essi, forse per rinforzarli.<br />

Anche in questo periodo è attestata una grande varietà di manufatti in osso, corno (soprattutto punteruoli,<br />

aghi, punte e ami) e in pietra, appartenenti all’"industria sauvetteriana" e "castelnoviana".<br />

Numerosi sono i manufatti litici caratterizzati <strong>da</strong>l fatto di avere dimensioni limitate, spesso pochi millimetri.<br />

Si <strong>tratta</strong> dei cosiddetti microliti di forma per lo più triangolare (generalmente triangoli scaleni), usati<br />

soprattutto per realizzare frecce e arpioni. Con il castelnoviano le tecniche di lavorazione di strumenti litici<br />

vanno perfezionandosi, <strong>da</strong>ndo origine ad elementi, di dimensioni sempre limitate, di forma trapezoi<strong>da</strong>le.<br />

Questi erano spesso utilizzati come punte a tranciante per frecce.<br />

In Trentino sono stati fatti numerosi rinvenimenti, tra i quali anche sepolture, che testimoniano l’abitudine,<br />

durante il Mesolitico, di deporre i defunti in posizione supina e senza elementi di corredo.<br />

Per corredo si intende l’insieme di oggetti d’abbigliamento, manufatti di uso quotidiano, elementi di valore<br />

simbolico che sarà presente nelle tombe di epoche successive fino a quella romana.<br />

Presso Vatte di Zambana, in un riparo sottoroccia, nel 1968 è stato rinvenuto lo scheletro di una donna di 45-<br />

50 anni, deposta supina e parzialmente coperta di pietre. Un rinvenimento analogo è stato fatto nel 1995<br />

anche a Mezzocorona, in località Borgonuovo. Al di fuori della sepoltura è stato rinvenuto un corno ed<br />

alcune mandibole di cervo con tracce di ocra rossa, forse riconducibili ad una qualche ritualità funeraria.<br />

Interessanti scoperte sono state fatte anche a Romagnano Loch, sulla destra Adige, a 7 chilometri a sud di<br />

Trento, e in un riparo sottoroccia alla base del Monte Bondone, dove sono stati raccolti molti strumenti in<br />

selce e conchiglie (76 columbelle, 2 cyclope, 2 dentalium).<br />

Presso Pradestel-Ischia Podetti, alla base dei Dossi di Terlago, a cinque chilometri a nord di Trento, sono<br />

state rinvenute 20 columbelle e 2 perline di cyclope; columbelle sono attestate, tra l’altro, anche a Vatte di<br />

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Zambana, al Bus del la Vecia di Besenello, a Paludei di Volano e a Mezzocorona- Borgonuovo. Il fatto che<br />

queste conchiglie, forate per intervento di qualche parassita o intenzionalmente, siano state rinvenute in zone<br />

molto lontane <strong>da</strong>i luoghi d’origine, dimostra, oltre ai contatti tra popolazioni lontane, il preciso desiderio<br />

dell’uomo mesolitico di realizzare oggetti ornamentali; abitudine d’altra parte, come si è visto<br />

precedentemente, già attestata durante il Paleolitico superiore.<br />

Anche presso Riparo Gaban, alla base del monte Calisio, a due chilometri a nord di Trento, sono stati<br />

recuperati vari oggetti artisticamente lavorati. Oltre ad alcune conchiglie di columbella e dentalium forate, è<br />

stato trovato un cilindretto in osso con decorazioni intagliate, un frammento di spatola, anch’essa in osso e<br />

decorata, ed una statuetta (la cosiddetta "Venere del Gaban") intagliata in un corno di cervo, che ricor<strong>da</strong> le<br />

Veneri realizzate nel Paleolitico superiore.<br />

Molte scoperte riferibili al periodo in questione sono state fatte anche in zone situate ad altitudini piuttosto<br />

elevate dove un clima favorevole ha determinato l’espansione di boschi di aghifoglie con conseguente<br />

diffusione del manto erboso anche a 1900-2300 metri di altezza, ambiente ideale per stambecchi e camosci.<br />

Gli uomini mesolitici compivano, durante l’estate, battute di caccia in montagna e realizzavano insediamenti<br />

temporanei, vicino a laghi e ruscelli, dove dimoravano per alcune settimane. Venivano sfruttati, se possibile,<br />

ripari sottoroccia o costruite strutture in legno, rami, pelli, in luoghi aperti.<br />

Presso il Passo del Colbricon (1930 m.s.l.m.), a 2,5 chilometri di distanza <strong>da</strong>l Passo Rolle è stato scoperto un<br />

<strong>sito</strong> in cui è possibile individuare 9 aree adibite allo svolgimento di diverse attività, quali lo squartamento<br />

degli animali cacciati, la lavorazione della pelle, dell’osso, ecc.<br />

L’intensa attività venatoria svolta in alta montagna doveva quindi essere un elemento caratteristico della vita<br />

dell’uomo mesolitico, come dimostrano anche i ritrovamenti fatti presso la grotta di Ernesto, scoperta nel<br />

1983, a 1165 metri di altezza, nella valle d’Antenne, sulla fiancata nord-orientale dell’altopiano di Asiago.<br />

La grotta si sviluppa per 65 metri ed è costituita <strong>da</strong> una galleria larga <strong>da</strong> 2 a 5 metri. Qui è stato rinvenuto un<br />

focolare di carboni, strumenti in selce, molte ossa di stambecco e di cervo.<br />

Neolitico<br />

Nelle terre emerse situate vicino all’equatore, già intorno agli 11.000 anni fa (9000 a.C.), si verificarono<br />

notevoli variazioni climatiche, caratterizzate <strong>da</strong>ll’aumento della piovosità. Ciò portò alla comparsa delle<br />

prime graminacee a grande seme, le antenate dei cereali: l’orzo e il frumento. Nei territori orientali,<br />

corrispondenti alle attuali regioni del Levante, del Sinai e dell’Arabia occidentale, i frutti di tali piante non<br />

vennero solo raccolti ma cominciarono ad essere seminati. In Siria, nella valle dell’Eufrate, ad esempio, sono<br />

stati trovati resti di cereali molto lontani <strong>da</strong>l luogo in cui crescevano spontaneamente e a Gerico sono state<br />

individuate tracce di un particolare tipo di frumento, il Triticum dicoccum.<br />

Col tempo, intorno agli 8.000 anni fa (6000 a.C.), forse in seguito a migrazioni, oppure attraverso scambi<br />

fatti tra popoli di volta in volta confinanti, la coltivazione di tali piante si diffuse in Occidente, giungendo<br />

nelle regioni dell’attuale Europa.<br />

Nelle stesse zone, nello stesso periodo, si diffuse l’addomesticamento del bue e degli equini e l’abitudine a<br />

realizzare contenitori ceramici. È attestata anche la presenza di reti, panieri ed altri oggetti ottenuti mediante<br />

l’intreccio, nonché la tessitura con fibre di lino.<br />

Comparvero anche i primi insediamenti stabili costituiti <strong>da</strong> strutture di forma circolare, e più spesso quadrata<br />

o rettangolare, realizzate con mattoni di argilla, nel vicino Oriente, e con il legno, in Europa, come<br />

dimostrano le numerose buche di palo rinvenute in molti siti riportati alla luce, ad esempio, in Moravia,<br />

Polonia, Germania e Italia.<br />

In Trentino, in particolare, presso il <strong>sito</strong> di La Vela (sulla destra dell’Adige, poco a nord del Doss Trento),<br />

sono state individuate le tracce di abitazioni a pianta quadrangolare, di cui si sono conservate le buche di<br />

fissaggio dei pali in legno che ne costituivano la struttura portante.<br />

In questi villaggi primitivi, spesso costruiti vicino a corsi d’acqua, si svolgeva una agricoltura sistematica<br />

che portò alla realizzazione di un’attrezzatura specifica, anche attraverso la creazione di strumenti, come<br />

asce, martelli, scalpelli, macinelli, ottenuti, per la prima volta, levigando la pietra. Per questo motivo il<br />

neolitico prende il nome di età della pietra levigata, an<strong>da</strong>ndo a distinguersi <strong>da</strong>l paleolitico, l’età della pietra<br />

scheggiata.<br />

Neolitico antico<br />

Con la comparsa della ceramica nei territori europei, sono sorti ben presto diversi tipi di oggetti prodotti con<br />

questo materiale. Ciò ha portato allo sviluppo di vere e proprie culture.<br />

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La ceramica, quindi, grazie allo studio delle diverse forme e decorazioni, è diventata un indicatore<br />

importante per gli archeologi, "un fossile gui<strong>da</strong>", per individuare le caratteristiche di una determinata cultura<br />

e per <strong>da</strong>tare i vari reperti. È stato possibile così delineare i tratti essenziali della cosiddetta<br />

Lienerbandkeramik (cultura della ceramica a bande lineari), attestata in Europa centrale.<br />

Nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Africa settentrionale, Italia, Francia, Spagna) è stata<br />

individuata la cultura della ceramica impressa o cardiale, <strong>da</strong>l nome della conchiglia, il cardium, con la quale<br />

venivano fatte le principali decorazioni. In Italia le testimonianze più antiche provengono <strong>da</strong>lle coste pugliesi<br />

(es. Manfredonia).<br />

Nell’Italia settentrionale è stato possibile scoprire la presenza contemporaneamente di una serie di gruppi<br />

culturali. Si <strong>tratta</strong> del Gruppo di Fiorano, presente per lo più in Emilia, quello di Fagnigola, in Friuli, quello<br />

del Vhò, nella pianura pa<strong>da</strong>na e quello dell’Isolino, nella zona di Varese.<br />

In Trentino, in particolare, si è sviluppato, intorno al 5000 a.C., il Gruppo del Gaban, che prende il nome <strong>da</strong>l<br />

riparo, <strong>sito</strong> nelle vicinanze di Trento, già menzionato per il mesolitico. Qui infatti, oltre a vari oggetti, tra cui<br />

alcuni artistici come una placchetta ossea a forma di pesce, è stata rinvenuta una tazzina carenata, dotata di<br />

una decorazione incisa, di bug<strong>net</strong>te plastiche sulla carena e di decorazioni sul bordo eseguite ad unghiate.<br />

Frammenti di ceramica con le medesime caratteristiche sono state rinvenute in molti siti del Trentino, ad<br />

esempio a La Vela, e anche in Alto Adige, a Villandro.<br />

Ciò dimostra che questa cultura era diffusa in tutta la regione. Sulla base dei <strong>da</strong>ti fino ad ora a disposizione,<br />

si può ritenere che la sua origine sia dovuta ai contatti intercorsi tra le popolazioni mesolitiche locali e gruppi<br />

di uomini stabilitisi in Trentino, provenendo soprattutto <strong>da</strong>ll’area pa<strong>da</strong>na.<br />

Sono state rinvenute tracce di insediamenti, riferibili a questo periodo, in ripari sottoroccia, presso riparo<br />

Gaban, Romagnano, Pradestel, Moletta Patone (nei pressi di Arco). Pochi invece sono i rinvenimenti di<br />

insediamenti all’aperto (tranne La Vela, già citato), mentre la montagna sembra essere stata scarsamente<br />

frequentata.<br />

Si pensa che l’economia della popolazione del Gruppo del Gaban fosse ancora basata, tranne qualche<br />

eccezione (La Vela, Moletta Patone, dove è attestato l’allevamento di capro-ovini), sulla caccia e sulla<br />

raccolta di frutti spontanei, radici, ecc.<br />

Dovevano esserci però molti scambi con altre popolazioni come dimostrano, ad esempio, i vari frammenti di<br />

vasi appartenenti alla cultura della ceramica impressa trovati presso riparo Gaban.<br />

Neolitico medio<br />

Intorno al 4700 a.C. si diffuse in tutta l’Italia settentrionale una nuova cultura il cui elemento distintivo è<br />

rappresentato <strong>da</strong> vasi di ceramica con l’orlo di forma quadrata. Si suole quindi definirla "cultura dei vasi a<br />

bocca quadrata" (cultura v.b.q.).<br />

Attraverso lo studio delle decorazioni presenti su questi vasi è stato possibile distinguere diversi stili poiché,<br />

in un primo momento, i vasi vennero decorati con motivi ottenuti combinando in vario modo delle linee rette<br />

(stile geometrico lineare). In un secondo momento invece vennero realizzate decorazioni nelle quali si<br />

preferivano alle linee spezzate bande di meandri e spirali (stile meandro- spiralico) .<br />

Durante il Neolitico medio vennero abbandonati molti siti occupati in precedenza, tranne alcune eccezioni<br />

come Romagnano Loch, riparo di Moletta Patone, riparo Gaban.<br />

Sorsero molti nuovi insediamenti su qualche terrazzamento, come Garniga Nuova (750 m.s.l.m.), ma per lo<br />

più su conoidi alluvionali in vicinanza del fondovalle ed ebbero un notevole sviluppo quelli già presenti in<br />

queste zone come l’insediamento di La Vela. Qui, in particolare, oltre ad un’ampia attività pastorale, il<br />

ritrovamento di chicchi di orzo e frumento carbonizzati comprova anche un’ampia attività agricola.<br />

In questo periodo si sviluppò, nella produzione di strumenti litici, la tecnica del ritocco foliato, che<br />

consisteva nel fare piccoli distacchi radenti su buona parte o sull’intera superficie dello strumento.<br />

Il rinvenimento di sepolture, in particolare presso il <strong>sito</strong> di La Vela, ha permesso di stabilire quali fossero le<br />

caratteristiche dei riti funebri adottate durante il Neolitico medio. Sono state individuate tre diverse tipologie:<br />

– sepolture senza alcuna protezione;<br />

– sepolture a cista litica, cioè con il defunto posto in una cassa formata <strong>da</strong> lastre di pietra;<br />

– sepolture con un recinto di pietre, entro il quale era posto il defunto.<br />

La presenza di una certa varietà nei riti funebri spinge a ritenere che vi fosse il desiderio di attribuire<br />

particolari onori agli individui che, all’interno di una comunità, avevano svolto un ruolo di primo piano.<br />

Tutti i defunti, deposti rannicchiati sul fianco sinistro, con il capo rivolto a nord ed il volto ad oriente,<br />

potevano avere un corredo costituito <strong>da</strong> tazzine a bocca quadrata, braccialetti, collanine, conchiglie di<br />

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spondilus. La presenza, in alcune sepolture, di cinabro induce, per la sua somiglianza all’ocra, a ritenere che<br />

venisse utilizzato con la stessa valenza magico religiosa con cui veniva usata l’ocra già nelle sepolture<br />

paleolitiche.<br />

La presenza di conchiglie di spondilus, nonché di oggetti provenienti <strong>da</strong>ll’area nord alpina, è molto<br />

importante per comprendere l’intensità dei contatti tra le popolazioni delle regioni a sud e a nord delle Alpi.<br />

Sicuramente però vi erano molti rapporti anche con popolazioni stanziate al di sotto del Po come dimostra,<br />

ad esempio, il ritrovamento, sempre presso La Vela, di ossidiana, probabilmente originaria di Lipari.<br />

Anche durante il neolitico è attestata la produzione di oggetti artistici. A riparo Gaban è stata trovata una<br />

figurina femminile stilizzata, ricavata <strong>da</strong> una placchetta d’osso, che appare, come diceva Bagolini, "più un<br />

simbolo che un’immagine". Al contrario le statuine femminili realizzate nel Paleolitico Superiore e nel<br />

Mesolitico presentano molto evidenziati gli attributi femminili con riferimento alla fecondità.<br />

Neolitico tardo<br />

In questo periodo, mentre si sviluppano nei territori dell’Europa centro-occidentale nuove culture, che<br />

contribuiscono anche alla diffusione, nei territori dell’Italia nord occidentale, della cultura di Lagozza, gli<br />

aspetti caratteristici della cultura dei vasi a bocca quadrata tendono a restringersi all’area ve<strong>net</strong>a ed atesina.<br />

Qui la decorazione ceramica meandro spiralica lascia il posto ad un nuovo stile caratterizzato <strong>da</strong>lla<br />

realizzazione di decorazioni, come triangoli o motivi a spina di pesce, ottenuti con incisioni ed impressioni,<br />

su vasi <strong>da</strong>lla bocca roton<strong>da</strong> o più raramente con la bocca quadrata, ottenuta spesso slabbrando verso l’esterno<br />

gli angoli della bocca.<br />

In questo periodo si assiste ad una diminuzione di insediamenti che vengono realizzati per lo più in collina,<br />

come il <strong>sito</strong> di Isera, presso la località ai Corsi e La Torretta (dove sono state individuate le tracce di tre<br />

capanne, su di un pendio situato a 250 metri di altezza), nonché a Covelo-Torlo, presso Terlago;<br />

generalmente in zone facilmente difendibili. Ciò sembra confermato <strong>da</strong>i ritrovamenti fatti in Val di Non, nei<br />

pressi di Cagnò (località Castelàz), che tuttavia non annoverano vasi a bocca quadrata.<br />

Sulla base delle attuali conoscenze sembra si possa concludere che durante la fase finale del Neolitico, tra le<br />

popolazioni presenti sul territorio trentino, si è verificata una profon<strong>da</strong> crisi economica e sociale con<br />

conseguente isolamento culturale rispetto alle popolazioni pa<strong>da</strong>no- ve<strong>net</strong>e e del resto dell’Europa<br />

Introduzione all'età dei metalli: eneolitico o età del Rame<br />

Il passaggio <strong>da</strong>l neolitico all’età dei metalli si compie gradualmente, senza brusche scosse, nelle culture<br />

umane. Il primo metallo utilizzato <strong>da</strong>ll’uomo, oltre all’oro, è stato il rame, che veniva trovato allo stato<br />

nativo, cioè puro. A poco a poco oggetti in rame si sono infiltrati nelle industrie preesistenti, senza mutarne<br />

l’aspetto. Quindi nell’età eneolitica ci troviamo in presenza di un complesso culturale neolitico al quale si<br />

aggiungono alcuni strumenti di rame.<br />

Cronologicamente questa fase è iniziata intorno al 3500 a.C. e si è conclusa intorno al 2200 a.C., quando si<br />

suole far iniziare l’Età del Bronzo.<br />

Probabilmente il rame è stato scoperto <strong>da</strong>ll’uomo casualmente in quanto è ipotizzabile che prima venissero<br />

usate le pietre che lo contenevano. Il colore, la lucentezza propria di questo minerale deve poi aver spinto<br />

l’uomo ad estrarlo e a lavorarlo per semplice martellamento, prima a freddo e, in un secondo momento, a<br />

caldo. In seguito l’uomo si e reso conto che, fondendo il rame e versandolo in stampi, era possibile creare<br />

diversi oggetti.<br />

In Oriente l’estrazione e la fusione del metallo sono iniziate già prima del 5.000 a.C. e solo in tempi<br />

successivi in Europa. Qui le prime zone di estrazione e lavorazione del rame, benché i <strong>da</strong>ti raccolti siano<br />

ancora scarsi, sembrano concentrarsi nella zona balcanica e in quella <strong>da</strong>nubiana.<br />

In Trentino la documentazione relativa a questo periodo è piuttosto scarsa.<br />

In Alto Adige però, il 19 settembre 1991, una coppia di Norimberga, in vacanza in Val Senales, rinvenne,<br />

sulle Ötztaler Alpen (al confine italo austriaco) a 3210 metri di altitudine, il corpo di un uomo intrappolato<br />

nel ghiaccio. L’Uomo, chiamato poi, "l’Uomo del Similaun" (Ötzi o Uomo dell’Hauslabjoch), si presentava<br />

completamente integro e in possesso del suo equipaggiamento.<br />

Lo studio accurato di questo rinvenimento ha permesso di acquisire una serie di fon<strong>da</strong>mentali conoscenze<br />

sulle caratteristiche dell’età eneolitica di tutta la regione. Infatti le <strong>da</strong>tazioni radiometriche della salma e dei<br />

reperti con cui è stata rinvenuta, la collocano tra il 3300 e il 3200 a.C., all’inizio cioè dell’eneolitico. Tra i<br />

materiali trovati, oltre a numerosi elementi di vestiario ed oggetti legati alla caccia (tra cui una faretra con<br />

quattordici frecce), risultano particolarmente interessanti un’ascia e un pugnale in rame. Si <strong>tratta</strong> infatti degli<br />

13


unici oggetti di quel tipo e di quell’epoca giunti a noi in perfette condizioni, completi di manico e fissaggio<br />

della lama.<br />

La lama dell’ascia, analizzata chimicamente e al microscopio, è risultata costituita <strong>da</strong>l 99% di rame, <strong>da</strong>llo<br />

0,22% di arsenico, <strong>da</strong>llo 0,09% di argento. Si <strong>tratta</strong> di rame derivante, probabilmente, <strong>da</strong> uno dei giacimenti<br />

di malachite o azzurrite presenti nell’area alpina e la lama è stata ottenuta previa fusione (a 1100° C), con<br />

una accurata lavorazione a freddo.<br />

Queste osservazioni confermano che l’uomo di quest’epoca aveva un’alta conoscenza della metallurgia del<br />

rame e una grande abilità nel produrre i manufatti.<br />

È stato anche notato che le armi e il vestiario dell’Uomo del Similaun sono molto simili a quelli raffigurati<br />

sulle statue stele. Si <strong>tratta</strong> di sculture rappresentanti figure umane (maschili con armi, femminili con seni,<br />

figure asessuate) e per questo distinte <strong>da</strong>i menhir non figurati, presenti soprattutto in Francia e in Inghilterra<br />

meridionale.<br />

Le statue stele sono state trovate per lo più nella Francia meridionale, nell’area alpina, per esempio nell’alta<br />

valle del Ro<strong>da</strong>no, ma anche sulle coste del Mar Nero. In Italia monumenti di questo tipo sono stati<br />

individuati soprattutto ad Aosta, in Val Camonica, in Valtellina, in Liguria, nella Lunigiana (Liguria-<br />

Toscana) e in Sardegna.<br />

In Trentino sono state trovate varie statue di questo tipo: una a Brentonico, una a Revò e sei ad Arco.<br />

Le armi rappresentate sulle statue stele sono identiche, nella loro forma, a quelle rinvenute nelle sepolture<br />

della necropoli di Remedello (vicino a Brescia) che diede origine ad una omonima cultura diffusa soprattutto<br />

nella pianura pa<strong>da</strong>na orientale e nell’area alpina fino alla Val Venosta. In particolare il pugnale "tipo<br />

Remedello" raffigurato sulle statue stele, ha la stessa forma di quello che possedeva l’Uomo del Similaun.<br />

Si è avuta così la conferma, sulla base di questi confronti, del fatto che, nell’età del rame, si sono intensificati<br />

gli scambi commerciali e culturali tra le popolazioni stanziate nell’Italia centro settentrionale.<br />

Sull’attività svolta <strong>da</strong>ll’Uomo del Similaun sono state avanzate molte ipotesi, delle quali nessuna pienamente<br />

confermata. Una delle più suggestive lo vorrebbe una sorta di metallurgo itinerante, cioè un conoscitore<br />

dell’estrazione del minerale e della lavorazione del rame che si spostava tra le varie comunità per svolgere la<br />

sua attività.<br />

Proprio questa ipotesi fa ricor<strong>da</strong>re che l’utilizzazione del rame durante l’eneolitico ha <strong>da</strong>to l’avvio alla<br />

comparsa di specialisti che avrebbero determinato una certa stratificazione sociale.<br />

Comunque il fenomeno si è evoluto in maniera lenta poiché, durante l’eneolitico, i cardini del sistema<br />

produttivo erano ancora l’allevamento (soprattutto di bovini), la caccia e l’agricoltura, anche se è probabile<br />

che soprattutto quest’ultima attività abbia subito delle innovazioni quali l’introduzione del carro e dell’aratro.<br />

Alla fine dell’eneolitico e all’inizio dell’epoca successiva, quella denominata età del Bronzo, si diffonde in<br />

un’ampia area geografica che si estendeva <strong>da</strong>l Portogallo all’Ungheria an<strong>da</strong>ndo a comprendere gran parte<br />

dell’Italia, una nuova cultura quella del vaso campaniforme. Essa prende il nome <strong>da</strong>lla forma di un bicchiere,<br />

molto caratteristico, che ricor<strong>da</strong> una campana rovesciata.<br />

In Trentino sono stati rinvenuti elementi riferibili alla cultura del vaso campaniforme per lo più in contesti<br />

chiaramente attribuibili alla prima fase dell’età del Bronzo.<br />

A questa fase appartengono i rinvenimenti fatti a Montesei di Serso dove, accanto a frammenti di bicchieri<br />

campaniformi, è stato trovato un forno per la fusione del minerale, frammenti di forme di fusione, punteruoli<br />

in rame.<br />

Età del Bronzo<br />

Intorno al 2200 a.C., si considera ormai iniziato questo nuovo periodo caratterizzato <strong>da</strong>lla produzione<br />

sistematica di oggetti in bronzo servendosi di leghe di rame e stagno.<br />

Quest’età quindi, segna un’importante trasformazione delle culture umane: la ceramica assume forme più<br />

elaborate e compaiono nuove importanti civiltà in tutto il bacino del Mediterraneo (ad esempio: a Creta la<br />

civiltà minoica, in Sardegna la civiltà nuragica, ecc.).<br />

Anche in questo periodo, che si considera concluso intorno al 1000 a.C., come era già avvenuto nel<br />

passaggio tra il neolitico e l’eneolitico, le nuove culture non soppiantano di colpo le precedenti, ma si<br />

diffondono lentamente e gradualmente. Alla Vela Valbusa (nelle vicinanze di Trento), ad esempio, sono stati<br />

rinvenuti, in una tomba posta sopra i resti di un forno di fusione (e ciò costituisce una delle più antiche<br />

testimonianze dell’attività metallurgica in regione), dei bottoni tipo ‘montgomery’ (chiamati così per la<br />

forma simile a quelli usati anche ora per un particolare capo di abbigliamento, chiamato appunto<br />

"montgomery"), caratteristici della cultura eneolitica del vaso campaniforme, insieme a diversi elementi<br />

14


ornamentali tra cui una settantina di conchiglie di dentalium. Il tutto an<strong>da</strong>va forse a costituire una specie di<br />

pettorale. Nello stesso contesto sono stati rinvenuti anche dei boccali di ceramica attribuibili ad una nuova<br />

cultura, quella di Pola<strong>da</strong>, caratterizzata, in particolare, <strong>da</strong> oggetti in ceramica di impasto grossolano e<br />

superfici nere, dotate di anse con piega a gomito, sormontate talvolta <strong>da</strong> un’appendice.<br />

La cultura di Pola<strong>da</strong> si sviluppa durante il Bronzo Antico, 2200-1600 a.C. in Trentino-Alto Adige, nella<br />

Lombardia orientale e Ve<strong>net</strong>o occidentale. È conosciuta in particolare grazie al rinvenimento di molti siti<br />

realizzati su palafitte, sulle sponde dei laghi alpini e prealpini.<br />

Col termine palafitta si indicano strutture abitative in legno, realizzate su pali sempre in legno, in zone umide<br />

o acquitrinose. Insediamenti palafitticoli sono attestati in tutta Europa, già a partire <strong>da</strong>l neolitico, ma<br />

soprattutto nei territori situati immediatamente a nord e sud delle Alpi, in particolare nella zona dei laghi<br />

svizzeri, lombardi e del basso Trentino.<br />

Qui, in particolare nelle Giudicarie, sono stati riportati alla luce due insediamenti palafitticoli, presso i paesi<br />

di Fiavè e Molina di Ledro.<br />

A Fiavè vi sono tracce di insediamento nella torbiera che si trova a sud dell’attuale paese, là dove<br />

originariamente vi era l’alveo di un lago chiamato Carera.<br />

Nelle varie campagne di scavo, svolte a partire <strong>da</strong>l 1969, è stato possibile rintracciare sia strutture edificate<br />

sulla spon<strong>da</strong> del lago sia strutture che si inoltravano nell’acqua, tra le quali sono stati individuati tre livelli di<br />

insediamento risalenti ad epoche diverse, le più antiche al tardo neolitico.<br />

La struttura del villaggio era costituita <strong>da</strong> moltissimi pali in legno infissi sul fondo lacustre, in modo <strong>da</strong><br />

formare una vera e propria struttura palafitticola con una piattaforma fatta di tronchi d’albero disposti a<br />

reticolo e sormontati <strong>da</strong> rami e ghiaia, che creavano una base su cui venivano costruite le capanne. Il nucleo<br />

residenziale era anche difeso, verso il lago <strong>da</strong> una palizzata di pali accostati.<br />

La gran quantità di carboni dimostra che il villaggio è stato distrutto <strong>da</strong> un incendio che ha risparmiato solo<br />

le strutture a contatto con l’acqua.<br />

La creazione di costruzioni così complesse era forse dovuta alle variazioni del livello delle acque del lago nel<br />

corso dell’anno ed implicava sicuramente alte conoscenze tecnologiche. È quindi probabile che all’interno<br />

della comunità, dotata di una struttura gerarchica ben precisa, vi fossero degli operai specializzati.<br />

Un altro insediamento palafitticolo molto importante è quello individuato a Molina di Ledro. Sulle sponde<br />

dell’omonimo lago sono stati rinvenuti circa 2000 pali riferibili ad un insediamento che occupava un’area di<br />

oltre 5000 mq.<br />

L’ambiente particolare in cui sono sorti questi insediamenti ha fatto in modo che si siano conservati, in modo<br />

ottimale, gli oggetti relativi alla cultura materiale dei suoi abitanti.<br />

Oltre a reperti ceramici ne sono stati trovati molti in osso (spatole, punteruoli), in legno (vasi, ciotole, aratri,<br />

ruote), in tessuto (a Ledro è stato rinvenuto un gomitolo di filo, una sciarpa e una cintura in lino). E ancora:<br />

vari oggetti in bronzo quali spilloni (che venivano usati per tenere fermi i mantelli), asce, pugnali, diademi.<br />

Il rinvenimento di forme di fusione, ugelli per mantice, crogioli, ecc., dimostrano che era svolta una<br />

produzione locale di oggetti in bronzo, anche se piuttosto limitata.<br />

Sicuramente vi erano molti scambi commerciali tra le popolazioni poste a sud delle Alpi e quelle che<br />

occupavano l’Europa centro- meridionale, come dimostrano gli oggetti dello stesso tipo trovati in entrambe<br />

le zone.<br />

L’economia delle popolazioni che occupavano il Trentino durante il Bronzo Antico era basata<br />

sull’agricoltura, l’allevamento di buoi, capro-ovini, suini, cavalli. Erano ancora praticate però la raccolta e la<br />

caccia (l’orso, il capriolo, il cervo le cui corna erano talvolta usate per realizzare vari strumenti).<br />

Sono state trovate alcune sepolture (ma i ritrovamenti sono molto rari), realizzate per lo più in ripari<br />

sottoroccia. Oltre alla già citata sepoltura di La Vela Valbusa, interessanti ritrovamenti sono stati fatti a<br />

Romagnano Loch e Colombo di Mori.<br />

A Romagnano sono stati riportate alla luce, presso un riparo sottoroccia, diciassette sepolture di adulti e<br />

bambini deposti rannicchiati sul fianco destro. Alcune tombe appartenevano a neonati posti all’interno di<br />

grandi vasi, con la testa rivolta in basso.<br />

Presso la località Colombo di Mori sono stati rinvenuti, all’imboccatura di una grotta e al suo interno, resti<br />

umani in parte bruciati e ceramiche appartenenti alla cultura di Pola<strong>da</strong> ed anche elementi riferibili alla<br />

cultura del vaso campaniforme. Sembra che in questo <strong>sito</strong> fosse adottata una distinzione tra gli adulti, deposti<br />

all’interno della grotta e i bambini al di fuori, in piccole cavità addossate alla roccia.<br />

Durante il Bronzo Medio, 1600-1300 a.C. e il Bronzo Recente, 1300-1100 a.C., nelle regioni a nord delle<br />

Alpi, si verifica una variazione climatica con aumento della piovosità e diminuzione della temperatura media<br />

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annuale; ciò può aver determinato lo spostamento di varie popolazioni e la comparsa di nuove culture. In<br />

tutta Europa infatti si diffonde la civiltà dei Campi d’Urne, caratterizzata <strong>da</strong>lla diffusione, nel rito funebre,<br />

della cremazione, rito che prende il sopravvento anche in tutta la penisola italiana grazie alla comparsa della<br />

civiltà protovillanoviana.<br />

Verso la fine dell’età del Bronzo, nell’area <strong>trentina</strong> e benacense si assiste alla formazione di una facies<br />

culturale di carattere locale che include anche l’Alto Adige e che continua sostanzialmente la tradizione<br />

palafitticola, anche se è stato possibile trovare tracce di insediamenti anche su dossi, su terreni in pendio o in<br />

pianura.<br />

A Fiavè- Dos Gustinaci, a Nomi Cef, ad esempio, sono stati individuati i resti di villaggi costruiti sopra una<br />

serie di terrazzi artificiali protetti <strong>da</strong> muretti a secco di contenimento.<br />

In Trentino, nell’area montana, è attestato anche lo sfruttamento dei giacimenti cupriferi (di minerali<br />

contenenti rame) per la realizzazione di oggetti in bronzo. Il rinvenimento di numerosissime aree fusorie,<br />

soprattutto in Val di Cembra, valle dei Mocheni (a Montesei di Serso), nel Tesino, nella zona di Lavarone e<br />

Luserna, dimostrano l’importanza che l’attività metallurgica acquista in questo periodo.<br />

Presso il Passo del Redebus, nel comune di Bedollo, sono stati individuati ben nove forni fusori. Molto<br />

probabilmente nelle comunità dell’epoca dovevano essere presenti "i metallurghi", cioè persone che<br />

conoscevano a fondo le tecnologie per estrarre il minerale e per produrre oggetti di metallo. Non è tuttavia<br />

possibile stabilire se, all’interno della singola comunità, rivestissero un ruolo preminente, poiché non sono<br />

ancora state rinvenute, in necropoli di questo periodo, tombe attribuibili, per la particolare ricchezza di<br />

oggetti metallici, a metallurghi. D’altra parte questi ‘tecnici del metallo’, nello svolgere la loro attività, si<br />

trasferivano <strong>da</strong> una comunità all’altra, il che rende particolarmente difficile i ritrovamenti di eventuali loro<br />

tombe.<br />

Alla fine dell’Età del Bronzo, durante la cosiddetta età del Bronzo Finale (1100-900 a.C.) compare, in<br />

Trentino- Alto Adige, la Bassa Engadina, la valle del Reno presso il lago di Costanza, il Tirolo orientale e la<br />

Carinzia, la cultura di Luco, che prende il nome <strong>da</strong> una località altoatesina.<br />

L’aspetto più caratteristico di questa facies culturale, quello che viene definito <strong>da</strong>gli archeologi ‘un fossile<br />

gui<strong>da</strong>’, è costituito <strong>da</strong>lla forma caratteristica della ceramica. Si <strong>tratta</strong> di un boccale con beccuccio e due<br />

apofisi a orecchietta ai lati dell’attacco superiore del manico.<br />

Nelle zone interessate <strong>da</strong>lla cultura di Luco è attestata la presenza di molte aree di culto, i cosiddetti<br />

Brandopferplätze, aree sacrificali con roghi votivi, spesso situati anche ad alte quote come sullo Sciliar, a<br />

2510 metri di altezza, e sul monte Ozol (in val di Non), a 1515 metri. In queste aree erano presenti ossa<br />

combuste, resti di boccali tipo Luco, frantumati intenzionalmente e, talvolta, anche pezzi di metallo.<br />

Pian piano nella cultura di Luco pe<strong>net</strong>rano, grazie alle attività commerciali, elementi propri di culture<br />

su<strong>da</strong>lpine (in particolare della cultura protovillanoviana).<br />

Età del Ferro<br />

Siamo arrivati così all’ultimo millennio a.C. Questo periodo è caratterizzato <strong>da</strong>ll’introduzione del ferro.<br />

L’origine della lavorazione del ferro è probabilmente <strong>da</strong> ricercare in Anatolia, regione ricca di giacimenti di<br />

questo minerale, soprattutto nella zona orientale, dove sono stati ritrovati molti manufatti di ferro riferibili al<br />

1300-1200 a.C. Queste testimonianze sono avvalorate <strong>da</strong>lle fonti scritte in cui si sottolinea il ruolo svolto<br />

<strong>da</strong>gli Ittiti nella produzione di oggetti in questo materiale.<br />

In Trentino i primi manufatti in ferro compaiono intorno all’800 a.C., quando incominciano ad essere<br />

sfruttate le miniere presenti nell’arco alpino. Importanti le miniere presenti in Valsugana (miniera di<br />

Pamera), in val di Peio e nel massiccio del Gran Zebrù.<br />

I principali minerali di ferro sfruttati erano: la mag<strong>net</strong>ite, l’ematite e la limonite.<br />

L’estrazione avveniva con tecniche diverse <strong>da</strong>lle attuali. Infatti non si raggiungevano all’epoca le elevate<br />

temperature necessarie per ottenere la fusione di questo minerale. Il primo prodotto era il massello,<br />

<strong>da</strong>ll’aspetto spugnoso, con alta percentuale di ferro. Veniva lavorato col martello in modo <strong>da</strong> eliminare la<br />

maggior quantità possibile di scorie. Si otteneva così un "ferro dolce" di scarsa durezza.<br />

In questa prima fase dell’età del Ferro si assiste ad una sostanziale prosecuzione della cultura di Luco, che<br />

tende però ad interessare una zona più ristretta rispetto all’epoca precedente. I siti individuati sul territorio<br />

trentino sono relativamente pochi e situati per lo più sul fondovalle e in posizioni di controllo delle vie<br />

commerciali, come dimostrano le necropoli rinvenute a Nomi (località Olmi), a Romagnano e a Zambana.<br />

Numerosi dovevano essere gli scambi con le popolazioni limitrofe, soprattutto quelle villanoviane (area<br />

bolognese), paleove<strong>net</strong>e (area ve<strong>net</strong>a), hallstattiane (area alpina a nord delle Alpi).<br />

16


Intorno al 500 a.C. si assiste alla comparsa, in Trentino-Alto Adige, bassa Engadina e Vorarlberg, della<br />

cultura di Fritzens-Sanzeno, che prende il nome <strong>da</strong> due località poste, rispettivamente, nella Valle dell’Inn, in<br />

Austria, e in val di Non in Trentino. Questa cultura nasce <strong>da</strong>llo sviluppo della precedente cultura di Luco<br />

arricchita di elementi provenienti <strong>da</strong>ll’area pa<strong>da</strong>na.<br />

La sua diffusione in un’area geografica ben definita è dimostrata <strong>da</strong>lla presenza di particolari tipi di<br />

ceramica, strumenti di ferro (asce, zappe, chiavi) nonché di oggetti ornamentali in bronzo.<br />

Nella stessa zona vi sono anche le medesime strutture abitative, pratiche di culto e iscrizioni, realizzate con<br />

caratteri propri dell’alfabeto di Bolzano o di Sanzeno, corrispondente ad una variante di quello nord etrusco,<br />

a<strong>da</strong>ttato alle esigenze della lingua locale.<br />

La cultura di Fritzens-Sanzeno è considerata propria della popolazione retica. Ciò avviene perché esiste una<br />

corrispondenza tra un’estesa parte dell’area assegnata a quelle genti <strong>da</strong>lle fonti antiche e il territorio che la<br />

ricerca archeologica ha dimostrato essere stato interessato <strong>da</strong> tale cultura.<br />

Strabone (63 a.C. - 19 d.C.), ad esempio, scrisse che la popolazione dei Reti occupava l’area alpina centro-<br />

orientale, oltre Como e Verona, fino alle terre solcate <strong>da</strong>l Reno e al lago di Costanza.<br />

Ma proprio in questa zona, che le fonti affermano occupata <strong>da</strong>i Reti, le scoperte archeologiche hanno<br />

permesso di riportare alla luce strutture abitative, oggetti vari, <strong>da</strong>lle uguali caratteristiche tanto <strong>da</strong> poterli<br />

considerare elementi distintivi di un’unica cultura, appunto quella di Fritzens-Sanzeno.<br />

L’oggetto più caratteristico della cultura retica è una tazza in ceramica <strong>da</strong>l fondo ombelicato e <strong>da</strong>l profilo ad<br />

"S".<br />

I Reti hanno lasciato numerose prove della loro presenza sul territorio trentino, non solo nelle valli principali,<br />

ma anche in quelle interne. È stato possibile così ritrovare i resti di veri e propri villaggi, costruiti su alture<br />

(Fai della Paganella - località Dos Castel, Castel Tesino), su terrazzamenti (Montesei di Serso, Sanzeno), sul<br />

fondovalle (Nomi, località Bersaglio), presso conoidi (Zambana).<br />

Gli insediamenti erano costituiti <strong>da</strong> case seminterrate, di forma quadrangolare, perimetrate <strong>da</strong> muretti a secco<br />

e dotate spesso di un corridoio di accesso. Le pareti e il tetto delle abitazioni dovevano essere realizzati in<br />

legno o paglia, materiali deperibili e facilmente infiammabili, come dimostrano le tracce di frequenti incendi.<br />

L’economia delle genti retiche era piuttosto varia. Oltre alla caccia sono state trovate infatti prove dello<br />

svolgimento dell’attività pastorale nonché dell’allevamento di capro-ovini, buoi, cavalli, polli.<br />

Sono state trovate anche molte roncole. Questo strumento rendeva più produttivo il lavoro di raccolta<br />

intensiva di fronde arboree <strong>da</strong> immagazzinare come foraggio invernale per gli animali.<br />

Vi era anche un’attiva produzione agricola, come dimostrano i resti di semi di frumento, orzo, lenticchie,<br />

rinvenuti durante gli scavi archeologici.<br />

È ampiamente attestata anche la produzione di vino per la presenza di vinaccioli, recipienti di bronzo<br />

destinati a contenerlo, strumenti di lavoro, utensili a<strong>da</strong>tti a costruire botti (tracce di botti, ad esempio, sono<br />

state rinvenute a Nomi- località Bersaglio), scene figurate che compaiono sulle situle.<br />

Nel territorio retico sono stati rinvenuti molti reperti di questo tipo. Si <strong>tratta</strong> di un secchiello fatto con una<br />

lamina sottilissima di bronzo, decorata spesso all’esterno con scene figurate realizzate attraverso la tecnica<br />

dello sbalzo o con il bulino. L’abitudine di decorare le situle si diffonde tra il VII e il IV secolo a.C., in una<br />

vasta area geografia estesa <strong>da</strong>l Po al Danubio e dà origine ad una vera e propria "arte delle situle". Trae<br />

origine probabilmente <strong>da</strong>l mondo etrusco con cui i Reti ebbero sicuramente molti contatti, come dimostra la<br />

presenza, in varie località trentine, di macine a leva e di utensili domestici di vario genere, come gli alari.<br />

I Reti attribuivano molta importanza alla sfera sacra, come dimostrano i rinvenimenti riferibili ad aree sacre e<br />

roghi votivi.<br />

Sono stati trovati veri e propri ex voto, per lo più bronzetti figurati recanti dediche alle divinità, per esempio<br />

a Sanzeno, o ciottoli incisi, a Montesei di Serso, ossa con iscrizioni o lamine di bronzo ritagliate, a Mechel.<br />

In questo <strong>sito</strong>, frequentato <strong>da</strong>l Bronzo recente fino all’epoca romana (III/IV sec.d.C.) sono state portate<br />

spesso come offerte fibule in miniatura, corna di cervo con iscrizioni, frammenti di situle figurate.<br />

A Stenico, presso la località Calfieri, sono state rinvenute le tracce di un luogo di culto frequentato già nel<br />

Bronzo medio, con roghi votivi. Da qui proviene un particolare tipo di contenitore ceramico, "il boccale tipo<br />

Stenico", rinvenuto, insieme a coppe tipo Sanzeno, con segni caratteristici dell’alfabeto retico anche a Monte<br />

S.Martino ai Campi di Riva.<br />

Roghi votivi sono attestati anche a La Groa di Sopramonte, alle pendici del monte Bondone.<br />

In questo periodo era praticato il rito funebre dell’incinerazione. All’interno di urne o direttamente nel<br />

terreno erano posti solo alcuni resti selezionati della cremazione e vari oggetti di corredo tra cui monili,<br />

amuleti, vasi.<br />

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L'età romana di Maria Raffaella Caviglioli<br />

I <strong>da</strong>ti storici<br />

I primi contatti intercorsi tra la popolazione retica <strong>trentina</strong> e i Romani risalgono al III/II sec.a.C., quando<br />

questi ultimi, dopo aver conquistato le regioni orientali del Mediterraneo, incominciarono a pe<strong>net</strong>rare nelle<br />

zone a nord del Po. Ciò avvenne però, come ormai ritengono quasi tutti gli studiosi, non con l’impiego della<br />

forza, tranne qualche raro caso, ma attraverso pacifici scambi commerciali. Probabilmente, all’inizio,<br />

vennero stipulati dei <strong>tratta</strong>ti con le classi dirigenti locali che accoglievano di buon grado la mentalità e i<br />

costumi romani. I primi contatti sicuri tra le popolazioni a nord del Po e i Romani risalgono al 225 a.C.,<br />

quando i Galli Cenomani fornirono aiuti ai Romani contro i Galli Insubri e i Boi che avevano organizzato<br />

una spedizione armata contro Roma. Nel 197 a.C. vennero stipulati patti rispettosi delle autonomie locali a<br />

cui fanno riferimento vari scrittori romani tra cui Livio e Cicerone che, nell’orazione Pro Balbo, pronunciata<br />

nel 56 a.C., parla di <strong>tratta</strong>ti federativi come quelli dei Cenomani e di altre popolazioni, che a quell’epoca<br />

erano ancora in vigore.<br />

Solo agli inizi del I sec.a.C. venne attribuita alla regione a nord del Po, denominata Transpa<strong>da</strong>na o Cisalpina,<br />

una organizzazione politico-amministrativa complessiva, con la concessione (probabilmente nell’89 a.C.)<br />

dello ius Latii (cioè del diritto latino, condizione giuridica propria delle colonie latine) a tutte le comunità<br />

che ancora non l’avevano. Esse venivano così a godere di autonomia amministrativa rispetto a Roma di cui<br />

erano alleate e alla quale avevano l’obbligo di fornire un contingente militare e di osservare fedeltà nella<br />

politica estera.<br />

Nel 49-42 a.C., attraverso la lex Roscia o la lex Rubria o la lex Iulia municipalis i Cisalpini ottennero la<br />

cittadinanza romana.<br />

Sorsero così i Municipia, formati <strong>da</strong> una città e <strong>da</strong>l territorio circostante, i cui abitanti erano cittadini romani.<br />

A capo vi erano quattro magistrati di cui due erano i supremi amministratori della giustizia, che convocavano<br />

il consiglio e le adunanze elettive della popolazione ed amministravano le finanze. Altri due magistrati<br />

controllavano il consiglio municipale, formato <strong>da</strong>i consiglieri ed avevano ampi poteri in relazione al culto<br />

pubblico. Ogni cinque anni venivano eletti dei magistrati che provvedevano al censimento della popolazione<br />

e potevano espellere i personaggi che si erano resi indegni.<br />

Il territorio<br />

Era normalmente organizzato <strong>da</strong>i Romani in base al procedimento della centuriatio, che consisteva nel<br />

dividerlo mediante linee parallele e perpendicolari, che si incrociavano ad angolo retto, in modo <strong>da</strong> formare<br />

un reticolato costituito <strong>da</strong> superfici tutte uguali. Si creavano così le strutture adeguate alla vita della comunità<br />

e le infrastrutture politiche proprie del centro urbano.<br />

La regione alpina fu completamente integrata nello Stato romano solo nel 16/15 a.C. quando Druso e Tiberio<br />

iniziarono la campagna militare di sottomissione dei Reti e dei Vindelici a nord di Bolzano riuscendo a<br />

vincerli, come testimonia il famoso monumento realizzato nei pressi di Montecarlo: il Tropaeum Alpium di<br />

La Turbie (7-6 a.C.).<br />

Alla fine del I sec.a.C. Ottaviano Augusto divise il territorio italico in undici regioni. L’Italia settentrionale<br />

era compresa nella X et XI regio. Il territorio trentino faceva parte della X regio, che comprendeva<br />

sostanzialmente gli attuali territori della Lombardia orientale (<strong>da</strong>ll’alto corso dell’Oglio, con un tratto<br />

dell’Ad<strong>da</strong>, fino alla confluenza col Po), il Trentino, il Ve<strong>net</strong>o, il Friuli, l’Istria fino a Pola.<br />

La X Regio comprendeva vari Municipi tra cui quelli di Feltre, Brescia, Trento, Verona, entro i quali era<br />

compreso il territorio trentino.<br />

Appartenevano al primo il Primiero, il Tesino e la Valsugana; al secondo l’area benacense, le valli del Chiese<br />

e del Sarca, le Giudicarie esteriori; al terzo, la valle dell’Adige, tra Rovereto e Merano, il corso inferiore<br />

dell’Isarco, le valli di Non e di Sole; e infine al quarto la Val Lagarina (probabilmente <strong>da</strong> Rovereto).<br />

La parte settentrionale dell’Alto Adige invece rientrava, rispettivamente, con la Val Venosta, nella provincia<br />

della Rezia, con la val Pusteria e le valli dell’Avisio nel Norico.<br />

Dopo un periodo di sostanziale tranquillità, tra il I sec. d.C. e la prima metà del II, con le invasioni dei Quadi<br />

e dei Marcomanni, a partire <strong>da</strong>l 170 d.C., si verificò una lunga instabilità politica per tutto l’impero romano.<br />

La situazione peggiorò nel III sec.d.C., quando gli Alemanni, tra il 260 e il 275 d.C., pe<strong>net</strong>rarono nell’Italia<br />

settentrionale. Nel secolo successivo poi, dopo una certa ripresa economica, pare si sia verificato un lento e<br />

progressivo processo di decadenza. In Trentino le in<strong>da</strong>gini archeologiche sembrano confermare questi <strong>da</strong>ti.<br />

18


I primi reperti sicuramente di origine romana trovati sul territorio trentino risalgono al III/II sec.a.C. e sono<br />

rappresentati <strong>da</strong> alcune mo<strong>net</strong>e rinvenute, ad esempio, sul Doss Trento, che testimoniano l’esistenza di<br />

scambi commerciali intercorsi già in quell’epoca tra la popolazione locale e i Romani.<br />

Tridentum<br />

Nel I sec.a.C. il processo di romanizzazione andò intensificandosi, come dimostra l’iscrizione di Marco<br />

Apuleio, risalente al 23 a.C., attualmente murata in una lesena esterna della chiesa di S. Apollinare, a<br />

dimostrazione che Tridentum (l’attuale Trento) era già un centro politico-amministrativo ben organizzato.<br />

Tuttavia non sono chiare le vicende relative alla fon<strong>da</strong>zione della città: forse esisteva già prima del 90-89<br />

a.C. quando avrebbe assunto i caratteri propri di una colonia latina, trasformatasi poi, dopo il 49-42 a.C., in<br />

municipium.<br />

Quando i Romani fon<strong>da</strong>vano una città, facevano innanzitutto un sacrificio seguito <strong>da</strong>ll’auspicium, che<br />

derivava <strong>da</strong>ll’osservazione del volo degli uccelli. Veniva poi fatto il rito del sulcus primigenius, cioè veniva<br />

tracciato un solco <strong>da</strong> una coppia di buoi aggiogati e gui<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>l fon<strong>da</strong>tore.<br />

La città, circon<strong>da</strong>ta <strong>da</strong> mura, veniva dotata di tutte le infrastrutture tipiche del mondo romano in modo <strong>da</strong><br />

poter assolvere alle necessità civili e religiose della popolazione, nonché a quelle legate allo svago e al<br />

divertimento. Era sempre presente un Foro, cioè una piazza, generalmente posta al centro dell’abitato, dove<br />

vi erano gli edifici in cui si svolgevano le attività civili e religiose; ed inoltre un tempio dedicato alla triade<br />

capitolina o alla casa imperiale. Un ruolo importante avevano anche le strutture adibite allo svago, quali<br />

l’anfiteatro e le terme.<br />

Tridentum aveva una pianta quadrangolare, di cui un lato era costituito <strong>da</strong>l tratto dell’Adige che passava,<br />

fino alla secon<strong>da</strong> metà del XIX secolo, in corrispondenza delle attuali via Torre Verde e via Torre Vanga.<br />

Sugli altri tre lati era difesa <strong>da</strong> mura, di cui sono stati trovati vari resti, ad esempio in vicolo dell’Adige, sotto<br />

il magazzino Nicolodi; in piazza Cesare Battisti, in prossimità della scena del Teatro Sociale; in via<br />

Mantova, sotto l’attuale negozio Sportler; in piazza Duomo, sotto il museo Diocesano; in via Rosmini,<br />

presso l’istituto S.Cuore. Si è così potuta calcolare la lunghezza di ogni lato: 400 metri quello orientale, 390<br />

quello meridionale e 335 quello occidentale. La città, estendendosi così su 13 ettari di superficie, poteva<br />

contare circa 5000 abitanti.<br />

Su ogni lato c’era una porta di cui non sono rimaste tracce, tranne in un caso, quello della cosiddetta Porta<br />

Veronensis (il nome compare nella "Passio Sancti Vigili", un testo del VII sec.d.C.), i cui resti sono visibili<br />

sotto il Museo Diocesano, in piazza Duomo.<br />

Si <strong>tratta</strong> di una costruzione risalente al I sec.d.C., gemina, costituita cioè <strong>da</strong> due fornici (aperture) esterni e<br />

due interni destinati, rispettivamente, al passaggio dei pedoni e a quello dei carri. Ai lati vi erano due torri<br />

con sedici lati ciascuna, dotate di un alzato in mattoni e rivestimento di lastre di pietra rossa come il<br />

basamento. Dalle torri partivano le mura, che avevano una particolarità <strong>da</strong>l momento che, ad un primo muro<br />

formato <strong>da</strong> ciottoli legati con la malta, ne fu aggiunto un altro, in un secondo momento, costituito <strong>da</strong> pietre e<br />

grossi ciottoli.<br />

Paralleli alle mura vi erano dei fossati, ulteriore difesa della città e canali di scarico delle fognature.<br />

Inoltre vi erano due strade principali, secondo un impianto tipicamente romano: il cardo, <strong>da</strong> nord verso sud, e<br />

il decumano, <strong>da</strong> est a ovest, che si tagliavano ortogonalmente. Tutte le altre strade erano parallele alle due<br />

principali e prendevano il nome di cardi e decumani minori.<br />

In via Belenzani, sotto palazzo Thun, sono stati individuati i resti del cardo massimo. Resti analoghi, nonché<br />

quelli relativi a un decumano minore, sono stati rintracciati sotto palazzo Malfatti, sulla stessa via.<br />

Resti del decumano sono invece stati individuati sotto via Manci e via Roma.<br />

Lungo il fianco meridionale della chiesa cinquecentesca di S.Maria Maggiore, tra il 1974 e il 1977, sono<br />

state fatte delle in<strong>da</strong>gini che hanno permesso di trovare alcuni elementi decorativi in marmo e un ampio<br />

lastricato di pietre rosse con un tamburo di colonna. Ciò porta a ritenere che lì vi fosse un qualche edificio<br />

adibito a luogo di culto.<br />

Numerosi sono i reperti riferibili ad abitazioni, per lo più domus (case signorili, riccamente decorate),<br />

affiorati nel centro cittadino.<br />

Sotto palazzo Tabarelli, in via Oss Mazzurana (attuale Banca Calderari) ad esempio, sono stati riportati alla<br />

luce i resti di vari ambienti che si affacciavano su di un cardo minore, nonché vari oggetti di ceramica, vetro,<br />

anfore, mo<strong>net</strong>e.<br />

Durante gli scavi per la ristrutturazione del Teatro Sociale, tra il 1990 e il 1994, è stato scoperto un intero<br />

quartiere in cui, oltre ad un ampio tratto di un decumano minore (della larghezza di 8,50 m.), è stato<br />

19


individuato uno spazio aperto, circon<strong>da</strong>to di portici sui quali si affacciavano ambienti vari, utilizzati forse per<br />

funzioni pubbliche e commerciali. Molto interessanti altri resti tra cui un pozzo e strutture abitative, dotate di<br />

impianti di riscal<strong>da</strong>mento e ricche decorazioni pavimentali (mosaici).<br />

Anche nella zona limitrofa alle mura, sia all’interno che all’esterno, in particolare in corrispondenza<br />

dell’attuale via Rosmini, vi sono i resti di varie strutture, tra cui quelli di un’ampia domus, risalente al II sec.<br />

d.C. Qui, oltre ad un sistema di riscal<strong>da</strong>mento analogo a quello rinvenuto presso il Teatro Sociale, è stato<br />

riportato alla luce un mosaico rappresentante il mito di Orfeo, che ha diverse analogie con uno trovato a<br />

Rimini, in piazza Ferrari, soprattutto per l’impostazione a nido d’ape entro un cerchio, con figure singole<br />

all’interno di un esagono. La presenza di una struttura abitativa così ampia e riccamente decorata, al di fuori<br />

delle mura, dimostra il grande sviluppo che la città ebbe in questo periodo.<br />

All’esterno della città, secondo la consuetudine romana, era stato costruito un anfiteatro, che misurava 72x48<br />

metri, di cui rimangono tracce in via S.Pietro, nella piazzetta chiamata "Anfiteatro" e nel vicino vicolo degli<br />

Orbi dove, nel 1998, è stato individuato un tratto di pavimentazione.<br />

Sempre al di fuori della cinta muraria sono state ritrovate numerose sepolture, in piazza della Mostra, in via<br />

Galilei, via S.Maria Mad<strong>da</strong>lena, in piazza A.Vittoria, ecc.<br />

Una necropoli vera e propria, composta <strong>da</strong> una <strong>trentina</strong> di sepolture, la necropoli "Ai Paradisi", è stata<br />

scoperta casualmente alla fine del 1800, in occasione dei lavori di sterro per la costruzione dell’allora<br />

ospe<strong>da</strong>le militare, nell’area compresa tra via Barbacovi e via Giovanelli.<br />

La scoperta di sepolture risulta sempre molto importante per comprendere gli usi e costumi di una<br />

popolazione.<br />

In epoca romana i riti funebri avvenivano sia in base alla cremazione, sia all’inumazione, che divenne<br />

dominante a partire <strong>da</strong>l II sec.d.C.<br />

Nel primo caso le ceneri del defunto, contenute in un’urna funeraria di ceramica o di vetro, erano deposte in<br />

una fossa terragna oppure in una cassetta litica o in muratura, di forma quadrangolare, con nicchie parietali<br />

portaoggetti. In area alpina, talvolta, erano messe nella cosiddetta "tomba alla cappuccina", formata <strong>da</strong> due<br />

tegoloni posti verticalmente a sostegno di quattro o sei disposti a doppio spiovente.<br />

Per le sepolture basate sul rito dell’inumazione, oltre ai tipi usati per la cremazione, di cui variavano solo le<br />

dimensioni, vi era il cassone monolitico spesso con copertura a doppio spiovente.<br />

Nella necropoli "ai Paradisi" sono state rinvenute tombe di vario tipo. Interessante è la tomba ad inumazione,<br />

costituita <strong>da</strong> una cassa di piombo, <strong>da</strong> cui sono affiorati i resti di una giovane donna di 12- 13 anni. Si <strong>tratta</strong><br />

della cosiddetta "tomba della bambolina", chiamata così per il rinvenimento al suo interno di una bambola in<br />

osso.<br />

Questo reperto è molto interessante per la sua struttura, in quanto sia le braccia che le gambe sono articolate<br />

mediante dei perni che le collegano al tronco. Un oggetto di questo tipo era generalmente posto nelle tombe<br />

delle giovani morte prima delle nozze, che avvenivano intorno ai 13/ 14 anni.<br />

L’uso del piombo per realizzare le sepolture è piuttosto raro, (le notizie più antiche risalgono al II sec. d.C.)<br />

ed è indice, <strong>da</strong> un lato del desiderio di mantenere incorrotto il più a lungo possibile il corpo della defunta, e<br />

<strong>da</strong>ll’altro dell’elevata condizione sociale ed economica della famiglia di appartenenza.<br />

Nelle sepolture erano posti vari oggetti costituenti il corredo che doveva accompagnare il defunto nella vita<br />

ultraterrena e che ne rappresentava le caratteristiche economiche e sociali manifestate durante la vita.<br />

Generalmente ne faceva parte un servizio <strong>da</strong> mensa composto <strong>da</strong> una bottiglia per liquidi, un piatto o una<br />

scodella, in ceramica, in vetro o in bronzo. Nelle tombe rinvenute in Trentino è stato spesso trovato anche<br />

l’Henkeldellenbecher, un boccale che presenta una depressione funzionale in corrispondenza del manico e<br />

che trae origine <strong>da</strong> modelli preromani retici. Ciò sembra dimostrare la persistenza in epoca romana di alcuni<br />

caratteri propri della cultura retica.<br />

Faceva sempre parte del corredo la lucerna, cioè una lampa<strong>da</strong> ad olio, che poteva assumere diverse fogge a<br />

secon<strong>da</strong> delle officine, generalmente pa<strong>da</strong>ne, in cui era prodotta. Le più frequenti erano quelle a volute del I<br />

sec.d.C. e quelle a canale o Firmalampen, realizzate per lo più nel II sec.d.C. e diffuse in tutta l’area alpina.<br />

Talvolta nelle tombe, secondo un’usanza locale, si sono trovate anche delle fibule, cioè delle spille in bronzo,<br />

usate sia <strong>da</strong>lle donne che <strong>da</strong>gli uomini per fermare i mantelli. Questi monili potevano avere diverse forme a<br />

secon<strong>da</strong> della ‘mo<strong>da</strong>’ e dell’epoca in cui venivano realizzati. Le più frequenti rinvenute in territorio trentino<br />

sono quelle ad arco profilato, tipiche dell’Europa centro- orientale e diffuse tra il I e il III sec.d.C. Diversi<br />

sono anche gli esemplari di fibule tipo Aucissa, prodotte tra il I sec.a.C. e il I sec.d.C., presenti in una vasta<br />

area che va <strong>da</strong>lla Spagna al Caucaso, <strong>da</strong>ll’Italia alla Scandinavia. Sono state trovate anche fibule a tenaglia,<br />

prodotte soprattutto nell’Italia settentrionale alpina, tra il I e il V sec.d.C. e diffusesi in tutto l’Impero.<br />

20


Singolare è l’usanza di mettere nelle sepolture almeno una mo<strong>net</strong>a, in base alla convinzione che il defunto<br />

dovesse pagare un obolo per essere traghettato nel regno dei morti. Non mancavano poi balsamari in vetro, di<br />

varia forma e colore, destinati a contenere profumi o olii aromatici, oggetti d’ornamento o personali come la<br />

bambolina citata.<br />

Il Trentino occidentale<br />

Importanti resti di strutture abitative e necropoli sono state individuate in tutto il Trentino, soprattutto quello<br />

occidentale, nelle zone del Basso Sarca, delle Giudicarie e della val di Non. Si <strong>tratta</strong> infatti di zone aperte,<br />

pianeggianti e facilmente coltivabili. Lo stesso vale per la valle dell’Adige, a testimonianza dell’occupazione<br />

capillare del territorio, soprattutto tra il I e il II sec.d.C., facilitata <strong>da</strong>lle vie di comunicazione, rappresentate<br />

<strong>da</strong>i corsi d’acqua, <strong>da</strong>i laghi e <strong>da</strong>i tracciati viari. Tra le vie fluviali l’importanza maggiore l’ebbe sicuramente<br />

l’Adige che, percorso già in epoca preistorica, era utilizzato soprattutto per il trasporto di materiali e merci<br />

pesanti. Un ruolo di grande rilievo venne svolto anche <strong>da</strong>l lago di Gar<strong>da</strong>, via di collegamento essenziale tra<br />

l’area pa<strong>da</strong>na e quella del basso Sarca.<br />

Presso la statale 118, che collega Riva ad Arco, sono state riportate alla luce una sessantina di sepolture<br />

basate sia sul rito della cremazione che su quello dell’inumazione, raccolte in gruppi familiari dei quali uno<br />

solo presentava un recinto ben costituito con pietra e malta ed al centro un monumento, di cui si è conservata<br />

solo la base. Tra queste tombe mancano quelle riferibili a bambini, presenti invece tra i resti di un edificio di<br />

S.Giorgio di Riva, simili a quelle rintracciate a Sanzeno, in Val di Non, e a Mezzocorona, nella valle<br />

dell’Adige. Ciò sembra avvalorare l’ipotesi che i piccoli venissero sepolti o nelle immediate vicinanze delle<br />

abitazioni o all’interno di esse.<br />

Numerose sono anche le epigrafi trovate, come quella in cui è citato il Collegio degli addetti alla navigazione<br />

benacense, che documenta l’importanza economica attribuita al lago di Gar<strong>da</strong>, sfruttato per le comunicazioni<br />

e i commerci tra le popolazioni che risiedevano in prossimità delle sue sponde.<br />

La zona del basso Sarca è anche l’unica di tutto il Trentino in cui sono presenti tracce sicure di centuriazione<br />

(su un territorio di 8-10 Kmq.) a dimostrare l’occupazione stabile del territorio e lo sfruttamento intensivo<br />

delle sue risorse, attraverso la distribuzione a tutti gli abitanti di appezzamenti di uguale grandezza.<br />

Interessanti sono anche i resti di strutture insediative, come quelli di un’abitazione riportata alla luce nel<br />

centro di Arco, in piazza III Novembre. La struttura era dotata di un sistema di riscal<strong>da</strong>mento, confrontabile<br />

con quello rinvenuto a Trento, in via Rosmini e presso il Teatro Sociale. Consisteva nell’appoggiare su di un<br />

piano in mattoni dei pilastrini, anch’essi di mattoni, dell’altezza di 30-40 centimetri (suspensurae), destinati a<br />

sorreggere un pavimento pensile. Si creava infatti un’intercapedine nella quale veniva introdotta aria cal<strong>da</strong>,<br />

prodotta <strong>da</strong> un forno opportunamente posizionato, in modo <strong>da</strong> poter riscal<strong>da</strong>re contemporaneamente più<br />

ambienti, talvolta distribuiti anche su due piani.<br />

Tra il 1986 e il 1987 a S. Giorgio di Arco, su oltre 4000 mq. sono state individuate diverse strutture disposte<br />

intorno ad un cortile aperto, riferibili probabilmente ad una fattoria e risalenti, in base alle testimonianze<br />

mo<strong>net</strong>ali, al I sec.a.C.- I sec.d.C. La fattoria fu utilizzata fino al V sec. d.C.<br />

Tracce di abitazioni sono attestate anche nella zona di Prato Saiano e di Varone dove, in occasione<br />

dell’ampliamento del cimitero, è stata individuata una struttura sviluppata su più piani.<br />

Uno dei siti rivani più interessanti è Monte S. Martino, sopra il paese di Campi, ad 850 m.s.l.m. Qui sono<br />

stati trovati, fino ad ora, oltre a vari reperti retici, resti di edifici di epoca romana, uno forse a carattere<br />

cultuale, due are con iscrizioni sacre, molti oggetti tra cui alcune statuette.<br />

Nell’occupazione del territorio un ruolo molto importante doveva essere svolto <strong>da</strong>i tracciati viari. Benché sia<br />

molto difficile trovare i resti di una stra<strong>da</strong> attribuibile all’epoca romana, talvolta il ricercatore è fortunato,<br />

come nel caso della via realizzata in ghiaia pressata, con an<strong>da</strong>mento parallelo al tracciato moderno, rinvenuta<br />

tra Riva ed Arco, presso la già citata provinciale 118 di S. Giorgio.<br />

La Valle dell'Adige<br />

Tracce analoghe sono state rinvenute recentemente anche nella valle dell’Adige. A Mezzocorona, infatti, è<br />

stata riportata alla luce una stra<strong>da</strong>, sempre in ghiaia pressata, vicina ad un cortile e ai resti di una fattoria<br />

costituita <strong>da</strong> due edifici, di cui uno usato per le attività produttive (magazzino, stalla, fienile) e l’altro come<br />

abitazione.<br />

Le strade, in epoca romana, tranne quelle che servivano a collegare tra loro piccoli villaggi o semplici gruppi<br />

di fattorie, erano dotate di infrastrutture complesse. Vi erano mutationes, cioè stazioni per il cambio dei<br />

cavalli, e mansiones, cioè luoghi in cui il vian<strong>da</strong>nte poteva fermarsi per riposare, con scuderie, granai, alloggi<br />

21


per il personale di servizio. Il tracciato di queste strade, che facevano parte di un’ampia rete realizzata per<br />

collegare i principali centri dello Stato, è conosciuto attraverso l’Itinerarium Antonini (un intinerario scritto<br />

nel III sec.d.C.), la Tabula Peutingeriana (una vera e propria carta stra<strong>da</strong>le, risalente al IV sec.d.C.) e i<br />

miliari.<br />

I miliari sono blocchi di pietra, alti circa tre metri, di cui quasi 80 centimetri infissi nel terreno ai lati delle<br />

strade, sui quali veniva scolpita la loro distanza <strong>da</strong>l punto di inizio della via o <strong>da</strong>lla città più vicina. Erano<br />

posti regolarmente a circa un miglio (1480 metri) l’uno <strong>da</strong>ll’altro. Stando così le cose il numero dei miliari<br />

doveva essere elevato; ne sono stati trovati però pochi, o perché an<strong>da</strong>ti persi o perché spostati e riutilizzati<br />

nelle epoche successive per svolgere altre funzioni. Nella chiesa di S. Pietro in Bosco, nei pressi di Ala, ad<br />

esempio, è stato trovato un miliare utilizzato come base dell’altare.<br />

In Valsugana, a Tenna, un altro è stato usato per un lungo periodo, come pilastro per la ringhiera di un<br />

aiuola.<br />

Lo spostamento di questi blocchi di pietra <strong>da</strong>l <strong>sito</strong> originario crea grossi problemi agli studiosi che cercano di<br />

capire quale fosse il tracciato della stra<strong>da</strong> che <strong>da</strong>lla Valle Pa<strong>da</strong>na attraversava la valle dell’Adige, per poi<br />

proseguire al di là delle Alpi e di quella che collegava Altino, attraverso la Valsugana ad Augsburg (la<br />

cosiddetta via Claudia Augusta, la quale, secondo alcuni studiosi, è stata successivamente inglobata nella via<br />

Opitergium-Tridentum).<br />

Il dibattito sulle due vie è stato ampio e condotto con alterne interpretazioni nel corso degli anni ed è<br />

attualmente ancora aperto a varie ipotesi.<br />

La Val Lagarina<br />

Altre zone ricchissime di reperti romani, sia riferibili a strutture insediative che a necropoli, sono la Val<br />

Lagarina, la Val di Non e la Valsugana.<br />

A Nomi, poco lontano <strong>da</strong>l fiume, che qui anticamente tracciava un’ansa, i numerosi reperti riferibili ad una<br />

necropoli, realizzata sul dosso di S. Pietro, poco lontano <strong>da</strong>ll’insediamento retico già citato, oltre a fornire<br />

una serie di <strong>da</strong>ti interessanti relativi al tipo e alla qualità degli oggetti in uso in quell’epoca, ha permesso di<br />

evidenziare come, in quella zona, si sia verificata una sostanziale continuità di frequentazione <strong>da</strong>ll’età del<br />

ferro a quella romana.<br />

Interessante è il <strong>sito</strong> di Servìs, sopra Pomarolo, a 650 m.s.l.m., dove è stata rinvenuta una necropoli in cui i<br />

defunti sono stati sepolti quasi tutti, secondo l’usanza locale, con una fibula. Il <strong>sito</strong> è stato frequentato<br />

soprattutto in epoca tardoromana.<br />

Poco lontano, a Prà del Rover, è stato trovato anche un notevole accumulo di laterizi e pesi <strong>da</strong> telaio, che<br />

suggerisce l’idea che si <strong>tratta</strong>sse della discarica di una fornace presente nelle vicinanze, attiva durante<br />

l’epoca imperiale, tra il I e il III sec.d.C.<br />

Nella zona di Rovereto, ad Isera, in occasione della costruzione della Scuola dell’Infanzia, nel 1946- 1949,<br />

sono stati riportati alla luce i resti di un edificio a due piani, probabilmente del I sec.d.C. Si <strong>tratta</strong>va di una<br />

vera e propria villa con ricche decorazioni pavimentali a mosaico e parietali ad affresco. Sono stati rinvenuti<br />

molti oggetti di raffinata lavorazione, tra cui la guarnizione bronzea di un letto, un campanello in bronzo<br />

(tintinnabulum), ed altri oggetti di uso quotidiano. La presenza di un’anfora, usata comunemente per<br />

contenere vino e la posizione della villa, in un’area in cui <strong>da</strong> sempre si coltiva la vite, potrebbe far pensare<br />

che la sua costruzione fosse legata ad un contesto agricolo. Fino ad ora però non sono stati trovati resti di<br />

strutture, nelle immediate vicinanze, che avvalorino in modo inequivocabile questa ipotesi.<br />

Nel centro di Rovereto e nelle aree limitrofe sono state rinvenute molte sepolture e reperti privi di un<br />

contesto certo, tra cui mo<strong>net</strong>e, bronzetti, fibule, lucerne, ecc. Ciò dimostra che anche questa zona era<br />

densamente frequentata.<br />

Anche la zona di Ala e di Avio, che doveva far parte del Municipio di Verona, è ricca di testimonianze<br />

archeologiche che dimostrano una certa densità di popolamento durante l’intera età imperiale. Ad Avio, ad<br />

esempio, è stata trovata nel 1865, un’erma in bronzo, nella località Vò Casaro. Si <strong>tratta</strong> di un oggetto<br />

ornamentale, raffigurante un atleta o un gladiatore, del III sec.d.C.<br />

Da questa zona provengono anche due iscrizioni funerarie risalenti al I sec.d.C. I reperti di questo genere<br />

forniscono molte informazioni interessanti, perché su di esse compaiono i nomi dei defunti, i loro rapporti di<br />

parentela e le attività che hanno compiuto durante la vita.<br />

I testi di queste due iscrizioni in particolare sono:<br />

– T(itus) Catius T(iti) L(ibertus)/ Docimus/VIvir aug(ustalis)/ sibi et/Cluviae M(arci) l(ibertae)/<br />

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Peta[le]/ux[ori], cioè:<br />

Tito Catio Docimo liberto di Tito, seviro, (pose) per sé e per la moglie Cluvia Petale liberta di Marco.<br />

– L(ucius) Aufillenus/ Ascanius/ VIvir (bis)/ cla(udialis) et aug(ustalis)/ sibi et /Catiae T(iti) F(iliae)/<br />

Rho<strong>da</strong>e/ uxori, cioè:<br />

Lucio Aufilleno Ascanio, seviro (sia) claudiale (sia) augustale, (pose) per sé e per la moglie Catia Rho<strong>da</strong><br />

figlia di Tito.<br />

Le persone di queste due epigrafi sono legate <strong>da</strong> rapporti di parentela, <strong>da</strong>l momento che L. Aufilleno Ascanio<br />

ha sposato Cathia Rho<strong>da</strong>, figlia di T. Catio Docimo. I coniugi sono liberti, cioè schiavi affrancati.<br />

Sia Aufilleno Ascanio che Catio Docimo sono stati seviri augustali, cioè membri di un collegio per il culto<br />

dell’imperatore. Aufilleno Ascanio è stato anche un seviro claudiale, che si occupava in particolare di<br />

organizzare gli onori rivolti all’imperatore Claudio.<br />

La Val di Non<br />

In Val di Non è particolarmente evidente il tranquillo assorbimento della cultura romana <strong>da</strong> parte della<br />

popolazione locale, ma anche l’acquisizione <strong>da</strong> parte dei nuovi arrivati di usi e costumi autoctoni.<br />

Ad esempio le tecniche di costruzione adottate comunemente <strong>da</strong>i Reti che prevedevano l’uso di sassi privi di<br />

qualsiasi legante (muri a secco), vennero solo in parte modificate <strong>da</strong>i Romani, con l’introduzione della malta,<br />

come si può notare a Sanzeno, un <strong>sito</strong> già abitato durante la secon<strong>da</strong> età del Ferro. Questa sostanziale<br />

continuità insediativa è individuabile in molti altri siti di questa valle, come a Mechel, un luogo di culto (già<br />

citato per l’età del Ferro), in cui accanto a lami<strong>net</strong>te incise, ex voto retici, sono stati trovati vari oggetti<br />

romani riferibili alla sfera religiosa, e a Cles. Qui in particolare, nel 1869, è stato trovato un reperto di<br />

notevole interesse. Si <strong>tratta</strong> della Tavola Clesiana, una lastra di bronzo, proveniente <strong>da</strong>lla località Campi<br />

Neri. Su di essa si legge che l’imperatore Claudio, nel 46 d.C., concesse la cittadinanza romana agli Anauni,<br />

i Sinduni e i Tuliassi, popolazioni stanziate in Val di Non e nelle zone limitrofe. È singolare il fatto che fino<br />

a quel momento quelle popolazioni si erano comportate come cittadini romani pur non avendone il diritto, al<br />

punto tale <strong>da</strong> far parte delle coorti pretorie. Sulla tavola infatti si legge: Quod beneficium is ita tribuo, ut<br />

quaecumque tanquam/ cives Romani gesserunt egeruntque aut inter se aut cum/ Tridentinis alisve, ratam esse<br />

iubeat nominaque ea, / quae habuerunt antea tanquam cives Romani, ita habere is permittam ["E questo<br />

beneficio io lo accordo in maniera tale ad essi, che quanto <strong>tratta</strong>rono o fecero come cittadini romani o fra di<br />

loro o con i Tridentini o con altri, ordino che sia riconosciuto come legale e permetto di tenere quei nomi che<br />

prima ebbero come (fossero) cittadini romani"].<br />

Nella stessa località sono state raccolte alcune iscrizioni dedicate a Saturno, divinità romana legata<br />

all’attività agricola, nella quale forse si nascondeva una divinità indigena.<br />

Interessanti rinvenimenti sono stati fatti anche nel paese di Cloz, dove è stata riportata alla luce una necropoli<br />

del III-IV sec.d.C., costituita <strong>da</strong> undici sepolture, basate quasi esclusivamente sul rito dell’inumazione e<br />

raccolte in nuclei familiari.<br />

La tabula clesiana<br />

L'editto di Claudio venne iscritto su una tavola di bronzo, oggi è leggermente incurvata e presenta due<br />

ammaccature, dovute ai colpi di piccone che le vennero involontariamente inferti al momento della<br />

scoperta; del resto il testo non ha subito nessun <strong>da</strong>nno; la tavola è alta circa 50 cm. e larga 38; il suo peso è<br />

di oltre 7 kg. Ai quattro angoli si trovano fori circolari, che dovevano permettere l'affissione della tavola ad<br />

una parete, forse quella di un tempio di Saturno che probabilmente sorgeva nei Campi Neri.<br />

La tavola bronzea venne scoperta il 29 aprile del 1869 in un campo di proprietà dei fratelli Moggio, nella<br />

località dei Campi Neri di Cles, località che ha restituito, nel corso degli anni, diversi oggetti di carattere<br />

sacro ed anche alcune iscrizioni votive a Saturno; una testina del dio venne alla luce nei medesimi Campi<br />

Neri nel 1888.<br />

Oltre a concedere legalmente la cittadinanza ai membri delle tre popolazioni alpine, Claudio si preoccupa<br />

anche di ratificare tutti gli atti che in passato essi avevano compiuto agendo <strong>da</strong> cives Romani, sia nei<br />

rapporti tra loro stessi, sia nei rapporti con gli abitanti di Trento e delle altre comunità romane.<br />

Traduzione: Nel consolato di M. Giunio Silano e Q. Sulpicio Camerino, il 15 marzo, a Baia nel pretorio,<br />

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editto di Ti. Claudio Cesare Augusto Germanico, venne proposto quanto è scritto di seguito.<br />

Ti. Claudio Cesare Augusto Germanico, pontefice massimo, detenendo la potestà tribunizia per la sesta<br />

volta, acclamato imperatore per 11 volte, padre della patria, console designato per la quarta volta, dice:<br />

Poiché tra le vecchie controversie pendenti <strong>da</strong> molto già ai tempi di mio zio Ti. Cesare, per comporre le<br />

quali egli inviò Pinario Apollinare, per quanto ricordo a memoria vi è solo quella fra i Comensi e i Bargalei,<br />

il quale [Pinario Apollinare] prima per l'ostinata assenza di mio zio, poi anche durante il principato di Gaio,<br />

visto che non gliene si faceva richiesta, non stoltamente omise di fare la relazione; e poiché in seguito<br />

Camurio Statuto mi ha riferito che la maggior parte dei campi e dei boschi sono sotto la mia giurisdizione,<br />

per la presente questione ho inviato il mio amico e compagno Giulio Planta, il quale, valendosi dell'aiuto<br />

dei miei procuratori sia quelli nell'altra regione, sia quelli che erano nelle vicinanze, ha investigato e istruito<br />

la questione con la massima cura, ora gli consento di decidere e di giudicare su tutte le rimanenti questioni,<br />

così come mi chiarito il memoriale che lui stesso mi ha compilato.<br />

Per quanto concerne la condizione degli Anauni, dei Tulliassi e dei Sinduni, parte dei quali si dice che<br />

l'informatore abbia stabilito fosse attribuita ai Tridentini, parte nemmeno attribuita, nonostante io sia<br />

cosciente che tale gruppo di persone non possa vantare con troppa sicurezza di essere in possesso della<br />

cittadinanza romana, tuttavia, <strong>da</strong>l momento che si dice essi ne siano in possesso avendone fatto uso per<br />

lungo tempo e poiché sono talmente mescolati con i Tridentini <strong>da</strong> non poterne essere separati senza grave<br />

<strong>da</strong>nno allo splendido municipio, concedo che essi conservino per mio beneficio quel diritto che essi<br />

ritenevano di avere, tanto più volentieri in quanto si dice che molti appartenenti a questo gruppo di persone<br />

militino pure nella mia guardia pretoriana, molti abbiano in effetti il rango di ufficiale dell'esercito e non<br />

pochi, ammessi nelle decurie, hanno la funzione di giudici a Roma.<br />

Nell'assegnare a costoro tale beneficio ordino che sia ratificato ogni atto che essi abbiano compiuto o<br />

pubblicato agendo <strong>da</strong> cittadini romani, o tra di loro, o con i Tridentini, o con altri, e permetto che essi<br />

tengano quei nomi che avevano in precedenza, agendo <strong>da</strong> cittadini romani.<br />

Il ritrovamento fu casuale: alcuni operai alle dipendenze di Giacomo Moggio, mentre erano intenti a<br />

scavare una buca per la calce, scoprirono fortunosamente la tavola la mattina del 29 aprile 1869.<br />

La notizia della scoperta si diffuse con rapidità straordinaria: già il giorno seguente le autorità comunali di<br />

Cles si recarono sul posto, esaminarono l'iscrizione e stesero un dettagliato verbale della scoperta: nel<br />

verbale, oltre alle circostanze del ritrovamento, troviamo una breve ma precisa nota sulla località dei Campi<br />

Neri e su alcuni dei reperti che vi erano stati scoperti in precedenza, un'accurata descrizione della tavola<br />

bronzea, la trascrizione del testo, che si discosta solo per pochi particolari <strong>da</strong> quella che è stata stabilita<br />

<strong>da</strong>gli studiosi negli anni seguenti, e infine una traduzione in italiano. Dietro questo verbale vi è qualche<br />

mistero: l'originale è an<strong>da</strong>to perduto e ne conosciamo il testo solo <strong>da</strong> una trascrizione che venne fatta<br />

qualche mese dopo sul quotidiano Il Trentino; stupisce poi come in poco più di 24 ore (il verbale venne<br />

re<strong>da</strong>tto alle ore 13 del 30 aprile 1869) si fu in grado di stendere una relazione comprendente un excursus<br />

sulla località, la trascrizione del testo e soprattutto una traduzione, sostanzialmente corretta, di un<br />

documento che come abbiamo visto è tutt'altro che di facile interpretazione in alcuni passaggi. La Tavola<br />

dunque doveva essere stata esaminata <strong>da</strong> qualche eccellente conoscitore dell'epigrafia e della lingua latina,<br />

oltre che della <strong>storia</strong> locale della val di Non, che ovviamente doveva abitare a Cles o negli immediati<br />

dintorni, se poté essere interpellato in un così breve lasso di tempo. Chi fosse questo erudito non è <strong>da</strong>to di<br />

sapere: quello che è certo è che si premurarono di documentare tutta la faccen<strong>da</strong> con una rapidità<br />

stupefacente, quasi che si temesse che l'iscrizione potesse essere sot<strong>tratta</strong> e la notizia dell'importantissima<br />

scoperta fosse insabbiata.<br />

Sorprende anche la tempestività con la quale la notizia pervenne al grande pubblico: il 1 maggio, appena il<br />

giorno seguente la stesura del verbale, il giornale La Voce Cattolica riportava un dettagliato resoconto<br />

dell'avvenimento e la trascrizione del testo, sottolineandone l'importanza storica e riman<strong>da</strong>ndo per un<br />

approfondimento ad un prossimo articolo. La Voce Cattolica aveva ricevuto la segnalazione <strong>da</strong> un "egregio<br />

amico" di cui nulla di più si può dire.<br />

Preso in contropiede, un altro giornale di Trento, concorrente de La Voce Cattolica, si affrettò a pubblicare<br />

a sua volta il testo dell'epigrafe il 3 maggio, riprendendo il testo apparso nella Voce. Battuto sul tempo, Il<br />

Trentino tuttavia comprese meglio degli avversari quale poteva essere il dirompente valore politico della<br />

Tabula Clesiana: nell'articolo leggiamo infatti: "La scoperta è tanto importante per la <strong>storia</strong> del nostro paese<br />

ed accentua così <strong>net</strong>tamente le nostre ripetute asserzioni circa la di lui già d'altronde provata specialità<br />

24


omana contro le ridicole e <strong>da</strong> nissuna prova sostenute asserzioni dei nostri avversari, che crediamo prezzo<br />

dell'opera riportare qui per intiero la epigrafe...". La Tavola, insomma, poteva divenire un argomento<br />

decisivo per confutare le teorie di molti studiosi austriaci dell'epoca, secondo i quali il Trentino<br />

nell'antichità non faceva parte dell'Italia, ma della provincia imperiale della Rezia.<br />

Il Trentino orientale<br />

Per quanto riguar<strong>da</strong> il territorio del Trentino orientale, per le sue condizioni geomorfologiche (pendici<br />

scoscese, aree fittamente boschive), si può notare che non è mai stato densamente abitato, tranne la zona<br />

della Valsugana, che godeva di un particolare benessere anche per i contatti intercorrenti, sin <strong>da</strong>ll’epoca<br />

preistorica, tra questa zona e quella ve<strong>net</strong>a. Gli insediamenti sorti in epoca preromana hanno continuato ad<br />

essere frequentati anche in epoca imperiale, come dimostra, ad esempio, il <strong>sito</strong> di Dosso di S.Ippolito (899<br />

m.s.l.m.) presso Castello Tesino, dove sono stati individuati i resti di un insediamento sviluppatosi intorno al<br />

IV- III sec.a.C., ed abitato fino al I sec.d.C., quando è stato abbandonato.<br />

Un’analoga continuità insediativa si può notare anche presso il <strong>sito</strong> di Doss Zelor, in Val di Fiemme, tra<br />

Cavalese e Castello, (a 950 m.s.l.m.). Si <strong>tratta</strong> di un gruppo di edifici realizzati su un dosso e sul prato<br />

sottostante, costruiti con pietre legate con malta e legname in cui si pensa di poter ravvisare un gruppo di<br />

fattorie basate su di una economia agricola- pastorale di sostanziale autosussistenza.<br />

Conclusioni a cura di Lia de Finis<br />

Appare evidente che il Trentino è un territorio frequentato <strong>da</strong>ll’uomo in modo sostanzialmente continuativo<br />

sin <strong>da</strong>lle epoche più antiche, <strong>da</strong>l Paleolitico all’età romana.<br />

La regione si trova in una posizione geografica tale <strong>da</strong> contribuire a creare un collegamento tra l’area pa<strong>da</strong>na<br />

e i territori posti a nord delle Alpi, anche grazie alla sua natura geomorfologica. La Val Venosta, con il passo<br />

Resia ha favorito i contatti con l’Engadina e la Germania sud- occidentale, mentre la val Pusteria, con il<br />

passo del Brennero, quelli con l’area alpina orientale.<br />

La presenza del lago di Gar<strong>da</strong> ha facilitato le comunicazioni con la pianura pa<strong>da</strong>na; l’Adige, che attraversa la<br />

regione longitudinalmente, e le molte valli che attraversano il territorio trasversalmente, hanno sempre<br />

permesso facili comunicazioni e scambi culturali tra le popolazioni locali e quelle non solo limitrofe ma<br />

anche di paesi lontani. Basti pensare alle conchiglie forate di columbella e cyclope, trovate presso il Riparo<br />

Dalmeri, risalenti al Paleolitico superiore, oppure all’ossidiana, originaria dell’isola di Lipari, trovata presso<br />

il <strong>sito</strong> di La Vela, risalente al neolitico medio.<br />

Questi elementi spiegano l’abbon<strong>da</strong>nza di ritrovamenti nel Trentino centro occidentale, in corrispondenza<br />

della valle dell’Adige, val di Non, valli Giudicarie e Basso Sarca.<br />

Ad una economia basata, in un primo momento, sulla caccia e sulla raccolta, si aggiunse, a partire <strong>da</strong>l<br />

neolitico, l’allevamento e l’agricoltura. Anche la viticoltura, a partire <strong>da</strong>ll’età del Ferro, doveva essere<br />

praticata, soprattutto nel Trentino meridionale, ad esempio in Val Lagarina. Al riguardo varie sono le<br />

citazioni di autori romani, tra cui Floro, Svetonio, Plinio, che parlano del famoso "vino retico". Interessante è<br />

anche il rinvenimento di botti a Nomi, località Bersaglio, risalente alla secon<strong>da</strong> età del Ferro.<br />

Come si è visto, nel passaggio tra la secon<strong>da</strong> età del Ferro e l’epoca romana la cultura locale non è stata<br />

soppiantata totalmente <strong>da</strong> quella romana, ma spesso ha mantenuto, in alcune sue manifestazioni, la sua<br />

originalità, ad esempio negli oggetti di uso quotidiano in ferro, oppure nell’abitudine di porre su pesi <strong>da</strong><br />

telaio o altri utensili d’uso comune sigle in alfabeto retico e nell’abitudine di seppellire i defunti abbigliati<br />

come <strong>da</strong> vivi, con gli abiti fissati <strong>da</strong> una fibula.<br />

Analizzando i materiali romani è possibile notare come, tranne oggetti di particolare prestigio, quelli di<br />

prima necessità come tegole e pesi <strong>da</strong> telaio, siano stati prodotti in officine locali, disseminate su tutto il<br />

territorio (le maggiori testimonianze provengono <strong>da</strong>lla valle dell’Adige e <strong>da</strong>lla valle di Non) ed inoltre con<br />

medesime caratteristiche. Ad esempio i pesi <strong>da</strong> telaio rinvenuti a Prà del Rover sono del tutto simili a quelli<br />

trovati a Mezzocorona, superando i 900 grammi, misura non facilmente riscontrabile al di fuori del Trentino.<br />

Si è ipotizzato che questa particolarità sia dovuta all’uso di un filato più pesante, evidentemente in rapporto<br />

al clima alpino.<br />

I <strong>da</strong>ti archeologici raccolti fino a questo momento sembrano quindi convali<strong>da</strong>re l’idea, proposta ormai <strong>da</strong>lla<br />

maggior parte degli studiosi, che <strong>da</strong>l II/I sec.a.C. non ci siano stati in Trentino grossi episodi bellici e che<br />

sostanzialmente i rapporti con i Romani siano stati abbastanza tranquilli. Le successive invasioni barbariche<br />

spinsero la popolazione a nascondere talvolta i propri beni, <strong>da</strong>ndo così origine a veri e propri "tesoretti"<br />

25


come quello rinvenuto a Zambana, nella Valle dell’Adige.<br />

Va per altro sempre fatta una considerazione per chi si accosta allo studio dell’archeologia e allo studio dei<br />

reperti, quella che ogni affermazione è del tutto provvisoria ed ogni valutazione rimane ‘aperta’, può essere<br />

cioè capovolta o modificata <strong>da</strong> un successivo rinvenimento. Perciò anche un piccolo frammento, che appare<br />

di scarso rilievo per l’occasionale scopritore, può essere determinante per confermare un’ipotesi o per<br />

smentirla.<br />

Nel redigere questi capitoli ci si è valsi di <strong>da</strong>ti e risultati, riferiti in modo sintetico, emersi nelle recenti<br />

in<strong>da</strong>gini in parte ancora inedite dell’Ufficio Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento e di ciò<br />

si ringrazia vivamente il direttore dott. Gianni Ciurletti.<br />

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L'evangelizzazione del Trentino. L'Alto Medioevo (IV-X secolo d.C.)<br />

L'evangelizzazione del Trentino di Iginio Rogger<br />

Come impostare il problema<br />

Sui tempi e i modi con cui la popolazione del territorio tridentino è passata <strong>da</strong>lla paganità alla visione<br />

cristiana del mondo e alla costituzione di una comunità organizzata in cui questa si esplica e si consoli<strong>da</strong>, si<br />

sono acquisite cognizioni solide e sicure solo <strong>da</strong>lla secon<strong>da</strong> metà dell’ultimo secolo.<br />

L’argomento è tutt’altro che secon<strong>da</strong>rio, perché <strong>da</strong> quell’evento è venuta a dipendere in larga misura la stessa<br />

forma di civiltà, il modo di sentire, il complesso degli usi e costumi dell’intera popolazione <strong>trentina</strong><br />

determinando un sistema di vita che si trasmette ininterrottamente fino ai nostri giorni. E’ quindi evidente la<br />

necessità di usare in modo più selettivo e attento tutte le pubblicazioni, pur meritevoli e consistenti, che<br />

hanno <strong>tratta</strong>to questo argomento fino alla metà del Novecento. Non è certo un caso se lo stesso documentogui<strong>da</strong><br />

della chiesa di Trento, cioè il Messale e la Liturgia delle Ore della chiesa Tridentina, è stato<br />

radicalmente rinnovato nel 1985, soprattutto per quanto riguar<strong>da</strong> la figura di S. Vigilio e quella dei tre<br />

missionari martiri, Sisinio, Martirio e Alessandro con un criterio di totale adeguamento alla verità storica.<br />

Occorre dunque impostare correttamente il problema. Parlare delle origini del Cristianesimo nel Trentino<br />

non vuol dire rintracciare una qualsiasi presenza individuale di cristiani sul posto. È noto che anche a quel<br />

tempo si riscontra una discreta mobilità della popolazione, quindi è senz’altro possibile fin <strong>da</strong>l I secolo la<br />

presenza più o meno stabile in regione di singoli personaggi cristiani appartenenti all’amministrazione o<br />

all’esercito o al mondo commerciale dell’Impero Romano. Il problema riguar<strong>da</strong> quindi non la presenza di<br />

alcuni cristiani che può essere casuale, ma l’esistenza di una comunità. È nella logica della missione cristiana<br />

di appro<strong>da</strong>re alla costituzione di una comunità, radicata sul luogo, strutturata e formata. Il processo di<br />

conversione, il formarsi del Cristianesimo in un <strong>da</strong>to luogo ha il suo punto di arrivo naturale nel costituirsi di<br />

una chiesa. Il nascere di una chiesa locale è lo sbocco caratteristico della missione. Perciò il tema numero<br />

uno delle origini cristiane è: quando e come si riesce ad individuare l’esistenza di una comunità organizzata.<br />

Come sempre, la conoscenza storica prende consistenza <strong>da</strong>lle fonti. Ciò vale anche per la comunità cristiana.<br />

Le fonti di conoscenza possono essere molto varie. La presenza di sepolture cristiane con le loro epigrafi, i<br />

resti archeologici di luoghi di culto ed altre memorie monumentali sono in molti casi la testimonianza più<br />

vali<strong>da</strong> e più antica dell’esistenza di una comunità cristiana. Per quanto riguar<strong>da</strong> il Trentino, tali fonti<br />

archeologiche si riscontrano piuttosto tardi, cioè non prima della fine del secolo V. Invece Trento possiede<br />

per le sue origini cristiane una serie di fonti scritte, molto significative e solide. È un fenomeno molto raro<br />

questo, che differenzia le condizioni trentine <strong>da</strong> quelle di altre chiese anche molto illustri, le quali possiedono<br />

quasi solo racconti leggen<strong>da</strong>ri sulle loro origini.<br />

La circostanza è dovuta al fatto che, contrariamente a quanto si immaginava, l’origine della chiesa di Trento<br />

risale a una <strong>da</strong>ta piuttosto tar<strong>da</strong>, cioè alla secon<strong>da</strong> metà del IV secolo dell’era cristiana. Pareva incredibile<br />

questo agli studiosi delle generazioni passate. Per cui ancora nel primo millennio fu creato un mondo di<br />

leggende che cercavano di ricollegare le origini anticipandole all’epoca apostolica. E così, nel caso di Trento,<br />

si risaliva ai discepoli di S. Pietro, i santi Ermagora e Fortunato, che, dopo aver fon<strong>da</strong>ta la comunità cristiana<br />

di Aquileia, sarebbero venuti a evangelizzare anche il territorio di Trento e a costituirvi il primo vescovo<br />

della serie. Tale convinzione venne a solidificarsi nel più antico catalogo dei vescovi, registrato nel<br />

Sacramentario di U<strong>da</strong>lrico II (1022-1055), che colloca il vescovo Vigilio al 18° posto, segnando prima di lui<br />

una serie di 17 vescovi che dovrebbero di molto anticipare l’evangelizzazione del Trentino. Tale costruzione<br />

è oggi definitivamente abbandonata. Uno sguardo alla cronologia vera delle chiese in alta Italia e in tutta la<br />

regione alpina basta <strong>da</strong> solo a ridimensionarla. L’evangelizzazione di tutta quest’area è molto più tar<strong>da</strong> di<br />

quanto si pensava. Prima dell’anno 313, l’inizio dell’era di Costantino, si registra solo l’esistenza delle<br />

chiese di Milano e di Aquileia, sorte sulla metà del secolo III, e delle chiese di Padova, di Verona e di<br />

Brescia, <strong>da</strong>tabili agli ultimi anni dell’era dei Martiri, cioè sugli inizi del IV secolo. Anche lungo i decenni<br />

successivi del secolo IV la proliferazione di chiese nuove è tutt’altro che rapi<strong>da</strong> ed è ritar<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l travaglio<br />

delle controversie ariane che ha ridotto la forza vitale delle chiese già esistenti.<br />

Il quadro cronologico generale quindi assegna alle fonti scritte che riguar<strong>da</strong>no la persona e l’opera di S.<br />

Vigilio, il carattere di prime fonti dirette che illustrano la fase iniziale della cristianità <strong>trentina</strong>. Naturalmente<br />

anche le migliori fonti scritte vanno vagliate e soppesate nella loro capacità di attestare la realtà degli eventi.<br />

Ed è a questo riguardo che sull’argomento s’è dovuto fare una diagnosi rigorosa, che distingue due categorie<br />

di fonti. La prima comprende le due lettere di Vigilio e un gruppo di altri documenti convergenti che<br />

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formano intorno ad esse un blocco coerente: una lettera di S. Ambrogio a Vigilio e varie reazioni alla notizia<br />

della sanguinosa fine dei missionari di Anaunia (pronunziate <strong>da</strong> interlocutori vicini e lontani, come i vescovi<br />

Gaudenzio di Brescia e Massimo di Torino, Sant’Agostino <strong>da</strong>ll’Africa e il biografo di S. Ambrogio, il<br />

diacono Paolino). Si <strong>tratta</strong> di testimonianze contemporanee, fon<strong>da</strong>mentali per comprendere la stessa vicen<strong>da</strong><br />

che rappresentano. Molto diseguale rispetto a queste è la categoria narrativa dei cosiddetti Atti o Passio di S.<br />

Vigilio e dei documenti affini che <strong>da</strong> essi dipendono. Qui il valore testimoniale dei testi è tutto <strong>da</strong> accertare.<br />

Autore ed epoca sono anonimi e <strong>da</strong>ll’esame intrinseco del racconto è evidente che ci si trova di fronte ad una<br />

composizione del secolo VI, forse anche più tardiva, re<strong>da</strong>tta comunque a molta distanza temporale e<br />

spirituale <strong>da</strong> quella che fu la vicen<strong>da</strong> nella realtà dei fatti. Il documento è indubbiamente prezioso e raro,<br />

perché non ne esiste un altro del suo tipo entro il primo millennio. Ma è evidente che esso riflette quella<br />

figura del vescovo Vigilio e quel complesso di idee che si avevano sulle origini della chiesa di Trento intorno<br />

all’anno 600 o ancora più tardi. Costruire una <strong>storia</strong> della evangelizzazione del Trentino privilegiando questo<br />

secondo documento è stato l’errore fon<strong>da</strong>mentale della storiografia del passato e sarebbe fuorviante ancor<br />

oggi.<br />

Prime notizie sulla cristianità del centro urbano<br />

Volendo seguire il metodo sopra accennato, è evidente che bisognerà accontentarsi di <strong>da</strong>ti frammentari e non<br />

volere a ogni costo la completezza di un racconto narrativo integrato magari con la fantasia. I <strong>da</strong>ti però sono<br />

talmente importanti <strong>da</strong> illuminare l’intera situazione.<br />

Il primo flash riguar<strong>da</strong> la creazione di un vescovo a Trento. Vigilio non è il primo della serie. Qui è<br />

apprezzabile la testimonianza stessa degli Atti che, non avendo ancora trasferito il suo nome al 18° posto<br />

della lista episcopale, riportano la situazione reale e lo denominano "a primo tertius", cioè terzo della serie.<br />

La verità di questa asserzione è comprovata <strong>da</strong> un documento più che sicuro che registra la presenza<br />

dell’antecessore di S. Vigilio, chiamato Abbon<strong>da</strong>nzio, al Concilio antiariano di Aquileia dell’anno 381.<br />

Dunque in un anno non meglio specificato, ma posteriore comunque a quella <strong>da</strong>ta, la comunità <strong>trentina</strong> si<br />

creava un nuovo vescovo, secondo il sistema allora vigente, cioè per elezione <strong>da</strong> parte del clero e del popolo.<br />

A questo punto emerge un altro <strong>da</strong>to di primaria importanza. È la lettera del vescovo di Milano S. Ambrogio<br />

a Vigilio, che esordisce con la dichiarazione: " poiché sei stato promosso di recente all’episcopato, hai<br />

doman<strong>da</strong>to a me le patenti della tua carica". L’oggetto sostanziale della lettera è quindi il consenso di<br />

Ambrogio che si esprime col fatto stesso dell’invio della lettera. Conoscendo il sistema con cui venivano<br />

allora creati i vescovi e quella che era la posizione di autorevolezza gerarchica di Ambrogio in quegli anni,<br />

non si sbaglia nel riconoscere qui la piena conferma di legittimità ecclesiale del nuovo vescovo Vigilio.<br />

Questa procedura verrà a formularsi pochi anni più tardi nella posizione supervescovile che l’arcivescovo di<br />

Aquileia assunse anche riguardo al territorio trentino. L’autore degli Atti invece ha già dimenticato il ruolo di<br />

Ambrogio. Quando dice che S. Vigilio fu consacrato <strong>da</strong>l vescovo di Aquileia "fuori della città", descrive<br />

quello che era il modo di creare il vescovo di Trento all’epoca in cui si scrivevano gli Atti stessi.<br />

Ambrogio fornisce anche qualche altro particolare sulla condizione del gregge affi<strong>da</strong>to al nuovo vescovo. I<br />

cristiani in città dovevano essere ancora in minoranza e rischiavano di venir fagocitati <strong>da</strong>lla maggioranza<br />

pagana. Altrimenti rimarrebbe incomprensibile l’insistenza con cui vengono sconsigliati i matrimoni misti<br />

fra cristiani e non cristiani. Che si tratti di una comunità tipicamente urbana, lo si deduce <strong>da</strong>lle esortazioni in<br />

favore di un giusto salario verso i lavoratori dipendenti e <strong>da</strong>lle raccoman<strong>da</strong>zioni che riguar<strong>da</strong>no l’ospitalità.<br />

San Vigilio<br />

La «Passio Sancti Vigilii» come la fonte biografica principale<br />

Le testimonianze su San Vigilio ci provengono quasi esclusivamente <strong>da</strong> un´opera anonima scritta in epoca<br />

alto - medievale, la «Passio Sancti Vigilii», detta anche «Atti» o «Vita di San Vigilio», della quale esistono<br />

diverse versioni, l´una successiva all´altra. Tra queste, l´esemplare più classico della Passio è considerato<br />

naturalmente quello più antico, ritenuto anche il più attendibile, essendo quelli posteriori caratterizzati <strong>da</strong><br />

uno stile decisamente agiografico e più incline a mettere in luce le componenti leggen<strong>da</strong>rie della vita del<br />

santo. Un´analisi biografica di Vigilio non può pertanto prescindere <strong>da</strong> un´esegesi della fonte che<br />

maggiormente si è occupata del personaggio.<br />

Diverse ipotesi sono state formulate in merito all´epoca di origine della Passio; possiamo anzitutto<br />

escludere che sia stata composta durante il periodo in cui dominò il cosiddetto «scisma dei tre capitoli», che<br />

28


<strong>da</strong>lla conclusione del VI a tutto il VII secolo tenne separata la Chiesa tridentina <strong>da</strong> quella romana.<br />

Le in<strong>da</strong>gini più recenti, smentendo alcune ipotesi alle quali in precedenza si era <strong>da</strong>to credito, hanno<br />

comunque escluso che essa possa essere stata re<strong>da</strong>tta prima del VI secolo; tuttavia, coloro che hanno<br />

condotto tali ricerche, si sono trovati in difficoltà nello stabilire con precisione il periodo al quale far risalire<br />

l´opera, <strong>da</strong>ta la scarsità e qualche volta la contraddittorietà di informazioni sull´argomento. In ogni caso, è<br />

oggi molto seguita l´ipotesi che tale documento sia stato scritto dopo l´VIII secolo, ovvero dopo che il re<br />

Cuniberto, con la collaborazione del pontefice Sergio I, riuscì a ricostituire l´unità religiosa con il sinodo di<br />

Pavia del 698, ponendo fine alla lunga fase di separazione della diocesi di Trento <strong>da</strong>lla Santa Sede.<br />

Gli altri documenti che <strong>tratta</strong>no di San Vigilio e le divergenti opinioni sulla sua collocazione nella serie dei<br />

vescovi di Trento<br />

La «Vita di San Vigilio» non rappresenta però l´unica fonte che ci permette di ricostruire gli episodi salienti<br />

del più celebre tra i vescovi di Trento. Sono state conservate infatti anche due lettere scritte <strong>da</strong>llo stesso<br />

Vigilio, e indirizzate rispettivamente a San Simpliciano e a San Giovanni Crisostomo, il patriarca di<br />

Costantinopoli conosciuto per le sue tenaci invettive in difesa della moralità e contro le seduzioni<br />

femminili. Da questi due scritti si ricava una sorta di autoritratto psicologico ed umano del santo, che ci<br />

appare come un uomo deciso ad affrontare ogni pericolo pur di portare avanti la sua opera missionaria.<br />

Esiste inoltre una lettera che Sant´Ambrogio, vescovo di Milano, scrisse proprio a San Vigilio. Tale<br />

documento è di fon<strong>da</strong>mentale importanza per comprendere quale fosse il substrato sociale e culturale del<br />

Trentino alla vigilia della venuta del nostro vescovo. Da esso si evince che a Trento già esisteva una piccola<br />

comunità cristiana in via di formazione, anche se composta <strong>da</strong> una ristrettissima minoranza di adepti. Lo<br />

comprendiamo <strong>da</strong>lla particolare insistenza con la quale Ambrogio, nell´indicare a Vigilio le linee<br />

programmatiche della sua azione evangelizzatrice, sconsiglia di favorire i matrimoni misti, evidentemente<br />

per la preoccupazione che la già piccola minoranza cristiana potesse essere del tutto fagocitata <strong>da</strong>lla<br />

maggioranza pagana, la quale avrebbe finito per imporre le proprie abitudini e il proprio stile di vita.<br />

Secondo l´autore della Passio, Vigilio era un patrizio romano che frequentò studi letterari in Atene e al<br />

termine di questi prese i voti. Con la sua famiglia venne a stabilirsi nel Trentino e qui divenne vescovo, il<br />

terzo della Chiesa locale. Invero, la sua collocazione cronologica nella lista dei vescovi di Trento non è<br />

stata per molto tempo affatto pacifica. Varie interpretazioni si sono succedute a questo riguardo: una di<br />

esse, che a lungo ha goduto di una notevole credibilità, accreditava San Vigilio come il diciottesimo presule<br />

nella <strong>storia</strong> della Chiesa <strong>trentina</strong>, con un notevole scarto rispetto alla teoria oggi più seguita, che lo<br />

annovera come il terzo della serie. E´ proprio il Dittico U<strong>da</strong>lriciano, considerato il principale documento<br />

per la ricostruzione della successione cronologica dei vescovi di Trento, ad indicare Vigilio come<br />

diciottesimo.<br />

A prima vista appare decisamente strano che un manoscritto autorevole come quello compilato sotto l<br />

´episcopato di U<strong>da</strong>lrico II possa essere incorso in un errore talmente grossolano. Alcuni studiosi hanno<br />

ritenuto che i compilatori del Dittico U<strong>da</strong>lriciano, per <strong>da</strong>re maggiore risalto al fatto che la Chiesa avesse<br />

radici assai più remote e quindi per accentuare l´antichità delle sue tradizioni (non senza voler attribuir loro<br />

un certo alone di mistero), avessero evidenziato una lunga sequenza di personalità venute prima di San<br />

Vigilio. D´altra parte il Dittico era adoperato con finalità eminentemente celebrative, poiché rappresentava<br />

quella parte del Sacramentario liturgico che veniva letta durante le Messe solenni. Altri hanno più<br />

semplicemente pensato che il Dittico si fosse a sua volta basato su una precedente fonte del VI secolo ed<br />

avesse interpretato erroneamente un passaggio di questa nel momento in cui collocò Vigilio così avanti<br />

nella successione dei vescovi.<br />

In aggiunta a queste diversità interpretative vi sono, fortunatamente, anche dei <strong>da</strong>ti certi: il predecessore<br />

Abbon<strong>da</strong>nzio è stato registrato presente al Concilio antiariano di Aquileia, tenutosi nel 381. Vigilio quindi<br />

inizia il suo episcopato sicuramente dopo il 381, ed è del tutto improbabile che prima di questa <strong>da</strong>ta vi siano<br />

stati in Trentino ben diciassette vescovi. Se inoltre prestiamo fede alla Passio, dobbiamo credere che la<br />

durata del suo episcopato abbia coperto l´arco di dodici anni. Le opinioni, tuttavia, non sono del tutto<br />

concordi in merito al tempo ricoperto <strong>da</strong> Vigilio al vertice della diocesi, anche se la maggior parte degli<br />

studiosi è orientata nel ritenere alquanto degne di fede le notizie riportate <strong>da</strong>lla prima versione della Vita<br />

del santo.<br />

La portata della personalità di San Vigilio nella tradizione popolare <strong>trentina</strong><br />

29


La figura di San Vigilio ha assunto nel corso dei secoli un valore simbolico molto forte per la Chiesa di<br />

Trento, tanto <strong>da</strong> <strong>da</strong>re origine ad una vera e propria letteratura agiografica: vi si esalta la statura morale e<br />

spirituale del personaggio, che dedicò la propria esistenza a diffondere il messaggio cristiano in luoghi dove<br />

questo era pressoché sconosciuto e dove la popolazione, praticando ancora le antiche consuetudini pagane,<br />

si mostrava a dir poco riottosa alla sua introduzione. Poiché egli pose le basi per un´espansione più ampia<br />

del messaggio cristiano e riuscì per gran parte nel suo intento, rappresenta ancora oggi la prima personalità<br />

di riferimento per la cristianità tridentina. Del resto la venerazione popolare per questo santo non è rimasta<br />

circoscritta al solo territorio trentino, diffondendosi nel corso dei secoli anche nel resto dell´Italia<br />

settentrionale, in particolare in Alto Adige, ma anche in Austria e nelle terre bavaresi; il che fa pensare ad<br />

un personaggio <strong>da</strong>vvero unico nel suo genere.<br />

All´interno della diocesi di Trento, si contano oggi più di trenta fra chiese e cappelle dedicate a questo<br />

santo, indice della particolare devozione che esiste ancora ai nostri giorni.<br />

La missione dei santi martiri della Cappadocia presso il vescovo Vigilio nell´ambito del progetto di<br />

apostolato promosso <strong>da</strong> Ambrogio di Milano<br />

A quei tempi gui<strong>da</strong>va la diocesi milanese il vescovo Ambrogio, destinato a circon<strong>da</strong>rsi di un´aura di santità<br />

ancora più ampia di quella serbata a Vigilio. Quest´ultimo ricevette <strong>da</strong>l vescovo milanese l´invio di tre<br />

missionari destinati ad assurgere a simbolo della Chiesa <strong>trentina</strong>: si <strong>tratta</strong> di Sisinio, Martirio ed Alessandro,<br />

provenienti <strong>da</strong>lla Cappadocia, che il vescovo inviò ad evangelizzare l´Anaunia e che qui trovarono il<br />

martirio il 29 maggio del 397. Può lasciare sorpresi che per un avvenimento intercorso nel primissimo<br />

periodo del medioevo sia stata riportata una <strong>da</strong>ta completa, ma il tema del martirio del martiri cappadoci è<br />

stato <strong>tratta</strong>to diffusamente e gli storici sono concordi nel definire sicura questa <strong>da</strong>tazione.<br />

Il vescovo Ambrogio aveva intenzione di intraprendere e di coordinare un´autentica iniziativa missionaria<br />

in Trentino. La sua autorità era venuta crescendo sia <strong>da</strong> quando aveva tenuto testa nientemeno che all<br />

´imperatore Teodosio il grande, con l´affermare che il primo dovere di un cristiano non era tanto l<br />

´obbedienza all´imperatore, ma quella a Dio, rappresentato sulla terra <strong>da</strong>l potere spirituale della Chiesa; sia<br />

<strong>da</strong> quando era riuscito a conservare l´ordine pubblico nel territorio milanese dilaniato <strong>da</strong>lle fortissime<br />

dispute fra cattolici ed ariani. Era presentato quindi come un personaggio di grande carisma, e col tempo<br />

giunse a rivestire, seppure a distanza, un ruolo centrale per i destini delle terre e delle popolazioni trentine.<br />

Il suo progetto di evangelizzazione riguar<strong>da</strong>va l´ambito geografico che si estendeva <strong>da</strong>l Piemonte fino alla<br />

Rezia Curiense e comprendeva infine la Valle dell´Adige. La Valle dell´Adige era, infatti, assieme a quella<br />

dell´Inn, il passaggio obbligato per raggiungere la Passavia, regione nella quale viveva la regina dei<br />

Marcomanni, Frigitil, con la quale Ambrogio era entrato in contatto per l´invio di missionari nelle varie<br />

regioni.<br />

Anche i martiri d´Anaunia dovevano essere, come Vigilio, uomini di fiducia di Ambrogio. Il diacono<br />

Paolino, il biografo principale del vescovo milanese, li definisce come «fratelli e soci» dello stesso<br />

Ambrogio. Una testimonianza altrettanto autorevole in merito ai martiri d´Anaunia ci viene fornita <strong>da</strong> Sant<br />

´Agostino. Questi nel 412, nell´atto di scrivere una lettera in cui chiedeva al governatore romano di<br />

Cartagine, Marcellino, clemenza per i donatisti accusati di autentiche stragi nei confronti dei cristiani e che<br />

stavano per essere messi a morte <strong>da</strong>ll´esercito romano, cita l´esempio della Val di Non, dove i colpevoli del<br />

martirio dei tre martiri d´Anaunia erano stati scoperti ed arrestati, ma dove erano stati gli stessi cristiani<br />

anauni ad intercedere per loro e a salvarli <strong>da</strong>lla punizione capitale.<br />

Ipotesi sulla struttura organizzativa della diocesi durante l´episcopato di Vigilio<br />

E´ azzar<strong>da</strong>to fare previsioni sui confini della diocesi al tempo di Vigilio, ma si può forse desumere qualcosa<br />

di significativo <strong>da</strong> una dichiarazione che la stessa Passio attribuisce allo stesso vescovo. Nella circostanza<br />

descritta, questi opera un deciso rimprovero nei confronti dei responsabili delle Chiese di Brescia e di<br />

Verona per il notevole ritardo nell´azione missionaria riguar<strong>da</strong>nte i loro territori di competenza. E´<br />

probabile che a quel tempo, nella sfera d´influenza di queste circoscrizioni diocesane, fossero rientrate le<br />

zone di Arco, Riva, ed altre nella parte più a sud del Trentino, come le Giudicarie sul versante bresciano; è<br />

altrettanto ipotizzabile che l´esternazione effettuata <strong>da</strong> Vigilio avesse potuto sottindendere ad un suo<br />

progetto per ampliare i confini della diocesi di Trento, includendo anche questi ambiti geografici.<br />

A giudicare <strong>da</strong>lla testimonianza che ci fornisce la Passio, la struttura della Chiesa era caratterizzata <strong>da</strong> un<br />

notevole accentramento organizzativo ed amministrativo, secondo la caratteristica tipica dell<br />

30


´organizzazione ecclesiale paleocristiana. Quasi tutte le competenze facevano capo al vescovo, e la sua<br />

figura appariva dominante. La comunità cristiana era d´altra parte, a quei tempi, ancora di dimensioni molto<br />

piccole e il vescovo appariva come l´unica persona dotata degli strumenti giuridico-ecclesiastici atti a<br />

svolgere un´azione veramente pastorale. Al contrario, la sfera d´azione dei suoi uomini di fiducia, i diaconi<br />

posti a presidio delle singole comunità, risulterebbe alquanto limitata.<br />

Il martirio di San Vigilio in Val Rendena e la lunga ricerca delle sue reliquie<br />

Tutta l´opera di apostolato di Vigilio si dimostrò in pochi anni realmente incisiva sull´intera regione<br />

<strong>trentina</strong>, non solo per quanto svolto <strong>da</strong> lui personalmente, ma anche per l´aver posto egli delle concrete<br />

fon<strong>da</strong>menta sulle quali potevano avere seguito gli interventi dei suoi successori. Immediatamente dopo la<br />

scomparsa del vescovo, il suo messaggio si diffuse con rapidità ancora maggiore tra i confini della diocesi,<br />

<strong>da</strong>ndo avvio ad un processo di cristianizzazione molto profondo, destinato a rivelarsi come una delle<br />

particolarità più caratteristiche del nostro patrimonio culturale.<br />

Vigilio morì in Val Rendena, dove venne lapi<strong>da</strong>to per aver osato abbattere in pubblico una statua di<br />

Saturno, uno dei simboli più tradizionali dell´antico paganesimo. E´ utile a questo propo<strong>sito</strong> accennare al<br />

contesto storico nel quale avvenne la morte del santo. Pochi anni prima di questo episodio, nel 394, l<br />

´imperatore romano d´Oriente Teodosio e il guerriero franco Arbogaste, che si era impadronito delle sorti<br />

della parte occidentale dell´Impero e che aveva tentato di riportare gli antichi culti pagani al rango di<br />

religione ufficiale, si erano scontrati in una battaglia che aveva visto vittorioso l´esercito di Teodosio ed<br />

avrebbe a lungo scoraggiato qualunque altro sforzo di sostituire il cristianesimo con altre confessioni<br />

religiose. La risoluta presa di posizione a favore della religione cristiana <strong>da</strong> parte dell´imperatore d´Oriente,<br />

che tre anni prima aveva dichiarato il cristianesimo religione ufficiale dell´Impero con una decisione che<br />

non aveva avuto precedenti nemmeno all´inizio del secolo sotto Costantino, era stata caldeggiata proprio <strong>da</strong><br />

Sant´Ambrogio. Costui si era rivelato dunque come il protagonista assoluto, in questi anni, sia dell<br />

´affermazione del cristianesimo, sia dell´emergere del primato del potere spirituale su quello temporale.<br />

Tuttavia, la vittoria della nuova confessione sul piano politico necessitava ancora, per potersi tradurre su<br />

quello della concreta attuazione, di una vasta opera di evangelizzazione presso le popolazioni locali, la cui<br />

vita era ancora fortemente contrassegnata <strong>da</strong>ll´influenza dei riti antichi, rafforzatisi di generazione in<br />

generazione. Ecco perché la missione di Vigilio quale vescovo di Trento e particolarmente quella<br />

conclusiva in Val Rendena, che gli costò la vita, incontrò ancora vigorose resistenze <strong>da</strong> parte degli abitanti.<br />

Le sue reliquie sono attualmente riposte in Cattedrale. E´ spesso raffigurato insieme al simbolo dello<br />

zoccolo, a ricordo della sua lapi<strong>da</strong>zione. Alcuni studiosi hanno ricostruito la <strong>da</strong>ta precisa del suo martirio,<br />

che è stata indicata nel 26 giugno del 400 (secondo alcuni esperti l´anno era il 405), <strong>da</strong>ta che nel nostro<br />

attuale calen<strong>da</strong>rio coincide appunto con la celebrazione di San Vigilio quale patrono di Trento. Il martirio<br />

del vescovo avvenne durante l´anno consolare di Stilicone, il coraggioso e sagace generale che assumendo<br />

la tutela del giovane imperatore Onorio aveva retto le sorti dell´Italia nel periodo in cui le minacce del<br />

visigoto Alarico incombevano sulla penisola: pochi anni dopo, esse sarebbero culminate nel celebre sacco<br />

di Roma del 410.<br />

Le reliquie di San Vigilio sono state oggetto di studi approfonditi. Più volte e nel corso di epoche diverse si<br />

è proceduto all´esame dei suoi sacri resti, in particolare dopo che esse vennero poste nella Cattedrale<br />

progettata <strong>da</strong> Federico di Vanga ed edificata per gran parte <strong>da</strong>i suoi successori. La riesumazione delle<br />

spoglie del santo ebbe luogo sotto gli episcopati di Alberto di Ortenburg (1368), Carlo Gaudenzio<br />

Madruzzo (1629), Francesco Felice Alberti d´Enno (1759), Benedetto Riccabona (1868), Celestino Endrici<br />

(1922 e 1939) ed Alessandro Maria Gottardi (1977).<br />

Il nome di questo vescovo è associato alla celebre «arca» di San Vigilio, una struttura costruita in marmo<br />

preziosamente decorata, che per qualche secolo custodì il corpo del santo, e che sul bordo superiore riporta<br />

un´epigrafe riferita a San Vigilio e ai martiri della Valle di Non.<br />

Evangelizzazione del territorio rurale<br />

È fortemente diversificata nell’epoca tardo-romana la condizione sociale, politica ed economica della civitas<br />

rispetto a quella del territorio rurale. Così, quando, come in tutta l’area mediterranea, si verificò il fenomeno<br />

che vede nascere un vescovo in un centro urbano municipale, non è detto per niente che il retroterra delle<br />

valli e delle campagne sia automaticamente evangelizzato. Nel caso di Trento proprio le due lettere di Vigilio<br />

<strong>da</strong>nno in propo<strong>sito</strong> un quadro in comparazione con il rimanente territorio. L’Anaunia, che certo non figura<br />

31


come la più sperduta e arretrata delle valli trentine, era ancora integralmente pagana. Il primo annuncio<br />

evangelico vi viene riportato <strong>da</strong> tre missionari " forestieri per religione e per stirpe venuti a predicare un dio<br />

ignoto". La loro provenienza richiama ancora una volta l’appoggio del retroterra milanese. Infatti il biografo<br />

di S. Ambrogio qualifica i tre missionari martiri come "fratelli" e "soci" nell’attività di quel presule, facendo<br />

pensare ad una loro prima attività pastorale nella capitale lombar<strong>da</strong>, dove s’erano riuniti a vivere una<br />

professione ascetica e religiosa. Così Vigilio, trasmettendo al successore di S. Ambrogio le reliquie dei tre<br />

missionari uccisi nell’anno 397, dichiarava espressamente di restituire al vescovo di Milano un bene avuto in<br />

prestito. Pur con queste premesse è evidente che l’azione missionaria in Anaunia è impresa di Vigilio, tutta<br />

ispirata e diretta <strong>da</strong>l Pastore della città episcopale. Dei tre missionari le due lettere vigiliane tracciano un<br />

fervido ritratto personale, sul quale non è ora il caso di soffermarsi, ma nel contempo delineano anche alcuni<br />

tratti istituzionali che tratteggiano molto bene questo inizio di evangelizzazione.<br />

C’è sicuramente un impulso di volontariato personale nei tre araldi della fede, pur così diversi fra loro.<br />

Sisinio, già anziano, contribuisce anche con propri beni patrimoniali al finanziamento della missione. Ma nel<br />

contesto della chiesa locale i tre sono ingaggiati con precisi incarichi di servizio: Sisinio come diacono,<br />

Martirio come lettore, Alessandro come ostiario. Si evidenzia così la struttura della chiesa diocesana<br />

dell’epoca di S. Vigilio. Essa è molto accentrata sul vescovo, al quale è riservato l’ufficio supremo<br />

sacerdotale, con la presidenza dell’eucarestia e la gestione del regime penitenziale comunitario. Si evidenzia<br />

nel contempo la struttura delle comunità minori che vivono dell’ascolto della parola di Dio e si qualificano<br />

per frequenti riunioni in cui si compie la pubblica e comune preghiera dei credenti. Queste comunità avevano<br />

una struttura ministeriale molto diversa <strong>da</strong> quella delle parrocchie odierne, ma non mancavano di una loro<br />

ricchezza spirituale e di una soli<strong>da</strong> formazione cristiana.<br />

Le lettere di S. Vigilio attestano in modo molto esplicito quello che fu lo spirito e lo stile della sua missione.<br />

È noto che l’Impero Romano lungo il secolo IV, pur fra molte vicissitudini contraddittorie, era an<strong>da</strong>to<br />

gra<strong>da</strong>tamente abbandonando il suo legame istituzionale con il paganesimo e, con l’editto dell’imperatore<br />

Teodosio del 392, aveva assegnato al Cristianesimo il ruolo di religione dello Stato. Si sa inoltre che in<br />

quell’epoca non mancavano ecclesiastici e laici zelanti e devoti all’autorità imperiale e fautori di tendenze<br />

integraliste che si credevano in dovere di esercitare pressione e anche violenze sul popolo per accelerare la<br />

conversione. Il vescovo Martino di Tours è abbastanza lo<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l suo biografo per l’energia spettacolare con<br />

cui ha affrontato il paganesimo delle campagne in Gallia. Il vescovo Massimo di Torino interpreta e lo<strong>da</strong> in<br />

questa prospettiva anche l’attività dei tre martiri di Anaunia.<br />

Ma la documentazione <strong>trentina</strong> dimostra che non fu questa la linea missionaria di Vigilio. Ad essa rimane<br />

estraneo ogni cenno di evangelizzazione aggressiva. Vi si esalta invece il valore dell’accoglienza, della<br />

dedizione totale, dell’opera paziente, del lavoro di convinzione in cui si consumarono i missionari, <strong>da</strong>l primo<br />

all’ultimo giorno. Esiste perfino una controprova esterna di questo atteggiamento. Sant’Agostino, in Africa,<br />

qualche anno più tardi, riferisce quello che fu il <strong>tratta</strong>mento riservato agli assassini dei missionari di<br />

Anaunia, già catturati e destinati per legge a subire la pena capitale. Per intercessione dei cristiani essi furono<br />

invece graziati <strong>da</strong>ll’imperatore Onorio, evitando che la morte dei martiri venisse profanata con l’esecuzione<br />

capitale dei loro uccisori. Naturalmente un’opera di conversione che rinunzi così radicalmente ad ogni forma<br />

di pressione non ha molte prospettive di rapido successo. Così, al di là di qualche espressione generica, tutto<br />

fa pensare che l’effettiva opera di cristianizzazione delle campagne e delle valli fosse più lenta e graduale di<br />

quanto solitamente si afferma. Anche l’Anaunia come le altre terre dell’area <strong>trentina</strong>, tar<strong>da</strong> almeno un secolo,<br />

prima di offrire elementi epigrafici certi della presenza dei cristiani.<br />

Indubbiamente il metodo vigiliano di espansione missionaria era più a<strong>da</strong>tto al modello sociale della città,<br />

dove l’imposizione risulta controproducente e l’opera di convinzione rimane fon<strong>da</strong>mentale nel persuadere la<br />

popolazione. Bisogna anche dire che Vigilio usava un metodo antiquato, proprio dei tempi in cui nessuno<br />

veniva forzato a diventare cristiano, quando le persecuzioni cercavano di impedire la conversione piuttosto<br />

che favorirla. Quella delle campagne procede invece per vie più grossolane. La religiosità rurale è fortemente<br />

soggetta a motivazioni utilitaristiche. Il culto degli dei viene praticato come elemento di garanzia per i<br />

prodotti del suolo e di protezione per la salute e la fecondità del bestiame domestico. Non si cambia<br />

religione, se non si è convinti che la nuova divinità è altrettanto efficiente nel garantire questi effetti benefici.<br />

E quando tale persuasione dilaga, la conversione diventa endemica e assume forme di costrizione sociale.<br />

Certamente anche i missionari dovettero a<strong>da</strong>ttarsi a questo nuovo metodo, meno razionale ma più efficace.<br />

Se l’ager Tridentinus, cioè il territorio rurale appartenente al municipio di Trento, si estendeva oltre Bolzano<br />

(mentre non comprendeva la Vallagarina, le Giudicarie e la Valsugana), la distanza verso altri centri<br />

municipali al Nord era sconfinata e si confrontava casomai con l’area di influenza delle civitates di Coira e di<br />

32


Augusta nella Rezia e di quella della norica Aguntum presso Lienz, in Valle della Drava. Una civitas che<br />

fungeva pur sempre <strong>da</strong> centro di espansione missionaria aveva dunque dietro di sé un grande retroterra non<br />

urbanizzato, per il quale doveva affermarsi e prevalere inevitabilmente un modello culturale e organizzativo<br />

diverso.<br />

È questa esattamente la situazione che, a più di un secolo <strong>da</strong>i tempi di S. Vigilio, gli Atti descrivono nel<br />

ricor<strong>da</strong>re la sua vita. La civitas, come centro e cuore dell’attività missionaria, è sempre in piena efficienza.<br />

L’evangelizzazione del territorio è già compiuta ed è considerata fulminea. Sono sorte oltre 30 chiese nei<br />

territori di pertinenza già veronese e bresciana, il metodo missionario è divenuto travolgente e aggressivo, si<br />

profilano anche i termini di una circoscrizione diocesana che pone dei confini geografici al posto di quelle<br />

che prima erano solo linee di espansione missionaria. Tutto questo è ormai realtà all’epoca della<br />

composizione degli Atti. È prevalentemente leggen<strong>da</strong> quando lo si attribuisce all’epoca di S. Vigilio;<br />

basterebbe a provarlo la figura del vescovo ventenne, o la fama di taumaturgo che gli attribuiscono gli Atti e<br />

che egli non ha certo sollecitato né favorito.<br />

Santi e santuari<br />

Le due lettere di Vigilio contengono molti <strong>da</strong>ti di cronaca, ma sono principalmente un documento di<br />

canonizzazione dei tre missionari uccisi <strong>da</strong>i pagani in Anaunia. Nel leggerle, occorre tener conto del modo<br />

come nasceva e si strutturava a quel tempo il culto dei santi. Esso sorgeva ad opera delle singole chiese ed<br />

era strettamente localizzato. Ogni chiesa aveva i suoi martiri e santi propri e li venerava non dovunque, ma<br />

nel luogo contrassegnato <strong>da</strong>lla loro sepoltura. Il vescovo Vigilio, più che ordinare con un decreto disciplinare<br />

il culto <strong>da</strong> attribuire ai tre missionari uccisi, tende a esplicitare le ragioni profonde che nella loro uccisione<br />

fanno vedere dimensioni ben più alte che quelle di un incidente banale e tragico. Ciò che nella loro vicen<strong>da</strong><br />

traspare è l’identificazione dei martiri con la dedizione suprema di Cristo, nel mistero della sua morte e della<br />

sua risurrezione. Questo si è manifestato in un momento concreto e in un luogo preciso della presente società<br />

umana. Ed è il motivo per cui la comunità intera venera e assume come propria la loro memoria. Il titolo di<br />

martire che viene così attribuito è essenzialmente un titolo cultuale, che tende a dimostrare, più che la<br />

materialità dell’uccisione, il valore e l’onore intrinseco dell’atto, l’affiorare di un momento salvifico che nel<br />

fatto è contenuto. La ragione del culto è tutta qui. Rispetto a questa categoria di canonizzazione che in<br />

termini tecnici si esprime come imitatio, cioè assimilazione imitativa di Cristo, Vigilio sembra quasi<br />

dimenticare l’altro elemento che si suol considerare oggi tanto importante per i santi, cioè la intercessio, la<br />

loro capacità di operare. Difatti neppure un miracolo narra Vigilio dei santi che canonizza! Al culto dei santi<br />

dell’epoca antica appartiene essenzialmente il sepolcro. Perciò la ricerca della sua localizzazione è<br />

estremamente importante. La testimonianza degli Atti di S. Vigilio diventa a questo propo<strong>sito</strong> risolutiva.<br />

Nella Trento del VI secolo esiste in area cimiteriale fuori delle mura una costruzione memoriale ossia di<br />

ricordo, dove riposano i corpi dei tre martiri. L’autore degli Atti la denomina con un termine speciale,<br />

distinto <strong>da</strong> quello che designa la ecclesia urbana localizzata all’interno delle civiche mura, dove il vescovo<br />

risiede, presiede la liturgia domenicale ed esercita la sua attività pastorale ordinaria. L’edificio fuori delle<br />

mura invece è chiamato basilica, con un termine già usato <strong>da</strong> S. Vigilio quando enunciava la sua intenzione<br />

di erigere sul luogo dell’uccisione dei martiri un sacello commemorativo. Il nome sta ad indicare una<br />

funzione distinta di culto, rispetto a quella della ecclesia, appunto il culto che si esprime nella visita<br />

devozionale sul luogo dei santi, con i caratteristici atti di ossequio che hanno il loro momento saliente nel<br />

dies natalis, cioè nel giorno anniversario della loro morte o della loro traslazione.<br />

Tutto questo ha un valore indicativo anche sull’origine del culto di S. Vigilio stesso, che non ha a suo<br />

vantaggio documenti così belli come quelli che egli aveva pubblicati per il culto dei tre martiri. Lo stesso<br />

testo degli Atti accerta che nella basilica, fuori Porta Veronese, si venerava con solenne culto anche il suo<br />

sepolcro. Una sepoltura accanto ai martiri era molto apprezzata e ricercata <strong>da</strong> tutti nell’antichità cristiana.<br />

Qui tuttavia c’è qualcosa di più e si collega ancora una volta al modello di S. Ambrogio. Si sa infatti che<br />

Ambrogio, mentre stava costruendo poco fuori le mura di Milano la basilica che ancor oggi porta il suo<br />

nome, rinvenne, in un cimitero discosto, i corpi di due martiri dell’ultima persecuzione, Protaso e Gervaso, e<br />

nell’anno 386 li trasferì solennemente nella basilica che stava costruendo, facendosi poi seppellire accanto a<br />

loro. Qualcosa di analogo successe qualche anno prima a Vercelli, quando il veneratissimo vescovo Eusebio<br />

fu sepolto anche nella basilica che quello stesso sant’uomo aveva un tempo fatto costruire accanto alle<br />

spoglie di un martire orientale, Teonesto, che egli aveva portato con sé al ritorno <strong>da</strong>l suo lungo esilio. Sono<br />

questi i modelli con cui si va costruendo in quegli anni il culto di grandi vescovi che hanno lasciato una<br />

nobile impronta e un ricordo di venerazione nella loro chiesa. La canonizzazione di Vigilio è avvenuta<br />

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mediante una associazione, anche materiale, delle sue spoglie a quelle dei martiri <strong>da</strong> lui gui<strong>da</strong>ti e glorificati,<br />

con una operazione che anche la generazione odierna può riconoscere moralmente vali<strong>da</strong> e significativa. Le<br />

sue due lettere attestano una comunione di intenti e una associazione spirituale con loro, che non potrebbe<br />

essere più intensa.<br />

Sta di fatto che, <strong>da</strong> allora in poi, il culto di Vigilio viaggia per il mondo insieme a quello dei tre martiri:<br />

reliquie dei quattro santi trentini si venerano nella chiesa di S. Andrea a Ravenna verso la metà del secolo<br />

VI; lo stesso gruppo, con Vigilio denominato confessor, si riscontra a Verona, presso la chiesa di Sant’Elena,<br />

verso la metà del secolo IX; nel 1027 il diploma dell’Imperatore Corrado II conferma i diritti di contea "alla<br />

santa chiesa di Trento nella quale riposano i preziosi corpi santi dei martiri Vigilio, Sisinio, Martirio e<br />

Alessandro". Vigilio, dunque, si trova associato anche nella qualifica cultuale di martire, <strong>da</strong>lla quale si è<br />

generata la leggen<strong>da</strong> del suo martirio in Rendena, ricalcata un po’ sui moduli del martirio di Anaunia del<br />

397. Si è <strong>tratta</strong>to ovviamente di una copia deteriore, perché la figura aggressiva del Vigilio che abbatte<br />

l’idolo di Rendena e guar<strong>da</strong> in modo truce i suoi uccisori è molto diversa <strong>da</strong> quell’ autoritratto che egli dà di<br />

se stesso nelle Lettere.<br />

I recenti scavi sotto il Duomo di Trento hanno largamente confermato il quadro sopra esposto. Resti cospicui<br />

di una grande basilica cimiteriale del VI secolo attestano ampiamente l’esistenza di una costruzione di tipo<br />

martiriale, occupata <strong>da</strong> un sistema unitario di tombe impostate sulle coordinate dell’antica sepoltura dei santi.<br />

Le ultime in<strong>da</strong>gini sulla struttura dell’edificio stanno evidenziando fasi costruttive più antiche che potrebbero<br />

riportare agli inizi del V secolo il primo impianto di un’aula cultuale di grandi proporzioni. La<br />

trasformazione in chiesa cattedrale negli anni intorno al 1000 e la sostituzione totale dell’antico edificio con<br />

l’attuale Duomo duecentesco, non dovrebbero far dimenticare questo santuario insigne dei martiri trentini,<br />

unico nel suo genere per lungo tratto dell’area alpina.<br />

Dei successori di S. Vigilio fino al vescovo Eugippio, ricor<strong>da</strong>to nell’iscrizione pavimentale del Doss Trento e<br />

<strong>da</strong>tabile intorno all’anno 520, si possiedono solo i nomi, grazie al solito catalogo del secolo XI. I primi due,<br />

Claudiano e Magorio, sono citati come fratelli di S. Vigilio negli Atti semi-leggen<strong>da</strong>ri. Ciò potrebbe indicare<br />

forse una successione entro l’orbita familiare di colui che gli Atti stessi descrivono "cittadino di Trento, di<br />

stirpe romana". Ma ormai manca il confronto con le fonti validissime della prima serie. Ed ogni congettura<br />

diventa sfuggente.<br />

Il Trentino dopo la caduta dell'impero romano. Goti e Longobardi di Gianfranco Granello<br />

Il regno dei Goti<br />

Dopo l’ingloriosa deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’Italia divenne in teoria una provincia<br />

dell’Impero d’Oriente, in pratica terra d’occupazione barbarica. Odoacre aveva restituito a Costantinopoli le<br />

insegne imperiali, assumendo il titolo di "rex barbarorum" e chiedendo vanamente di essere considerato<br />

governatore della diocesi d’Italia con dignità di patrizio. Il governo bizantino continuò invece a riconoscere<br />

fino al 480, quando morì, il vecchio ex imperatore d’Occidente Giulio Nepote, esule in Dalmazia <strong>da</strong>l 475.<br />

Sconfitto ed ucciso a tradimento Odoacre nel 493 <strong>da</strong>ll’invasore Teodorico con i suoi Ostrogoti, la penisola fu<br />

<strong>da</strong>pprima staccata <strong>da</strong>ll’Impero anche formalmente e si costituì un regno gotico che durò fino alla riconquista<br />

bizantina (553). Nel 498 tuttavia si ebbe una pacificazione tra il re goto e l’imperatore Anastasio per la quale<br />

venne nuovamente riconosciuta l’alta sovranità formale dell’Impero e Teodorico accettò di essere vassallo<br />

per quanto riguar<strong>da</strong>va il governo della popolazione latina: le cariche civili furono riservate ai Romani, quelle<br />

militari ai Goti, vennero mantenute le strutture amministrative e politiche preesistenti (anche il Senato), le<br />

mo<strong>net</strong>e portavano <strong>da</strong> un lato l’immagine dell’imperatore, <strong>da</strong>ll’altro il monogramma del re, che si era<br />

circon<strong>da</strong>to di consiglieri romani tentando di mantenere le due popolazioni in pacifica convivenza, ma<br />

<strong>net</strong>tamente distinte nelle tradizioni e nelle norme giuridiche. I tribunali erano distinti, le cause miste avevano<br />

giudici delle due stirpi in numero pari, le scuole erano divise, i matrimoni misti erano proibiti e così via. I<br />

tributi invece venivano in pratica a gravare quasi totalmente sulla popolazione romana. Inoltre il re si limitò<br />

ad emanare editti, anziché leggi; queste erano prerogativa del solo imperatore, quelli erano consentiti ai<br />

funzionari imperiali nell’ambito delle proprie giurisdizioni e dei propri poteri delegati.<br />

Nel Trentino in questi decenni si erano succedute orde di invasori <strong>da</strong> nord e <strong>da</strong> est lungo le direttrici<br />

classiche dell’Adige e della Brenta: riportata la pace ed instaurato il regno ostrogoto, Trento divenne un<br />

caposaldo della difesa delle valli alpine <strong>da</strong> possibili incursioni od attacchi barbarici d’oltralpe ed avamposto<br />

fon<strong>da</strong>mentale del nodo cruciale di Verona.<br />

Nel 493 avvenne anche uno scontro tra barbari ribelli, all’interno della guerra tra Teodorico ed Odoacre,<br />

34


lungo l’Adige tra Trento e Verona.<br />

L’importanza di Trento e della sua valle anche in epoca tardo-imperiale è confermata <strong>da</strong> un passo dello<br />

storico romano Ammiano Marcellino, nel quale si narra che il 29 maggio del 357 l’imperatore Costanzo si<br />

diresse <strong>da</strong> Roma verso le province illiriche per contrastare gli attacchi sul Danubio, passando per Trento. Il<br />

tragitto più logico sarebbe stato lungo la direttrice di Aquileia, ma risalendo l’Adige l’imperatore poteva<br />

rendersi conto della situazione delle Rezie e del Norico e seguendo la val Pusteria entrare egualmente nelle<br />

province orientali.<br />

Anche le popolazioni montane già romanizzate non erano molto tranquille se nelle Variae (lettere, editti,<br />

decreti dei re goti stesi e raccolti <strong>da</strong>l loro ministro romano Cassiodoro), tra il 507 e il 511 c’è un invito al<br />

governatore (dux) delle Rezie ad intervenire per bloccare le incursioni e le razzie dei Breuni, abitanti il<br />

versante alpino meridionale a ridosso del territorio tridentino, contro inermi proprietari locali.<br />

In questa prospettiva è <strong>da</strong> vedere il significato della contemporanea lettera di Teodorico ai cittadini di Trento,<br />

nella quale il re invita la popolazione a costruire edifici di rifugio in caso di pericolo sul Doss Trento<br />

(Verruca), già fortificato e descritto come luogo a<strong>da</strong>ttissimo alla difesa e chiave della provincia italica, anche<br />

se viene affermato esplicitamente che la Ve<strong>net</strong>ia è sicura e pienamente in pace.<br />

Il colle aveva del resto un peso rilevante nella vita della città di quei tempi, tanto che vi sorgeva anche una<br />

chiesa (forse già nel V secolo) con una cappella esterna dedicata ai ss. Cosma e Damiano, eretta <strong>da</strong>l vescovo<br />

Eugippio intorno al 530.<br />

La popolazione era già mista, composta <strong>da</strong>lle due stirpi e fedi (la lettera è indirizzata ad ambedue le<br />

comunità), con chiese cattoliche e chiese ariane, come può far intuire un’altra delle Variae, sempre tra il 507<br />

ed il 511, relativa ad un prete goto di Trento.<br />

Lo stesso valore ha pure l’altra famosa lettera ai possidenti feltrini del 523/526, nella quale li si invita a<br />

collaborare alla costruzione di una città nella "regione tridentina", e quindi a concorrere alle spese dei lavori<br />

perché confinanti, in quanto per la povertà e la scarsa estensione del territorio i tridentini non ne possono<br />

sostenere l’impegno.<br />

Ne resta un ricordo nella mascherata cittadina dei "Ciusi e dei Gobi", ove i feltrini rubano, o tentano di<br />

rubare, le vettovaglie, cioè la polenta, ai trentini.<br />

L’invito ha suscitato tra gli studiosi prese di posizione a favore sia della fon<strong>da</strong>zione di una nuova città, sia<br />

semplicemente della costruzione delle mura cittadine, come era stato per Verona, molto cara a Teodorico.<br />

Verosimilmente si trattò del rafforzamento o della realizzazione di un centro fortificato per proteggere e<br />

difendere la popolazione, distinto <strong>da</strong>l capoluogo (che altrimenti sarebbe stata citato) ma non lontano, forse in<br />

direzione della Valsugana, ma anche a settentrione della città (alle "Navi" di Lavis? logico avamposto e<br />

difesa <strong>da</strong>gli attacchi <strong>da</strong> nord) e probabilmente mai realizzato. Potrebbe però <strong>tratta</strong>rsi anche del<br />

completamento delle stesse fortificazioni od opere murarie sul Doss Trento: non è improponibile il fatto che i<br />

lavori siano durati a lungo e siano proceduti con lentezza per le difficoltà economiche che indussero il re a<br />

scrivere ai proprietari feltrini e per le ricorrenti carestie, tanto che la popolazione fu esonerata anche <strong>da</strong>l<br />

pagamento dei tributi.<br />

La lettera pone anche un altro interrogativo: qual era il confine del territorio verso oriente lungo il fiume<br />

Brenta.<br />

Comunemente accolta è la convinzione che in epoca romana il municipium feltrino giungesse a ridosso di<br />

quello tridentino, appartenendo la popolazione del primo alla gens Menenia e quella del secondo alla Papiria,<br />

e si fermasse a poche miglia <strong>da</strong>lla città. Anche le ripartizioni ecclesiastiche ripetevano tale situazione, ma<br />

probabilmente non per ragioni amministrative, bensì per diritti di evangelizzazione, giunta in Valsugana <strong>da</strong><br />

est anziché <strong>da</strong>lla val d’Adige, tanto che il confine tra le due diocesi non fu mai contestato e rimase invariato<br />

fino al 1786. Con la prima dominazione barbarica verosimilmente le cose non cambiarono e la lettera di<br />

Teodorico ci fa supporre ragionevolmente che i possessori feltrini citati fossero i valsuganotti, i più vicini a<br />

Trento ed alla valle atesina (passaggio obbligato degli eventuali incursori <strong>da</strong> nord), ed abitanti un vicino<br />

rifugio per chi di là fuggiva.<br />

Non si può tuttavia rifiutare a priori la possibilità sostenuta <strong>da</strong> qualche studioso che l’ipotetica cittadella<br />

fortificata fosse in piena Valsugana: forse addirittura presso quell’Alsuca ricor<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>lle fonti nel 590 e che<br />

viene identificata con Borgo. In questo caso già con i Goti la valle sarebbe passata (almeno in parte) sotto il<br />

governo di Trento ed in realtà l’importanza di Feltre in epoca barbarica, e specialmente con i Longobardi, si<br />

ridusse molto, indebolita come fu <strong>da</strong>ll’abbandono del tratto montano della via Claudia Augusta Altinate a<br />

favore del più facile, anche se soggetto alle piene del fiume, percorso di fondovalle, ancor oggi asse portante<br />

del traffico tra la pianura ve<strong>net</strong>a sud-orientale e il nord. Impossibile è tuttavia verificare l’ipotesi (poco<br />

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probabile comunque) e l’eventuale confine, stante anche l’estrema povertà di testimonianze gote. Proprio in<br />

Valsugana rimarrebbe un ricordo della loro presenza nel toponimo Andrigo nel comune di Torcegno, che si<br />

affiancherebbe ad An<strong>da</strong>lo, Dasindo, Ingenga (presso Rabbi) nel resto della provincia.<br />

A settentrione invece i Goti occupavano l’intera valle dell’Adige e la val d’Isarco, ove un loro relitto<br />

linguistico potrebbe essere il toponimo Gossensass (Colle Isarco), ma anche i versanti settentrionali delle<br />

Alpi ove le spinte franche e germane erano tenute a ba<strong>da</strong> <strong>da</strong>l dux delle Rezie, inserite a pieno titolo nel regno<br />

d’Italia ed il cui governo militare era probabilmente a Coira, capitale dell’attuale cantone svizzero dei<br />

Grigioni.<br />

Dopo la scomparsa di Teodorico nel 526 (ricordo di passaggio la memoria che ne è rimasta nella tradizione e<br />

nelle leggende alpine e trentine, riscontrabile persino nella figura silvana del Beatrìco, gigantesco cacciatore<br />

selvaggio, molto temuto, che si aggira a cavallo nei boschi seguito <strong>da</strong> una muta di cani famelici), le lotte<br />

all’interno dello Stato, le frizioni tra Romani e Goti, la ripresa della spinta bizantina per il recupero delle<br />

terre d’Occidente, la crescente forza dei Franchi, portarono ad un periodo di instabilità prima e di guerra poi.<br />

La corte di Costantinopoli aveva solo sopportato il regno di Teodorico. Salito al trono Giustiniano (527-565),<br />

si cominciò a preparare la riscossa per ricostruire l’Impero nella sua grandezza e nella sua dignità, sia ad<br />

oriente sia ad occidente.<br />

Contro i Goti i Bizantini si mossero inizialmente conquistando la Sicilia e la Dalmazia ed ingiungendo a re<br />

Teo<strong>da</strong>to di riconoscere anche nei fatti l’alta sovranità dell’Impero, mentre Belisario, coman<strong>da</strong>nte della<br />

spedizione, risaliva la penisola fino a Roma, che gli aperse le porte nell’aprile 536. Sull’on<strong>da</strong> degli<br />

avvenimenti il re fu deposto e sostituito con Vitige, che cercò subito alleanze con i Franchi. Nel 540<br />

Belisario riuscì ad occupare la stessa capitale del regno, Ravenna, e prendere prigioniero Vitige. La guerra<br />

tuttavia continuò e re Totila tra il 542 ed il 548 riconquistò gran parte delle terre perdute. In una sanguinosa<br />

battaglia svoltasi a Tagina in Umbria nel 552, i Goti subirono però una gravissima sconfitta e lo stesso re<br />

perdette la vita. Il suo successore, Teia, tentò un’ultima difesa tra Napoli e Salerno: lo scontro fu<br />

violentissimo e lungo, ma dopo due giorni di lotta i Goti furono sbaragliati ed il loro regno distrutto.<br />

Pesanti furono le calamità che accompagnarono questa lunga guerra, nella quale pestilenze, carestie,<br />

saccheggi, devastazioni, stragi portarono allo stremo molta parte della popolazione, e non ne fu esente la<br />

regione tridentina, ove come nel resto d’Italia si ebbe pure una gravosissima carestia tanto che nel 535-536 il<br />

governo di Teo<strong>da</strong>to fu costretto a distribuire a prezzo politico derrate alimentari tolte <strong>da</strong>i magazzini<br />

provinciali, tra i quali era Trento, e sulla quale si abbattè anche l’incursione alamanna del 536 (sotto il re<br />

Vitige), e che vide poi l’occupazione, a partire <strong>da</strong>l 539-40, delle valli alpine e forse dell’intera valle<br />

dell’Adige <strong>da</strong> parte dei Franchi (conseguenza degli accordi di alleanza con Vitige?), che furono ricacciati <strong>da</strong>i<br />

Bizantini solo nel 556, dopo la fine della guerra gotica, con l’aiuto degli stessi vinti, mentre un’altra discesa<br />

di Alamanni misti a Franchi e Goti ribelli portava rovine fino al sud della penisola e venne respinta e le<br />

truppe barbariche distrutte solo dopo vari mesi. La fine dell’avventura si ebbe nella zona del Gar<strong>da</strong> tra<br />

Verona e Trento con la morte (naturale) dell’ultimo loro capo.<br />

Rottura secolare dell'unità della penisola<br />

La restaurazione dell'Impero non portò, come si sa, ad una pace durevole. Tra l'altro i Bizantini non si<br />

preoccuparono di rafforzare adeguatamente i confini settentrionali, abbandonando la politica di Teodorico,<br />

forse non valutando appieno il pericolo franco e baiuvaro, che portò ben presto alla perdita del controllo dei<br />

valichi alpini e il conseguente arretramento dei confini.<br />

Nel 568-569 un nuovo popolo, i Longobardi, pe<strong>net</strong>rò in Italia. Un piccolo popolo, che forse all'inizio<br />

pensava solo di occupare uno spazio lontano <strong>da</strong>gli Avari che erano giunti in Pannonia, alleati scomodi e<br />

pericolosi, con i quali patteggiarono un eventuale ritorno qualora l'invasione in Italia fosse stata respinta <strong>da</strong>i<br />

Bizantini (che s'erano serviti anche di loro truppe per sconfiggere i Goti). Erano con loro Gepidi, Sarmati,<br />

Svevi, Norici, Pannoni, Sassoni. Il numero dei migranti non superava comunque le trecentomila persone,<br />

compresi vecchi, bambini e donne.<br />

L'iniziale facilità della conquista può essere spiegata con la scarsa presenza di armati bizantini (in parte<br />

rientrati in Oriente dopo la guerra ed impegnati sui fronti asiatici) e la conseguente scelta militare di<br />

difendere le città più importanti e strategicamente utili o di ritirarsi lungo le coste in attesa di riprendere la<br />

lotta di riconquista con gli aiuti in arrivo <strong>da</strong>l mare, e quella politica di suscitare nemici ai nuovi arrivati negli<br />

altri popoli barbari, in primo luogo i Franchi, ed all?interno degli stessi invasori, favorendo trame e<br />

tradimenti che portarono ad esempio all'uccisione di re Alboino nel 572 e del successore Clefi nel 574, dopo<br />

il quale il trono rimase vacante per dieci anni.<br />

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Nel 584, per opporsi al pericolo incombente e gravissimo della reazione bizantina che sotto l'imperatore<br />

Maurizio stava facendosi sempre più pressante ed energica, i duchi decisero di rieleggere un re (Autari, figlio<br />

di Clefi) che coordinasse la lotta per la sopravvivenza e stabilirono di cedergli la metà delle loro sostanze per<br />

la creazione di un demanio regio che potesse sostenere la corte e la burocrazia necessaria ad un governo<br />

forte.<br />

Gli sforzi bizantini raggiunsero solo risultati temporanei e parziali e l?invasione longobar<strong>da</strong> portò alla rottura<br />

dell?unità italiana che durerà fino al Risorgimento, <strong>da</strong>ndo sostanza ad una nuova era storica con il reale<br />

tramonto definitivo del mondo romano imperiale.<br />

All?inizio del VII secolo i Bizantini occupavano coste ve<strong>net</strong>e, Liguria, Calabria (= Puglia centromeridionale),<br />

Bruzio (= Calabria) , Napoli, isole, esarcato e ducato romano uniti <strong>da</strong>lle due pentapoli,<br />

marittima (Marche) e annonaria (Umbria), gli invasori erano sal<strong>da</strong>mente insediati nel settentrione, in Tuscia<br />

e negli amplissimi ducati di Spoleto e Benevento.<br />

I Longobardi non entrano in Italia come federati o alleati, né pieni di reverenza per l'idea imperiale, non<br />

chiedono ospitalità, non doman<strong>da</strong>no riconoscimenti giuridici o accordi di compromesso formale, non si<br />

limitano alla tradizionale occupazione del terzo delle terre o delle rendite, ma spogliano dei loro beni i<br />

proprietari, comportandosi <strong>da</strong> veri conquistatori. Chi riesce a salvaguar<strong>da</strong>re i propri beni, almeno in parte,<br />

viene sottoposto al prelievo del terzo dei prodotti.<br />

Passato il periodo della conquista violenta ed organizzate le strutture statali, superato il pericolo bizantino, il<br />

diritto riavrà il suo posto, favorito anche <strong>da</strong>lla composizione dei contrasti religiosi, la legge romana<br />

coesisterà con quella longobar<strong>da</strong> ed avrà inizio la lenta fusione tra i due popoli, ma nei primi anni dell?<br />

invasione le condizioni degli abitanti dovettero essere assai dure, aggravate <strong>da</strong>lla povertà derivante <strong>da</strong>lla<br />

guerra gotica, <strong>da</strong>lle incursioni nemiche e <strong>da</strong>lle calamità naturali che periodicamente e quasi annualmente si<br />

abbattevano sull'Italia ed anche sulla regione atesina con alluvioni, siccità, invasioni di locuste, pestilenze.<br />

Occupazione del Trentino<br />

Non è certo quando i Longobardi occupassero la valle<br />

dell’Adige. Le fonti, mentre citano esplicitamente la<br />

conquista <strong>da</strong> parte di Alboino di Verona e Vicenza ed<br />

altrettanto esplicitamente dichiarano che ciò non avvenne<br />

per Padova, Monselice e Mantova, non ricor<strong>da</strong>no Trento<br />

che però potrebbe essere inclusa tra le altre città della<br />

Venezia genericamente indicate come occupate subito.<br />

In realtà l’occupazione del Trentino potrebbe benissimo<br />

non essere avvenuta assieme a quella di Vicenza e<br />

Verona, perché l’inoltrarsi tra le montagne poteva essere<br />

pericoloso e poco redditizio per un esercito che cercava<br />

terre fertili e facili <strong>da</strong> percorrere ed abituato inoltre ai<br />

combattimenti in pianura. Solo negli anni successivi, con<br />

la progressiva presa di coscienza di divenire stabili<br />

occupanti della penisola e pertanto di dover rendere<br />

sicure le proprie conquiste, i gruppi stanziati nella<br />

pianura possono aver risalito la Valsugana, la valle<br />

dell’Adige e forse anche le valli occidentali <strong>da</strong> Brescia,<br />

occupando le montagne e fissando la sede del governo<br />

locale ovviamente a Trento, ove dopo la morte di Clefi<br />

appare duca Evino, ricor<strong>da</strong>to tra i cinque governatori<br />

delle principali città occupate (Pavia, Bergamo, Brescia,<br />

Trento, Civi<strong>da</strong>le), ma che il testo non impedisce di<br />

ritenere a Trento già prima.<br />

Con la costituzione del ducato il territorio tridentino si<br />

configura finalmente come entità autonoma, staccata<br />

<strong>da</strong>lla regione Ve<strong>net</strong>ia et Histria di romana memoria ed<br />

assume una funzione essenziale quale ducato di frontiera,<br />

di importanza strategica pari a quella del ducato friulano, a protezione della pianura pa<strong>da</strong>na e difesa <strong>da</strong>gli<br />

attacchi di Franchi e Baiuvari che si erano attestati ai valichi e nelle alte valli alpine, approfittando della<br />

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debolezza bizantina e dell’inesperienza (forse) longobar<strong>da</strong> che non ne ebbero mai il controllo totale, e dove<br />

probabilmente era rimasto ai bizantini il castrum Anagnis oggetto dell’attacco franco intorno al 576, del<br />

quale si tratterà più oltre.<br />

L’estensione del ducato finì per ricalcare a nord i confini della X Regio, arrivando a Merano <strong>da</strong> un lato ed a<br />

Chiusa (Sabiona) <strong>da</strong>ll’altro, a contatto con Franchi che avevano occupato la val Venosta e con Baiuvari scesi<br />

nell’alta val d’Isarco, ad est si fermava a Pergine (più tardi si estese a tutta la Valsugana) ed all’imbocco<br />

della val di Fassa, a sud giungeva fino ad Avio (o forse alle Chiuse di Verona) ed al lago, eccetto Riva (<strong>da</strong>l<br />

584 dominio demaniale), ad ovest si portò presto al Tonale (dopo la conquista della Anaunia): in sostanza si<br />

era costituito ciò che nei secoli sarebbe stato il territorio tridentino storico e che avrebbe poi formato il<br />

principato vescovile.<br />

Con i Longobardi quindi ha inizio effettivamente la <strong>storia</strong> cosciente della regione e nasce il concetto di<br />

Trentino ("Tridentinum territorium", che ricor<strong>da</strong> la "regio tridentina" della lettera di Teodorico). Nel corso<br />

degli anni e dei secoli i confini si sarebbero ristretti od allargati a secon<strong>da</strong> delle vicende del momento,<br />

soprattutto a nord, ma il nucleo sostanziale non cambierà più.<br />

Le principali notizie sulle vicende trentine ci sono riferite <strong>da</strong> Paolo Diacono nella sua Hi<strong>storia</strong><br />

Langobardorum. Egli tuttavia ebbe come fonte essenziale per i primi decenni un’opera ora perduta, composta<br />

<strong>da</strong> un monaco trentino, Secondo di Trento, o di Non.<br />

Di lui si parla in tre passi dell’opera di Paolo, due dei quali sono biograficamente fon<strong>da</strong>mentali perché ci<br />

informano che nella Pasqua del 603 Secondo battezzò a Monza A<strong>da</strong>loaldo, figlio di Agilulfo e Teodolin<strong>da</strong>, e<br />

che nel marzo 612 egli morì presso Trento, lasciando una "succinta" <strong>storia</strong> dei fatti longobardi.<br />

Un brevissimo frammento di dodici righe è l’unica traccia diretta della sua vita e della sua opera. Rinvenuto<br />

nel monastero bavarese di Weingarten (proprietario di molti beni anche in Alto Adige) nel XVIII secolo, fu<br />

pubblicato per la prima volta nel 1761 e poi <strong>da</strong>l francescano Benedetto Bonelli, una tra le figure più<br />

significative del Settecento trentino, nel 1762.<br />

Dopo gli sconvolgimenti napoleonici e la secolarizzazione del monastero avvenuta nel 1808, il frammento<br />

sembrava perduto. Fortunatamente nel 1952 venne ritrovato nella biblioteca provinciale di Stoccar<strong>da</strong>. Il<br />

codice miscellaneo che lo conserva è fatto risalire all’VIII secolo (contemporaneo quindi di Paolo Diacono):<br />

il frammento porta indicazioni anche biografiche e conclude un lavoro probabilmente diverso <strong>da</strong> quello della<br />

piccola <strong>storia</strong> fonte di Paolo (o forse ne è un iniziale abbozzo sviluppato successivamente). Infatti il testo,<br />

composto verosimilmente nel 580, come si desume <strong>da</strong>i <strong>da</strong>ti offerti <strong>da</strong>llo stesso Secondo che parla in prima<br />

persona, dice espressamente che quanto narrato ebbe luogo nella terra (o diocesi) <strong>trentina</strong>, "in loco Anagnis",<br />

sotto il vescovo Agnello durante il governo dell’imperatore Tiberio II, nel dodicesimo anno dell’invasione<br />

longobar<strong>da</strong>.<br />

Come si nota, a quest’epoca Secondo è ancora nostalgico del vecchio ordine politico e continua a sentirsi<br />

suddito dell’Impero. Di fronte ai lutti ed alle rovine portate in una terra ormai di confine <strong>da</strong> incursioni,<br />

scontri, conquiste ed occupazioni violente, la sua disposizione d’animo culturale e politica verso un invasore<br />

barbaro, spesso brutale, ariano e nemico dello Stato legittimo, come si presenta il longobardo, non può che<br />

essere negativa. La stessa del resto che mostrano i vescovi Agnello di Trento ed Ingenuino di Sabiona (sede<br />

successivamente trasferita a Bressanone, poco più a nord) firmatari con altri vescovi nel 591 (o forse 590)<br />

della missiva all’imperatore Maurizio nella quale auspicano con forza il ritorno del governo legittimo<br />

bizantino.<br />

Più tardi però le vicende politiche portarono al matrimonio prima del duca Evino con una principessa<br />

cattolica, figlia del duca di Baviera Garibaldo (che non era però ancora convertito, come gran parte del suo<br />

popolo), poi nel 589 di sua sorella Teodolin<strong>da</strong> con l’ariano re Autari, con una cerimonia che sarebbe stata<br />

celebrata nella zona di Ala. La posizione di Secondo allora si ammorbidì tanto <strong>da</strong> diventare un influente<br />

consigliere spirituale della corte di Pavia con la regina ed il suo successivo marito Agilulfo, convertitosi<br />

dopo il matrimonio (a differenza di Autari), ambedue favorevoli alla posizione della Chiesa aquileiese sul<br />

complesso problema dei "Tre Capitoli", cui anche la Chiesa <strong>trentina</strong> aderiva.<br />

La sua fama, la stima nei suoi confronti e la preoccupazione di mantenere uniti i cattolici di fronte agli ariani<br />

portarono persino papa Gregorio I a scrivergli nel 599 per chiarirgli i termini della questione che aveva<br />

portato all’equivoco tricapitolino e ad annunciare un’altra lettera (probabilmente mai più scritta per la<br />

declinante sua salute) nel 603, nell’epistola inviata a Teodolin<strong>da</strong> per rallegrarsi del battesimo del figlio<br />

A<strong>da</strong>loaldo e nella quale Secondo è ricor<strong>da</strong>to due volte quale dilettissimo figlio.<br />

Non è <strong>da</strong> pensare che Secondo divenisse filolongobardo, era piuttosto un fiducioso sostenitore di quanti<br />

erano convertiti al cattolicesimo, con la non nascosta speranza di poter, attraverso i capi, convertire l’intero<br />

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popolo alla vera fede, stimolato anche <strong>da</strong>ll’essere il Trentino già su quella stra<strong>da</strong>, con una cattolica sposa di<br />

Evino ed un cattolico quale duca suo successore (Gaidoaldo).<br />

Prima di continuare, riteniamo utile ricor<strong>da</strong>re brevemente in che cosa consisteva la disputa teologicoreligiosa<br />

conosciuta come "Scisma dei Tre Capitoli".<br />

Convinto assertore dell’alleanza trono-altare, ma altresì della necessità di intervenire anche nelle questioni<br />

religiose, Giustiniano nel 544 aveva approvato e fatto approvare una con<strong>da</strong>nna, stesa <strong>da</strong> un vescovo<br />

orientale, degli scritti di tre teologi presunti filone<strong>storia</strong>ni che il Concilio di Calcedonia nel 451 non aveva a<br />

suo tempo ritenuto in errore perché essi avevano chiarito le proprie posizioni e dichiarata la propria fedeltà a<br />

Roma. La con<strong>da</strong>nna, che serviva a Giustiniano per trovare un accordo con i "monofisiti" (seguaci di<br />

un’eresia molto diffusa in Oriente e pericolosa per l’unità dell’Impero) e per bloccare l’espansione del<br />

ne<strong>storia</strong>nesimo, altrettanto pericoloso sul piano politico e religioso (era diffuso anche nella nemica Persia),<br />

fu sottoscritta sotto il peso delle pressioni imperiali <strong>da</strong>i vescovi d’Oriente e, con molti contrasti, anche <strong>da</strong><br />

papa Vigilio, praticamente prigioniero a Costantinopoli, con una formula che però salvaguar<strong>da</strong>va l’autorità<br />

delle scelte di Calcedonia. Molte Chiese d’Occidente rifiutarono invece l’adesione: tra esse quelle di<br />

Aquileia e di Milano che ruppero l’unità con Roma per qualche tempo. La disputa si concluse<br />

definitivamente per i territori aquileiesi alla fine del VII secolo, anche se nella pratica già <strong>da</strong> tempo aveva<br />

perso d’interesse ed in realtà i rapporti tra le Chiese non furono mai interrotti.<br />

Alleanza franco-bizantina<br />

Dopo l’iniziale serie di assalti alla propria sovranità che portò in pochi anni alla perdita dell’intera Italia<br />

pa<strong>da</strong>na, Bisanzio tentò di reagire anche militarmente e <strong>da</strong>l 580 si assiste ad una serie di attacchi che<br />

portarono il dominio longobardo sull’orlo della distruzione.<br />

Già forse prima però la nostra regione fu oggetto di una invasione che portò i Franchi gui<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>l duca<br />

Cranmichi ad occupare il già ricor<strong>da</strong>to castrum Anagnis ( dichiarato <strong>da</strong> Paolo Diacono "ai confini d’Italia" e<br />

che probabilmente è l’attuale Nanno – con qualche dubbio a favore della zona di Sanzeno –, ma potrebbe<br />

indicare il territorio <strong>da</strong>lla piazzaforte difeso, cioè l’intera Anaunia: si ricordi il "loco Anagnis" del frammento<br />

di Secondo e si tenga presente la posizione di Nanno, chiusura e controllo delle valli di Sole e di Non e perno<br />

naturale del sistema difensivo che certamente esisteva a protezione di tutta la zona). L’occupazione di Nanno<br />

(o dell’intera valle), che potrebbe essere stata pacifica (e le parole del testo lo fanno supporre), se, come i più<br />

ritengono, era controllata ancora (come altri luoghi tra le Alpi) <strong>da</strong>i Bizantini, che avevano tutto l’interesse a<br />

sostenere un attacco franco alle posizioni del nemico, provocò la reazione longobar<strong>da</strong> con una spedizione<br />

gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l conte "de Lagare" Ragilone, luogotenente di Evino in val Lagarina e suo coman<strong>da</strong>nte militare,<br />

che espugnò Nanno; ma al ritorno egli si scontrò con le truppe di Cranmichi nella piana tra Mezzocorona e<br />

Mezzolombardo e fu sconfitto, rimanendo ucciso e le sue truppe distrutte. Ciò portò alla guerra aperta:<br />

<strong>da</strong>pprima ebbe la meglio l’invasore che occupò e devastò Trento, poi, riorganizzate le forze, Evino riuscì a<br />

bloccare il nemico a Salorno mentre tornava alle basi del nord (verosimilmente in Venosta, o comunque nella<br />

Rezia curiense) e ad annientarlo, salvando il ducato <strong>da</strong> altri pericoli.<br />

La vicen<strong>da</strong> è di grande importanza perché ci permette di valutare la capacità organizzativa e di governo di<br />

Evino e la stabilità del dominio longobardo almeno in val d’Adige, che i Franchi ancora non erano in grado<br />

di occupare ma che avrebbero potuto far diventare loro riserva di caccia anche senza gli accordi con<br />

Costantinopoli che scatenarono un lungo periodo di lotte, nelle quali il Trentino fu coinvolto in particolare<br />

nel 590.<br />

Si <strong>tratta</strong> della quarta (che durò <strong>da</strong>ll’autunno 589 al settembre 590) e più pericolosa delle campagne francobizantine<br />

succedutesi dopo la salita al trono d’Oriente nel 582 di Maurizio, convinto assertore della<br />

restaurazione del principio d’autorità imperiale.<br />

Nella prima fase della spedizione (autunno 589) i Franchi sbaragliarono in breve il nemico, che chiese la<br />

pace, ma senza e<strong>sito</strong> immediato. Le operazioni tuttavia si interruppero fino alla primavera successiva,<br />

quando la guerra riprese con la discesa in Italia di numerose forze franche <strong>da</strong> più direttrici, mentre i Bizantini<br />

attaccavano <strong>da</strong> sud-est per chiudere in una morsa gli avversari e conquistavano importanti città (come Altino,<br />

Mantova, Modena, Parma, Piacenza, Reggio). Delle colonne franche ci interessa quella gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l duca<br />

Cedino che scese <strong>da</strong>lla Rezia curiense e <strong>da</strong>lla Venosta arrivando fino a Verona. Anche questa campagna però<br />

fallì, probabilmente, oltre che per i motivi climatici, sanitari e militari esposti <strong>da</strong> Paolo Diacono (caldo<br />

torrido, dissenteria, fame, impossibilità di espugnare Pavia ove era fortificato Autari), per equivoci e<br />

reciproca sfiducia tra gli alleati: tra l’altro era poco conveniente per i Franchi collaborare alla distruzione di<br />

un regno ancora incerto e meglio controllabile a favore di una potenza di respiro mondiale e pericolosa per le<br />

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loro stesse mire espansionistiche. Pertanto si assiste ad un ennesimo cambiamento di scelte che portò alla<br />

pace tra i due re, lasciando soli i Bizantini che dovettero alla fine ritirarsi.<br />

Nella discesa fino a Verona, l’esercito franco "in territorio tridentino" distrusse varie fortificazioni-rifugio e<br />

luoghi fortificati posti lungo l’asse dell’Adige e che sono identificati con Tesimo, Meltina, Sirmiano,<br />

Appiano, nell’attuale Alto Adige, Faedo (?), Cembra, Vezzano, Brentonico, Volargne (?, per altri Volano),<br />

Ennemase (ai confini meridionali del ducato, ma non ben localizzato). Inoltre ne abbattè due nella zona di<br />

Borgo Valsugana ed uno in quella di Verona. Di tutti portò via prigionieri gli occupanti, mentre i rifugiati<br />

sulla Verruca (Doss Trento) si salvarono pagando un riscatto.<br />

Le devastazioni partono dunque appena oltrepassati i confini della regione sotto controllo longobardo: infatti<br />

la prima località citata è Tesimo, poco distante <strong>da</strong> Merano e posta in alto sulla valle verso Bolzano. Si scende<br />

poi lungo il ducato fino forse a Volargne e certamente al Baldo, con una deviazione logica in Valsugana per<br />

assicurarsi il fianco fino almeno a Borgo, allora verosimilmente ancora non unito a Trento.<br />

La popolazione dei rifugi più lontani <strong>da</strong>lla capitale era quasi certamente composta <strong>da</strong> genti romanizzate<br />

(cittadini li chiama infatti Paolo Diacono, con evidente riferimento al valore che il termine aveva<br />

nell’Impero), pochi potendo essere i Longobardi, il cui esiguo numero li costringeva a non disperdersi, o i<br />

residui nuclei dei Goti ormai annientati. Comunemente si ritiene che il grosso delle truppe longobarde fosse<br />

dislocato nel campo della val Lagarina, donde era partita la spedizione in val di Non, e che spiegherebbe<br />

l’assenza di Evino <strong>da</strong> Trento quando i Franchi saccheggiarono la città. Il Lagare citato <strong>da</strong> Paolo Diacono<br />

altro non sarebbe che il Lager, campo trincerato militare <strong>da</strong>l quale prese il nome poi la valle.<br />

Ciò può far comprendere l’apparente facilità con la quale i Franchi si impossessano dei centri di difesa, che<br />

cedono senza praticamente opporre resistenza fi<strong>da</strong>ndo in promesse di pace poi non mantenute, mentre la<br />

Verruca, ben fortificata fin <strong>da</strong>i tempi di Teodorico, resiste e si salva, seppur con l’intervento della Chiesa e<br />

piegandosi a pagare un tributo. Così i trentini conservarono beni e persone, riprendendo liberamente le<br />

proprie attività, il nemico continuò la marcia senza intralci e perdite di tempo prezioso per il previsto<br />

ricongiungimento con l’alleato. Il comportamento franco, così come nelle precedenti campagne, appare<br />

tuttavia più coerente con la mentalità dell’incursore che con quella del conquistatore, forse perché l’accordo<br />

con gli imperiali non ne prevedeva uno stabile insediamento in questa zona, causa non ultima dei successivi<br />

disaccordi che portarono al fallimento dell’impresa.<br />

Il pagamento, che Paolo afferma aver raggiunto i seicento solidi (aurei), fa pensare che oltre a molta gente<br />

comune, fossero rifugiati sul colle anche cittadini abbienti e per la difesa certamente guerrieri longobardi (e<br />

famiglie) come esigeva la condizione di capitale (politica e religiosa) che aveva Trento ed ha fatto dubitare,<br />

sulla base anche di altri elementi, che già a quell’epoca vi fosse in città una certa agiatezza o che addirittura<br />

vi esistesse una zecca, per quanto piccola.<br />

La presenza della Chiesa<br />

Ad aiutare gli assediati interviene con la sua influenza la Chiesa locale con i vescovi delle due diocesi<br />

regionali (non dimentichiamo che i Franchi erano cattolici), assumendosi oltre all’impegno di protezione dei<br />

deboli sempre esercitato, compiti diplomatici e politici che saranno normali in molte città successivamente,<br />

ma che a Trento ed a Sabiona diverranno istituzionali per la stessa dislocazione territoriale delle diocesi.<br />

Il vescovo "salvatore della patria" fu Agnello, già ricor<strong>da</strong>to <strong>da</strong> Secondo nel frammento sopra citato e pastore<br />

della Chiesa tridentina sicuramente testimoniato <strong>da</strong>l 577 al 591. A lui (o almeno alla sua epoca) potrebbe<br />

essere attribuita anche la costruzione della chiesa paleocristiana sulla tomba di s. Vigilio, della quale diedero<br />

certa prova gli scavi effettuati sotto l’attuale duomo tra il 1964 e il 1974. La stima e la dignità di questo<br />

presule vennero ribadite anche poco dopo, quando i Longobardi, forse per l’influenza di Secondo, nel 591 lo<br />

inviarono alla corte franca a Metz per concor<strong>da</strong>re la liberazione di coloro che <strong>da</strong>lle località devastate nel 590<br />

erano stati trascinati in prigionia. La missione si concluse in modo positivo almeno per una parte di costoro,<br />

anche per il diretto intervento della regina madre franca Brunechilde. La maggior parte potè invece rientrare<br />

qualche anno dopo, quando ella ebbe la reggenza del regno e fu stipulata una pace perpetua. Il fatto però che<br />

anche il duca Evino fosse inviato per la più importante missione diplomatica di ottenere la pace poi<br />

raggiunta, con una delegazione evidentemente separata, fa dubitare che il viaggio del vescovo non fosse stato<br />

organizzato ufficialmente <strong>da</strong>l nuovo re Agilulfo (Autari era morto improvvisamente il 5 settembre 590<br />

mentre erano in corso le prime <strong>tratta</strong>tive con il re franco), come afferma Paolo Diacono (e in realtà i<br />

tridentini non erano gli unici prigionieri né così importanti per un longobardo ancora ariano seppur<br />

favorevole ai cattolici e cognato del duca di Trento), ma ufficiosamente <strong>da</strong>lla regina e soprattutto <strong>da</strong>l duca<br />

trentino e sua moglie, che certamente avevano più a cuore la restituzione dei propri sudditi se non altro per<br />

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agioni di politica interna.<br />

L’uno e l’altro episodio (anche se Paolo dipende <strong>da</strong>l racconto di Secondo, attento più alle cose del proprio<br />

paese che a quelle dell’intero stato) non fanno che confermare l’importanza del ducato trentino in questa fase<br />

della <strong>storia</strong> longobar<strong>da</strong>, antesignana di quella ben più conosciuta sotto gli imperatori germanici.<br />

Alle <strong>tratta</strong>tive per il riscatto di quanti erano asserragliati sulla Verruca partecipa anche il vescovo di Sabiona,<br />

Ingenuino. L’importanza della notizia non sta tanto nel fatto dell’intervento di un secondo presule a sostegno<br />

di Agnello, quanto nel fatto <strong>da</strong> una parte che Trento si conferma essere stata la città per eccellenza per tutta<br />

la regione atesino-alpina, <strong>da</strong>ll’altra che questa presenza potrebbe ribadire come a quel tempo i Baiuvari non<br />

fossero stabilmente scesi oltre la Rienza, che Sabiona era ancora entro i confini del ducato e che comunque la<br />

sua costituzione recente rendeva la diocesi sabionese in certo modo complementare della più antica e famosa<br />

sede <strong>trentina</strong>. È ipotizzabile pure che una affermata presenza di Ingenuino a Trento e poi ad Aquileia, in fuga<br />

<strong>da</strong> Sabiona attaccata e devastata <strong>da</strong>i pagani baiuvari, possa essere identificata con questa episodio, essendo<br />

ben comprensibile che costoro abbiano approfittato delle difficoltà longobarde di fronte alla pressione<br />

franco-bizantina.<br />

Ingrandimenti territoriali<br />

Pochi anni dopo la conclusione della guerra Evino muore (intorno al 595). A quest?uomo va il merito di aver<br />

posto solide basi al sorgere stabile del Trentino in quanto entità politico-territoriale, facilitato <strong>da</strong>ll?autorità<br />

che si gua<strong>da</strong>gnò con la sua capacità politica e militare. Seppe opporsi <strong>da</strong> solo alle gravi e quasi esiziali<br />

scorrerie franche, bloccò l?avanzata baiuvara verso sud anche con l?azione diplomatica, favorito <strong>da</strong>l<br />

matrimonio di una principessa longobar<strong>da</strong> con il duca Garibaldo, del quale sposò egli stesso una figlia, come<br />

più tardi, anche in funzione anti-franca e forse <strong>da</strong> lui stesso consigliato, fece Autari, del quale perciò divenne<br />

cognato (e, dopo la sua morte, di Agilulfo), guidò una fortunata spedizione in Istria a nome del re Autari, fu<br />

il firmatario della pace con i Franchi dopo l?invasione del 590. Non è <strong>da</strong>vvero esagerato considerarlo il<br />

primo fon<strong>da</strong>tore del Trentino.<br />

Gli succede il cattolico Gaidoaldo, che nel 603 tornò in buoni rapporti con Agilulfo dopo un periodo di forti<br />

contrasti. Il fatto che l?assemblea scegliesse un cattolico <strong>da</strong> presentare al re non può non far pensare che tra i<br />

Longobardi trentini la conversione fosse in fase abbastanza avanzata, <strong>da</strong>ndo ragione a chi considera il<br />

Trentino la terra che preparò il primo accostarsi della monarchia alla Chiesa.<br />

Gaidoaldo è importante per la <strong>storia</strong> <strong>trentina</strong> anche perché estese i confini del ducato. Infatti furono assorbite<br />

l?intera Valsugana verosimilmente fino al Cismon e le valli del Chiese e del Sarca (eccetto la zona di Riva,<br />

proprietà del demanio, ceduta forse <strong>da</strong> Evino al momento della restaurazione regia).<br />

L?estensione ad oriente era inevitabile e vitale per Trento perché la città non poteva permettersi un confine<br />

troppo vicino, anche ritenendo assai probabile che l?intera zona di Pergine (ove lo stanziamento longobardo<br />

era consistente) fosse già unita al ducato. Il confine alla stretta di Primolano con le paludi della bassa<br />

Valsugana era una difesa tranquillizzante anche nei confronti dei vicini ducati trevigiano e vicentino, vista la<br />

facilità con la quale più di un duca s?era lasciato attrarre <strong>da</strong>ll?oro bizantino o <strong>da</strong>lle discordie intestine e visto<br />

che la libertà dei ducati era ancora abbastanza accentuata.<br />

L'avventura del duca Alachi e la fine dell'autonomia<br />

Morto Secondo di Trento (612), ci vengono a mancare notizie particolari sulle vicende tridentine. Sotto i<br />

successori di Agilulfo (+616) vi furono periodi di tranquillità, ma anche di lotte intestine: non sappiamo però<br />

quali avvenimenti abbiano toccato il Trentino (ove tuttavia il confine settentrionale continuava a subire la<br />

pressione baiuvara) fino ad Alachi, duca col quale Trento torna in primo piano verso la fine del VII secolo.<br />

Dopo varie vicende, nel 671 sul trono longobardo era risalita la fazione cattolica con il re Pertarito<br />

(discendente di un fratello di Teodolin<strong>da</strong>). Il nuovo re si rese ben presto conto di dover controllare molti<br />

duchi delle terre orientali, primo di tutti Alachi, bellicoso ed ambizioso, anche con l?aiuto di alleati esterni,<br />

come i Baiuvari. Il duca trentino, compresa la politica del re, pericolosa per lui e per i confini del suo ducato,<br />

attaccò il conte baiuvaro che aveva occupato Bolzano ed i castelli circostanti, ributtandolo oltre Chiusa. Più<br />

tardi, con un'abile mossa mise in fuga <strong>da</strong> Trento lo stesso esercito gui<strong>da</strong>to <strong>da</strong> Pertarito contro di lui,<br />

ribellatosi apertamente. L'intervento del figlio del re, Cuniperto, associato al regno nel 678, riportò una<br />

temporanea pace tra i due. Anzi Pertarito affidò ad Alachi il potente ducato di Brescia, ricco e popoloso,<br />

indebolendo così fortemente la propria posizione: la pace quindi verosimilmente fu la conseguenza di una<br />

situazione difficile per il re. Non è chiaro se il duca mantenesse anche il ducato trentino, ma è probabile.<br />

Qualche anno più tardi, rimasto solo re Cuniperto (688-700), Alachi si ribellò nuovamente, forse proprio all?<br />

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atto della successione, quando rialzò la testa il partito anticattolico fautore della tradizione. Nelle vicende<br />

della guerra Alachi riuscì ad occupare anche Pavia detronizzando temporaneamente Cuniperto, fino alla<br />

sconfitta definitiva a Cornate d'Ad<strong>da</strong>, ove perse la vita nello scontro che vide affrontarsi in pratica le forze<br />

della Neustria (Italia occidentale)e dell'Austria (Italia orientale): in queste ultime erano certamente anche i<br />

tridentini.<br />

Dopo Alachi Trento non ha più <strong>storia</strong> nelle vicende longobarde, né si può affermare con certezza se il ducato<br />

avesse più avuto un duca autonomo o fosse stato reso direttamente dipendente <strong>da</strong>l demanio regio a causa del<br />

tradimento e per l?importanza che rivestiva ai fini della sicurezza dello Stato nei confronti dei popoli<br />

confinanti, sempre incombenti <strong>da</strong> settentrione.<br />

Vi è però una notizia riportata <strong>da</strong>l meranese Arbeone, vescovo di Frisinga (in Baviera) nell? VIII secolo,<br />

secondo la quale verso il 720 a Trento governava per conto di Liutprando un tal Usingo che non viene mai<br />

ricor<strong>da</strong>to con il titolo di duca. Ciò fa pensare che Usingo fosse un funzionario dipendente <strong>da</strong>l re, come lo<br />

erano i gastaldi. Cuniperto dunque, come a Bergamo e Arezzo fece Ariperto II (701-712), aveva sostituito il<br />

duca ribelle con un rappresentante diretto. Negli stessi anni è proprio re Liutprando che dà ordine agli<br />

abitanti di Maia (Merano) di accogliere senza timore di inganni e di attacchi nemici la salma di s. Corbiniano<br />

(trasportata <strong>da</strong> Frisinga), che aveva espresso il desiderio di essere sepolto colà presso la tomba di s.<br />

Valentino. Trento diveniva così <strong>da</strong> ducato di confine fortemente autonomo dominio regio altrettanto<br />

fortemente controllato.<br />

Il governo longobardo sulla contea di Bolzano, pur con qualche temporanea interruzione ed oscillazione,<br />

durò fino al 769 quando fu portata in dote <strong>da</strong> una figlia di re Desiderio al duca Tassilone III di Baviera, ma<br />

nel 774 essa fu nuovamente incorporata nel territorio tridentino con la conquista del regno longobardo <strong>da</strong><br />

parte di Carlo Magno e vi rimase anche dopo la divisione di Verdun (843), quando il confine del regno<br />

germanico sul lato sinistro dell?Adige fu forse fissato al rio di Gargazzone, tra Merano e Bolzano, ove s?<br />

iniziava il dominio italico dell?imperatore e re Lotario (figlio di Ludovico il Pio), che continuava ad<br />

occupare il lato destro del fiume a partire <strong>da</strong> Tel, porta della val Venosta, ed inglobando Merano, e quando la<br />

diocesi di Coira, che probabilmente si estendeva già allora all?alta valle dell?Adige, fu staccata <strong>da</strong> Milano e<br />

sottoposta a Magonza. Fu forse in questa occasione che vennero sistemati i confini con la diocesi di Trento,<br />

fissati così per secoli al fiume Passirio, che a Merano sfocia nell?Adige (ma che non evitarono contestazioni<br />

e contrasti nel corso dei tempi).<br />

Strutture amministrative del ducato<br />

Come era governato il ducato tridentino? Non abbiamo una documentazione sufficiente a chiarire i molti<br />

dubbi, ma facendo il confronto con altre situazioni e tenendo conto dell’importante funzione militare che il<br />

territorio rivestiva, si può affermare che alle dipendenze del duca, eletto <strong>da</strong>ll’assemblea dei liberi e<br />

confermato <strong>da</strong>l re, erano i "conti", coman<strong>da</strong>nti militari e poi anche civili con poteri giudiziari, di cui abbiamo<br />

esempio in Ragilone, sfortunato conte lagarino nella lotta contro il franco Cranmichi, e certamente nel<br />

territorio di Bolzano, ove non è documentato un conte longobardo, ma vi era necessità costante di difesa, e<br />

che è normalmente indicato con il termine di contea o comitato.<br />

Probabilmente nella nostra regione la qualifica si identificava con quella del "gastaldo", che altrove era il<br />

rappresentante e amministratore diretto del re, ed è possibile anche una sua identificazione con quella del<br />

"giudice", per cui pure le Giudicarie (che appunto erano amministrate <strong>da</strong> giudici) potrebbero essere stati<br />

comitati con caratteristiche più civili che militari, stante il fatto che esse entrarono a far parte del ducato<br />

quando questo s’era ormai stabilizzato.<br />

Governatori di rango inferiore erano gli "scul<strong>da</strong>sci", (termine riconoscibile nel tedesco Schultheiss che vale<br />

"podestà, sin<strong>da</strong>co di villaggio") e preposti alle circoscrizioni pievane e pagensi (<strong>da</strong> pagus, villaggio).<br />

Altra dignità pubblica era la "scaria", con compiti giudiziari di supporto ai funzionari maggiori, ma anche di<br />

presidio civile e militare o doganale, della quale forse un ricordo rimane nelle strutture fiemmesi della<br />

Magnifica Comunità.<br />

Quanto alle strutture economiche e sociali ancor meno si può dire, ma certamente la condizione dei<br />

proprietari romani, passato il primo urto dell’invasione, fu meno pesante che in altre parti dell’Italia<br />

occupata, forse anche per la presenza di una duchessa cattolica e della permanenza a Trento del vescovo<br />

(altrove fuggito di fronte agli ariani invasori), presso il quale infatti molti <strong>da</strong>lla pianura si rifugiarono. Se si<br />

pensa all’ammontare del riscatto per gli asserragliati sulla Verruca e all’intervento vescovile per la<br />

liberazione dei prigionieri portati in Francia, si deve ritenere che la posizione economica e sociale di molti<br />

romanizzati trentini non fosse totalmente priva di un qualche prestigio, ma è certo che molte proprietà<br />

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passarono di mano e non mancarono indigeni romani ridotti al rango di semiliberi ("aldii"), così come forse<br />

finirono i fuggiaschi di fronte all’incalzare del nemico (o alla semplice paura), rifugiatisi senza più beni tra i<br />

monti o sotto l’egi<strong>da</strong> della Chiesa.<br />

I Franchi ed il regno d'Italia di Gianfranco Granello<br />

Le vicende politiche<br />

Passato sotto il dominio franco nel 774, dopo la sconfitta dell’ultimo re longobardo, il Trentino mantenne i<br />

confini tradizionali (un atto di re Carlo ad es. ricor<strong>da</strong> il confine occidentale al Tonale) e si trova al suo<br />

governo un Ruperto, che morì combattendo contro i Baiuvari, il cui duca cercava di difendere i propri titoli<br />

sulla contea bolzanina portatagli in dote <strong>da</strong>lla moglie. La lotta continuò fino al 788, quando il duca fu<br />

sconfitto definitivamente e perdette il potere.<br />

Parte integrante dell’Impero, seppur all’interno del regno italico (o "dei Longobardi"), Trento diminuisce<br />

progressivamente di importanza politica, mentre lentamente cresce la forza delle strutture ecclesiastiche, che<br />

finiscono per assorbire le funzioni amministrative, in un vescovado ai confini del regno d’Italia divenuto<br />

ancor più importante dopo il passaggio della diocesi di Sabiona <strong>da</strong>lla dipendenza <strong>da</strong> Aquileia a quella <strong>da</strong><br />

Magonza nel 798.<br />

In questa fase di temporaneo tramonto pochi fatti sono <strong>da</strong> ricor<strong>da</strong>re ed il primo è un segnale di<br />

subordinazione culturale, come indica la decisione di re Lotario nel Capitolare del maggio 825, con il quale<br />

si fissavano alcuni centri cui dovevano far riferimento gli studenti: i tridentini dovevano confluire a Verona.<br />

L’interesse per l’istruzione in epoca carolingia e segnatamente <strong>da</strong> parte di Carlo Magno e dei suoi ministri è<br />

ben testimoniato ed a Verona la vita culturale era fervi<strong>da</strong>. Non abbiamo alcuna notizia su quali o quanti<br />

trentini la frequentassero, probabilmente non molti, ma è <strong>da</strong> ritenere assai fon<strong>da</strong>ta la convinzione che già<br />

all’epoca Trento ospitasse una scuola, per quanto ridotta nelle strutture e negli scopi, annessa alla cattedrale<br />

ed aperta pure ai laici, se si pensa alle direttive che prevedevano l’istituzione di scuole presso ogni monastero<br />

ed ogni sede vescovile, aiutando anche i poveri con sussidi (o addirittura la preoccupazione di qualche<br />

personalità carolingia di aprire scuole pure nelle campagne con l’invito ai preti di istruire i fanciulli persino<br />

senza compenso). Un segno di una qualche tradizione culturale sopravvissuta anche nei secoli precedenti tra<br />

i monti trentini potrebbe essere rappresentato <strong>da</strong>l già ricor<strong>da</strong>to monaco Secondo, che non può essere un<br />

isolato e casuale esempio locale di cura per gli studi ed il sapere.<br />

Nell’837 invece a Trento si incontravano Lotario e Lodovico il Germanico per concor<strong>da</strong>re una comune linea<br />

di condotta nei confronti del padre, l’imperatore Lodovico il Pio. La scelta di Trento però non era dovuta alla<br />

sua importanza politica, ma piuttosto alla sua posizione geografica, ai confini dei due regni.<br />

Numerose erano le proprietà di enti ecclesiastici della pianura che sono testimoniate nei secoli VIII-X e quasi<br />

tutte ubicate nella zona del Sommolago ed in val Lagarina. Allo stesso modo molte proprietà di enti<br />

transalpini erano nelle terre settentrionali del ducato. Un esempio è <strong>da</strong>to <strong>da</strong>ll’interessante ed importante<br />

documento stilato il 26 febbraio 845, nel quale si riporta lo svolgimento del processo tenuto a Trento per<br />

dirimere un contrasto tra il veronese monastero benedettino di S. Maria in Organo e vari coloni della zona di<br />

Avio e Mori che si rifiutavano di prestare le opere servili. La causa si concluse riconoscendo lo stato libero<br />

dei contadini, ma imponendo loro l’obbligo di prestare le opere richieste perché legate al fondo lavorato, di<br />

proprietà del monastero.<br />

Altri atti giudiziari che ci <strong>da</strong>nno qualche indicazione politica, economica ed ecclesiastica risalgono agli anni<br />

tra l’855 e l’881 e toccano sia le terre settentrionali della regione sia quelle a meridione. Al nord ricordiamo<br />

un contrasto tra il vescovo Annone di Frisinga ed il vescovo Odescalco di Trento per certi vig<strong>net</strong>i a Bolzano:<br />

il re Lodovico il Germanico dirime la questione nell’855 a favore del primo, che dimostra di aver posseduto<br />

quei beni <strong>da</strong> almeno trent’anni. Il secondo però non si dà per vinto e nell’857 una nuova sentenza, ancora<br />

sfavorevole ad Odescalco, è emessa in occasione dell’incontro tra il re (detto re dei Baiuvari) e Lodovico II<br />

imperatore e re d’Italia (a sua volta detto re dei Longobardi) a Trento, chiamata "città del vescovo<br />

Odescalco", certamente perché residenza di uno dei due contendenti, ma possibile indice di una<br />

identificazione progressiva del potere religioso con il territorio.<br />

Ancora nell’857 lo stesso re di Germania conferma un contratto tra il vescovo di Coira ed una donna per<br />

certe proprietà site a Merano ("Mairania") nella valle Tridentina, segno che ancora nel sec. IX e dopo il<br />

<strong>tratta</strong>to di Verdun l’estensione tradizionale del vecchio ducato non era messa in dubbio.<br />

A sud ricordiamo invece una controversia tra il vescovo trentino Adelgiso e quello di Verona Adelardo,<br />

relativamente a diritti usurpati <strong>da</strong>l primo su una non identificata "villa Asiana" (per alcuni posta nella zona di<br />

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Brentonico, per altri in quella di Ala), e sulla quale intervenne a più riprese tra l’876 e l’881 anche la Santa<br />

Sede che finì per affi<strong>da</strong>re il compito di risolvere la questione ad una commissione composta <strong>da</strong>i vescovi di<br />

Bologna, Ferrara, Vicenza e Mantova.<br />

Con la deposizione dell’imperatore Carlo il Grosso e la salita al potere di Arnolfo di Carinzia nell’887, si<br />

assiste alla sostanziale dissoluzione dell’Impero carolingio ed alla nascita degli stati nazionali, tra i quali vi<br />

fu quello d’Italia che ebbe una breve ma convulsa <strong>storia</strong> fino alla sua conquista <strong>da</strong> parte di Ottone I (951).<br />

In queste vicende ebbe qualche parte anche il Trentino. Infatti a Trento nell’autunno 888 vi fu un incontro tra<br />

il re d’Italia Berengario I, già in lotta con un altro pretendente (Guido duca di Spoleto), e Arnolfo, che portò<br />

al riconoscimento dei reciproci diritti e titoli, ma il secondo si trattenne le due circoscrizioni di Navum e di<br />

Sagum, che vengono identificate <strong>da</strong>i più con le Navi di Lavis e con Borgo, per assicurare la discesa lungo<br />

l’Adige e la Brenta verso la pianura, lasciando comunque il Trentino entro i confini italici.<br />

Il vescovo Manasse. Il Trentino nell'Impero germanico<br />

Pochi decenni più tardi (assassinato Berengario dopo un tormentato governo che lo vide lottare, perdere e<br />

prevalere su molti pretendenti ed ottenere nel 915 anche il titolo imperiale) venne a cingere la corona italica<br />

Ugo di Provenza (926).<br />

Questi, qualche anno dopo, conferì l’amministrazione dei vescovadi di Trento, Verona e Mantova al proprio<br />

nipote Manasse, arcivescovo di Arles, costituendo così un unico organismo continuo affi<strong>da</strong>to a mani fedeli<br />

che lo tranquillizzavano nei confronti della Germania, ove assumeva sempre maggior forza la casa di<br />

Sassonia, divenuta titolare del regno. È dubbio se dei vescovadi Manasse fosse insieme pastore e<br />

governatore. Secondo la critica testimonianza del contemporaneo Liutprando di Cremona, egli ottenne di<br />

Trento, oltre al governo spirituale, anche quello temporale, costituendo così il primo esempio di vescovo<br />

tridentino investito di potere politico.<br />

Non fu però all’altezza della situazione e delle speranze dello zio, perché nel 945 passò <strong>da</strong>lla parte di<br />

Berengario d’Ivrea (poi re Berengario II), avversario di re Ugo e rientrante in Italia col sostegno allora di<br />

Ottone I di Germania, e gli aprì le porte della regione allo scopo di salvaguar<strong>da</strong>re i suoi interessi e<br />

l’acquisizione dell’arcidiocesi di Milano, convinto anche <strong>da</strong>l suo consigliere A<strong>da</strong>lardo cui aveva affi<strong>da</strong>to<br />

castel Formigario (attuale Firmiano) presso Bolzano, chiave di volta della difesa verso nord, e sul quale<br />

Berengario, non riuscendo ad espugnare la fortezza, aveva fatto molte pressioni e promesse.<br />

Manasse riuscì a mantenere il possesso del vescovado trentino almeno fino alla prima discesa in Italia di<br />

Ottone I contro Berengario (951-952) ed al successivo distacco <strong>da</strong>l regno italico della marca veronese<strong>trentina</strong><br />

che fu aggregata alla Baviera entrando a far parte del regno germanico.<br />

Un ulteriore cambiamento, più formale che sostanziale, avvenne quando Trento e Verona furono <strong>da</strong>l<br />

successore Ottone II aggregate al ducato di Carantania (comprendente le attuali regioni di Carinzia, Carniola<br />

e Stiria).<br />

Prova di questo passaggio è anche un documento del 993 steso a Verona, col quale il duca di Baviera e<br />

Carantania Enrico, che vi si trovava per amministrare la giustizia nella marca, assegna al vescovo della città<br />

la corte regia di Riva alla presenza del vescovo di Trento e del suo conte. La corte di Riva (come già si disse,<br />

appartenente al demanio) era passata più volte di mano (l’ebbe anche la sposa di Berengario I, Anna)ed ora<br />

veniva tolta al marchese di Brescia che l’aveva usurpata.<br />

Il principato vescovile<br />

Alla morte dell’imperatore Ottone III nel 1002, il successore Enrico II dovette impegnarsi per contrastare il<br />

tentativo italico di riconquistare la propria autonomia con l’elezione alla dignità regale di Arduino marchese<br />

d’Ivrea in una Dieta riunita a Pavia.<br />

Dapprima Enrico inviò poche forze che scendendo <strong>da</strong>lla Valsugana tentarono di prendere alle spalle Arduino<br />

attestato tra Verona e Trento.<br />

Arduino, avvertito, andò loro incontro e le sconfisse nel gennaio 1003. Nell’anno successivo allora si mosse<br />

Enrico personalmente, che giunse a Trento nell’aprile 1004, per attraversare pure lui la Valsugana e giungere<br />

a Bassano, ove però Arduino, abbandonato <strong>da</strong>i suoi, non poté opporre alcuna resistenza lasciando ad Enrico<br />

la stra<strong>da</strong> libera per l’incoronazione a re d’Italia.<br />

Questa discesa è anche l’occasione perché Trento conclu<strong>da</strong> il lungo viaggio iniziatosi con il duca Evino. Per<br />

la maggior parte degli studiosi infatti è Enrico II durante la sua permanenza a Trento che lo costituisce in<br />

Principato, affi<strong>da</strong>to all’autorità del vescovo, direttamente soggetto all’Impero, con piena autonomia di<br />

governo e pari dignità rispetto agli altri principi territoriali .<br />

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Non è rimasto il documento che lo comprova, tuttavia i tempi ormai sono maturi e pochi anni più tardi la<br />

scelta viene ribadita e confermata anche <strong>da</strong>lla testimonianza scritta: il 31 maggio e il 1° giugno 1027,<br />

l’imperatore Corrado II, successore di Enrico, costituisce il vescovo di Trento principe diretto del territorio<br />

tridentino entro confini che comprendevano gran parte dell’attuale Alto Adige, ma non Primiero e la<br />

Valsugana orientale (<strong>da</strong>te alla contea vescovile di Feltre) e Fassa (<strong>da</strong>ta al vescovo bressinense).<br />

Un lunghissimo significativo periodo, ricco di luci e di ombre, si apre ora per la <strong>storia</strong> <strong>trentina</strong>, otto secoli di<br />

autonomia e di lotte per difenderla destinati a chiudersi con la bufera napoleonica.<br />

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Il Principato vescovile <strong>da</strong>lle origini alla secolarizzazione (1027-1803)<br />

Gli imperatori pongono i vescovi a guardia della via verso l'Italia di Emanuele Curzel<br />

I vescovi di Trento e Bressanone ricevono i poteri temporali<br />

È opportuno premettere che tra il IX e il<br />

X secolo la crisi dell’Impero e più in<br />

generale delle strutture istituzionali<br />

pubbliche portò ad un diffuso<br />

rafforzamento dell’autorità dei vescovi.<br />

Coloro che gui<strong>da</strong>vano la comunità<br />

cristiana infatti si trovarono – ancor più<br />

che nel periodo precedente – ad essere<br />

gli unici capi riconosciuti e riconoscibili<br />

di tante città e territori. La politica degli<br />

imperatori germanici delle dinastie di<br />

Sassonia e di Franconia, tra il X e l’XI<br />

secolo, non fece che rafforzare questa<br />

tendenza, anche per limitare il potere<br />

delle grandi famiglie laiche.<br />

Fu in tale contesto che l’imperatore<br />

Corrado II, il 31 maggio e il primo<br />

giugno 1027, scelse di affi<strong>da</strong>re<br />

direttamente al vescovo di Trento il<br />

potere temporale nelle contee di Trento,<br />

di Bolzano e di Venosta (forse tale atto<br />

non era altro che una conferma di<br />

quanto già stabilito <strong>da</strong>l suo<br />

predecessore, Enrico II). La concessione<br />

del 1027, di cui si possiede il documento originale, era di eccezionale ampiezza: poneva i vescovi di Trento<br />

alla dipendenza diretta <strong>da</strong>ll’imperatore e consentiva loro l’esercizio di tutte le funzioni pubbliche, compresa<br />

la materia giudiziaria e quella tributaria. In momenti successivi i vescovi avrebbero poi ricevuto ed esercitato<br />

anche altri diritti propri del regnante (lo sfruttamento delle miniere, la supremazia sugli uomini liberi, la<br />

tutela delle strade, i diritti di mercato, di mo<strong>net</strong>a e di dogana, l’uso della foresta).<br />

Il territorio sul quale il vescovo di Trento esercitava tali diritti comprendeva, nel 1027, l’attuale provincia di<br />

Trento (meno la Bassa Valsugana e il Primiero, che erano dei vescovi di Feltre, e la val di Fassa, che era dei<br />

vescovi di Bressanone), gran parte dell’attuale provincia di Bolzano (meno la valle dell’Isarco a nord di<br />

Chiusa e la Val Pusteria) e una parte dell’Engadina, oggi territorio svizzero, <strong>da</strong> Zernez fino all’altezza del<br />

passo di Resia. Al vescovo di Bressanone erano stati contemporaneamente donati analoghi poteri sulla<br />

contea del Norico (valle dell’Isarco e media valle dell’Inn); ad essa Enrico IV, nel 1091, aggiunse la contea<br />

di Pusteria. In questo modo la valle dell’Adige ed i passi alpini che ad essa facevano capo, attraverso i quali<br />

era relativamente agevole passare <strong>da</strong>lla Germania all’Italia, risultavano presidiati <strong>da</strong>i due vescovi.<br />

Come si è detto, i confini del territorio soggetto civilmente al vescovo di Trento erano in parte diversi <strong>da</strong>i<br />

confini dell’area nella quale egli era capo spirituale: la diocesi verso nord comprendeva solo la contea di<br />

Trento, fin quasi a Chiusa verso nord-est e a Merano verso nord-ovest; verso est invece non solo la Bassa<br />

Valsugana, ma anche tutto il Perginese e la sella di Vigolo Vattaro facevano capo al vescovo di Feltre; le due<br />

pievi di Avio e di Brentonico, in Vallagarina, a quello di Verona.<br />

L’immagine più viva dell’inserimento delle vicende di Trento e dei suoi vescovi nella ‘grande politica’<br />

dell’epoca ci viene <strong>da</strong>l Sacramentario U<strong>da</strong>lriciano, un libro liturgico del secolo XI nel quale – all’interno del<br />

canone della messa – sono ricor<strong>da</strong>ti prima i vescovi di Trento, quindi i nomi di coloro che in qualche modo<br />

avevano beneficato la cattedrale <strong>trentina</strong> e chiedevano quindi di essere ricor<strong>da</strong>ti nella preghiera <strong>da</strong>l clero che<br />

vi officiava. Tra essi si contano non solo molti vescovi dell’Italia settentrionale e della Germania, ma anche<br />

gli imperatori e una nutrita serie degli appartenenti all’alta nobiltà bavarese. La re<strong>da</strong>zione è <strong>da</strong> mettere in<br />

connessione con i ripetuti passaggi per Trento nella prima metà dell’XI secolo della corte imperiale, ed in<br />

particolare con il tran<strong>sito</strong> del corteo funebre che riportava in patria le salme della regina Gunhil<strong>da</strong>, nuora<br />

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dell’imperatore Corrado II, e del giovane duca di Svevia Ermanno IV; quest’ultimo fu sepolto nella<br />

cattedrale <strong>trentina</strong>. Il prezioso codice liturgico dà l’immediata percezione di come la Chiesa di Trento fosse<br />

allora parte integrante della «Chiesa imperiale» (Reichskirche), nei decenni in cui Enrico II e Corrado II<br />

compivano i passi decisivi per la fon<strong>da</strong>zione del potere temporale dei vescovi.<br />

Il potere dei vescovi si sviluppa all’ombra dell’Impero<br />

L’episcopato di Trento era una pedina importante dello scacchiere politico europeo. Non costituisce dunque<br />

motivo di meraviglia il fatto di trovare spesso i vescovi trentini al fianco degli imperatori che tra l’XI e il<br />

XIII secolo scesero in Italia. Il vescovo U<strong>da</strong>lrico I morì nel 1022 seguendo Enrico II nel meridione; U<strong>da</strong>lrico<br />

II è registrato nel seguito di Corrado IV e di Enrico III, anche se non è possibile confermare una sua<br />

partecipazione all’elezione dell’antipapa Clemente II (1046). Il vescovo Enrico I aderì ad Enrico IV anche<br />

durante il periodo più rovente della lotta per le investiture, e inutilmente papa Gregorio VII gli chiese di<br />

abbandonare il campo imperiale. L’elezione di Gebardo (1106) fu voluta <strong>da</strong> Enrico V, allora in lotta con il<br />

padre Enrico IV: la città lo respinse, e solo grazie all’intervento del duca di Baviera Guelfo II il vescovo poté<br />

fare il suo ingresso in sede; prese parte quindi alle <strong>tratta</strong>tive tra papa Pasquale II e l’imperatore per risolvere<br />

la questione delle investiture, e <strong>da</strong>l 1117 al 1118 esercitò l’incarico di arcicancelliere dell’Impero.<br />

Altemanno (1124-1149) apparteneva alla famiglia carinziana dei conti di Lurn, e aveva frequentato<br />

l’ambiente dei canonici regolari di Salisburgo; fu il primo vescovo eletto dopo il concor<strong>da</strong>to di Worms<br />

(1122), in seguito al quale erano stati ristabiliti i diritti del clero locale nell’elezione (all’imperatore era<br />

rimasto solo il diritto all’investitura feu<strong>da</strong>le, che doveva precedere la consacrazione). Piuttosto che sullo<br />

scacchiere internazionale, egli cercò di trovare appoggi tra i ministeriali e la vassallità. Altemanno è inoltre il<br />

primo vescovo del quale abbiamo notizie di un’attività in campo pastorale. Egli era infatti interessato allo<br />

sviluppo della vita religiosa della sua diocesi: fondò il monastero dei canonici regolari di San Michele<br />

all’Adige, insediò a Trento, nella chiesa di San Lorenzo, i Benedettini di Vallalta e tentò forse, senza ottenere<br />

risultati durevoli, di imporre una regola di tipo monastico ai canonici della sua cattedrale. Al nome di<br />

Altemanno si con<strong>net</strong>tono anche rilevanti lavori di ristrutturazione nella basilica di San Vigilio, solennemente<br />

riconsacrata il 18 novembre 1145. Prese parte alla secon<strong>da</strong> crociata (1148), e morì dopo essere rientrato in<br />

sede nel 1149.<br />

Adelpreto (1156-1172) era un rampollo della famiglia imperiale degli Hohenstaufen, e si può dunque<br />

supporre che nella sua elezione abbia avuto un ruolo l’imperatore Federico I Barbarossa. A quest’ultimo<br />

rimase sempre fedele, anche nei momenti di più aspro contrasto con il Papato. Adelpreto venne<br />

personalmente coinvolto nelle turbolenze di quegli anni: nel 1158, mentre scortava i legati papali inviati a<br />

<strong>tratta</strong>re con l’imperatore, venne rapito <strong>da</strong>i conti di Appiano e riuscì miracolosamente a liberarsi; fu infine<br />

aggredito ed ucciso il 20 settembre 1172, sulla stra<strong>da</strong> che <strong>da</strong> Arco portava verso Riva, per mano di<br />

Aldrighetto di Castelbarco. La Chiesa locale considerò questa morte pari al martirio per la fede e insignì<br />

quindi Adelpreto del titolo di «beato», tanto <strong>da</strong> considerarlo compatrono della diocesi insieme con Vigilio.<br />

Fu probabilmente il frate domenicano Bartolomeo <strong>da</strong> Trento a riassumere la vicen<strong>da</strong> in un celebre motto:<br />

Pastorem jugulavit ovis, res mira per orbem («la pecora ha sgozzato il pastore, cosa mai vista al mondo»).<br />

Durante gli episcopati di Salomone (1173-1183) e di Alberto di Campo (1184-1188: entrambi, prima<br />

dell’elezione, decani del capitolo cattedrale) vi fu un rafforzamento dell’autorità vescovile, all’ombra del<br />

Barbarossa; proprio l’imperatore, nel 1182, vietò l’istituzione di consoli cittadini e confermò la<br />

sottomissione della città e del territorio al governo dei vescovi. Corrado di Beseno (1189-1205), esponente di<br />

una delle più potenti famiglie della ministerialità vescovile e anch’egli ex-decano del capitolo, riuscì però ad<br />

alienarsi – in modo non del tutto chiaro – le simpatie della città, dell’avvocato tirolese, di molti dei<br />

ministeriali e del capitolo stesso; espulso <strong>da</strong>lla città e schiacciato <strong>da</strong>l peso dei debiti che aveva contratto,<br />

scelse la via delle dimissioni e del ritiro nel monastero di St. Georgensberg presso Schwatz (10 marzo 1205).<br />

Tornò ben presto sulle sue decisioni: ma il 22 aprile una grande assemblea decise di stringere un’alleanza<br />

«per se<strong>da</strong>re la discordia e per recuperare il buono stato dell’episcopato» e dichiarò sgradito l’eventuale<br />

rientro in sede del vescovo. Il contrasto proseguì per un biennio: infine papa Innocenzo III, il 24 maggio<br />

1207, ordinò al capitolo della cattedrale di scegliere il nuovo vescovo. Il 9 agosto successivo fu eletto<br />

Federico Vanga, già canonico di Augsburg e decano di Bressanone.<br />

Federico Vanga (1207-1218) discendeva <strong>da</strong> una nobile famiglia della Val Venosta, che prendeva il nome <strong>da</strong><br />

un castello posto a nord di Bolzano. Come nessun altro vescovo trentino del medioevo ebbe successo<br />

nell’imporre il proprio potere e nel traman<strong>da</strong>re ai posteri un’immagine di forza e di giustizia. Il primo<br />

biennio del suo episcopato fu comunque molto tormentato: egli dovette combattere militarmente contro una<br />

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coalizione di nobili, sui quali risultò infine vincitore. Fedele a papa Innocenzo III, il Vanga si trovava a<br />

Roma quando Ottone IV venne incoronato imperatore nel 1209; passò quindi <strong>da</strong>lla parte di Federico II di<br />

Svevia, per il quale operò come legato generale per l’Italia. Il suo impegno per la conservazione ed il<br />

rafforzamento dei diritti della Chiesa <strong>trentina</strong> è attestato <strong>da</strong>l «Libro di San Vigilio» (o Codex Wangianus),<br />

una grande raccolta dei documenti che attestavano i diritti dell’episcopato (dissipata collegimus, alienata<br />

recuperavimus: «abbiamo raccolto ciò che era stato disperso, abbiamo recuperato ciò che era stato venduto»,<br />

scrisse nell’introduzione). Alla riorganizzazione amministrativa fece seguito la ripresa economica: il Vanga,<br />

in particolare, promosse la coltivazione di terre incolte e l’attività mineraria, per regolare la quale fece<br />

compilare uno statuto che è tra i più antichi d’Europa. In città migliorò il sistema delle fortificazioni (con la<br />

costruzione della torre che ancora oggi porta il suo nome) e avviò i lavori della nuova cattedrale, affi<strong>da</strong>ta al<br />

maestro comacino A<strong>da</strong>mo d’Arogno. Dal punto di vista spirituale si ricor<strong>da</strong> l’appoggio <strong>da</strong> lui <strong>da</strong>to alle<br />

fon<strong>da</strong>zioni monastico-ospe<strong>da</strong>liere. Morì nel 1218, quando si trovava in Terrasanta al seguito della quinta<br />

crociata, e venne sepolto a San Giovanni d’Acri.<br />

Successori di Federico Vanga furono prima Adelpreto di Ravenstain (1219-1223) e poi il cremonese Gerardo<br />

Oscasali (1224-1232). Eletti <strong>da</strong>l capitolo della cattedrale, operarono in continuità rispetto al loro<br />

predecessore e conservarono il legame con l’imperatore Federico II: pur con non pochi segni di logoramento,<br />

si <strong>tratta</strong>va di una politica ancora vincente. È in questi anni, forse intorno al 1230, che fu costruita una nuova<br />

ed ampia cinta muraria che abbracciava l’abitato e l’area immediatamente circostante. Dell’Oscasali si<br />

ricor<strong>da</strong> anche l’impegno per la prosecuzione dei lavori nella nuova cattedrale e vari atti di governo relativi<br />

alla sfera religioso-istituzionale: uno sforzo di <strong>da</strong>re ordine alla vita della Chiesa locale come conseguenza<br />

della spinta <strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l IV Concilio lateranense (1215). Nel segno della stabilità avvenne anche l’elezione a<br />

vescovo di Aldrighetto <strong>da</strong> Campo (1232-1247), che sedeva tra i canonici <strong>da</strong> trent’anni e non era stato<br />

coinvolto nelle lotte che avevano segnato l’avvio del periodo vanghiano. Quanto poi il <strong>da</strong> Campo avrebbe<br />

corrisposto alle attese – e quanto le condizioni esterne gliel’avrebbero consentito – è cosa che si sarebbe vista<br />

di lì a poco.<br />

Federico di Vanga<br />

Il tormentato cammino per l´elezione del successore del vescovo Corrado<br />

Federico di Vanga, proveniente <strong>da</strong> una nobile famiglia di Burgusio, in Val Venosta, prima di ricevere la<br />

nomina a vescovo di Trento aveva ricoperto gli incarichi di canonico ad Augusta e di decano a Bressanone.<br />

La sua elezione non fu tra le più agevoli, poiché il vescovo precedente, Corrado di Beseno, aveva<br />

abbandonato la carica per ritirarsi in un monastero e in seguito aveva fatto di tutto per riprendersela.<br />

Tale voltafaccia finì col creare non poche difficoltà alla Chiesa, che si trovò a lungo prima con una sede<br />

vacante, poi a dover subire le rimostranze di Corrado. Per poter far fronte ai ripetuti tentativi operati <strong>da</strong><br />

quest´ultimo allo scopo di tornare ad occupare il soglio di San Vigilio, il Capitolo era riuscito a coagulare le<br />

forze della nobiltà vescovile con quelle della città di Trento, capitanate <strong>da</strong> Alberto III del Tirolo in qualità<br />

di podestà cittadino. Fu proprio il conte Alberto, che fra l´altro era nipote del futuro presule, a rappresentare<br />

uno dei sostegni più concreti ed efficienti del programma politico di Federico di Vanga. Mentre perdurava<br />

questo stato di provvisorietà, esercitava momentaneamente la tutela sul vescovado il patriarca Wolfger di<br />

Aquileia, quale amministratore apostolico. Esisteva in ogni caso la volontà, non solo <strong>da</strong> parte del Capitolo,<br />

ma anche della Santa Sede, di concludere questo periodo di transizione al più presto possibile; e al termine<br />

di conciliaboli assai travagliati, si giunse infine alla nomina di Federico di Vanga, il 9 agosto del 1207,<br />

circa tre anni dopo la rinuncia di Corrado. L´investitura temporale ebbe luogo tre mesi più tardi a<br />

Norimberga, ad opera del sovrano Filippo di Svevia<br />

Il programma politico di Federico di Vanga attraverso la ricostruzione dei territori vescovili. Il Codex<br />

Wangianus<br />

La celebrità di Federico nella <strong>storia</strong> <strong>trentina</strong> deriva <strong>da</strong>ll´essere stato considerato come una delle personalità<br />

più forti e più valide tra tutti i vescovi di Trento. Il suo è infatti un vero e proprio periodo di splendore per<br />

la Chiesa locale. Federico, fin <strong>da</strong>l giorno della sua investitura, cominciò a lavorare ad un progetto politico<br />

ben preciso, con l´intenzione di <strong>da</strong>re al principato un maggiore ordine sociale ed amministrativo. Il suo<br />

programma prevedeva il consoli<strong>da</strong>mento del potere vescovile in virtù dell´applicazione di criteri<br />

prettamente feu<strong>da</strong>li, e per realizzarlo occorreva un pronto recupero di gran parte di quei beni e di quei diritti<br />

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che erano stati poco prima alienati o ceduti, sia <strong>da</strong>l suo predecessore, sia durante il biennio in cui la sede<br />

vescovile era rimasta priva della propria gui<strong>da</strong>: si <strong>tratta</strong>va, naturalmente, in special modo di diritti sulla<br />

terra. Egli riuscì infatti, in tempi considerevolmente brevi, ad ottenere le proprietà terriere e il patrimonio di<br />

un tempo. Per creare una stabilità maggiore, volle inoltre accertarsi di persona dell´affi<strong>da</strong>bilità dei suoi<br />

vassalli, obbligando i feu<strong>da</strong>tari al giuramento di fedeltà. L´intera documentazione relativa alle numerose<br />

negoziazioni e provvedimenti in cui si chiamava in causa l´autorità del vescovo attestano al contempo i<br />

diritti del principato vescovile di Trento e costituiscono il cosiddetto «Codex Wangianus» (o meglio il<br />

«Libro di San Vigilio», come venne chiamato in origine). Esso può essere considerato come il grande<br />

raccoglitore degli atti della Chiesa tridentina e rappresenta probabilmente il documento più importante di<br />

tutto il medioevo trentino. Ad arricchirlo con svariate e dettagliate annotazioni provvidero i successori del<br />

vescovo Federico.<br />

Il sostegno dell´economia e dell´urbanistica<br />

L’economia complessiva della diocesi conobbe un cospicuo incremento, dovuto sia alla decisione di<br />

Federico di sottoporre a coltivazione un gran numero di terreni L´economia complessiva della diocesi<br />

conobbe un cospicuo incremento, dovuto sia alla decisione di Federico di sottoporre a coltivazione un gran<br />

numero di terreni prima lasciati incolti, sia ad un´intensificazione dei rapporti commerciali con i territori<br />

limitrofi. Il vescovo dispose anche il rinforzo delle mura della città, con la costruzione della terza cinta<br />

muraria, e fece costruire la cosiddetta «torre rossa», che a tutt´oggi in sua memoria è ricor<strong>da</strong>ta come «torre<br />

Vanga». La costruzione, eretta nel 1210, serviva al controllo del vicino ponte sull´Adige e allo stesso tempo<br />

svolgeva le funzioni di difesa militare e civile, in caso di attacco della città o durante le piene del fiume.<br />

Federico di Vanga contribuì in maniera determinante alla crescita dell´attività delle miniere d´argento, in<br />

particolare di quelle del monte Calisio, presso le quali chiamò a lavorare minatori di origine germanica, che<br />

successivamente si stanziarono nella Valle del Fersina nonché negli altopiani di Lavarone e di Folgaria. In<br />

questo modo fu <strong>da</strong>to origine, attraverso un lento processo di fusione con la popolazione dei luoghi, a ceppi<br />

linguistici del tutto singolari, che più avanti furono ritenuti per errore di derivazione cimbrica. In<strong>da</strong>gini più<br />

appropriate effettuate in tempi alquanto recenti hanno infatti contribuito a dimostrare che molte delle<br />

espressioni linguistiche divenute caratteristiche di queste zone risalgono ad un´antica lingua parlata secoli<br />

or sono in Baviera. Pertanto, l´affascinante ipotesi secondo cui le popolazioni oggi comunemente indicate<br />

come «cimbriche» sarebbero le dirette discendenti dei più celebri barbari provenienti <strong>da</strong>lla penisola<br />

scandinava, propagatisi nella zona mitteleuropea e sconfitti <strong>da</strong> Mario nella celebre battaglia dei Campi<br />

Raudii nel 101, va considerata priva di credito.<br />

Lo statuto minerario del 19 giugno 1208 è riconosciuto come uno tra i più antichi codici alpini di diritto<br />

minerario ed anche tra i più antichi in assoluto in tutta l´Europa (1).<br />

L´impulso alla costruzione di edifici destinati all´ospitalità. Gli esempi di San Leonardo in Sarnis e di Santa<br />

Margherita di Ala<br />

Tra le iniziative realizzate <strong>da</strong>l vescovo Federico rivestono una speciale importanza le fon<strong>da</strong>zioni dei vari<br />

centri di ospitalità, ubicati sia lungo la Valle Lagarina che nelle valli circostanti. Il più famoso di questi è<br />

rimasto quello affi<strong>da</strong>to all´Ordine dei Crociferi di San Leonardo in Sarnis, fra Borghetto e i Masi di Avio. Il<br />

vescovo si rivelò pertanto figura di grande sensibilità verso gli stranieri e i pellegrini, costretti a fare i conti,<br />

durante i loro spostamenti, con i pericoli più disparati. Il complesso ospe<strong>da</strong>liero di San Leonardo esisteva<br />

già come insediamento agricolo e come xenodochio (ossia come centro di ospitalità gratuito per i<br />

viaggiatori stranieri), ma Federico lo potenziò e ne fece un punto di riferimento per tutti i passeggeri che<br />

transitavano lungo il Trentino. Aveva infatti concesso ai monaci non solo di ospitare i forestieri, ma anche<br />

di difenderli <strong>da</strong>lle imboscate dei numerosi predoni che infestavano il territorio, autorizzandoli a servirsi<br />

anche delle armi, qualora fosse stato necessario. Particolare, questo, che può rivelare <strong>da</strong> sé quali<br />

drammatiche connotazioni avesse assunto, a quei tempi, il problema dei briganti; e che depone ancora una<br />

volta a favore della personalità estremamente battagliera e risoluta di questo vescovo.<br />

Quella del brigantaggio, tra le piaghe più endemiche, era favorita anche <strong>da</strong>lla particolare conformazione<br />

geografica dei luoghi, le cui montagne e valichi offrivano molte occasioni per agguati ed imboscate. Ai<br />

monaci spettava anche il compito di provvedere al buono stato delle strade e delle vie del circon<strong>da</strong>rio, ed<br />

essi svolgevano altresì un´attività di vero e proprio aiuto economico nei confronti delle milizie che<br />

partivano alla volta dei santuari. L´edificio è stato nei secoli mutato più volte, fino a diventare, ai giorni<br />

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nostri, una pregiata azien<strong>da</strong> vitivinicola.<br />

Al medesimo scopo doveva fungere l´ospizio fortificato di Santa Margherita di Ala, ideato e fatto costruire<br />

ancora <strong>da</strong>l vescovo Federico di Vanga e poco distante <strong>da</strong>l complesso di San Leonardo. Esso si<br />

autofinanziava con le rendite derivanti <strong>da</strong>lla propria produzione agricola, e al contempo, dotato com´era di<br />

una poderosa fortezza quadrangolare, diventava un luogo di approdo per qualunque vian<strong>da</strong>nte inseguito o<br />

minacciato <strong>da</strong>i malintenzionati. Federico aveva dunque ben presidiato la valle, adempiendo nel migliore dei<br />

modi ad una delle responsabilità connesse alla sua carica, quella che richiedeva la garanzia dell´ordine<br />

pubblico sul territorio. Analoghe costruzioni che egli stesso aveva provveduto a far erigere e a finanziare<br />

erano quelle di Lengmoos sul Renon, di San Tommaso di Romeno, di San Giorgio a Castello di Fiemme e<br />

di San Lazzaro a Capriana.<br />

Il progetto per la nuova Cattedrale<br />

A distanza di otto secoli, il ricordo di questo vescovo è associato in particolar modo alla sua idea di<br />

costruire una nuova Cattedrale. Egli, infatti, aveva già provveduto alla sopraelevazione del palazzo<br />

vescovile e del castelletto presso l´antica basilica di San Vigilio, ed aveva manifestato l´intenzione di<br />

ricostruirla, rendendola più grande e più maestosa. Avrebbe certamente tenuto fede al proprio impegno, se<br />

non fosse partito per le crociate senza più fare ritorno. In realtà, la nuova Cattedrale, stando alla<br />

testimonianza fornita <strong>da</strong>l Dittico U<strong>da</strong>lriciano, era stata consacrata <strong>da</strong>l vescovo Altemanno di Baviera il 18<br />

novembre 1145, ai tempi della traslazione delle reliquie di San Vigilio, qualche decina d´anni prima della<br />

venuta di Federico. Tuttavia, senza nulla togliere all´ importanza decisiva dell´intervento di Altemanno, fu<br />

proprio Federico di Vanga a definirne la struttura architettonica, secondo un progetto al quale si diede più<br />

completa esecuzione dopo sua la morte. Al posto della vecchia basilica di San Vigilio, che venne un poco<br />

alla volta abbattuta, si lavorò alla costruzione della nuova e più imponente struttura, relativamente alla<br />

quale ebbero una parte preponderante i maestri comacini della famiglia di A<strong>da</strong>mo d´Arogno.<br />

L´attività politica di Federico di Vanga e i suoi legami con l´imperatore Federico II. La morte nel corso dell<br />

´operazione militare in Terra Santa<br />

In questo periodo storico ricco di novità e di fermenti, il vescovo Federico prese parte <strong>da</strong> protagonista agli<br />

eventi che caratterizzarono i rapporti fra Chiesa ed Impero, nei quali veniva coinvolto anche per la fiducia<br />

che i regnanti riponevano in lui per il suo coraggio e l´intelligenza nel gestire i rapporti con le persone.<br />

Dapprima sostenne apertamente l´imperatore guelfo Ottone IV di Brunswick, che accompagnò a Roma nel<br />

viaggio destinato a concludersi con la sua incoronazione. In seguito, sostenne con decisione la politica<br />

ecclesiale del papa Innocenzo III.<br />

Nel 1212 accompagnò con la sua scorta il giovane Federico, in quel momento re di Sicilia, nel pericoloso<br />

viaggio che <strong>da</strong> Genova lo doveva condurre fino in Germania per cingere la corona regia. Il futuro<br />

imperatore, che stimava particolarmente il Vanga, decise un anno più tardi, in occasione della dieta di<br />

Regensburg, di ricompensarlo nominandolo legato imperiale per la Lombardia, la Tuscia, la Romagna e la<br />

Marca veronese, nonché vicario imperiale a vita. Due anni più tardi, Federico di Vanga comparve<br />

nuovamente nel contesto della Dieta di Augusta a fianco dello stesso Federico II, e nel 1218 decise di<br />

partire per la spedizione in Palestina caldeggiata <strong>da</strong> papa Onorio III. L´intervento in una quinta crociata con<br />

l´intento di liberare la Terrasanta <strong>da</strong>gli infedeli e di riconquistare Gerusalemme era stato invocato tre anni<br />

prima <strong>da</strong>l IV Concilio Laterano; più avanti, il pontefice Gregorio IX sarebbe riuscito praticamente a<br />

costringere un riluttante Federico II a prendervi parte. La crociata coinvolse soprattutto le milizie ungheresi<br />

e germaniche, che conquistarono la città di Damietta al termine di un lunghissimo assedio, ma si risolse<br />

ancora una volta miseramente per gli eserciti della Chiesa, duramente provati <strong>da</strong>lle pesanti sconfitte<br />

riportate in Egitto e costretti a fare ritorno in Occidente, riman<strong>da</strong>ndo la conquista dei territori consacrati.<br />

Federico di Vanga non fece in tempo ad assistere a tutte le vicende di questa nuove operazioni belliche:<br />

trovò infatti la morte il 6 novembre del 1218 nei pressi di Accon, in Siria, durante la fase iniziale della<br />

spedizione. Al suo fianco c´era colui che sarebbe divenuto il suo successore sul soglio vescovile di Trento,<br />

Adelpreto di Ravenstein. Venne sepolto, secondo la testimonianza del Dittico U<strong>da</strong>lriciano, nella chiesa di<br />

Santa Maria, presso l´ospe<strong>da</strong>le teutonico di San Giovanni d´Acri.<br />

Note:<br />

1. Secondo Armando Costa, nel suo libro «I vescovi di Trento», Ediz. Artigianelli Trento, 1977, lo statuto<br />

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minerario del 1208 si può considerare il più antico in Europa. Di altro parere è invece J. Kögl, il quale, nel<br />

suo libro «La sovranità dei vescovi di Trento e di Bressanone», Ediz. Artigianelli Trento, 1964, sostiene che<br />

regolamento minerario di più antica <strong>da</strong>ta sarebbe quello predisposto <strong>da</strong>l vescovo Alberto di Campo, il 24<br />

marzo 1185.<br />

Collaboratori e concorrenti del potere vescovile: famiglie comitali, avvocati, ministerialità<br />

I secoli XI e XII sono considerati, nella storiografia, il «periodo aureo» della sovranità vescovile. Non si<br />

può però immaginare che il potere dei vescovi fosse assoluto e privo di collaboratori e concorrenti interni. Il<br />

primo collaboratore-concorrente era l’avvocato. L’istituto dell’avvocazia era nato nella tar<strong>da</strong> antichità come<br />

forma di rappresentanza degli enti ecclesiastici di fronte ai tribunali. Si era poi sviluppato nei secoli centrali<br />

del medioevo, soprattutto in area germanica e nel nord-est della penisola italiana, come un ufficio<br />

giudiziario esercitato nell’ambito delle proprietà vescovili esenti <strong>da</strong>lla giurisdizione pubblica (immunità),<br />

ed affi<strong>da</strong>to ereditariamente a famiglie di rango nobile; a queste venivano concessi in cambio ampi feudi, e a<br />

queste spettava, corrispondentemente, anche la tutela del patrimonio ecclesiastico. In conformità con<br />

processi di portata più generale, nel XII secolo l’ufficio divenne ereditario, e si accentuò il suo carattere di<br />

servizio a protezione dei beni dell’episcopato. Nella secon<strong>da</strong> metà del Duecento i conti di Tirolo-Gorizia,<br />

rovesciando il rapporto di sudditanza connesso all’incarico, trasformarono l’avvocazia in uno strumento di<br />

controllo sui vescovi; il titolo di “avvocato” divenne il pilastro ideologico in grado di giustificare<br />

l’occupazione di gran parte del principato vescovile. All’interno del territorio civile affi<strong>da</strong>to ai vescovi<br />

esistevano varie immunità (aree esenti <strong>da</strong>lla giuridizione pubblica: nel nostro caso, <strong>da</strong> quella vescovile).<br />

Quelle sottoposte agli enti ecclesiastici non erano particolarmente rilevanti: solo piccole zone facevano<br />

capo al capitolo della cattedrale di Trento, a quello della cattedrale di Verona e al monastero di San<br />

Michele. Le immunità più importanti erano invece quelle su cui si fon<strong>da</strong>va il potere di alcune famiglie<br />

comitali, eredi dei funzionari dell’età carolingia ed insieme delegate <strong>da</strong>i vescovi stessi ad assumere<br />

l’autorità pubblica in determinate aree (viceconti). Le stirpi comitali che ebbero a che fare con l’ambito<br />

trentino furono i Flavon, gli Appiano, i Morit-Greifenstein e i Tirolo. I conti di Flavon si insediarono in Val<br />

di Non forse grazie alla parentela con i vescovi U<strong>da</strong>lrico I e U<strong>da</strong>lrico II, nell’XI secolo. Erano poi in<br />

possesso di beni in Val di Sole, nella valle dell’Adige e nelle Giudicarie. Nella prima metà del XII secolo<br />

detennero anche l’avvocazia sull’episcopato. Dopo un lungo periodo di marginalità – che garantì però<br />

anche la loro sopravvivenza – subirono la pressione del conte del Tirolo Mainardo II e intorno al 1290<br />

furono espropriati e dispersi. Probabilmente gli Appiano erano in origine conti di Bolzano: mutarono il loro<br />

titolo radicandosi sulle alture a sud-ovest della città, dove possedevano rilevanti beni fondiari. Esercitavano<br />

diritti comitali nella fascia tra Appiano e la Val d’Ultimo ed erano in possesso di proprietà nelle Giudicarie,<br />

in Val d’Adige e in Val di Cembra. Nel XII secolo furono tra i più potenti e pericolosi concorrenti del<br />

potere vescovile: si ricor<strong>da</strong> infatti la loro partecipazione alla cattura di Adelpreto e dei legati papali nel<br />

1158. L’estinzione della famiglia alla metà del XIII secolo (l’ultimo degli Appiano fu il vescovo Egnone)<br />

diede via libera ai conti di Tirolo.<br />

I conti di Morit-Greifenstein furono nel XII secolo avvocati dei vescovi di Bressanone e feu<strong>da</strong>tari dei<br />

vescovi di Trento a Bolzano. La famiglia si estinse nel 1170: anche in questo caso furono i conti di Tirolo a<br />

trarne vantaggio. I conti di Tirolo prendevano il nome <strong>da</strong>l castello situato sopra Merano, all’imbocco della<br />

val Passiria; già nel 1140 risultavano feu<strong>da</strong>tari della chiesa <strong>trentina</strong> in Venosta, e nel 1170 ottennero anche<br />

parte dei diritti che i Morit-Greifenstein avevano avuto su Bolzano. Verso la metà del secolo XII<br />

conseguirono l’avvocazia dell’episcopato trentino, e all’inizio di quello successivo anche quella<br />

dell’episcopato di Bressanone. Per un secolo il rapporto tra conti di Tirolo e vescovi di Trento ebbe il<br />

carattere della collaborazione: parente stretto dei Tirolo era il vescovo Federico Vanga; Alberto III di Tirolo<br />

fu a lungo podestà di Trento, e non si ha notizia di contrasti tra lui ed i vescovi – se non nel caso<br />

dell’alleanza contro Corrado di Beseno, quando il podestà si schierò con la cittadinanza. Lo stesso Alberto<br />

III, negli anni trenta del Duecento, avrebbe ottenuto <strong>da</strong>l vescovo Aldrighetto di Campo il diritto di<br />

trasmettere ereditariamente l’avvocazia <strong>trentina</strong> anche per via femminile, e per questa via la carica pervenne<br />

ai Tirolo-Gorizia. Esistevano poi famiglie di libera nobiltà, in possesso di beni propri, quali gli Arco e i<br />

Castelbarco; ma tale gruppo, sommando feudi ai propri allodi, si integrò progressivamente con quello<br />

costituito <strong>da</strong>gli esponenti della ministerialità vescovile, ossia <strong>da</strong> quelle persone – originariamente al servizio<br />

dei vescovi, e dunque di condizione non libera – cui erano stati affi<strong>da</strong>ti compiti di custodia dei castelli e di<br />

51


difesa militare. Venne così a costituirsi la «nobile compagnia (gentilis macinata) di San Vigilio», un gruppo<br />

di vassalli vescovili nella quale i nobili di origine libera e quelli di origine non libera erano di fatto<br />

indistinguibili. Tra il XII secolo e l’inizio del XIII erano poche le famiglie in grado di sviluppare una<br />

politica indipendente <strong>da</strong>l potere vescovile: ma con l’allentarsi della protezione imperiale sull’episcopato<br />

molte cercarono e trovarono nuovi appoggi. Alcune, specie quelle della Vallagarina, vennero attratte prima<br />

<strong>da</strong>lla potenza di Ezzelino <strong>da</strong> Romano e poi <strong>da</strong>lle esperienze comunali e signorili della pianura pa<strong>da</strong>na;<br />

molte riconobbero il nuovo potere di riferimento nel conte di Tirolo. Questi a sua volta perseguiva una<br />

politica che prevedeva o la «mediatizzazione» delle famiglie nobili (queste dovevano cioè riconoscere non<br />

nel vescovo, ma in lui il loro superiore feu<strong>da</strong>le: così accadde ad esempio con i signori di Coredo, di<br />

Cembra, di Mezzo, di Firmian, di Arsio), o la loro cancellazione (come accadde con i Vanga, gli Egna ed i<br />

Flavon), cui poteva far seguito l’introduzione, in determinati ruoli funzionariali, di esponenti della nobiltà<br />

tirolese (come gli Scena, gli Spaur, i Rottenburg).<br />

Nella cartina: I castelli e le fortificazioni del Trentino in età tardo-medievale<br />

(<strong>da</strong>: BETTOTTI, L’aristocrazia nel tardo medioevo, pag. 439).<br />

La crisi del potere vescovile e la nascita del Tirolo di Emanuele Curzel<br />

L'imperatore Federico II pone a Trento un podestà<br />

I vescovi trovarono sostegno negli imperatori germanici fino agli anni trenta del Duecento: ma nel 1236 vi fu<br />

una brusca svolta. In quell’anno Federico II pose a Trento e a Bressanone dei podestà imperiali, che<br />

esautorarono di fatto il potere vescovile. Non si trattò solo di una misura resa necessaria <strong>da</strong>lle precarie<br />

condizioni di salute di Aldrighetto, ma soprattutto delle conseguenze della lotta che l’anno precedente aveva<br />

visto contrapposti lo stesso Federico II e suo figlio Enrico, e che si era conclusa con la sconfitta di<br />

quest’ultimo e dei suoi sostenitori.<br />

52


A Bressanone il giudice imperiale Haward fu subito affiancato nel governo <strong>da</strong>l capitolo della cattedrale, e la<br />

successiva elezione a vescovo del filoimperiale Egnone di Appiano (1240) chiuse la parentesi. A Trento,<br />

invece, si assistette alla rapi<strong>da</strong> successione di tre podestà imperiali (Wibotone, Svicherio di Montalban e<br />

Lazzaro <strong>da</strong> Lucca) e infine, nel dicembre del 1238, all’arrivo del pugliese Sodegerio <strong>da</strong> Tito, destinato a<br />

sopravvivere a Federico II e a rimanere in città fino al 1255.<br />

Dopo la morte di Aldrighetto, nei primi mesi del 1247, il capitolo elesse vescovo il proprio decano, Ulrico di<br />

Porta, un esponente della società cittadina. La scelta avvenne nel momento culminante della lotta tra il papa<br />

Innocenzo IV e l’imperatore Federico II, e con tutta probabilità esprimeva proprio una posizione<br />

filoimperiale. Ad opporsi fu però Innocenzo IV, contro gli orientamenti del quale i canonici della cattedrale<br />

avevano coscientemente agito: il papa rifiutò la conferma del nuovo vescovo ed affidò invece<br />

l’amministrazione della Chiesa di Trento al vescovo di Bressanone Egnone di Appiano. Questi, eletto come<br />

vescovo filoimperiale, aveva <strong>da</strong> poco cambiato fronte, entrando decisamente in quello dei sostenitori di<br />

Innocenzo IV. Il capitolo venne dunque scomunicato; nel novembre 1250 il papa nominò Egnone vescovo di<br />

Trento.<br />

Lo stallo durò per qualche anno. Ulrico di Porta rimase vescovo eletto, ma non confermato né consacrato,<br />

mentre il podestà Sodegerio garantiva la stabilità della situazione; avendo egli perso l’appoggio di Federico<br />

II – scomparso nel dicembre del 1250 – ed essendo insufficiente quello che gli poteva venire <strong>da</strong>l nuovo<br />

imperatore Corrado IV, il pugliese rafforzò la propria posizione appoggiandosi sull’ex-vicario imperiale per<br />

la Marca trevigiana Ezzelino III <strong>da</strong> Romano. Ciò procurò in seguito a Sodegerio pessima stampa: ma nella<br />

storiografia più recente il giudizio sul podestà imperiale è stato rivisto. Egli è ora considerato non più un<br />

tiranno di stampo «ezzeliniano», ma un funzionario che cercò di governare con la collaborazione di tutte le<br />

forze dell’episcopato.<br />

Le <strong>tratta</strong>tive per trovare una soluzione che garantisse <strong>da</strong> un lato l’ingresso in sede di Egnone e <strong>da</strong>ll’altro una<br />

via d’uscita per Sodegerio e Ulrico an<strong>da</strong>rono a buon fine all’inizio del 1255. Nella primavera di quell’anno il<br />

podestà, alleato con i Castelbarco, liberò la città <strong>da</strong>lla pesante tutela di Ezzelino <strong>da</strong> Romano; si accordò<br />

quindi con Egnone, ed in cambio di alcuni feudi gli cedette la «casa nuova» che aveva costruito sul colle del<br />

Malconsilium (questa fu <strong>da</strong> allora la residenza fortificata dei vescovi: qualche anno dopo sarebbe stata<br />

chiamata Castello del Buonconsiglio); Ulrico di Porta tornò ad essere solo il decano del capitolo; i<br />

Castelbarco e gli Arco furono generosamente ricompensati.<br />

Cresce la potenza dei Tirolo-Gorizia<br />

L’ingresso di Egnone a Trento non significò affatto la fine della guerra con Ezzelino <strong>da</strong> Romano, che era<br />

cominciata nella primavera del 1255 e che era destinata a durare fino alla morte dell’«eretico» (1259). Un<br />

periodo particolarmente difficile fu la primavera del 1256, quando Trento era assediata <strong>da</strong> Ezzelino su tre lati<br />

ed insidiata pure <strong>da</strong>l nuovo dinasta tirolese, Mainardo I di Tirolo-Gorizia, genero di Alberto III di Tirolo,<br />

presente in armi sul fronte settentrionale. In tali circostanze, il 29 aprile 1256, il vescovo e il consiglio<br />

cittadino decisero di investire Mainardo I dell’avvocazia della Chiesa di Trento, ossia dell’ufficio che era<br />

stato di suo suocero Alberto III, e dei feudi che erano ad essa connessi. La solenne cerimonia avvenne tre<br />

giorni dopo sulla piazza del palazzo vescovile. Ma non era stata una libera scelta: lo stesso 2 giugno il<br />

decano, l’arcidiacono e altri cinque canonici, dicendo di parlare «a nome proprio e degli altri canonici, del<br />

capitolo, del clero, dei nobili, dei vassalli, dei ministeriali e del popolo della città e della diocesi di Trento»,<br />

affermarono che l’investitura a Mainardo I era stata resa possibile, <strong>da</strong> un punto di vista giuridico, solo<br />

<strong>da</strong>ll’esistenza di una precedente concessione <strong>da</strong> parte del predecessore di Egnone, Aldrighetto di Campo; tale<br />

vescovo (1232-1247) aveva infatti garantito al conte di Tirolo Alberto III che l’avvocazia sarebbe stata<br />

ereditabile sia per via maschile che per via femminile. Ma tale atto – sostenevano i canonici – era <strong>da</strong><br />

considerarsi nullo, in quanto compiuto senza consultare il capitolo della cattedrale, e priva di valore avrebbe<br />

dovuto essere dunque anche l’investitura in favore di Mainardo I. Ciò era avvenuto era solo perché i canonici<br />

avevano paura di venire uccisi e temevano la distruzione della città e della diocesi. Egnone faceva sua la<br />

protesta, «come uomo che al momento non può né osa fare altro»: si trovava costretto a riconoscere che il<br />

ricorso ai Tirolo (che almeno formalmente chiedevano un’investitura feu<strong>da</strong>le e non una sottomissione) era<br />

l’unica possibile scelta alternativa alla fine del potere temporale dei vescovi. Il 19 febbraio 1259 Egnone fu<br />

poi costretto ad investire dell’avvocazia il giovane figlio di Mainardo I, Mainardo II, il quale pose un proprio<br />

capitano a capo dell’amministrazione civile e militare della città e dell’episcopato.<br />

Mainardo II di Tirolo-Gorizia fu il vero fon<strong>da</strong>tore della potenza tirolese. La sua azione, sorretta <strong>da</strong> imprese<br />

militari ma soprattutto <strong>da</strong> un’accorta politica matrimoniale e <strong>da</strong> una diplomazia abile e spregiudicata, portò<br />

53


nell’arco di quasi un quarantennio alla creazione dell’organismo territoriale che, durante il suo governo,<br />

prese il nome di contea del Tirolo (fino ad allora esistevano infatti solo i conti di Tirolo). La divisione<br />

patrimoniale con il fratello Alberto, al quale an<strong>da</strong>rono i territori friulano-istriani della famiglia (1271), lo<br />

portò a concentrarsi sull’area che stava tra l’Adige, l’Isarco e l’Inn. Egnone tentò più volte di ritrovare spazi<br />

di autonomia rispetto al potente vicino, ma la sua azione non fu particolarmente efficace, anche perché era<br />

costretto a subire un’opposizione interna che non considerava sgradita la protezione tirolese ed era pronta a<br />

sfruttarla proprio in chiave antivescovile. Anche le sollevazioni della città, infatti, costrinsero più volte<br />

Egnone alla fuga ed a trascorrere lunghi periodi lontano <strong>da</strong> Trento.<br />

Il 20 dicembre 1268 Mainardo II impose ad Egnone la «pace di Bolzano», che in pratica permetteva al conte<br />

di occupare l’intero principato vescovile. Da quel momento in poi il vescovo non fu più in grado di sottrarsi<br />

alla tutela tirolese; appariva anzi ai contemporanei come colui che cercava il modo di ingraziarsi il proprio<br />

persecutore, più che il modo di liberarsi <strong>da</strong> esso. Nel 1279 sarebbe stato ricor<strong>da</strong>to con queste parole:<br />

«Egnone vescovo di Trento è stato un dissipatore e non si è curato dei beni dell’episcopato di Trento».<br />

L’ultimo conte di Appiano concluse le sue fatiche terrene in esilio, a Padova, all’inizio di giugno del 1273.<br />

Papa Gregorio X si era riservato la nomina del successore. La decisione – che peraltro si inseriva nella più<br />

generale tendenza ad avocare a Roma le nomine dei vescovi – seguiva altri interventi papali con i quali la<br />

Santa Sede stava cercando, anche in chiave antiimperiale, di salvaguar<strong>da</strong>re il potere temporale dei vescovi<br />

trentini. Per questo il conte del Tirolo non poté far eleggere <strong>da</strong>l capitolo della cattedrale un proprio favorito.<br />

Nell’autunno del 1274 venne chiamato a reggere la diocesi un religioso dell’Ordine Teutonico, Enrico II.<br />

Proveniva <strong>da</strong>lla cancelleria del re di Germania Rodolfo I d’Asburgo: il papa sperava che questi l’avrebbe<br />

adeguatamente protetto. Ma otto giorni dopo essere entrato a Trento, nel gennaio del 1275, Enrico II finì in<br />

carcere. Il rifiuto di concedere a Mainardo i feudi relativi all’avvocazia e la richiesta di restituzione dei beni<br />

usurpati provocarono l’improvvisa reazione della città, pienamente allineata sulle posizioni tirolesi. Enrico<br />

rigua<strong>da</strong>gnò presto la libertà, ma per dieci mesi e dodici giorni rimase fuori sede, alla ricerca di alleati che gli<br />

permettessero di rientrare; li trovò nei feu<strong>da</strong>tari dell’episcopato residenti nell’area di Bolzano. Nel dicembre<br />

dello stesso anno il capitano della città, Erardo di Zwingenstein, aprì le porte al vescovo e ai suoi alleati; un<br />

giuramento di fedeltà venne imposto ai rappresentanti della città. Cominciò così un periodo di governo<br />

effettivo ma estremamente tormentato, destinato a concludersi nove anni dopo. Enrico cercò ripetutamente la<br />

protezione di Rodolfo, ma <strong>da</strong>l re di Germania – che dell’aiuto militare di Mainardo II aveva costante bisogno<br />

– ottenne solamente arbitrati contenenti formulazioni tali <strong>da</strong> lasciare nel vago ogni questione e che,<br />

soprattutto, non venivano mai applicati. Un appoggio più concreto ma altrettanto inefficace venne al vescovo<br />

trentino <strong>da</strong> Padova: ma il podestà Marsilio Partenopeo, inviato <strong>da</strong>l comune ve<strong>net</strong>o, fu autore di crudeltà che<br />

lo resero odioso alla popolazione, la quale finì per preferire ancora una volta la protezione tirolese.<br />

Nel marzo del 1284 Enrico II, dopo aver subìto una nuova incarcerazione e aver visto la sconfitta militare di<br />

tutti i suoi sostenitori, fu costretto a stipulare con Mainardo II una nuova «pace di Bolzano», con la quale<br />

cedeva l’amministrazione del principato vescovile per quattro anni in cambio di una rendita. Nella primavera<br />

del 1288 Mainardo II propose al vescovo un nuovo accordo, che Enrico II rifiutò, senza che per questo il<br />

conte (<strong>da</strong>l 1286 anche duca di Carinzia) si sentisse in dovere di ritirarsi <strong>da</strong>lla città. Nell’estate del 1289 il<br />

vescovo morì a Roma, dove si era recato per sostenere le proprie ragioni.<br />

Papa Nicolò IV affidò subito la Chiesa di Trento a Filippo Bonacolsi, un frate minore proveniente <strong>da</strong> una<br />

potente famiglia mantovana che già aveva conosciuto la diocesi in quanto inqui<strong>sito</strong>re. Filippo non poté<br />

neppure entrare in città, ma le numerose iniziative del papa in favore del nuovo vescovo misero Mainardo,<br />

ripetutamente scomunicato, in gravi difficoltà. Solo grazie ad un’attenta iniziativa politico-diplomatica sul<br />

fronte esterno e alla repressione di qualunque opposizione interna il conte riuscì a non recedere <strong>da</strong>lle sue<br />

posizioni; in particolare gli venne in aiuto la morte di papa Nicolò IV, nell’aprile del 1292, e l’apertura di<br />

una lunga vacanza della Santa Sede. La spregiudicata diplomazia tirolese permise poi a Mainardo di ottenere<br />

<strong>da</strong>l «papa angelico», Celestino V, l’assoluzione <strong>da</strong>lle scomuniche, facendo sembrare il vescovo <strong>da</strong>lla parte<br />

del torto (autunno 1294). Il successore di Celestino, Bonifacio VIII, rinnovò però la scomunica. Mainardo II<br />

morì il 31 ottobre 1295, mentre si stava preparando un nuovo processo canonico contro «l’occupatore dei<br />

beni e dei diritti del vescovo e della Chiesa di Trento». Nel proprio testamento invitò i figli Ottone, Ludovico<br />

ed Enrico, che congiuntamente gli succedevano, a restituire «tutto ciò che era stato inopportunamente<br />

ottenuto ed indebitamente acqui<strong>sito</strong>».<br />

Il percorso verso la normalizzazione della situazione e l’ingresso a Trento di Filippo Bonacolsi fu però lento<br />

e tutt’altro che lineare. Il 31 marzo 1296 Bonifacio VIII scomunicò nuovamente i figli del conte del Tirolo,<br />

che continuavano ad occupare i beni della chiesa di Trento. Solo la campagna militare condotta nella secon<strong>da</strong><br />

54


metà del 1301 <strong>da</strong>lle forze congiunte di Mantova e di Verona costrinse Ottone, Ludovico ed Enrico alla<br />

<strong>tratta</strong>tiva. La pace, mediata <strong>da</strong>l vescovo di Coira, permise a Filippo la nomina di un vicario per l’ambito<br />

spirituale e l’ingresso in diocesi; ma non gli venne restituito il potere temporale. Morì il 18 dicembre 1303.<br />

Papa Benedetto IX destinò alla cattedra <strong>trentina</strong> il veneziano Bartolomeo Querini (10 gennaio 1304), e si<br />

rivolse al re di Germania, Alberto I d’Asburgo, per ottenere <strong>da</strong>i figli di Mainardo la restituzione dei beni<br />

della Chiesa di Trento. Dopo due anni di <strong>tratta</strong>tive Bartolomeo poté fare il suo ingresso in sede, la vigilia di<br />

Natale del 1306; dopo quasi vent’anni un vescovo tornava a Trento. Il 19 febbraio dell’anno successivo il<br />

Querini investì dell’avvocazia e dei feudi connessi Ottone ed Enrico, i figli superstiti di Mainardo (Ludovico<br />

era morto nel 1305). I rapporti di forza non erano molto dissimili <strong>da</strong> quelli che avevano portato alle<br />

precedenti<br />

investiture del<br />

1256 e del 1259,<br />

ma la supremazia<br />

feu<strong>da</strong>le del<br />

vescovo sugli<br />

avvocati tirolesi<br />

era formalmente<br />

confermata. Gli<br />

accordi del 1306-<br />

1307 diedero ai<br />

vescovi la<br />

possibilità di<br />

tornare a reggere<br />

la diocesi anche<br />

sotto l’aspetto<br />

temporale, sia<br />

pure dovendo<br />

riconoscere la<br />

nuova situazione.<br />

Il territorio<br />

sottoposto<br />

all’autorità<br />

vescovile si era<br />

infatti molto<br />

ridotto, <strong>da</strong>to che<br />

la nuova contea<br />

tirolese<br />

comprendeva<br />

tutta la valle<br />

dell’Adige a<br />

nord dell’Avisio<br />

e molti castelli e<br />

giurisdizioni<br />

della Val di Non;<br />

anche nel<br />

territorio<br />

teoricamente<br />

soggetto<br />

all’episcopato molti funzionari dovevano la loro nomina ai conti, e in Vallagarina la potenza dei Castelbarco<br />

era al culmine. Nella secon<strong>da</strong> metà del Duecento, inoltre, la zecca meranese si era imposta su quella <strong>trentina</strong><br />

ed era stata drasticamente ridotta la capacità dei vescovi di battere mo<strong>net</strong>a.<br />

Il Querini, in ogni modo, non poté vedere i risultati dell’opera di pacificazione e di ripresa dell’attività<br />

amministrativa che aveva avviato: morì infatti qualche mese dopo, il 23 giugno 1307. L’improvvisa<br />

scomparsa del vescovo lasciò nuovamente mano libera ai figli di Mainardo, che tornarono a governare il<br />

principato vescovile come negli anni precedenti, forti del loro ruolo di avvocati; per il tramite del capitolo,<br />

55


tentarono anche di portare sulla cattedra vescovile il canonico Ulrico di Scena. Ma papa Clemente V –<br />

rifiutandogli la conferma – impedì ancora una volta che a Trento si insediasse un vescovo fedele alla casata<br />

tirolese.<br />

Nella cartina: I confini della diocesi di Trento <strong>da</strong>ll’alto medioevo al 1785 (<strong>da</strong>: CASTAGNETTI, I vescovi<br />

trentini nella Lotta per le investiture e nel primo conflitto tra Impero e Comuni, pag. 118).<br />

Si ristabilisce il potere vescovile<br />

Il 23 maggio 1310 papa Clemente V pose a capo della Chiesa di Trento Enrico, abate del monastero<br />

cistercense di Villers-Bettnach in diocesi di Metz, cancelliere del re di Germania Enrico VII di Lussemburgo.<br />

L’ufficio del nuovo vescovo alla corte imperiale, la morte del conte Ottone di Tirolo e la personalità<br />

dell’ultimo figlio di Mainardo, Enrico, più disposto dei fratelli alla ricerca di vie di pacificazione e di<br />

compromesso, aprirono una nuova stagione, segnata <strong>da</strong>l ripristino del potere vescovile e <strong>da</strong> una maggiore<br />

stabilità rispetto al recente passato.<br />

Enrico <strong>da</strong> Metz non si recò subito nella sua diocesi, ma ne prese possesso tramite procuratori il 25 novembre<br />

1310; qualche giorno dopo (2 dicembre) ottenne <strong>da</strong> Mantova la restituzione del «Libro di San Vigilio» (il<br />

Codex Wangianus) che Filippo Bonacolsi si era portato in patria. Seguì il suo sovrano nella spedizione<br />

italiana che doveva procurare a quest’ultimo nel 1312 la corona imperiale e, l’anno successivo, la morte.<br />

Solo a quel punto il vescovo fece il suo ingresso in diocesi (autunno 1313), ottenendo <strong>da</strong>l conte del Tirolo la<br />

restituzione dei poteri temporali. Iniziò allora un periodo di governo relativamente lungo e pacifico in una<br />

diocesi che <strong>da</strong>lla metà del Duecento in poi aveva visto i propri vescovi coinvolti soprattutto in vicende<br />

politico-militari e sovente costretti all’esilio.<br />

Il vescovo Enrico «seppe lodevolmente conservare l’amicizia del conte del Tirolo», come venne poi scritto<br />

nel suo elogio funebre: riuscì cioè a conservare buoni se non ottimi rapporti con l’ultimo figlio di Mainardo.<br />

Ciò gli rese più agevole il compito di riorganizzare il principato vescovile (al suo periodo di governo risale la<br />

costituzione di una vera e propria cancelleria) e di tenere il proprio territorio al di fuori dei conflitti. Nei<br />

primi mesi del 1327 il re di Germania Ludovico IV, in viaggio verso Roma, attraversò la valle dell’Adige e si<br />

fermò per qualche tempo a Trento, dove si incontrò con i capi del partito ghibellino; questi lo sostenevano e<br />

si opponevano invece al partito guelfo, appoggiato <strong>da</strong>l re di Francia e <strong>da</strong> papa Giovanni XXII. Il vescovo<br />

mantenne una posizione di neutralità, uscì <strong>da</strong>lla città e non interferì con il passaggio del re; l’episcopato fu<br />

così risparmiato <strong>da</strong> guerre e distruzioni. Forte era nel contempo il legame politico tra il principato vescovile<br />

trentino e la potente casata dei Lussemburgo, il cui principale esponente era allora il figlio di Enrico VII,<br />

Giovanni, re di Boemia: nel 1330 la dodicenne Margherita, figlia ed erede di Enrico del Tirolo, andò sposa<br />

proprio al figlio del re boemo, Giovanni Enrico (il quale aveva allora otto o nove anni). Si preparava così<br />

l’annessione dinastica del Tirolo ad una delle più potenti famiglie europee: il vescovo di Trento aveva<br />

sicuramente giocato un ruolo nella costruzione di questa prospettiva.<br />

Enrico <strong>da</strong> Metz riorganizzò il territorio <strong>da</strong>l punto di vista politico-istituzionale: costrinse potenti famiglie<br />

nobili a riconoscere la sovranità feu<strong>da</strong>le del vescovo, fortificò alcuni castelli e ne fece distruggere altri.<br />

Notevole fu anche l’impegno in campo ecclesiale: convocò tre sinodi, re<strong>da</strong>sse svariate norme statutarie<br />

(alcune delle quali promulgate <strong>da</strong>l suo successore), riformò enti monastici, istituì stabilmente l’ufficio di un<br />

vicario generale per la materia spirituale con competenze distinte <strong>da</strong>ll’ambito civile. Morì il 9 ottobre 1336, e<br />

venne sepolto nell’abside destra della cattedrale.<br />

La contea era allora governata <strong>da</strong> Carlo di Lussemburgo, figlio del re di Boemia Giovanni, il quale fungeva<br />

<strong>da</strong> tutore per la giovane coppia formata <strong>da</strong> suo fratello Giovanni Enrico e <strong>da</strong> Margherita, figlia di Enrico del<br />

Tirolo (morto nel 1335). «In quel tempo nominammo Nicolò <strong>da</strong> Brno, nostro cancelliere, vescovo di<br />

Trento»: così Carlo ricor<strong>da</strong>va, a molti anni di distanza, l’elezione del successore di Enrico <strong>da</strong> Metz, con un<br />

tono che lascia poco spazio ad ipotesi diverse per ricostruire il contesto politico in cui maturò, in tempi<br />

estremamente rapidi, la scelta del nuovo presule. L’opposizione di papa Benedetto XII, che rifiutò per due<br />

anni di confermare l’elezione (formalmente voluta <strong>da</strong>l capitolo della cattedrale), sembra determinata più che<br />

altro <strong>da</strong>l disappunto per il mancato rispetto della riserva pontificia; il papa accettò infine la candi<strong>da</strong>tura e,<br />

annullata l’elezione, il 3 luglio 1338 nominò Nicolò <strong>da</strong> Brno vescovo di Trento. La casa di Lussemburgo<br />

poneva così per la secon<strong>da</strong> volta consecutiva un proprio cancelliere sulla cattedra di San Vigilio,<br />

continuando così ad avere a Trento un punto di appoggio per i propri progetti di espansione dinastica.<br />

Nicolò, in strettissimi rapporti con Carlo di Lussemburgo (il quale gli affidò persino l’incarico di governatore<br />

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della contea), tentò a sua volta di limitare il potere della nobiltà e di ri<strong>da</strong>re unità al principato. Lo stemma<br />

nobiliare dell’aquila di san Venceslao, concesso il 9 agosto 1339 <strong>da</strong>l re di Boemia Giovanni, doveva essere il<br />

simbolo di questa rinnovata unità. Va detto che il vescovo moravo – per quanto molto impegnato nell’attività<br />

politica e amministrativa – seppe <strong>da</strong>re un apporto significativo anche alla crescita spirituale dei suoi fedeli,<br />

attraverso la convocazione di sinodi e la promulgazione di statuti che esprimevano insieme la continuità di<br />

governo rispetto all’episcopato di Enrico <strong>da</strong> Metz e la preoccupazione per il buon an<strong>da</strong>mento della diocesi.<br />

Accanto alle denunce (in certa misura interessate) contro gli illeciti detentori dei beni ecclesiastici, si trovano<br />

articoli contro gli accaparratori di generi di sussistenza e contro gli usurai.<br />

L’egemonia dei Lussemburgo sul Tirolo cominciò a mostrare segni di logoramento già alla fine degli anni<br />

trenta. Il governo boemo, nel tentativo di limitare il potere della nobiltà tirolese, attirò su di sè rancori e<br />

diffidenze; il malcontento nasceva anche <strong>da</strong>ll’ampio utilizzo di personale straniero nell’amministrazione del<br />

territorio. Coloro che qualche anno prima si erano schierati con i Lussemburgo cercarono così nuovi appoggi<br />

e intavolarono <strong>tratta</strong>tive con i Wittelsbach, la famiglia che in quel momento deteneva una contrastata corona<br />

imperiale, proponendo a Ludovico IV un intervento che portasse alla fine dell’unione tra Margherita e<br />

Giovanni Enrico e ad un nuovo matrimonio tra la contessa e Ludovico di Brandeburgo, il figlio<br />

dell’imperatore. Il 2 novembre 1341 Giovanni Enrico, al ritorno <strong>da</strong>lla caccia, trovò sbarrate le porte di Castel<br />

Tirolo e dovette rifugiarsi ad Aquileia, accompagnato <strong>da</strong>l vescovo di Trento. Tra lo scan<strong>da</strong>lo dei<br />

contemporanei, l’imperatore dichiarò nullo il primo matrimonio di Margherita; le seconde nozze, presto<br />

celebrate, tolsero il Tirolo <strong>da</strong>ll’orbita boema e lo posero in quella bavarese.<br />

Margherita di Tirolo<br />

Nata nel 1318, figlia minore di Enrico di Mainhardo, duca di Carinzia e conte del Tirolo, fu soprannominata<br />

Maultasch (“boccalarga”); nel 1330 fu concessa in moglie a Giovanni Enrico di Lussemburgo, ma nel 1341<br />

Margherita scacciò il giovane marito per unirsi a Ludovico di Brandeburgo, figlio dell’imperatore Ludovico<br />

il Bavaro. Il matrimonio, <strong>da</strong>pprima ostacolato <strong>da</strong>l papa, fu convali<strong>da</strong>to solamente nel 1359. Dall’unione<br />

nacque un figlio, Mainardo III, che morì nel 1363, pochi giorni dopo la morte improvvisa di Ludovico.<br />

Margherita si ritirò a Vienna. Con un falso documento fatto preparare <strong>da</strong> Rodolfo IV d’Austria, cognato di<br />

Mainardo III, Margherita dovette cedere il principato del Tirolo ai parenti paterni, tra i quali c’era lo stesso<br />

Rodolfo. Da questo momento e fino al 1918 la Contea del Tirolo rimase in mano alla casa d’Austria.<br />

Morì nel 1369.<br />

Nicolò <strong>da</strong> Brno<br />

La scelta di Nicolò <strong>da</strong> Brno nel quadro di una politica di intesa fra la Moravia e la contea tirolese<br />

Di Nicolò Alreim <strong>da</strong> Brno non si hanno notizie biografiche particolarmente rilevanti prima della sua ascesa<br />

al soglio vescovile di Trento, nel 1338; si conosce soltanto che egli aveva rivestito la carica di cancelliere di<br />

Boemia e che la sua nomina a vescovo di Trento era stata caldeggiata <strong>da</strong> Carlo, margravio di Moravia e<br />

tutore del nuovo e giovane conte del Tirolo, Giovanni di Lussemburgo - Boemia.<br />

Carlo, che presto sarebbe diventato imperatore, aveva deciso di collocare una persona di sua fiducia presso<br />

la sede di Trento e di affiancarla a suo fratello minore Giovanni di Lussemburgo. L´uomo più a<strong>da</strong>tto a<br />

questo incarico pareva proprio Nicolò <strong>da</strong> Brno, che avrebbe avuto tra l´altro anche l´incarico di favorire con<br />

la sua politica e la sua diplomazia il buon an<strong>da</strong>mento del matrimonio fra lo stesso Giovanni e Margherita<br />

Maultasch, figlia ed unica erede di Enrico, conte del Tirolo. I due erano stati portati all´altare pochi anni<br />

prima (lui all´età di nove anni e lei a dodici) e il loro matrimonio doveva garantire lo sviluppo di rapporti<br />

particolarmente favorevoli tra la casa tirolese e quella di Moravia. L´unione tra i due principi però non ebbe<br />

buon e<strong>sito</strong> e il matrimonio venne annullato<br />

Il fallimento dei piani della casa di Moravia e le animosità fra il vescovo e il nuovo conte del Tirolo. Il<br />

ritorno delle persecuzioni nei confronti dell´autorità vescovile, come al tempo di Mainardo<br />

Carlo IV dovette ben presto fare i conti con una realtà assai diversa rispetto a quella <strong>da</strong> lui immaginata e<br />

pianificata. Diventò infatti conte del Tirolo Ludovico di Brandeburgo, nuovo marito di Margherita, e con<br />

lui ripresero vigore i contrasti che per lungo tempo avevano animato i rapporti fra il Tirolo e il principato<br />

tridentino. Questo venne così a trovarsi al centro delle contese tra le case regnanti germaniche (i<br />

Lussemburgo, gli Asburgo, i Wittelsbach di Baviera e i Brandeburgo), tutte in lotta fra loro nel tentativo di<br />

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ampliare i propri possedimenti ed assicurarsi il più possibile il controllo dell´Europa.<br />

Ludovico ottenne agevolmente l´appoggio di Siccone di Caldonazzo, che con le sue scorribande mise a<br />

ferro e fuoco il territorio del perginese. Anche Martino della Scala si schierò apertamente contro Trento e<br />

fornì il proprio sostegno militare. Il vescovo Nicolò riuscì a gua<strong>da</strong>gnare invece l´aiuto del milanese Luchino<br />

Visconti. Tuttavia, mentre le forze alleate del vescovo conseguivano una significativa affermazione in una<br />

battaglia presso Bolzano contro le milizie di Siccone <strong>da</strong> Caldonazzo, il signore di Brandeburgo riusciva nel<br />

proprio intento di invadere il principato di Trento e di occuparne i luoghi strategici. Al vescovo non rimase<br />

che chiedere l´intervento armato dell´imperatore Carlo di Boemia, ma il contingente imperiale alla volta di<br />

Trento venne sorpreso <strong>da</strong>i sol<strong>da</strong>ti di Ludovico prima di giungere a destinazione. Carlo fu costretto a<br />

rifugiarsi nel bellunese, <strong>da</strong> dove emise un provvedimento che assicurava all´Impero tutti i feudi della<br />

Chiesa goduti precedentemente <strong>da</strong>i Mainardi, donandoli poi alla Chiesa tridentina. Inoltre, con<strong>da</strong>nnando<br />

apertamente i misfatti di Ludovico e di sua moglie Margherita, li fece decadere <strong>da</strong> ogni titolo e dichiarò il<br />

vescovo Nicolò <strong>da</strong> Brno unico possessore di tutto il principato.<br />

Naturalmente, questo non contribuì a risolvere le conflittualità ancora esistenti e soprattutto non liberò il<br />

presule <strong>da</strong>ll´oppressione dell´usurpatore, che si protrarrà anche con i vescovi suoi successori. Nicolò,<br />

infatti, dovette riparare in Moravia poco dopo il ritorno in patria dell´imperatore, e morì quasi subito, nel<br />

novembre del 1347.<br />

I sinodi diocesani indetti <strong>da</strong> Nicolò. L´origine dello stemma dell´aquila tridentina<br />

Nonostante l´e<strong>sito</strong> negativo dei pesanti conflitti interni con il Tirolo, Nicolò<br />

è ricor<strong>da</strong>to come un´autorità che riuscì a mettere un certo ordine nella<br />

diocesi, e che si adoperò molto per ristabilire criteri di moralità e di decoro<br />

all´interno del clero. Nel corso del sinodo diocesano del 1339, il vescovo<br />

infatti denunciò apertamente il comportamento di molti ministri del culto<br />

che avevano preso l´abitudine di portare armi e di non indossare l´abito<br />

sacerdotale, e li invitò a rimettersi prontamente in regola, pena la<br />

decadenza <strong>da</strong>i propri privilegi. Questo sinodo costituirà un valido punto di<br />

riferimento due secoli più tardi, per i padri conciliari impegnati nel<br />

Concilio di Trento. Nella medesima adunanza, inoltre, Nicolò evidenziò<br />

con accenti alquanto aspri il dilagare dell´usura a Trento, una delle più<br />

grandi piaghe di tutto il periodo medievale; giunse a prevedere pene molto<br />

severe a riguardo, richiamando le punizioni che erano state già stabilite <strong>da</strong>l Concilio di Aquileia e<br />

predisponendo criteri nuovi per individuare gli usurai.<br />

Nicolò <strong>da</strong> Brno svolse anche un´efficiente opera di pacificazione, costringendo i Castelbarco a restituire i<br />

terreni precedentemente usurpati in Val Lagarina e ponendo fine alle diatribe tra i Domenicani di San<br />

Lorenzo e il Capitolo tridentino per il possesso della parrocchia di Santa Maria Maggiore. E´ ricor<strong>da</strong>to<br />

inoltre <strong>da</strong>i posteri per avere ricevuto, nel 1339, <strong>da</strong> re Giovanni di Boemia, l´aquila di San Venceslao, che <strong>da</strong><br />

quel momento fu utilizzata come stemma del principato vescovile e ai giorni nostri è stata riprodotta in<br />

quello della Provincia di Trento. Nicolò aveva caldeggiato infatti l´idea di riunire i vassalli del Trentino per<br />

porli sotto un´unica protezione, e allo scopo di ridestare un maggiore spirito di unità aveva pensato ad un<br />

simbolo. Fu proprio il simbolo dell´aquila che gli pervenne <strong>da</strong>lla propria terra di origine.<br />

Trento e il Tirolo sono oggetto del contendere sullo scacchiere europeo<br />

Gli avvenimenti del 1341 non causarono mutamenti bruschi all’interno del principato trentino: Nicolò <strong>da</strong><br />

Brno rimase saldo sulla sua cattedra. Ludovico di Brandeburgo cercava infatti alleati per limitare i <strong>da</strong>nni<br />

causati <strong>da</strong>lla scomunica con cui papa Clemente VI, a motivo del clamoroso secondo matrimonio di<br />

Margherita, aveva colpito tutta la casata e il territorio tirolese (1343).<br />

Il precario equilibrio si ruppe nel 1346 quando il papa, temendo una nuova spedizione italiana di Ludovico<br />

IV, lanciò un appello per una coalizione che difendesse il principato vescovile di Trento e togliesse a<br />

Ludovico di Brandeburgo i passi alpini, così <strong>da</strong> impedire a suo padre, l’imperatore, il passaggio verso la<br />

Penisola. Lo schieramento composto <strong>da</strong>i Lussemburgo e <strong>da</strong> alcune signorie dell’Italia settentrionale – in<br />

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prima linea i Visconti di Milano – dissuase il Bavaro <strong>da</strong>l tentare la spedizione; l’imperatore, scomunicato ed<br />

isolato, fu deposto <strong>da</strong>i principi elettori in luglio e morì l’11 ottobre successivo. Assecon<strong>da</strong>ndo i desideri di<br />

papa Clemente VI, i principi elettori scelsero come suo successore proprio Carlo di Lussemburgo (Carlo IV).<br />

Il nuovo imperatore comparve a Trento nei primi mesi del 1347; la domenica delle Palme assistette alla<br />

messa in cattedrale sfilando poi nelle vie della città. Manifestò allora l’intenzione di cedere il Tirolo ai<br />

Milanesi: e così, quando cominciò a risalire il corso dell’Adige, trovò scarsi appoggi <strong>da</strong>lla nobiltà locale, che<br />

si sentiva più legata all’ambito tedesco e identificava dunque la propria causa con quella dei Bavaresi. Carlo<br />

conquistò e diede alle fiamme Merano, ma non riuscì ad espugnare Castel Tirolo e a vendicare quindi l’onta<br />

che il fratello aveva dovuto subire sei anni prima; comprendendo che il paese gli era ostile e che le truppe di<br />

Ludovico di Brandeburgo (attestato a Bressanone) impedivano l’arrivo di rinforzi, scelse di ritirarsi,<br />

devastando la valle dell’Adige e <strong>da</strong>ndo alle fiamme anche Bolzano. Riapparve a Trento il 27 aprile: non era<br />

stato sconfitto, ma quello che avrebbe dovuto essere un cammino trionfale si era rivelato un’inutile scorreria.<br />

All’inizio di luglio lasciò la città; <strong>da</strong> Belluno restituì quindi al vescovo di Trento possessi e diritti, con un<br />

decreto che non avrebbe mai potuto far rispettare; in settembre tornò a Praga. Nicolò <strong>da</strong> Brno, rimasto solo,<br />

subì il ritorno di Ludovico di Brandeburgo, che nel duca Corrado di Teck aveva trovato l’uomo giusto per<br />

governare la regione con il pugno di ferro; a sua volta partì per la Moravia e morì durante il viaggio, a<br />

Nikolsburg (oggi Mikulow), alla fine di ottobre o ai primi di novembre del 1347.<br />

La fuga e la morte di Nicolò <strong>da</strong> Brno lasciarono il principato in condizioni estremamente precarie. Papa<br />

Clemente VI, il 12 dicembre 1347, scelse il nuovo vescovo nella persona di Gerardo <strong>da</strong> Manhac, un francese<br />

residente alla corte di Avignone, con l’evidente intenzione di opporsi al partito ghibellino-bavarese. Gerardo,<br />

il 4 gennaio 1348, nominò Nicolò Alreim <strong>da</strong> Brno, nipote del suo predecessore, capitano della città e del<br />

territorio. Il nuovo vescovo però non tentò neppure di raggiungere la diocesi, e morì nell’ottobre successivo;<br />

il suo capitano non svolse alcun ruolo effettivo. Il duca Corrado di Teck chiese intanto al capitolo di<br />

conferire l’avvocazia sull’episcopato a Ludovico di Brandeburgo; ma i canonici si rifiutarono e cercarono<br />

anzi di organizzare la difesa del principato, alleandosi con gli Arco, i de Gardellis e i Belenzani. Fecero<br />

anche appello ai Carraresi: alla fine del 1348 le truppe dei signori di Padova presidiarono per un certo tempo<br />

la città.<br />

Nel giugno del 1348 arrivò anche a Trento la peste nera, che allora impreversava in tutta Europa. Il canonico<br />

Giovanni <strong>da</strong> Parma, nella sua Cronaca, ci ha lasciato una precisa descrizione delle caratteristiche del morbo –<br />

al quale egli sopravvisse – ed insieme l’immagine di una città in cui non solo i rapporti sociali, ma anche<br />

quelli familiari venivano devastati («i cristiani si evitavano a vicen<strong>da</strong> come la lepre il leone, o il sano il<br />

lebbroso, e lo dico tanto del padre o della madre nei confronti del figlio e viceversa, e della sorella nei<br />

confronti del fratello e viceversa»). A suo dire, nell’arco di sei mesi morirono «di sei persone, cinque».<br />

L’ingresso a Trento del duca Corrado di Teck, nel 1349, rese concreta anche a Trento l’egemonia bavarese.<br />

Non solo il vescovo Gerardo <strong>da</strong> Manhac, scomparso già tra settembre e ottobre 1348, ma anche i suoi<br />

successori Giovanni <strong>da</strong> Pistoia (1348-1349) e Mainardo di Neuhaus (1349-1360), pure scelti <strong>da</strong>i papi ed<br />

espressione del partito imperiale-lussemburghese, non poterono fare il loro ingresso in sede, nemmeno nei<br />

territori – Riva ed Arco – soggetti allora non ai conti di Tirolo, ma agli Scaligeri di Verona. Il capitolo<br />

governava spiritualmente la diocesi come se fosse vacante e costituiva un luogo di ‘resistenza’ rispetto al<br />

potere bavarese, che dopo l’assassinio del Teck (1352) veniva rappresentato <strong>da</strong>l pievano di Tirolo Enrico di<br />

Bopfingen (figura inusuale – ma non per l’epoca – di ecclesiastico governante e combattente).<br />

La posizione di Ludovico era però messa in discussione <strong>da</strong>lla sua anomala unione con Margherita che, come<br />

detto, era alle sue seconde nozze. Vennero dunque ben presto intavolate <strong>tratta</strong>tive con la curia papale allo<br />

scopo di ottenere l’annullamento del primo matrimonio e conseguentemente la cancellazione della<br />

scomunica che aveva colpito la coppia. Il duca d’Austria Alberto II, che stava puntando a <strong>da</strong>re in sposa sua<br />

figlia a Mainardo III, figlio di Margherita e Ludovico, fece quanto possibile per favorire l’annullamento del<br />

primo matrimonio, senza il quale la posizione dei genitori del giovane erede della contea appariva<br />

indifendibile. Verso il 1358 sembrò che le cose stessero definendosi a favore di un rafforzamento del potere<br />

bavarese in Tirolo: Ludovico promise, tra l’altro, di restituire quanto aveva usurpato alla Chiesa di Trento, le<br />

prime nozze furono annullate e nel settembre 1359 venne solennemente (ri-)celebrato il suo matrimonio con<br />

Margherita del Tirolo. Sembrava imminente la restituzione al vescovo di Trento del potere temporale; in<br />

questo contesto però Mainardo di Neuhaus, che non aveva mai neppure tentato di governare la diocesi, diede<br />

le dimissioni (fine di agosto del 1360).<br />

Il 31 agosto 1360 il papa affidò la chiesa <strong>trentina</strong> al carinziano Alberto di Ortenburg. Questi era un protetto<br />

del duca d’Austria Alberto II, con il quale si era anzi accor<strong>da</strong>to tre anni prima: se il duca fosse riuscito a<br />

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fargli ottenere la cattedra <strong>trentina</strong>, l’Ortenburg si sarebbe dimostrato riconoscente e avrebbe operato secondo<br />

la volontà dei duchi d’Austria. La nomina va dunque letta nel quadro del progressivo aumento del potere<br />

degli Asburgo nell’area. All’inizio degli anni sessanta tale processo ebbe però una rapi<strong>da</strong> accelerazione. Il 17<br />

settembre 1361 morì Ludovico di Brandeburgo; il 13 gennaio 1363 scomparve anche il giovane figlio ed<br />

erede Mainardo III (i contemporanei vi videro due avvelenamenti). Il 26 gennaio Margherita, rimasta sola e<br />

senza eredi, cedette il Tirolo a Rodolfo, Alberto e Leopoldo, duchi d’Austria, in quanto suoi parenti più<br />

prossimi (erano secondi cugini); il 5 febbraio i due vescovi di Trento e di Bressanone investirono Rodolfo<br />

d’Asburgo dell’avvocazia sui due episcopati. Dopo sei anni di egemonia boemo-lussemburghese e ventidue<br />

di potere bavarese, Trento e il Tirolo finirono così nell’orbita austro-asburgica.<br />

Alberto di Ortenburg aveva preso possesso della sua diocesi il 24 gennaio 1363, quando era ormai chiaro<br />

quale sarebbe stato l’e<strong>sito</strong> delle lotte per l’egemonia in Tirolo. Il 18 settembre successivo la firma di una<br />

convenzione tra il duca Rodolfo IV e il vescovo Alberto di Ortenburg (le «compattate»), formalmente<br />

paritaria ma in realtà molto onerosa, diede base giuridica agli equilibri di potere allora raggiunti.<br />

La Chiesa di Trento nel medioevo<br />

Vescovi tanto coinvolti nella vita politica e militare, la cui nomina (anche quando formalmente decisa in<br />

sede locale) rispondeva a logiche di tipo tutt’altro che spirituale, non potevano intervenire che<br />

marginalmente nella vita della propria Chiesa. Alcuni riuscirono tuttavia a distinguersi per un certo<br />

impegno «riformatore», che si espresse attraverso la convocazione di sinodi diocesani ai quali il clero era<br />

tenuto a partecipare. Tra l’inizio del XIII e la metà del XIV secolo Gerardo Oscasali, Enrico II, Enrico <strong>da</strong><br />

Metz e Nicolò <strong>da</strong> Brno tentarono in questo modo di rafforzare il controllo sulle istituzioni ecclesiastiche del<br />

territorio, di attuare un’opera di moralizzazione del clero, di dettare norme di corretto comportamento in<br />

campo liturgico e, in qualche caso, di intervenire anche in campo sociale ed economico. La supplenza<br />

vescovile per quanto riguar<strong>da</strong>va gli aspetti sacramentali veniva affi<strong>da</strong>ta a vescovi ausiliari, sovente<br />

appartenenti ad ordini religiosi, privi dei poteri politici ma in possesso del grado dell’ordine sacro che<br />

permetteva loro di conferire il sacerdozio e di consacrare chiese ed altari. Accanto al vescovo operava, in<br />

regime talvolta di collaborazione e talvolta di concorrenza, il capitolo di San Vigilio. Questo gruppo di<br />

ecclesiastici responsabili del servizio liturgico della chiesa cattedrale era gui<strong>da</strong>to <strong>da</strong>l decano e composto di<br />

ventotto membri (diciotto <strong>da</strong>l 1397). Deteneva il diritto di eleggere il vescovo, di governare in sede vacante,<br />

di esprimere il proprio consenso o veto negli atti che comportassero la vendita o la cessione dei beni<br />

dell’episcopato: per questo la sua importanza politica era molto rilevante, e non di rado la sua composizione<br />

rispecchiava quelli che erano gli equilibri fra le fazioni. Il capitolo aveva un ruolo anche nell’ambito più<br />

propriamente ecclesiale: sotto la sua responsabilità era infatti la cura d’anime della città e di alcune altre<br />

pievi (<strong>da</strong>pprima solo Piné e Meano, poi anche Appiano, Meltina, Cal<strong>da</strong>ro, Nova Ponente); presso la chiesa<br />

cattedrale esisteva una scuola, diretta <strong>da</strong>l canonico scolastico. La secon<strong>da</strong> dignità capitolare era quella<br />

dell’arcidiacono, che fino al XIII secolo ebbe responsabilità specifiche nel settore matrimoniale e<br />

nell’amministrazione della giustizia. Il capitolo della cattedrale possedeva inoltre un grande patrimonio<br />

fondiario e governava direttamente alcune piccole giurisdizioni (Sover, Sevignano, Villamontagna). Come<br />

in tutta l’Italia centro-settentrionale, <strong>da</strong>l punto di vista ecclesiastico il territorio era suddiviso in una serie di<br />

circoscrizioni minori (pievi), ognuna delle quali aveva il suo centro in una chiesa pubblica a cui il popolo<br />

dei fedeli doveva fare riferimento per quanto riguar<strong>da</strong>va il battesimo, la sepoltura, il pagamento delle<br />

decime ed altri aspetti della liturgia. Le chiese minori, sovente di fon<strong>da</strong>zione privata, dovevano invece<br />

essere soggette a tale chiesa-madre, il cui clero, presieduto <strong>da</strong>ll’arciprete, garantiva ad esse la presenza<br />

periodica di un prete. Questa struttura nacque probabilmente nel IX secolo, anche se le notizie in nostro<br />

possesso risalgono solo al XII o al XIII: in quel momento esistevano circa settanta pievi (cinquanta, se si<br />

tiene conto dei confini diocesani attuali). Si hanno numerose attestazioni dell’esistenza, presso le pievi<br />

dell’area lagarina e giudicariese, di comunità di chierici, e sembra anzi che queste eleggessero<br />

autonomamente l’arciprete; i vescovi si opposero a tale consuetudine, che intaccava quello che<br />

consideravano un loro diritto. Nelle aree più vicine al capoluogo, in quelle della Val di Non e in quelle del<br />

settore settentrionale non si registrano invece tali comportamenti. Va detto infine che le pievi del settore<br />

«tedesco», settentrionale, a differenza di quelle del settore «italiano», centro-meridionale, erano quasi tutte<br />

sottoposte a patronati laicali o monastici (il diritto di presentare al vescovo un candi<strong>da</strong>to per il beneficio<br />

ecclesiastico spettava cioè a un signore laico o a un monastero). La pastorale dell’età medioevale e moderna<br />

deve molto a queste strutture organizzative, che in alcuni casi sono rimaste vitali fino all’inizio del XX<br />

60


secolo.<br />

Fin <strong>da</strong>l medioevo, però, alcune cappelle ottennero determinati diritti (<strong>da</strong>pprima il cimitero, quindi la<br />

celebrazione periodica della messa, infine la presenza di clero stabile e in qualche caso il fonte battesimale);<br />

pur mantenendo un formale legame di dipendenza <strong>da</strong>lle pievi matrici, di fatto operavano autonomamente.<br />

La loro crescita numerica è di per sé un sintomo del desiderio del popolo cristiano di partecipare più<br />

frequentemente alla liturgia e di accostarsi in modo meno disagevole ai sacramenti; spesso le comunità<br />

stesse partecipavano alla scelta del cappellano e gli fornivano i mezzi di sostentamento. Un livello<br />

intermedio tra la diocesi e le pievi quale quello rappresentato <strong>da</strong>i decanati sarà formalizzato solo nel XVI<br />

secolo. Il titolare di una chiesa era tenuto a svolgere una determinata serie di obblighi, in cambio dei quali<br />

riceveva il reddito proveniente <strong>da</strong> un insieme di beni (sovente fondiari) e di diritti (come il diritto di<br />

decima). Questo reddito, detto «beneficio», gli permetteva di vivere in modo economicamente autonomo e<br />

sicuro: e nel momento in cui egli aveva messo in atto, personalmente o per il tramite di un sostituto, quel<br />

complesso di servizi religiosi e di atti rituali a cui era legalmente tenuto, la sua posizione risultava<br />

intangibile. Vi era evidentemente un forte pericolo di caduta nel formalismo, al quale si accompagnava<br />

altresì la tendenza del clero a tenere un comportamento simile a quello dei laici: i sinodi con<strong>da</strong>nnavano<br />

sovente i preti che vivevano con donne (concubinari), che prestavano ad usura, che portavano armi o che<br />

an<strong>da</strong>vano vestiti come i laici. Sembra comunque che i fedeli fossero interessati soprattutto alla presenza<br />

stabile di un prete presso la propria chiesa, e quindi desiderassero ed anzi pretendessero prima di tutto la<br />

regolarità del servizio liturgico e sacramentale; su altre questioni erano più disposti alla tolleranza. Il ruolo<br />

delle fon<strong>da</strong>zioni monastiche non appare particolarmente significativo. Il completo silenzio riguardo<br />

all’esistenza di un tal genere di enti si rompe solo alla metà del XII secolo, quando venne fon<strong>da</strong>to (o<br />

rifon<strong>da</strong>to?) il monastero benedettino di San Lorenzo presso Trento (1146) e istituite le due canoniche<br />

regolari di San Michele all’Adige e di Augia presso Bolzano. Le canoniche regolari, più che costituire un<br />

luogo di ascesi e di isolamento per chi desiderava distaccarsi <strong>da</strong>l mondo, erano un luogo di vita comunitaria<br />

per un clero che di per sé doveva dedicarsi alla cura d’anime: ed ecco che San Michele ottenne la<br />

giurisdizione ecclesiastica su un territorio che comprendeva le pievi di Giovo, San Floriano e Salorno. Nei<br />

primi decenni del XIII secolo si insediò in diocesi anche un ordine militare, quello dei Cavalieri Teutonici,<br />

che oltre a sviluppare alcune fon<strong>da</strong>zioni ospe<strong>da</strong>liere ottenne il controllo di numerose pievi del settore<br />

settentrionale; aveva una casa anche a Trento (il cosiddetto Fralimano, corruzione dialettale di «frate<br />

alemanno»). In quello stesso periodo erano nati nuovi ordini religiosi, detti «mendicanti» perché la loro<br />

regola vietava di possedere grandi patrimoni fondiari e imponeva invece di procurarsi il necessario col<br />

proprio lavoro o chiedendo l’elemosina. I principali (ma non i soli) furono i Francescani (o «frati minori») e<br />

i Domenicani (o «frati predicatori»). A Trento i Francescani fecero la loro comparsa fin <strong>da</strong>gli anni venti del<br />

XIII secolo: le «povere signore» (che in seguito sarebbero state chiamate «Clarisse») trovarono spazio nel<br />

1229 presso la chiesa di San Michele, poi detta di Santa Chiara; il ramo maschile si insediò definitivamente<br />

solo negli anni quaranta (a Bolzano vi era già nel 1237; a Riva giunse nel 1266). I Domenicani, nel 1235,<br />

riuscirono a togliere San Lorenzo ai Benedettini e a farli trasferire presso Sant’Apollinare, dove rimasero<br />

fino al 1426. Gli Agostiniani, dopo aver trovato posto a Barbaniga presso Civezzano, si insediarono in città<br />

presso il convento di San Marco nel 1271. Gli ordini mendicanti assumevano spesso compiti connessi con<br />

la cura d’anime quali la predicazione e la confessione; sembra però che di fronte a questi nuovi<br />

insediamenti l’organizzazione pastorale abbia dimostrato, più che altrove, una qualche capacità di<br />

resistenza. Nel 1330 il capitolo della cattedrale riuscì ad impedire che i Domenicani occupassero la pieve<br />

cittadina di Santa Maria Maggiore, costringendoli a rimanere nella loro primitiva sede di San Lorenzo,<br />

allora sulla spon<strong>da</strong> destra dell’Adige. Particolarmente diffuse ed importanti erano le fon<strong>da</strong>zioni ospe<strong>da</strong>liere,<br />

nate tra XII e XII secolo e presenti sia sulle principali strade che sui passi alpini; erano quasi tutte legate<br />

non a questo o a quell’ordine religioso ma alla cattedra vescovile. In queste piccole comunità, uomini e<br />

donne si votavano al servizio di Dio e dei vian<strong>da</strong>nti e dei pellegrini in tran<strong>sito</strong>. Tra le più importanti si<br />

possono ricor<strong>da</strong>re Santa Maria di Senale, Santa Maria di Campiglio, San Bartolomeo al Tonale, San<br />

Tommaso a Romeno, San Floriano di Salorno, Sant’Ilario presso Rovereto, Santa Margherita presso Ala,<br />

San Tommaso tra Riva e Arco; presso Trento vi erano gli ospe<strong>da</strong>li di San Martino (a nord) e di Santa Croce<br />

(a sud). Spesso questi luoghi di ospitalità erano anche mete di pellegrinaggio, e le immagini sacre in essi<br />

ospitate venivano considerate miracolose. Punti d’arrivo dei pellegrini erano anche i luoghi isolati in cui gli<br />

eremiti cercavano l’ascesi e la perfezione: il più noto è senz’altro quello di San Romedio, posto su uno<br />

sperone roccioso in una valle appartata dell’Anaunia. Si può infine rilevare come nella diocesi di Trento<br />

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abbiano avuto scarsa diffusione quelle dottrine eterodosse che altrove esprimevano il disagio dei cristiani di<br />

fronte ad una Chiesa compromessa con la ricchezza ed il potere. L’unico caso conosciuto è quello relativo a<br />

Dolcino, il predicatore apocalittico che nei primi anni del XIV secolo portò nel Trentino meridionale il<br />

proprio annuncio ‘rivoluzionario’, conservando anche negli anni successivi un certo seguito, visto che<br />

processi contro presunti dolciniani vennero istruiti ancora negli anni trenta di quel secolo.<br />

Trento e Tirolo: l'alleanza obbligata di Emanuele Curzel<br />

Gli Asburgo diventano conti del Tirolo e impongono ai vescovi le "compattate"<br />

Da tempo i conti del Tirolo cercavano di porre sulla cattedra di Trento un vescovo disposto ad accettare una<br />

posizione subordinata e a favorire i progetti di espansione e consoli<strong>da</strong>mento del loro Stato. Questo sforzo<br />

venne coronato <strong>da</strong>l successo nel 1363, proprio nell’anno in cui si estingueva la discendenza diretta di<br />

Mainardo II e la contea veniva unita dinasticamente al ducato d’Austria.<br />

L’impegno che Alberto di Ortenburg aveva sottoscritto nel 1357 lo vincolava ad accettare la politica dei<br />

duchi, perché ad essi doveva l’ascesa all’episcopato. In due riprese, nel 1363 e nel 1365, egli sottoscrisse<br />

dunque una convenzione (le compattate) che esprimeva in termini giuridici il grado di supremazia raggiunto<br />

<strong>da</strong>l potere austro-tirolese. Il vescovo doveva assistere i conti del Tirolo contro chiunque, eccezion fatta per il<br />

Papa; i funzionari dovevano essere nominati solo con il consenso dei conti e anche a questi ultimi essi<br />

dovevano prestare giuramento di fedeltà; anche il capitano (coman<strong>da</strong>nte militare) dell’episcopato, nominato<br />

<strong>da</strong>l vescovo, era tenuto a prestare fedeltà e ubbidienza al Tirolo; i funzionari dovevano giurare di non<br />

riconoscere un nuovo vescovo prima che i duchi avessero <strong>da</strong>to il loro beneplacito; in caso di conflitto tra<br />

vescovi e conti, i funzionari dovevano appoggiare i conti ed erano sciolti <strong>da</strong>l giuramento di fedeltà ai<br />

vescovi. In cambio, i conti si limitavano a promettere ai vescovi una protezione contro chiunque volesse<br />

ingiustamente aggredirli o <strong>da</strong>nneggiarli. Una secon<strong>da</strong> versione delle compattate, stipulata il 5 novembre 1365<br />

con i duchi Alberto III e Leopoldo III (Rodolfo IV era appena scomparso), risultò diversa nei toni, ma non<br />

nella sostanza. I contraenti costituivano così un’alleanza perpetua che «traduceva l’avvocazia in una specie<br />

di confederazione militare, nella quale il conte del Tirolo doveva essere per il principato vescovile di Trento<br />

il supremo coman<strong>da</strong>nte in caso di guerra; per natura sua essa implicava anche uno stato di confederazione<br />

politica, che limitava in modo corrispondente il raggio d’azione della politica estera» (questa definizione è di<br />

Iginio Rogger).<br />

Nello stesso periodo vennero istituzionalizzati i legami tra la contea e la nobiltà <strong>trentina</strong>: valga per tutti<br />

l’atteggiamento dei Castelbarco che, dopo aver giocato per duecento anni le loro carte sullo scacchiere<br />

pa<strong>da</strong>no, nel 1363 scelsero il legame con il Tirolo, giurando fedeltà al duca Rodolfo.<br />

L’effettiva riconsegna dei poteri temporali al vescovo avvenne solo nel dicembre 1365, dunque all’indomani<br />

della firma delle «seconde compattate». Si aprì, nel contesto dell’egemonia austro-tirolese, un nuovo ciclo di<br />

stabilità, per quanto non mancassero episodi di tensione e di conflitto sulle frontiere meridionali del<br />

principato vescovile. Lì quattro instabili dominazioni (i Caldonazzo ad est, i Castelbarco a sud, gli Arco a<br />

sud-ovest ed i Lodron ad ovest) erano in cerca di appoggi e di legittimazioni. La Padova dei Carrara, la<br />

Milano dei Visconti e la Repubblica di Venezia, intanto, conquistavano spazi che sembravano la premessa di<br />

ulteriori allargamenti verso le valli atesine. Riva e Arco, già veronesi, passarono a Milano nel 1387;<br />

complesse e confuse furono le vicende della Valsugana. Ciò diede motivo al Tirolo di intervenire in modo<br />

ancora più attento e frequente nelle vicende del principato vescovile.<br />

Alberto di Ortenburg non brillò per impegno e attività neppure in campo spirituale, per quanto non vi siano<br />

ancora ricerche specifiche su questo aspetto. Il giudizio che si dà della sua attività è generalmente negativo: è<br />

rimasta celebre la figura di un suo vicario, Giovanni Digni, che una strofetta dell’epoca non esita a definire<br />

sacrilego, malvagio e capace di confiscare e divorare le cose dei poveri (san Vigilio viene invocato perché<br />

«cacci il lupo lontano <strong>da</strong>ll’ovile»). Il vescovo morì il 9 settembre 1390 e venne sepolto in cattedrale.<br />

I vescovi Giorgio Liechtenstein e Alessandro di Masovia mettono l’alleanza in discussione<br />

Alla fine di settembre del 1390 il capitolo della cattedrale elesse il nuovo vescovo nella persona del prepo<strong>sito</strong><br />

(ossia del capo) del clero della chiesa di Santo Stefano di Vienna, Giorgio Liechtenstein (1390-1419). Tale<br />

scelta, a posteriori, è stata considerata come un tentativo <strong>da</strong> parte dei canonici di rigua<strong>da</strong>gnare spazi di<br />

autonomia nei confronti del potere austro-tirolese; ma una recente ricerca ha messo in rilievo i profondi<br />

legami che intercorrevano proprio tra l’eletto e il duca d’Austria Alberto III. Papa Bonifacio IX – bisognoso<br />

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di alleati, <strong>da</strong>to che era allora in corso il Grande Scisma d’Occidente – non tardò nel concedere la conferma. Il<br />

nuovo vescovo attese peraltro fino al 1399 prima di sottoscrivere le compattate.<br />

Per alcuni anni il Liechtenstein governò l’episcopato con relativa tranquillità: la sua fu anzi, <strong>da</strong>l punto di<br />

vista artistico, un’età particolarmente felice grazie proprio alle opere (affreschi, oreficeria, paramenti<br />

liturgici) che egli commissionava e che fecero di Trento uno dei luoghi di sviluppo del «gotico<br />

internazionale». Ma a partire <strong>da</strong> una certa <strong>da</strong>ta la politica vescovile trovò non poche opposizioni. La città mal<br />

sopportava il carico fiscale e la presenza invadente del personale che il vescovo, originario della Moravia,<br />

aveva portato con sé; i nobili vedevano il loro grado di autonomia ridotto <strong>da</strong>l potere vescovile; i<br />

sommovimenti dell’Italia pa<strong>da</strong>na, con la crescita del potere veneziano a <strong>da</strong>nno di quello milanese, invitavano<br />

il Tirolo alla vigilanza. Il nuovo conte, il giovane duca d’Austria Federico IV detto Tascavuota (1406-1439),<br />

soffiò sul fuoco di ogni malcontento, cercando così di aumentare il proprio peso negli equilibri interni<br />

all’episcopato.<br />

All’inizio di febbraio 1407 una rivolta cittadina, gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l nobile trentino Rodolfo Belenzani, diede il via<br />

ad una nuova fase di turbolenza. Ad essa fecero seguito altre rivolte nelle valli di Non e di Sole. Il vescovo fu<br />

costretto <strong>da</strong>lla cittadinanza ad una serie di concessioni che sancivano di fatto la nascita di un’autorità<br />

comunale (28 febbraio); il Belenzani stesso si fece eleggere capitano del popolo. Il Liechtenstein, in un<br />

secondo tempo, tentò di far venire in suo soccorso il capitano di ventura Ottobono <strong>da</strong> Parma, ma fu scoperto<br />

ed incarcerato (aprile 1407). Intervenne anche il duca Federico IV, il quale volle presentarsi come garante<br />

delle libertà cittadine, mentre il vescovo prendeva la via dell’esilio. Ben presto si manifestarono però dissidi<br />

tra la nuova dirigenza <strong>trentina</strong> e i vertici tirolesi; dopo aver invano sperato nell’aiuto veneziano, gli insorti<br />

vennero sconfitti <strong>da</strong>lle truppe capitanate <strong>da</strong> Enrico di Rottenburg, e il Belenzani morì in combattimento (5<br />

luglio 1409).<br />

Un accordo intercorso tra il re di Germania Sigismondo di Lussemburgo e Federico IV permise a Giorgio<br />

Liechtenstein di tornare a Trento. Nella sfera temporale dovette però accettare condizioni che gli toglievano<br />

ogni diritto, e nella sfera spirituale fu costretto a nominare suo vicario Giovanni <strong>da</strong> Isny, un fedelissimo del<br />

duca, che poco dopo divenne anche decano del capitolo. Il vescovo scelse allora nuovamente l’esilio. Si<br />

rivolse ripetutamente al re di Germania e al Concilio di Costanza: nonostante il loro appoggio, non riuscì ad<br />

ottenere risultati concreti prima del maggio 1418. Solo allora, con la mediazione di papa Martino V, si<br />

giunse ad un nuovo accordo tra il re Sigismondo e il duca Federico IV, che costituiva la necessaria premessa<br />

al ritorno in sede del vescovo. A quel punto però fu la città, che gli era ancora ostile, a schierarglisi contro.<br />

Giorgio Liechtenstein morì il 20 agosto 1419, forse avvelenato, nel castello anaune di Pietro di Spor.<br />

Nelle intenzioni di Federico IV, il nuovo vescovo di Trento avrebbe dovuto essere il decano del capitolo<br />

Giovanni <strong>da</strong> Isny, che infatti i canonici elessero alla cattedra; ma papa Martino V respinse tale scelta,<br />

impedendo così che un favorito del Tascavuota riproponesse la totale egemonia tirolese su Trento; a sua<br />

volta il papa propose senza successo ben tre candi<strong>da</strong>ti.<br />

Dopo tre anni di <strong>tratta</strong>tive la vacanza si chiuse con un compromesso di alto livello, che pose<br />

provvisoriamente termine alle contese: Martino V nominò vescovo Alessandro di Masovia (1423-1444),<br />

ventitreenne nipote del re di Polonia, imparentato con la famiglia imperiale. Federico IV sperava che fosse<br />

un personaggio debole e facilmente manovrabile; ma Alessandro, pur comportandosi molto più <strong>da</strong> principe<br />

che <strong>da</strong> prelato, dimostrò presto di voler restituire al principato vescovile una maggiore autonomia (sembra<br />

che non abbia neppure giurato le vecchie compattate), ed anzi di voler proprio togliere Trento <strong>da</strong>ll’orbita<br />

tirolese, cercando piuttosto un legame con Milano, o forse con Venezia. Questa avventurosa politica estera<br />

non poteva che preoccupare Federico IV e sfavorire economicamente la città, che nel legame con il Tirolo<br />

trovava facile sbocco ai propri commerci, specie vinicoli. Suscitavano scan<strong>da</strong>lo e dissenso anche<br />

l’introduzione di molti polacchi nei posti di potere, il mancato rispetto degli statuti cittadini e gli<br />

atteggiamenti dispotici e immorali del «duca di Masovia». Una nuova rivolta cittadina divampò dunque nel<br />

1435, ed ancora una volta Federico IV non mancò di approfittarne per gua<strong>da</strong>gnare posizioni, occupando<br />

militarmente la città; venne così stroncato il tentativo di togliere il principato <strong>da</strong>ll’orbita tirolese.<br />

Alessandro, nel momento della rivolta, non si trovava a Trento: <strong>da</strong>l 1433 frequentava spesso Basilea, e<br />

partecipava con convinzione al concilio là convocato. Vi rimase anche quando le posizioni dell’assemblea si<br />

radicalizzarono, ed anzi assunse incarichi di una certa importanza nella curia dell’antipapa Felice V, eletto<br />

<strong>da</strong>l concilio dopo la deposizione di papa Eugenio IV (1439). Il Masovia fu fatto patriarca di Aquileia e<br />

cardinale, e venne coinvolto nell’attività diplomatica in quanto legato del concilio nei territori asburgici.<br />

Morì a Vienna il 2 giugno 1444; gli era vicino Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II, che lasciò ai<br />

posteri un ritratto tutt’altro che edificante degli ultimi giorni del nobile polacco. Dal punto di vista del<br />

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governo spirituale, vanno peraltro ricor<strong>da</strong>ti i suoi sforzi per il miglioramento della qualità del clero attraverso<br />

una visita pastorale e un sinodo.<br />

Alla morte del Masovia si aprì un altro periodo di confusione, durante il quale vi fu anche uno scisma<br />

all’interno della diocesi. Il capitolo della cattedrale e il concilio di Basilea sostenevano infatti Teobaldo<br />

Wolkenstein, che poteva operare come vescovo nell’area centro-settentrionale; papa Eugenio IV gli preferiva<br />

l’ex-abate benedettino di San Lorenzo, Benedetto <strong>da</strong> Trento, che esercitava la sua giurisdizione nelle aree<br />

meridionali occupate <strong>da</strong> Venezia. Solo le dimissioni di entrambi, nel corso del 1446, permisero la soluzione<br />

dello scisma. Le due rinunce erano il segno <strong>da</strong> un lato della sconfitta delle posizioni conciliariste, <strong>da</strong>ll’altro<br />

dell’ulteriore crescita del potere tirolese, ora impersonato <strong>da</strong>l figlio di Federico IV, Sigismondo. Questi<br />

impose infatti al capitolo di nominare vescovo lo slesiano Giorgio Hack, fratello del suo coman<strong>da</strong>nte<br />

militare; l’elezione venne subito ratificata <strong>da</strong>l concilio (17 ottobre 1446) ed in seguito anche <strong>da</strong>l papa (8<br />

novembre 1448).<br />

Giorgio di Lichtenstein<br />

Il contesto storico-politico che precedette la nomina di Giorgio di Lichtenstein<br />

Nel 1390 era morto il vescovo di Trento Alberto di Ortenburg ed occorreva provvedere alla successione. Il<br />

Capitolo intendeva farlo al più presto, per evitare che anche a Trento si ripetesse quanto avvenuto per la<br />

vicina diocesi di Coira, dove il duca d´Austria stava riuscendo a far salire all´episcopato il proprio<br />

cancelliere, per via dei buoni uffici che questi aveva con la curia romana. Nello stesso anno, quindi, il<br />

Capitolo nominò vescovo di Trento il barone Giorgio di Lichtenstein, prepo<strong>sito</strong> della collegiata di Vienna,<br />

la dignità ecclesiastica più alta del ducato d´Austria. La scelta non creò contrasti di alcun genere tra il<br />

Capitolo e la Santa Sede, in quanto anche il pontefice Bonifacio IX aveva segnalato la stessa persona per<br />

ricoprire quest´ufficio. Va ricor<strong>da</strong>to che <strong>da</strong>i tempi del vescovo Enrico II, vale a dire <strong>da</strong>l 1274, tutti i pastori<br />

della diocesi tridentina (con l´esclusione di Nicolò <strong>da</strong> Brno) erano stati nominati direttamente <strong>da</strong>l pontefice.<br />

I positivi esordi e il tentativo di restaurazione politica. Il triste confronto con la realtà<br />

Giorgio di Lichtenstein era originario della Moravia, ed era nato nella città di Nikolsburg. Proveniva <strong>da</strong> una<br />

delle famiglie più illustri di quel paese e sin <strong>da</strong>ll´inizio cercò di accattivarsi il consenso delle masse<br />

popolari con offerte generose. Verso i nobili del luogo si presentò invece in maniera decisamente più<br />

autorevole: ridimensionò in modo perentorio le aspirazioni delle famiglie più signorili, fino a ricondurle ad<br />

esercitare il ruolo di suoi semplici vassalli, e soprattutto tenne un atteggiamento assai risoluto nei confronti<br />

del duca d´Austria, verso il quale si rifiutò sempre di pronunciare giuramento su quelle «compattate « che<br />

avevano relegato il presule precedente, Alberto di Ortenburg, ad un ruolo di semplice comprimario negli<br />

eventi della diocesi. Immediatamente, quindi, fece capire agli antagonisti della Chiesa di avere di fronte una<br />

personalità ben diversa <strong>da</strong>l suo predecessore, decisa a risollevare la dignità e l´indipendenza del potere<br />

vescovile col porre fine a un periodo tra i più umilianti di tutta la <strong>storia</strong> della Chiesa locale.<br />

I suoi interventi iniziali si inquadravano in un più vasto programma di rinnovamento, che faceva uso di<br />

altisonanti richiami <strong>da</strong>l forte contenuto simbolico quale strumento di propagan<strong>da</strong>. Allo scopo di magnificare<br />

lo splendore del potere vescovile che egli stesso aveva intenzione di ripristinare, Giorgio di Lichtenstein,<br />

durante gli anni a cavallo fra il ‘300 e il ‘400, provvide al restauro e alla costruzione di quelli che aveva<br />

individuato come gli emblemi dell´autorità <strong>da</strong> lui rappresentata. Fece erigere e decorare riccamente Torre<br />

Aquila, accanto al castello del Buonconsiglio, e ne fece una pertinenza della sua residenza personale. Un<br />

tale atto, in verità, fu ritenuto per la municipalità di Trento un gravissimo affronto al sentimento collettivo:<br />

per edificare Torre Aquila il vescovo aveva occupato uno dei luoghi più cari alla cittadinanza, uno degli<br />

spazi pubblici nei quali, per gli abitanti di Trento, scattavano quei meccanismi di autoidentificazione che in<br />

quest´ultima fase del medioevo avevano <strong>da</strong>to al capoluogo una fisionomia civica ben precisa.<br />

E´ evidente come questo fatto sia stato tra le cause scatenanti della ribellione che avverrà di lì a non molto e<br />

come i mutamenti che il vescovo Giorgio cercò di introdurre nell´arte cittadina abbiano avuto conseguenze<br />

ben diverse <strong>da</strong> quelle apportate nei decenni avvenire <strong>da</strong> altri due suoi più illustri successori: Giovannni<br />

Hinderbach e Bernardo Clesio.<br />

In questi primi anni del suo episcopato, egli mostrò in ogni caso di possedere una notevole sensibilità<br />

artistica: gli affreschi con i quali fu abbellita Torre Aquila esprimevano un gusto che non sembra azzar<strong>da</strong>to<br />

definire pre - rinascimentale. Su di essa è raffigurato un celebre «ciclo dei mesi», che resta tra le opere<br />

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pittoriche più apprezzate di questa epoca storica. Il suo autore è rimasto sconosciuto, anche se si è potuto<br />

supporre che si sia <strong>tratta</strong>to di un artista boemo, conoscente della blasonata famiglia dei Lichtenstein. In<br />

sintonia con la valenza squisitamente propagandistica che, come si è detto, rivestivano queste innovazioni<br />

artistiche ed architettoniche, il celebre affresco aveva anche lo scopo di rappresentare un modello di società<br />

fortemente verticistica, quella espressamente voluta <strong>da</strong>l vescovo.<br />

Questo disegno politico venne completato con altri interventi del medesimo genere: Giorgio di Lichtenstein<br />

fece anche ristrutturare il castello di Stenico, e soprattutto fece eseguire splendidi lavori di arte orafa sui<br />

quali erano rappresentati gli stemmi di famiglia, che collocò sopra i portoni di palazzi e castelli, nelle<br />

sontuose sale e ovunque desiderava che fosse ricor<strong>da</strong>ta la provenienza non solo istituzionale ma anche<br />

dinastica della sua autorità.<br />

Nonostante il contributo che fornì personalmente al principato anche in termini finanziari attingendo ai beni<br />

della propria famiglia, il vescovo si vide presto obbligato a fare i conti con una realtà economica<br />

decisamente pesante: le casse dell´amministrazione ecclesiastica erano vuote a causa degli ingenti debiti,<br />

ereditati anche <strong>da</strong>l governo precedente, ed incombevano difficoltà organizzative di ogni genere. Per<br />

riscattare la zona di Riva del Gar<strong>da</strong>, inoltre, lui stesso dovette sostenere un sacrificio economico non<br />

indifferente. Ad un certo momento, fu costretto ad adottare quell´espediente cui abitualmente ricorrono i<br />

governanti che vengono alle prese con questo tipo di difficoltà: si <strong>tratta</strong> dell´inasprimento delle misure<br />

tributarie, in seguito al quale, naturalmente, egli perse pressoché tutta la popolarità che aveva conseguito ai<br />

suoi esordi.<br />

La rivolta contadina contro la Chiesa: un nuovo interlocutore nel quadro politico del principato di Trento<br />

Giorgio di Lichtenstein, ritenendo gli uomini del proprio paese i più a<strong>da</strong>tti a svolgere incarichi di fiducia,<br />

affidò gli uffici di esattore a funzionari che provenivano <strong>da</strong>lla Moravia, come aveva fatto una cinquantina d<br />

´anni prima Nicolò <strong>da</strong> Brno. Una scelta che gli costerà cara, sia perché la popolazione <strong>trentina</strong> non era<br />

disposta ad accettare questa intromissione nelle faccende amministrative <strong>da</strong> parte di pubblici ufficiali<br />

forestieri, con i quali si veniva creando un vero e proprio scontro culturale e sociale, sia perché questi<br />

avevano finito con l´approfittare della fiducia loro concessa, commettendo frequentemente gravi abusi.<br />

La prima conseguenza di questo malcontento diffuso fu la rivolta del 1407, che ebbe come protagoniste le<br />

popolazioni della Val di Non e i cittadini di Trento, nonché quella degli abitanti della Valle del Noce. I<br />

ribelli diedero assalto ai castelli di Tuenno, di Altaguardia, di Sant´Ippolito e diverse persone persero la<br />

vita. Queste insurrezioni, del resto, erano demagogicamente fomentate <strong>da</strong> colui che per tutta l´esistenza<br />

diventò il più accanito avversario di Giorgio, il duca del Tirolo Federico, detto «Tascavuota». In un primo<br />

momento il vescovo riuscì a placare gli animi, riacquistando in qualche modo il favore delle masse<br />

popolari, anche di quelle che erano state esecutrici materiali delle sommosse, ed ottenne <strong>da</strong>i sin<strong>da</strong>ci del<br />

Comuni di valle un giuramento di fedeltà e di alleanza verso la Chiesa che sembrava poter garantire l´avvio<br />

di un periodo di maggiore tranquillità.<br />

Tuttavia, per riportare la calma, Giorgio di Lichtenstein aveva dovuto sacrificare alcune della prerogative<br />

sulle quali la sua piena autorità si era fon<strong>da</strong>ta sino a quel momento. Era stato infatti costretto a concedere<br />

alle municipalità molti dei privilegi sui quali si reggevano i locali statuti, oltre a consentire l´istituzione di<br />

un Consiglio di «sapienti e anziani» con il compito di controllare l´operato del vicario vescovile e dei suoi<br />

funzionari. Le garanzie che facevano parte integrante della carta degli editti e delle provvisioni sottoscritta<br />

il 28 febbraio 1407 e che erano state elargite <strong>da</strong>l vescovo non si limitavano inoltre, ad una mera conferma di<br />

diritti già esercitati. Fu creata anche una specifica figura di «magister civium», comunemente chiamato<br />

«capitano del popolo», al quale avrebbe fatto capo la funzione di massimo garante dei diritti dei cittadini; il<br />

capitano veniva così ad assumere un ruolo di intermediazione fra la comunità locale e al contempo<br />

esercitava l´ufficio di coman<strong>da</strong>nte di una guardia civica, istituita con finalità sia giurisdizionali che di<br />

ordine pubblico. Questa carica venne affi<strong>da</strong>ta a Roberto Belenzani, che diventò il personaggio carismatico<br />

di un progetto politico che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei riformatori, condurre alla formazione di una<br />

repubblica tridentina, capace progressivamente di affrancarsi <strong>da</strong>lle limitazioni imposte <strong>da</strong>ll´esercizio del<br />

potere vescovile e di costituire un esempio anticipatore e sui generis di stato nazionale.<br />

I fermenti indipendentisti che animavano la municipalità tridentina rappresentavano ormai la maturazione<br />

di quel processo di emancipazione delle realtà comunali, che era venuto evolvendosi sotto l´aspetto<br />

economico e politico durante questa fase conclusiva del medioevo e si stava ulteriormente arricchendo di<br />

nuovi contenuti. Questi fervori avevano risentito anche della diffusione delle idee riformistiche che si<br />

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ifacevano al pensiero espresso settant´anni prima <strong>da</strong> John Wycliff e che stavano scuotendo le popolazioni<br />

mitteleuropee proprio in questi anni iniziali del XV secolo, con lo spirare dei nuovi venti innovatori <strong>da</strong>lla<br />

Boemia, dove Jan Hus e i suoi seguaci stavano <strong>da</strong>ndo vita a un dibattito destinato ad avere implicazioni<br />

religiose, sociali e politiche di grande peso.<br />

L´azione di forza del duca Federico e l´esilio del vescovo<br />

Nondimeno il duca Federico, bramoso di conseguire il pieno consenso della popolazione e un controllo più<br />

capillare anche sui territori limitrofi al ducato del Tirolo, attaccò il vescovo in maniera molto energica. Lo<br />

aiutò, peraltro, un particolare evento: si era sparsa la voce che il vescovo avesse chiesto l´aiuto delle milizie<br />

del capitano di ventura Ottobon <strong>da</strong> Parma, con lo scopo di allontanare definitivamente il pericoloso<br />

antagonista. Non è stato appurato con certezza se si <strong>tratta</strong>sse di una diceria, ma non si esclude che la notizia<br />

potesse essere stata sparsa in modo calunnioso <strong>da</strong>gli stessi vassalli del duca Federico. In ogni caso, questi<br />

ruppe gli indugi, e giustificandosi con la necessità di anticipare l´attacco di questi presunti nuovi alleati del<br />

potere vescovile, colse il pretesto per catture il presule e farlo rinchiudere come prigioniero prima nella<br />

torre Vanga, poi nel castello del Buonconsiglio. Poco prima dell´arresto, il vescovo si era tra l´altro<br />

fermamente rifiutato di cedere il Castello del Buonconsiglio al suo rivale.<br />

Durante questa sua permanenza in prigione, le agitazioni si diffusero in tutto il principato e in queste<br />

turbolenze si inserì anche il capitano e referen<strong>da</strong>rio del popolo Rodolfo Belenzani, con il quale Giorgio di<br />

Lichtenstein era entrato <strong>da</strong> qualche tempo in contrasto. Belenzani si era mosso fino a quel momento in<br />

modo forse equivoco, cercando di tessere una rete di relazioni diplomatiche con il duca Federico. Certo,<br />

così facendo puntava a gua<strong>da</strong>gnare tempo con l´obbiettivo di volgere la situazione a proprio vantaggio, e in<br />

particolare a favore della categoria che rappresentava e che lo aveva designato a ricoprire la carica di<br />

capitano. Dal momento in cui il duca ricorse all´uso della forza per occupare la città di Trento e scacciare il<br />

vescovo, assumendone l´esercizio del potere temporale, Rodolfo Belenzani comunque comprese non solo di<br />

non poter più venire a patti con colui che aveva ritenuto un interlocutore fon<strong>da</strong>mentale, ma anzi di avere di<br />

fronte un nuovo nemico. In breve, le prevaricazioni dei luogotenenti di Federico, in città e nelle località di<br />

valle, si fecero così intense <strong>da</strong> divenire insopportabili. Belenzani cercò di ottenere l´appoggio della<br />

Repubblica di Venezia, che sembrava l´alleato migliore sia per le affinità di concezione politica, sia perché<br />

essa già esercitava un forte controllo su due zone importanti del territorio trentino, la Valsugana e la Val<br />

Lagarina, e poteva in tal modo garantire la presenza di un solido avamposto. Tuttavia i veneziani non se la<br />

sentivano di impegnarsi in un conflitto che li avrebbe contrapposti alla potenza tirolese e all´autorità del<br />

vescovo contemporaneamente. Anzi, Venezia deciderà in seguito di concedere i suoi favori al più potente<br />

duca Federico.<br />

Gli uomini di quest´ultimo tentarono di occupare, ma senza e<strong>sito</strong>, anche i castelli di Tenno e Riva. Lo stato<br />

di prigionia cui fu costretto Giorgio di Lichtenstein continuerà ancora a Brunico, prima di potersi recare a<br />

Vienna a trascorrere un periodo di esilio e di riflessione, provvisoriamente al riparo degli avvenimenti che<br />

tormentavano la sua diocesi.<br />

Disinganni e speranze del ceto municipale trentino dopo l´esperienza della ribellione<br />

Nel luglio del 1409, mentre il vescovo era ancora in Austria, Belenzani riuscì a liberare la città di Trento<br />

servendosi unicamente delle proprie milizie, ma perse la vita nella battaglia con Enrico di Rottenburg,<br />

signore di Cal<strong>da</strong>ro. Una tradizione che faceva capo alla causa asburgica e che mirava perciò a serbare nei<br />

cittadini il sentimento di fedeltà ai rappresentanti del potere sovrano, contribuì nel corso dei secoli alla<br />

diffusione di un´ informazione storica errata e fuorviante, come quella che il referen<strong>da</strong>rio del popolo fosse<br />

stato catturato <strong>da</strong>lle autorità e punito esemplarmente con la pena capitale. Col tempo, tuttavia, la verità<br />

relativa all´autentica versione della sua morte è venuta alla luce, fino a rappresentare più avanti, in<br />

particolare per la corrente irredentista, un evento glorioso, che ha contribuito ad animare in quest´ultima il<br />

senso di identificazione storico – culturale con il personaggio con i suoi ideali.<br />

La scomparsa di Rodolfo Belenzani faceva calare per molto tempo il sipario sui sogni di libertà dei cittadini<br />

trentini, profon<strong>da</strong>mente amareggiati per l´indifferenza mostrata nei confronti delle loro ispirazioni <strong>da</strong>lla<br />

Repubblica di Venezia e tornati a rivestire prevalentemente i panni dei sudditi. Nondimeno, gli impegni<br />

assunti <strong>da</strong>l vescovo Giorgio di Lichtenstein con la carta del 1407 rimasero, e il Consiglio dei sapienti e<br />

degli anziani continuò ad esistere e ad esercitare un´azione mirante a cercare di arginare il più possibile il<br />

potere vescovile, seppur con risultati alquanto esigui e in ogni caso disponendo di una forza alquanto<br />

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limitata; tanto <strong>da</strong> trovarsi costretto in più circostanze, talora ad investire la persona del duca del Tirolo per<br />

ottenere aiuti concreti nelle sue rimostranze contro il vescovo, talora ad opporsi anche al peso della casata<br />

tirolese allorché questa finiva col l´opprimerne eccessivamente le prerogative e l´ambito d´azione. Questa<br />

terza forza politica, che <strong>da</strong>i tempi di Giorgio di Lichtenstein si pose come alternativa alle due principali del<br />

duca del Tirolo e del vescovo, fu costretta <strong>da</strong>lle circostanze a volte a conservare una posizione di ambiguità,<br />

ma rappresentò il nucleo attorno al quale si venne formando, durante il secolo successivo, la maturazione<br />

della classe media <strong>trentina</strong>.<br />

Le ambizioni degli strati sociali meno altolocati ad emanciparsi <strong>da</strong> un governo fortemente accentrato come<br />

quello del principe – vescovo conosceranno una nuova e veemente impennata dopo più di un secolo, con il<br />

divampare dei moti contadini del 1525; ma anche questo tentativo non raggiunse gli obbiettivi prefissati,<br />

anzi verrà a rafforzare la portata del potere centrale. Evidentemente, i destini della popolazioni <strong>trentina</strong><br />

an<strong>da</strong>vano in tutt´altra direzione.<br />

L´aggravarsi dei contrasti col duca e la soli<strong>da</strong>rietà nei confronti del vescovo espressa al Concilio di<br />

Costanza<br />

Con la scomparsa del Belenzani uscì di scena uno degli avversari più insidiosi del vescovo, che poté far<br />

ritorno <strong>da</strong> Vienna. Federico tuttavia non cessò di perseguitarlo e mise in serio pericolo la vita del presule<br />

trentino, il quale vide nel castello di Nikolsburg, sua terra natale in Moravia, il luogo più sicuro per<br />

rifugiarsi <strong>da</strong>lle insidie del suo persecutore. Qui infatti decise di trasferirsi verso l´inizio del 1410, e <strong>da</strong><br />

Nikolsburg lanciò la scomunica nei confronti del duca tirolese, unitamente all´interdetto nei confronti di<br />

tutte le chiese della diocesi <strong>trentina</strong>. Il clima ormai era diventato pesantissimo. Contemporaneamente egli<br />

mantenne i contatti con i suoi vassalli nel principato, invitandoli a resistere e a non accettare compromessi<br />

né feudi di alcun tipo <strong>da</strong>l duca. Ricorse anche alla protezione del papa e dell´imperatore Sigismondo, che lo<br />

nominò principe della sua corte e consigliere; ma questo non intimorì affatto Federico, che nel 1412 irruppe<br />

in Valsugana mettendola a ferro e fuoco, impadronendosi di Castel Ivano.<br />

Nel 1414 il vescovo di Trento partecipò <strong>da</strong> esule al Concilio di Costanza, sede che la Chiesa aveva scelto<br />

per ricomporre il grande scisma di quei tempi, divampato in seguito alla ribellione dei cardinali avignonesi<br />

e dovuto altresì alla strumentalizzazione delle teorie di Guglielmo d´Occam e di Marsilio <strong>da</strong> Padova sul<br />

rapporto fra il potere del papa e quello dei vescovi in concilio. L´adunanza diventò la più grande assise<br />

cristiana dopo il concilio ecumenico di Nicea del 325, e in questa occasione Giorgio di Lichtenstein fece<br />

presente anche la drammaticità della situazione all´interno della sua diocesi, rivolgendosi ai padri conciliari<br />

per ottenere <strong>da</strong> loro un sostegno concreto. Questi espressero senza indugio la loro soli<strong>da</strong>rietà e<br />

con<strong>da</strong>nnarono l´operato di Federico, scagliando contro di lui un nuovo solenne interdetto ed obbligandolo a<br />

restituire ogni feudo, città, castello, villa o diritto che avesse usurpato al vescovo Giorgio. Nonostante le<br />

difficoltà che ancora misero alla prova la Chiesa <strong>trentina</strong>, questa sentenza del concilio di Costanza<br />

rappresentò un momento importante per il risollevamento sia delle sorti della diocesi di Trento che di quella<br />

di Bressanone (anch´essa fortemente minacciata <strong>da</strong>l Tascavuota), ed ebbe una notevole portata nel<br />

condizionare lo svolgersi degli avvenimenti successivi.<br />

La malattia e la morte di Giorgio di Lichtenstein. L´importanza del manoscritto con la cronotassi dei pastori<br />

della Chiesa <strong>trentina</strong><br />

La solennità del provvedimento tuttavia non creò il minimo turbamento nell´animo di Federico, che colse l<br />

´occasione per causare nuovi dispiaceri al vescovo. Non senza il tacito consenso dell´imperatore<br />

Sigismondo, col quale era riuscito tramite un´astuta azione diplomatica a migliorare i rapporti, il duca del<br />

Tirolo catturò nuovamente Giorgio di Lichtenstein non appena questi riuscì a ritornare in Trento, e lo<br />

rinchiuse nel castello di Spor. Questa nuova triste esperienza lasciò purtroppo un segno indelebile sulla<br />

salute del presule, che cadde malato e non riuscì più a riaversi. Morì infatti di lì a poco, il 20 agosto 1419,<br />

pare addirittura avvelenato, nel maniero presso il quale era stato relegato a forza. Il suo corpo fu tumulato<br />

nella cattedrale di San Vigilio, sul lato sinistro dell´altare di Santa Massenza. Trascorse tutto il suo<br />

episcopato nel tentativo di arginare le prepotenze dei più forti, tra guerre, lunghi momenti trascorsi in<br />

prigione e in esilio lontano <strong>da</strong>lla propria Chiesa.<br />

Al periodo del vescovo Giorgio di Lichtenstein è stato fatto risalire un manoscritto a pergamena sul quale<br />

risultano riportate le costituzioni dei sinodi della Chiesa <strong>trentina</strong> nel secolo precedente, in particolare di<br />

quello tenutosi sotto Enrico di Metz nel 1336. Questo documento è ricavato interamente <strong>da</strong>l Dittico<br />

67


U<strong>da</strong>lriciano, del quale riporta alquanto fedelmente le varie annotazioni. Si <strong>tratta</strong> di una testimonianza<br />

importante in merito all´argomento della successione dei vescovi, giacché rappresenta un´ulteriore<br />

conferma della credibilità del Dittico e costituisce il trait d´union fra questo e i posteriori tentativi di<br />

ricostruire la sequenza dei vescovadi. Il vescovo umanista Giovanni Hinderbach se ne servì in più occasioni<br />

nei suoi eruditi approfondimenti.<br />

La città, il territorio, i comuni rurali<br />

La storiografia <strong>trentina</strong>, soprattutto quella del XIX secolo, ha a lungo ritenuto che l’evoluzione istituzionale<br />

della città di Trento sia stata omogenea a quella delle città dell’Italia centro-settentrionale. Anche a Trento<br />

vi sarebbero dunque state, nel corso del XII secolo, forme di governo e magistrature di tipo comunale, che i<br />

vescovi avrebbero duramente osteggiato. Le ricerche più recenti hanno dovuto constatare come le tracce di<br />

tale evoluzione siano oggettivamente poche e siano state in passato sopravvalutate. Gli interventi degli<br />

imperatori Federico I (1182) e Enrico VI (1191) a sostegno dell’autorità dei vescovi e contro le libertà<br />

cittadine sembrano più che altro di carattere preventivo e generale, e privi di effettivo riferimento alla realtà<br />

locale. Qualche traccia di «consoli» o di altre magistrature di tipo comunale affiora qua e là nella<br />

documentazione, ma le denominazioni rimasero oscillanti almeno fino al secolo XV, e le corrispondenti<br />

competenze furono a lungo molto limitate. Trento nel medioevo è infatti una città di piccole dimensioni, in<br />

cui il vescovo è il punto di riferimento di ogni iniziativa politica, sia che lo si sostenga, sia che ci si<br />

opponga a lui; il fatto di trovarla abitata tanto <strong>da</strong> feu<strong>da</strong>tari imborghesiti quanto <strong>da</strong> borghesi infeu<strong>da</strong>ti spiega<br />

perché non si sviluppi mai quella polarità tra città e contado, tra chi sta ‘dentro’ e chi sta ‘fuori’, tipica delle<br />

città italiane. Quando poi il potere vescovile declina, Trento – così come il resto del principato vescovile –<br />

sente l’attrazione del potente vicino tirolese, che ne garantisce il ruolo di città mercantile, e a lui chiede<br />

appoggio e legittimazione. Rappresentanti della città parteciparono regolarmente, a partire <strong>da</strong>l XV secolo,<br />

alle sedute del parlamento (Landtag) di Innsbruck. Le vicende degli statuti cittadini rispecchiano questa<br />

situazione: essi risultano scritti non autonomamente, ma in coordinamento con il vescovo. Per quanto è<br />

probabile che singoli testi di legge siano stati elaborati già nel XIII secolo, la prima re<strong>da</strong>zione completa<br />

risale all’inizio del Trecento. Gli statuti vennero poi risistemati ed ampliati con Nicolò <strong>da</strong> Brno tra il 1340 e<br />

il 1343. Un notevole passo avanti vi fu in seguito alla rivolta del 1407: la carta di diritti rilasciata <strong>da</strong>l<br />

vescovo Giorgio Liechtenstein permetteva infatti l’elezione di un gruppo di consoli (in seguito sarebbero<br />

stati sette), che avevano competenza in tutti gli affari riguar<strong>da</strong>nti la città e il diritto di interferire sulla<br />

nomina e sull’attività del vicario vescovile, il quale era il giudice di prima istanza. A capo<br />

dell’amministrazione e della milizia cittadina era però il referen<strong>da</strong>rius, o magister civium, una sorta di<br />

capitano del popolo che finiva con l’essere il vero padrone della città; tale carica fu l’unica innovazione ad<br />

essere abrogata dopo la sconfitta del Belenzani. Una nuova re<strong>da</strong>zione degli statuti, approfondita e molto<br />

ampia, che teneva conto delle innovazioni del 1407, si deve al vescovo Alessandro di Masovia (1427); vi<br />

furono poi integrazioni <strong>da</strong> parte del vescovo U<strong>da</strong>lrico Frundsberg (1491) ed infine una completa riscrittura<br />

<strong>da</strong> parte di Bernardo Cles (1528). Va detto peraltro che il pieno diritto di cittadinanza, che permetteva la<br />

partecipazione alla vita politica, era concesso solo a chi avesse una certa disponibilità patrimoniale, ed era<br />

quindi riservato ad un numero molto limitato di persone. All’interno della contea di Trento, <strong>da</strong>l punto di<br />

vista dell’amministrazione della giustizia civile e penale, esistevano le grandi circoscrizioni di Trento, delle<br />

Valli di Non e di Sole e delle Giudicarie. Nel corso dei secoli XIII e XIV queste furono frazionate in<br />

svariate giurisdizioni minori, nelle quali l’autorità pubblica di esercitare la giustizia era deman<strong>da</strong>ta,<br />

completamente o in parte, a funzionari o famiglie nobili. Talvolta si <strong>tratta</strong>va di territori che in origine erano<br />

stati possessi immunitari dei conti di Flavon o dei conti di Appiano (poi finiti ai Tirolo); talvolta si <strong>tratta</strong>va<br />

delle aree prossime ad un castello. Se in molti casi l’esercizio della giurisdizione si rifaceva ad una<br />

concessione <strong>da</strong> parte di questo o quel vescovo, non di rado si <strong>tratta</strong>va di vere e proprie usurpazioni,<br />

legittimate a posteriori <strong>da</strong> investiture vescovili o tirolesi. La genesi dei comuni rurali è discussa: è possibile<br />

che tale forma organizzativa si sia sviluppata a partire <strong>da</strong>lla comunanza di strutture difensive all’interno di<br />

uno stesso circon<strong>da</strong>rio (castelli comunitari o di pieve); altri <strong>da</strong>nno invece maggiore importanza alla gestione<br />

comune di diritti quali l’uso del pascolo e del bosco. In linea teorica si possono distinguere due categorie: le<br />

comunità composte di liberi contadini e le comunità miste, composte <strong>da</strong> liberi e <strong>da</strong> sudditi di un signore.<br />

Nel primo gruppo (al quale appartenevano Fiemme, Rendena, Riva, Nago, Ledro) i <strong>tratta</strong>ti che regolavano i<br />

rapporti con l’episcopato avevano l’aspetto di accordi bilaterali volti a regolare l’esercizio della<br />

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giurisdizione e l’azione fiscale; alle singole comunità era riconosciuta un’ampia autonomia e l’esenzione <strong>da</strong><br />

determinati oneri in cambio di un giuramento di fedeltà e di prestazioni, in natura o in denaro (sono famosi i<br />

«patti gebardini», con i quali il vescovo Gebardo, nel 1111, riconobbe i diritti della comunità di Fiemme; va<br />

poi ricor<strong>da</strong>to lo statuto di Riva del 1274). Alla secon<strong>da</strong> categoria appartenevano invece le numerosissime<br />

comunità che a partire <strong>da</strong>l XIII secolo si dotarono di carte di regola (la più antica è quella di Civezzano, del<br />

1202) per la gestione del patrimonio comune e la polizia urbana, senza entrare invece nel merito di<br />

questioni di diritto civile o penale.<br />

Nella cartina: Assetto territoriale del principato vescovile di Trento tra il XVI e il XVIII secolo (<strong>da</strong>:<br />

BELLABARBA, Il principato vescovile di Trento <strong>da</strong>gli inizi del XVI secolo alla guerra dei Trent’anni, pag. 17).<br />

Dalle seconde "compattate" del 1454 al libello territoriale del 1511: la sovranità dei vescovi nel quadro del<br />

legame col Tirolo<br />

Con Giorgio Hack (1446-1465) un vescovo fedelissimo al potere tirolese tornava ad insediarsi sulla cattedra<br />

di san Vigilio. Ma <strong>da</strong>i tempi di Alberto di Ortenburg molte cose erano cambiate. Nei primi decenni del<br />

Quattrocento la politica aggressiva di Federico IV aveva fatto sua la Bassa Valsugana (1412-1414), che si<br />

aggiungeva al Primiero (tirolese già <strong>da</strong>l 1373). Il fronte meridionale non vedeva più la presenza di piccole ed<br />

irrequiete dominazioni di carattere locale, ma l’espansione della Repubblica di Venezia, che incamerando<br />

l’eredità dei Castelbarco aveva occupato Ala, Avio e Brentonico (1411), Rovereto (1416), Ledro (1426),<br />

quindi il resto della Vallagarina, Nago, Torbole e Riva (1439-1440). Il principato vescovile trentino era<br />

sempre di più uno stato-cusci<strong>net</strong>to tra la contea tirolese e la Serenissima, e in questo scontro sembrava<br />

destinato a dissolversi. In tale contesto l’Hack firmò, nel 1454, le nuove compattate. La loro formulazione<br />

era meno umiliante rispetto a quella del 1363: esse apparivano infatti, almeno formalmente, un <strong>tratta</strong>to<br />

bilaterale su base paritaria. La contropartita della protezione era un’alleanza militare che non poteva più<br />

essere rescissa. Le compattate del 1454 fissarono i rapporti istituzionali tra il principato vescovile di Trento e<br />

la contea del Tirolo in una forma rimasta sostanzialmente immutata nei secoli successivi.<br />

L’Hack ebbe modo più volte di dimostrare la sua subordinazione al potere tirolese, come quando cedette a<br />

Sigismondo la giurisdizione di Bolzano, o quando sostenne il conte contro il vescovo di Bressanone Nicolò<br />

Cusano fino a rischiare la scomunica. Nel 1463 dovette fuggire <strong>da</strong>lla città di fronte a una rivolta in qualche<br />

aspetto simile a quella che avevano dovuto subire i suoi predecessori: veniva accusato infatti di aver affi<strong>da</strong>to<br />

le cariche di governo ai suoi compatrioti e parenti slesiani. Ancora una volta fu il duca d’Austria e conte del<br />

Tirolo Sigismondo a vedersi riconosciuto un ruolo decisivo: a lui il vescovo affidò l’amministrazione del<br />

territorio, e per suo tramite vennero condotte le <strong>tratta</strong>tive con la cittadinanza. Il vescovo morì in esilio nel<br />

1465.<br />

Il capitolo elesse quindi il successore nella persona di Giovanni Hinderbach (1465-1485), già segretario<br />

dell’imperatore Federico III. Sigismondo gli restituì il potere temporale solo dopo la firma delle compattate,<br />

nel 1468. Le relazioni tra Trento e il Tirolo continuarono ad essere buone, anche se il nuovo vescovo si<br />

dimostrò meno servile del suo predecessore. Era un appassionato di <strong>storia</strong> ed agiografia e sostenne varie<br />

iniziative culturali (tra le quali la biblioteca vescovile), tanto che è stato qualificato con l’appellativo di<br />

vescovo «umanista». Lottò per difendere il proprio diritto di nomina del clero rispetto alle intromissioni del<br />

governo austro-tirolese e rese sistematico il controllo dei documenti che certificavano la regolarità delle<br />

ordinazioni sacre. Durante il suo episcopato l’imperatore e il duca d’Austria ottennero <strong>da</strong> papa Sisto IV una<br />

bolla con la quale si stabiliva che almeno due terzi dei canonici di Trento dovessero provenire <strong>da</strong>i territori<br />

dell’Impero, <strong>da</strong> quelli della casa d’Austria o <strong>da</strong>lla cerchia dei parenti e dei collaboratori del vescovo (20<br />

aprile 1474). La misura, peraltro mai rigi<strong>da</strong>mente applicata, era volta ad impedire l’elezione di un vescovo<br />

ostile agli equilibri politici faticosamente raggiunti.<br />

L’episcopato dell’Hinderbach è tristemente noto anche per la vicen<strong>da</strong> che nel corso del 1475 portò alla<br />

distruzione della piccola comunità ebraica di Trento. I suoi capi furono infatti accusati della morte di un<br />

bimbo (Simone Unverdorben), vennero quindi arrestati ed infine giustiziati dopo aver confessato, sotto le<br />

torture, un orrendo omicidio rituale. Il contesto non era differente <strong>da</strong> quello di altre città italiane e tedesche<br />

nelle quali si svolsero processi contro ebrei, specie nel contesto della predicazione contro l’usura; ciò che<br />

rese particolarmente noto il caso trentino fu l’esistenza delle deposizioni estorte agli imputati, che a lungo<br />

furono considerate prova della veridicità della ricostruzione degli avvenimenti. «San Simonino» divenne<br />

oggetto di venerazione e ben presto gli vennero attribuiti dei miracoli; nonostante le forti perplessità <strong>da</strong> parte<br />

69


papale, iniziò in<br />

questo modo un culto<br />

destinato a spegnersi<br />

solo in questo secolo,<br />

e a venir<br />

ufficialmente<br />

abrogato nel 1965.<br />

Nel 1992, nei pressi<br />

del luogo in cui era<br />

stato trovato il corpo<br />

del Simonino (oggi<br />

vicolo dell’Adige), è<br />

stata posta una lapide<br />

che riconosce l’errore<br />

compiuto nei riguardi<br />

degli ebrei, in quella<br />

che rimane una delle<br />

pagine più tristi della<br />

<strong>storia</strong> <strong>trentina</strong>.<br />

Giovanni Hinderbach<br />

morì a Trento il 21<br />

settembre 1486.<br />

Come suo successore<br />

il capitolo scelse<br />

U<strong>da</strong>lrico Frundsberg<br />

(1486-1493), un<br />

nobile tirolese che<br />

faticò non poco per<br />

ottenere la conferma,<br />

in quanto<br />

l’imperatore Federico<br />

III, che aveva<br />

ricevuto <strong>da</strong>l papa il<br />

diritto di nominare<br />

alcuni vescovi, gli<br />

aveva opposto un<br />

altro candi<strong>da</strong>to. Il<br />

Frundsberg celebrò<br />

nel 1489 un sinodo<br />

diocesano e promosse<br />

una visita pastorale<br />

nell’area atesina: lo<br />

scopo era quello di<br />

migliorare la qualità<br />

del clero e di indurlo<br />

ad una condotta moralmente più degna.<br />

In quegli anni accaddero due fatti che avrebbero influenzato, e non poco, il futuro della regione.<br />

Il 10 agosto 1487, a Calliano, le truppe della Repubblica di Venezia gui<strong>da</strong>te <strong>da</strong>l capitano di ventura Roberto<br />

<strong>da</strong> Sanseverino vennero pesantemente sconfitte <strong>da</strong>i tedeschi e <strong>da</strong>i trentini alleati. Per quanto l’episodio<br />

militare non abbia avuto conseguenze politiche immediate, segnò il punto d’arresto dell’espansione<br />

veneziana nella valle dell’Adige; nel secondo decennio del XVI secolo la Serenissima avrebbe dovuto anzi<br />

ritirarsi <strong>da</strong>lla Vallagarina e <strong>da</strong>ll’Alto Gar<strong>da</strong>, territori poi poco alla volta restituiti <strong>da</strong>ll’imperatore ai principi<br />

vescovi.<br />

Il 16 marzo 1490 il conte del Tirolo e arciduca d’Austria Sigismondo abdicò in favore del re di Germania<br />

Massimiliano d’Asburgo: la contea del Tirolo e il principato vescovile di Trento furono dunque uniti<br />

70


dinasticamente al regno di Germania e – qualche anno dopo – all’Impero. Venivano così a cadere i motivi di<br />

attrito tra Trento ed Innsbruck: il fatto che le cariche di imperatore, arciduca d’Austria e conte del Tirolo<br />

fossero congiunte nella stessa persona era una garanzia per la sovranità del vescovo, non essendovi più alcun<br />

nobile tirolese o austriaco interessato ad an<strong>net</strong>tersi il suo territorio. Anzi, nell’ottica degli imperatori, la<br />

stabilità degli Stati ecclesiastici era un valore <strong>da</strong> salvaguar<strong>da</strong>re per non compromettere l’assetto dell’intera<br />

compagine imperiale.<br />

Successore di U<strong>da</strong>lrico Frundsberg fu U<strong>da</strong>lrico Liechtenstein (1493-1505), appartenente ad una famiglia che<br />

prendeva il nome <strong>da</strong> un castello posto presso Bolzano. Anch’egli ebbe difficoltà nell’ottenere la conferma,<br />

tanto che poté fare il suo ingresso ufficiale in sede solo nel 1497; al pari del suo predecessore convocò un<br />

sinodo ed emanò delle costituzioni. Nel 1502 scelse come coadiutore Giorgio Neideck, un nobile austriaco<br />

figlio del capitano di Castel Pergine, che gli succedette nel 1505 e proseguì nell’attività sino<strong>da</strong>le volta<br />

soprattutto al miglioramento dei costumi del clero. Durante il suo periodo di governo si accese la guerra tra<br />

l’imperatore Massimiliano d’Asburgo e la Repubblica di Venezia (1508-1516). In quel contesto<br />

Massimiliano (in quanto imperatore e in quanto conte del Tirolo), i rappresentanti dei quattro «stati» della<br />

dieta tirolese (nobili, prelati, città, contadini) e i due vescovi di Trento e di Bressanone si accor<strong>da</strong>rono per<br />

quanto riguar<strong>da</strong>va gli obblighi reciproci in caso di guerra. Ne nacque una nuova convenzione, il «Libello<br />

territoriale» (Landlibell) del 24 giugno 1511, nel quale tra l’altro venne stabilito che i due episcopati di<br />

Trento e di Bressanone, in caso di conflitto, non avrebbero dovuto versare i contributi finanziari all’Impero,<br />

ma solo alla contea tirolese. La decisione intendeva esentare i due vescovi <strong>da</strong> doppie contribuzioni, ma di<br />

fatto finiva col rinsal<strong>da</strong>re ulteriormente i vincoli di confederazione tra Trento e il Tirolo. Il contesto, come si<br />

è detto, era tale <strong>da</strong> garantire comunque la sovranità dei principati ecclesiastici, ma il nuovo vincolo di<br />

carattere fiscale avrebbe in futuro messo in discussione la dipendenza diretta <strong>da</strong>ll’Impero del principato<br />

vescovile trentino, che si sarebbe trovato in qualche misura sottomesso al Tirolo non solo di fatto, ma anche<br />

di diritto.<br />

Ma tra la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento tale rischio non era percepito come reale:<br />

anzi, si era in qualche modo ritornati alla situazione dei secoli XI-XII, quando i vescovi assumevano cariche<br />

ai vertici dell’Impero e avevano un ruolo politico di livello internazionale. U<strong>da</strong>lrico Lichtenstein operò come<br />

ambasciatore del re di Germania; Giorgio Neideck fu coman<strong>da</strong>nte delle truppe imperiali e a lungo<br />

luogotenente di Massimiliano a Verona. Morì nella città ve<strong>net</strong>a il 5 giugno 1514.<br />

Massimiliano I d’Asburgo<br />

Nacque a Wiener Neustadt il 22 marzo 1459. Conte del Tirolo (ceduto <strong>da</strong> Sigismondo d’Austria), arciduca<br />

d’Austria diede inizio al periodo di massima espansione degli Asburgo. Massimiliano si propose di<br />

trasformare l’agglomerato feu<strong>da</strong>le dei paesi ereditari austriaci in un insieme di strutture statuali<br />

centralizzate. Figlio dell'imperatore Federico III nel 1486 cinse la corona di re di Roma e, nel 1508, a<br />

trento, quella di "imperatore romano". Nel 1511 firmò il Landlibell, un patto di confederazione perpetua dei<br />

principati vescovili di Trento e Bressanone con la contea del Tirolo. La politica autoritaria e centralizzatrice<br />

di Massimiliano suscitò il malcontento, aggravato anche <strong>da</strong>ll’aggravarsi del dissesto economico generale,<br />

poiché la guerra condotta contro Venezia (1508 al 1516) insieme ai saccheggi e alle devastazioni aveva<br />

chiuso definitivamente la via commerciale atesina. Massimiliano morì nel 1519, dopo il figlio Filippo I;<br />

lasciò eredi i nipoti Carlo V e Ferdinando I. Morì a Wels il primo gennaio 1519.<br />

Il «Libello dell´11» e il consoli<strong>da</strong>mento del potere vescovile<br />

Il 24 giugno del 1511 venne stipulato fra l´imperatore Massimiliano (in qualità di conte del Tirolo e<br />

pertanto di detentore dei feudi delle Chiese di Trento e di Bressanone) e i due principati ecclesiastici di<br />

Trento e di Bressanone, una convenzione che si rivelò di importanza strategica decisiva per la <strong>storia</strong> del<br />

vescovado di Trento nel ‘500 e che alcuni storici hanno interpretato come l´atto che diede origine ad una<br />

vera e propria confederazione.<br />

In questo documento si ufficializzava il fatto che i due vescovi di Trento e di Bressanone sarebbero stati<br />

assoggettati, oltre che all´autorità della Santa Sede, anche a quella dell´imperatore. Il <strong>tratta</strong>to, chiamato<br />

«libello dell´11» ovvero «Landlibell», articolato in 59 capitoli, stabiliva le condizioni alle quali le parti<br />

sottoscriventi avrebbero dovuto attenersi in caso di aiuto militare reciproco. Da una parte Massimiliano<br />

prometteva, per sé stesso e per i propri successori, di non <strong>da</strong>re avvio ad alcuna operazione bellica che<br />

coinvolgesse i territori di Trento e di Bressanone senza il parere favorevole delle due autorità vescovili. Le<br />

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due parti si impegnavano altresì a fornirsi aiuto militare reciproco in caso di necessità. Nel caso in cui il<br />

vescovo mettesse quindi le sue truppe a disposizione dell´imperatore, queste avrebbero marciato sotto la<br />

bandiera vescovile e sarebbero state considerate autonome rispetto al resto dell´esercito. Questa condizione,<br />

che rafforzò la sovranità militare del vescovo, rappresentò uno dei presupposti necessari per la designazione<br />

di Trento a sede dell´imminente Concilio.<br />

Il «Landibell» stabilì anche il versamento, <strong>da</strong> parte dei due principati, di alcuni contributi e di una tassa<br />

speciale per provvedere alle spese di vettovagliamento dell´esercito, anche se l´imperatore Massimiliano<br />

dichiarò che avrebbe presto esonerato Trento e Bressanone <strong>da</strong>ll´obbligo di versare tali contribuzioni.<br />

Tuttavia, soltanto nel 1548 con la dieta di Augusta, in virtù di un impegno personale <strong>da</strong> parte dell<br />

´imperatore Ferdinando I che avocò a sé le spese relative ai contributi militari dei due principati, i vescovi<br />

di Trento e di Bressanone vennero esentati <strong>da</strong> questa forma di partecipazione, che gravava in maniera non<br />

indifferente sulle finanze di entrambe le autorità.<br />

Si può dire, quindi, che il <strong>tratta</strong>to del 1511 consegnò ai successori di Giorgio Neideck un principato<br />

vescovile dotato di una sovranità <strong>da</strong>vvero irrobustita. Esso rappresentò una premessa necessaria per<br />

consentire la traduzione sul piano pratico delle politiche ecclesiali di due vescovi autorevoli come Bernardo<br />

Clesio e Cristoforo Madruzzo.<br />

Bernardo Cles, il "secondo fon<strong>da</strong>tore" del principato vescovile<br />

Negli anni in cui il monaco agostiniano Martin Lutero diffondeva le sue tesi, fortemente critiche nei riguardi<br />

del modo in cui la Chiesa romana faceva commercio delle indulgenze, l’episcopato trentino era governato<br />

<strong>da</strong>l giovane Bernardo Cles (1514-1539). Questi era nato l’11 marzo 1485 <strong>da</strong> una nobile famiglia che in<br />

passato aveva fatto parte della ministerialità vescovile ma che <strong>da</strong>l XV secolo, come tante altre, si era legata<br />

alla dinastia degli Asburgo; suo padre era stato consigliere di corte del governo austriaco. Dato che in quel<br />

momento la via per il potere non era più il mestiere delle armi, ma la competenza nel funzionamento della<br />

macchina dello Stato, egli seguì l’esempio di tanti nobili suoi contemporanei e studiò a Verona e a Bologna,<br />

ottenendo il titolo di dottore in diritto canonico e civile. Nel 1512 divenne canonico della cattedrale di Trento<br />

e collaborò con il vescovo Giorgio Neideck; alla morte di quest’ultimo, nel 1514, il capitolo della cattedrale<br />

lo elesse vescovo.<br />

Il giovane prelato, <strong>da</strong>ti i suoi stretti legami con la corte imperiale, subordinò fin <strong>da</strong>ll’inizio i propri compiti<br />

pastorali a quelli di carattere politico. Fino al 1517 Bernardo fu governatore di Verona per l’imperatore<br />

Massimiliano I; alla morte di quest’ultimo venne chiamato a far parte della reggenza che preparò il passaggio<br />

del potere a suo nipote Carlo V. Fu presente all’incoronazione di quest’ultimo, a Worms, nel 1519. La sua<br />

abilità diplomatica venne apprezzata soprattutto <strong>da</strong> Ferdinando I, fratello dell’imperatore e governatore delle<br />

province germaniche, che lo volle suo cancelliere. Erano gli anni della crisi luterana e il Cles, pur avversario<br />

dei riformatori, manteneva buoni rapporti con esponenti del campo avverso. Si muoveva su tutto lo<br />

scacchiere europeo, intrecciando contatti con papi, governanti ed intellettuali come Erasmo <strong>da</strong> Rotter<strong>da</strong>m. A<br />

partire <strong>da</strong>l 1526 venne insediato al vertice dell’amministrazione austriaca, divenendo presidente del<br />

Consiglio Segreto di Ferdinando, per il quale curava soprattutto la politica estera. Nel 1530 il papa lo fece<br />

cardinale.<br />

Con gli anni trenta il suo prestigio alla corte di Vienna cominciò però a declinare: nei confronti della riforma<br />

protestante egli, che era stato <strong>da</strong>pprima un paziente negoziatore, tendeva a posizioni via via più intransigenti,<br />

mentre Ferdinando era incline a sposare tesi più tolleranti. Diede più volte le dimissioni e chiese di poter<br />

tornare nella propria diocesi, ma senza e<strong>sito</strong>. Avvicinandosi la morte di papa Clemente VII, il nome del Cles<br />

cominciò a circolare come quello del possibile nuovo pontefice: ma il progetto sfumò e nel 1534 venne<br />

invece eletto Alessandro Farnese (Paolo III). Il Cles, comunque, non si ritirò <strong>da</strong>lla ‘grande politica’ e venne<br />

anzi posto <strong>da</strong>l nuovo papa tra gli otto cardinali incaricati di elaborare la bolla di convocazione del concilio<br />

universale che avrebbe dovuto dirimere le questioni religiose. Egli era peraltro convinto che solo la vittoria<br />

delle truppe cattoliche su quelle protestanti avrebbe permesso tale convocazione.<br />

Gli incarichi politici tenevano spesso il Cles lontano <strong>da</strong> Trento, ed il suo profilo appare nel complesso simile,<br />

più che a quello di un vescovo, a quello di un principe rinascimentale. In quanto tale volle far ampliare la<br />

residenza vescovile costruendo, accanto al Castello del Buonconsiglio, il «Magno Palazzo», decorato <strong>da</strong>gli<br />

affreschi del Romanino; si impegnò per il rinnovamento delle strutture architettoniche della città, rettificando<br />

le strade e ricostruendo in pietra le parti delle case che fino ad allora erano di legno; avviò le fabbriche delle<br />

chiese di Santa Maria Maggiore e di Civezzano; fece ria<strong>da</strong>ttare i castelli di Stenico, Tenno, Selva e la rocca<br />

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di Riva. Fu anche attento difensore di quanto rimaneva della sovranità del suo principato: recuperò Riva<br />

(1521) e i Quattro Vicariati in Vallagarina (1532); Rovereto rimase sotto controllo tirolese, ma venne<br />

riconosciuta la supremazia feu<strong>da</strong>le <strong>trentina</strong>; nel 1531 il Cles permutò i residui diritti vescovili su Bolzano<br />

con la giurisdizione di Pergine. Da Ferdinando ottenne anche la restituzione dell’archivio vescovile, che<br />

Federico IV aveva trafugato all’inizio del Quattrocento: lo fece riordinare e lo usò per definire i diritti<br />

dell’episcopato sul territorio. Nel «Codice Clesiano» raccolse la documentazione relativa alle investiture<br />

feu<strong>da</strong>li. Nel 1528 re<strong>da</strong>sse nuovi statuti, completamente rinnovati rispetto ai precedenti e completi per quanto<br />

riguar<strong>da</strong>va la procedura civile e criminale e la polizia urbana: rimarranno in vigore fino al 1803. Tutta questa<br />

attività gli fece meritare il titolo di «secondo fon<strong>da</strong>tore» del principato vescovile, anche se in molti settori<br />

egli non fece che seguire il solco già tracciato <strong>da</strong>i suoi predecessori. Gli giovò non poco la collaborazione<br />

con le famiglie del patriziato trentino, che – diversamente rispetto al Quattrocento – trovavano proprio nella<br />

collaborazione con il vescovo a livello di governo un mezzo di ascesa e consoli<strong>da</strong>mento sociale.<br />

Il Cles non dimenticò comunque i suoi compiti di pastore d’anime: in continuità con l’opera dei suoi<br />

predecessori egli indisse infatti due sinodi (1515 e 1525) e due visite pastorali. Di quella del 1537-38,<br />

lungamente preparata e condotta non personalmente ma tramite alcuni rappresentanti, ci resta un ricco<br />

verbale. La riforma della Chiesa, nelle intenzioni del Cles, passava attraverso una tradizionale ma attenta<br />

opera di investigazione, che partiva <strong>da</strong>lla verifica del decoro degli edifici e delle suppellettili sacre per<br />

passare al punto centrale, ossia alla condotta del clero, e concludersi poi con una parte riguar<strong>da</strong>nte i laici (si<br />

temeva soprattutto la presenza di eretici: peraltro il Trentino fu interessato <strong>da</strong>lle idee luterane solo<br />

marginalmente, e la stessa rivolta contadina del maggio 1525, repressa nel sangue, non può essere<br />

considerata propriamente di carattere religioso).<br />

Il 10 agosto 1538 venne affi<strong>da</strong>ta al Cles anche l’amministrazione dell’episcopato di Bressanone; rinunciò<br />

allora a tutti gli incarichi politici fino ad allora ricoperti. Il 13 luglio 1539 entrò nella nuova sede, portando<br />

con sé grandi progetti di riforma politica ed ecclesiastica. Morì però il 30 dello stesso mese, per una malattia<br />

diagnosticata come morbus gallicus (sifilide). Aveva solo 54 anni. Venne sepolto nella cattedrale di Trento.<br />

Si era alla vigilia del concilio, che egli aveva in qualche modo preparato consoli<strong>da</strong>ndo la sovranità vescovile<br />

e rendendo la città degna di ospitare un tale avvenimento. L’elezione a suo successore, avvenuta già il 5<br />

agosto 1539, di Cristoforo Madruzzo (altro giovane esponente di una famiglia nobiliare <strong>trentina</strong> ben<br />

introdotta presso le corti di Carlo V e Ferdinando I) garantì quella continuità di governo, nello spirituale<br />

come nel temporale, che avrebbe reso possibile l’assise conciliare e posto Trento, per quasi un ventennio, al<br />

centro della politica europea.<br />

Bernardo Clesio<br />

I natali, gli studi e la fase “laica” della sua carriera, con il governatorato di Verona<br />

Bernardo Clesio nacque il 12 marzo 1485 nel castello di Cles. Il padre, Ildebrando, era signore di Cles e<br />

consigliere dell'arciduca Sigismondo del Tirolo, mentre la madre, la contessa Dorotea Fuchs von<br />

Fuchsberg, aveva le proprie origini in un eminente casato tirolese. Egli era inoltre legato <strong>da</strong> parentela con<br />

altre famiglie molto note appartenenti alla più antica nobiltà <strong>trentina</strong>, come i Thun e gli Arsio. Il giovane<br />

Bernardo si dispose allo studio delle conoscenze elementari, prima sotto la gui<strong>da</strong> di un educatore personale<br />

e quindi a Trento; all'età di dodici anni venne inviato a Verona per proseguire la sua istruzione, soprattutto<br />

in retorica. A Bologna, <strong>da</strong>l 1504, frequentò la facoltà di giurisprudenza, approfondendo in modo particolare<br />

lo studio delle leggi civili e canoniche, per laurearsi nel 1511. Dopo pochi mesi, Bernardo fu nominato<br />

canonico arcidiacono della diocesi di Trento, e pressoché contemporaneamente membro della commissione<br />

apostolica per lo scioglimento dei conventuali di Bolzano. Il vescovo Giorgio Neideck, che svolgeva anche<br />

le funzioni di governatore di Massimiliano I per la città di Verona, lo scelse come suo consigliere e gli<br />

chiese di trattenersi qualche tempo nella città scaligera. L'intervento del cardinale Giovanni de Medici, a<br />

quei tempi delegato del papa a Bologna, gli procurò in breve anche la carica di protonotario apostolico, che<br />

ricevette <strong>da</strong>l pontefice Leone X. Le conoscenze politiche della sua famiglia e la fama di cui già godeva<br />

come uomo di governo e di legge gli valsero inoltre il favore dell'imperatore Massimiliano, che lo nominò<br />

governatore del Tirolo; quest'ulteriore incarico lo costrinse a soggiornare spesso a Verona tra il 1514 e il<br />

1517, mentre era in corso la guerra tra l'esercito imperiale e quello della repubblica di Venezia.<br />

Il rapido iter che condusse Bernardo Clesio al vescovado di Trento<br />

73


La scomparsa di Giorgio Neideck rappresentò l'episodio che aprì al Clesio la stra<strong>da</strong> per la successione al<br />

principato vescovile di Trento: nel 1514 il Capitolo lo elesse alla massima dignità diocesana, nonostante la<br />

tenace opposizione del decano di Trento Jacopo Banisio, il quale lamentava il fatto che la nomina fosse<br />

avvenuta in sua assenza. La Santa Sede, che al momento dell'elezione dei vescovi precedenti non di rado si<br />

era opposta alla titolarità del diritto di nomina <strong>da</strong> parte del Capitolo, questa volta si mostrò più<br />

accondiscendente del consueto. Come è noto, le diatribe che si erano venute creando intorno a questo<br />

spinoso argomento si fon<strong>da</strong>vano sulla convinzione, sostenuta <strong>da</strong>l Capitolo tridentino, <strong>da</strong>ll'imperatore e <strong>da</strong>l<br />

conte del Tirolo, secondo la quale Trento appartenesse alla sovranità dei territori tedeschi e come tale<br />

an<strong>da</strong>sse soggetta alle leggi che un precedente concor<strong>da</strong>to stipulato a Vienna rendeva operanti per la nomina<br />

dei vescovi di quest'area geografica. La Sede Apostolica, invece, era del parere contrario, e riteneva che<br />

anche per Trento valessero le stesse regole procedurali in uso nelle altre diocesi italiche, tramite le quali la<br />

nomina del vescovo dipendeva direttamente <strong>da</strong> Roma. Fu presumibilmente con lo scopo di non trascinare<br />

ulteriormente un annoso contraddittorio e per evitare di attirarsi le contrarietà dell'autorità imperiale che la<br />

Santa Sede, nel 1514, nell'atto di confermare la nomina di Bernardo Clesio al vescovado, riconobbe il<br />

diritto del Capitolo ad eleggere il presule di Trento, anche se non si esprimeva in maniera perentoria in<br />

merito all'applicazione dei concor<strong>da</strong>ti germanici per il territorio trentino. Questa situazione di singolare<br />

ambiguità si rivelò tuttavia determinante in vista dell'imminente “nuovo corso” del principato di Trento: fu<br />

proprio grazie a questa presenza di circostanze che Trento acquistò quelle caratteristiche di “neutralità” che<br />

le valsero la scelta delle maggiori potenze europee quale sede per il Concilio. Nonostante la recente ascesa<br />

alla più alta carica diocesana, Bernardo Clesio rimaneva un laico, non avendo ancora preso i voti. Provvide<br />

a questo l'anno seguente e venne consacrato vescovo di Trento, con conferma <strong>da</strong> parte di Leone X e<br />

consegna del potere temporale <strong>da</strong> parte di Massimiliano. Il nuovo presule non aveva che 29 anni, ma<br />

possedeva la tempra e le capacità che avrebbero fatto decollare il principato di Trento all'interno di una<br />

delle fasi più determinanti per il corso della Chiesa universale. Può rendere l'idea del carattere deciso e fiero<br />

di Bernardo Clesio un episodio verificatosi tra lui e il governatore imperiale di Verona, ai tempi in cui lo<br />

stesso Clesio era solito intrattenere relazioni più abituali con tale città. Quest'ultimo aveva urgenza di<br />

rafforzare il proprio esercito e il Clesio gli venne in aiuto fornendogli un contingente di 1000 uomini. Il<br />

governatore tuttavia li respinse, temendo che le milizie vescovili non fossero sufficientemente preparate sul<br />

piano militare, e preferì attendere l'arrivo di truppe imperiali tedesche. Bernardo fu così sdegnato per<br />

l'accaduto <strong>da</strong> ritirare <strong>da</strong> Verona l'intera guarnigione con tutti i suoi effettivi, sebbene il “Landlibell” dell' ‘11<br />

lo obbligasse a garantirne la presenza e, a prescindere comunque <strong>da</strong> tale vincolo giuridico, malgrado<br />

l'amicizia che lo legava a Massimiliano.<br />

L'ascesa di Bernardo Clesio sulla scena europea con le diete di Francoforte e di Worms<br />

Questi primi anni di episcopato rappresentarono forse l'unico periodo in cui il Clesio poté stare con una<br />

relativa continuità vicino alla propria città e ai propri sudditi, occupandosi dell'amministrazione del<br />

principato. Lo troviamo comunque presente alla dieta provinciale di Innsbruck, quindi a Verona in qualità<br />

di governatore imperiale, nonché alla dieta di Augusta nel 1518. Quando questa si concluse, Massimiliano<br />

lo volle alla propria corte come consigliere imperiale. La partecipazione alle numerose diete imperiali, nelle<br />

quali Bernardo Clesio rivestì ben presto un ruolo di primissimo piano, resta un elemento costante del suo<br />

percorso politico, a testimonianza del favore e del prestigio di cui godeva presso i massimi dignitari<br />

europei. Nel 1519, alla dieta di Francoforte, grazie ai cospicui prestiti forniti <strong>da</strong>i più facoltosi finanzieri<br />

tedeschi dell'epoca, i Függer e i Welser, Carlo V d'Asburgo poté comprare i voti dei principi elettori<br />

tedeschi ed ottenere agevolmente la dignità imperiale. Da quel momento, Carlo si impegnò per tutta la vita<br />

nel tentativo di garantire al mondo intero la stabilità e la pace, proponendosi di reinterpretare la figura di<br />

Carlo Magno sette secoli dopo e di <strong>da</strong>re vita ad un nuovo Sacro Romano Impero. Comprendiamo dunque<br />

quale portata storica abbia potuto rappresentare la nomina di Bernardo Clesio a ministro plenipotenziario<br />

del neoeletto imperatore, che avvenne immediatamente dopo l'e<strong>sito</strong> delle consultazioni di Francoforte.<br />

L'abilità di governare di Bernardo Clesio doveva essere <strong>da</strong>vvero notevole, visto che non solo con<br />

Massimiliano, ma anche con i successivi regnanti finì con l'esercitare un ascendente sempre più forte sulla<br />

casa d'Austria. La sua vita, infatti, presentò un cambiamento ancor più significativo dopo circa otto anni di<br />

episcopato, intorno al 1521, vale a dire <strong>da</strong>l momento in cui Carlo V e il fratello Ferdinando stabilirono, nel<br />

determinare le competenze nel governo dei possedimenti asburgici, una spartizione destinata ad avere<br />

74


carattere di continuità. Proprio nel 1521, durante la dieta di Worms, l'imperatore istituì un Consiglio di<br />

reggenza e vi nominò come presidente il fratello, al quale affidò ufficialmente i domini sulle regioni<br />

tedesche. A quest'ultimo fu assegnata infatti una vasta fascia territoriale, che includeva l'Alta e la Bassa<br />

Austria, la Stiria, la Carinzia e la Carniola. A partire <strong>da</strong> questo periodo, pertanto, inizierà a prendere forma<br />

il ramo austriaco della dinastia. L'avvenimento diventò determinante per la vita di Bernardo, che peraltro<br />

contribuì <strong>da</strong> autentico protagonista a stabilire i termini dell'accordo e che <strong>da</strong> allora si trasformerà nel<br />

consigliere di maggior fiducia di Ferdinando I. Proprio a Worms i reggenti, i dignitari e i più alti prelati si<br />

erano <strong>da</strong>ti inizialmente appuntamento per discutere di problemi di diversa natura, molti dei quali passarono<br />

ben presto in secondo piano di fronte a quello rappresentato <strong>da</strong>lla riforma protestante. Fu in occasione di<br />

quest'adunanza che Lutero espose le proprie convinzioni al cospetto dell'imperatore, mostrandosi deciso a<br />

non ri<strong>tratta</strong>re alcunché in merito alle sue tesi in materia religiosa, la cui divulgazione stava seriamente<br />

indebolendo l'unità tra i cristiani e avrebbe presto spaccato l'Europa in due. Il vescovo di Trento, che era<br />

naturalmente presente alla dieta occupando un posto di assoluto rilievo, si rivelò <strong>da</strong> quel momento tra i<br />

personaggi più attivi nel tentare, tramite il proprio contributo alla diplomazia internazionale, di rendere<br />

meno pesanti possibili le conseguenze dello scisma ormai in atto e di predisporre un programma globale di<br />

rinnovamento all'interno della Chiesa cattolica.<br />

La posizione privilegiata del Clesio al cospetto del sovrano d'Austria e le ragioni della metamorfosi della<br />

politica austriaca nei confronti del principato di Trento<br />

Con il consoli<strong>da</strong>rsi dell'influenza di Bernardo su re Ferdinando, crebbe sempre di più la sua autorità<br />

nell'influenzare la politica di tutta Europa, con particolare riferimento a quella sezione del continente che<br />

gravitava nell'orbita germanica. Da questo momento i suoi compiti principali diventarono due: seguire<br />

Ferdinando nei suoi viaggi, standogli continuamente al fianco e proponendosi per lui come un costante<br />

punto di riferimento; ovvero rappresentarlo nel corso delle numerose missioni e ambascerie presso le case<br />

regnanti, in tutte quelle circostanze in cui il sovrano non poteva essere presente in prima persona. E' quanto<br />

mai opportuno rammentare che <strong>da</strong>l 1493, allorché l'arciduca Massimiliano del Tirolo ottenne la dignità<br />

imperiale, le due cariche di imperatore e di conte del Tirolo finirono col risultare accorpate nella medesima<br />

persona. Tale eventualità ebbe come effetto di allontanare il governo di Innsbruck <strong>da</strong>lle tradizionali<br />

intenzioni espansionistiche verso i due principati di Trento e di Bressanone, e di indirizzare invece la sua<br />

azione politica verso questioni di maggiore importanza: del resto, la figura del conte tirolese aveva<br />

inevitabilmente assunto, con gli avvenimenti e le trasformazioni del primo ‘500, una dimensione di<br />

carattere europeo. I due principati, in virtù di questo spostamenti del baricentro degli interessi politici, non<br />

solo vennero messi in condizione di esprimere la loro azione amministrativa con una più estesa autonomia e<br />

pertanto anche con maggiore serenità, ma subirono una notevole valorizzazione in chiave internazionale. Si<br />

fece infatti più forte l'esigenza dell'imperatore di utilizzare al meglio le grandi risorse messe a disposizione<br />

<strong>da</strong> entrambe le circoscrizioni vescovili, che ormai rappresentavano delle zone di vitale importanza per i<br />

transiti <strong>da</strong>i territori mitteleuropei a quelli italici e diventavano nel progetto imperiale importantissimi centri<br />

di contatto commerciale, politico e culturale con le signorie italiane della parte settentrionale della penisola.<br />

Si spiega dunque come mai l'unificazione, agli albori dell'epoca moderna, di queste due cariche<br />

tradizionalmente distinte, si sia rivelata un evento di importanza strategica sulla stra<strong>da</strong> dello sviluppo del<br />

vescovado di Trento all'inizio di questo XVI secolo.<br />

I primi viaggi di Bernardo Clesio in missione diplomatica e militare<br />

In questi primi anni di episcopato, anche Carlo V volle con sé il vescovo di Trento e gli affidò importanti<br />

incarichi di rappresentanza, fino a nominarlo “magnus cancellarius”. Bernardo, come legato di Ferdinando,<br />

fu presente alla solenne incoronazione imperiale di Carlo ad Aquisgrana nel 1520, alla quale si presentò<br />

circon<strong>da</strong>to <strong>da</strong>gli esponenti delle più nobili famiglie tirolesi. L'anno successivo, accompagnò il nuovo<br />

imperatore nei suoi possedimenti nelle Fiandre, dove le aspirazioni all'indipendenza, che si stavano legando<br />

al pensiero protestante, stavano acquistando un carattere decisamente destabilizzante per la corona: alla<br />

gui<strong>da</strong> di due distinti contingenti militari, i due repressero una minacciosa rivolta propagatasi nella città di<br />

Gand. Poco dopo, il vescovo fece <strong>da</strong> gui<strong>da</strong> a Maria, sorella dell'imperatore, accompagnandola alla corte di<br />

Ludovico d'Ungheria, al quale era destinata in sposa; ed intraprese il viaggio di ritorno verso Vienna con la<br />

sorella del re ungherese, promessa sposa di Ferdinando. Presenziò quindi alle diete di Norimberga e di<br />

Ratisbona, dove si discusse in merito alla linea politica <strong>da</strong> adottare nei confronti dell'eresia protestante e del<br />

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pericolo rappresentato <strong>da</strong>ll'espansione dei turchi in direzione dell'Europa. Tra una missione e l'altra riuscì a<br />

rincasare a Trento, dove finalmente ebbe, seppur per un breve lasso di tempo, la possibilità di svolgere le<br />

sue occupazioni di principe – vescovo.<br />

Il contesto storico e sociale che portò al dilagare della “guerra rustica”<br />

L'anno 1525 rappresentò un anno cruciale per Bernardo Clesio, in concomitanza con una serie di contrastati<br />

avvenimenti, che si risolsero in maniera <strong>da</strong> accrescere ancor più la sua autorità e la sua già considerevole<br />

reputazione. La grave crisi in cui versavano le campagne dei territori germanici e austriaci aveva provocato<br />

il propagarsi di un forte sentimento di ribellione, che cresceva di pari passo con lo sviluppo dei fermenti<br />

riformistici. I contadini si lamentavano <strong>da</strong> tempo per le conseguenze della politica accentratrice messa in<br />

atto <strong>da</strong> Massimiliano I, che aveva attinto <strong>da</strong>l diritto romano per elaborare un ordinamento destinato a<br />

sostituire via via il tradizionale diritto consuetudinario tedesco, nel tentativo di limitare quanto più possibile<br />

le autonomie locali. Le innovazioni legislative avevano introdotto inoltre l'abolizione di molti diritti di cui i<br />

contadini avevano goduto <strong>da</strong> tempo immemorabile, vietando ad esempio la caccia e la pesca nei fondi, il<br />

legnatico, il diritto di far uso delle acque e dei pascoli, di tenere grossi cani, in particolare quelli <strong>da</strong> caccia.<br />

Il disagio del mondo agricolo era cresciuto con particolare intensità in seguito ai frequenti arruolamenti<br />

coatti effettuati tra i contadini, ai saccheggi delle truppe di passaggio e alle epidemie di peste, alle carestie<br />

seguite alla congiuntura economica, così forte <strong>da</strong> segnare un calo anche in un'attività che negli ultimi tempi<br />

era stata tra le più fiorenti nel nostro territorio, come quella l'attività mineraria. Tra gli anni 1512 e 1521, tre<br />

inon<strong>da</strong>zioni e una serie di violente scosse di terremoto ridussero ancor più in miseria una popolazione sulla<br />

quale si erano ulteriormente accanite le numerose imposte straordinarie, nonché le prevaricazioni dei nuovi<br />

funzionari addetti alla loro riscossione, che poco alla volta avevano preso il posto della più benvoluta<br />

burocrazia locale. Massimiliano d'Austria, infatti, aveva chiesto parecchi prestiti agli istituti di credito,<br />

cedendo in cambio l'amministrazione di diversi castelli e tenute. Pertanto i nuovi addetti al servizio<br />

tributario, quando non venivano espressamente riconosciuti come vassalli del vescovo, erano per lo più dei<br />

commissari alle dipendenze di questi sopravvenuti operatori finanziari; essendo quasi sempre stranieri e<br />

quindi privi di alcun legame con la popolazione del luogo, si rivelavano particolarmente rapaci nei<br />

confronti dei meno abbienti. Lutero, anche se cercò di richiamare all'ordine i ribelli e si rifiutò di legittimare<br />

le orrende carneficine che coinvolsero in massa i contadini tedeschi a lottare per un rinnovamento radicale<br />

del sistema, si trovava tra l'incudine e il martello: per quanti sforzi facesse, era divenuto, agli occhi dei<br />

rivoltosi, l'originario ispiratore di quei moti insurrezionali, mentre per i sostenitori dell'ordine costituito ne<br />

risultava il principale responsabile. La grande rivolta contadina in Germania, gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l radicale Thomas<br />

Müntzer, divampò nel 1524, e si protrasse fino all'anno successivo, culminando nell'ecatombe di<br />

Frankenhausen, nella quale vennero massacrati circa 100.000 contadini e il loro leader fu torturato ed<br />

ucciso.<br />

Il coinvolgimento dei principati di Trento e di Bressanone nelle rivolte contadine. La controffensiva del<br />

vescovo<br />

Le insurrezioni si estesero rapi<strong>da</strong>mente anche a sud, fino a coinvolgere con particolare veemenza il<br />

principato di Bressanone e ad interessare direttamente anche quello di Trento. Nella zona di Bolzano e<br />

Merano e in tutta la Val Pusteria e la Val Venosta le sommosse avevano come leader il riformatore Michele<br />

Gaismayr, promotore di un progetto integrale di riforma democratica che avrebbe dovuto realizzarsi<br />

attraverso l'istituzione di nuove comunità locali, le cosiddette “Gemeinden”; ma dopo qualche<br />

incoraggiante successo iniziale i tentativi di insurrezione vennero spietatamente repressi, tramite<br />

l'istituzione di processi sommari che portarono alla con<strong>da</strong>nna capitale e alla tortura di molti presunti<br />

responsabili. Allorché i venti rivoluzionari giunsero a spirare anche più a sud, essi si diffusero presto in<br />

Valsugana e nelle Valli di Sole e di Non. In breve, schiere di contadini armati attaccarono castelli e<br />

monasteri, seminando il panico lungo la loro stra<strong>da</strong>. Il rischio che i tumulti si propagassero nelle altre zone<br />

del principato era notevole, soprattutto <strong>da</strong> quando i rivoltosi arrivarono a minacciarne <strong>da</strong> vicino il<br />

capoluogo. Così Bernardo Clesio ritenne opportuno rifugiarsi a Riva per tutto il tempo in cui<br />

imperversarono le ostilità. Il borgo gardesano presentava il vantaggio di essere confinante con la<br />

Repubblica di Venezia, e quindi si prestava ad offrire al vescovo una fuga agevole, nel caso in cui la<br />

situazione volgesse al peggio. Da Riva il Clesio sollecitò Ferdinando affinché inviasse prontamente un<br />

sostegno militare adeguato a difesa del territorio. Svariati drappelli di sol<strong>da</strong>ti arrivarono in aiuto al vescovo<br />

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e si aggiunsero alle truppe già pervenute <strong>da</strong>l contingente di Giorgio Frundsberg, capitano di ventura<br />

tristemente famoso per l'episodio del “sacco di Roma” ; a quelle di Ludovico conte di Lodron; di Giovanni<br />

Gaudenzio Madruzzo e di Gerardo, conte d'Arco; e ad altre ancora man<strong>da</strong>te <strong>da</strong>l duca di Milano Francesco<br />

Sforza e <strong>da</strong>lla Repubblica di Venezia. Come si può notare, Bernardo Clesio godeva di amicizie influenti<br />

non soltanto oltre l'arco alpino, ma anche tra gli stati italiani. Egli, inoltre, riuscì a raccogliere intorno alla<br />

sua causa la soli<strong>da</strong>rietà della borghesia cittadina, atterrita <strong>da</strong>l pericolo di una vera e propria rivoluzione<br />

contadina che ne avrebbe messo a repentaglio soprattutto gli interessi economici. Di fronte a cotanto<br />

schieramento, i rinforzi austriaci finirono col rivelarsi praticamente in sovrappiù e assolsero la propria<br />

funzione limitandosi a <strong>da</strong>r man forte più che altro nel territorio sud-tirolese, dove la rivolta aveva assunto<br />

proporzioni ancor più inquietanti e i contadini erano arrivati ad impadronirsi della prestigiosa abbazia di<br />

Novacella, minacciando di occupare tutte le roccaforti del principato con l'intendimento di consegnare nelle<br />

mani del principe un paese libero. Un'ambizione che indubbiamente colpisce in modo significativo per le<br />

caratteristiche di modernità che la ispiravano: il 30 maggio del 1525, gli agricoltori trentini e tirolesi<br />

avevano sottoscritto di comune accordo l'editto di Merano, un documento che è stato considerato<br />

un'anticipazione di circa tre secoli sulla “Dichiarazione dei diritti dell'uomo”, prodotta ai tempi della<br />

Rivoluzione francese.<br />

La repressione e il ritorno alla normalità<br />

Nel principato di Trento il soffocamento della ribellione fu effettuato in maniera meno crudele, se non altro<br />

perché il Clesio era convinto che i contadini trentini non fossero direttamente responsabili delle agitazioni:<br />

riteneva che essi fossero stati incoraggiati a prendere le armi sotto la forte pressione dei braccianti tedeschi,<br />

dei quali molti erano infatti fortemente succubi. In tal modo, il vescovo si limitò a giustiziare i capi delle<br />

sedizioni, pretendendo comunque il risarcimento dei <strong>da</strong>nni provocati alla città e ai villaggi; la qual cosa<br />

appariva, per quei tempi, già una ragguardevole dimostrazione di magnanimità. Agli abitanti delle<br />

Giudicarie, della Val Rendena e dei centri di Riva e di Vezzano, che non presero alcuna parte alla<br />

ribellione, furono concesse prerogative e speciali esenzioni fiscali in premio. Il 4 settembre 1525, i<br />

rappresentanti dei contadini, al termine di una resa incondizionata, espressero ufficialmente la propria<br />

richiesta di perdono al vescovo di Trento e ai due commissari arciducali, i conti Ludovico di Lodron e<br />

Gerardo d'Arco, e ritornarono alla loro condizione servile. Da quel momento, non osarono più manifestare<br />

le proprie aspirazioni alla libertà con dei tentativi di sollevazione. Gli avvenimenti relativi alla “guerra<br />

rustica” costituirono una tappa di fon<strong>da</strong>mentale importanza per l'evoluzione socio - economica del<br />

principato di Trento: <strong>da</strong> quel momento si concluse il cosiddetto “medio evo locale” e si aprì un epoca<br />

caratterizzata <strong>da</strong> un progressivo miglioramento delle condizioni economiche del Trentino. Il fallimento<br />

delle istanze di libertà sociale nel mondo agricolo ebbe come naturale conseguenza il ripristino di un ordine<br />

sociale che progressivamente rese possibile una ripresa economica. Anche se comunque non si può parlare<br />

di un vero e proprio miglioramento del tenore di vita tra i contadini, va ricor<strong>da</strong>to che <strong>da</strong> quel momento<br />

prese avvio un lento processo di stabilizzazione sociale, tale <strong>da</strong> scongiurare il ripetersi dei fenomeni di crisi<br />

che avevano contrassegnato in modo così marcato i primi anni del secolo.<br />

Michele Gaismayr<br />

Nato a Ceves, nei pressi di Vipiteno, nel 1490, <strong>da</strong> famiglia di estrazione contadina, ebbe qualche esperienza<br />

di organizzazione militare durante il primo impiego nella luogotenenza dell’Adige; in seguito divenne<br />

Zollmeister, capo dei doganieri del principato vescovile di Bressanone. Guidò la rivolta scoppiata nelle valli<br />

tirolesi e trentine nel 1525, riuscendo ad indirizzare il movimento insurrezionale verso precise<br />

rivendicazioni rivoluzionarie, soprattutto dopo aver perso fiducia nell’appoggio del giovane arciduca<br />

Ferdinando d’Asburgo. Esule nei Grigioni <strong>da</strong>ll’ottobre 1525, progettò con Zwingli un piano militare di<br />

liberazione del territorio trentino-tirolese, con un programma di profondo rinnovamento della società su<br />

base egualitaria. Fallito il tentativo militare nel Salisburghese in appoggio ai ribelli locali, Gaismayr dovette<br />

alla fine riparare nel territorio ve<strong>net</strong>o, dove ottenne asilo con molti dei suoi uomini e prestò servizio con<br />

onore al comando dei suoi in vari fatti d’arme, sempre nella speranza di riprendere la lotta per liberare la<br />

sua patria.<br />

Morì assassinato a Padova, <strong>da</strong> sicari assol<strong>da</strong>ti <strong>da</strong> Ferdinando il 15 aprile 1532.<br />

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Quadro sincrono (elenchi non completi)<br />

Vescovi di Trento Conti del Tirolo<br />

Duchi d'Austria<br />

Re di Germania<br />

Imperatori<br />

U<strong>da</strong>lrico I 1007-1022 Enrico II 1002-1024<br />

U<strong>da</strong>lrico II 1022-1055 Corrado II 1024-1039<br />

Gebardo 1106-1120 Enrico IV 1056-1106<br />

Altemanno 1124-1149 Enrico V 1106-1125<br />

Adelpreto II (beato)<br />

1156-1172<br />

Corrado II di Beseno<br />

1189-1205<br />

Federico I di Svevia<br />

(Barbarossa) 1152-1190<br />

Ottone IV di Brunswick re<br />

1198, imp. 1209-1218<br />

Federico Vanga 1207-1218 Alberto III 1205-1253 Federico II di Svevia re<br />

1212, imp. 1220-1250<br />

Gerardo I <strong>da</strong> Cremona<br />

1224-1232<br />

Aldrighetto di Campo<br />

1232-1247<br />

Egnone di Appiano Mainardo I 1256-1258 Corrado IV di Svevia<br />

1250-1273 Mainardo II 1258-1295 1250-1254<br />

Enrico II 1274-1289 grande interregno 1254-1273<br />

Rodolfo I d’Asburgo 1273-1291<br />

Filippo Bonacolsi 1289-1303 Ottone, Ludovico ed Alberto I d’Asburgo<br />

Bartolomeo Querini 1304-1307 Enrico 1295-1310 1298-1308<br />

Enrico III <strong>da</strong> Metz 1310-1336 Enrico (solo) 1310-1335 Enrico VII di Lussemburgo<br />

1308-1313<br />

Nicolò <strong>da</strong> Brno<br />

1336-1347<br />

Giovanni <strong>da</strong> Pistoia<br />

1348-1349<br />

Mainardo di Neuhaus<br />

1349-1360<br />

Alberto di Ortenburg<br />

1360-1390<br />

Giorgio Liechtenstein<br />

1390-1419<br />

Alessandro di Masovia<br />

1423-1444<br />

Margherita con Giov.<br />

Enrico di Lussemburgo<br />

1335-1341<br />

Margherita con Ludovico<br />

di Brandeburgo 1341-1361<br />

Mainardo III 1361-1363<br />

Rodolfo IV d’Asburgo<br />

1363-1365<br />

Alberto III e Leopoldo III<br />

1365-1379<br />

Leopoldo III (<strong>da</strong> solo)<br />

1379-1386<br />

Alberto III (come tutore)<br />

1386-1395<br />

Federico IV (Tascavuota)<br />

1406-1439<br />

Ludovico IV il Bavaro<br />

1314-1346<br />

Carlo IV di Lussemburgo<br />

1347-1378<br />

Sigismondo di Lussemburgo<br />

1410-1437<br />

Giorgio Hack 1446-1465 Sigismondo 1439-1490 Federico III d’Asburgo<br />

1440-1493<br />

Giovanni Hinderbach<br />

1465-1486<br />

U<strong>da</strong>lrico Frundsberg<br />

1486-1493<br />

U<strong>da</strong>lrico Liechtenstein<br />

1493-1505<br />

Giorgio Neideck 1505-1514<br />

1490: Tirolo ed Austria<br />

passano a Massimiliano I<br />

Bernardo Cles 1514-1539 Carlo V d’Asburgo 1519-1556<br />

78<br />

Massimiliano I d’Asburgo re<br />

1486, imp. 1493-1519


L'età dei Madruzzo di Mauro Nequrito<br />

Una dinastia al governo del principato<br />

Fu il padre di Cristoforo, Giovanni Gaudenzio, nobile tridentino in ascesa, al servizio di Bernardo Cles e ben<br />

introdotto alla corte degli Asburgo, ad aprire la stra<strong>da</strong> all’affermazione del casato dei Madruzzo, i quali<br />

avrebbero retto il principato di Trento per oltre un secolo, passandosi la dignità vescovile <strong>da</strong> zio a nipote per<br />

ben tre volte.<br />

Nato nel 1512, dopo aver accumulato una quantità di cariche e di prebende ecclesiastiche – tra cui i<br />

canonicati ad Augusta e a Salisburgo oltre ai titoli di canonico e poi di decano nel capitolo tridentino –<br />

Cristoforo Madruzzo venne eletto senza alcuna opposizione interna principe vescovo di Trento alla morte di<br />

Bernardo Cles, nel 1539. Era soltanto suddiacono: compì i gradi successivi di diacono, presbitero ed<br />

episcopo solo nel 1542, quando conseguì il titolo di coadiutore con diritto di successione nel principato<br />

vescovile di Bressanone, immediatamente prima della morte dello zio Christoph Fuchs von Fuchsberg. Nel<br />

1545, in concomitanza con l’inaugurazione a Trento del Concilio, egli ottenne la porpora cardinalizia,<br />

peraltro ufficiosamente già conferitagli in precedenza.<br />

L’epoca di Cristoforo segnò l’apice della potenza economica dei Madruzzo, i quali nell’ambito del principato<br />

tridentino godettero di vaste giurisdizioni feu<strong>da</strong>li che si estendevano su gran parte dei domini temporali<br />

vescovili. Il patrimonio fu accresciuto enormemente <strong>da</strong> Cristoforo, che nella sua carriera fu amministratore<br />

di terre imperiali e papali e nel 1560 ottenne il marchesato di Soriano e Gallese, nello Stato pontificio.<br />

Per quanto riguar<strong>da</strong> l’impegno politico, Cristoforo si pose incondizionatamente al servizio del progetto di<br />

Carlo V di creare un impero universale cristiano, risuscitando gli ideali dell’antico Sacro Romano Impero.<br />

Momento centrale dell’opera di Cristoforo in favore del disegno imperiale fu il suo impegno per la<br />

realizzazione a Trento di un grande concilio, che avrebbe dovuto raccogliere l’intero corpo cristiano,<br />

compresi i dissidenti, per cercare di sanare le fratture prodotte <strong>da</strong>lla Riforma protestante e indicare princìpi<br />

dogmatici certi su cui rifon<strong>da</strong>re la dottrina dopo le violente critiche giunte <strong>da</strong> Lutero e <strong>da</strong>ll’area tedesca. Con<br />

l’infrangersi del ‘sogno’ di impero universale di Carlo V contro gli ostacoli frapposti <strong>da</strong>i principi tedeschi<br />

riformati e a causa dell’ostilità della Francia, venne gradualmente meno il ruolo di Trento quale luogo<br />

d’incontro tra Germania e papato e parallelamente si affievolì anche l’attività di Cristoforo Madruzzo presso<br />

la curia romana come rappresentante del progetto di quell’Asburgo sulla cui enorme estensione di terre ‘non<br />

tramontava mai il sole’.<br />

Non eccezionalmente fornito di doti politiche e piuttosto debole sul piano dottrinario – fu vicino alle<br />

posizioni di prelati e uomini compromessi con la fede protestante e criticato per questo –, di Cristoforo<br />

brillarono invece i ruoli di rappresentanza, in un’età in cui peraltro essa aveva comunque un ruolo anche<br />

politico. Seppe tessere infatti una rete di relazioni, in particolare attraverso attente scelte matrimoniali,<br />

innanzi tutto per la propria famiglia, che imparentò con illustri casati tirolesi e stranieri, quindi per gli stessi<br />

Asburgo. Troppo legato alla politica imperiale, Cristoforo ambì senza successo al soglio pontificio nel 1565.<br />

In precedenza era stato per un breve periodo governatore di Milano (1555 – 1557) ma, non in sintonia con<br />

Filippo II e ormai fuori gioco a causa dello spostarsi dell’asse politico cattolico verso la Spagna, aveva finito<br />

per stabilirsi a Roma, rivestendo incarichi di media levatura sempre al servizio degli interessi asburgici. Morì<br />

a Tivoli nel 1578. A Trento aveva ceduto il potere al nipote Ludovico ancora nel 1567, dopo un’adeguata<br />

pressione sui membri del locale capitolo cui spettava la nomina del successore.<br />

La carriera di Ludovico Madruzzo si snodò all’inizio entro i solchi tracciati <strong>da</strong>ll’illustre zio. Nato nel 1532,<br />

godette di cospicui benefici e rendite ecclesiastiche, ottenendo tra l’altro un canonicato a Trento e uno a<br />

Bressanone. Studiò a Lovanio e a Parigi e di lui fu apprezzata la maggior preparazione teologica rispetto a<br />

Cristoforo, che seguì ancor giovane tra Roma e le diete imperiali. Controvoglia i canonici tridentini gli<br />

conferirono la carica di coadiutore con diritto di futura successione, che esercitò <strong>da</strong>l 1550 fino alla nomina a<br />

vescovo nel 1567. Per buona parte di questo lungo periodo fu Ludovico a reggere di fatto il principato<br />

vescovile di Trento, a causa dei pressanti impegni dello zio, e fu sempre lui a esercitare le funzioni di ospite<br />

del Concilio durante la sua terza sessione, <strong>da</strong>l 1561 al 1563, dopo avere ottenuto in tale occasione il titolo di<br />

cardinale.<br />

Il governo temporale tridentino di Ludovico fu travagliato <strong>da</strong>l decennale sequestro del principato operato<br />

<strong>da</strong>ll’imperatore Massimiliano II, a causa delle controversie giurisdizionali in atto con l’arciduca Ferdinando,<br />

conte del Tirolo. Alla forzata assenza <strong>da</strong> Trento corrispose per Ludovico il dispiegarsi di una carriera tanto<br />

prestigiosa quanto impegnativa nell’ambito della curia romana. Qui egli esercitò le funzioni di cardinale di<br />

curia, presenziando in numerose congregazioni. Suo compito preminente, tra le diverse materie di cui si<br />

79


occupò, fu quello di favorire l’applicazione degli indirizzi conciliari nell’ambito romano-germanico,<br />

cercando di recuperare quelle terre all’ortodossia cattolica. In questo senso si può dire che la momentanea<br />

privazione del potere temporale a Trento rappresentò per Ludovico soprattutto la rinuncia ai cespiti <strong>da</strong> esso<br />

derivanti, <strong>da</strong>l momento che comunque i grandi compiti svolti a Roma lo avrebbero verosimilmente tenuto<br />

lontano <strong>da</strong>lla cattedra di San Vigilio. Ciò nonostante, non appena egli venne reintegrato nel possesso del<br />

principato tridentino, indisse una visita pastorale nella diocesi, che lo impegnò <strong>da</strong>l 1579 al 1581. In seguito si<br />

recò ancora a Vienna, a Praga, alle diete imperiali, godendo di numerosi titoli e cariche, i cui introiti<br />

dovevano inoltre supplire ai minori agi economici rispetto a quelli goduti <strong>da</strong>llo zio. I forti legami con<br />

l’impero impedirono che la sua candi<strong>da</strong>tura al papato negli anni 1590 – 1592 avesse esiti positivi. Morì a<br />

Roma nel 1600: cinque anni prima aveva superato gli ostacoli frapposti <strong>da</strong>l capitolo tridentino alla nomina<br />

del nipote quale coadiutore, che poteva dunque succedergli nel governo del principato.<br />

Carlo Gaudenzio Madruzzo, a differenza dei due antecessori, non ebbe origini regionali. Nacque infatti nel<br />

1562 nel castello di Issogne il Val d’Aosta <strong>da</strong> Giovanni Federico e Isabella di Challant, il cui matrimonio era<br />

stato opera di Cristoforo. Dopo gli studi a Ivrea, Trento, Ingolstadt e Pavia, si munì di titoli e prebende,<br />

ottenuti nell’area di provenienza (nella Savoia e in Piemonte) e successivamente a Trento e Augusta, dove<br />

sedette nei rispettivi capitoli. La sua carriera ecclesiastica, apertasi sotto gli auspici di Ludovico, iniziò<br />

seguendo quest’ultimo a Roma e accompagnandolo alle diete imperiali. A Trento si trovò la stra<strong>da</strong> spianata<br />

grazie alle pressioni papali e imperiali esercitate sul capitolo della cattedrale affinché lo postulasse quale<br />

coadiutore con diritto di successione. Una carica quest’ultima, che rivestì <strong>da</strong>l 1595, mentre alla morte dello<br />

zio gli subentrò ricevendo la dignità vescovile. Le energie dei suoi primi anni di governo furono <strong>da</strong> lui spese<br />

entro la sede tridentina, mentre le opportunità di affrontare la carriera diplomatica gli si offrirono con<br />

maggior lentezza rispetto alle celeri fortune che avevano caratterizzato le esperienze di Cristoforo e<br />

Ludovico, benché anche per Carlo Gaudenzio, appena quattro anni dopo la nomina a vescovo, giungesse il<br />

titolo di cardinale su intercessione dell’imperatore Rodolfo II. I tempi intanto stavano sempre più<br />

velocemente mutando e con essi i rapporti politici sullo scenario europeo: le avvisaglie del catastrofico<br />

conflitto religioso che avrebbe sconvolto il continente cancellavano a poco a poco quel sostrato di alleanze e<br />

di equilibri che aveva sospinto i Madruzzo verso compiti così rilevanti nell’ambito della politica imperiale.<br />

Nel 1613 Carlo Gaudenzio fu legato papale alla dieta di Ratisbona, ma solo nel 1620 si stabilì, come i<br />

predecessori, definitivamente a Roma. Qui, come era tradizione familiare, servì gli interessi austro-spagnoli e<br />

fu presente nelle congregazioni cardinalizie. Il fruttuoso tessuto di rapporti con l’ambiente romano fu<br />

determinante nel superare la resistenza capitolare tridentina e nel 1622 i canonici furono nuovamente<br />

costretti a cedere di fronte alla richiesta della coadiutorìa in favore di un altro Madruzzo. Nel 1629, poco<br />

prima di morire, Carlo Gaudenzio trasferiva al nipote Carlo Emanuele la dignità vescovile.<br />

La vita e l’esperienza di governo di Carlo Emanuele Madruzzo, nato egli pure a Issogne nel 1599 e ancor più<br />

estraneo dello zio all’ambiente tridentino, possono essere assunte sotto diversi aspetti a esemplificazione sia<br />

del declino della sua potente famiglia, che di quello del principato vescovile dopo la stagione rinascimentale<br />

e quella conciliare, sia ancora della crisi politica ed economica che attraversò in quegli anni gran parte<br />

dell’Europa continentale. Tutto ciò pur nello sfarzo che, quasi per contrasto, caratterizzò anche l’ultima<br />

stagione dei Madruzzo. L’epidemia di peste portata nel 1630 <strong>da</strong>ll’esercito imperiale diretto all’assedio di<br />

Mantova diede inizio sotto i peggiori auspici all’episcopato di Carlo Emanuele. Successivamente si<br />

riaprirono le mai sopite vertenze del principato con la contea del Tirolo, mentre la guerra dei Trent’anni e<br />

quella per la Valtellina - quest’ultima pure di matrice religiosa - lambivano rispettivamente le frontiere<br />

settentrionali e quelle occidentali della regione. La diplomazia aveva ormai ceduto il campo agli eserciti e<br />

Trento <strong>da</strong> tempo non rappresentava più un possibile luogo di dialogo tra confessioni divergenti. Non vi era<br />

più posto dunque per un casato che si era nutrito del ruolo di tramite fra Roma e l’impero e che negli ultimi<br />

decenni, in virtù di quel matrimonio valdostano voluto <strong>da</strong> Cristoforo, aveva inoltre spostato sempre più la<br />

propria sfera di interessi familiari verso l’area che faceva capo alla tradizionale oppositrice degli Asburgo, la<br />

Francia. Carlo Emanuele visse stabilmente a Trento, non si fregiò del titolo cardinalizio e fu costretto <strong>da</strong> un<br />

lato a resistere alle invadenze tirolesi, <strong>da</strong>ll’altro a rintuzzare gli attacchi del capitolo il quale, non più succube<br />

di una famiglia che aveva perso i favori delle corti romana e asburgica, criticò la gestione del vescovo sia a<br />

Roma che presso gli organi imperiali, inducendolo anche alla firma di una transazione (1635) che conferiva<br />

ai canonici maggior influenza nel governo del principato. Perfino il patrimonio si indebolì a causa di azioni<br />

legali intraprese <strong>da</strong>lla nobiltà concorrente. I Madruzzo inoltre non avevano più eredi maschi e Carlo<br />

Emanuele fallì anche nell’obiettivo ultimo di ottenere il ritorno allo stato laicale per garantire la continuità<br />

del casato. Con la sua morte, nel 1658 - fu l’unico dei Madruzzo a essere tumulato nella cattedrale di Trento<br />

80


- cessava quello che si può a ragione definire un vescovato ereditario, insieme a un potere familiare il quale<br />

non ebbe eguali nella <strong>storia</strong> del principato tridentino.<br />

Cristoforo Madruzzo<br />

Il «cursus honorum» ecclesiastico del Madruzzo e le vicende inerenti alla sua designazione quale vescovo<br />

di Trento<br />

Cristoforo Madruzzo nacque a Castel Madruzzo, nella parrocchia di Calavino, il 5 luglio 1512.<br />

Il padre Gaudenzio era stato maresciallo di corte e capitano delle milizie ecclesiastiche tridentine sotto il<br />

vescovado di Bernardo Clesio, mentre la madre Eufemia von Spornberg apparteneva ad una nobile famiglia<br />

di stirpe tedesca. Cristoforo frequentò gli studi umanistici e teologici presso le Università di Padova e<br />

Bologna e, al termine di questi, assunse prima il canonicato di Salisburgo e successivamente quelli di<br />

Bressanone e di Trento. Ricopriva infatti l´incarico di canonico di Trento allorché, all´età di soli 27 anni,<br />

succedette a Bernardo Clesio al vescovado trentino.<br />

In verità, la preferenza per un vescovo così giovane era dovuta principalmente ai buoni rapporti esistenti tra<br />

il Madruzzo e Alessandro Farnese, signore di Parma e Piacenza, che caldeggiò la sua designazione presso<br />

lo zio, il pontefice Paolo III. Era il 2 settembre 1539 quando Cristoforo Madruzzo prese ufficialmente<br />

possesso del vescovado. Come era accaduto per Bernardo Clesio, la Sede Apostolica aveva confermato i<br />

diritti del Capitolo di Trento a nominare il responsabile della diocesi anche in vista dell´elezione del<br />

Madruzzo. Il riconoscimento avveniva dopo un´annosa questione, risalente ancora ai tempi di Bernardo<br />

Clesio, sviluppatasi tra la Santa Sede e lo stesso Capitolo. Quest´ultimo infatti rivendicava, come per tutti<br />

gli altri vescovi tedeschi, il diritto all´elezione, espressamente previsto <strong>da</strong>l concor<strong>da</strong>to di Vienna, mentre la<br />

curia romana contestava il fatto che Trento si trovasse nel territorio germanico dell´Impero, e quindi<br />

avocava a sé la prerogativa della nomina. La controversia per la scelta di questi ultimi due vescovi si risolse<br />

con una decisione del tutto provvisoria della Santa Sede: questa infatti, ritenne opportuno di dover fare un<br />

´eccezione accondiscendendo alle pretese fon<strong>da</strong>mentali del Capitolo, pur continuando a non essere d<br />

´accordo sul fatto che i concor<strong>da</strong>ti tedeschi risultassero applicabili nella città tridentina.<br />

L´importanza del ruolo del Madruzzo nella valorizzazione della città di Trento all´alba del Concilio<br />

A Cristoforo Madruzzo toccò dunque il compito di continuare l´opera del Clesio. Va però ricor<strong>da</strong>to che si<br />

predispose a ciò con un atteggiamento diverso <strong>da</strong> quello tenuto <strong>da</strong>l suo predecessore, ottenendo differenti<br />

risultati. Del resto, le personalità dei due vescovi non si rassomigliavano granché: più tenace e predisposto<br />

all´azione sul piano politico e diplomatico il Clesio; ambizioso, ma meno astuto di questi, il Madruzzo.<br />

Tuttavia, anche se fu con Bernardo Clesio che il principato vescovile comparve sulla ribalta politica<br />

europea rendendosi protagonista di una vera e propria svolta storica, anche il ruolo di Cristoforo Madruzzo<br />

non può essere sottovalutato solo per via di un confronto col suo illustre antesignano. E´ opportuno<br />

precisare, d´altra parte, che furono i suoi buoni rapporti con i potentati di origine germanica ad influire in<br />

maniera determinante sulla scelta di Trento quale sede del Concilio.<br />

La preferenza di Trento quale sede per lo svolgimento dei lavori conciliari fu preceduta <strong>da</strong> lunghi preamboli<br />

e negoziazioni. Nel capoluogo trentino il Concilio approdò soltanto nel 1542, ma l´idea di allestire una<br />

grande adunanza per dibattere le problematiche suscitate <strong>da</strong>llo scoppio della riforma protestante e<br />

scongiurare il pericolo di una separazione nel mondo cristiano venne alla luce già nel 1518, ossia pochi<br />

mesi dopo la storica separazione effettuata <strong>da</strong> Martin Lutero con l´affissione delle celebri 95 tesi al portale<br />

della cattedrale di Wittemberg. Lutero aveva peraltro manifestato subito il suo dissenso all´iniziativa. Pochi<br />

anni più tardi, i principati tedeschi si erano mostrati favorevoli, ma premevano affinché gli incontri si<br />

tenessero in territorio germanico. I papi Clemente VII e Paolo III erano invece risolutamente contrari alla<br />

soluzione che il Concilio avesse luogo proprio nelle zone dove era divampata la riforma. Il più autorevole<br />

patrocinatore del Concilio era ad ogni buon conto l´imperatore Carlo V, che in molte occasioni si era<br />

proposto come il campione dell´unità della Chiesa, ma nei confronti del quale il pontefice nutriva un<br />

sentimento misto di diffidenza e di timore dopo l´episodio del terribile sacco di Roma del 1527. A rendere<br />

più complesso l´avvio dell´iniziativa era la posizione di Francesco I di Francia, il quale nel Concilio vedeva<br />

unicamente un´opportunità che avrebbe permesso al rivale Carlo V di consoli<strong>da</strong>re la propria egemonia in<br />

Europa, e si era dichiarato pertanto del tutto sfavorevole.<br />

Quando si riuscì a stabilire che il Concilio sarebbe stato finalmente convocato, lunghe diatribe si<br />

81


moltiplicarono sulla scelta del luogo nel quale si sarebbe dovuto svolgere. A volere fortemente che le<br />

riunioni si tenessero a Trento fu ancora una volta Carlo V, il quale aveva individuato in questa città, situata<br />

in territorio germanico ma con una cultura profon<strong>da</strong>mente italica e pertanto legata <strong>da</strong> tempo immemorabile<br />

alla politica ecclesiale della Santa Sede, il luogo geografico più opportuno per addivenire ad una<br />

conciliazione con quelle zone <strong>da</strong> poco conquistate al luteranesimo. Nel 1524 Carlo aveva ufficialmente<br />

fatto pervenire al pontefice uno scritto per segnalare la sua predilezione per Trento, «…..quae etsi<br />

Germanica habeatur, re vera Itala sit».<br />

La stessa controversia con la Sede Apostolica in merito all´appartenenza o meno di Trento alla parte<br />

tedesca dell´Impero, della quale si è detto poc´anzi, a conti fatti poté rappresentare un presupposto assai<br />

valido sul lungo il percorso decisionale che condusse alla scelta del capoluogo trentino: questo era ormai<br />

considerato il centro urbano in grado di fornire le migliori garanzie di neutralità. La sapiente azione<br />

diplomatica del cardinal Morone, che a Spira nel 1542 riuscì a mettere d´accordo anche i principi tedeschi<br />

sulla predilezione per Trento, si rivelò in buona parte determinante. Ma alla risoluzione definitiva contribuì<br />

non poco una relazione del cardinal Farnese, delegato <strong>da</strong>l papa a visitare la diocesi nel periodo in cui<br />

occorreva confermare la designazione di Cristoforo Madruzzo al soglio vescovile: «Trento – scrive il<br />

Farnese - come la chiamano ora nella contea del Tirolo, è una città situata nella decima circoscrizione d<br />

´Italia, ed è tanto più rinomata e ricca quanto più sicura per la posizione e per le fortificazioni; essa è<br />

sottoposta al vescovo non solo per quel riguar<strong>da</strong> le questioni spirituali, ma anche per quelle temporali, e<br />

possiede molti castelli e borghi».<br />

Si dovette certamente alle conoscenze e alle relazioni di una personalità come il Madruzzo il fatto che la<br />

cittadina di Trento, per il periodo relativo ai lavori conciliari, si trasformò in un crocevia verso il quale<br />

confluiva tutta la cristianità dell´epoca. E´ evidente, tuttavia, che su Trento la scelta non sarebbe mai caduta<br />

se il nostro territorio non avesse avuto i caratteri di autonomia che possedeva a quei tempi un principato<br />

vescovile, tale <strong>da</strong> presentarsi immune sia <strong>da</strong> condizionamenti provenienti <strong>da</strong>lla sfera d´influenza tedesca<br />

che <strong>da</strong> quella italiana. Pertanto, occorre attribuire anche ai vescovi precedenti, che rafforzarono il carattere<br />

di indipendenza del principato e lo difesero contro i tentativi di ingerenza tedeschi e tirolesi, il merito di<br />

avere preparato la stra<strong>da</strong> al Concilio di Trento; e in particolare questo va a Bernardo Clesio, che<br />

accrescendone il prestigio internazionale, aveva donato al principato vescovile un periodo di grande<br />

splendore e si era personalmente prodigato per trasformare la città nel centro della cattolicità universale di<br />

quegli anni.<br />

Questa progressiva ascesa della Chiesa di Trento contribuì a fare in modo che, anche durante il trentennale<br />

episcopato del Madruzzo, essa vedesse via via consoli<strong>da</strong>rsi il proprio potere, sia all´interno che all´esterno<br />

del principato.<br />

Cristoforo Madruzzo visse in prima persona i contrastati avvenimenti del Concilio, <strong>da</strong>to che l´arco della sua<br />

vita si protrasse anche oltre la conclusione delle attività conciliari. Poté dunque assistere e partecipare <strong>da</strong><br />

vicino a tutte le tre grandi fasi di esso. La prima (1536-1539), con i vani tentativi di istituire la grande<br />

assemblea a Mantova e quindi a Vicenza, che ritar<strong>da</strong>rono l´avvio dei lavori; poi, finalmente, l´inizio delle<br />

consultazioni nella città di Trento, il 13 dicembre 1545; ed infine il trasferimento provvisorio presso la sede<br />

di Bologna. La secon<strong>da</strong> (1551-1552), con il ritorno a Trento e una nuova sospensione a causa della guerra<br />

tra l´esercito di Carlo V e quello francese di Enrico II, forte dell´alleanza dell´ultima ora con Maurizio,<br />

elettore di Sassonia. Infine la terza (1562-1563), che segnò la ripresa definitiva e la conclusione dei lavori.<br />

L´indole rinascimentale di Cristoforo Madruzzo e i preparativi per l´accoglienza dei padri conciliari<br />

Per preparare la città ad un evento così straordinario quale il Concilio, il Madruzzo ritenne che fossero<br />

necessarie delle innovazioni fuori del comune. Continuò l´opera urbanistica già intrapresa <strong>da</strong> Bernardo<br />

Clesio, rinnovando la rete viaria e disponendo la costruzione di palazzi ed edifici più eleganti, che potessero<br />

ospitare per quegli anni i massimi esponenti del mondo cattolico e politico dei tempi. Nelle campagne<br />

circostanti, rimodernò le ville già esistenti e ne fece costruire di nuove, e provvide al restauro dei castelli<br />

per renderli più accoglienti. Apportò anche dei rinnovamenti di rilievo nel servizio postale, in modo <strong>da</strong><br />

renderlo più efficiente e veloce.<br />

Le iniziative del vescovo condussero ad un duplice ordine di conseguenze: uno positivo, risultante <strong>da</strong>ll<br />

´incremento delle attività economiche, in particolar modo di quelle manifatturiere, artigianali ed artistiche, e<br />

in una certa misura anche di quelle strettamente commerciali. In questo periodo il principato di Trento visse<br />

un momento di gloria rinascimentale, favorito anche <strong>da</strong>lla presenza in città di personaggi di spicco nel<br />

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mondo della cultura e dell´arte, i quali diedero impulso alla diffusione delle discipline umanistiche e della<br />

lingua italiana, fra l´altro a discapito di quella tedesca. L´altra conseguenza era invece di tutt´altro genere,<br />

destinata ad essere associata a lungo al ricordo del vescovo: le opere di rinnovamento <strong>da</strong> lui intraprese<br />

finirono difatti col gravare in maniera <strong>da</strong>vvero pesante sulle casse della diocesi e tale disavanzo si aggiunse<br />

alle precedenti difficoltà finanziarie, che stavano rendendo più arduo far quadrare il bilancio dell<br />

´amministrazione vescovile.<br />

Cristoforo Madruzzo, inoltre, si mostrò straordinariamente magnanimo nei confronti dei legati papali<br />

presenti alle attività conciliari, al punto che arrivò a fornire precise disposizioni affinché essi venissero<br />

considerati in città come veri e propri ospiti di riguardo. Non è difficile immaginare come non pochi fra<br />

questi avessero finito con l´abusare di cotanta generosità.<br />

Tuttavia, questa sua inclinazione gli diede la possibilità di beneficiare, più avanti, di prestiti altrettanto<br />

munifici, tanto che non mancavano nell´ambiente nobiliare ed ecclesiastico coloro che lo stimavano per<br />

questa sua liberalità. Egli rimase, in ogni caso, il bersaglio di critiche pungenti, e una delle più famose è<br />

quella di cui si fece interprete l´abate Girolamo Tartarotti, filosofo, storico e uomo di lettere del Settecento<br />

tra i più insigni che il Trentino abbia mai avuto: si trattò della voce più influente nel coro di tutti coloro che<br />

puntavano il dito contro il Madruzzo, per via della quale egli venne definito uno spen<strong>da</strong>ccione senza alcuna<br />

autorevolezza. I pareri sulla sua personalità sono comunque discor<strong>da</strong>nti, visto che altri uomini di spicco lo<br />

hanno ritenuto, invece, un personaggio di grande prestigio, in gran parte per le sue doti diplomatiche,<br />

attribuendogli il merito di avere contribuito al sorgere di una vera e propria epoca d´oro per la Chiesa<br />

<strong>trentina</strong>. Il giudizio positivo sul suo conto si fon<strong>da</strong> ovviamente sul contributo determinante fornito alla città<br />

di Trento in virtù dell´iniziativa conciliare.<br />

Il fattore del bilinguismo madruzziano all´interno delle problematiche conciliari<br />

E comunque un fatto innegabile che la personalità del Madruzzo abbia risentito dell´influsso di due culture<br />

diverse tra loro: quella tedesca, in quanto egli era di madre lingua tedesca, e il blasone delle sue origini gli<br />

procurava una posizione di particolare privilegio nei rapporti con l´Impero; quella italiana, poiché italiana<br />

era la sua formazione culturale, di stampo tipicamente umanistico – rinascimentale, in virtù degli studi<br />

effettuati in Italia e degli ambienti frequentati fin <strong>da</strong>l periodo giovanile.<br />

Nel corso del Concilio, i suoi avversari lo accusarono ingiustamente di aver trescato con il partito tedesco<br />

fino a diventarne il capo. Questa connivenza – si vociferava – era strettamente legata con la natura delle sue<br />

origini, che lo avvicinava in modo pressoché permanente all´elemento germanico. In particolare, fece non<br />

poco scalpore il consenso esplicito <strong>da</strong> lui fornito alla traduzione della Bibbia nelle varie lingue nazionali e<br />

la protezione <strong>da</strong> lui accor<strong>da</strong>ta all´agostiniano Nicolao di Verona, che per qualche tempo fu filo-luterano. La<br />

relazione fra la riforma protestante e le lingue nazionali si sarebbe in seguito rivelata la chiave di volta della<br />

diffusione del nuovo pensiero riformato in Europa, e la Bibbia tradotta nelle varie lingue sarebbe divenuta il<br />

veicolo più a<strong>da</strong>tto per <strong>da</strong>re avvio all´ampio movimento di riscoperta delle varie identità nazionali. L<br />

´opposizione degli avversari del Madruzzo era quindi, <strong>da</strong> un certo punto di vista, comprensibile: essi<br />

intuivano le conseguenze che la questione religioso – linguistica era destinata ad avere sul piano politico e<br />

il conseguente rischio di questo processo di autoconsapevolezza sociale per l´unità imperiale, <strong>da</strong>lla cui<br />

parte, naturalmente, senza mezzi termini anche la sede Apostolica si schierò apertamente. Al termine dei<br />

lavori conciliari, essa giunse infatti ad ammettere la versione della Vulgata di San Girolamo come l´unica<br />

assolutamente lecita per l´Antico e il Nuovo Testamento. Il pericolo di un potenziamento delle identità<br />

nazionali a scapito dell´ordine costituito appariva evidente già al momento dell´apertura del Concilio. Se<br />

consideriamo inoltre che, nel mondo cattolico, il rapporto prevalente che tendeva ad instaurarsi con la<br />

corrente protestante era di aperta ostilità e che i tentativi di pacificazione sostenuti <strong>da</strong>ll´indirizzo conciliare<br />

più moderato rappresentavano l´atteggiamento di una minoranza che non riuscì ad imporsi, si spiegano così<br />

le rimostranze e le animosità nei confronti della scelta probabilmente effettuata in buona fede <strong>da</strong> Cristoforo<br />

Madruzzo.<br />

L´assenza del vescovo <strong>da</strong> Trento in seguito alla nomina a cardinale e le pretese della emergente classe<br />

media. L´inserimento dell´arciduca Ferdinando II nel quadro politico trentino<br />

Dopo aver ottenuto il titolo di cardinale, nel 1550 Cristoforo Madruzzo andò a risiedere stabilmente a Roma<br />

e cedette al nipote Ludovico (che aveva nominato qualche tempo prima suo coadiutore) l´amministrazione<br />

del principato, pur conservandone la titolarità non soltanto quale detentore del potere temporale, ma anche<br />

83


di quello spirituale. Si assistette in questa fase dell´episcopato al fiorire di nuovi fermenti in seno alla vita<br />

della municipalità, dovuti alla crescita, in senso economico e sociale, conosciuta <strong>da</strong>lla borghesia cittadina<br />

durante gli anni del Concilio.<br />

Il magistrato consolare, approfittando anche dell´assenza del neo - cardinale <strong>da</strong> Trento, avanzò la<br />

rivendicazione di una serie di diritti che avrebbero dovuto garantire, alla classe che lui rappresentava e che<br />

in quegli anni era venuta a distinguersi, un maggiore coinvolgimento nel governo cittadino, a discapito del<br />

potere del principe - vescovo. Erano pretese già avanzate ai tempi di Bernardo Clesio, e che l´autorevole<br />

vescovo aveva risolutamente e costantemente negato. Altrettanta perentorietà giunse peraltro <strong>da</strong> Cristoforo<br />

Madruzzo, che <strong>da</strong> Roma fece sapere che mai e poi mai avrebbe fornito ulteriori concessioni alla classe<br />

consolare, e giustificò il proprio diniego dichiarando che soltanto lui era stato determinante nell´aver <strong>da</strong>to a<br />

Trento uno splendore mai conosciuto; la borghesia cittadina, a suo giudizio, avrebbe vissuto semplicemente<br />

di rendita sulle sue iniziative.<br />

In effetti il ceto medio aveva conosciuto, nel movimento di rinascita cittadina che l´aveva proiettato in una<br />

dimensione del tutto nuova e moderna, un ruolo inizialmente marginale; esso beneficiò senza ombra di<br />

dubbio degli investimenti e dell´azione «promozionale» operata <strong>da</strong>l vescovo, anche se gli uomini di<br />

commercio stentavano a vederne l´utilità. In questo senso, non si può negare che il Madruzzo, pur essendo<br />

stato largamente favorito <strong>da</strong>lla ricchezza e <strong>da</strong>l patrimonio di conoscenze che la sua famiglia era in grado di<br />

vantare, avesse mancato di lungimiranza.<br />

Pochi anni più tardi, nel 1560, anche Ludovico Madruzzo accedeva al cardinalato.<br />

Le rivendicazioni del patriziato cittadino non ebbero esiti rilevanti, ma contribuirono ad accrescere il<br />

malcontento generale che si stava diffondendo. Non attese molto ad approfittare di questa situazione di<br />

stallo il neoeletto arciduca Ferdinando II, che aveva appena ereditato <strong>da</strong>l padre imperatore, Ferdinando I, i<br />

possedimenti tirolesi, assieme a quelli della Germania meridionale. Il nuovo conte del Tirolo si erse<br />

immediatamente a paladino dei diritti di quella parte della cittadinanza <strong>trentina</strong> rappresentata <strong>da</strong>lla<br />

magistratura consolare, e si servì delle proprie minacce e della concomitanza di una manifestazione di<br />

piazza messa in atto <strong>da</strong> un gruppo di cittadini di Trento per imporre al vescovo reggente una <strong>tratta</strong>tiva <strong>da</strong>lle<br />

conseguenze assai pesanti. Ludovico Madruzzo, evidentemente spaventato, cedette alle richieste di<br />

Ferdinando: nel <strong>tratta</strong>to, l´arciduca doveva essere riconosciuto come principe territoriale e legittimo<br />

signore, titolo che in questo modo veniva tolto al cardinale reggente. All´arciduca avrebbe fatto capo anche<br />

un potere giudiziario molto ampio, <strong>da</strong>to che l´accordo gli conferiva la possibilità di intervenire nelle<br />

controversie private, qualora i cittadini avessero preferito la sua giurisdizione a quella del cardinale; lo<br />

stesso arciduca sarebbe stato anche giudice d´appello nei confronti delle sentenze emesse <strong>da</strong>i tribunali<br />

vescovili. Non ci dilunghiamo sugli altri contenuti di quest´accordo, che saranno analizzati più<br />

dettagliatamente nella biografia relativa a Ludovico Madruzzo. E´ però evidente come l´assenza del<br />

vescovo Cristoforo per lungo tempo <strong>da</strong>lla propria diocesi, della quale continuò a rimanere il titolare sino al<br />

1567, non avesse certamente giovato alla continuità di quel periodo di particolare splendore che il<br />

principato aveva conosciuto nell´ultimo trentennio.<br />

L´istituzione del Seminario religioso e l´utilizzazione di Palazzo delle Albere<br />

Anche <strong>da</strong>lla sede romana il cardinale Cristoforo Madruzzo volle tuttavia seguire un progetto che gli stava<br />

particolarmente a cuore, quello del Seminario, che intendeva portare a termine sia a Trento che a<br />

Bressanone. Questa iniziativa era stata infatti prevista <strong>da</strong> una disposizione conciliare, emessa il 15 luglio<br />

del 1563, in sintonia con gli orientamenti fon<strong>da</strong>mentali della politica controriformistica, che miravano a<br />

fornire al clero una preparazione più rispondente al suo compito. Naturalmente l´idea era quella di affi<strong>da</strong>re<br />

all´ordine dei Gesuiti la direzione dell´istituto, sul modello dei collegi germanici che <strong>da</strong> pochi anni avevano<br />

cominciato a diffondersi e che già si stavano distinguendo per la grande funzionalità ed efficienza. Per<br />

realizzare questa sua idea, Cristoforo aveva parlato anche con San Pietro Canisio, cercando di coinvolgerlo<br />

nell´opera. Nel 1563, il vescovo titolare scriveva al nipote che stava a Trento, raccoman<strong>da</strong>ndogli di non<br />

perdere di vista l´idea del Seminario e offrendogli la sede di Palazzo delle Albere come edificio che<br />

avrebbe dovuto ospitare i sacerdoti.<br />

L´imponente edificio di Palazzo delle Albere, era stato fortemente voluto <strong>da</strong>l padre di Cristoforo Madruzzo,<br />

Giovanni Gaudenzio, che sotto l´episcopato di Bernardo Clesio ricopriva l´ufficio di maresciallo di corte e<br />

di capo supremo delle milizie vescovili. Il coman<strong>da</strong>nte ne aveva affi<strong>da</strong>to l´esecuzione ad un valente<br />

architetto ed ingegnere militare bergamasco alla corte del Clesio, Francesco Chiaramella <strong>da</strong> Gandino.<br />

84


Ottagonale e corre<strong>da</strong>to di quattro torri ad angolo, esso rappresenta una delle tipiche espressioni del gusto<br />

rinascimentale tridentino e nelle sue ampie sale ospita alcune pregevoli opere pittoriche, realizzate <strong>da</strong>gli<br />

artisti che lavorarono in quel periodo a rendere più bella ed accogliente la città di Trento, in particolare<br />

Marcello Fogolino, Battista e Giovanni Dossi, Gerolamo Romanino. Tra questi lavori eseguiti negli interni<br />

della struttura, spiccano gli affreschi del ciclo dei mesi. Il termine «Albere» si deve al fatto che<br />

originariamente, lungo la via che collegava il convento di Santa Croce all´edificio, era stata piantata una<br />

doppia e suggestiva fila di pioppi. La sua fisionomia fu in seguito ulteriormente arricchita ed abbellita per<br />

volere del vescovo Cristoforo, che adoperò abitualmente il palazzo come luogo di rappresentanza. Tra le<br />

occasioni in cui esso ebbe modo di ospitare personaggi illustri dell´epoca, spicca la visita di Carlo V nel<br />

1541. L´imperatore aveva deciso di fare una sosta a Trento dopo gli impegni che lo avevano tenuto<br />

occupato alla dieta di Worms e fu assai favorevolmente impressionato <strong>da</strong>lla bellezza della costruzione,<br />

tanto <strong>da</strong> definirla, tramite la penna del suo cronista personale, «una delle più belle, ricche e magnifiche<br />

residenze vescovili che si possano ammirare». Otto anni più tardi, toccò al figlio Filippo, che allora era<br />

principe di Spagna e sarebbe stato destinato entro breve tempo a succedere al padre sul trono imperiale,<br />

essere ricevuto <strong>da</strong>l vescovo presso il Palazzo delle Albere.<br />

Le riforme in campo giuridico. Il collezionismo madruzziano<br />

Cristoforo Madruzzo, durante il suo periodo di permanenza a Trento e proprio nell´anno di convocazione<br />

del Concilio in questa città, decise di rinnovare i procedimenti civili e penali, con lo stabilire nuove regole<br />

procedurali. Questa sua riforma produsse quelle particolari innovazioni giuridiche che vanno sotto il nome<br />

di «Constitutiones excelsae superioritates Tridenti», comunemente dette «Cristoforine», inserite all´interno<br />

dello statuto della città di Trento. Il vescovo apportò le medesime modifiche anche nell´ordinamento<br />

giuridico del principato di Bressanone, che nel 1542 resse come coadiutore e <strong>da</strong>l 1543 al 1578 come<br />

amministratore.<br />

Madruzzo fu anche appassionato collezionista di opere d´arte e di oggetti antichi. La sua raccolta<br />

annoverava una vastissima serie di gioielli, me<strong>da</strong>glie, vasellame, quadri, arazzi, abiti antichi, preziosissimi<br />

marmi, minerali, oggetti in argenteria, candelabri e soprammobili, scritture miniate - soprattutto di antichi<br />

codici - ed ogni sorta di libri delle più differenti epoche storiche e provenienze. Il cardinale coltivò questa<br />

sua passione con un fervore ancora più grande quando si stabilì a Roma, dove era solito intrattenere<br />

relazioni con i più importanti antiquari e commercianti in antichità dell´epoca. Si <strong>tratta</strong>va di un assortimento<br />

<strong>da</strong>vvero imponente, che rappresentò per la sua famiglia una grande ricchezza e per tutto il collezionismo<br />

trentino un patrimonio unico.<br />

La sua morte avvenne il 5 luglio 1578 a Tivoli, proprio il giorno nel quale compiva sessantasei anni, e il suo<br />

corpo fu tumulato a Roma nella chiesa di Sant´Onofrio. Per accogliere la salma del cardinale, il nipote<br />

Ludovico fece costruire presso la chiesa medesima la cappella Madruzzo, presso la quale vennero<br />

successivamente trasportati i corpi degli altri componenti di questa famiglia, tra i quali vanno annoverati gli<br />

altri due principi - vescovi e cardinali che succedettero a Cristoforo: Ludovico e Carlo Gaudenzio.<br />

Ludovico Madruzzo<br />

La scalata di Ludovico Madruzzo ai vertici della gerarchia ecclesiale<br />

Ludovico Madruzzo, nato a Trento nel 1532, era figlio del barone Nicolò Madruzzo e di Elena di Lanberg,<br />

una contessa stiriana. Effettuò i suoi primi studi sotto la gui<strong>da</strong> di precettori privati e passò successivamente<br />

a frequentare le università di Lovanio e di Parigi. A diciassette anni venne nominato <strong>da</strong>llo zio Cristoforo<br />

Madruzzo, allora vescovo di Trento, coadiutore nelle attività episcopali. La carriera ecclesiastica procedette<br />

per Ludovico a ritmi incalzanti: a soli ventisei anni fu scelto come legato pontificio di Pio IV con compiti di<br />

grande responsabilità nelle relazioni diplomatiche con l´imperatore Ferdinando I, e nel 1561 (a 29 anni)<br />

conseguì anche il titolo di cardinale. Nel 1567 fu nominato vescovo di Trento <strong>da</strong>l pontefice Paolo III (che<br />

sei anni prima aveva promosso la sua ascesa al cardinalato), divenendo titolare dell´episcopato a tutti gli<br />

effetti; <strong>da</strong> diciassette anni invero esercitava di fatto quest´incarico, in quanto lo zio, al momento di recarsi a<br />

Roma dopo il conseguimento della porpora cardinalizia, gli aveva ceduto l´amministrazione del principato<br />

vescovile.<br />

Gli esordi del Madruzzo all´episcopato e la copiosità delle sue relazioni diplomatiche<br />

85


Un compito importante attendeva il nuovo vescovo e a questo egli si dedicò per buona parte della sua vita:<br />

si <strong>tratta</strong>va dell´attuazione delle direttive del Concilio di Trento, <strong>da</strong> poco conclusosi. Per adempiere a quella<br />

che egli stesso avvertì come una vera e propria missione si prodigò nelle visite pastorali all´interno della<br />

diocesi, controllando <strong>da</strong> vicino la vita delle comunità ecclesiastiche in maniera scrupolosissima: <strong>da</strong>i costumi<br />

dei sacerdoti, alla loro disciplina, al decoro degli arre<strong>da</strong>menti, allo stato delle canoniche e dei cimiteri, all<br />

´osservanza delle regole che animavano la vita di comunità e l´amministrazione dei beni di proprietà della<br />

Chiesa, all´applicazione delle nuove norme in materia di matrimoni e di sacramenti; arrivò addirittura ad<br />

analizzare di persona anche i libri contabili tenuti <strong>da</strong>i sacerdoti nelle rispettive parrocchie. Senza dubbio si<br />

deve in gran parte a lui se la diocesi tridentina riuscì a conformarsi in tempo relativamente breve alle<br />

disposizioni conciliari.<br />

Dai papi del suo tempo e <strong>da</strong>ll´imperatore di Spagna Filippo II veniva tenuto in grande stima e<br />

considerazione, soprattutto per l´intelligenza e le spiccate abilità diplomatiche, che gli valsero missioni<br />

importanti. Oltre a far parte della legazione pontificia di cui si è detto, nel 1572, per la durata di tredici anni,<br />

gli fu attribuito il compito di rappresentare il papa nella dieta di Augusta, istituita allo scopo di stabilire le<br />

strategie nella guerra allora in atto contro i turchi (1). Intrattenne una profon<strong>da</strong> amicizia con due tra le più<br />

alte personalità della Chiesa di quei tempi, San Carlo Borromeo e San Filippo Neri. Quest´ultimo, in<br />

particolare, fu il suo padre spirituale ed ebbe spesso una notevole influenza sulle scelte e sulle decisioni del<br />

vescovo.<br />

Ferdinando II d´Asburgo e l´avvento del «Temporalienstreit»<br />

Nonostante queste influenti protezioni, Ludovico entrò in contrasto con uno dei potentati più autorevoli del<br />

tempo: la casa d´Austria. Accadde in questo modo: non appena i possedimenti del Tirolo passarono in<br />

eredità all´arciduca Ferdinando II (figlio del defunto imperatore Ferdinando I), questi effettuò un vero e<br />

proprio colpo di mano nei confronti del principato di Trento, intraprendendo un´azione di forza che diede<br />

origine al cosiddetto «Temporalienstreit». Era l´11 ottobre 1567, ed approfittando della temporanea assenza<br />

del vescovo reggente, Cristoforo Madruzzo, che come anticipato si trovava a Roma dopo la nomina a<br />

cardinale, il nuovo arciduca volle imporre al principato vescovile un nuovo ordine di accordi, che<br />

limitavano in modo decisamente consistente la sfera d´azione del vescovo, rinnegando in pratica sia la<br />

validità del «Landlibell» stipulato nel 1511 tra l´imperatore Massimiliano e il vescovo Giorgio Neideck, sia<br />

quella delle «compattate» del secolo precedente. Il Landlibell, in particolare, aveva garantito per qualche<br />

decennio l´equilibrio nei rapporti tra la casa austriaca e il vescovo, creando una sorta di patto confederale.<br />

Ludovico Madruzzo lo preferiva addirittura alle vecchie compattate, tanto che accettava queste ultime<br />

soltanto alla luce dell´interpretazione che ad esse era stata <strong>da</strong>ta in seguito alle intese con l´ imperatore<br />

Massimiliano. Ora invece, Ferdinando II pretendeva che il vescovo rinunciasse al suo titolo di principe,<br />

rivendicando per contro il proprio potere sovrano quale principe territoriale anche in sede giurisdizionale,<br />

esigendo giuramento di fedeltà sia <strong>da</strong>l vescovo, sia <strong>da</strong> ogni suddito del principato. Inoltre, imponeva al<br />

vescovo di liberarsi dei funzionari di lingua italiana all´opera presso la sua corte, e di assumere<br />

esclusivamente personale qualificato di provenienza tedesca. La questione riguar<strong>da</strong>va direttamente anche il<br />

principato vescovile di Bressanone, poiché anche nei confronti di questo l´arciduca Ferdinando avanzava<br />

analoghe pretese.<br />

Si <strong>tratta</strong>va, come si può intuire, di rivendicazioni che influivano in maniera pesantissima sull´autonomia del<br />

principato, che per qualche tempo rimase completamente spiazzato <strong>da</strong>lla repentinità di quest´azione. Le<br />

intenzioni del nuovo arciduca miravano quindi a ripristinare, con l´esercizio di una forte azione di controllo<br />

sia politica che amministrativa, il consueto legame del Trentino con i conti del Tirolo, riprendendosi quella<br />

sovranità che con due personalità del rango di Bernardo Clesio e di Cristoforo Madruzzo era divenuta<br />

invece appannaggio dell´autorità vescovile. Non <strong>da</strong> ultimo, Ferdinando II era senza ombra di dubbio<br />

preoccupato delle conseguenze che avrebbe potuto avere una politica così spiccatamente clientelare<br />

instaurata <strong>da</strong>i Madruzzo, che tendevano a conservare molto gelosamente il potere all´interno della propria<br />

famiglia.<br />

La controffensiva diplomatica del cardinale a Roma<br />

A sostituire Cristoforo Madruzzo, c´era in quel momento a Trento appunto il nipote Ludovico, il quale, in<br />

parte perché colto alla sprovvista <strong>da</strong>lla perentorietà del gesto di Ferdinando e in parte perché si trovava in<br />

quel momento sprovvisto di potere effettivo, in un primo momento sottoscrisse gli accordi. La Chiesa di<br />

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Trento non tardò ovviamente molto a rendersi conto delle conseguenze che un tale gesto avrebbe<br />

comportato, e poco più tardi il titolare effettivo dell´episcopato si affrettò a lasciare a tutti gli effetti la<br />

carica vescovile nelle mani del nipote, il quale lottò con accanimento per recuperare gli antichi diritti,<br />

nonostante la strenua resistenza, oltre che dell´ arciduca Ferdinando, anche del magistrato consolare della<br />

città di Trento. Il nuovo presule, infatti, si ritirò nel 1568 prima a Riva e successivamente a Roma: qui<br />

predispose la controffensiva, ricorrendo espressamente alla Santa Sede ed ottenendo gradualmente che il<br />

sostegno del pontefice Pio V desse esiti più confortanti. Il Madruzzo lamentava naturalmente che i recenti<br />

accordi erano del tutto invalidi in quanto estorti con la forza, interpretazione che ora era avvalorata <strong>da</strong>l<br />

Capitolo di Trento, della stessa opinione per il fatto di non essere stato interpellato al momento dei «patti»<br />

dell´ anno precedente.<br />

Recandosi a Roma e stabilendovisi, Ludovico volle effettuare una precisa scelta: abbandonò per quasi una<br />

decina d´anni l´amministrazione finanziaria e la gestione di quelle attività del principato vescovile, tra le<br />

quali non ultime quella pastorale, che rimanevano strettamente legate con la sua presenza a Trento; ma<br />

dedicò i suoi sforzi a quell´attività diplomatica che esigeva la presenza nella capitale e che l´avrebbe<br />

portato, nel corso di tutto questo tempo, a rafforzare in modo determinante la propria posizione. Dopo<br />

qualche tempo, Ludovico riuscì a fare partecipe del proprio problema la dieta imperiale, un organo di<br />

notevole importanza soprattutto in sede politica, che a Spira si pronunciò su un documento che avrebbe<br />

dovuto regolare la questione del Temporalienstreit. Tuttavia, le condizioni proposte si presentavano ancora<br />

insufficienti a garantire al vescovo il recupero delle prerogative godute in precedenza.<br />

La vittoria del vescovo-cardinale attraverso le tappe di Spira e Ratisbona, e le sopraggiunte difficoltà<br />

seguite alla ripresa del principato vescovile<br />

Nel 1573 avvenne a Roma un fatto che consolidò ancora di più l´autorità di Ludovico Madruzzo. Il papa<br />

fondò la Congregatio Germanica, organo di coordinamento diplomatico e politico tra la Santa Sede e l<br />

´autorità imperiale, e Ludovico venne nominato «Protector Germaniae», con una responsabilità assai<br />

rilevante per tutte le candi<strong>da</strong>ture al cardinalato e all´episcopato. La svolta si verificò allorché Ferdinando<br />

fece pervenire con insistenza in curia la richiesta di elevazione al cardinalato per il figlio Andrea, e dovette<br />

venire a patti con Ludovico. Gli intrallazzi di Ferdinando per trovare un´adeguata sistemazione al figlio<br />

avranno e<strong>sito</strong> alcuni anni più tardi, nel 1580, quando riuscì ad ottenere per lui l´episcopato di Bressanone.<br />

Le cose per il vescovo di Trento migliorarono anche con l´ascesa al trono imperiale di Rodolfo II, zio di<br />

Ferdinando e con costui in rapporti non del tutto eccellenti. In tal modo le due parti pervennero ad un<br />

accordo definitivo, sancito nel 1576 in occasione della dieta di Ratisbona. Il nuovo negoziato prevedeva la<br />

conferma di alcune disposizioni già contenute nella cosiddetta «notula di Spira», ma in più veniva altresì<br />

stabilito che il vescovo rientrasse in possesso del suo titolo di principe. Era inoltre ripristinata la validità<br />

delle «compattate» degli anni 1454 e 1468, che contenevano tutta una serie di garanzie soprattutto per il<br />

vescovo e che invece Ferdinando, col suo atto di forza effettuato nove anni prima, aveva letteralmente<br />

spazzato via; mentre non si teneva conto delle compattate antecedenti al 1454. Sulle compattate veniva<br />

ripristinato un impegno solenne, in quanto sia il vescovo, che l´arciduca, che i rappresentanti municipali e<br />

giurisdizionali del principato erano obbligati a prestare solenne giuramento.<br />

Il Madruzzo aveva conseguito il premio dei suoi sforzi: undici anni di lontananza <strong>da</strong>lla diocesi di Trento<br />

non gli avevano permesso di continuare quell´attività ordinaria che costituisce parte integrante dell<br />

´esercizio del suo ministero, ma in compenso era riuscito, con la scalata ai vertici della gerarchia ecclesiale,<br />

a toccare i tasti giusti e ad ottenere ascolto <strong>da</strong>lle autorità più influenti.<br />

In verità, l´ultimo accordo non risultò completamente risolutivo delle relazioni tra Ferdinando e la Chiesa di<br />

Trento. I patti di Ratisbona che riportavano con qualche modifiche la notula di Spira lasciavano per la verità<br />

in sospeso la questione della sovranità, <strong>da</strong> definirsi nel contesto di un lodo imperiale che avrebbe dovuto<br />

essere pronunciato nell´ arco di un anno. In realtà, il negoziato aveva rappresentato per il principato<br />

vescovile una notevole conquista, ed aveva portato ad un recupero del prestigio e dell´autorità del suo<br />

massimo rappresentante affatto trascurabile. La sospensione della cosiddetta questione della sovranità era<br />

più che altro un modo diplomatico per tentare di sopire le richieste di Ferdinando II e differire ulteriormente<br />

non tanto il riconoscimento del potere temporale del vescovo, che la notula di Spira effettivamente<br />

garantiva, quanto piuttosto la rinuncia alla pretese avanzate <strong>da</strong>ll´arciduca nel 1567. Anche se nella sostanza<br />

non cambiava granché, si <strong>tratta</strong>va comunque di un espediente alquanto sottile adottato allo scopo di non<br />

offendere eccessivamente, in quel momento, la persona dell´arciduca, e rinviare la questione, alquanto<br />

87


formale, a breve tempo.<br />

In realtà, tuttavia, questo pronunciamento dell´imperatore in merito all´oggetto del contendere non avvenne<br />

mai; il risultato fu che tra l´autorità arciducale e quella vescovile si protrasse una serie di lungaggini<br />

burocratiche che finì con l´appesantirne vieppiù i rapporti. Inoltre, nella città di Trento i rappresentanti<br />

austriaci continuavano a macchinare nascostamente con quella componente della municipalità che faceva<br />

capo alla magistratura consolare, diventata ormai un elemento di costante disturbo al potere vescovile. Le<br />

circostanze rendevano quindi di difficile realizzazione il ripristino di un clima favorevole all´ordine e alla<br />

distensione, nonostante il successo del lavorio politico di Ludovico Madruzzo, che gli aveva gua<strong>da</strong>gnato sia<br />

l´appoggio dell´imperatore, sia quello del papa.<br />

Il sostegno accor<strong>da</strong>to alla potenza bavarese. La scarsità di conferme in merito alla passione per il<br />

collezionismo<br />

Il vescovo esercitò un´opera di notevole importanza politica anche per i legami che riuscì ad instaurare con<br />

la Baviera. L´inizio dell´intesa con l´autorità bavarese, che si rivelerà di fon<strong>da</strong>mentale importanza per la<br />

Chiesa di Trento qualche decennio più tardi nel quadro delle relazioni con gli stati tedeschi, si ebbe allorché<br />

il Madruzzo agì come legato pontificio per porre rimedio al ripudio del cattolicesimo operato <strong>da</strong>ll<br />

´arcivescovo di Colonia Gebhard Truchsess von Waldburg. In tale occasione, il vescovo di Trento, specie in<br />

seguito alla dieta di Augusta del 1582, collaborò con Ernesto di Baviera per ristabilire l´unità cattolica nella<br />

zona nord-occidentale della Germania, e contribuì così in modo decisivo alla crescita della potenza<br />

bavarese.<br />

A differenza di quanto accadde per lo zio Cristoforo e per i suoi successori Carlo Gaudenzio e Carlo<br />

Emanuele, non vi sono moltissimi documenti che testimonino la passione del cardinale Ludovico Madruzzo<br />

per la collezione di oggetti antichi e di opere d´arte. E´ presumibile che anche Ludovico non avesse certo<br />

disdegnato la predisposizione al collezionismo, tipica della più classica tradizione familiare. Tuttavia, l<br />

´abbon<strong>da</strong>nza di documenti ed inventari ad elencare la ricchezza del materiale <strong>da</strong> collezione facente capo<br />

allo zio Cristoforo e al nipote Carlo Gaudenzio, fa pensare che l´inclinazione verso questo passatempo<br />

abbia rappresentato per le personalità di questi due vescovi una segno distintivo più evidente di quanto lo<br />

sia stato per Ludovico.<br />

Nel 1587 il Madruzzo prese la decisione di adibire a sacrestia del Duomo la cappelletta dedicata a San<br />

Biagio e a Santa Lucia, nella quale fu innalzato un altare in onore di San Romedio.<br />

Il sinodo del 1593 con l´istituzione del Seminario. La grande importanza che il Madruzzo attribuiva a<br />

questo progetto nella testimonianza delle ampie dotazioni previste in favore del nuovo Istituto<br />

Nel 1593 Ludovico Madruzzo promosse un sinodo diocesano, che si concluse con la promulgazione di<br />

alcune costituzioni riguar<strong>da</strong>nti la disciplina ecclesiastica e la promozione dell´attività religiosa. Tra queste<br />

spicca quella che istituì il Seminario diocesano, che si può considerare come una delle iniziative più<br />

interessanti intraprese <strong>da</strong>l vescovo. Egli aveva particolarmente a cuore l´attività di questo nuovo organismo<br />

e lo considerava come uno degli strumenti più efficienti per realizzare l´ opera di rinnovamento del clero<br />

diocesano che il Concilio di Trento aveva previsto come requi<strong>sito</strong> imprescindibile della Controriforma. E´<br />

utile ricor<strong>da</strong>re che uno dei terreni sui quali maggiormente si svolse la battaglia della Controriforma fu<br />

quello dell´istruzione: per riconquistare alla causa cattolica le regioni transalpine, che la Riforma<br />

protestante aveva in larga parte sottratto alla Chiesa, e per recuperare il prestigio di quest´ultima nell<br />

´Europa mediterranea, era necessario disporre di sacerdoti di grande preparazione e competenza. Benché<br />

fossero soprattutto i membri della Compagnia di Gesù a spiccare nell´assolvimento di questo compito,<br />

anche <strong>da</strong>gli altri Ordini del clero la Chiesa aveva preteso una radicale trasformazione culturale e<br />

moralizzatrice.<br />

Per dotare appunto il Seminario di un patrimonio, Ludovico si fece trasferire tutte le proprietà delle quali<br />

aveva goduto l´Ordine dei Crociferi, soppresso l´anno precedente <strong>da</strong>l pontefice Clemente VII, e destinò a<br />

favore del Seminario medesimo diversi priorati della diocesi. I priorati di San Martino a Trento, di Sant<br />

´Ilario a Rovereto, di San Tommaso a Riva, di Santa Brigi<strong>da</strong> nella pieve di Malè, di Santa Margherita in<br />

Val Lagarina, di Campiglio e del Tonale, nonché i benefici di San Giacomo nella pieve di Tione, di San<br />

Gallo e San Lazzaro presso la pieve di Revò, di San Daniele nella pieve di Flavon, quello di Campiglio e<br />

quello della pieve di Ledro vennero tutti assegnati in capo al Seminario di Trento, la cui gestione ed<br />

amministrazione fu affi<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l vescovo ai Chierici regolari di Somasca.<br />

88


Ludovico Madruzzo si spense a Roma il 2 aprile del 1600, al termine di un episcopato durato ventitre anni;<br />

cinque anni prima aveva provveduto a nominare quale coadiutore suo nipote Carlo Gaudenzio, che diverrà<br />

suo successore sul soglio di Trento. Venne seppellito nella cappella Madruzzo, che egli stesso aveva avuto<br />

cura di far costruire presso la chiesa di Sant´Onofrio in Roma, al momento della morte dello zio Cristoforo.<br />

Note:<br />

1. Non si <strong>tratta</strong>va della prima volta che, nel ‘500, le massime autorità europee tenevano in notevole<br />

considerazione il parere del vescovo di Trento riguardo a un problema estremamente impellente a quei<br />

tempi come la strategia politica e militare <strong>da</strong> intraprendere nei confronti della minaccia turca. Si ve<strong>da</strong>, in<br />

propo<strong>sito</strong>, il ruolo centrale ricoperto pochi decenni prima <strong>da</strong> Bernardo Clesio.<br />

Trento conciliare: fra Italia e Germania, papato e impero<br />

Dopo gli sforzi del Clesio perché Trento fosse designata quale sede del Concilio che doveva ricomporre le<br />

fratture generatesi entro la cristianità e indire un’opera di riforma <strong>da</strong> opporre alle accuse lanciate <strong>da</strong>i<br />

protestanti alla chiesa di Roma, nella dieta di Spira del 1542 tale scelta si impose sulla candi<strong>da</strong>tura di altre<br />

città dell’Italia settentrionale proposte <strong>da</strong>lla curia papale. Gli elementi che avevano fatto decidere per Trento<br />

furono essenzialmente quelli che fin <strong>da</strong>l 1524 aveva espresso Carlo V e che il cardinale Bernardo, principe<br />

tridentino, aveva calorosamente sostenuto durante il suo episcopato: l’appartenenza della città al corpo<br />

romano germanico e nello stesso tempo la sua componente italiana, il fatto di essere cioè situata alle soglie<br />

dell’impero, a stretto contatto con quella cultura tedesca entro la quale era sorta l’opposizione al papato. A<br />

questo ruolo di cerniera, riscoperto in tempi recenti, dopo la caduta dei nazionalismi, il territorio trentino fu e<br />

rimase sempre legato anche contro la sua stessa volontà, ricevendone di volta in volta, attraverso le diverse<br />

stagioni della <strong>storia</strong>, linfa culturale o motivo di contrasti etnico-politici.<br />

Dall’ingresso in città dei messi pontifici nel novembre del 1542, per prendere conoscenza dei problemi<br />

logistici legati alla prossima presenza nella piccola capitale del principato di un così numeroso e prestigioso<br />

consesso, fino all’apertura effettiva dell’assise intercorsero tre anni. Il Concilio venne infine inaugurato nel<br />

dicembre del 1545, alla presenza di una <strong>trentina</strong> di vescovi presieduti <strong>da</strong>i legati papali. Le energie che<br />

profuse il principe vescovo e <strong>da</strong> poco cardinale Cristoforo Madruzzo per accogliere gli illustri ospiti, che poi<br />

aumentarono a una settantina tra vescovi e teologi, furono molte. Quando Paolo III cogliendo l’occasione del<br />

diffondersi di un’epidemia nel marzo del 1547 spostò il Concilio a Bologna, per ricondurlo anche<br />

geograficamente sotto l’influenza papale, molti prelati rimpiansero l’ospitalità tridentina. Quanto a<br />

Cristoforo, convinto interprete del ruolo di mediatore fra Roma e l’impero, già nelle prime sedute aveva<br />

espresso convinzioni dogmatiche che lo esponevano pericolosamente <strong>da</strong>l lato dell’ortodossia e che<br />

incontrarono logicamente l’opposizione dei legati papali, in particolare di Giulio Del Monte, il futuro papa<br />

Giulio III. Una posizione politicamente e teologicamente scomo<strong>da</strong> quella di Cristoforo, aggravata <strong>da</strong>lla sua<br />

amicizia con il cardinale inglese Reginald Pole e con altri prelati che caddero poi sotto le mire<br />

dell’Inquisizione, mentre il suo segretario Jacopo Acconcio sarebbe addirittura fuggito in Svizzera<br />

abbracciando la fede riformata.<br />

In seguito alla vittoria sulla lega protestante nel 1549 a Mühlberg Carlo V, ritenendo possibile grazie al<br />

successo delle sue armi addivenire a quella ricongiunzione del corpo cristiano che egli inseguiva <strong>da</strong> tempo,<br />

fece pressione su papa Giulio III per una ripresa dei lavori conciliari nella medesima città che ne aveva<br />

ospitato la prima fase. L’assemblea che riprese i lavori a Trento nel maggio del 1551 si presentava a ranghi<br />

appena più ridotti della precedente, ma vedeva al contempo la presenza di illustri personalità, come i tre<br />

arcivescovi elettori dell’impero. Gli sforzi del cardinale tridentino per rendere gradita la permanenza alle<br />

autorità ecclesiastiche furono anche questa volta encomiabili, mentre Cristoforo in tale occasione interpretò<br />

con maggior autorevolezza il ruolo di prelato rappresentante il punto di vista imperiale, facendo inoltre <strong>da</strong><br />

tramite fra gli osservatori man<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>i principi protestanti e l’assemblea.<br />

Così come gli eventi di Germania avevano fatto riaprire sotto buoni auspici il Concilio a Trento, l’evolversi<br />

degli stessi in maniera sfavorevole a Carlo V, cioè il riaprirsi delle ostilità e il mutamento di fronte di<br />

Maurizio di Sassonia, decretò nell’aprile del 1552 quella che sembrava ormai una sua definitiva chiusura. Ci<br />

si avviava verso l’esaurimento del ‘decennio dell’imperatore’, quando i suoi progetti pacificatori e la<br />

costituzione di un impero universale cristiano erano sembrati vicini alla realizzazione. La pace di Augusta<br />

del 1555, con il suo tentativo di introdurre una norma nelle scelte religiose dei sudditi, sanciva quello che era<br />

89


un <strong>da</strong>to di fatto e cioè la definitiva scissione confessionale all’interno della compagine romano-germanica.<br />

Le mutate condizioni politiche europee e il lungo periodo di sospensione tra la secon<strong>da</strong> e la terza fase<br />

conciliare – aperta a dieci anni di distanza, nel 1562 – giustificavano il fatto che ci si fosse interrogati<br />

sull’opportunità o meno di considerare la riconvocazione dei vescovi cattolici come la prosecuzione del<br />

Concilio tridentino. Dell’ambizioso progetto di Carlo V non vi era più traccia ormai: le fedi riformate si<br />

stavano ora diffondendo ampiamente anche al di fuori dell’ambito germanico, mentre i possedimenti<br />

spagnoli e quelli imperiali erano stati divisi tra i due rami degli Asburgo. In condizioni politiche così<br />

profon<strong>da</strong>mente mutate, il vecchio interprete delle aspirazioni di Carlo V, Cristoforo Madruzzo, era ormai<br />

fuori gioco. Egli rimase a Roma lasciando al nipote Ludovico, coadiutore a Trento e per l’occasione creato<br />

cardinale, l’incombenza di accogliere i rappresentanti di una chiesa, la quale non mirava più a gua<strong>da</strong>gnare i<br />

dissidenti, ma voleva portare a compimento il dibattito in materia dogmatica e stabilire i modi e i termini di<br />

una profon<strong>da</strong> riforma del corpo cattolico.<br />

Fu in questa terza fase (1562 - 1563) che la città di Trento dovette sostenere gli oneri maggiori nel ricevere<br />

un consesso il quale vide presenti oltre duecento vescovi e una quantità di teologi e di componenti le diverse<br />

legazioni, così <strong>da</strong> far aumentare di circa duemila persone una città di poche migliaia di abitanti.<br />

I rapporti del Principato con la contea del Tirolo<br />

Le età di Massimiliano I e di Carlo V avevano visto evolversi sotto una nuova luce i rapporti tra la contea del<br />

Tirolo e il principato vescovile di Trento, il quale con la stessa – anche dopo il suo passaggio sotto casa<br />

d’Austria – vantava secoli di difficile convivenza. La stagione in cui l’impero era tornato prepotentemente e<br />

con progetti di ampio respiro al centro delle vicende europee aveva sortito l’effetto di sospendere i<br />

contenziosi in materia giurisdizionale tra i conti e i principi vescovi, mentre questi ultimi erano stati<br />

addirittura elevati a elementi-chiave della politica imperiale: a partire <strong>da</strong>l Neideck, fino alla grande figura del<br />

Cles, per giungere al ruolo di Cristoforo Madruzzo come attivo fautore dell’ambizioso disegno di Carlo V.<br />

Le scissioni religiose che avevano travolto la Germania e si trasmettevano ad altre regioni dell’Europa<br />

centrale e settentrionale e che fecero trascolorare il ‘sogno’ di un universo cristiano unito sotto lo scettro<br />

degli Asburgo produssero effetti anche nel principato tridentino. Svanito il compito di luogo di incontro in<br />

vista di una possibile pacificazione tra protestanti e cattolici esercitato <strong>da</strong>lla sua piccola capitale durante la<br />

stagione conciliare, il territorio vescovile tornava ad essere oggetto delle mire tirolesi. Le terre degli Asburgo<br />

d’Austria, ora svincolate <strong>da</strong> quelle dei cugini spagnoli, an<strong>da</strong>vano del resto ormai assumendo una<br />

connotazione propria, mentre la contea del Tirolo veniva nuovamente affi<strong>da</strong>ta a un ramo collaterale della<br />

famiglia, dopo che sotto Massimiliano e Carlo V le figure di conte e di imperatore coincidevano.<br />

Fu in questa nuova temperie, la quale con l’offuscarsi dei progetti universalistici riportava in vita i vecchi<br />

contrasti locali, che si sviluppò il lungo contenzioso giurisdizionale tra Ludovico Madruzzo e l’arciduca<br />

Ferdinando conte del Tirolo, fratello del nuovo imperatore romano-germanico Massimiliano II. Al vuoto di<br />

potere creatosi nel principato, quando Cristoforo tar<strong>da</strong>va a passare definitivamente il potere al nipote<br />

Ludovico, viene attribuita la mossa avventata di quest’ultimo appena nominato vescovo di Trento. Si trattò<br />

della firma nel 1567 di un accordo con la contea contenente clausole che pregiudicavano l’autonomia del<br />

principato e la sua appartenenza diretta (unmittelbar, immediata) all’impero, per farne un territorio ‘mediato’<br />

(mittelbar), cioè inserito sempre nella compagine romano-germanica ma indirettamente, in quanto<br />

dipendente principalmente <strong>da</strong>l conte del Tirolo. Il tardivo recedere di Ludovico Madruzzo <strong>da</strong>gli impegni<br />

presi, avvalendosi del fatto che per decisioni di tal genere necessitava l’assenso dell’intero corpo germanico,<br />

diedero luogo al sequestro del principato, operato <strong>da</strong>ll’imperatore Massimiliano, mentre di fronte alle<br />

minacce tirolesi i canonici e il vescovo riparavano a Riva del Gar<strong>da</strong> e quest’ultimo si portava poi a Roma.<br />

Non mancarono alla grande personalità di Ludovico, grazie al ruolo <strong>da</strong> lui ricoperto nella curia romana, né<br />

l’appoggio papale, né quello di Filippo II di Spagna. Dopo la cosiddetta "Notula spirense" (l’accordo in<br />

merito alla vertenza tridentina raggiunto alla dieta di Spira nel 1571) fu la denuncia inoltrata contro<br />

l’imperatore <strong>da</strong>l duca di Baviera nella dieta di Ratisbona del 1576 ad accelerare la soluzione della questione:<br />

due anni dopo Ludovico poté infatti assumere il governo temporale del principato di Trento mantenendo<br />

illesi i diritti di quest’ultimo.<br />

Nel 1595, alla morte dell’arciduca Ferdinando del Tirolo, la contea venne amministrata per alcuni anni<br />

<strong>da</strong>ll’imperatore Rodolfo II, per passare poi sotto la reggenza dell’arciduca Massimiliano Gran Maestro<br />

dell’Ordine Teutonico. Essendo quest’ultimo un religioso e non potendo <strong>da</strong>r luogo a una stirpe, nel 1619 il<br />

Tirolo passò all’arciduca Leopoldo, fratello dell’allora imperatore Ferdinando II. Anni turbolenti per i<br />

principati vescovili di Bressanone e di Trento (ma in particolare per quest’ultimo) rappresentò il periodo di<br />

90


eggenza dell’arciduchessa Claudia de’ Medici, contessa del Tirolo e vedova di Leopoldo. Con i figli di<br />

quest’ultima, Ferdinando Carlo e Sigismondo Francesco, morti senza lasciare prole, si estinse il ramo tirolese<br />

degli Asburgo e la contea <strong>da</strong> quel momento ritornò definitivamente all’arciduca d’Austria e sacro romano<br />

imperatore<br />

Durante la prima metà del Seicento anche in Tirolo pesò l’ombra minacciosa della guerra dei Trent’anni,<br />

mentre le vicende politiche interne furono soprattutto caratterizzate <strong>da</strong>gli attriti tra gli Asburgo e i ‘ceti’<br />

(Stände) della regione per ottenere sovvenzioni atte a far fronte ai pressanti impegni bellici. I due principati<br />

vescovili che coprivano una parte del territorio, i quali erano legati alla contea per quanto riguar<strong>da</strong>va la<br />

difesa comune ancora <strong>da</strong>l Libello del 1511, non rimasero esenti <strong>da</strong> tali vertenze. Essi si aggrapparono<br />

all’antico <strong>tratta</strong>to e procrastinarono finché fu loro possibile un innalzamento degli oneri contributivi,<br />

provocando la reazione dei conti del Tirolo. Questi ultimi intravidero la soluzione ai dinieghi vescovili<br />

tridentini in materia fiscale cercando di raggiungere l’obiettivo che non era riuscito a Ferdinando durante il<br />

vescovato di Ludovico Madruzzo: rendere il principato dipendente direttamente <strong>da</strong>lla contea e inserirlo nella<br />

dieta del paese insieme agli altri ‘ceti’, come suddito e non più come membro esterno. Se l’opposizione dei<br />

messi tridentini alla dieta, pur biasimata, riuscì sotto l’arciduca e conte del Tirolo Leopoldo, crollò durante la<br />

reggenza dell’energica Claudia de Medici. Quest’ultima, dura verso gli stessi propri ‘ceti’ provinciali per la<br />

troppa parsimonia con cui concedevano le contribuzioni, nel 1632, mentre le truppe protestanti svedesi<br />

minacciavano per la secon<strong>da</strong> volta le frontiere settentrionali del Tirolo, spedì i propri sol<strong>da</strong>ti a Trento per<br />

obbligare il vescovo Carlo Emanuele Madruzzo ad adeguarsi alle richieste fiscali e in particolare al<br />

pagamento di una tassa vinaria. Dopo complicate <strong>tratta</strong>tive condotte alla dieta dell’impero di Ratisbona e con<br />

l’aiuto di papa Urbano VIII, si giunse a un compromesso rispetto alla faccen<strong>da</strong> delle contribuzioni. Ma la<br />

sanzione ultima dei diritti del principato tridentino a conservare il proprio ruolo di organo direttamente<br />

dipendente <strong>da</strong>l corpo romano-germanico, evitando dunque di essere incluso nella contea, avvenne oltre la<br />

metà del secolo. Quando le pretese dell’arciduchessa Claudia vennero rinnovate <strong>da</strong>l figlio Ferdinando Carlo,<br />

succedutole nel 1646, il problema giunse addirittura sul tavolo delle <strong>tratta</strong>tive condotte per la pace Westfalia.<br />

Nel 1649 il collegio dei principi elettori dell’impero si espresse in favore dei diritti di Trento e Bressanone,<br />

ma l’imperatore Ferdinando III non diede risposta. Benché i due vescovi, pur dietro accomo<strong>da</strong>menti in<br />

materia contributiva, di fatto rimanessero illesi nella loro condizione di principi dell’impero, la questione nel<br />

suo profondo rimase irrisolta. Carente fu anche la cosiddetta Transazione del 1662, stipulata tra la contea del<br />

Tirolo e l’allora principe tridentino Sigismondo Francesco d’Asburgo, che intendeva regolare questa e una<br />

serie di altre questioni <strong>da</strong> tempo in sospeso.<br />

Barocco tridentino di Mauro Nequirito<br />

La controriforma nella diocesi di Trento<br />

Con la visita pastorale nella diocesi tridentina condotta, in parte anche personalmente, <strong>da</strong> Ludovico<br />

Madruzzo negli anni 1579 - 1581, si ebbe la prima applicazione in regione degli indirizzi conciliari. Tale<br />

iniziativa <strong>da</strong> parte di un vescovo del quale fu apprezzata durante lo stesso Concilio la preparazione teologica<br />

e che poi rivestì compiti così determinanti per la riforma cattolica nelle terre germaniche non poteva non<br />

assumere un significato centrale per la vita religiosa nell’episcopato. Certamente fu forte lo zelo con il quale<br />

Ludovico mise in pratica i dettami conciliari nelle terre affi<strong>da</strong>te alle sue dirette cure spirituali, tanto più in<br />

quanto la visita pastorale iniziò non appena egli poté ritornare a Trento in veste di principe dopo la forzata<br />

assenza decennale. Nel 1590 egli consegnò alla Sacra Congregazione del Concilio la prima relazione sullo<br />

stato della diocesi di Trento. Nel 1593 eresse un seminario vescovile a norma delle prescrizioni conciliari e<br />

nello stesso anno indisse un sinodo diocesano, il quale elaborò norme per la disciplina ecclesiastica che<br />

furono poi pubblicate a stampa.<br />

Scarse sono le notizie sull’azione esercitata <strong>da</strong>i due ultimi vescovi Madruzzo nell’ambito della vita spirituale<br />

della diocesi. Colui al quale appare essere stata maggiormente legata la successiva fase del processo di<br />

adeguamento in senso controriformista della chiesa tridentina fu Pietro Belli, vicario generale e suffraganeo<br />

di Carlo Gaudenzio Madruzzo, attivo <strong>da</strong>l 1613 al 1630, il quale assunse su di sé i compiti pastorali cui il<br />

vescovo non poteva adempiere a causa delle proprie assenze. Anche per quanto riguar<strong>da</strong> le amministrazioni<br />

vescovili successive sarebbero necessarie in<strong>da</strong>gini approfondite sull’aspetto del loro governo spirituale;<br />

soprattutto manca un quadro generale sullo stato del clero parrocchiale, quello più a stretto contatto con le<br />

popolazioni, il quale avrebbe dovuto farsi carico della trasmissione del moto di rinnovamento ecclesiale.<br />

Certo è che le norme prescritte <strong>da</strong>l Concilio contro l’accumulo delle cariche e delle rendite ecclesiastiche <strong>da</strong><br />

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parte degli alti prelati spesso non vennero rispettate, mentre le dignità canonicali e vescovili furono ancora<br />

oggetto di strategie familiari e politiche. Un esempio per tutti, quello dell’arciduca e conte del Tirolo<br />

Leopoldo d’Asburgo, il quale, prima dell’abbandono della carriera ecclesiastica, fu canonico a Colonia e a<br />

Costanza e vescovo di Passavia e di Strasburgo. Il figlio Sigismondo Francesco poté vantare addirittura la<br />

presenza in otto capitoli dell’impero: a Colonia, Bressanone, Augusta (qui anche coadiutore con diritto di<br />

successione), Passavia, Trento (qui pure fornito della coadiutorìa), Salisburgo, Treviri e Strasburgo. Prima di<br />

essere nominato vescovo a Trento quale successore di Carlo Emanuele Madruzzo, gli era inoltre già stato<br />

conferito il vescovato di Gurk.<br />

Centrale fu l’influenza religiosa lungo tutto il Seicento nella vita delle popolazioni e in particolare nelle<br />

manifestazioni pubbliche. In un principato ecclesiastico come quello di Trento essa si manifestò con<br />

particolare evidenza anche in virtù del fatto che il potere spirituale e il potere temporale si trovavano riuniti<br />

in una sola figura, quella del principe vescovo, concorrendo l’un elemento all’elevazione dell’altro. In tal<br />

modo le espressioni esteriori del culto con la loro magnificenza <strong>da</strong>vano lustro anche agli emergenti poteri<br />

assolutistici, che attecchirono anche a Trento grazie al potenziamento dell’autorità principesco-vescovile nel<br />

periodo della Controriforma. Ciò si manifestò con evidenza sotto Carlo Gaudenzio Madruzzo, personalità<br />

energica e accentratrice, che regolò <strong>da</strong> pari a pari alcune pendenze con la contea del Tirolo e durante il cui<br />

governo non vi era ancora sentore della crisi che di lì a qualche decennio avrebbe dovuto affrontare il nipote.<br />

Un ruolo fon<strong>da</strong>mentale nella diffusione dei princìpi di una fede rinnovata, ma altresì pervasa <strong>da</strong>lla presenza<br />

dei temi del peccato, della penitenza e della morte, fu svolto <strong>da</strong>lla fioritura di ordini religiosi verificatasi<br />

anche in un’area come quella tridentina, dove l’autorità principesco-vescovile in passato aveva impedito<br />

l’affermarsi di un forte potere del clero regolare. Qui crebbero le presenze dei francescani, vi si aggiunsero<br />

quelle dei cappuccini, dei carmelitani e quella determinante dell’ordine che impresse il suo marchio alla<br />

Controriforma, i gesuiti. Anche gli ordini femminili ricevettero impulso: grandi furono le energie impiegate<br />

in questa direzione <strong>da</strong>lla beata Giovanna Maria della Croce, mistica roveretana che diffuse l’ordine delle<br />

clarisse mediante la fon<strong>da</strong>zione di conventi in regione e ai cui consigli, anche nella sfera politica, ricorsero i<br />

potenti del tempo.<br />

Ma la troppa insistenza sugli aspetti emozionali nel tentativo di carpire al popolo sentimenti di religiosità,<br />

oltre al continuo richiamo alla presenza delle forze del male, su cui faceva leva l’azione dei predicatori, fece<br />

sì che la tradizionale superstizione delle popolazioni montane, innestatasi sui temi rivisitati e accentuati<br />

dell’angoscia del peccato e della minaccia alla fede cattolica, spesso prendesse il sopravvento. Così ai roghi<br />

di Fié e della Val di Fiemme, che ancora nel secolo precedente avevano avvolto povere donne emarginate o<br />

in pre<strong>da</strong> a disturbi psicologici, contro le quali si erano scatenati i rancori e le inquietudini delle comunità<br />

locali, si an<strong>da</strong>rono ad aggiungere i processi per stregoneria secenteschi: quello della Val di Non, svoltosi<br />

durante il governo di Carlo Gaudenzio Madruzzo, che portò a dieci con<strong>da</strong>nne a morte, e quello avvenuto<br />

sotto Carlo Emanuele in Val Lagarina nei feudi dei conti Lodron, che fece cinque vittime. Una piaga questa,<br />

che si sarebbe pro<strong>tratta</strong> fino ai primi decenni del Settecento, quando ebbero luogo le ultime con<strong>da</strong>nne per<br />

stregoneria nella parte meridionale del territorio trentino, cui avrebbe fatto eco di lì a poco la denuncia di<br />

Girolamo Tartarotti contro tale barbarie.<br />

L’ordine religioso più rappresentativo della sensibilità controriformista e soprattutto quello dotato della<br />

maggiore capacità di diffusione della stessa, attraverso i compiti <strong>da</strong> esso svolti nell’educazione e nella<br />

formazione delle classi dirigenti del tempo, fu quello dei gesuiti. Il potere che essi accumularono nel corso<br />

del tempo e che fu una delle cause della loro crisi ed esautorazione nel Settecento, fu probabilmente il<br />

motivo per cui la loro venuta a Trento, su desiderio dei consoli cittadini per impiantarvi uno dei collegi allora<br />

in auge, venne a lungo osteggiato <strong>da</strong> Carlo Gaudenzio Madruzzo. Nel 1625, grazie alle proteste consolari<br />

inoltrate al conte del Tirolo e allo stesso imperatore, i gesuiti poterono infine insediarsi in città ufficialmente:<br />

vi sarebbero rimasti fino al 1773, anno della loro soppressione, e sotto di loro si sarebbero formati, anche a<br />

Trento come ovunque essi dispiegarono la loro attività pe<strong>da</strong>gogica, i migliori intellettuali trentini.<br />

La vita culturale e la festa barocca<br />

All’interno della fioritura accademica verificatasi in Italia durante il Seicento ebbe un suo posto anche<br />

l’Accademia degli Accesi, fon<strong>da</strong>ta nel 1629 a Trento sotto il patrocinio di Carlo Emanuele Madruzzo e<br />

peraltro subito cessata a causa della pestilenza. Una vita stentata quella del so<strong>da</strong>lizio letterario tridentino, con<br />

qualche sporadica apparizione nel 1648, una sorta di rifon<strong>da</strong>zione nel 1671, scarsamente coronata <strong>da</strong><br />

successo, e un graduale spegnimento nei primi decenni del Settecento, seguito <strong>da</strong> un inutile tentativo di<br />

ripresa nel 1761. Il vuoto verseggiare degli Accesi, il loro motto pretenzioso (Fit aemula motu), i velleitari<br />

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pseudonimi dei membri, l’ostentata celebrazione del nume tutelare, il principe, tutto ciò poneva l’accademia<br />

<strong>trentina</strong> sullo stesso piano delle numerose sorelle nate in quel tempo in Italia, <strong>da</strong>lle quali oggi la ricerca<br />

storica è at<strong>tratta</strong>, piuttosto che non per l’artificiosa e troppo concettuosa loro produzione letteraria, per il<br />

significato sociale che rivestiva in quell’epoca una così diffusa urgenza associativa.<br />

Un posto certamente di maggior rilievo, rispetto a queste<br />

espressioni che caratterizzarono fortemente l’epoca, ma<br />

che lasciarono altrettanto debole traccia, merita l’opera<br />

di Michel’Angelo Mariani (Trento con il Sacro<br />

Concilio), pubblicata nel 1673. Comunque indice di un<br />

gusto letterario tipico del tempo, volto a sorprendere e a<br />

suscitare meraviglia con scopi moralistici ed edificanti, il<br />

lavoro del Mariani è tuttavia anche una preziosa<br />

testimonianza sulla realtà del territorio tridentino di<br />

allora, essendosi dedicato l’autore non solo alla<br />

descrizione della città, ma anche di molti luoghi del<br />

vescovato, <strong>da</strong>l punto di vista storico, economico,<br />

artistico e del costume.<br />

Assieme alle recite funebri o lau<strong>da</strong>tive degli Accesi,<br />

protagoniste della stagione barocca a Trento furono<br />

anche le rappresentazioni teatrali organizzate <strong>da</strong>i gesuiti<br />

nell’ambito del loro collegio, ma offerte anche al<br />

pubblico esterno, le quali erano per lo più ispirate a<br />

soggetti religiosi o mitologici rivisitati in senso cristiano.<br />

Esse pure erano basate su quegli effetti scenografici che<br />

connotarono in generale le espressioni artistiche<br />

barocche, dopo la fase più rigorosa e repressiva che<br />

aveva contraddistinto i primi tempi della Controriforma.<br />

Ma ciò che maggiormente sintetizza il gusto per le cose sorprendenti e atte a suscitare forti emozioni furono<br />

le complesse scenografie allestite nelle strade della città per accogliere i personaggi illustri che vi<br />

giungevano come ospiti della corte vescovile, eventi la cui frequenza concorse ad attribuire a Trento il titolo<br />

di città perennemente in festa. Gli archi di trionfo posti alle porte della città ad accogliere gli insigni visitatori<br />

erano costruiti con materiali versatili, duttili e facilmente riciclabili (<strong>da</strong> cui il termine di ‘apparati effimeri’),<br />

a opera di artisti impegnati anche nelle arti maggiori, che potevano qui sperimentare soluzioni nuove. Ma<br />

anche le altre feste profane mettevano in mostra effetti così spettacolari e stupefacenti che il popolo, non più<br />

protagonista dei divertimenti come nell’età medievale, non poteva fare altro che contemplare smarrito,<br />

ignaro inoltre dei significati allegorici reconditi che gli apparati allestiti erano in grado di trasmettere solo a<br />

un pubblico colto. Tra le feste organizzate in onore dei numerosissimi ospiti della corte vescovile, l’apice<br />

nello sfarzo e nell’inventiva di coloro cui ne veniva affi<strong>da</strong>ta la riuscita, fu probabilmente raggiunto <strong>da</strong>gli<br />

intrattenimenti – descritti particolareggiatamente <strong>da</strong>l Mariani – allestiti in occasione della lunga permanenza<br />

a Trento, negli anni 1648 - 1649, dei figli dell’imperatore Ferdinando III, Ferdinando IV d’Asburgo re<br />

d’Ungheria e la sorella Maria Anna, futura sposa di Filippo IV di Spagna.<br />

Non <strong>da</strong> meno nel coinvolgere e nell’emozionare il popolo furono le coreografie che caratterizzavano le<br />

manifestazioni collettive della vita religiosa, quali le imponenti processioni (quella in onore del martire<br />

Simonino ad esempio) o le celebrazioni legate all’anno liturgico (in particolare le sacre rappresentazioni<br />

della Settimana Santa). Perfino le esequie di personaggi illustri diventavano occasione di ostentazione della<br />

potenza della chiesa attraverso un fastoso quanto rigoroso cerimoniale: come ad esempio in occasione del<br />

rito funebre per il generale delle armate imperiali Mattia Galasso, nel 1647 o, a conclusione dello splendido<br />

secolo madruzziano, la fastosa cerimonia allestita alla morte di Carlo Emanuele Madruzzo nel 1658.<br />

Ma proprio questi anni connotati <strong>da</strong>llo magnificenza della corte vescovile e <strong>da</strong>lla splendi<strong>da</strong> ospitalità dei suoi<br />

principi segnavano al contempo la progressiva decadenza di un grande casato, quello dei Madruzzo, e<br />

l’ingresso anche per il territorio tridentino in un periodo di crisi economica che avrebbe segnato per decenni<br />

vaste aree dell’Europa cattolica.<br />

Martino Martini<br />

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Martino Martini S.J. nasce a Trento il 20 settembre 1614 in una famiglia di mercanti. A 18 anni si<br />

trasferisce a Roma ed entra nel Collegio Romano (l'attuale Pontificia Università Gregoriana) per diventare<br />

gesuita.<br />

Nel marzo del 1640 salpa <strong>da</strong> Lisbona con 24 confratelli alIa volta delle Indie orientali. Tocca in successione<br />

Goa, in India, e Macao, in Cina. Nell'ottobre 1643 si stabilisce ad Hangzhou, prov. Zhejiang, dove inizia la<br />

sua attività missionaria, mentre il Paese è sconvolto <strong>da</strong>lla guerra fra la dinastia autoctona dei Ming e quella<br />

tartara dei Qing.<br />

A seguito di spostamenti dettati <strong>da</strong>i suoi superiori visita alcune province della Cina lungo il Canale<br />

Imperiale, acquisendo un profon<strong>da</strong> conoscenza della geografia, dell'economia e della popolazione di quel<br />

grande Paese. Nel 1651 parte per raggiungere Roma in qualità di procuratore della missione, ma la nave<br />

sulla quale si era imbarcato dopo quasi un anno di attesa nelle Filippine, viene catturata <strong>da</strong>gli olandesi, che<br />

lo trattengono a Batavia (Giacarta) per altri otto mesi. Nel settembre del 1653 sbarca a Bergen, in Norvegia,<br />

<strong>da</strong> dove prosegue alla volta di Amburgo, Amster<strong>da</strong>m, Anversa e Bruxelles. Nel marzo del 1654 ad<br />

Anversa<strong>da</strong>ll'editore B. Moret viene pubblicata la De Bello Tartarico Hi<strong>storia</strong>, che riscosse un successo<br />

straordinario. In quel anno si ebbero quattro edizioni del testo latino e cinque traduzioni (tedesca, italiana,<br />

francese, inglese e olandese). Nella secon<strong>da</strong> metà del 1655, ad Amster<strong>da</strong>m presso l'editore J. Blaeu, viene<br />

<strong>da</strong>to alle stampe il Novus Atlas Sinensis, che oggi è presentato per la prima volta interamente tradotto in<br />

italiano e corre<strong>da</strong>to <strong>da</strong> due indici di caratteri cinesi.<br />

Giunto a Roma nell'ottobre 1654, Martini affi<strong>da</strong> all'editore I. de Lazzeris la stampa della Brevis Relativo de<br />

Numero et Qualitate Christianorum apud Sinas.<br />

Davanti al Santo Ufficio sostiene la legittimità dei riti confuciani cinesi, ottenendo l'avvallo della<br />

Congregazione Propagan<strong>da</strong> Fide col decreto di papa Alessandro VII del 23 marzo 1656.<br />

Salpa <strong>da</strong> Lisbona alIa volta della Cina il 4 aprile 1657, con altri 16 gesuiti e rientra ad Hangzhou nel giugno<br />

del 1659, dopo un viaggio reso drammatico a causa di un attacco pirata, terribili tempeste e una grave<br />

epidemia a bordo che non risparmia il missionario trentino.<br />

Mentre Martini era ancora in viaggio, a Monaco di Baviera, i suoi confratelli fecero pubblicare (1658)<br />

<strong>da</strong>ll'editore L. Straub la Sinicae Hi<strong>storia</strong>e Decas Prima, in lingua latina. Ricordiamo il grande prestigio che<br />

in Europa ebbe la Grammatica Sinica del Martini, testo base per i sinologi deI Nord Europa, rimasto<br />

manoscritto.<br />

Postumo fu pubblicato in lingua cinese il Trattato sull'Amicizia.<br />

M. Martini muore il 6 giugno 1661, a seguito di una breve malattia, dopo essere riuscito a completare la<br />

costruzione della più grande chiesa cristiana della Cina. Oggi Ie sue spoglie riposano in un mausoleo presso<br />

la città di Hangzhou.<br />

I governi vescovili<br />

Nel 1659 casa d’Austria riusciva a insediare uno dei propri membri al governo del principato vescovile di<br />

Trento: si <strong>tratta</strong>va di Sigismondo Francesco, appartenente al ramo tirolese degli Asburgo, figlio di Claudia<br />

de’ Medici e fratello di Ferdinando Carlo, conte del Tirolo. Probabilmente a causa della mancata osservanza<br />

dei princìpi stabiliti <strong>da</strong>l Concilio di Trento i quali vietavano l’accumulo delle cariche, oltre che delle<br />

tradizionali vertenze sostenute <strong>da</strong>l casato tirolese con la chiesa di Trento, papa Alessandro VI rifiutò di<br />

confermare il neoeletto, scelto <strong>da</strong>l capitolo tridentino ma già dotato di cariche ecclesiastiche, essendo<br />

vescovo di Augusta e di Gurk, inoltre senza nemmeno essere stato consacrato. Sigismondo Francesco<br />

d’Asburgo dunque rimase per Trento un amministratore, investito del titolo di principe e dei diritti temporali<br />

<strong>da</strong>l cugino, l’imperatore Leopoldo I, ma non un presule secondo lo spirito del Concilio tridentino.<br />

Regolarizzata successivamente la propria posizione <strong>da</strong>l punto di vista spirituale, volle però abbandonare il<br />

principato e lo stato religioso per assumere la gui<strong>da</strong> della contea del Tirolo e garantire la discendenza che<br />

mancava al fratello Ferdinando Carlo. La morte anzitempo di quest’ultimo, nel 1662, accelerò tale decisione,<br />

ma tre anni dopo, mentre attendeva la promessa sposa a Innsbruck, cessò di vivere anche Sigismondo<br />

Francesco.<br />

A lui è legata la stipulazione della cosiddetta Transazione del 1662, siglata prima di lasciare Trento e avente<br />

lo scopo di dirimere alcune annose divergenze tra il principato e la contea del Tirolo. Si <strong>tratta</strong>va di<br />

contenziosi che riguar<strong>da</strong>vano sia il governo spirituale della diocesi (per gli ambiti di questa che facevano<br />

parte della contea), che quello politico del principato, per le interferenze che il conte vantava in certe materie<br />

di governo nei confronti del vescovo tridentino. In realtà alcuni contrasti, come ad esempio quelli<br />

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nell’ambito fiscale e militare e quello riguar<strong>da</strong>nte le competenze del capitano della città di Trento nominato<br />

<strong>da</strong>l conte del Tirolo, si riaprirono a breve termine e dovettero essere risolti di volta in volta tramite accordi<br />

fra le due parti.<br />

Breve fu il governo del successore, il cardinale Ernesto A<strong>da</strong>lberto Harrach (1665 - 1667), il quale era al<br />

contempo arcivescovo di Praga. Impegnato nell’opera di ricattolicizzazione della Boemia dopo la guerra dei<br />

Trent’anni, egli fu inoltre raramente presente a Trento, viaggiando spesso tra i territori di casa d’Austria e<br />

Roma; morì proprio nel corso di un viaggio che lo riportava <strong>da</strong>lla corte papale a Vienna. Fu l’ultimo vescovo<br />

tridentino a non appartenere a casati nobiliari della regione.<br />

Sigismondo Alfonso Thun, che era già vescovo di Bressanone, venne eletto a Trento nel 1668. Col capitolo<br />

brissinese egli ebbe scontri a causa del suo procedere deciso e autoritario, mentre cercò di salvaguar<strong>da</strong>re<br />

l’autonomia del vescovato nei confronti della contea del Tirolo. Una certa opposizione egli incontrò anche a<br />

Trento <strong>da</strong> parte degli ambienti che pretendevano di condizionare il governo vescovile. Le fonti lo descrivono<br />

come un vescovo energico, teso a risollevare il principato <strong>da</strong>lla crisi economica in cui si dibatteva <strong>da</strong> decenni<br />

e impegnato anche sul versante spirituale, secondo lo spirito conciliare. Dopo Sigismondo Alfonso, morto<br />

nel 1677, saranno altri tre i Thun a salire alla cattedra vescovile tridentina. Originari della Val di Non dove<br />

possedevano castelli e numerosi diritti, i Thun furono uno dei casati più influenti dei territori asburgici; un<br />

ramo della famiglia estese il proprio potere fino in Boemia.<br />

Con Francesco Alberti Poja (1677 - 1689) fece invece per la prima volta la propria comparsa alla gui<strong>da</strong> del<br />

principato un potente casato cittadino, mentre anche i canonici che costituivano il capitolo ormai avevano per<br />

lo più provenienza solo regionale. La carriera ecclesiastica di Francesco Alberti Poja, giunto ormai anziano<br />

al soglio vescovile, si era sviluppata completamente in ambito locale. Anche di lui le fonti a nostra<br />

disposizione parlano come di un vescovo impegnato nel risanamento delle finanze del principato. Il suo<br />

governo fu altresì caratterizzato <strong>da</strong> considerevoli interventi architettonici, operati nei due più importanti<br />

monumenti cittadini: al castello del Buon Consiglio la giunta (che prese appunto il suo nome), la quale<br />

collegava il Magno Palazzo clesiano con il Castelvecchio, in duomo la Cappella del Crocefisso.<br />

Il potere che avevano ormai assunto alcuni ceppi cittadini, i quali quanto a mezzi economici non erano<br />

inferiori, almeno nella piccola capitale del principato, alle famiglie dell’antica nobiltà trentino-tirolese (cui<br />

appartenevano ad esempio i Thun, i Lodron, gli Spaur, i Trapp), venne confermato <strong>da</strong>ll’elezione nel 1689 di<br />

Giuseppe Vittorio Alberti d’Enno. Anche in questo caso un’amministrazione equilibrata ed economicamente<br />

accorta sembra aver caratterizzato questa figura vescovile. Non fu invece esente il suo governo <strong>da</strong>lle<br />

pressioni dell’imperatore Leopoldo I che, in quanto detentore anche del titolo di conte del Tirolo (dopo<br />

l’estinzione degli Asburgo tirolesi), pretendeva una maggiore adesione dei vescovati posti sotto la propria<br />

influenza soprattutto alle richieste in materia fiscale.<br />

L’identità tra la figura dell’imperatore e quella del conte del Tirolo causò per i vescovi tridentini della<br />

secon<strong>da</strong> metà del Seicento dissensi anche riguardo al cerimoniale, in quanto Leopoldo I tentò di mutare il<br />

giuramento di fedeltà prestatogli <strong>da</strong> ogni vescovo neoeletto come imperatore, in giuramento di fedeltà come<br />

conte. Essendo quest’ultimo gerarchicamente inferiore al principe tridentino (anche se di fatto più potente),<br />

giurare a lui avrebbe significato la perdita di autonomia del principato e la sua completa sottomissione alla<br />

contea. Un’altra vertenza mai sopita in quegli anni fu rappresentata <strong>da</strong>l tentativo del conte-imperatore di<br />

amministrare il principato nel periodo di sede vacante, cioè <strong>da</strong>lla morte di un vescovo alla nomina del<br />

successore, diritto che nei principati ecclesiastici dell’impero romano germanico apparteneva ai rispettivi<br />

capitoli e che anche a Trento veniva rivendicato <strong>da</strong>i canonici. L’adesione alle pressanti richieste fiscali di<br />

Leopoldo, inoltrate ai vescovati per sostenere le spese militari, spesso risolse momentaneamente i motivi di<br />

contenzioso sopra accennati. Così fece ad esempio anche l’Alberti d’Enno, che contribuì alle finanze<br />

asburgiche con 10000 fiorini, mentre già il suo predecessore, Francesco Alberti Poja, aveva estinto<br />

inadempienze fiscali e versato all’imperatore 2000 fiorini per la guerra contro i Turchi.<br />

La contea del Tirolo nella secon<strong>da</strong> metà del Seicento<br />

Dopo la fine della guerra dei Trent’anni e l’estinguersi dei motivi religiosi come causa primaria di<br />

contenzioso nell’ambito europeo, per l’imperatore Leopoldo I prese corpo, parallelamente all’assunzione di<br />

una più marcata individualità dei territori asburgici, la necessità di operare una maggior connessione fra gli<br />

stessi. Le province di casa d’Austria infatti godevano di differenti leggi e amministrazioni, essendo state<br />

ottenute <strong>da</strong>gli Asburgo per lo più mediante una accorta politica matrimoniale e semplicemente aggregate alle<br />

altre terre della corona, mantenendole nei loro antichi diritti e costituzioni locali (vedi l’esempio della<br />

cinquecentesca Landesordnung tirolese, la legge fon<strong>da</strong>mentale del paese). Si era dunque in presenza di un<br />

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modello pre-statale, caratterizzato inoltre <strong>da</strong>lla realtà del cosiddetto ‘stato per ceti’, entro il quale grande<br />

autorità era conferita alle diete regionali, sorta di parlamenti in cui presenziavano i rappresentanti delle classi<br />

ai vertici della gerarchia politica e sociale: il clero e la nobiltà, cui si era poi aggiunta la borghesia delle città<br />

e, in Tirolo, gli abitanti delle vallate. In tale sistema il sovrano era dotato di scarso potere effettivo, dovendo<br />

costantemente scendere a patti con i suoi ‘ceti’ (Stände), soprattutto per ottenere i finanziamenti necessari ai<br />

propri progetti e in particolare alle campagne militari.<br />

Leopoldo I cercò di superare in parte questa organizzazione disarticolata costituendo e rafforzando una serie<br />

di organi centrali che in futuro avrebbero posto le basi per la costituzione di una compagine statale più<br />

moderna: la camera di corte (Hofkammer), il consiglio di guerra di corte (Hofkriegsrat), la cancelleria di<br />

corte (Hofkanzlei), il consiglio segreto (Geheimes Rat). Un programma questo, che sarebbe stato realizzato<br />

però solo nella secon<strong>da</strong> metà del Settecento, sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Per la contea del Tirolo il<br />

passaggio sotto il dominio diretto dell’arciduca d’Austria e imperatore romano germanico sembrò all’inizio<br />

una mera questione dinastica. In realtà, <strong>da</strong> un lato ciò an<strong>da</strong>va a privare Innsbruck del suo ruolo di piccola<br />

corte, <strong>da</strong>ll’altro lo stesso Tirolo sarebbe stato chiamato a collaborare direttamente e anche in termini<br />

economici a disegni più vasti come erano quelli imperiali.<br />

Furono in particolare i motivi militari a costituire un primo fattore aggregante per i territori della monarchia<br />

asburgica nella secon<strong>da</strong> metà del Seicento, in quanto questi ultimi dovettero contribuire alla difesa comune<br />

essendo minacciati su due fronti: a est <strong>da</strong>l pericolo turco, a ovest <strong>da</strong>lle mire egemoniche francesi. Solo per<br />

citare qualche evento: nel 1672 la Renania divenne teatro di guerra e le truppe di Luigi XIV minacciarono le<br />

terre asburgiche occidentali, nel 1678 i francesi giunsero a Friburgo, nel 1682 i Turchi si portarono fin sotto<br />

le mura di Vienna. Nonostante i ‘ceti’ delle diverse province cercassero di opporsi alla concessione di<br />

contribuzioni fino all’appressarsi del pericolo, poco per volta l’imperatore, anche a causa della gravità della<br />

situazione, riuscì ad avere ragione del loro ostruzionismo.<br />

Le motivazioni finanziarie di carattere militare furono anche quelle che causarono i grandi attriti di casa<br />

d’Austria con i due vescovati di Trento e Bressanone. Questi ultimi ribadirono il proprio ruolo di membri<br />

aggregati alla dieta tirolese solo per le questioni della difesa comune e inoltre vollero che la quota<br />

contributiva rimanesse quella stabilita <strong>da</strong>ll’antico Libello del 1511. In taluni casi però i due principati<br />

ecclesiastici dovettero cedere alle pressioni del conte-imperatore, come dopo il sequestro dei beni vescovili<br />

tridentini in terra tirolese attuato nel 1673. La Transazione del 1662, stipulata <strong>da</strong> un Asburgo con la contea in<br />

nome del principato vescovile, fu dunque ben lungi <strong>da</strong>ll’aver risolto i numerosi attriti nell’intricata materia<br />

giurisdizionale del tempo.<br />

Il Settecento: l'età delle riforme e la fine dell'antico regime di Mauro Nequirito<br />

Gli Asburgo, l'impero, il principato<br />

Il XVIII secolo si aprì con un grande conflitto che coinvolse i maggiori stati europei e del quale subì le<br />

conseguenze anche il territorio trentino. La guerra di successione spagnola (1700 - 1714) - sul trono<br />

dell’ultimo Asburgo di Spagna, Carlo II, rimasto senza eredi, si lanciarono pretendenti francesi, austriaci,<br />

bavaresi - vide nel settembre 1703, durante il vescovato di Giovanni Michele Spaur, l’assedio di Trento <strong>da</strong><br />

parte del generale Vendôme, diretto a nord per congiungere le proprie truppe a quelle bavaresi. Dal Dos<br />

Trento la città subì un bombar<strong>da</strong>mento che le inferse notevoli ferite, anche se le truppe francesi<br />

abbandonarono di lì a poco le loro postazioni retrocedendo e rinunciando alla marcia attraverso il Tirolo.<br />

Il 1713 segnò un avvenimento di centrale importanza per i territori ereditari asburgici e quindi,<br />

indirettamente e negli anni a venire, anche per i principati vescovili che, come Trento, gravitavano nella sfera<br />

di influenza di casa d’Austria. L’imperatore Carlo VI, attraverso la «Prammatica sanzione», volle assicurare<br />

la successione al trono alla figlia primogenita Maria Teresa, facendo sì che divenisse l’unica erede dei<br />

territori della monarchia. Tale atto, che sancì l’indivisibilità delle terre della corona (fino ad allora le diverse<br />

province erano state spesso affi<strong>da</strong>te a rami collaterali del casato), richiese qualche decennio per essere<br />

accettato e sottoscritto <strong>da</strong>gli altri stati europei, molti dei quali avrebbero potuto altrimenti vantare diritti sui<br />

domini asburgici. Tuttavia ciò non tutelò a sufficienza Maria Teresa quando nel 1740 salì al trono, in quanto<br />

immediatamente, alimentata <strong>da</strong>lla Prussia, scoppiò la guerra di successione austriaca (1740 - 1748).<br />

L’impegno bellico che, a causa della giovane età della sovrana e delle sue difficoltà economiche, faceva<br />

prevedere una rapi<strong>da</strong> sconfitta e dunque lo sfal<strong>da</strong>mento dei territori ereditari, agì invece <strong>da</strong> elemento<br />

propulsore. Innanzi tutto esso convogliò anche le forze della monarchia tradizionalmente autonomiste (come<br />

l’Ungheria) in una sorta di soli<strong>da</strong>rietà dinastica. In seguito, con il placarsi del pericolo più immediato, rese<br />

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evidente a Maria Teresa la necessità di rendere più coesi i propri domini, in modo <strong>da</strong> poter contare su un<br />

costante gettito fiscale e disporre quindi di un esercito a<strong>da</strong>tto alle esigenze del tempo. Il grande disegno<br />

teresiano si sviluppò nella stagione cosiddetta dell’assolutismo illuminato, dove al centro dell’azione dei<br />

sovrani vi era una vasta opera riformista, tesa al consoli<strong>da</strong>mento delle strutture dello stato e a formare dei<br />

sudditi istruiti e cooperanti a tale progetto di ammodernamento.<br />

Il Tirolo, che già nella secon<strong>da</strong> metà del Seicento era stato attirato nell’orbita statale <strong>da</strong>i primi tentativi di<br />

accentramento operati <strong>da</strong>ll’imperatore Leopoldo I (un processo proseguito sotto Giuseppe I e Carlo VI), con<br />

Maria Teresa e con suo figlio Giuseppe II affrontò al pari delle altre terre asburgiche un’età densa di<br />

mutamenti, che vide uscire sconfitto il già vacillante potere dei ‘ceti’ e che doveva poi portare, attraverso la<br />

Rivoluzione francese e gli sconvolgimenti dell’epoca napoleonica, alla caduta dell’antico regime europeo. I<br />

principati ecclesiastici dell’impero romano-germanico, tra cui quello di Trento, e la stessa compagine<br />

imperiale non sopravvissero a tali eventi.<br />

Né <strong>da</strong> parte di Maria Teresa, né <strong>da</strong> parte di Giuseppe II si programmò un incameramento dei principati<br />

vescovili di Trento e Bressanone; il secondo addirittura rifiutò una simile offerta inoltratagli <strong>da</strong>l principe<br />

vescovo Pietro Vigilio Thun nel 1781. Certamente però i due monarchi fecero pressione affinché le terre<br />

vescovili accogliessero le riforme in atto nei territori ereditari, in modo <strong>da</strong> non costituire un intralcio (erano<br />

ormai praticamente delle enclavi entro la contea del Tirolo) alla desiderata uniformità economica e<br />

amministrativa della regione.<br />

Secondo le concezioni dei ministri di Maria Teresa, le diverse province della monarchia non potevano più<br />

avere amministrazioni, ordinamenti giuridici, sistemi economici differenti le une <strong>da</strong>lle altre. Ogni luogo<br />

all’interno di ogni provincia doveva inoltre essere coordinato con gli organi di governo statali e, attraverso<br />

questi, con la corte di Vienna. L’istituzione degli Uffici Circolari in Tirolo, nel 1754, costituì una delle più<br />

importanti tappe in questo processo di accentramento. Il principato vescovile di Trento ne fu esente, in virtù<br />

della propria autonomia e della dipendenza <strong>da</strong>ll’impero romano-germanico. Le altre terre dell’odierno<br />

Trentino che erano <strong>da</strong> secoli sotto la contea del Tirolo furono invece riunite nel cosiddetto Circolo ai Confini<br />

d’Italia, con capoluogo Rovereto.<br />

Un’altra grande operazione di ammodernamento fu realizzata <strong>da</strong> Maria Teresa con l’istituzione del catasto<br />

(divenuto poi noto appunto come ‘catasto teresiano’), che aveva lo scopo di descrivere mediante criteri<br />

moderni la distribuzione delle proprietà, inducendo ogni suddito a contribuire secondo il dovuto e togliendo<br />

le molte esenzioni che caratterizzavanto un’età come l’antico regime, basata ancora su privilegi di origine<br />

feu<strong>da</strong>le.<br />

Anche nell’ambito più strettamente economico ciò che mosse la sovrana fu la necessità di uniformare le<br />

troppo separate province della monarchia. Fu potenziata e migliorata l’agricoltura tramite bonifiche di terreni<br />

paludosi e l’istituzione di società agrarie che dovevano istruire i contadini circa un più corretto sfruttamento<br />

della terra e, nel settore commerciale, vennero eliminate le numerose stazioni doganali interne, che<br />

imbrigliavano la libera circolazione delle merci e disperdevano gli introiti <strong>da</strong>ziari in mille rivoli. Nello stesso<br />

tempo fu incentivata la produzione interna e di rimando, secondo principi mercantilisti, furono applicati <strong>da</strong>zi<br />

elevati sulle merci in entrata. Un programma economico che, almeno a breve termine, sembrò <strong>da</strong>nneggiare la<br />

contea del Tirolo, <strong>da</strong>l momento che il commercio di tran<strong>sito</strong> costituiva una delle poche voci tradizionalmente<br />

attive dell’economia locale. Nel principato vescovile di Trento le nuove tariffe <strong>da</strong>ziarie provocarono<br />

numerose proteste dei commercianti, mentre nelle valli Giudicarie l’erezione di un <strong>da</strong>zio austriaco fece<br />

scoppiare addirittura una ribellione, subito stroncata con durezza.<br />

Accolta spesso con disappunto <strong>da</strong> parte delle comunità locali, fortemente ancorate alla tradizione, fu<br />

all’inizio anche la riforma che, tra le molte intraprese, diede forse più lustro alla grande sovrana:<br />

l’emanazione nel 1774 della Allgemeine Schulordnung, l’ordinamento scolastico che doveva garantire a tutti<br />

la capacità di leggere e scrivere. Varato con lo scopo di fornire sudditi obbedienti – grande peso fu conferito<br />

ai valori religiosi – ma altresì forniti di un’istruzione di base, esso fu uno dei lasciti più cospicui e duraturi<br />

dell’età teresiana anche nella nostra regione. La prima Hauptschule del territorio trentino , la "Cesarea Regia<br />

Scuola Normale ai Confini d’Italia", nacque a Rovereto e fu diretta <strong>da</strong>l sacerdote Giovanni Marchetti, che<br />

aveva appreso la nuova metodologia scolastica presso il centro formativo di Innsbruck.<br />

In linea con l’importanza attribuita <strong>da</strong> Maria Teresa a un’educazione basata su fon<strong>da</strong>menti autenticamente<br />

religiosi, fu l’azione della sovrana diretta a favorire il formarsi di una spiritualità più sincera, priva di quelle<br />

forme esteriori tipiche della ancora viva tradizione barocca. Di qui la proibizione – spesso osteggiata <strong>da</strong>lle<br />

popolazioni del Tirolo – delle manifestazioni più superficiali del culto, come pellegrinaggi, processioni,<br />

sacre rappresentazioni, che spesso si trasformavano in bagordi e sfoghi collettivi poco controllabili. Di qui<br />

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anche l’abolizione delle troppo numerose feste che appesantivano il calen<strong>da</strong>rio provocando ozio piuttosto<br />

che alimentare la devozione.<br />

L’azione riformista di Maria Teresa fu dunque di grande portata e non era destinata a risolversi nel pur lungo<br />

periodo di governo della sovrana. Gli impegni bellici dei suoi primi anni di regno e le difficoltà nel reperire<br />

sufficienti risorse economiche fecero sì che l’opera riorganizzatrice della compagine statale procedesse a<br />

rilento. In molti casi fu invece lo scarso entusiasmo dei sudditi, se non la loro aperta opposizione, a frenare<br />

l’imperatrice, la quale si rese conto che era più produttivo non forzare la mano e talvolta recedere <strong>da</strong> qualche<br />

intervento più drastico e in pratica tollerare le sacche di tacito ostruzionismo.<br />

Fu dunque un modo di procedere moderato e attento alle reazioni delle popolazioni, una via che non seppe<br />

praticare il figlio dell’imperatrice, Giuseppe II. Il suo zelo di monarca-burocrate, postosi sinceramente al<br />

servizio del ‘bene’ dei sudditi, ma freddo e distante <strong>da</strong>lla quotidianità nella sua intenzione di porre tutto sotto<br />

il rigoroso controllo stataele, gli valse severe critiche e in qualche caso aperte opposizioni. Soprattutto a<br />

causa della sua politica ecclesiastica – osteggiata in particolare nel tradizionalista e religioso Tirolo – che<br />

intendeva fare anche dei sacerdoti servitori dello stato e che giunse a intromettersi nelle forme del culto,<br />

prescrivendo fin lo stile negli addobbi degli altari durante le cerimonie religiose.<br />

Meno che mai gli valse la simpatia dei tirolesi il tentativo di introdurre la coscrizione obbligatoria – progetto<br />

poi prudentemente abbandonato a causa delle defezioni – in un paese che era abituato a mobilitarsi<br />

spontaneamente tramite i propri Landesschützen, ma che prevedeva ciò solo per la difesa dei patri confini,<br />

non per motivi offensivi e mediante un servizio militare stabile.<br />

I progetti riformisti attuati nei territori della monarchia asburgica ebbero inoltre l’effetto di allontanare<br />

Giuseppe II <strong>da</strong>i suoi compiti come imperatore romano-germanico. Mentre anche gli altri grandi territori<br />

imperiali (la Prussia e la Baviera furono casi emblematici) operavano ormai di fatto come entità statali<br />

autonome e svincolate <strong>da</strong>ll’ordine imperiale, furono i principati ecclesiastici, gli organi più deboli della<br />

compagine romano-germanica, a farne le spese. Spesso l’imperatore infatti, piuttosto che non quale loro<br />

difensore (come era all’origine dell’istituzione sacro romano imperiale), scavalcò i diritti vescovili per poter<br />

realizzare il consoli<strong>da</strong>mento dei propri territori ereditari. Fu così ad esempio con il riordino diocesano e il<br />

tentativo di estromissione del potere spirituale dei vescovi dell’impero <strong>da</strong>lle terre asburgiche, sostituendo<br />

quei prelati con altri controllati <strong>da</strong> casa d’Austria. I principati vescovili di Trento e Bressanone invece erano<br />

ormai così strettamente legati al Tirolo che non subirono effetti negativi <strong>da</strong> tale riordino: Trento non perse<br />

nulla e nel 1785 ottenne invece l’aggregazione della Valsugana che era <strong>da</strong> sempre legata alla diocesi di<br />

Feltre.<br />

Il quadro politico a Trento nel Settecento appariva intanto ormai accentuatamente diverso rispetto a come si<br />

presentava nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento. Due erano i poli che, pur influenti <strong>da</strong> secoli<br />

all’interno della struttura istituzionale del principato, avevano assunto un ruolo determinante e concorrente<br />

all’autorità vescovile nella sua conduzione: il capitolo e il magistrato consolare cittadino. Se per quanto<br />

riguar<strong>da</strong> il primo organo il principato tridentino condivideva la sorte degli altri territori ecclesiastici<br />

dell’impero, dove i canonici tra Sei e Settecento si erano impossessati di sempre maggiori prerogative di<br />

governo, rispetto al magistrato consolare la situazione tridentina si presentava con una sua più spiccata<br />

peculiarità. Non era infatti così consueto nelle città dell’impero (a meno che non avessero il rango di<br />

Reichsstädte, ‘città imperiali’, con diritto di rappresentanza alla dieta), che una magistratura cittadina fosse<br />

giunta ad ambiti di potere effettivi così vasti come a Trento. Ciò era stato reso possibile <strong>da</strong>i secolari contrasti<br />

del vescovo principe con il conte del Tirolo; a quest’ultimo spesso si erano appoggiati i consoli per ampliare<br />

i propri diritti, i quali poi non si erano potuti più cancellare, nemmeno <strong>da</strong>ll’ultimo e più autoritario governo<br />

principesco-vescovile. Un certo peso aveva avuto inoltre la vicinanza e quindi il modello delle città della<br />

pianura italiana, rette <strong>da</strong> forti ceti patrizi che a Trento si intendeva imitare. Nel corso del Settecento<br />

l’aristocrazia locale, tramite l’emanazione di appropriati regolamenti elettorali, non solo aveva escluso gli<br />

altri ceti non nobili (artigiani e mercanti) <strong>da</strong>l governo della città, ma aveva costituito al proprio interno un<br />

patriziato formato <strong>da</strong> poche decine di famiglie, <strong>da</strong>lle quali scaturivano costantemente i consoli cittadini. Il<br />

regionalizzarsi del capitolo, cioè l’essere esso non più costituito <strong>da</strong> canonici provenienti <strong>da</strong>i territori<br />

dell’impero, e l’ingresso nello stesso di membri dei casati patrizi della città, tutto ciò aveva poi <strong>da</strong>to luogo a<br />

una certa alleanza tra canonici e consoli, ai <strong>da</strong>nni dei principi tridentini che avrebbero voluto governare solo<br />

tramite i propri organi e in particolare per mezzo del consiglio aulico vescovile.<br />

Furono questi contrasti a fare <strong>da</strong> sfondo al declino del principato soprattutto durante il governo dell’ultimo<br />

vescovo, mentre i due giuristi più noti del tempo, Carlo Antonio Pilati e Francesco Vigilio Barbacovi, si<br />

impegnavano nella difesa dei due interessi contrapposti, in occasione delle numerose cause aperte presso i<br />

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tribunali imperiali: Pilati in nome dei diritti dei consoli, Barbacovi (prima consigliere e poi cancelliere) in<br />

favore dell’autorità del proprio signore, cui egli voleva restituire la propria originaria, ma ormai all’atto<br />

pratico affievolita, autorità.<br />

Antichi e nuovi contrasti politici nei governi vescovili del Settecento<br />

Il governo di Giovanni Michele Spaur – membro di una delle più illustri famiglie dell’antica nobiltà <strong>trentina</strong>,<br />

dotata del titolo comitale e investita di castelli e ampi possessi feu<strong>da</strong>li nella Val d’Adige a nord di Trento e in<br />

Val di Non – si situa cronologicamente (1696 - 1725) a cavallo tra il secolo della Controriforma e quello dei<br />

Lumi. Si trattò di un episcopato lungo, contraddistinto in particolare <strong>da</strong> due elementi: un’amministrazione<br />

spirituale attiva e vigile – visitò l’intera diocesi – e una direzione politica contrastata, in particolare <strong>da</strong>l corpo<br />

capitolare. Per quanto concerne il primo aspetto, il vescovo mostrò una sensibilità tipica ancora del periodo<br />

controriformista, con la consacrazione di numerose chiese e l’incentivazione del culto dei santi, oltre a<br />

interventi contro le degenerazioni della vita religiosa, in particolare controllando la disciplina sacerdotale. Le<br />

accuse dei canonici, in un’epoca che aveva conferito grande potere ai capitoli dell’impero, si appuntarono,<br />

per quanto riguar<strong>da</strong>va il governo temporale, contro quella che appariva come una gestione troppo personale<br />

del vescovo, con larghe interferenze dei familiari dello stesso. Si <strong>tratta</strong>va di uno stile di governo caratteristico<br />

dell’età barocca, il quale peraltro si protrasse per tutto il secolo finale dell’antico regime, dove le relazioni<br />

familiari e individuali avevano un peso determinante nel conferimento delle cariche amministrative.<br />

Preoccupante per il capitolo tridentino fu il tentativo, poi esauritosi a causa della morte del principe, di far<br />

accettare il nipote Giovanni Michele Venceslao Spaur, già vicario generale e suo suffraganeo, come<br />

coadiutore con diritto di futura successione; evento che nei canonici evocò con timore l’episcopato ereditario<br />

di madruzziana memoria.<br />

Con Giovanni Benedetto Gentilotti, eletto nel 1725 e deceduto mentre era ancora a Roma pochi giorni dopo<br />

la nomina, i canonici di Trento intendevano probabilmente affi<strong>da</strong>rsi a un uomo al di sopra delle fazioni e di<br />

grandi meriti intellettuali, benché ancora allo stato laicale. Aveva studiato a Salisburgo, Innsbruck e Roma; a<br />

Salisburgo era stato poi richiamato <strong>da</strong>ll’arcivescovo Giovanni Ernesto Thun come consigliere aulico,<br />

passando quindi a Vienna come prefetto della cesarea biblioteca. A Roma, al momento della nomina,<br />

svolgeva il compito di Uditore di Rota per la nazione germanica. Ampia fu la sua erudizione ed estesi i suoi<br />

rapporti con personalità della cultura del tempo. Gentilotti collaborò e fu in contatto anche con il modenese<br />

Ludovico Antonio Muratori, le cui opere ebbero grande diffusione nei territori asburgici e contribuirono a<br />

quello che è stato definito come un primo illuminismo di matrice cattolica, una corrente riformista che operò<br />

per purificare la religiosità <strong>da</strong>lla superstizione e <strong>da</strong>lle forme di devozione esteriori legate alle concezioni<br />

controriformiste (come in Della regolata divozione de’ cristiani, 1747).<br />

La nomina di Antonio Domenico Wolkenstein, il cui governo durò solo <strong>da</strong>l 1725 al 1730, decretava il ritorno<br />

sul soglio vescovile trentino di un altro esponente dell’antica nobiltà regionale. Nessuno studio specifico è<br />

stato condotto sull’amministrazione del principato e della diocesi <strong>da</strong> parte di questo prelato. Le poche notizie<br />

su di lui lo descrivono come un soggetto amato, caratterizzato <strong>da</strong> zelo pastorale e <strong>da</strong> pietà religiosa. Sotto il<br />

suo episcopato Trento si trovò a doversi difendere <strong>da</strong>l progetto di essere dichiarata chiesa suffraganea di<br />

Salisburgo, staccandosi dunque <strong>da</strong>lla secolare dipendenza <strong>da</strong> Aquileia e finendo sotto la tutela di un<br />

arcivescovato controllato <strong>da</strong> casa d’Austria, con pregiudizi alla propria autonomia.<br />

Fu il lungo episcopato di Domenico Antonio Thun a segnare lo spartiacque tra barocco ed età delle riforme<br />

nella diocesi e nel principato tridentino. Contro un governo vescovile degenerato dopo alcuni anni di buona<br />

amministrazione insorse la parte del capitolo in contatto con gli ambienti riformisti viennesi gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l<br />

decano Passi, che si rivolse a Roma denunciando corruzione e disordini. Il vescovo – stando almeno alle<br />

fonti – quasi ignaro della sorte che gli spettava, nella primavera del 1748 fu indotto <strong>da</strong> un inviato del governo<br />

tirolese a firmare un documento, che in pratica lo esautorava <strong>da</strong>l potere effettivo cedendo tutto a un<br />

coadiutore plenipotenziario. Quest’ultimo fu individuato <strong>da</strong>l capitolo in un soggetto appartenente a un casato<br />

influente della regione, Leopoldo Ernesto Firmian, vescovo di Seckau in Stiria ed esponente di un clero che<br />

aveva recepito la lezione muratoriana ed era ben visto <strong>da</strong>lla corte viennese. Le sue riforme nella sfera<br />

spirituale furono volte a una moralizzazione del clero - compì anche una visita pastorale alla diocesi - e a un<br />

suo maggiore controllo <strong>da</strong> parte delle autorità ecclesiastiche superiori; nell’ambito politico egli operò per un<br />

rinnovamento degli organi di governo del principato, rendendoli maggiormente dipendenti <strong>da</strong>ll’autorità<br />

vescovile e togliendo vigore all’influenza dei due ‘corpi’ che <strong>da</strong> sempre tendevano a limitarne l’autorità: il<br />

capitolo e il magistrato consolare. Leopoldo Ernesto Firmian si trovò inoltre nella difficile posizione di<br />

mediatore fra la tradizione autonomista del principato – sostenuta in particolare proprio <strong>da</strong>i canonici e <strong>da</strong>i<br />

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consoli cittadini – e le mosse accentratrici dei sovrani illuminati di casa d’Austria, che intendevano includere<br />

l’intero territorio trentino entro la propria sfera di influenza economica, inducendo lo stesso ad accogliere le<br />

riforme in atto nei territori ereditari della monarchia. Furono le ostilità dei ‘corpi’ del principato, insieme a<br />

quelle delle fazioni che li pilotavano, a indurre il coadiutore a rinunciare nel 1755 al proprio compito.<br />

La nomina di Francesco Felice Alberti d’Enno a coadiutore (vescovo <strong>da</strong>l 1758, dopo la morte del vecchio<br />

Domenico Antonio Thun) rassicurò coloro che avevano nutrito timori a causa delle innovazioni apportate <strong>da</strong>l<br />

Firmian. Alberti, esponente di quell’aristocrazia cittadina che, insediata nel capitolo e nel magistrato<br />

consolare, più temeva i rivolgimenti e l’avvicinamento alla volontà di Vienna, provvide immediatamente ad<br />

azzerare le novità introdotte <strong>da</strong>l predecessore. Francesco Felice difese fortemente l’autonomia del principato<br />

di fronte alle pressioni di casa d’Austria e ingaggiò inoltre, sostenuto <strong>da</strong>l magistrato consolare, un<br />

contenzioso con Girolamo Tartarotti, reo di aver smontato, con i suoi studi eruditi posti al servizio di una<br />

maggior oggettività storica, alcune false interpretazioni di eventi locali <strong>da</strong> parte della chiesa tridentina, tra cui<br />

quello del martirio di S. A<strong>da</strong>lpreto, vescovo del XII secolo morto in battaglia e assurto poi a nume tutelare<br />

della città di Trento (Lettera intorno alla santità e martirio di Alberto Vescovo di Trento, 1754).<br />

Il tentativo di una rifon<strong>da</strong>zione dell’autorità vescovile meno condizionata <strong>da</strong>gli influssi capitolari e consolari,<br />

venne ripreso <strong>da</strong> Cristoforo Sizzo, succeduto nel 1763 all’Alberti per nomina papale, in quanto non si<br />

sbloccavano le posizioni dei canonici divisi su due altri candi<strong>da</strong>ti. Il suo fu un governo equilibrato, che<br />

ripercorse alcune delle strade tentate <strong>da</strong>l Firmian per riordinare l’amministrazione vescovile. Per questo<br />

motivo in talune occasioni le prese di posizione vescovili suscitarono allarme nei ‘corpi’ che partecipavano<br />

alla gestione degli affari politico-economici e che erano garantiti nelle loro prerogative solo <strong>da</strong>l<br />

mantenimento dello status quo. Apprezzato <strong>da</strong>lle medesime forze che volevano mantenere l’autonomia del<br />

principato fu invece l’operato del vescovo per mitigare gli svantaggi che, almeno a breve termine, portavano<br />

i mutamenti introdotti <strong>da</strong> Vienna nel territorio trentino, coinvolgendo anche il principato vescovile.<br />

Conseguenza della politica <strong>da</strong>ziaria teresiana fu ad esempio il tumulto scoppiato al <strong>da</strong>zio di Tempesta, nelle<br />

Giudicarie, che si concluse con dure con<strong>da</strong>nne ed esecuzioni. Alcuni dei nodi che Cristoforo Sizzo non riuscì<br />

a risolvere nel braccio di ferro tra spinte riformiste asburgiche e conservatorismo degli ambienti capitolari e<br />

consolari tridentini furono ereditati <strong>da</strong>l successivo governo vescovile.<br />

Pietro Vigilio Thun venne eletto nel 1776. L’unanimità dei voti capitolari in suo favore non faceva presagire<br />

che si stesse per aprire uno degli episcopati più travagliati della chiesa tridentina, conclusosi inoltre con la<br />

secolarizzazione del principato e la fine del potere temporale dei vescovi di Trento. Il nuovo vescovo<br />

provvide subito a regolare le maggiori pendenze nei confronti di casa d’Austria stipulando con l’imperatrice<br />

Maria Teresa il <strong>tratta</strong>to del 1777. Esso diede finalmente via libera alle operazioni, più volte procrastinate, per<br />

l’introduzione del catasto anche nel principato, superando l’ostruzionismo della nobiltà e del clero, i quali<br />

con la vecchia perequazione mantenevano forti esenzioni fiscali. Questa e altre clausole del <strong>tratta</strong>to fecero<br />

ricadere il principato entro l’area economica e fiscale tirolese, anche se, per quanto riguar<strong>da</strong> la propria<br />

autorità principesca, il vescovo fu intransigente nell’opporsi a prevaricazioni anche <strong>da</strong> parte di Vienna. Il suo<br />

fu un governo improntato a forme assolutistiche impossibili a realizzarsi in un principato come quello<br />

tridentino, dove il vescovo aveva necessità di patteggiare la conduzione politica con i ‘corpi’ politici<br />

concorrenti. L’opposizione capitolare a Pietro Vigilio fu immediata e si protrasse per tutto il suo episcopato;<br />

i canonici tentarono inutilmente di imporgli un coadiutore, come era accaduto allo zio Domenico Antonio<br />

Thun. All’ostilità del capitolo si aggiunse quella dei consoli, in un susseguirsi di cause aperte <strong>da</strong>i contendenti<br />

presso i tribunali dell’impero. L’azione del vescovo, ammodernatrice e sensibile alle nuove esigenze del<br />

tempo ma condotta con criteri dispotici e lasciando troppo spazio a carenze amministrative e malversazioni,<br />

rimase incompiuta. Questa fu anche la sorte del suo progetto riformista più ardito: togliere importanza al<br />

vetusto ma ancora vigente Statuto di Trento di epoca clesiana, facendo compilare al proprio consigliere (poi<br />

cancelliere) Francesco Vigilio Barbacovi un moderno codice civile, ispirato a quello recentemente emanato<br />

nei territori di casa d’Austria, di cui era stato artefice il giurista trentino Carlo Antonio Martini. Il codice non<br />

venne applicato a Trento a causa dell’opposizione dei consoli, dei quali esso limitava le antiche prerogative.<br />

Tra accese polemiche e lotte tra le fazioni e tra i personaggi politici più in vista, il principato vescovile si<br />

avviò al tramonto. Riparato nei territori imperiali con la prima invasione francese, Pietro Vigilio Thun<br />

ritornò poi nel principato ma, impossibilitato a riprendere il proprio ruolo a causa del sequestro operato <strong>da</strong><br />

casa d’Austria, terminò i propri giorni a castel Thun, in val di Non, dove morì nel gennaio del 1800. Il suo<br />

successore, il cugino Emanuele Maria Thun, eletto nel mese di aprile, non ottenne più l’investitura del<br />

governo temporale del principato e rivestì dunque solo il ruolo di gui<strong>da</strong> spirituale. Avrebbe poi combattuto<br />

con energia, fino a scegliere l’esilio, le limitazioni all’autorità ecclesiastica imposte <strong>da</strong>l governo bavarese<br />

100


negli anni 1805 – 1809.<br />

Il Settecento roveretano<br />

Durante la prima metà del Cinquecento si erano consoli<strong>da</strong>ti i confini del principato vescovile di Trento.<br />

Rimasero all’incirca i medesimi fino all’atto della sua secolarizzazione, tranne per le permute seguite al<br />

<strong>tratta</strong>to del 1777 tra Pietro Vigilio Thun e Maria Teresa, che avevano visto passare a casa d’Austria Levico e<br />

Termeno in cambio di Castello di Fiemme, mentre altre lievi modifiche territoriali erano avvenute sempre<br />

nel medesimo periodo. L’odierno Trentino, dunque, alla fine del Settecento annoverava già una serie di<br />

giudicature dipendenti, <strong>da</strong> secoli o <strong>da</strong> tempi più recenti, <strong>da</strong>l governo asburgico-tirolese: esse erano distribuite<br />

nel Basso Trentino verso il lago di Gar<strong>da</strong>, nella Vallagarina, in Val d’Adige subito a nord di Trento, in Val di<br />

Non, in Valsugana. Fra questi territori, il più cospicuo quanto a rilevanza economica era costituito <strong>da</strong>lla città<br />

di Rovereto con la sua pretura. Se la metamorfosi di Rovereto <strong>da</strong> borgo medievale a città si situava nell’età<br />

veneziana, lo sviluppo del setificio, pur essendo stata tale attività introdotta nella pretura in quello stesso<br />

periodo, si verificò nei secoli a venire, a partire <strong>da</strong>lla lenta ripresa economica seicentesca, dopo la crisi che<br />

aveva investito l’area tirolese come gran parte dell’Europa cattolica.<br />

Fu durante il Settecento che si verificò la massima espansione economica dell’industria della seta a<br />

Rovereto; tale successo portò con sé benessere e uno sviluppo culturale senza eguali, così <strong>da</strong> attribuire poi a<br />

quella che era allora la città più meridionale della regione il titolo di ‘Atene del Trentino’. Il personaggio che<br />

simboleggiò gli esordi del magnifico secolo roveretano – ma le fortune intellettuali della città sul Leno<br />

sarebbero proseguite nell’Ottocento con il più illustre dei suoi figli, Antonio Rosmini – fu Girolamo<br />

Tartarotti (1706 - 1761). Erudito apprezzato anche oltre i confini patri, sviluppò la propria attività in vari<br />

luoghi d’Italia e fu in contatto con grandi personalità intellettuali del tempo, primo fra tutti Ludovico<br />

Antonio Muratori, procurandosi anche non pochi nemici: celebri i contrasti con un altro protagonista della<br />

cultura del tempo, il veronese Scipione Maffei, o quelli, più racchiusi entro l’area tridentina, con il padre<br />

Benedetto Bonelli, lo storico della curia vescovile impegnato a confutare le ardite prese di posizione di<br />

Tartarotti contro la <strong>storia</strong> meramente celebrativa e ignara di un corretto lavoro di in<strong>da</strong>gine sulle fonti. Assai<br />

nota la sua opera contro la credenza nella stregoneria (Del Congresso notturno delle Lammie, 1749),<br />

Tartarotti fu oggetto di polemica anche dopo morto. La chiesa parrocchiale di San Marco a Rovereto nel<br />

1762 subì l’interdetto vescovile per aver ospitato un busto in onore di colui che aveva messo in dubbio, sulla<br />

base dell’in<strong>da</strong>gine documentaria, alcuni ‘miti’ della tradizione storica curiale tridentina.<br />

Per quanto riguar<strong>da</strong> più <strong>da</strong> vicino l’ambito economico, quasi tutte le famiglie aristocratiche roveretane<br />

dovevano le proprie fortune alla lavorazione della seta. Nella città e nei suoi dintorni era distribuito un<br />

numero veramente ingente di filatoi per una così ridotta popolazione, dove si otteneva un prodotto<br />

semilavorato che veniva poi esportato soprattutto nei mercati dell’area tedesca. Nonostante anche a Rovereto<br />

vi fosse la tendenza a investire con i proventi della seta in terre e in rendite feu<strong>da</strong>li, l’aristocrazia locale, resa<br />

cosmopolita <strong>da</strong>ll’incontro di ceppi trentini, italiani e tedeschi, si dimostrò sempre più aperta e dinamica<br />

rispetto a quella della piccola capitale del principato, dove inoltre le potenti famiglie cittadine si vedevano<br />

superate in prestigio <strong>da</strong>ll’antica nobiltà feu<strong>da</strong>le dotata di castelli e ampi diritti nelle valli. Ma anche a<br />

Rovereto, come a Trento, i casati di origine borghese più antichi e benestanti tendevano a procacciarsi titoli<br />

nobiliari e a trasmettere il governo della città in poche mani.<br />

Fu grazie a soggetti provenienti <strong>da</strong> questo ambiente e in particolare a Giuseppe Valeriano Van<strong>net</strong>ti –<br />

membro di una delle più influenti famiglie cittadine arricchita grazie alla lavorazione della seta – che si<br />

dovette la fon<strong>da</strong>zione di un so<strong>da</strong>lizio culturale il quale ancor oggi vanta, quanto a tradizione, la preminenza<br />

su altre analoghe istituzioni regionali: l’Accademia degli Agiati, che nel 1753, dopo pochi anni di vita,<br />

ottenne il diploma di riconoscimento <strong>da</strong> Maria Teresa. La stagione più splendi<strong>da</strong> del consesso roveretano<br />

(nel cui emblema "l’agio", ossia la flemma necessaria all’attività intellettuale, era rappresentato <strong>da</strong>lla<br />

lumaca) fu appunto quella del cosmopolitismo settecentesco, mentre nel corso dell’Ottocento anche gli<br />

Agiati volsero il proprio interesse al tema nazionale<br />

Per quanto riguar<strong>da</strong> gli aspetti storico-istituzionali, l’età dell’assolutismo illuminato, durante la quale la<br />

fioritura culturale cittadina raggiunse l’acme, rappresentò anche la fine della vita di Rovereto come entità<br />

legata alla contea del Tirolo ma di fatto separata <strong>da</strong>l contesto provinciale e dotata di un regime di<br />

autogoverno. Con la creazione del Circolo ai Confini d’Italia nel 1754 essa si dovette attrezzare per assumere<br />

i compiti di capoluogo burocratico, non più mero centro del ridotto territorio della pretura ma di tutte le zone<br />

dell’odierno Trentino allora sottoposte a casa d’Austria. Il Capitano di Circolo inoltre estese<br />

progressivamente il proprio controllo a ogni ambito amministrativo, pur senza che nel periodo teresiano<br />

101


fossero sconvolti gli ordinamenti tradizionali, eccezion fatta per i locali privilegi <strong>da</strong>ziari che, in ossequio alla<br />

politica economica assunta <strong>da</strong>l governo, vennero levati. Anche a Rovereto, più pesanti furono le normative<br />

piovute sotto Giuseppe II, che intervenne con decisione nella composizione e nei compiti del consiglio<br />

cittadino (qui retto <strong>da</strong>i Provveditori), sottoponendolo al controllo statale e riducendone i margini di<br />

autogoverno che avevano favorito la crescita del patriziato locale a scapito di altre forze.<br />

Alla <strong>da</strong>ta della prima invasione francese, nel 1796, l’amministrazione cittadina di Rovereto era ormai <strong>da</strong><br />

tempo inserita nel progetto, ancora in divenire, di rinnovamento della compagine asburgica. A Trento<br />

l’arrivo dell’esercito rivoluzionario causò invece ulteriore disorientamento in una scena politica che vedeva<br />

ancora diversi contendenti: l’autorità vescovile e i suoi ministri, il capitolo, i consoli, le diverse fazioni.<br />

Clementino Van<strong>net</strong>ti (1754-1795)<br />

Nacque a Rovereto il 14 novembre 1754, figlio dei letterati Giuseppe Valeriano e Bianca Laura Saibante.<br />

Fu appassionato studioso dei classici latini ed elegante scrittore in italiano e latino. A soli 17 anni fece parte<br />

dell’Accademia degli Agiati, che era stata fon<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>i suoi genitori assieme ad altri uomini di cultura<br />

roveretani, e ne fu per parecchi anni il segretario. Tenne corrispondenza con vari famosi letterati d’Italia, tra<br />

i quali il Monti e il Parini. Numerose furono le sue pubblicazioni di prose letterarie e di poesie, anche in<br />

lingua latina. Autore del noto so<strong>net</strong>to Del Tirolo al governo, o Morrochesis, testimoniò tra i primi la<br />

presenza di una coscienza nazionale tra gli uomini di cultura trentini.<br />

Il territorio trentino nel periodo francese: tra Austria, Baviera e Italia<br />

Ai primi di settembre del 1796 le truppe rivoluzionarie al comando di Bonaparte forzavano i confini<br />

meridionali del Tirolo, respingendo le armi austriache e la resistenza dei corpi attivati tra la popolazione<br />

locale per la difesa territoriale, mentre le truppe dei generali Moreau e Jour<strong>da</strong>n invadevano il sud della<br />

Germania. Già l’anno precedente l’impero aveva perduto i territori sulla riva sinistra del Reno. Così come<br />

per l’Europa, anche per il territorio trentino si apriva un ventennio caratterizzato <strong>da</strong>l susseguirsi di eventi<br />

bellici, di rivolgimenti politici e di mutamenti di governo, che avrebbe sconvolto assetti plurisecolari e<br />

smantellato l’organizzazione di antico regime.<br />

Il 5 settembre del 1796 Trento accoglieva con timore i sol<strong>da</strong>ti della Repubblica. Le prime mosse, ripetutesi<br />

poi durante i successivi ingressi delle truppe francesi e che resero le armate d’oltralpe famigerate per tale<br />

atteggiamento nei confronti dei luoghi conquistati, furono la depre<strong>da</strong>zione della cassa civica e l’imposizione<br />

di esose contribuzioni. Dopo un turbinoso avvio dell’amministrazione militare, con il momentaneo<br />

affermarsi di personalismi entro il peraltro esautorato consiglio aulico vescovile, l’autorità che emerse al di<br />

sopra delle altre fu quella del magistrato consolare, il quale, con l’aggiunta di qualche soggetto reclutato nel<br />

resto del territorio occupato si accinse a esercitare, su delega degli occupanti francesi, quell’autorità che ai<br />

consoli era stata fortemente contestata <strong>da</strong>l principe vescovo Pietro Vigilio Thun. Quando i francesi<br />

ripiegarono e l’esercito imperiale nel mese di novembre liberò la regione, subito si addensarono sui consoli<br />

di Trento i sospetti di avere favorito il nemico: si preparava il terreno per un’incriminazione con l’accusa di<br />

giacobinismo, che di lì a qualche anno avrebbe con<strong>da</strong>nnato a pene piuttosto simboliche alcuni membri della<br />

cittadinanza. Che vi fosse stata una simpatia per gli eventi di Francia <strong>da</strong> parte di certi esponenti<br />

dell’aristocrazia cittadina, precedentemente alla con<strong>da</strong>nna a morte di Luigi XVI, è certo. Del resto le logge<br />

massoniche, che annoveravano illustri adesioni anche nel ceto nobiliare (lo stesso vescovo Pietro Vigilio<br />

Thun sembra avervi fatto parte), erano già state sperimentate in regione e nel 1794 a Innsbruck, in un<br />

tentativo di congiura giacobina, avevano subito l’arresto anche dei sudditi del principato.<br />

Al ritorno delle armi imperiali a Trento la reggenza vescovile fu esautorata e il principato posto sotto<br />

sequestro <strong>da</strong>ll’imperatore, con la motivazione ufficiale della sua posizione confinaria, resa cruciale <strong>da</strong>lla<br />

guerra, e di inadempienze fiscali vescovili. Si trattò in effetti di una secolarizzazione anticipata, mentre<br />

anche gli altri principati ecclesiastici dell’impero temevano di essere cancellati <strong>da</strong>lla carta politica del corpo<br />

romano-germanico, fungendo <strong>da</strong> indennizzo ai principi tedeschi spodestati <strong>da</strong>i francesi dei loro territori sulla<br />

riva sinistra del Reno.<br />

Il rientro francese nel principato, altrettanto breve del primo (<strong>da</strong>lla fine di gennaio all’aprile del 1797),<br />

ripropose sostanzialmente gli equilibri emersi durante la prima occupazione: furono gli amministratori<br />

imperiali (che erano peraltro trentini e roveretani fedeli a casa d’Austria) a essere deposti e riemersero<br />

soggetti legati all’aristocrazia cittadina e agli ambienti consolari. La successiva riconquista del territorio <strong>da</strong><br />

parte delle truppe dell’imperatore confermò il sequestro del principato e la messa fuori gioco sia della<br />

102


eggenza vescovile, che del capitolo, ridotto alle mere funzioni spirituali. Nulla poté l’attività diplomatica<br />

messa in moto presso l’impero <strong>da</strong> Pietro Vigilio Thun, rientrato <strong>da</strong> Passavia e ritiratosi nel castello di<br />

famiglia in Val di Non, dove sarebbe morto nel gennaio del 1800.<br />

I quattro anni che intercorsero prima della terza invasione francese, videro il governo cittadino di Trento<br />

sottoposto a un rigido controllo <strong>da</strong> parte degli amministratori imperiali. Attraverso l’imposizione di nuove<br />

norme e precisi regolamenti in materia finanziaria, il magistrato consolare venne limitato nelle proprie<br />

prerogative di autogoverno e ricondotto entro precisi limiti. Ciò che si era fatto con minor clamore e in tempi<br />

più lunghi con i provveditori a Rovereto, nella piccola capitale dell’ormai morente principato vescovile<br />

avvenne in un clima di lamentele, tentativi di ricorsi ad autorità superiori (in quel periodo più che mai<br />

incerte) e reciproche accuse tra le diverse fazioni politiche che dividevano la cittadinanza.<br />

Le speranze di un ripristino dell’autorità vescovile furono alimentate <strong>da</strong>lla riconquista del territorio trentino<br />

<strong>da</strong> parte delle truppe franco-cisalpine nel gennaio del 1801, le quali istituirono una nuova amministrazione<br />

provvisoria alla gui<strong>da</strong> della quale furono posti l’anziano Carlo Antonio Pilati e un altro illustre personaggio<br />

che per qualche anno incrociò i propri destini con quelli del principato: Gian Domenico Romagnosi.<br />

Nonostante con la pace di Luneville del febbraio 1801 di fatto fossero state sancite le secolarizzazioni dei<br />

principati ecclesiastici dell’impero, a Trento ci si illudeva di un ritorno all’antico ordine, mentre il governo<br />

veniva affi<strong>da</strong>to <strong>da</strong>i francesi, prima del loro abbandono del territorio vescovile, a una reggenza capitolare che<br />

lo esercitò per oltre un anno. L’ingresso delle truppe imperiali nel novembre 1802, per prendere possesso del<br />

principato in nome di casa d’Austria, pose fine a ogni sogno della vecchia classe dirigente tridentina.<br />

Con il cosiddetto Recesso dell’impero di Ratisbona, ratificato <strong>da</strong>ll’imperatore nell’aprile del 1803, venne<br />

infine sancita la secolarizzazione dei territori romano-germanici governati <strong>da</strong> autorità ecclesiastiche. Si trattò<br />

della soppressione di ben 112 organi politici, voluta <strong>da</strong> Napoleone per togliere forza alla casa d’Austria e<br />

porre un’ipoteca nei confronti di un nuovo assetto della Germania sotto la propria influenza. Con la<br />

soppressione del banco ecclesiastico alla dieta di Ratisbona, il Sacro Romano Impero della Nazione tedesca<br />

non aveva ormai più ragione di esistere. L’imperatore Francesco II d’Asburgo nel 1806 lo dichiarò estinto;<br />

già due anni prima egli aveva assunto il titolo di Francesco I d’Austria. Ora Napoleone poteva dunque <strong>da</strong>re<br />

vita alla Confederazione del Reno, posta sotto la propria tutela.<br />

Il territorio trentino, che dopo secoli si presentava unito, benché conglobato nella contea del Tirolo, venne<br />

diviso dei due Circoli di Trento e Rovereto, mentre proseguì l’opera di inserimento dei territori ex vescovili<br />

nella provincia tirolese.<br />

Fu un’operazione che ebbe appena il tempo di essere avviata. La carta politica regionale, come quella<br />

europea quanto mai provvisoria in quegli anni, venne nuovamente mutata. In seguito alla pace di Presburgo<br />

del dicembre 1805, dopo la vittoria di Napoleone ad Austerlitz, l’intero Tirolo passò sotto il filonapoleonico<br />

regno di Baviera e si apprestò ad affrontare tre anni di amministrazione impostata sul modello francese,<br />

fortemente centralizzata e ina<strong>da</strong>tta in modo particolare a una popolazione di montagna, dotata di tradizioni<br />

secolari gelosamente custodite; essa fu aggravata inoltre <strong>da</strong>lla rigidezza con cui le nuove e numerosissime<br />

leggi furono applicate <strong>da</strong> implacabili impiegati, in parte originari della Baviera, in parte di provenienza<br />

locale. Si <strong>tratta</strong>va a dire il vero di interventi che aveva tentato di promuovere ancora l’imperatore-burocrate<br />

Giuseppe II e che già allora erano stati accolti con ostilità e talvolta fatti rientrare; l’accoglienza che ebbero<br />

presso i Tirolesi tali norme, ancora più rigide di quelle giuseppine e imposte inoltre <strong>da</strong> un governo straniero,<br />

lasciava presagire l’e<strong>sito</strong> della vicen<strong>da</strong>. La soppressione della Landesordnung (la legge fon<strong>da</strong>mentale del<br />

paese) e della dieta provinciale, la politica di sottomissione della chiesa allo stato (in una roccaforte della<br />

tradizione cattolica come il Tirolo), l’odiata coscrizione militare, le imponenti manovre fiscali, causarono nel<br />

1809 uno dei più famosi moti insorgenti antinapoleonici dell’epoca: la rivolta di Andreas Hofer, che, nata<br />

appoggiandosi alla tradizione dei Landesschützen impiegati nella difesa del territorio, coinvolse in blocco i<br />

tirolesi tedeschi e in buona parte anche le vallate trentine (la Val di Fiemme addirittura precedette di qualche<br />

mese l’insorgenza collettiva). La città di Trento al contrario, forse anche complice il fatto di essere stata sede<br />

del quartier generale bavarese, fu più restia e ancora una volta venne accusata di collaborazionismo al<br />

momento dell’ingresso delle truppe imperiali, congiuntesi ai bersaglieri tirolesi nella liberazione del<br />

territorio.<br />

La vittoria napoleonica di Wagram, nel luglio 1809, cambiò ancora le sorti del Tirolo. Hofer continuò <strong>da</strong><br />

solo la propria lotta ma, abbandonato al proprio destino <strong>da</strong>gli stessi Asburgo, venne catturato e fucilato a<br />

Mantova nel febbraio del 1810. Il nuovo assetto regionale, dopo la pace di Parigi del 28 febbraio e la<br />

riconquista del paese <strong>da</strong> parte dei franco-bavaresi vide la gran parte del Trentino (escluso il Primiero) e la<br />

zona di Bolzano unite al Regno italico, il rimanente del Tirolo tornare alla Baviera. Sconfitta la rivolta<br />

103


locale, il Regno italico poteva <strong>da</strong>re il via, nel neoistituito Dipartimento dell’Alto Adige avente quale<br />

capoluogo Trento, all’opera di riorganizzazione sul modello francese che contraddistingueva l’assetto<br />

amministrativo e istituzionale del Regno. Innanzi tutto fu pubblicata la Costituzione di Lione e introdotto il<br />

"Codice Napoleone". L’autorità che rappresentava lo stato e che concentrava in sé gran parte delle<br />

prerogative di governo era il prefetto insediato a Trento, il quale si avvaleva di un Consiglio generale di<br />

Dipartimento costituito <strong>da</strong> trenta membri scelti in base alla capacità contributiva. A Trento era in funzione<br />

una Corte di Giustizia civile e criminale (penale). Il Dipartimento era diviso in cinque distretti : Trento, Cles,<br />

Bolzano, Rovereto, Riva, ognuno dotato di una viceprefettura. I distretti erano divisi in venti cantoni, sedi di<br />

giudicature di pace.<br />

Il colpo finale ai privilegi feu<strong>da</strong>li, già in parte ricondotti sotto il controllo dello stato <strong>da</strong>i sovrani di casa<br />

d’Austria e messi ulteriormente in crisi durante il periodo di sovranità bavarese, venne inferto <strong>da</strong>l Regno<br />

italico, durante il quale anche nel territorio trentino si impose un pur ridotto ceto borghese dotato di potere<br />

economico, il quale faticava a emergere entro le rigide regole del vecchio ordine. Le giudicature<br />

patrimoniali, territori dove i nobili infeu<strong>da</strong>ti esercitavano ancora la potestà giudiziaria, sparirono insieme a<br />

molte altre prerogative di natura feu<strong>da</strong>le.<br />

Ma il sistema centralistico del Regno, irrispettoso della tradizione e delle peculiarità locali, teso a un<br />

egualitarismo giuridico che non significava comunque democrazia (alla nobiltà di sangue si può tutto<br />

sommato dire che si sostituisse quella del denaro), fu spesso mal accetto alle genti del luogo. Il rigido<br />

accorpamento dei comuni (<strong>da</strong>i quasi quattrocento degli anni precedenti le guerre francesi ai successivi poco<br />

più di cento) e la privazione di ogni loro facoltà decisionale, fu poco gradito a una popolazione che <strong>da</strong> secoli<br />

era avvezza a governare <strong>da</strong> sé i propri ambiti economici, in comunità a volte di esigue dimensioni.<br />

Non si può tuttavia togliere importanza all’opera di svecchiamento attuata con l’eliminazione delle vecchie<br />

strutture di potere che governavano il territorio. Significativo di ciò è il fatto che con la Restaurazione casa<br />

d’Austria non ripristinò integralmente il precedente sistema e anche quando fu costretta a restituire spazio<br />

alle classi che avevano gestito il potere prima delle turbolenze napoleoniche, lo fece all’interno di un ordine<br />

che era ormai sal<strong>da</strong>mente statale e non più quello cetuale di antico regime.<br />

Andreas Hofer<br />

Nato a S. Leonardo in Passiria nel 1767, figlio di un oste, guidò nell’ottobre del 1809, a capo degli schutzen<br />

una vittoriosa rivolta contro il governo franco-bavarese, dopo che, con la sconfitta austriaca di Austerlitz, il<br />

Tirolo era stato unito alla Baviera, sostenuto in un primo tempo <strong>da</strong>ll'Austria. Nel 1808 venne chiamato a<br />

Vienna <strong>da</strong>ll’arciduca Giovanni e <strong>da</strong> Hormayr, per il loro piano di insurrezione contro la Baviera. La rivolta<br />

scoppiò il 9 aprile 1809, Hofer riportò successi sui Bavaresi allo Sterzinger Moos e assunse la difesa del<br />

Tirolo dopo la ritirata del generale austriaco Chasteler, sconfiggendo l’esercito francese in due battaglie<br />

presso Berg. In seguito all’entrata nel Tirolo del generale francese Lefebvre, con un esercito di Francesi,<br />

Bavaresi e Sassoni, Hofer promosse la guerra nazionale e indusse Lefebvre a ritirarsi dopo la sconfitta<br />

inflittagli presso il Berg; in seguito diresse l’amministrazione militare e civile del paese, divenendo così per<br />

qualche mese la maggiore autorità del Tirolo. Dopo la pace di Vienna del 14 ottobre 1809, per cui il Tirolo<br />

fu restituito alla Baviera, egli promosse una nuova sollevazione, ma, sconfitto, si rifugiò nella valle nativa,<br />

dove, tradito, venne consegnato ai Francesi che lo fucilarono a Mantova il 20 febbraio 1810.<br />

Hofer divenne il simbolo della difesa della patria, vivendo a lungo nel ricordo popolare.<br />

104


Il Trentino <strong>da</strong>ll'età della restaurazione alla prima guerra mondiale<br />

Gli anni della restaurazione di Maria Garbari<br />

Il Trentino sotto la sovranità asburgica<br />

L’entrata dell’Austria nella sesta coalizione<br />

antinapoleonica avvenne nell’agosto 1813; il 15<br />

ottobre l’esercito austriaco occupava il<br />

Dipartimento dell’Alto Adige dove veniva<br />

insediata una amministrazione provvisoria, proprio<br />

alla vigilia della disastrosa sconfitta di Napoleone a<br />

Lipsia. Il Trentino subì passivamente il cambio di<br />

sovranità e rimase estraneo al movimento di<br />

opposizione sviluppato nella parte tedesca del<br />

Tirolo contro la politica centralista del<br />

commissario Roschmann e delle autorità viennesi,<br />

né chiese il ripristino delle antiche forme di<br />

autogoverno, perché aveva avuto una <strong>storia</strong> diversa<br />

rispetto alla contea tirolese in quanto era rientrato,<br />

per secoli e nella sua parte maggiore, nel principato<br />

vescovile.<br />

Il 7 aprile 1815 l’Austria riuniva la parte transalpina del Tirolo, quella cisalpina e l’ex principato vescovile di<br />

Trento in un’unica provincia (Land), ed il primo maggio entrava in vigore il nuovo ordinamento politico che,<br />

fissata la sede del governo ad Innsbruck, divideva il territorio in capitanati circolari due dei quali nel<br />

Trentino, quello di Trento e quello di Rovereto. L’atto finale del congresso di Vienna del 9 giugno 1815<br />

sanciva definitivamente il rientro del Tirolo, già ceduto all’Austria <strong>da</strong>lla Baviera, e degli ex principati<br />

vescovili di Trento e Bressanone nei possedimenti asburgici; il 6 aprile 1818 la contea tirolese veniva inclusa<br />

nella Confederazione germanica. Il legame con questo organismo politico tedesco non fu avvertito, per il<br />

momento, come lesivo dei diritti e delle tradizioni trentine; solo più tardi, nel 1848, i deputati del Tirolo<br />

italiano presenti alla costituente di Francoforte chiesero il distacco del loro paese <strong>da</strong>lla Confederazione, ma<br />

con e<strong>sito</strong> negativo.<br />

Il nuovo ordinamento tirolese venne pubblicato il 24 marzo 1816; esso richiamava in vita l’antica<br />

rappresentanza eletta sulla base degli ordini sociali. Il grande congresso (Dieta) era composto <strong>da</strong> 52 membri,<br />

13 per ogni "stato"; essi erano il clero, la nobiltà, i cittadini ed i contadini. Al Trentino spettavano di diritto<br />

tre rappresentanti per l’ordine del clero, due per le città, due per i contadini. L’ordine della nobiltà eleggeva i<br />

propri deputati senza riferimento al territorio e la minoranza italiana riusciva ad ottenerne raramente fino al<br />

massimo di tre. Le facoltà e le competenze della Dieta erano assai estese, tanto <strong>da</strong> realizzare una effettiva ed<br />

ampia autonomia del Land. Il centralismo statale si palesava soprattutto con il controllo delle libertà<br />

elettorali, l’approvazione sovrana necessaria per rendere esecutive le delibere dietali, la possibilità di<br />

sciogliere la Dieta, la revoca degli antichi diritti di autodifesa, l’unificazione della carica di capitano<br />

provinciale (presidente della Dieta) con quella di governatore (rappresentante del governo). La presenza<br />

decentrata dell’esecutivo si realizzava nel Trentino nei capitanati circolari di Trento e Rovereto suddivisi,<br />

rispettivamente, in 21 e 14 giudizi distrettuali. Questi ultimi avevano compiti di sorveglianza sui comuni e le<br />

pubbliche istituzioni, poteri di polizia per tutelare l’ordine e poteri giudiziari. Dopo l’introduzione del codice<br />

civile e penale austriaco, che sostituiva quello napoleonico, a Trento e a Rovereto vennero istituiti tribunali<br />

di prima istanza mentre ad Innsbruck aveva sede il tribunale d’appello.<br />

Luigi Negrelli<br />

Luigi Negrelli nacque a Fiera di Primiero il 23 gennaio (o il 25, a secon<strong>da</strong> delle diverse interpretazioni alle<br />

quali ha <strong>da</strong>to luogo la lettura dell'atto di nascita) del 1799, in una famiglia di 11 tra fratelli e sorelle. Il padre<br />

Angelo era un genovese dedito alle attività commerciali e la madre, Elisabetta Würtemberg, era originaria<br />

di Tonadico. Trascorse in Primiero gli anni dell'infanzia e della prima giovinezza, dedicandosi nel paese<br />

natale ai suoi primi studi, perfezionandoli in un secondo momento a Feltre e a Padova. Durante gli anni<br />

delle agitazioni belliche e della crisi economica, la famiglia, originariamente benestante, attraversò un<br />

105


momento di grande difficoltà e il giovane Luigi rischiò di dover abbandonare gli studi superiori. Ma la Casa<br />

d'Austria venne in suo aiuto, garantendoli un contributo economico che gli permise di proseguire la sua<br />

istruzione. Poté quindi, in seguito, conseguire la laurea in Ingegneria già assai giovane, presso il Politecnico<br />

di Innsbruck.<br />

Il suo talento e la sua preparazione vennero assai presto a conoscenza delle autorità. Immediatamente dopo<br />

il conseguimento della laurea, Negrelli fu assunto <strong>da</strong>lla direzione dei lavori pubblici di Innsbruck: i suoi<br />

primi compiti riguar<strong>da</strong>vano tutta l'area trentino - tirolese, nonché il territorio più a nord. Si dedicò subito<br />

all'elaborazione della carta idrografica del fiume Inn nel tratto fra Innsbruck e Wattens; al progetto del<br />

ponte di Landeck con relativo collegamento stra<strong>da</strong>le sino a Merano; al miglioramento della viabilità in Val<br />

Pusteria, dopo che un'alluvione di notevoli proporzioni ne aveva sconvolto i traffici. Gli fu affi<strong>da</strong>ta anche la<br />

responsabilità delle nuove opere stra<strong>da</strong>li costruite nel Vorarlberg e di tutta una serie di opere relative alla<br />

viabilità della Valle dell'Adige.<br />

Pochi anni più tardi, nel 1827, Negrelli iniziò i lavori per la canalizzazione del Reno e passò al distretto di<br />

Bregenz. Il nuovo incarico richiedeva non solo capacità specificamente tecniche, ma anche politiche, in<br />

quanto la direzione delle attività coinvolgeva sia le autorità svizzere che quelle austriache. Negrelli ebbe<br />

modo di farsi apprezzare anche sul difficile terreno della diplomazia internazionale, tanto che, conclusi i<br />

lavori sul Reno, l'amministrazione del cantone di San Gallo gli propose di sovrintendere al piano di<br />

elaborazione delle opere viarie di competenza. Nel 1830 si trasferì quindi nel capoluogo elvetico per<br />

rimanervi alcuni anni, realizzando la stra<strong>da</strong> del Ruppen che collegava Altstätten a San Gallo; poco dopo<br />

progettò i ponti sul Limmat e sul Münster a Zurigo; il ponte Nydeck sull'Aar a Berna, la linea ferroviaria<br />

che avrebbe messo in comunicazione Basilea con Zurigoe e inoltre il piano regolatore della città di San<br />

Gallo. La grande novità dei lavori portati a termine <strong>da</strong> Negrelli in Svizzera stava nell'essere riuscito a<br />

dimostrare, con la costruzione di opere ferroviarie realizzate ad una notevole altitudine, che la realizzazione<br />

di una rete ferroviaria era possibile anche in località montuose, idea che a quei tempi veniva negata <strong>da</strong><br />

un'autorevole corrente di pensiero facente capo allo studioso inglese Stephenson.<br />

L'idea del canale di Suez e le prime delusioni<br />

Nel giro di una decina d'anni Negrelli si era affermato come uno dei maggiori esperti mondiali nella<br />

costruzione delle opere di viabilità. Incombenze di responsabilità sempre maggiore gli provennero <strong>da</strong>lle<br />

amministrazioni svizzere ed austriache, mentre egli alternava tali occupazioni a continui viaggi di studio in<br />

tutta l'Europa e alla pubblicazione di scritti scientifici. Fu verso l'inizio degli anni '40 che cominciò a<br />

pensare a quello che sarebbe stato il capolavoro della sua vita professionale, ossia il progetto per il taglio<br />

dell'istmo di Suez, già meditato <strong>da</strong> Napoleone alcuni decenni prima e rimasto privo di e<strong>sito</strong> a causa delle<br />

continue guerre. Tuttavia, l'ingegnere trentino avrebbe dovuto ancora attendere a lungo prima che la sua<br />

idea si potesse concretizzare. Nel frattempo, stava portando avanti una meticolosa opera di<br />

sensibilizzazione nei confronti delle principali autorità europee per <strong>da</strong>re attuazione al suo progetto e i primi<br />

risultati non mancarono. Nel 1846 venne costituita a Parigi la "Société d'études du Canal de Suez",<br />

composta <strong>da</strong> dieci membri ripartiti in tre gruppi distinti: quello italo - tedesco - austriaco, del quale Negrelli<br />

era il più autorevole rappresentante, quello francese e quello inglese. Ben presto Luigi Negrelli riuscì ad<br />

interessare anche il Lloyd, il Comune e la Camera di Commercio di Trieste, nonché la Camera di<br />

Commercio di Venezia, che entrarono a far parte dell'orbita del gruppo italo - austriaco. La discussione del<br />

progetto era cominciata, ma ancora lontano era l'inizio vero e proprio dei lavori, anche per l'ostruzionismo<br />

messo in atto <strong>da</strong>ll'Inghilterra, rappresentata nella citata Società di studi <strong>da</strong>llo Stephenson. La Corona inglese<br />

non rilevava alcun interesse in un'idea che, se messa in atto, poteva incrementare notevolmente le relazioni<br />

commerciali dell'intera Europa mediterranea con la via per le Indie, indebolendo la propria posizione di<br />

monopolio. Pertanto, essa si era inserita nel gruppo di studio con gli unici scopi di rallentare l'attuazione del<br />

piano e di proporre invece un collegamento ferroviario.<br />

In questo periodo Negrelli ricevette <strong>da</strong>ll'Impero austriaco l'incarico di ispettore per le ferrovie del Nord e<br />

progettò altri importanti tratti ferroviari, come quelli che collegavano Vienna a Leopoli, Praga a Pardubitz,<br />

Ludenburg ad Olmütz, Brunn a Trubau.<br />

Nel 1848 si stabilì a Verona, città nella quale iniziò una serie di progetti ferroviari per la costruzione di<br />

strade ferrate nel Lombardo - Ve<strong>net</strong>o. Gli anni in cui si impegnò in questa nuova serie di compiti<br />

sembrarono preludere al tramonto definitivo suo sogno più agognato. Nel 1849, infatti, si realizzò una<br />

svolta ai vertici del governo egiziano che pareva influire in maniera determinante sul grande progetto di<br />

106


Negrelli: la morte del vicerè Mohammed Alì portò sul trono egiziano Abbas, assai più vicino alle posizioni<br />

inglesi, accantonò senza indugio il piano del canale di Suez e promosse la costruzione di una ferrovia<br />

destinata a collegare Il Cairo con Alessandria; a questo scopo nominò come responsabile del nuovo<br />

progetto proprio lo Stephenson.<br />

Negrelli, deluso <strong>da</strong>lla piega che avevano preso gli eventi, si dedicò interamente ai suoi compiti in Italia<br />

settentrionale, che lo costrinsero a sempre più frequenti spostamenti tra Verona e Milano, fino alla metà<br />

degli anni '50. I percorsi <strong>da</strong> Verona a Bologna, <strong>da</strong> Milano a Trieste, <strong>da</strong> Verona al Brennero, <strong>da</strong> Bologna a<br />

Padova e <strong>da</strong> Verona a Vicenza, alcuni dei quali ricostruiti dopo i <strong>da</strong>nneggiamenti subiti in seguito ai moti<br />

del '48, sono opera del suo talento ormai sempre più apprezzato in tutto il mondo. Le difficoltà erano<br />

enormi, poiché i lavori proseguivano mentre le agitazioni di quel periodo stavano raggiungendo il loro<br />

acme. Assieme alle ferrovie, fu impegnato anche nella progettazione di corsi d'acqua, sempre per il<br />

Lombardo - Ve<strong>net</strong>o; e ben presto anche nella costruzione di un imponente canale tra i fiumi Mol<strong>da</strong>va ed<br />

Elba, che gli fruttò il titolo di cavaliere dell'Impero, conferitogli con il titolo di "von Moldelba".<br />

Dovette però subire le ostilità e le ipocrisie di alcuni suoi avversari, i quali approfittarono di alcune critiche<br />

rivolte <strong>da</strong>l Negrelli all'amministrazione austriaca nel Lombardo - Ve<strong>net</strong>o per accusarlo di tentativi di<br />

cospirazione contro l'Austria. Si <strong>tratta</strong>va, naturalmente, di rilievi del tutto infon<strong>da</strong>ti: quando Negrelli aveva<br />

espresso delle osservazioni, ancorché decise, sull'atteggiamento col quale la Casa d'Austria gestiva le<br />

entrate tributarie e le forze militari in Italia settentrionale, lo aveva fatto senza alcuna intenzione sovversiva.<br />

Nondimeno, alcune sue espressioni gli costarono care: venne presto sospeso <strong>da</strong> tutti gli incarichi conferitigli<br />

<strong>da</strong> Vienna.<br />

La fase conclusiva della sua vita con gli ulteriori sviluppi della vicen<strong>da</strong> relativa al canale di Suez.<br />

Costretto a fare ritorno nel capoluogo austriaco, trovò però il modo, libero <strong>da</strong>gli impegni più gravosi, di<br />

riprendere la progettazione dell'impresa di Suez, incoraggiata <strong>da</strong> un nuovo, importante avvenimento che<br />

aveva animato la scena internazionale: nel 1854 anche Abbas era morto, e al suo posto gli era successo<br />

Said, favorevole a stabilire relazioni con l'Europa intera, a discapito dell'egemonia britannica. Said<br />

interpellò subito il francese Ferdinand de Lesseps, un esperto in materia di opere ingegneristiche che aveva<br />

ricoperto incarichi diplomatici per conto dell'autorità francese presso il governo egiziano, e gli fornì la<br />

delega ufficiale per <strong>tratta</strong>re la realizzazione del canale. Astutamente, Lesseps riuscì a procurarsi <strong>da</strong>lla<br />

Società di studi per il Canale di Suez tutti i documenti utili, compreso, anzitutto, il progetto fon<strong>da</strong>mentale<br />

ideato <strong>da</strong> Luigi Negrelli. Approfittando del fatto che la concessione ottenuta <strong>da</strong>l viceré d'Egitto era stata<br />

rilasciata a titolo del tutto personale e di essere stato designato <strong>da</strong>llo stesso Said quale presidente di una<br />

"Commissione scientifica internazionale" per lo studio del progetto, abbandonò le relazioni con la Società<br />

degli studi per dedicarsi come unico responsabile all'elaborazione tecnica dell'opera. La Commissione<br />

esaminò tre progetti diversi, due dei quali con tracciato a collegamento diretto ed uno a collegamento<br />

indiretto.<br />

Fra i tre progetti venne scelto quello di Negrelli, appoggiato <strong>da</strong>ll'ingegnere italiano Paleocapa, con<br />

canalizzazione diretta e senza le chiuse ai due imbocchi del canale, in modo <strong>da</strong> consentire un più naturale<br />

passaggio dei mezzi di trasporto. Prima dell'approvazione ufficiale, Negrelli si era recato personalmente in<br />

Egitto nel 1855, dove si era fermato un lungo periodo a studiare le possibilità di applicazione pratica del<br />

suo progetto, confi<strong>da</strong>ndo di poterlo condurre a termine.<br />

La <strong>storia</strong>, però, per una serie di sfortunate contingenze, non rese a Negrelli il tributo che gli doveva.<br />

L'Inghilterra, che non aveva gradito affatto il mutato atteggiamento delle autorità egizie, scatenò una vera e<br />

propria aggressione militare, facendo occupare l'isola di Perim sul Mar Rosso e fomentando una veemente<br />

campagna di stampa contro la quale fu impegnato attivamente anche il Negrelli. Ciò ebbe come effetto un<br />

rallentamento nell'inizio delle attività, trascorso il quale, tuttavia, la situazione poté normalizzarsi: Negrelli<br />

venne così nominato <strong>da</strong> Said direttore generale dei lavori per la costruzione del canale. Ma la sua salute,<br />

minata <strong>da</strong> una malattia ai reni che <strong>da</strong> qualche tempo lo stava tormentando, veniva aggravandosi di giorni in<br />

giorno. Morì l'1 ottobre del 1858 a Vienna, proprio nel momento in cui egli doveva recarsi sul posto per<br />

<strong>da</strong>re esecuzione al progetto, lasciando a Lesseps tutte le opportunità di sfruttare il suo imponente disegno<br />

ingegneristico e la paternità dell'opera. Ancor oggi, all'ingresso del canale di Suez, giganteggia un<br />

monumento marmoreo con l'effigie di Ferdinand de Lesseps.<br />

In seguito, la <strong>storia</strong> ha cercato di recuperare il suo debito con Luigi Negrelli. Le sue spoglie, infatti,<br />

riposano <strong>da</strong>l 1929 nel cimitero monumentale di Vienna, all'interno del famedio che ospita le tombe dei<br />

107


grandi, mentre la capitale egiziana, Il Cairo, ha dedicato a Negrelli una delle sue vie principali.<br />

Le strutture amministrative<br />

Il riordino delle competenze spettanti alle amministrazioni comunali, rientrante nelle attribuzioni della Dieta<br />

tirolese, fu definito con il Regolamento del 1819 che prevedeva la ricostituzione dei 384 comuni ridotti a 110<br />

municipi nel Dipartimento dell’Alto Adige in epoca napoleonica. Questo riportava in vita una<br />

polverizzazione comunale di forte ostacolo a qualsiasi possibilità di sviluppo economico e sociale, ma<br />

cancellava anche un provvedimento sofferto con disagio <strong>da</strong>lla quasi totalità della popolazione. Il<br />

Regolamento divideva i comuni in tre categorie: i comuni di campagna, le città minori e le città maggiori.<br />

Nella prima categoria rientrava la stragrande maggioranza dei centri abitativi, nella secon<strong>da</strong> Riva, Arco ed<br />

Ala, nella terza Trento e Rovereto.<br />

L’amministrazione dei comuni di campagna, nella sua semplicità, rispecchiava le caratteristiche di vita dei<br />

paesi dell’arco alpino, frastagliato <strong>da</strong> valli e monti, con un’economia agricola di sussistenza e la<br />

frammentazione della proprietà fondiaria. Essa era affi<strong>da</strong>ta, su base elettiva, ad un capocomune, due<br />

deputatati comunali, un cassiere ed un esattore delle imposte. Nelle città minori veniva costituito un<br />

"Magistrato politico – economico" con un borgomastro, quattro consiglieri, un amministratore, un esattore<br />

delle imposte e, ove necessario, un cancelliere ed un architetto civico; le elezioni si svolgevano con un<br />

sistema di secondo grado.<br />

L’ordinamento delle città maggiori (nel Tirolo erano Innsbruck e Bolzano oltre a Trento e Rovereto) era più<br />

complesso perché in esse il Magistrato politico – economico, oltre ad essere titolare di una amministrazione<br />

propria, era anche istanza politica di primo grado per i poteri delegati <strong>da</strong>l governo, tanto che queste si<br />

configuravano come città – distretto. A Trento l’amministrazione comunale era costituita <strong>da</strong>l podestà, <strong>da</strong> due<br />

consiglieri nominati <strong>da</strong>l governo, <strong>da</strong> sei consiglieri designati <strong>da</strong> un collegio di 24 membri eletti <strong>da</strong>i censiti e<br />

<strong>da</strong> un consiglio cittadino di 24 rappresentanti, scelti direttamente <strong>da</strong>i censiti e rinnovabile per metà ogni due<br />

anni. Il fatto che il diritto di voto fosse legato al pagamento delle imposte anziché al ceto sociale allargava<br />

considerevolmente il corpo elettorale calcolato per Trento, dopo il 1825, a circa 1300 persone.<br />

Nel 1815 venne tolta ai comuni la tenuta dei registri di stato civile, effettuata a suo tempo <strong>da</strong>l governo<br />

bavarese e mantenuta <strong>da</strong>l Regno italico, per passarla alla competenza delle parrocchie. I registri delle nascite,<br />

morti, matrimoni tornavano così nelle mani delle autorità ecclesiastiche ed i parroci assumevano il ruolo di<br />

ufficiali di stato civile con l’incarico di rilasciare i relativi certificati, compresi quelli di povertà e di moralità.<br />

Il consenso dei trentini per l’ordinamento politico – amministrativo<br />

L’impianto fon<strong>da</strong>mentale dell’ordinamento politico - amministrativo, attivato dopo l’inserimento del<br />

Trentino nel nesso austriaco, rimase in vita, pur con delle riforme, per tutto il periodo della sovranità<br />

asburgica. Esso riscosse il consenso delle popolazioni per la sua semplicità, lo snellimento burocratico e per<br />

la valutazione positiva dell’autonomia, del decentramento e della difesa delle libertà locali che rappresentava<br />

un elemento di unione fra la parte italiana e quella tedesca del Tirolo. I contrasti, quando nasceranno, non<br />

avranno per oggetto il modello di autonomia, ma la non adeguata rappresentanza dei trentini alla Dieta, tanto<br />

<strong>da</strong> temere costantemente la subordinazione degli interessi politici e soprattutto economici del paese a quelli<br />

della maggioranza tedesca presente nell’assemblea tirolese.<br />

Apprezzato in modo particolare era il sistema amministrativo, con il suo decentramento funzionale e<br />

burocratico, che an<strong>da</strong>va incontro ai desideri dei cittadini di gestire in proprio e liberamente gli interessi locali<br />

e di sentirsi padroni in casa propria. La vita comunale era sì controllata <strong>da</strong>l potere politico, ma in forme non<br />

opprimenti, del resto inutili in un sistema di immobilismo economico e sociale dovuto al diffuso<br />

sottosviluppo. I censiti, nonostante lo stato di povertà cronica, erano soddisfatti di amministrare in piena<br />

autonomia gli esigui beni comunali e di usare con parsimonia le scarse rendite avvalendosi di uomini del<br />

luogo, scelti per la loro onestà.<br />

I rapporti stato – chiesa<br />

L’esaltazione della collaborazione fra trono ed altare, tipica dell’età della restaurazione, ebbe luogo anche<br />

nel Trentino, paese profon<strong>da</strong>mente cattolico. Ma la valorizzazione e l’ossequio riservati alla chiesa erano<br />

finalizzati a rafforzare l’ordine conservatore dello stato, avvalendosi dell’autorità e del prestigio del clero<br />

sulle popolazioni. L’organizzazione ecclesiastica cadde sotto le direttive della politica regalista già messa in<br />

atto <strong>da</strong> Giuseppe II ("gioseffinismo"), tesa a limitare le libertà della diocesi. Ad iniziare <strong>da</strong>l 1815 il governo<br />

108


ivendicò il diritto di nomina dei titolari delle parrocchie; nel 1818 si ottenne <strong>da</strong>l pontefice che la<br />

circoscrizione della diocesi corrispondesse al territorio dei tre capitanati circolari di Trento, Rovereto e<br />

Bolzano con la conseguente inclusione di cittadini tedeschi; con bolla papale del 1822 venne conferito agli<br />

imperatori d’Austria – in quel momento Francesco I – il diritto di nomina dei vescovi di Trento e di<br />

Bressanone togliendola ai rispettivi Capitoli della cattedrale; nel 1825 la chiesa <strong>trentina</strong>, che dipendeva<br />

direttamente <strong>da</strong>lla Santa Sede, diventava suffraganea (ossia dipendente <strong>da</strong> un vescovo metropolitano) della<br />

diocesi di Salisburgo perdendo l’antica autonomia.<br />

Dopo la morte del vescovo Emanuele Maria Thun nel 1818, si ebbe un periodo di sede vacante finché, nel<br />

novembre 1823, l’imperatore nominò alla carica Francesco Saverio Luschin. Egli si distinse per le visite<br />

pastorali alle parrocchie, rimaste interrotte <strong>da</strong> sessant’anni, finalizzate a conoscere le condizioni del clero e<br />

dei fedeli trentini, anche <strong>da</strong> un punto di vista sociale, per rivitalizzare la religiosità della diocesi. Al Luschin<br />

succedeva Giovanni Nepomuceno de Tschiderer, nominato nel 1834 <strong>da</strong>ll’imperatore Ferdinando I (1833-<br />

1848), destinato a reggere la diocesi fino al 1860. Animato <strong>da</strong> profondo spirito pastorale, sempre disponibile<br />

nei confronti del clero secolare e regolare, impegnato nel farsi carico dei bisogni religiosi e materiali del<br />

paese, fu molto amato <strong>da</strong>i fedeli toccati <strong>da</strong>l suo agire improntato alla carità. Per quanto ligio ai doveri<br />

imposti <strong>da</strong>l potere politico, seppe farsi mediatore fra i cittadini e le autorità costituite in momenti<br />

particolarmente difficili e si sforzò di difendere le prerogative ed i diritti della chiesa.<br />

L’atteggiamento della popolazione ed il controllo politico<br />

Il passaggio del Trentino sotto la sovranità austriaca non diede luogo ad espressioni di malcontento o<br />

disagio. La popolazione assommante all’incirca, nel 1815, a 260.000 abitanti e che con un incremento medio<br />

annuo del 6‰ raggiungerà la cifra di 341.000 unità al censimento del 1869, dopo un ventennio<br />

contrassegnato <strong>da</strong> cambiamenti di regime, occupazioni militari e tassazioni, aspirava solo alla pace ed al<br />

rientro nella normalità della vita. La sudditanza ad una dinastia tedesca non era sentita come lesiva<br />

dell’indubbia italianità del paese, né rientrava nei programmi austriaci la snazionalizzazione del Trentino;<br />

l’insegnamento scolastico e la predicazione del clero si svolgevano in italiano come italiana rimaneva la<br />

lingua usata negli uffici, fatta salva la scarsa padronanza linguistica di qualche funzionario governativo.<br />

Il potere centrale che orchestrava la politica dell’impero aveva di mira gli obiettivi dell’ordine e della<br />

stabilità, come accadeva in tutti gli stati europei dove vigeva il sistema della restaurazione, presupposti<br />

indispensabili, in base alla teoria del cancelliere austriaco Metternich, per prevenire i moti rivoluzionari. Il<br />

controllo politico e di polizia era assiduo, ma formalmente corretto e senza prevaricazioni. Grande attenzione<br />

era riservata al settore della produzione a stampa e severi controlli venivano effettuati sull’importazione di<br />

pubblicazioni nel timore che si diffondessero le idee contrarie ai principi della conservazione.<br />

Sottoposti a vigilanza erano i trentini sospettati di idee liberali, soprattutto in occasione della rivolta<br />

napoletana del 1820, di quella piemontese del 1821 e dell’insurrezione nell’Italia centrale del 1831. Nel 1833<br />

si sparse il timore di infiltrazioni della Giovine Italia nell’intero Tirolo, ma in realtà il pericolo rivoluzionario<br />

di stampo mazziniano doveva dimostrarsi inconsistente, tanto <strong>da</strong> sospendere le misure di polizia prese nei<br />

confronti dei maggiori indiziati, il conte Sigismondo Manci ed il conte Matteo Thun. Il provvedimento<br />

dell’autorità politica che impose ad Antonio Rosmini di sciogliere nel 1835 la comunità di Trento<br />

dell’Istituto della carità, un atto destinato a suscitare stupore e dissensi, non era ascrivibile a motivi d’ordine<br />

nazionale, ma alle leggi vigenti che impedivano alle istituzioni religiose di avere i superiori dell’ordine fuori<br />

<strong>da</strong>ll’Austria.<br />

Nel paese la massa della popolazione si manteneva tranquilla, dimostrava fedeltà e ossequio ai rappresentanti<br />

del potere ed il clero contribuiva a legittimare l’ordine fon<strong>da</strong>to sul principio d’autorità. Nemmeno le<br />

espressioni degli uomini di cultura, quando accennavano ai valori della nazione, potevano essere interpretare<br />

in senso irredentistico, perché non esisteva ancora uno stato italiano nel quale, eventualmente, confluire.<br />

La situazione economica<br />

La grigia atmosfera della restaurazione era appesantita <strong>da</strong>lle condizioni economiche del Trentino, aggravatesi<br />

per la carestia degli anni 1815-1817 che si era abbattuta sull’intera Europa. L’attività agricola risultava<br />

<strong>net</strong>tamente prevalente rispetto agli altri settori, anche se era fortemente condizionata <strong>da</strong>lla conformazione<br />

montuosa del territorio con le connesse caratteristiche geologiche ed idrografiche. La superficie coltivabile<br />

produttiva, che diminuiva in corrispondenza della disposizione altimetrica, si presentava abbastanza limitata.<br />

Ulteriori elementi negativi erano costituiti <strong>da</strong>lla frammentazione, e quindi <strong>da</strong>ll’esiguità delle proprietà<br />

fondiarie, quasi sempre a conduzione diretta, e <strong>da</strong>i sistemi arcaici di coltivazione. Il basso reddito dei terreni<br />

109


faceva sì che la produzione fosse solo di sussistenza, ma con costante squilibrio fra prodotti e bisogni tanto<br />

<strong>da</strong> rendere permanente la minaccia di carestia, scarsa l’alimentazione e sempre precarie le condizioni del<br />

ceto contadino – la quasi totalità della popolazione – costretto a fare ricorso all’emigrazione temporanea nei<br />

paesi limitrofi e, con la secon<strong>da</strong> metà dell’ottocento, anche a quella permanente oltre oceano<br />

Il settore manifatturiero aveva una modesta consistenza, tranne l’industria della seta che, successivamente al<br />

periodo napoleonico, conobbe una ripresa durata fino agli anni ’40, ed una estensione anche al di fuori del<br />

distretto di Rovereto. Dopo il 1830 ebbe luogo un discreto sviluppo in campo agricolo, industriale e<br />

commerciale per l’ammodernamento dei mezzi di produzione e l’assunzione di nuove iniziative. Ma i beni<br />

prodotti rimasero sempre al di sotto dei bisogni delle popolazioni, soprattutto nel campo delle granaglie (il<br />

cui prezzo risultava costantemente alto per il <strong>da</strong>zio d’importazione), nonostante l’estrema parsimonia del<br />

tenore di vita.<br />

Elementi di ripresa dell’attività culturale<br />

A partire <strong>da</strong>gli anni trenta si verificò una ripresa della vivacità culturale attraverso la rinascita degli studi<br />

storici, letterari e scientifici ad opera di una nuova generazione. In primo piano nel rinnovamento si<br />

collocava ancora una volta l’Accademia roveretana degli Agiati che teneva vivi, accanto ai temi della<br />

letteratura, quelli dell’agricoltura, del commercio, della medicina. Gli "Atti" accademici, <strong>da</strong>l 1826,<br />

apparivano nell’Appendice del giornale "Il Messaggiere tirolese". L’istituzione roveretana continuava a<br />

presentarsi come alveo d’incontro fra il mondo culturale latino e quello tedesco, ma l’intensa corrispondenza<br />

con intellettuali ve<strong>net</strong>i, lombardi, toscani, rafforzava il senso dell’italianità del paese. L’influsso di Antonio<br />

Rosmini, allontanatosi <strong>da</strong>l Trentino, per il momento era più determinante negli ambienti italiani che non<br />

nella sua terra d’origine dove invece facevano sentire la loro voce studiosi e letterati come Francesco<br />

Antonio Marsilli, Giuseppe Frapporti, Antonio Gazzoletti, Tommaso Gar, Agostino Perini. Un certo<br />

dinamismo dimostrava l’amministrazione di Trento con il conte Benedetto Giovanelli, alla gui<strong>da</strong> del comune<br />

<strong>da</strong>l 1816 al 1846, autore di lavori sulla <strong>storia</strong> antica del Trentino.<br />

Determinante per il risveglio culturale, oltre che per quello economico, fu la Società agraria, sollecitata <strong>da</strong>lla<br />

Dieta tirolese e nata nel 1838 con l’approvazione imperiale. Ramificata su tutto il territorio, ebbe il<br />

contributo di studiosi impegnati ad analizzare l’interdipendenza tra i fenomeni economici e quelli sociali che<br />

venivano illustrati sul "Giornale agrario", indirizzando verso le coltivazioni più redditizie, lo svecchiamento<br />

delle tecniche di produzione e formulando proposte per l’istruzione agraria. La Società manteneva anche<br />

contatti con gli ambienti economici italiani ed inviava propri rappresentanti ai congressi scientifici, svoltisi<br />

nella penisola <strong>da</strong>l 1839 al 1847. Un ruolo importante assunse pure l’Istituto sociale di Trento, sorto nel 1838.<br />

Esso s’indirizzava al ceto borghese per promuoverne l’aggregazione e lo sviluppo culturale con conferenze<br />

sulla <strong>storia</strong> e l’economia, con una scuola elementare di musica ed un gabi<strong>net</strong>to letterario fornito di riviste<br />

francesi, tedesche ed italiane.<br />

Gli ideali di rinnovamento che circolavano fra i notabili cittadini non sfociavano ancora in manifestazioni di<br />

dissenso e rimanevano patrimonio di una minoranza, senza toccare la massa contadina sempre lontana o<br />

avversa alle novità. Eppure la classe dirigente <strong>trentina</strong> aveva compiuto una maturazione aprendosi ai principi<br />

di libertà, ormai diffusi in Europa, che reclamavano mutamenti istituzionali e politici. Per questo non si trovò<br />

impreparata di fronte agli avvenimenti del 1848 che avrebbero dovuto segnare una svolta nell’impero<br />

asburgico e nella Confederazione germanica.<br />

Il Biennio rivoluzionario e il breve periodo costituzionale (1848-1851) di Maria Garbari<br />

Il Trentino di fronte al moto rivoluzionario ed al conflitto tra l'Austria e il Regno sabaudo<br />

Il moto rivoluzionario, partito <strong>da</strong>lla Francia, diffuso in Europa ed appro<strong>da</strong>to anche nell’impero asburgico,<br />

aveva fatto emergere nel Trentino i motivi di disagio nei confronti della Dieta tirolese e del governo di<br />

Vienna. L’annuncio che l’imperatore Ferdinando I, sotto la spinta insurrezionale, il 15 marzo 1848 aveva<br />

promesso la costituzione, accese l’entusiasmo dei cittadini di Trento; essi il giorno 19 chiesero al podestà<br />

Giuseppe de Panizza di stendere una supplica al sovrano per ottenere il distacco del Tirolo italiano <strong>da</strong> quello<br />

tedesco e la sua aggregazione al Lombardo-Ve<strong>net</strong>o, quando non era ancora giunta la notizia dei moti<br />

scoppiati il 17 a Venezia e il 18 a Milano. Contemporaneamente prendeva corpo una manifestazione<br />

tumultuosa di natura popolare con l’assalto alla cinta <strong>da</strong>ziaria, ma contenuta <strong>da</strong>lla guardia nazionale<br />

costituita <strong>da</strong>l municipio e <strong>da</strong>ll’intervento pacificatore del vescovo de Tschiderer.<br />

La dichiarazione di guerra all’Austria <strong>da</strong> parte di Carlo Alberto, sottoscritta il 23 marzo, ebbe notevoli<br />

110


ipercussioni nel Trentino che rappresentava, <strong>da</strong> un punto di vista strategico, l’asse di raccordo fra gli eserciti<br />

austriaci stanziati in area italiana ed i territori imperiali. Il 7 aprile le autorità politico – amministrative di<br />

Trento erano sostituite <strong>da</strong> un commissario governativo ed il giorno 8 il comando militare della città veniva<br />

assunto <strong>da</strong>l col. Zobel che, il 15, dichiarava lo stato d’assedio. Nel frattempo, il 9 aprile, era stata respinta la<br />

supplica al sovrano per lo scioglimento del Trentino <strong>da</strong>l nesso tirolese.<br />

Le misure di rigore erano dettate <strong>da</strong>l tentativo dei corpi franchi, volontari italiani che operavano<br />

indipendentemente <strong>da</strong>ll’esercito regolare, di tagliare le vie di comunicazione fra l’Austria e l’esercito del<br />

Radetzkj. Il corpo di spedizione diretto <strong>da</strong>ll’Allemandi pe<strong>net</strong>rava nel Trentino sud-occidentale e, forte di<br />

alcuni successi, occupava Tione dove veniva costituito un governo provvisorio retto <strong>da</strong> Giacomo Marchetti.<br />

Le azioni successive risultavano però soccombenti sotto l’urto delle truppe austriache presso Castel Toblino;<br />

21 prigionieri, catturati in questo scontro, vennero portati a Trento e fucilati il 16 aprile nella fossa del<br />

castello del Buonconsiglio. Anche le operazioni dei corpi franchi nelle valli di Sole e di Non erano destinate<br />

al fallimento ed al ritiro dei volontari <strong>da</strong> Malè e <strong>da</strong> Cles pochi giorni dopo l’occupazione. Alla fine di aprile<br />

ogni pericolo di attività militare era cessata e l’esercito austriaco poteva organizzare la controffensiva.<br />

I trentini fuorusciti perché timorosi di reazioni <strong>da</strong> parte delle autorità, riuniti a Brescia il 1° maggio,<br />

costituivano un "Comitato" che chiedeva al governo di Milano la fusione del Tirolo italiano con lo stato<br />

sardo, e fon<strong>da</strong>vano la "Legione <strong>trentina</strong>" per la liberazione militare del paese, sollecitata anche <strong>da</strong> un appello<br />

a Carlo Alberto firmato <strong>da</strong> Lorenzo Festi, Antonio Gazzoletti ed Angelo Ducati. La soluzione territoriale<br />

della questione <strong>trentina</strong> con modificazione del confine politico, irrealizzabile in questa congiuntura storica<br />

per molte ragioni, non ultima quella dell’appartenenza del paese alla Confederazione germanica, venne però<br />

sposata <strong>da</strong> una esigua minoranza costituita prevalentemente <strong>da</strong> profughi.<br />

La deputazione <strong>trentina</strong> alle costituenti di Francoforte e Vienna – Kremsier<br />

Nel periodo aprile – giugno 1848 i cittadini del Tirolo italiano furono chiamati ad eleggere i deputati alla<br />

costituente di Francoforte e a quella di Vienna (per entrambe attraverso il suffragio universale maschile), ed<br />

alla Dieta di Innsbruck con funzioni di costituente dove la rappresentanza sarebbe stata espressa sulla base<br />

dei ceti. Sul giornale "Il Messaggiere tirolese", convertito agli accenti di libertà, apparivano gli articoli del<br />

sacerdote Giovanni a Prato, culminati nella lettera del 26 aprile agli elettori. In essi venivano esposti, in<br />

forme organiche e decisamente progressiste, i principi costituzionali che avrebbero trasformato lo stato<br />

assoluto in stato di diritto posto a tutela e sviluppo di tutti i cittadini, indipendentemente <strong>da</strong>lle condizioni<br />

sociali, <strong>da</strong>lla nazionalità o <strong>da</strong>lla fede.<br />

I trentini rifiutarono d’inviare i loro rappresentanti alla Dieta tirolese, considerata ancora di stampo feu<strong>da</strong>le,<br />

ed il 19 maggio presentavano una protesta, corre<strong>da</strong>ta <strong>da</strong> 5000 firme, contro la mancata tutela degli interessi<br />

del Trentino <strong>da</strong> parte del governo di Innsbruck. Si decise invece di eleggere i deputati alle costituenti di<br />

Francoforte e di Vienna, grandi assise dove la questione <strong>trentina</strong> avrebbe potuto trovare soluzione all’interno<br />

della rifon<strong>da</strong>zione dello stato su basi liberali.<br />

La deputazione del Trentino a Francoforte, composta <strong>da</strong> sei eletti, sotto la gui<strong>da</strong> di Giovanni a Prato prese<br />

posto nella sinistra mediana dello schieramento ed intervenne sui principali problemi dibattuti, come<br />

l’eliminazione dei privilegi nobiliari e di classe, la doman<strong>da</strong> di separazione fra stato e chiesa e la<br />

parificazione delle confessioni religiose. La questione <strong>trentina</strong> venne sollevata nel giugno con la richiesta che<br />

i circoli di Trento e Rovereto fossero staccati <strong>da</strong>l nesso con la Germania, ferma restando l’unione all’Austria,<br />

e la petizione per ottenere l’autonomia separata <strong>da</strong>l Tirolo tedesco. Le due proposte vennero però respinte<br />

<strong>da</strong>lla maggioranza dei deputati: la prima perché ritenuta inammissibile, la secon<strong>da</strong> perché di competenza<br />

dell’assemblea viennese. Anche nella costituente di Vienna, aperta il 22 luglio, la deputazione <strong>trentina</strong>,<br />

sempre gui<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>ll’a Prato, prese collocazione nella sinistra democratica e svolse una intensa attività, nelle<br />

sedute plenarie e all’interno delle singole commissioni, per l’ammodernamento dello stato asburgico.<br />

Gli avvenimenti rivoluzionari verificatisi nell’impero, capitale compresa, portarono nel novembre alla<br />

sospensione della costituente ed alla sua riconvocazione a Kremsier, alla formazione di un nuovo governo<br />

affi<strong>da</strong>to al conservatore Schwarzenberg ed alla nomina, il due dicembre, di un nuovo imperatore, il<br />

diciottenne Francesco Giuseppe destinato a regnare fino al 1916.<br />

A Kremsier venne discussa la proposta di erigere il Tirolo italiano a provincia autonoma, appoggiata <strong>da</strong> una<br />

petizione stesa nel settembre 1848, forte di ben 46.000 firme raccolte nel Trentino tanto <strong>da</strong> assumere<br />

l’aspetto di un vero pronunciamento popolare. La proposta, accolta nel gennaio 1849 <strong>da</strong>l comitato<br />

costituzionale con 20 voti contro 7, venne invece bocciata il primo marzo con 12 voti contrari rispetto agli 11<br />

a favore. Pochi giorni dopo, il 4 marzo, la costituente veniva sciolta per ordine sovrano ed il testo<br />

111


costituzionale elaborato <strong>da</strong>ll’assemblea sostituito con uno concesso <strong>da</strong>ll’imperatore.<br />

Nel Trentino l’opinione pubblica era tenuta desta <strong>da</strong>i "comitati patri", sorti nei centri più importanti e<br />

popolosi. I comitati, quasi corpi intermedi fra i deputati e gli elettori, sempre informati ed attenti a quanto<br />

avveniva nelle assise costituenti, organizzavano, con l’appoggio dei comuni, periodici dibattiti per rendere<br />

partecipi i cittadini degli accadimenti politici e compiere un’opera di divulgazione nelle vallate.<br />

A fine agosto 1848, nel Tirolo italiano era stato inviato <strong>da</strong>l governo il commissario Fischer con l’incarico di<br />

valutare la fon<strong>da</strong>tezza delle richieste d’autonomia e di fare eventuali proposte. Nelle sue mani era stata<br />

consegnata una memoria corre<strong>da</strong>ta <strong>da</strong> 3439 sottoscrizioni che, accanto all’inchiesta compiuta in proprio, lo<br />

avevano convinto ad esprimere parere favorevole all’autonomia amministrativa, purché congiunta al<br />

controllo militare dei confini. Tale proposta era però destinata a cadere dopo il risultato della votazione<br />

avvenuta a Kremsier il primo marzo.<br />

I riflessi nel Trentino del periodo costituzionale<br />

Il testo costituzionale del 4 marzo 1849 portò, anche nella provincia tirolese, alla separazione della funzione<br />

politico - amministrativa <strong>da</strong> quella giudiziaria. Al posto del Gubernium venne eretta una luogotenenza e<br />

create tre reggenze di circolo, una delle quali per il territorio trentino suddiviso in sei distretti politici<br />

comprendenti, nel loro ambito, più giudizi distrettuali con poteri giudiziari di prima istanza. Poteri di<br />

secon<strong>da</strong> istanza avevano le Corti di giustizia di Trento e Rovereto, di terza il Senato di Trento e, in materia<br />

penale, la Corte di cassazione di Vienna.<br />

La patente imperiale del 17 marzo 1849 sulla provvisoria organizzazione dei comuni rifletteva il nuovo clima<br />

instauratosi con la costituzione. La legge si apriva con l’articolo che alla base dello stato libero si trova il<br />

libero comune; precisava la doppia sfera del comune, la naturale e la delegata; riaffermava l’elettività degli<br />

organi comunali ponendola su basi censitarie; garantiva la pubblicità dei dibattiti e delle deliberazioni. Una<br />

delle novità più rilevanti della legge consisteva nel prevedere organi elettivi intermedi posti fra i comuni e le<br />

Diete dei Länder, le rappresentanze distrettuali e quelle circolari, raggruppanti più comuni. Ciò<br />

corrispondeva al principio liberale che spetta ai cittadini partecipare anche al potere esecutivo, comprese le<br />

funzioni di controllo.<br />

Il par. 6 del testo legislativo del 17 marzo 1849 prevedeva l’emanazione di statuti speciali per le città più<br />

importanti. Trento si mosse subito, già nell’aprile 1849, sollecitata <strong>da</strong>l ministero dell’interno e <strong>da</strong>l<br />

luogotenente del Tirolo. La proposta di statuto municipale, stesa <strong>da</strong> un comitato di esperti, venne contestata<br />

<strong>da</strong>lle autorità politiche perché considerata in parte discostata <strong>da</strong>lla legge del marzo e, su alcuni punti, troppo<br />

liberale. Dopo la revisione del testo, lo statuto della città di Trento fu approvato con risoluzione sovrana e<br />

promulgato il 29 marzo 1851. Nonostante la mancata accettazione delle più significative proposte trentine,<br />

tale statuto faceva del comune di Trento un ente con ampie facoltà autonome nell’ambito del Land autonomo<br />

del Tirolo.<br />

La costituzione proclamava il diritto alla libertà di stampa e l’abolizione della censura. In questo clima<br />

Giovanni a Prato fon<strong>da</strong>va il "Giornale del Trentino", che iniziò la pubblicazione il 2 maggio 1850, e costituì<br />

uno dei più alti esempi di stampa periodica per la capacità di proiettare i problemi locali nel contesto<br />

europeo. Dalle pagine del giornale l’a Prato tenne lezioni di dottrina liberale e costituzionale, stese in forma<br />

piana per contribuire all’educazione civile delle popolazioni. Altre iniziative culturali ed editoriali di rilievo<br />

furono la nascita dell’impresa tipografica dei fratelli Perini e la chiamata a Trento, ad opera del comune, di<br />

Tommaso Gar, protagonista nel Ve<strong>net</strong>o del moto insurrezionale del 1848-49, con l’incarico di scrivere la<br />

<strong>storia</strong> della città.<br />

Il neoassolutismo di Maria Garbari<br />

L'involuzione politica ed i controlli di polizia<br />

Con la patente imperiale del 31 dicembre 1851 era abrogata la costituzione e si apriva il periodo del<br />

neoassolutismo. Il Parlamento veniva sostituito <strong>da</strong> un Consiglio dell’impero di nomina sovrana con funzioni<br />

solo consultive. Di esso fece parte, in rappresentanza degli italiani, il giudice Antonio Salvotti, uomo di<br />

grande cultura giuridica e di estrema correttezza nei procedimenti penali, rivalutato <strong>da</strong>lla moderna<br />

storiografia dopo la con<strong>da</strong>nna inflitta <strong>da</strong>gli studiosi nazionalisti per il ruolo svolto nei processi del 1821<br />

contro i carbonari.<br />

La normativa del 1849 riguar<strong>da</strong>nte i comuni venne bloccata e sospesa la pubblicità delle sedute; anche allo<br />

statuto proprio di Trento fu impedito di esprimere tutte le sue potenzialità e per un lungo periodo<br />

112


l’amministrazione cittadina rimase affi<strong>da</strong>ta a commissari governativi. Cessata la separazione dei poteri, nel<br />

1854 il circolo di Trento venne suddiviso in 25 "uffici distrettuali misti" che unificavano le funzioni dei<br />

capitanati e dei giudizi; essi rimasero in vigore fino al 1868, quando ormai era stato reintrodotto il sistema<br />

costituzionale. La libertà di stampa fu imbrigliata <strong>da</strong>lla legge del 1852, integrata poi <strong>da</strong> diverse ordinanze.<br />

Giovanni a Prato, che già nell’agosto 1851 aveva dovuto sospendere la pubblicazione del "Giornale del<br />

Trentino", veniva privato dell’insegnamento presso il ginnasio di Rovereto. Il Concor<strong>da</strong>to, firmato<br />

nell’agosto 1855 fra l’Austria e la Santa Sede per riproporre l’alleanza trono – altare, assunse la funzione di<br />

uno strumento utile allo stato ai fini del conservatorismo e del disciplinamento ideologico e sociale.<br />

Il controllo politico e di polizia fu ampiamente esteso a tutti coloro – deputati a Francoforte e a Vienna<br />

compresi – che si erano messi in luce nel biennio 1848-49 o che erano ritenuti fautori della causa italiana.<br />

Nel 1853 venne ipotizzata la diffusione dell’attività mazziniana nel Trentino, tanto <strong>da</strong> portare al fermo di<br />

qualche persona. Ma, nonostante questo ed altri episodi di scarsa consistenza, il paese si manteneva<br />

tranquillo e <strong>da</strong> parte delle autorità non furono usati i metodi forti né compiute angherie, pur non cessando<br />

mai la sospettosità e l’oculata sorveglianza.<br />

La guerra del 1859 e l'attività dei fuorusciti trentini<br />

Durante i primi mesi del 1859, nella sicurezza di un imminente conflitto tra l’Austria e il Regno di Sardegna<br />

appoggiato <strong>da</strong>lla Francia, prese il via il fenomeno del fuoruscitismo. Lo scoppio della guerra, a seguito<br />

dell’ultimatum austriaco del 23 aprile, non faceva prevedere operazioni militari nel Trentino perché le truppe<br />

franco-piemontesi non intendevano pe<strong>net</strong>rare in un territorio rientrante nella Confederazione germanica. Si<br />

temevano tuttavia sconfinamenti del corpo garibaldino (i cacciatori delle Alpi) e venivano adottate misure<br />

preventive nei confronti dei rappresentanti del movimento nazionale.<br />

Da parte degli emigrati Antonio Gazzoletti, Vittore Ricci e Gerolamo Pietrapiana, nel giugno furono stesi<br />

due indirizzi, l’uno a Vittorio Emanuele II, l’altro a Napoleone III, con la richiesta che il Trentino venisse<br />

incluso nel progetto risorgimentale italiano, ma le petizioni ebbero accoglienza deludente. Le pressioni dei<br />

patrioti continuarono anche dopo l’armistizio del luglio ed i preliminari di pace di Villafranca, quando<br />

veniva ipotizzata la costituzione di una Lega italiana presieduta <strong>da</strong>l pontefice. La pace di Zurigo del<br />

novembre, che segnava il passaggio della Lombardia al Regno sardo, non conteneva alcun accenno alla<br />

questione <strong>trentina</strong>. Successivamente i fuorusciti residenti a Milano decisero di premere sul Cavour, ottenendo<br />

però solo richiami alla prudenza.<br />

Nel Trentino, conosciuta la firma dell’armistizio, riprese vigore l’aspirazione già espressa nel 1848 di<br />

ottenere il distacco <strong>da</strong>l Tirolo tedesco per entrare a fare parte delle province ve<strong>net</strong>e. La richiesta, ritenuta<br />

legale, venne formulata <strong>da</strong>l consiglio comunale di Trento il 23 luglio ed ebbe subito l’appoggio dei maggiori<br />

centri del paese e degli operatori economici raccolti in appo<strong>sito</strong> comitato. La reazione del luogotenente del<br />

Tirolo valse però a stroncare ogni speranza: la seduta con conseguente delibera del comune di Trento venne<br />

dichiarata nulla e furono accentuate le misure di polizia.<br />

Il Trentino di fronte all’unità d’Italia<br />

Gli avvenimenti italiani del 1860 (annessione al Piemonte dei Ducati e della Toscana, spedizione di<br />

Garibaldi nel Regno delle due Sicilie seguita <strong>da</strong> quella piemontese nelle Marche e nell’Umbria),<br />

scavalcavano i programmi fissati nell’alleanza tra Napoleone III e Vittorio Emanuele II dell’aprile 1859 e si<br />

risolvevano nella realizzazione dell’unità d’Italia. Il riflesso in terra <strong>trentina</strong> fu l’accentuarsi delle misure di<br />

polizia: nel giugno alcuni esponenti del movimento nazionale venivano arrestati e confinati ed il podestà di<br />

Trento era esonerato <strong>da</strong>lla carica.<br />

I trentini fuorusciti continuarono nel 1860 la loro attività, sia partecipando come volontari alle operazioni<br />

militari nell’esercito garibaldino e in quello regolare in un numero calcolabile fra i 300 e i 400, sia con<br />

l’opera propagandistica ed il richiamo agli ambienti politici italiani, di Francia e d’Inghilterra, perché non<br />

fosse dimenticato il problema del Trentino.<br />

Quanto accaduto nel 1859-60 doveva però dimostrare come il progetto, coltivato <strong>da</strong> una minoranza, di<br />

staccare la provincia <strong>trentina</strong> <strong>da</strong>i possedimenti asburgici, si presentasse utopistico, perché l’Italia non poteva<br />

compromettere la realizzazione della sua fragile unità con nuove avventure di guerra e le potenze europee<br />

erano interessate a conservare l’Austria quale cardine dell’equilibrio continentale, senza indebolirla con<br />

ulteriori perdite territoriali. La lezione fu compresa <strong>da</strong>lla maggioranza del ceto dirigente trentino, deciso a<br />

dimettere i programmi velleitari per puntare sulle riforme istituzionali, la tutela culturale dei caratteri<br />

nazionali e la soluzione dei problemi economici, nati <strong>da</strong>lla nuova linea di confine che tagliava alla modesta<br />

113


industria locale le vie naturali di commercio con l’area lombar<strong>da</strong>.<br />

Francesco Giuseppe d'Asburgo<br />

Nato a Vienna nel 1830, Francesco Giuseppe a soli diciotto anni sale al trono asburgico grazie<br />

all’abdicazione del nonno Ferdinando I. La sua lunghissima vita coincide con gli anni del lungo ma<br />

inarrestabile declino dell’impero asburgico, stretto tra l’esigenza di conservare prestigio <strong>da</strong>vanti<br />

all’emergente potenza prussiana e nel medesimo tempo, mantenere l’ordine con la forza tra le diverse<br />

nazionalità dell’Impero.<br />

Tutte operazioni che avranno successo: l’unificazione italiana comportò la perdita del Lombardo-Ve<strong>net</strong>o,<br />

l’unità tedesca comportò a sua volta l’emarginazione austriaca all’interno del continente germanico.<br />

Francesco Giuseppe tentò di placare il problema delle nazionalità, concedendo nel 1867 la “duplice<br />

monarchia” e la divisione dell’Impero con l’Ungheria, tuttavia il compromesso scontentò del tutto le altre<br />

nazionalità, tra cui l’italiana, sempre più spinta verso l’irredentismo nei territori di Trento e Trieste. La<br />

Grande Guerra viene a concludere la parabola discendente della “felix Austria”. L'imperatore muore nel<br />

castello di Schönbrunn, a Vienna, nel 1916.<br />

Il ritorno al sistema costituzionale di Maria Garbari<br />

Le istituzioni politiche e la lotta per l'autonomia<br />

Il ritorno alla vita costituzionale nell’impero asburgico avvenne prima con il diploma del 20 ottobre 1860 e<br />

poi, caduto il governo conservatore sostituito <strong>da</strong> uno liberale, con la patente imperiale del 26 febbraio 1861<br />

che istituiva un Parlamento bicamerale costituito <strong>da</strong> una Camera dei signori (Herrenhaus), composta <strong>da</strong><br />

membri di nomina imperiale, e <strong>da</strong> una Camera dei deputati (Abgeord<strong>net</strong>enhaus) con 343 rappresentanti eletti<br />

<strong>da</strong>lle Diete dei Länder.<br />

La patente del febbraio conteneva in allegato il Regolamento provinciale della principesca contea del Tirolo,<br />

in base al quale la Dieta risultava costituita <strong>da</strong> 68 deputati, 64 eletti e 4 di diritto (i vescovi di Salisburgo,<br />

Bressanone, Trento ed il rettore dell’università di Innsbruck). Dal punto di vista elettorale la ripartizione per<br />

ceti veniva sostituita <strong>da</strong> quattro curie (del grande possesso nobile fondiario; dei prelati; delle città, borghi e<br />

camere di commercio; dei comuni rurali), con aumento dei rappresentanti dei comuni rurali che ottenevano<br />

34 man<strong>da</strong>ti. Il Regolamento troncava la speranza di un’autonomia separata per il Trentino e, con<br />

l’assegnazione di 21 deputati alla parte italiana del Tirolo, riconfermava la sproporzione nella Dieta fra i due<br />

gruppi etnici con<strong>da</strong>nnando i trentini alle condizioni di perpetua minoranza.<br />

Le reazioni di protesta non tar<strong>da</strong>rono molto: in occasione delle votazioni del 21 e 22 marzo 1861 per<br />

l’assemblea tirolese, gli elettori trentini decisero di non presentarsi alle urne o di prendere parte alle votazioni<br />

solo per nominare candi<strong>da</strong>ti che si impegnassero, una volta eletti, a rinunciare al man<strong>da</strong>to. Si iniziava in<br />

questo modo, dopo gli interventi alle costituenti di Francoforte e Vienna – Kremsier, la lunga lotta per<br />

l’autonomia, condivisa <strong>da</strong>i ceti dirigenti, <strong>da</strong> tutte le componenti politico – ideologiche e <strong>da</strong>lle popolazioni,<br />

tanto <strong>da</strong> diventare l’asse portante della <strong>storia</strong> del paese. Dal 1861 fino allo scoppio della guerra mondiale le<br />

richieste di una amministrazione autonoma rivolte alla Dieta tirolese e al Parlamento di Vienna furono<br />

numerose e reiterate, così come le dichiarazioni e i memoriali, ma sempre destinate al fallimento per<br />

opposizioni politiche, irrigidimenti sui principi o per circostanze sfavorevoli.<br />

La prassi dell’astensionismo caratterizzò soprattutto gli anni 1861-1871, quando per ben undici volte<br />

vennero indette le elezioni ai fini di reintegrare i seggi vacanti alla Dieta. I dubbi sugli svantaggi di non<br />

essere presenti nell’assemblea tirolese venivano cancellati <strong>da</strong>l clamore della remissione dei man<strong>da</strong>ti che, con<br />

il suo effetto propagandistico, teneva desta l’opinione pubblica. I pochi rappresentanti trentini di parte<br />

cattolica che partecipavano ai lavori dietali erano impegnati come gli astensionisti nelle richieste<br />

autonomistiche, appro<strong>da</strong>te anche in Parlamento nel luglio 1867 ad opera di Celestino Leonardi e Napoleone<br />

a Prato. Nell’aprile 1871 l’imperatore Francesco Giuseppe, in visita nel Trentino, si dimostrò disposto ad<br />

appoggiare il postulato dell’autonomia contenuto in un memoriale rivolto al sovrano firmato <strong>da</strong> 251<br />

rappresentanze comunali. Ma il progetto elaborato <strong>da</strong> parte governativa venne giudicato inadeguato alle<br />

esigenze del paese e quindi respinto.<br />

Il nuovo ordinamento delle amministrazioni comunali<br />

Alla Camera dei deputati di Vienna, aperta il 29 aprile 1861 in un clima di grande conflittualità nazionale e<br />

114


d’interessi, dei quattro rappresentanti previsti per il Trentino solo due poterono essere eletti <strong>da</strong>lla Dieta<br />

tirolese, Giovanni Sartori e Carlo de Riccabona, mancando gli altri a causa dell’astensionismo. Nonostante la<br />

loro matrice cattolica e tendenzialmente conservatrice, i due deputati – come quasi tutti coloro che li<br />

seguiranno nella carica – si batterono per gli interessi della loro terra, compresi quelli relativi alla tutela<br />

nazionale, e presero parte attiva ai lavori per la nuova legislazione sui comuni, sfociati nella legge – quadro<br />

del 5 marzo 1862.<br />

La legge manteneva in vita i principi fon<strong>da</strong>mentali di quella del 1849 ribadendo i caratteri di indipendenza ed<br />

autonomia dei comuni ai quali venivano conferiti anche compiti delegati, e riconfermava la possibilità<br />

d’introdurre fra i comuni e le Diete organi intermedi elettivi. In base a tale normativa la Dieta tirolese, per le<br />

proprie competenze statutarie, venne chiamata ad elaborare un regolamento comunale per la provincia; ma i<br />

lavori non si presentarono facili, tanto <strong>da</strong> protrarsi <strong>da</strong>l 1862 al 1866. La maggioranza dell’assemblea,<br />

costituita <strong>da</strong> deputati clericali ed ultraconservatori, si scagliava contro il governo di Vienna ritenuto lesivo<br />

dei diritti del Land e scatenava pesanti attacchi nei confronti dei deputati liberali e di quelli della parte<br />

italiana del Tirolo, presenti perché non astensionisti. Costoro – in particolare Celestino Leonardi, Giovanni<br />

Sartori ed Andrea Strosio – per quanto d’indirizzo cattolico e considerati filogovernativi, nella difesa delle<br />

libertà dei comuni e degli interessi del Trentino, si schierarono accanto all’opposizione liberale assumendo<br />

posizioni che, nel contesto, avevano un sapore progressista e quasi rivoluzionario.<br />

Il Regolamento provinciale del 1866 prevedeva che la rappresentanza comunale venisse espressa <strong>da</strong>i censiti<br />

sulla base di due (nei centri minori) o tre corpi elettorali; il diritto all’elezione corrispondeva a un dovere,<br />

tanto che il rifiuto alla nomina o l’assenteismo dei consiglieri venivano colpiti con multe a beneficio della<br />

cassa comunale. Le riunioni del consiglio erano pubbliche, così come i verbali delle sedute, i conti consuntivi<br />

e preventivi. Le attribuzioni dei comuni risultavano di duplice natura: quelle proprie (chiamate anche naturali<br />

o indipendenti), assai consistenti, e quelle delegate <strong>da</strong>l potere esecutivo. Nel Trentino, favorevole al<br />

decentramento ed al potenziamento degli enti periferici, il regolamento ebbe accoglienza positiva anche se,<br />

come appariva ai politici più accorti, la decantata libertà e autonomia comunali si riducevano a ben poco,<br />

<strong>da</strong>to che un altissimo numero di comuni era di dimensioni minime e dotato d’un patrimonio così modesto <strong>da</strong><br />

escludere qualsiasi progetto di sviluppo.<br />

L’attivazione delle rappresentanze elettive intermedie, caldeggiate <strong>da</strong>i trentini che in esse vedevano un<br />

pallido surrogato dell’autonomia, impegnò la Dieta tirolese <strong>da</strong>l 1863 al 1868 con dibattiti e scontri a non<br />

finire per l’opposizione dei conservatori. La legge istitutiva delle rappresentanze distrettuali venne<br />

finalmente varata nel novembre 1868, ma rimase priva d’attuazione nonostante le proteste dei trentini,<br />

congelata <strong>da</strong>lla maggioranza intesa ad evitare mutamenti ed a mantenere l’antico ordine politico –<br />

amministrativo.<br />

Nel 1868 prendeva vita nel Tirolo italiano una sezione di luogotenenza, già decisa nel 1864. Il<br />

provvedimento, che risultava solo un distaccamento degli uffici di Innsbruck anziché la concessione di un<br />

minino d’autonomia, sia pure depotenziata, andò incontro a scarsi consensi tanto che la sezione di<br />

luogotenenza venne soppressa nel 1896.<br />

La guerra del 1866 ed il quadro delle <strong>tratta</strong>tive diplomatiche<br />

La questione del Trentino venne sollevata nel 1866 all’interno della guerra austro-prussiana e delle <strong>tratta</strong>tive<br />

diplomatiche connesse al conflitto. Nell’aprile era stata firmata a Berlino l’alleanza tra la Prussia e l’Italia;<br />

quest’ultima era obbligata ad intervenire nel caso di guerra contro l’Austria. La Francia, nel giugno,<br />

s’impegnava con l’Austria a mantenere la neutralità chiedendo in cambio la cessione del Ve<strong>net</strong>o all’Italia. Il<br />

governo italiano faceva a sua volta pressione su Berlino, Parigi e Vienna perché nei compensi venisse<br />

inserito anche il Trentino, ma ottenendo più dinieghi che garanzie, sia prima che durante le ostilità scoppiate<br />

il 19 giugno. L’idea di occupare militarmente i territori del Tirolo italiano per far valere al tavolo della pace<br />

il diritto dello stato di possesso (principio dell’uti possidetis), portò ad appoggiare l’azione dei volontari<br />

garibaldini, conclusa con la battaglia di Bezzecca del 21 luglio, e quella del generale Medici che, con una<br />

divisione, contava di raggiungere Trento attraverso la Valsugana. Egli però, il 24 luglio, fu costretto ad<br />

arrestarsi a Pergine.<br />

La vittoria prussiana contro gli austriaci rendeva inutili le operazioni militari sul fronte italiano; l’Italia, in<br />

questa situazione, non poteva che accettare l’armistizio, firmato a Cormons il 12 agosto, solo dopo la<br />

vincolante condizione di evacuare i territori non compresi nel Ve<strong>net</strong>o. A Vienna, nel corso delle <strong>tratta</strong>tive<br />

sull’accordo di pace, il governo italiano aveva scarso potere contrattuale; a nulla appro<strong>da</strong>rono le richieste del<br />

plenipotenziario Menabrea, blan<strong>da</strong>mente appoggiate <strong>da</strong> Francia e Prussia, anche se rafforzate <strong>da</strong> un<br />

115


memoriale di Giovanni a Prato nel quale venivano esposte le ragioni nazionali, economiche e strategiche che<br />

avrebbero giustificato la cessione del Trentino all’Italia, magari dietro pagamento di una indennità. Nella<br />

pace di Vienna del 3 ottobre prevalse la tesi di non indebolire ulteriormente l’Austria e all’Italia fu assegnato<br />

solo il Ve<strong>net</strong>o.<br />

Il Trentino durante la guerra e nel dopoguerra<br />

Nel corso della guerra del 1866 al Trentino vennero imposti il governo militare e la legge marziale (giudizio<br />

statario) con limitazioni delle libertà e l’accentuarsi dei controlli di polizia. Gli in<strong>da</strong>gati e gli arrestati tuttavia<br />

non furono molti ed i con<strong>da</strong>nnati poterono fruire a breve distanza dell’amnistia successiva alla conclusione<br />

del conflitto. Nei centri cittadini gli esponenti del movimento nazionale salutarono con entusiasmo la<br />

possibilità di annessione all’Italia, ma le popolazioni rurali che costituivano la maggioranza del paese,<br />

naturalmente avverse alle guerre, si posero sulla difensiva soprattutto nei confronti delle formazioni<br />

garibaldine, spesso spregiudicate nei loro comportamenti e poco rispettose dei beni e della sensibilità<br />

religiosa degli abitanti.<br />

Sgomberate <strong>da</strong>l territorio le truppe italiane, prese il via la normalizzazione con i festeggiamenti, voluti in<br />

modo solenne <strong>da</strong>lle autorità governative, del ge<strong>net</strong>liaco dell’imperatore che cadeva il 18 agosto. Permasero<br />

comunque espressioni di protesta e di disagio per il nuovo tracciato dei confini che pregiudicava non poco i<br />

tradizionali flussi commerciali, già compromessi nel 1859 <strong>da</strong>l distacco della Lombardia <strong>da</strong>i possedimenti<br />

asburgici.<br />

Emergeva, fra coloro che protestavano, la città di Rovereto, non nuova nell’assumere atteggiamenti<br />

antigovernativi, tanto che nel dicembre 1862 era stata colpita <strong>da</strong>llo scioglimento della Camera di commercio<br />

e <strong>da</strong>lla con<strong>da</strong>nna del suo presidente. Nel 1867 venivano sospese le attribuzioni politiche del Magistrato<br />

civico e, nel maggio 1868, la polizia interveniva per controllare il convegno delle Società operaie tenuto<br />

nella città della quercia. Nonostante questo, Rovereto chiese ed ottenne nel 1868 un proprio statuto in base<br />

alla legge del 1862; fu anzi la prima città del Tirolo a godere delle ampie attribuzioni autonome previste<br />

<strong>da</strong>lla nuova legislazione comunale.<br />

Le leggi fon<strong>da</strong>mentali del 1867. La laicizzazione dello stato e la chiesa <strong>trentina</strong><br />

Il 1867 segnò una svolta nella <strong>storia</strong> dell’Austria, espulsa <strong>da</strong>lla Confederazione germanica a seguito della<br />

sconfitta inflittale <strong>da</strong>lla Prussia. Il governo, presieduto <strong>da</strong>l Beust, dopo laboriose <strong>tratta</strong>tive con gli ungheresi<br />

che reclamavano l’indipendenza del paese, era giunto al compromesso austro-ungarico (Ausgleich) dell’8<br />

febbraio 1867 e s’impegnava a modificare la costituzione in senso marcatamente liberale. Le leggi<br />

fon<strong>da</strong>mentali del 21 dicembre 1867, ed in particolare quella "sui diritti fon<strong>da</strong>mentali dei cittadini pei Regni e<br />

Paesi rappresentati al Consiglio dell’impero", aprivano un nuovo ciclo dello sviluppo costituzionale e<br />

garantivano la parità e la tutela di tutti i gruppi nazionali componenti la monarchia.<br />

I deputati trentini a Vienna, <strong>da</strong>l 1867 i cattolici Napoleone a Prato, Celestino Leonardi ed Eliodoro Degara,<br />

non mancarono d’impegnarsi ripetutamente per sostenere tutti gli interessi del loro paese, ma il programma<br />

di laicizzazione dello stato intrapreso <strong>da</strong>l governo liberale doveva portarli a privilegiare le questioni di parte,<br />

come avveniva nel Trentino dove si rompeva la collaborazione dei cattolici con la corrente nazionaleliberale.<br />

Nel febbraio 1861 era stato nominato vescovo di Trento Benedetto de Riccabona (1861-1879), avverso<br />

all’unità d’Italia compiuta a spese di territori pontifici. La tensione fra clericali e liberali scoppiò nel 1863, in<br />

occasione delle celebrazioni del terzo centenario della chiusura del concilio di Trento, quando ai prelati<br />

convenuti venne recapitata l’opera di Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, stampata per<br />

conto de "Il Messaggiere tirolese". Le copie del volume furono subito sequestrate ed il vescovo proibì ai<br />

sacerdoti di collaborare al giornale accusato di liberalismo, di diffonderlo e perfino di leggerlo. Le<br />

manifestazioni d’intransigenza dottrinale della chiesa <strong>trentina</strong> ebbero il risultato di accentuare il lealismo<br />

verso gli Asburgo, nella sicurezza che ciò favorisse la conservazione. Ma anche l’Austria, come lo stato<br />

italiano, tornata alla vita costituzionale s’incamminava sulla via del laicismo e del liberalismo, sollevando<br />

proteste nei Länder, quali il Tirolo, arroccati su posizioni reazionarie.<br />

La presentazione alla Camera viennese dei progetti di legge sul diritto per i cattolici a contrarre matrimonio<br />

civile ed il ritorno ai tribunali laici delle competenze matrimoniali, sull’emancipazione della scuola <strong>da</strong>lla<br />

chiesa e sulla regolamentazione dei rapporti interconfessionali, portò i deputati trentini ad accostarsi ai<br />

clericali tirolesi prevalendo in essi la fedeltà alla parola del vescovo che non alla generale tutela della loro<br />

terra. I tre disegni di legge, nonostante le massicce opposizioni, vennero approvati e nel maggio 1868<br />

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ottennero la sanzione imperiale. Le "leggi di maggio" costituirono un trauma per il Tirolo e per la diocesi<br />

<strong>trentina</strong>, sempre più avversa ai principi del liberalismo e del laicismo.<br />

La presa di posizione dei liberali trentini<br />

I liberali trentini, in questo contesto, si distanziavano <strong>da</strong>lla corrente cattolica e, nel gennaio 1868, <strong>da</strong>vano vita<br />

ad un loro periodico affi<strong>da</strong>to a Giovanni a Prato, "Il Trentino", in polemica con "La voce cattolica" nata nel<br />

1866. L’occupazione di Roma rappresentò per il vescovo l’occasione d’indirizzare nuovi strali contro il<br />

liberalismo italiano, seguiti <strong>da</strong> altrettanti contro quello austriaco, tanto <strong>da</strong> portare le autorità politiche al<br />

sequestro della pastorale del 2 febbraio 1871. Nell’agosto del medesimo anno, tenendosi le elezioni per la<br />

Dieta tirolese, il de Riccabona con una pastorale chiedeva di nominare deputati nei quali l’interesse religioso<br />

prevalesse su ogni altro, rompendo così il fronte soli<strong>da</strong>le che si era costituito in nome delle richieste<br />

autonomistiche.<br />

La presa di posizione del vescovo ebbe conseguenze immediate nella corrente liberale che fon<strong>da</strong>va l’<br />

"Associazione nazionale – liberale <strong>trentina</strong>", vero e proprio partito con uno statuto e regolari tesserati,<br />

ufficialmente riconosciuta <strong>da</strong> parte della luogotenenza il 20 ottobre 1871. Date le circostanze della nascita,<br />

l’Associazione accentuò il laicismo e le posizioni progressiste con venature radicali, specie attraverso le<br />

dichiarazioni di alcuni soci. Fra i nuovi aderenti spiccavano Emiliano Rossi, Augusto Panizza e l’irredentista<br />

figlio del consigliere imperiale Antonio Salvotti, Scipione Salvotti, già con<strong>da</strong>nnato <strong>da</strong>lla corte marziale di<br />

Vienna, espatriato in Piemonte, addetto consolare del Regno sardo a Costantinopoli e rientrato nel Trentino<br />

nel 1870 mantenendo la cittadinanza italiana.<br />

La depressione economica<br />

Gli anni del ritorno alla vita costituzionale furono contrassegnati nel Trentino <strong>da</strong>lla nascita di una lunga<br />

depressione economica, innestata su strutture produttive di per sé già gracili ed in gran parte arretrate. Il<br />

settore agricolo venne dissestato nella sua componente più importante, la viticoltura, colpita agli inizi degli<br />

anni cinquanta <strong>da</strong>lla crittogama delle viti che pregiudicò per più stagioni il raccolto. A breve distanza di<br />

tempo si diffuse sull’intero territorio la pebrina o atrofia del baco <strong>da</strong> seta, riducendo drasticamente la<br />

produzione dei bozzoli e mettendo in crisi tutto il settore dell’industria serica, elemento portante<br />

dell’economia del paese.<br />

La nuova linea di confine, tracciata dopo le guerre del 1859 e del 1866, con l’imposizione di <strong>da</strong>zi sui generi<br />

d’esportazione e d’importazione, segnò la contrazione dei commerci e l’agonia del modesto sviluppo<br />

industriale. Particolarmente colpite furono le cartiere a causa del <strong>da</strong>zio d’importazione sulla carta praticato<br />

<strong>da</strong>ll’Italia; le vetrerie e la lavorazione del ferro delle Giudicarie; la fabbricazione dei chiodi e la produzione<br />

di magnesio della valle di Ledro. Rimase invece fiorente la manifattura tabacchi di Borgo Sacco, nata nel<br />

1852 e di proprietà dell’erario statale, che nel 1870 impiegava 1200 operai, in gran parte donne. L’erezione<br />

della barriera doganale ebbe pesanti contraccolpi sui beni di prima necessità come i cereali, importati in larga<br />

misura perché prodotti in quantità assai inferiore al consumo. Né si riuscì a rimediare alla congiuntura<br />

sfavorevole col rendere la produzione locale delle granaglie più intensiva e di quantità maggiore, <strong>da</strong>to il<br />

perdurare dell’arretratezza in agricoltura e l’estensione limitata della superficie coltivabile (il 65% del<br />

territorio trentino si trova oltre i 1000 metri d’altezza).<br />

Alcune iniziative messe in atto per fronteggiare l’emergenza sortirono qualche effetto positivo: con<br />

sovvenzioni del governo vennero importati <strong>da</strong>l Giappone i semi di baco esenti <strong>da</strong> pebrina, operazione<br />

appoggiata e favorita <strong>da</strong>ll’attività di Giuseppe Grazioli; i consorzi agrari distrettuali e la Società agraria di<br />

Rovereto s’impegnarono per migliorare le condizioni produttive dei fondi e per la costruzione d’una rete di<br />

acquedotti, ma senza riuscire, in tempi brevi, a bloccare lo stato di crisi. In campo industriale, nonostante le<br />

iniziative della Camera di commercio, la congiuntura negativa non <strong>da</strong>va adito a speranze di ripresa e si<br />

verificarono, aggravando la situazione, alcuni casi di emigrazione delle fabbriche in territorio italiano per<br />

sfuggire al peso dei <strong>da</strong>zi.<br />

La proposta di riforma elettorale per la Camera dei deputati e lo scontro fra centralismo e federalismo<br />

Nel febbraio 1873 al Parlamento di Vienna venne presentata la proposta di legge per l’elezione diretta della<br />

Camera dei deputati, al fine di privare le Diete del diritto alla nomina dei rappresentanti e ridimensionare in<br />

questo modo il loro potere, spesso esercitato contro il governo centrale e a <strong>da</strong>nno della normale attività<br />

legislativa. Il progetto di riforma provocò un acceso scontro tra centralismo e federalismo, due indirizzi<br />

sull’ordinamento costituzionale dello stato con le correlative conseguenze sul piano legislativo ed<br />

117


amministrativo. In linea generale erano favorevoli al centralismo gli austrotedeschi, al federalismo quasi tutti<br />

gli altri gruppi etnici non tedeschi in difesa delle facoltà e prerogative dei singoli Länder che si volevano<br />

allargare fino alla semi-indipendenza. Dal punto di vista politico il centralismo era legato alla dottrina ed alla<br />

prassi del liberalismo, il federalismo nella sua maggioranza era di stampo conservatore con punte reazionarie<br />

ed aspirazioni quasi feu<strong>da</strong>li.<br />

Il dibattito sulla riforma elettorale venne compiuto <strong>da</strong>i liberali trentini con un confronto ad ampio respiro,<br />

non limitato ai problemi locali, ma aperto all’intero arco delle questioni riguar<strong>da</strong>nti la monarchia asburgica<br />

ed il suo ammodernamento. Scipione Salvotti, in un opuscolo pubblicato a Milano, poneva l’accento sui<br />

pericoli del pangermanesimo di stampo prussiano, nati con la proclamazione del Reich tedesco nel gennaio<br />

1871, e sul panslavismo appoggiato <strong>da</strong> Mosca che mettevano a repentaglio l’equilibrio europeo. In tale<br />

situazione lo stato asburgico, almeno provvisoriamente, an<strong>da</strong>va mantenuto e rafforzato come ostacolo posto<br />

fra i due nazionalismi e, a questo fine, bisognava accettare le richieste dei Länder e puntare sul federalismo<br />

sorvolando, per motivi tattici, il suo carattere conservatore e clericale.<br />

Vittorio de Riccabona, uno dei maggiori esponenti del liberalismo, uomo di vasta cultura e competenza<br />

anche economica, confutava le tesi del Salvotti nel lavoro La questione <strong>trentina</strong>, ritenendole svantaggiose sia<br />

per il Trentino che per l’Austria. Solo in un grande stato, capace di legiferare in base ai principi ispiratori<br />

delle libertà politiche e civili, poteva essere garantita la tutela dei diritti nazionali. Bisognava quindi<br />

accostarsi alla corrente centralista, di sicura fede costituzionale, e non lasciarsi irretire nei programmi dei<br />

federalisti, espressione di tendenze reazionarie che si rivelavano al massimo nella contea tirolese. La riforma<br />

elettorale, se entrata in porto, avrebbe inoltre permesso ai trentini di portare direttamente le loro istanze al<br />

Parlamento di Vienna, senza passare per la Dieta di Innsbruck. Le argomentazioni del Riccabona, che<br />

<strong>da</strong>vano priorità allo sviluppo in senso liberale dello stato, convinsero l’Associazione nazionale-liberale che<br />

nell’assemblea del 4 maggio 1873 aderì alla tesi del centralismo.<br />

La nascita dell'irredentismo<br />

La possibilità, per quanto remota, che il Trentino venisse ceduto allo stato italiano, successivamente alla<br />

guerra del 1866 e alla pace di Vienna, riprese quota nel 1869 quando s’ipotizzò un’alleanza tra Francia, Italia<br />

ed Austria in funzione antiprussiana che, in caso di guerra vittoriosa, prevedeva il passaggio dei distretti di<br />

Trento e Rovereto all’Italia. L’irrigidimento del governo italiano, intenzionato in primo luogo ad avere Roma<br />

e a condizionare l’alleanza allo sgombero delle truppe francesi poste a presidio di questa città <strong>da</strong>l 1849, fece<br />

naufragare il progetto.<br />

Dopo il 1870, più ancora che dopo il 1866, la situazione creatasi in Europa rendeva impossibile contare su<br />

congiunture internazionali tali <strong>da</strong> permettere modificazioni dei confini politici con la cessione del Trentino<br />

all’Italia. Nessuna delle grandi potenze intendeva destabilizzare il precario equilibrio del continente, scosso<br />

<strong>da</strong> spinte nazionaliste ed imperialiste, per il quale era essenziale mantenere l’integrità dell’Austria. Lo stato<br />

italiano, <strong>da</strong> parte sua, impegnato nel consoli<strong>da</strong>rsi all’interno e sotto l’incubo della questione romana,<br />

chiedeva soltanto la pace e non avanzava richieste di ulteriori ingrandimenti. Nascevano così le condizioni<br />

per il verificarsi delle istanze irredentistiche: una minoranza etnica inglobata in una formazione statale di<br />

nazionalità diversa, ma confinante con lo stato connazionale che, in questo caso, per prudenza politica<br />

sembrava dimenticarsi dei propri figli d’oltre confine.<br />

L’irredentismo, in terra italiana, assunse subito una forma protestataria contro il governo, espressa qualche<br />

volta in modo plateale. Nel Trentino invece, dove vigeva la propensione al realismo, era chiaro che il<br />

problema non si sarebbe risolto né con le cospirazioni mazziniane, né con le avventure garibaldine. Per<br />

questo i maggiori esponenti del patriottismo quali l’a Prato e Vittorio de Riccabona, pur non abdicando al<br />

sogno del congiungimento all’Italia in un imprecisato futuro, si impegnarono nella difesa culturale dei<br />

caratteri nazionali del paese, nel rafforzamento del fronte autonomistico e nel rinnovamento liberale<br />

dell’Austria, affinché alla minoranza italiana fosse assicurata una vita autonoma all’interno dello stato<br />

plurietnico.<br />

Dalla riforma elettorale del 1873 al cambio di secolo di Maria Garbari<br />

La deputazione <strong>trentina</strong> alla Camera di Vienna<br />

Il 2 aprile 1873 veniva approvata l’introduzione del suffragio diretto per la Camera dei deputati dell’Austria,<br />

portata a 353 rappresentanti eletti <strong>da</strong> quattro curie censitarie. Al Tirolo erano assegnati 18 seggi dei quali 7<br />

per la parte italiana. Nelle elezioni svolte nel settembre i liberali trentini gua<strong>da</strong>gnarono tutti i man<strong>da</strong>ti con la<br />

118


nomina di uomini prestigiosi fra i quali Giovanni a Prato, Carlo Dordi, Giovanni Ciani. All’apertura dei<br />

lavori della Camera essi presero posto nel club delle sinistre che appoggiava il governo liberale.<br />

Nel febbraio 1874 i rappresentanti trentini indirizzavano al Parlamento una memoria con la richiesta<br />

dell’autonomia, rafforzata <strong>da</strong> una proposta del marzo presentata <strong>da</strong>ll’a Prato. La presenza alla Camera del<br />

sacerdote liberale doveva però cessare in tempi brevi: il suo voto favorevole alle proposte di legge del 1874,<br />

che avrebbero completato la laicizzazione dello stato e della scuola, provocò la reazione del vescovo<br />

coadiutore di Trento, Giovanni Haller. L’a Prato, obbedendo al precetto della chiesa, ritrattò il voto ma<br />

rinunciò anche al man<strong>da</strong>to parlamentare. Gli altri sei deputati trentini, che si erano impegnati a sostenere lo<br />

sviluppo liberale dell’Austria e la tutela degli interessi del loro paese, rassegnarono in blocco le dimissioni<br />

quando, nel maggio 1877, venne respinta la richiesta dell’autonomia.<br />

Le elezioni supplettive videro l’entrata alla Camera di tre deputati cattolici, ed anche nelle tornate elettorali<br />

successive, accanto ai liberali che conservavano la maggioranza dei man<strong>da</strong>ti, figurarono due o tre<br />

rappresentanti cattolici, in un primo momento sempre sacerdoti d’indiscussa preparazione come Emanuele<br />

Bazzanella, Lorenzo Guetti e l’attivissimo Giovanni Salvadori. Il primo "laico" fu Enrico Conci, destinato ad<br />

assumere ruoli di primaria importanza anche nel campo della difesa nazionale.<br />

Il compito della deputazione <strong>trentina</strong> non si presentava facile in un Parlamento corroso <strong>da</strong>i conflitti etnici, a<br />

mala pena contenuti <strong>da</strong>l conte Taaffe a capo del governo per 14 anni, <strong>da</strong>l 1879 al 1893. I rappresentanti del<br />

Tirolo italiano alla Camera riuscivano a superare le fratture politiche che li dividevano in patria e compivano<br />

un lavoro costruttivo e d’intesa nella sicurezza di poter ottenere più a Vienna che ad Innsbruck. In questo<br />

modo si trovarono compatti nelle istanze autonomistiche, nella difesa dell’italianità del Trentino attraverso i<br />

mezzi legali garantiti <strong>da</strong>lla costituzione e nel sollevare i maggiori problemi d’ordine economico e sociale<br />

quali il finanziamento ai lavori pubblici, la regimentazione dei corsi d’acqua, la costruzione della ferrovia<br />

della Valsugana, la tutela dei prodotti agricoli, le iniziative per frenare o regolare il fenomeno<br />

dell’emigrazione.<br />

Dopo la riforma del 1882, che aveva ridotto il censo elettorale <strong>da</strong> dieci a cinque fiorini per favorire la piccola<br />

borghesia, nel giugno 1896 era istituita una quinta curia, la "classe elettorale generale" dove 72 deputati, in<br />

aggiunta agli esistenti, venivano eletti a suffragio universale maschile. Nella nuova Camera il Tirolo italiano<br />

gua<strong>da</strong>gnava un man<strong>da</strong>to, due quello tedesco. Le elezioni tenute nella primavera del 1897 portavano i liberali<br />

ed i cattolici trentini ad una posizione di parità con quattro seggi ciascuno.<br />

Nella Camera neo eletta l’ostruzionismo dei tedesco-nazionali e le opposizioni degli altri gruppi etnici<br />

determinarono sessioni di esigua durata e continue crisi e ricomposizioni del governo – sei nell’arco di tre<br />

anni – tanto <strong>da</strong> paralizzare l’attività legislativa e provocare il ricorso, nel 1900, allo scioglimento anticipato<br />

della Camera. In questo contesto, nel 1897 venne presentato al primo ministro Badeni il Progetto di Riforma<br />

del Regolamento provinciale per ottenere l’autonomia, seguito <strong>da</strong>l Memoriale del 1898 al nuovo primo<br />

ministro Francesco Thun. Ma la richiesta sottoscritta <strong>da</strong> liberali e cattolici non ebbe accoglienza e fu rifiutata<br />

nel 1900 <strong>da</strong>l Körber, allora a capo del governo, con una lettera indirizzata al deputato Valeriano Malfatti.<br />

Lorenzo Guetti<br />

Lorenzo Guetti nacque il 6 febbraio 1847 a Vigo Lomaso <strong>da</strong> Girolamo e Rachele Molinari, primo di 13<br />

figli. La sua vocazione religiosa avvenne nel 1863, quando entrò nel Collegio-convitto Principesco<br />

Arcivescovile, istituito a Trento con le funzioni di seminario minore, dove compì gli studi liceali, fino ad<br />

entrare nel Seminario teologico, dove venne ordinato sacerdote il 31 luglio 1870.<br />

Quello stesso anno iniziò l'esperienza pastorale, come cooperatore alla parrocchia di Terragnolo nel<br />

Roveretano, una delle aree meno abbienti dell'intera provincia, con un'agricoltura provata <strong>da</strong> varie<br />

epidemie, e proprio allora cominciò a maturare un notevole interesse per il campo agricolo, partecipando<br />

nel 1972 ad alcune sedute del terzo "Congresso bacologico internazionale" organizzato a Rovereto <strong>da</strong>lla<br />

"Società Agraria".<br />

Il 28 febbraio 1878 si trasferì come curato a Quadra nel Bleggio, che divenne la base di partenza di tutte<br />

quelle realizzazioni che lo avrebbero reso famoso. Preoccupato per l'emigrazione che stava<br />

progressivamente spopolando i piccoli paesi delle Giudicarie, cominciò una corrispondenza con lo<br />

pseudonimo di "Renzo" al giornale "La Voce Cattolica", organo ufficiale dei cattolici trentini, in cui<br />

riportava lettere di emigrati, segnalando partenze e ritorni. Nel 1888 uscì in opuscolo una sua statistica<br />

sull'emigrazione <strong>trentina</strong> in America a partire <strong>da</strong>l 1870, frutto di un enorme lavoro di rilevazione, attraverso<br />

questionari inviati a tutti i curati e alle autorità comunali.<br />

119


In quello stesso anno il sacerdote rischiò di morire per una grave malattia e perse la madre, ma divenne<br />

anche presidente del Consorzio agrario distrettuale di S. Croce, comprendente il distretto di Stenico, uno dei<br />

27 organi periferici in cui si articolava la sezione di Trento del "Consiglio provinciale dell'agricoltura per il<br />

Tirolo", istituito <strong>da</strong>lla Dieta di Innsbruck per migliorare le sorti dell'agricoltura. Entrato a far parte degli<br />

organi direttivi del Consiglio, fece relazioni su allevamento, apicoltura e credito agrario. L'impegno sociale<br />

nei confronti dei suoi compaesani lo portò ad interessarsi anche di politica: sostenendo l'autonomia del<br />

Trentino <strong>da</strong>l Tirolo tedesco si aggregò con i "cattolici-nazionali", riunitisi <strong>da</strong>l 1888 al 1891 attorno<br />

all'esperienza del giornale "Il Popolo Trentino". Eletto nel dicembre 1891 per il collegio delle Giudicarie<br />

deputato alla Dieta del Tirolo a Innsbruck, non vi ci si recò mai, abbracciando il metodo dell'astensione, in<br />

segno di protesta contro i rifiuti tirolesi alle domande di auonomia. Dichiarato per questo decaduto <strong>da</strong>l<br />

man<strong>da</strong>to, fu rieletto nel 1892, 1893, 1895, 1896, 1897.<br />

Intanto nel Consorzio Agrario di S. Croce si avevano i primi sintomi della nascita della cooperazione e fu<br />

proprio don Guetti, nel 1890, a <strong>da</strong>re il via al movimento cooperativo nel Trentino, con la realizzazione a<br />

Villa S. Croce di una società cooperativa rurale di smercio e consumo. A fine 1893 erano sorte altre 8<br />

Famiglie cooperative, come vennero <strong>da</strong>l curato presto chiamate. Fu sempre <strong>da</strong> lui fermamente voluta la<br />

fon<strong>da</strong>zione nel 1892 della prima Cassa rurale di prestiti e risparmio, a Quadra, che doveva costituire il<br />

supporto finanziario di tutte le altre realizzazioni cooperative. Ma accanto ai grandi successi ottenuti in<br />

campo cooperativo, quell'anno don Guetti fu colpito <strong>da</strong> un altro lutto, la morte del padre.<br />

Trasferito nel 1893 a Fiavè in qualità di curato, diede lì vita alla secon<strong>da</strong> Cassa rurale del Trentino, di cui<br />

divenne direttore.<br />

Grazie all'opera di don Guetti il movimento cooperativo stava vincendo le ultime resistenze dei contadini, e<br />

ciò era dovuto anche alla martellante propagan<strong>da</strong> sulla stampa. Dopo gli articoli, poi riuniti in opuscolo, <strong>da</strong>l<br />

titolo Società cooperative rurali, tra il 1894 e il 1895 uscirono su "Famiglia Cristiana" i Dialoghi di un<br />

curato di campagna coi suoi curaziani.curazini Nel 1894 il curato cominciò a maturare l'idea di riunire le<br />

cooperative in un centro unico, così che, il 20 novembre 1895, nacque la Federazione delle Casse rurali e<br />

dei So<strong>da</strong>lizi Cooperativi del Trentino, a cui aderirono subito 42 società. Organo di promozione della<br />

Federazione era il "Supplemento al Bollettino agrario del Consiglio provinciale dell'agricoltura", che <strong>da</strong>l<br />

1898 assunse la nuova testata "La Cooperazione Trentina".<br />

Entrato a far parte del Parlamento Asburgico a Vienna, vide però i suoi ultimi anni amareggiati <strong>da</strong> un'aspra<br />

polemica con i "confessionali", la nuova corrente emergente del movimento cooperativo trentino, che<br />

divergevano ormai <strong>da</strong>l fon<strong>da</strong>tore per scelte e obiettivi. Attaccato <strong>da</strong>l foglio cattolico "Fede e Lavoro", don<br />

Guetti ribadì la sua fiducia in un movimento unitario, nel quadro di una società basata sul<br />

"galantomenismo", in cui non esistevano grosse distinzioni economiche.<br />

Il 19 aprile 1898 don Guetti morì a Fiavè per un cancro all'esofago, mentre era ancora nel pieno delle sue<br />

attività.<br />

Tratto <strong>da</strong> E. Agostini, Lorenzo Guetti: la vita e l'opera nella realtà <strong>trentina</strong> del secondo Ottocento, Padova,<br />

Editoriale Programma, 1984, pp.13-23<br />

La presenza alla Dieta di Innsbruck<br />

I deputati trentini alla Dieta di Innsbruck interruppero l’astensionismo nel 1875, nella convinzione che i<br />

problemi del Tirolo italiano potessero avere maggiore tutela con la presenza in assemblea anziché con l’atto<br />

provocatorio dell’assenza. In realtà la partecipazione ai lavori dietali rimase saltuaria e compiuta solo nelle<br />

circostanze ritenute fon<strong>da</strong>mentali per gl’interessi del Trentino. Nel 1880 e 1881 si sollecitò l’attivazione<br />

delle rappresentanze distrettuali; nel 1883 la deputazione al completo chiedeva provvedimenti in soccorso<br />

dei sinistrati e per riparare gl’ingenti <strong>da</strong>nni della catastrofica alluvione dell’anno precedente; in un<br />

Memoriale alla luogotenenza, steso <strong>da</strong> Carlo Dordi e <strong>da</strong> Vittorio de Riccabona, venivano sollevati tutti i<br />

problemi del Trentino, aggravati <strong>da</strong>lla calamità naturale. La presenza alla Dieta nel 1883 diede qualche<br />

risultato e fruttò agli italiani due posti nella deputazione (giunta) dietale. I trentini furono presenti per<br />

sottoscrivere nel 1884 la proposta del Dordi finalizzata ad ottenere una Dieta circolare autonoma; per<br />

chiedere nel 1886 l’istituzione a Trento di una sezione del Consiglio scolastico provinciale; per riprendere,<br />

nell’ottobre 1889, la lotta per l’autonomia.<br />

Nel 1890 si accesero le speranze di una soluzione positiva della questione autonomistica sulla base del<br />

progetto sottoscritto <strong>da</strong> Dordi e Brusamolin, sottoposto ad una apposita commissione. Ma agli inizi del 1891,<br />

120


in concomitanza con la richiesta di discutere il progetto in aula, il luogotenente chiudeva la Dieta. I deputati<br />

trentini, mentre il Malfatti sollevava la questione alla Camera di Vienna, con una dichiarazione di protesta,<br />

rassegnavano le dimissioni ed iniziavano un lungo periodo di astensionismo protratto fino al 1900.<br />

L’assenza <strong>da</strong>lla Dieta, pur corrispondendo ad un modo di sentire condiviso <strong>da</strong> buona parte del paese, aveva<br />

anche molti aspetti negativi, come l’atteggiamento radicale assunto a volte <strong>da</strong>i rappresentanti italiani.<br />

L’assemblea tirolese, avversa al mutamento del quadro istituzionale, non era contraria a venire incontro alle<br />

istanze trentine, specie nel settore agricolo. Così la latitanza al momento dell’attuazione della riforma agraria<br />

e dei piani per la viabilità rappresentò una serie di occasioni perdute.<br />

Le strutture amministrative: le riforme degli "statuti propri" di Rovereto e Trento<br />

Dopo la legislazione degli anni sessanta, le strutture amministrative del Tirolo e, quindi, del Trentino<br />

rimasero quasi invariate. Il maggiore problema restava sempre quello del grande numero dei comuni, piccoli<br />

e minimi, destinati all’indebitamento o all’immobilismo per l’esiguità dei loro beni patrimoniali. Sulle norme<br />

per la gestione del patrimonio comunale, che preoccupava anche il ceto dirigente trentino, venne emanata<br />

una legge nel 1882 ed una secon<strong>da</strong> nel 1892, ma con prescrizioni riguar<strong>da</strong>nti solo la correttezza formale<br />

dell’amministrazione. Non si intervenne invece nella sostanza della questione, risolvibile solo attraverso la<br />

ricomposizione dei comuni in organismi intermedi elettivi, in grado di progettare uno sviluppo programmato.<br />

La città di Rovereto, nel corso del 1875, presentò alla Dieta alcune modifiche <strong>da</strong> apportare al proprio statuto;<br />

le principali riguar<strong>da</strong>vano il numero dei membri della rappresentanza (consiglio) e la forma di votazione che<br />

si effettuava in modo orale. Solo nel dicembre 1878 il progetto, dopo le correzioni richieste <strong>da</strong>lle autorità,<br />

divenne legge: i componenti della rappresentanza furono fissati nel numero di 30 e venne introdotto il voto<br />

scritto con tutela della segretezza.<br />

Anche il consiglio comunale di Trento nel 1885 ritenne necessario mutare lo statuto del 1851 per adeguarlo<br />

alla normativa vigente. Il progetto del nuovo statuto conobbe però notevoli difficoltà perché le autorità<br />

politiche diffi<strong>da</strong>vano della piena lealtà del capoluogo trentino. Dopo discussioni dietali, modifiche chieste<br />

<strong>da</strong>l ministero dell’interno, rinvii e <strong>tratta</strong>tive, lo statuto con allegato il regolamento elettorale, approvato <strong>da</strong>lla<br />

Dieta ed ottenuta la sanzione sovrana, venne emanato con legge 7 dicembre 1888.<br />

Il nuovo statuto, articolato in 82 paragrafi, si ispirava alla concezione economica del comune chiamando alla<br />

gestione tutte le componenti attive e favorendo le nuove leve con l’abbassamento dell’età degli eleggibili <strong>da</strong><br />

30 a 24 anni. I tre corpi elettorali, sempre costituiti sulla base del censo, avrebbero nominato 12<br />

rappresentanti ciascuno per un totale di 36, attraverso una votazione della quale era garantita la segretezza.<br />

Le attribuzioni "proprie" del comune risultavano assai ampie, di grande importanza economica e sociale,<br />

tanto <strong>da</strong> creare un ambito rilevante di gestione autonoma. Solo negli affari di polizia locale e di pubblica<br />

sicurezza il governo si dimostrò restio a deman<strong>da</strong>re al capoluogo poteri ed attribuzioni; Trento rimase infatti<br />

l’unica città del Tirolo fornita di statuto proprio ad avere il servizio di polizia gestito <strong>da</strong>llo stato.<br />

Soltanto molto tardi, nel 1899, come previsto <strong>da</strong>lla legge comunale, ebbero un proprio statuto in qualità di<br />

"luoghi importanti di cura", Arco, Antica fonte Peio e Roncegno; Levico-Vetriolo dovette attendere invece<br />

fino al 1904.<br />

L'irredentismo e la politica italiana<br />

Nel 1874, nonostante i rapporti italo-austriaci cominciassero a farsi amichevoli, il ministro degli esteri<br />

d’Austria, conte Andrassy, inviava al governo di Roma una "nota" destinata a rimanere il punto di<br />

riferimento in tema d’irredentismo: ammettere per la minoranza italiana il principio delle frontiere etniche<br />

significava sollevare le richieste di altre nazionalità e provocare un moto centrifugo tale <strong>da</strong> smembrare la<br />

duplice monarchia ed altri stati includenti minoranze, con la compromissione dell’intero equilibrio europeo.<br />

Di conseguenza la politica ufficiale italiana smorzò o sconfessò l’irredentismo che rimase patrimonio dei<br />

movimenti d’opinione, pronti a manifestazioni di piazza come nel 1876.<br />

A Napoli, nel 1877, ad opera di Matteo Renato Imbriani nasceva l’ "Associazione in pro dell’Italia<br />

irredenta", seguita <strong>da</strong> altre associazioni e circoli con connotazioni protestatarie ed antigovernative che si<br />

esprimevano quando la politica estera italiana era ritenuta rinunciataria (congresso di Berlino del 1878) o in<br />

occasione di particolari eventi (la con<strong>da</strong>nna a morte di Guglielmo Ober<strong>da</strong>n nel 1882). La nascita della<br />

Triplice alleanza fra Italia, Austria e Germania, firmata nel 1882 e sempre rinnovata fino alla sua denuncia<br />

nel 1915, poneva fuori legge l’irredentismo. L’avvento del Crispi al potere portò allo scioglimento dei circoli<br />

irredentistici ritenuti di "sinistra" ed alla con<strong>da</strong>nna dell’intero irredentismo definito <strong>da</strong>l primo ministro "il più<br />

<strong>da</strong>nnoso degli errori in Italia". Da questo momento le istanze patriottiche ripiegarono, almeno formalmente,<br />

121


su un programma di difesa nazionale che potesse convivere con l’ordine conservatore assicurato<br />

<strong>da</strong>ll’alleanza con gli imperi centrali.<br />

I trentini emigrati nel regno nel 1879 costituivano a Milano il "Circolo trentino" al quale, più tardi, se ne<br />

aggiunsero altri a Roma, Torino, Verona. Ma, nonostante il fervore della fede patriottica e qualche accento<br />

garibaldino nel linguaggio, il loro agire si mantenne sempre prudente e mai in contrasto con le posizioni<br />

politiche assunte <strong>da</strong>ll’Italia, tanto <strong>da</strong> dissociarsi sovente <strong>da</strong>lle iniziative assunte <strong>da</strong>gli irredentisti adriatici.<br />

Per estrazione sociale e formazione intellettuale – gli emigrati trentini costituivano un gruppo elitario nel<br />

campo economico, delle professioni e della cultura – essi diffi<strong>da</strong>vano delle esaltazioni e degli estremismi.<br />

Pur non dimettendo la speranza dell’annessione del Trentino all’Italia, esprimevano il loro patriottismo con<br />

l’assidua partecipazione alle cerimonie della liturgia nazionale e con gli aiuti concreti, generosi e continuativi<br />

a tutte le associazioni e le iniziative rivolte a mantenere sal<strong>da</strong> l’italianità della loro terra d’origine.<br />

La difesa nazionale nel Trentino<br />

Le ripercussioni nel Tirolo italiano delle manifestazioni irredentistiche del 1876 furono lo scioglimento delle<br />

associazioni sospettate di attività nazionale fra le quali la "Società Alpina del Trentino", rinata nel 1877<br />

come "Società Alpinisti Tridentini" (SAT), la censura della stampa e qualche arresto, tanto <strong>da</strong> provocare alla<br />

Camera di Vienna le proteste di Carlo Dordi. Tuttavia lo stesso Andrassy era propenso a non calcare la mano<br />

sul Trentino, convinto che i focolai dell’irredentismo an<strong>da</strong>ssero individuati in Italia più che entro i confini<br />

austriaci.<br />

La lotta nazionale dei trentini non s’incentrò sull’improponibile richiesta di modificazione dei confini, ma<br />

sulla difesa dell’italianità delle popolazioni ritenuta minacciata <strong>da</strong>ll’aggressione pangermanista. Convinti che<br />

l’interesse degli studiosi tedeschi per le tracce di stanziamenti germanici collocati sul versante meridionale<br />

delle Alpi preparasse una rivendicazione etnica e politica, essi s’impegnarono a rispondere con le medesime<br />

armi storiche, archeologiche, linguistiche e toponomastiche originando una massiccia pubblicistica dove, <strong>da</strong><br />

ambe le parti, il rigore scientifico era condizionato a volte <strong>da</strong>lla passione nazionale. La militanza della<br />

cultura non era un fenomeno locale, bensì un riflesso del clima instauratosi nell’intera Europa corrosa <strong>da</strong>i<br />

nazionalismi.<br />

La nascita, nel 1880, del "Deutscher Schulverein", portò nel 1885 alla fon<strong>da</strong>zione della società "Pro Patria"<br />

con un programma d’interventi in campo culturale e scolastico, ritenuto perfettamente legale, parallelo a<br />

quello dell’associazione tedesca. La "Pro Patria" venne sciolta d’autorità nel luglio 1890 per avere salutato<br />

con un telegramma la costituzione, in Italia, della "Dante Alighieri". Alla disciolta associazione subentrò, nel<br />

1891, la "Lega Nazionale" con il medesimo programma di attività nel settore scolastico e della cultura. La<br />

sua azione, svolta all’interno del dettato legislativo e priva di eccessi provocatori, incontrò il consenso di<br />

molti cittadini che ne facilitarono la diffusione anche in periferia, tanto <strong>da</strong> avere un notevole sviluppo nel<br />

nuovo secolo. Più contenuta fu invece l’azione della "Dante Alighieri", costretta nel Trentino a mascherare la<br />

sua componente massonica. Accanto a queste associazioni se ne collocarono altre di carattere culturale,<br />

sportivo e studentesco, quale la "Società degli studenti trentini" del 1894. Il progetto di erezione del<br />

monumento a Dante a Trento, inaugurato nel 1896, rappresentò un forte momento di aggregazione nazionale<br />

e divenne il simbolo dell’italianità del Trentino anche se spogliato, all’apparenza, <strong>da</strong> finalità irredentistiche.<br />

Le condizioni economico-sociali<br />

Negli anni settanta furono compiuti diversi tentativi per uscire <strong>da</strong>lla depressione economica, puntando<br />

soprattutto sul settore agricolo che occupava la maggioranza della popolazione: il 73,4% nel 1880. Gli<br />

interventi erano finalizzati in primo luogo ad incrementare la produzione dei grani ed all’espansione dei<br />

settori più confacenti alle caratteristiche del territorio, la viticoltura e la frutticoltura. La nascita nel 1874<br />

dell’Istituto agrario provinciale di S. Michele, dotato di consistenti contributi governativi e della Dieta<br />

tirolese, ebbe conseguenze positive per la diffusione delle proposte innovatrici e l’ammodernamento<br />

dell’economia primaria. La produzione cerealicola conobbe un miglioramento per la razionalizzazione delle<br />

colture, ma l’impossibilità di estenderla oltre una certa fascia altimetrica mantenne la sproporzione tra risorse<br />

e fabbisogni locali, colmata <strong>da</strong> massicce importazioni di farine e granaglie. Un balzo in avanti si ebbe invece<br />

nella produzione vinicola, destinata a costituire un settore in continua espansione, nella produzione di mele e<br />

pere ed anche nel campo zootecnico con incremento del patrimonio bovino.<br />

Ulteriore impulso all’economia primaria venne fornito <strong>da</strong>lla sezione <strong>trentina</strong> del Consiglio provinciale di<br />

agricoltura, sorto nel 1881 ed articolato in consorzi agrari distrettuali che, nel 1884, contavano ben 4338<br />

soci. La lenta ripresa non riuscì tuttavia ad innescare un processo di espansione e le condizioni economiche<br />

122


del Trentino continuarono a permanere critiche, anche perché colpite <strong>da</strong> avversità naturali fra le quali la<br />

catastrofica alluvione del 1882 che mise a terra l’intero paese spazzando via coltivazioni, case, ponti e strade.<br />

L’industria, già in fase di depressione, si avviava al tracollo. Il settore serico vedeva chiudere quasi tutte le<br />

filande, con drastica riduzione degli operai, e la scomparsa della produzione di velluti. Crollavano le cartiere,<br />

la lavorazione del ferro, del vetro e tante altre produzioni tipiche. Solo la manifattura tabacchi di Sacco si<br />

manteneva in espansione emergendo nella confezione di sigari (centodieci milioni di pezzi nel 1875). Anche<br />

il commercio languiva, condizionato <strong>da</strong>lla crisi industriale e <strong>da</strong>lla carenza di una rete di allacciamenti viari<br />

all’interno del paese.<br />

La precarietà delle condizioni economiche aveva preoccupanti ripercussioni sociali. Il mancato equilibrio fra<br />

risorse e pressione demografica accentuava il fenomeno dell’emigrazione stagionale e originava quella<br />

permanente, indirizzata prevalentemente verso l’America latina. L’esodo riguar<strong>da</strong>va la popolazione addetta<br />

all’agricoltura, priva di mezzi di sussistenza, costretta a lasciare i paesi con tutte le conseguenze morali e<br />

materiali di un trasferimento definitivo. L’intensità di tale fenomeno, documentato <strong>da</strong>lle statistiche di don<br />

Lorenzo Guetti che <strong>da</strong>vano 23.846 trentini emigrati <strong>da</strong>l 1870 al 1887, non mancò di sollevare preoccupazioni<br />

e di sollecitare iniziative e richieste per la tutela degli emigranti.<br />

Giovanni Segantini<br />

Giovanni Segantini nasce ad Arco il 15 gennaio 1858, figlio di Agostino e Margherita Girardi, che avevano<br />

trovato ospitalità, provenienti <strong>da</strong> Mori, in una piccola casa all'ingresso della città, proprio al limite del ponte<br />

sul fiume Sarca. Già nel 1865, morta la madre, si allontana <strong>da</strong> Arco, trasferendosi con il padre a Milano;<br />

alla morte del padre viene affi<strong>da</strong>to alla sorellastra Irene, ma in realtà cresce abbandonato a se stesso, tanto<br />

<strong>da</strong> essere arrestato per vagabon<strong>da</strong>ggio e venir condotto al riformatorio Marchiondi. Successivamente<br />

affi<strong>da</strong>to all'altro fratellastro, Napoleone, Segantini torna in Trentino per un breve periodo, <strong>da</strong>l 1873 al 1875.<br />

Tornato a Milano, inizia a lavorare come garzone nella bottega di decoratore di Luigi Tettamamnzi e<br />

comincia a farsi stra<strong>da</strong> il talento artistico, che ben presto si segnala con l'opera "Il coro di S.Antonio",<br />

premiato a Brera nel 1879. L'incontro con i fratelli Grubicy cambia la vita del giovane Segantini, che<br />

comincia ad ottenere in tutta Europa riconoscimenti e premi. Sposa Bice (Luigia) Bugatti e si trasferisce<br />

prima in Brianza e poi in Svizzera. Per tutta la vita mantiene contatti con Arco, ma non riuscirà più a<br />

tornarvi. Muore improvvisamente il 18 settembre 1899.<br />

L'età di Paolo Oss Mazzurana<br />

Le potenzialità contenute nello statuto proprio della città di Trento vennero esplicate al massimo nel periodo<br />

del podestà Paolo Oss Mazzurana – un Oss di umili origini, adottato <strong>da</strong>ll’imprenditore Felice Mazzurana in<br />

età adulta – in carica <strong>da</strong>l 1872 al 1873 e, successivamente, <strong>da</strong>l 1884 al 1895 quando il capoluogo trentino<br />

conobbe la sua più splendi<strong>da</strong> stagione. Affiancato <strong>da</strong> uomini di grande competenza amministrativa,<br />

rappresentanti la borghesia ma non chiusi nell’interesse di parte, come Vittorio de Riccabona, Giovanni<br />

Ciani, Carlo Dordi, Giovanni Battista Tambosi, Sigismondo Manci, egli intendeva lasciare <strong>da</strong> parte le<br />

ideologie per puntare tutto sul risveglio economico e sociale della città e della provincia valorizzando le<br />

forze e le risorse locali.<br />

Il programma del Mazzurana, ispirato ad un liberalismo pragmatico e progressista condiviso <strong>da</strong>l consiglio<br />

comunale, prevedeva il potenziamento dell’economia attraverso l’impulso del credito agrario e fondiario, lo<br />

sfruttamento idroelettrico a servizio dell’utenza privata e delle industrie, l’allacciamento delle valli al centro<br />

per mezzo della rete ferroviaria e tramviaria che avrebbe favorito anche il turismo, la regimentazione<br />

dell’Adige, la pianificazione edilizia del capoluogo. A questo programma si affiancava l’impulso <strong>da</strong>to alle<br />

istituzioni scolastiche ed al rafforzamento dell’istruzione tecnica, nella sicurezza che gl’investimenti nella<br />

cultura fossero altamente produttivi e non dovessero mai conoscere riduzioni in bilancio. Gli uffici comunali<br />

vennero razionalizzati in vista della massima efficienza che escludeva il personale incompetente o propenso<br />

a indugiare nei ritardi.<br />

I progetti del podestà, ammirati <strong>da</strong>ll’imperatore che nominava il Mazzurana cavaliere dell’ordine della<br />

corona ferrea, diedero in tempi brevi alcuni frutti. Trento fu la prima città d’Europa ad avere un’azien<strong>da</strong><br />

elettrica municipale; il capoluogo cambiò il volto <strong>da</strong>l punto di vista edilizio e a Piedicastello sorse un nucleo<br />

di case operaie, l’istruzione fu potenziata. In altri settori, dove abbisognavano i tempi lunghi, vennero gettate<br />

le basi delle infrastrutture e particolarmente curato fu il programma per le tramvie elettriche (Trento-Malè;<br />

Lavis-Moena; Trento-Caffaro) sulla base delle concessioni ministeriali.<br />

123


La morte, nel 1895, del grande podestà interruppe il progetto del "miracolo economico" del Trentino che non<br />

riuscì a tradursi in miracolo sociale. Non tutti i frutti an<strong>da</strong>rono comunque perduti e confluirono, accanto ad<br />

altri fattori, alla ripresa economica verificatasi a fine secolo ed agli inizi del novecento. Pesò non poco, nello<br />

spegnere l’impulso al rinnovamento, il contenzioso con la Dieta tirolese che contestava la gestione<br />

finanziaria del comune di Trento e si opponeva alla tramvia di Fiemme perché destinata ad incanalare il<br />

traffico verso l’area italiana anziché verso Bolzano. Anche la riluttanza dei detentori di capitali a compiere<br />

investimenti in imprese utili al territorio ebbe un e<strong>sito</strong> di compressione dell’economia; la liquidità sceglieva<br />

la via tranquilla dei depositi bancari o veniva investita fuori provincia dove il profitto era maggiore. Era,<br />

inoltre, mutato il clima politico che aveva reso possibile la soli<strong>da</strong>rietà e la collaborazione intorno al progetto<br />

del Mazzurana finalizzato ad allineare il Trentino al progresso europeo.<br />

L'organizzarsi dei partiti politici<br />

Sul finire dell’ottocento le forze politiche trentine si organizzarono per rispondere ai nuovi problemi e<br />

trovarsi preparate all’allargamento del suffragio. Nel 1893 i liberali trasformavano il partito del 1871<br />

nell’Associazione politica nazionale del Trentino che contava 444 soci, in gran parte esponenti della<br />

borghesia intellettuale e degli affari. Tramontata l’età del Mazzurana, il liberalismo pose in subordine i<br />

programmi economici ed accentuò i temi della difesa nazionale, anche per caratterizzarsi rispetto ai cattolici<br />

ed ai socialisti. In questo modo il suo mordente era destinato ad illanguidirsi e, in breve, a perdere la forza<br />

trainante dimostrata nel passato mentre s’irrobustivano i partiti di massa.<br />

I cattolici non sentirono nell’immediato l’esigenza di costituirsi in partito perché integrati nelle strutture della<br />

diocesi capaci di trasformarsi, quando necessario, in macchina elettorale. La loro azione si distinse invece sul<br />

piano sociale ed economico rivolgendosi in particolare al mondo contadino dove più forte era la miseria e<br />

l’emarginazione. Superata la mentalità di stampo puramente caritativo, i cattolici, fra i quali emerse la figura<br />

di don Lorenzo Guetti, riuscirono a <strong>da</strong>re vita ad una rete di consorzi cooperativi nel campo della produzione<br />

e del consumo, a organizzare il credito attraverso la Banca cattolica <strong>trentina</strong> ed a coordinare le iniziative<br />

cooperativistiche nel Sin<strong>da</strong>cato agricolo industriale. La vera direzione politica era tenuta nelle mani del<br />

Comitato diocesano per l’azione cattolica che difendeva la confessionalità di tutte le istituzioni, comprese<br />

quelle economiche. Solo dopo la nomina a vescovo di Celestino Endrici (1904-1940) il movimento cattolico<br />

assumerà struttura di partito indipendente <strong>da</strong>lla chiesa per gli aspetti organizzativi: nel 1904 con l’Unione<br />

politica popolare <strong>trentina</strong> (UPPT) e nel 1905 con il Partito popolare trentino.<br />

Le origini del socialismo trentino, ufficialmente organizzato con l’Associazione socialdemocratica per<br />

Bolzano, Trento e Rovereto costituita a Bolzano nel 1894, non risalgono all’iniziativa operaia, <strong>da</strong>ta<br />

l’inconsistenza del proletariato in un paese prevalentemente agricolo e con grande diffusione della piccola<br />

proprietà. La sua nascita va attribuita all’azione di alcuni intellettuali d’estrazione borghese, convertiti agli<br />

ideali umanitari e di giustizia legati al socialismo. Fra costoro emersero Augusto Avancini, Antonio Piscel e<br />

Cesare Battisti che si trovarono di fronte al problema di fare convivere gl’ideali internazionalisti con la tutela<br />

nazionale. Il partito, che aveva come organo di stampa "L’avvenire del lavoratore", con il 1896 conobbe la<br />

presenza di qualche rappresentante nei consigli comunali di Trento e Rovereto e, pur nell’alternanza di<br />

successi e di crisi, riuscì a pe<strong>net</strong>rare nel mondo dei lavoratori ed a costituire il Segretariato e la Camera del<br />

lavoro di Trento.<br />

Dagli inizi del Novecento alla prima guerra mondiale di Maria Garbari<br />

L'attività dei deputati trentini alla Camera di Vienna<br />

Nei primi anni del novecento l’attività della deputazione <strong>trentina</strong> alla Camera di Vienna si mantenne intensa<br />

con interpellanze ed interventi su tutti i problemi amministrativi, economici e sociali del Tirolo italiano,<br />

mentre gli scontri fra le nazionalità compromettevano i lavori parlamentari. La speranza di attenuare tali<br />

scontri e le sollecitazioni dei cristiano-sociali e dei socialdemocratici portarono all’introduzione del suffragio<br />

universale maschile, nella persuasione che l’entrata alla Camera delle forze legate all’internazionalismo di<br />

dottrina o di classe avrebbe decantato le incancrenite opposizioni. La riforma elettorale, approvata nel<br />

gennaio 1907, elevava il numero dei componenti la Camera a 516, con nuovi quattro seggi riservati al Tirolo,<br />

uno dei quali per il Trentino. Sparita la suddivisione per curie, gli elettori venivano ripartiti sulla base dei<br />

distretti che tenevano conto dell’appartenenza nazionale.<br />

I partiti trentini si presentarono all’appuntamento elettorale con possibilità di successo assai diverse. I liberali<br />

erano travagliati <strong>da</strong> una profon<strong>da</strong> crisi, aggravata <strong>da</strong>lla spaccatura verificatasi <strong>da</strong>l 1902 al 1906, quando l’ala<br />

124


progressista capeggiata <strong>da</strong> Giuseppe Silli si era alleata con i socialisti per mantenere la gui<strong>da</strong> del comune di<br />

Trento. Anche in casa socialista la vita non si svolgeva tranquilla per la difficile compresenza di forti<br />

personalità e la frattura, ricomposta a fatica, tra la conduzione politica e l’organizzazione sin<strong>da</strong>cale. I<br />

cattolici, viceversa, si presentavano in pieno vigore, con un partito "laico", liberato <strong>da</strong>lla rigidità<br />

confessionale. Alla direzione de "La voce cattolica" Alcide Degasperi aveva sostituito don Guido de Gentili<br />

ed il giornale nel 1906 mutava la testata con quella de "Il Trentino", impegnato ad interessarsi anche "dello<br />

spirito positivamente nazionale e della democrazia".<br />

Le elezioni del 14 maggio 1907, compiute dopo un’intensa propagan<strong>da</strong>, registrarono nel Trentino<br />

un’affluenza alle urne del 70-80% (84,6% nell’intera Austria). I risultati, scontati fin <strong>da</strong>lle previsioni,<br />

segnarono il trionfo dei popolari che gua<strong>da</strong>gnarono sette collegi; per i liberali venne eletto a Rovereto<br />

Valeriano Malfatti e per i socialisti a Trento Augusto Avancini, entrambi a seguito dell’intesa elettorale fra i<br />

due schieramenti politici. L’entrata in forza alla Camera dei partiti di massa non riuscì a smorzare i conflitti<br />

nazionali che paralizzavano i lavori e portavano al frequente ricorso ai decreti-legge. In tale situazione i<br />

rappresentanti trentini fecero fronte comune, chiedendo i provvedimenti atti a risolvere le maggiori situazioni<br />

di disagio economico-sociale e per la difesa dei caratteri nazionali del paese alla quale si stavano<br />

convertendo anche i cattolici.<br />

Nel 1911 si tennero elezioni anticipate, contando in questo modo di <strong>da</strong>re vita ad una Camera più governabile.<br />

Nel Trentino l’affluenza alle urne scese al 60% ma i risultati confermarono quelli del 1907: sette seggi ai<br />

popolari con riconferma di Enrico Conci e l’elezione di Alcide Degasperi, uno ai liberali (Malfatti) ed uno ai<br />

socialisti (Cesare Battisti al posto dell’internazionalista Avancini). Nella nuova Camera, che presentava un<br />

regresso dei cristiano-sociali e della socialdemocrazia, il radicalismo nazionale si era ormai diffuso in tutti i<br />

gruppi etnici creando dilacerazioni incomponibili. L’attività del Parlamento veniva limitata attraverso l’uso<br />

dei decreti-legge e, mentre si rafforzava il potenziale militare per controllare la questione balcanica,<br />

l’incapacità di risolvere in modo globale il problema delle nazionalità preparava il collasso generale dello<br />

stato austriaco.<br />

La deputazione <strong>trentina</strong>, ancora una volta, fu attivissima approfittando dei brevi periodi di apertura della<br />

Camera per sollevare il tema della difesa nazionale, per con<strong>da</strong>nnare il militarismo ed i disagi arrecati <strong>da</strong>i<br />

lavori per le fortificazioni nel Tirolo italiano, per porre all’attenzione dell’organo legislativo i problemi<br />

sociali, economici, viari, ferroviari e dei lavori pubblici attraverso reiterati e martellanti interventi. L’attività<br />

della Camera, sempre più compromessa <strong>da</strong>lla virulenza dei conflitti nazionali, venne sospesa a tempo<br />

indeterminato nel marzo 1914 e, nel luglio, la guerra fu dichiarata a Parlamento chiuso senza l’avvallo, o<br />

meno, delle forze politiche.<br />

I lavori dietali e la riforma elettorale provinciale<br />

Nel dicembre 1900 i deputati trentini si presentarono alla Dieta di Innsbruck, chiudendo un lungo periodo di<br />

astensionismo, in appoggio al progetto di autonomia presentato <strong>da</strong> Luigi Brugnara. Sembrò, allora, che<br />

avesse concrete possibilità di realizzazione l’amministrazione separata per la parte italiana del Tirolo. Nel<br />

luglio 1901 il deputato Kathrein presentava a sua volta un progetto concor<strong>da</strong>to con i conservatori, i liberali<br />

tedeschi ed i trentini e, nel luglio 1902, un ulteriore progetto veniva proposto <strong>da</strong>l Brugnara. Il compito di<br />

comporre le istanze in un progetto definitivo, sul quale sembrava ormai raggiunta l’intesa, venne affi<strong>da</strong>to ad<br />

una apposita commissione. Ma la protesta di alcuni ambienti tirolesi e l’irrigidimento dei trentini sulla<br />

richiesta che la valle di Fassa venisse assegnata alla parte italiana portarono al naufragio del progetto,<br />

impedito di essere discusso in aula anche per l’improvvisa chiusura della Dieta.<br />

L’atteggiamento di protesta assunto <strong>da</strong>i trentini si decantò nel corso del 1903 quando l’assemblea tirolese<br />

approvò una serie d’interventi a favore del Tirolo italiano per potenziare l’economia con la realizzazione di<br />

programmi ferroviari, il miglioramento della rete stra<strong>da</strong>le, l’attuazione di lavori idrici. La Dieta, dopo la<br />

chiusura per un anno, venne riaperta nell’ottobre 1905 e vide la deputazione <strong>trentina</strong> assicurare un<br />

atteggiamento moderato in cambio di provvedimenti nel campo economico e dei lavori pubblici. La<br />

contrapposizione dei partiti tedeschi sulla riforma elettorale per l’assemblea provinciale, fatta anche con<br />

l’ostruzionismo, portò però alla paralisi dei lavori pro<strong>tratta</strong> fino a tutto il 1907.<br />

Sulle elezioni anticipate del febbraio 1908 si riflessero i risultati delle consultazioni tenute per la Camera<br />

l’anno precedente: ridimensionata la forza dei conservatori, i cristiano-sociali conobbero un balzo in avanti<br />

come i popolari trentini, ai quali an<strong>da</strong>vano 13 man<strong>da</strong>ti mentre si riduceva a 6 il numero dei rappresentanti<br />

nazionali-liberali. I lavori dietali, dopo la lunga inattività, si presentavano fitti ed impegnativi, facilitati <strong>da</strong>lla<br />

collaborazione fra i popolari italiani e i cristiano-sociali tedeschi. Don Guido de Gentili, a nome della<br />

125


deputazione <strong>trentina</strong>, dichiarava di non lasciare cadere l’istanza autonomistica, ma di volerne attenuare i toni<br />

perché entrassero in porto i provvedimenti di natura economica e venisse attuata la riforma del regolamento<br />

elettorale. Non per questo mancarono i motivi del contendere sui lavori stra<strong>da</strong>li, sul problema degli stipendi<br />

agli insegnanti, nel 1910-11 sull’annosa questione della ferrovia della valle di Fiemme, sulla legge per la<br />

difesa e l’aumento degli oneri militari.<br />

La riforma del regolamento elettorale, dopo scontri protratti per anni, entrava finalmente in porto nell’ottobre<br />

1913, con una soluzione di compromesso dove coesistevano il sistema delle curie ed il suffragio universale;<br />

aumentavano i seggi riservati al Trentino che otteneva anche tre posti in giunta e la carica di sostituto del<br />

capitano provinciale. Il regolamento, ratificato <strong>da</strong>ll’imperatore nel febbraio 1914, portava i deputati <strong>da</strong> 68 a<br />

96 (61 ai tedeschi, 35 agli italiani), manteneva i quattro seggi legati alla carica e le quattro curie in vigore<br />

con l’aggiunta di una quinta a suffragio generale che eleggeva 21 deputati. Questa legge non solo conservava<br />

le posizioni di privilegio, ma adottava anche una forma così macchinosa nell’attribuzione dei seggi <strong>da</strong><br />

vanificare in buona parte l’aspirazione alla democratizzazione. Le elezioni provinciali, svolte nell’aprile,<br />

mutarono poco nel panorama politico della Dieta; l’unica novità, per il Trentino, era la nomina del socialista<br />

Cesare Battisti. La durata dei lavori fu di breve durata perché l’assemblea venne chiusa il 4 luglio 1914,<br />

nell’imminenza della guerra.<br />

La riforma elettorale del comune di Trento<br />

L’elaborazione di un nuovo regolamento comunale per l’intera provincia, resa necessaria dopo<br />

l’allargamento del suffragio per le consultazioni politiche, lasciava perplessi i ceti dirigenti che controllavano<br />

i maggiori comuni, timorosi di essere scavalcati <strong>da</strong>lla maggioranza cattolica. Sia Rovereto che Trento, agli<br />

inizi del novecento, avevano avanzato qualche proposta, destinata però ad arenarsi.<br />

Il problema della stesura di un nuovo regolamento tornò ad imporsi a Trento mentre il comune era<br />

travagliato <strong>da</strong> una profon<strong>da</strong> crisi, durata <strong>da</strong>l 1909 al 1911, con paralisi dell’attività amministrativa dovuta a<br />

ripetute dimissioni con conseguente intervento dell’autorità politica. I lavori vennero affi<strong>da</strong>ti ad un’apposita<br />

commissione e sollecitati <strong>da</strong> Alcide Degasperi, componente del consiglio comunale, che chiedeva il sistema<br />

della rappresentanza proporzionale in tutti i corpi elettorali. Dopo vivaci polemiche, nell’agosto 1912 venne<br />

portata in aula la proposta concor<strong>da</strong>ta fra liberali, popolari e socialisti che recepiva la rappresentanza<br />

proporzionale, ma con l’esclusione dei partiti rimasti sotto la soglia del 15% dei voti. Gli elettori erano<br />

suddivisi in quattro corpi elettorali, l’ultimo dei quali per i non censiti; ciascuno di essi nominava 10<br />

consiglieri per un totale di 40. Il regolamento divenne legge nel 1914 e fu alla base delle elezioni del giugno,<br />

a pochi giorni <strong>da</strong>lla guerra. Non venne mai realizzata invece la riforma elettorale per Rovereto e per gli altri<br />

comuni.<br />

Gianni Caproni<br />

Gianni Caproni nasce il 3 luglio 1886 a Massone di Arco <strong>da</strong> una famiglia benestante, figlio di Giuseppe e di<br />

Paolina Maini. Laureatosi in ingegneria al Politecnico di Monaco di Baviera nel 1907, si dedica <strong>da</strong> sempre<br />

alla tecnologia aeronautica; il primo aeroplano prodotto "Cal1" vede lo sforzo autonomo di Gianni e del<br />

fratello Federico, nel 1910 si trasferisce nella zona di Malpensa e quindi a Vizzola Ticino: fon<strong>da</strong> sia uno<br />

stabilimento per la produzione di aerei, sia una scuola di volo fra le più quotate dei tempi. Ad Arco e nel<br />

Trentino crea numerose industrie collegate all'aeronautica e si impegna per il miglioramento delle<br />

condizioni sia della popolazione che dell'ambiente di Arco, con una lungimiranza rara. Muore a Roma il 27<br />

ottobre 1957.<br />

La questione dell'università italiana in Austria e la lotta nazionale<br />

All’aprirsi del nuovo secolo una delle questioni più scottanti era quella dell’università italiana in terra<br />

austriaca. Il problema, aperto con il distacco del Ve<strong>net</strong>o <strong>da</strong>ll’Austria e la conseguente preclusione dell’ateneo<br />

di Padova agli studenti, più volte sollevato alla Camera, era ora aggravato <strong>da</strong>ll’accentuarsi dei nazionalismi. I<br />

corsi paralleli in lingua italiana, tenuti presso l’università di Innsbruck, avevano determinato disordini<br />

scoppiati in occasione delle prolusioni di Francesco Menestrina (1901) e Giovanni Lorenzoni (1903).<br />

L’iniziativa di <strong>da</strong>re vita nella capitale tirolese ad un’università libera italiana portò a reazioni e tumulti nel<br />

novembre 1903. Il governo austriaco, constatata l’impossibile convivenza fra gli studenti italiani e tedeschi,<br />

nel 1904 aveva aperto in via provvisoria a Wilten presso Innsbruck una facoltà italiana di scienze giuridiche;<br />

l’inizio dei corsi, invisi a italiani e tedeschi, sfociava però negli scontri devastanti e sanguinosi del 3-4<br />

126


novembre 1904 che portarono all’arresto di 138 studenti italiani. Venne allora presentata alla Camera la<br />

proposta di legge per l’istituzione di una facoltà giuridica a Rovereto, ma l’opposizione degli italiani,<br />

intransigenti sulla sede di Trieste ("o Trieste o nulla"), costrinsero al ritiro del disegno di legge. Nel gennaio<br />

1909 fu presentata una nuova proposta governativa per attivare i corsi universitari in lingua italiana a Vienna,<br />

luogo di compresenza delle varie nazionalità. Ma anche questa iniziativa era destinata a non entrare in porto<br />

e, allo scoppio del conflitto, gli italiani si trovavano ancora privi di un’università con l’insegnamento nella<br />

lingua madre.<br />

La lotta per l’università, che in Italia <strong>da</strong>va luogo ad una serie di pubbliche manifestazioni di protesta estese a<br />

tutta la penisola arrecando imbarazzi al governo, si collocava in un ambiente ormai surriscal<strong>da</strong>to <strong>da</strong>gli<br />

scontri nazionali. La nascita a Vipiteno nel 1905 del "Tiroler Volksbund", con forti connotazioni<br />

pantedesche, portò nuova esca al fuoco della contesa. Gli uomini di cultura trentini accentuarono la loro<br />

militanza conservando tuttavia una linea più difensiva che offensiva. Su posizioni radicali e provocatorie si<br />

collocava invece Ettore Tolomei e la sua rivista del 1906, l’"Archivio per l’Alto Adige" che rivendicava<br />

all’italianità il territorio tedesco fino al crinale del Brennero. La contesa continuava in crescendo, alimentata<br />

<strong>da</strong> alcune congiunture: nel 1907 vi furono gli scontri di Pergine e Calliano fra tedeschi ed irredentisti, causa<br />

di un processo molto seguito <strong>da</strong>ll’opinione pubblica; nel 1908 si lamentarono i mancati compensi, previsti<br />

<strong>da</strong>lla Triplice alleanza, a seguito dell’annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina; nel medesimo anno<br />

suscitò sdegno lo scritto del Rohmeder che negava l’esistenza d’italiani nel Tirolo meridionale dove, egli<br />

sosteneva, vi erano solo tedeschi che si servivano per caso della parlata italiana. Le ricorrenze del centenario<br />

dell’insurrezione hoferiana (1909) e del Dipartimento dell’Alto Adige (1910), misero in moto diatribe<br />

politiche e storiografiche. Il censimento del 1910 scatenò la questione della comunità ladina, per la prima<br />

volta riconosciuta ufficialmente, rivendicata per motivi diversi <strong>da</strong> italiani e tedeschi.<br />

Nella difesa dei caratteri nazionali del Trentino s’impegnarono non solo i liberali e i socialisti, ma anche i<br />

cattolici che temevano l’avanzata del luteranesimo dietro l’ombra delle associazioni pangermaniste. I<br />

popolari ripudiavano l’irredentismo, ma non il senso d’appartenenza al mondo culturale italiano; essi<br />

accettavano il concetto formulato <strong>da</strong> Degasperi della "coscienza nazionale positiva" che comportava la tutela<br />

spirituale, economica e sociale delle popolazioni indiscutibilmente italiane, ma all’interno delle istituzioni<br />

politico-amministrative dell’Austria.<br />

La cultura <strong>trentina</strong> a cavallo dei due secoli<br />

Il Trentino, lontano <strong>da</strong>i centri accademici e <strong>da</strong>i grandi luoghi di elaborazione del sapere, non mancò di<br />

esprimere una propria linea di produzione culturale, magari modesta, ma con caratteri specifici. Gli<br />

intellettuali del Tirolo italiano, per la severa formazione scolastica ed universitaria, possedevano un rigore<br />

metodologico ed una impostazione mentale poco compatibile con la fantasia creatrice, ma a<strong>da</strong>tta alle scienze<br />

(basti citare Giovanni Canestrini, traduttore di Darwin, e Scipio Sighele, criminologo e sociologo di fama<br />

europea), agli studi storici ed all’erudizione. Di qui la scarsità di opere letterarie fornite di pregio, la presenza<br />

di diverse pubblicazioni scientifiche (<strong>da</strong> ricor<strong>da</strong>re almeno i lavori di Ruggero e Giovanni Cobelli, di<br />

Agostino Bonomi, Bernardino Halbherr, Torquato Taramelli, Giacomo Bresadola) e la predilezione per la<br />

ricerca storica.<br />

Molti intellettuali trentini emigrarono in Italia, parte per scelta nazionale, parte perché il regno offriva<br />

maggiori possibilità di affermazione e di lavoro. Essi, infatti, incontravano la generale stima ed erano<br />

considerati ideali per la conduzione di archivi e biblioteche, come nei casi di Tommaso Gar, Giuseppe<br />

Canestrini, Desiderio Chilovi, Arnaldo Segarizzi. Ma gli uomini di cultura residenti in Italia non mancavano<br />

di ritornare al loro paese d’origine e di pubblicarvi anche qualche lavoro: così, ad esempio, fu per Andrea<br />

Galante, Bartolomeo Malfatti, Scipio Sighele, Paolo Orsi, Dario Emer, Giovanni e Ludovico Oberziner,<br />

Giuseppe Papaleoni, Ottone Brentari.<br />

Il gusto per la "<strong>storia</strong> patria", tipico dell’intero Tirolo, già nel corso dell’ottocento aveva <strong>da</strong>to luogo a<br />

qualche lavoro organico (le pubblicazioni di Raffaele Zotti, Agostino Perini, Giovanni Bertanza, Francesco<br />

Ambrosi) accanto a piccole ricerche compiute su materiali archivistici. L’accentuarsi della sensibilità<br />

nazionale e la difesa dell’italianità diedero notevole impulso agli studi storici che s’intrecciarono con quelli<br />

archeologici, linguistici, toponomastici per fare fronte alla militanza politica degli intellettuali tedeschi. La<br />

scientificità del metodo e la priorità <strong>da</strong>ta ai documenti ed ai reperti rispetto alle ipotesi interpretative,<br />

riuscirono a preservare gli storici trentini <strong>da</strong> esuberanze o <strong>da</strong> posizioni aggressive, pur non abdicando<br />

all’ardore patriottico. Esemplare in questo senso fu la copiosa produzione di Desiderio Reich che, mentre<br />

documentava le tradizioni italiane del Trentino, non esitava a riconoscere i meriti della storiografia tedesca,<br />

127


ove esistenti, e si legava d’amicizia con Karl Ausserer.<br />

La migliore produzione storiografica e culturale <strong>trentina</strong> confluì in una serie di riviste, comparse fra ’800 e<br />

’900: gli "Atti" dell’Accademia roveretana degli Agiati, "Archivio Trentino", "Tridentum", "Rivista<br />

tridentina", "San Marco", "Pro Cultura", l’ "Annuario" della Società Alpinisti Tridentini ed i "Programmi"<br />

degli istituti scolastici. Tali riviste esprimevano, accanto al rigore del metodo, la propensione per la raccolta<br />

di fonti e reperti, necessaria prima di operare qualsiasi sintesi. A volte il procedere analitico e l’amore per il<br />

particolare poteva scivolare nella minuzia erudita e localistica, ma il richiamo al dovere di operare solo sulla<br />

base dei documenti, di compiere un severo controllo dei <strong>da</strong>ti, di rifuggire <strong>da</strong>lle generalizzazioni frettolose,<br />

creava un procedere omogeneo nella ricerca tale <strong>da</strong> superare, in ambito scientifico, le divisioni ideologiche e<br />

di partito per appro<strong>da</strong>re ad un lavoro fatto in comunità d’intenti.<br />

Riccardo Zandonai (1883-1944)<br />

Allievo di Pietro Mascagni al liceo musicale di Pesaro, si impone all'attenzione del pubblico e della critica<br />

con le opere Il grillo del focolare (1907), commmissionata <strong>da</strong>ll'editore Ricordi e Conchita (1911), seguite<br />

<strong>da</strong> Francesca <strong>da</strong> Rimini (1914), la sua opera più riuscita e conosciuta, Giulietta e Romeo (1922), I cavalieri<br />

di Ekebu (1925), Giuliano (1928), Una partita (1933), La farsa amorosa (1933), tutte chiaramente<br />

influenzate <strong>da</strong>l verismo.<br />

Ha lasciato alcuni poemi sinfonici (tra i quali Quadri di Segantini, Primavera in Val di Sole, Patria lontana,<br />

Fra gli alberghi delle Dolomiti), concerti (Concerto An<strong>da</strong>luso per cello e orchestra e Concerto romantico<br />

per violino e orchestra), musica sacra (Messa <strong>da</strong> Requiem e Te Deum), il balletto Biancaneve, musica <strong>da</strong><br />

camera e per film.<br />

Ha anche esercitato l'attività di direttore d'orchestra e <strong>da</strong>l 1940 ha coperto la carica di direttore del<br />

conservatorio di Pesaro.<br />

128


Le vicende del secolo ventesimo<br />

La prima guerra mondiale e il Trentino di Maria Garbari<br />

Lo scoppio del conflitto ed il periodo della neutralità italiana<br />

L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 contro l’arciduca Francesco Ferdinando portava all’ultimatum<br />

austro-ungarico inviato alla Serbia il 23 luglio, seguito <strong>da</strong>lla dichiarazione di guerra il giorno 28.<br />

Immediatamente scattava la rete delle alleanze <strong>da</strong>ndo al conflitto dimensioni europee: la Germania il 1°<br />

agosto dichiarava le ostilità alla Russia che aveva mobilitato l’esercito ed il 3 alla Francia provocando, con la<br />

violazione della neutralità belga, l’entrata in guerra della Gran Bretagna contro la Germania il 5 agosto.<br />

L’Italia il 3 agosto aveva notificato la propria neutralità ai sensi della Triplice in quanto l’Austria risultava<br />

l’attaccante, non l’attaccata.<br />

Il 31 luglio l’imperatore austriaco ordinava la mobilitazione generale dell’esercito e la leva in massa <strong>da</strong>i 21 ai<br />

42 anni, estesa nel novembre <strong>da</strong>i 20 ai 50. Dal Tirolo vennero inviati al fronte nove reggimenti nei quali,<br />

durante la guerra, furono presenti all’incirca 60.000 trentini. Costoro, destinati a combattere in Galizia e sui<br />

Carpazi, si trovarono al centro di violente e sanguinose battaglie che costarono, nel primo anno di guerra,<br />

parecchi feriti ed oltre 7.000 morti. Abbastanza consistente fu anche il fenomeno di <strong>da</strong>rsi volontariamente in<br />

prigionia ai russi per sfuggire al massacro. Un calcolo complessivo relativo all’intera durata del conflitto fa<br />

assommare i caduti trentini nell’esercito austriaco a più di 8.000, 14.000 i feriti e 12.000 i prigionieri.<br />

La guerra ebbe immediate ripercussioni sulle popolazioni civili, non più difese nelle sedi istituzionali <strong>da</strong>ta la<br />

chiusura della Dieta e del Parlamento. La leva in massa privava il Trentino di una parte consistente delle<br />

forze lavoratrici con grave compromissione di tutti i settori produttivi, ed in particolare di quello agricolo<br />

destinato a passare in mani femminili. Iniziava poi il drenaggio di denaro attraverso la sottoscrizione forzosa<br />

dei prestiti di guerra, ben otto <strong>da</strong>l novembre 1914 al 1918, con un prelievo globale, Ampezzano compreso, di<br />

210.000.000 corone.<br />

Appena scoppiate le ostilità gli irredentisti videro profilarsi l’occasione per il passaggio del Trentino<br />

all’Italia, tanto che già l’8 agosto Cesare Battisti, Giovanni Pedrotti e Guido Larcher inviavano un Indirizzo a<br />

Vittorio Emanuele III per sollecitare l’entrata in guerra a riscatto dei territori italiani oltre confine. Prendeva<br />

il via in questo modo la campagna interventista e iniziava il fuoruscitismo <strong>da</strong> parte degli esponenti del<br />

movimento nazionale, un gruppo esiguo ma ben determinato a premere sul governo del regno. A sostegno<br />

dei profughi si costituiva a Milano la Commissione dell’emigrazione <strong>trentina</strong> che agiva accanto al Circolo<br />

trentino ed in collaborazione con le Commissioni di patronato e di altre associazioni patriottiche. Anche<br />

diversi giovani, soprattutto studenti degli istituti superiori, varcavano il confine allo scopo di arruolarsi<br />

volontari nell’esercito italiano nel caso fosse scoppiata l’auspicata guerra.<br />

Ma nel Trentino le popolazioni, tendenzialmente fedeli alla monarchia asburgica, non erano sfiorate <strong>da</strong>ll’idea<br />

di un mutamento dei confini statali, tanto che Alcide Degasperi, parlando nel settembre 1914 con<br />

l’ambasciatore austriaco a Roma, osservava come, nel caso di un plebiscito, il 90% dei cittadini avrebbe<br />

optato per l’Austria.<br />

Le <strong>tratta</strong>tive diplomatiche per la cessione del Trentino e l’entrata in guerra dell’Italia<br />

L’Italia, dopo la dichiarazione della neutralità, venne subito invitata <strong>da</strong>lle potenze dell’Intesa (Francia,<br />

Inghilterra e Russia) ad entrare in guerra al loro fianco contro l’Austria-Ungheria, con la promessa di acquisti<br />

territoriali che an<strong>da</strong>vano ben oltre il Trentino. Il governo, per il momento, intendeva mantenere fede alla<br />

neutralità, sollecitato <strong>da</strong>gli imperi centrali consapevoli dell’importanza strategica dello stato italiano: la sua<br />

belligeranza accanto all’Intesa avrebbe infatti portato all’accerchiamento completo, fatale nel caso di un<br />

prolungamento nel tempo del conflitto. Ma l’attività diplomatica italiana cominciò ad agire su due fronti in<br />

attesa delle occasioni propizie.<br />

Il nuovo ministro degli esteri Sonnino sollevava a Vienna la questione dei compensi in base alla Triplice e,<br />

nel dicembre, giungeva a Roma come ambasciatore della Germania il principe von Bülow con l’incarico<br />

d’influire sul governo italiano perché si limitasse a chiedere solo il Trentino e convincere l’Austria a cedere<br />

il Tirolo italiano. Le resistenze dell’imperatore e del comando militare fecero slittare al marzo 1915 la<br />

disponibilità austriaca ad aprire <strong>tratta</strong>tive sui territori oggetto di cessione. La composizione della vertenza<br />

veniva sollecitata <strong>da</strong>l neutralista Giovanni Giolitti, con il quale era schierata la Camera dei deputati,<br />

consapevole dei lutti, delle devastazioni e delle crisi che la guerra combattuta avrebbe apportato all’Italia.<br />

Ma le <strong>tratta</strong>tive s’incagliavano su due questioni di fondo, la prima relativa alla <strong>da</strong>ta del trasferimento<br />

129


territoriale che il governo del regno voleva immediata e l’Austria solo a conflitto ultimato, la secon<strong>da</strong><br />

riguar<strong>da</strong>nte i militari di nazionalità italiana dei quali veniva chiesto il congedo per non costringerli a rischiare<br />

la vita a vantaggio di uno stato che, di fatto, non era più il loro.<br />

Mentre i colloqui erano in corso, il 19 marzo le potenze dell’Intesa comunicavano di accettare le richieste<br />

dell’Italia, estese oltre le province irredente. L’8 aprile il Sonnino telegrafava a Vienna lo schema definitivo<br />

di accordo: cessione immediata del Trentino fino alla linea napoleonica, di Gorizia e Gradisca; Trieste eretta<br />

a città indipendente; diritti su Valona ed alcune isole dell’Adriatico; congedo dei militari delle zone<br />

interessate al trasferimento. Il rigetto delle richieste portava il Sonnino ed il primo ministro Salandra a<br />

concludere le <strong>tratta</strong>tive con l’Intesa e il 26 aprile, senza consultare la Camera che nel frattempo era stata<br />

chiusa, veniva firmato il patto di Londra dove all’Italia erano assicurati, oltre ad altre acquisizioni, il<br />

Trentino fino al Brennero e Trieste.<br />

A nulla valsero le nuove proposte austriache protratte anche dopo la denuncia della Triplice effettuata il 3<br />

maggio. Il movimento interventista s’infiammava ulteriormente con la concione tenuta <strong>da</strong> d’Annunzio il 5<br />

maggio a Quarto; Giolitti premeva per evitare la guerra; Salandra, constatato di non avere l’appoggio della<br />

maggioranza parlamentare, rassegnava le dimissioni. La crisi venne risolta <strong>da</strong>l re che, respinte le dimissioni,<br />

convocava il Parlamento per il 20 maggio in modo <strong>da</strong> avere la ratifica di quanto già deliberato in forme<br />

unilaterali <strong>da</strong>l governo. Il 23 maggio l’Italia inviava l’ultimatum ed il 24 dichiarava la guerra all’Austria-<br />

Ungheria, ma non alla Germania alla quale sarà dichiarata solo il 25 agosto 1916. dichiarazione della<br />

neutralità, venne subito invitata <strong>da</strong>lle potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) ad entrare in guerra<br />

al loro fianco contro l’Austria-Ungheria, con la promessa di acquisti territoriali che an<strong>da</strong>vano ben oltre il<br />

Trentino. Il governo, per il momento, intendeva mantenere fede alla neutralità, sollecitato <strong>da</strong>gli imperi<br />

centrali consapevoli dell’importanza strategica dello stato italiano: la sua belligeranza accanto all’Intesa<br />

avrebbe infatti portato all’accerchiamento completo, fatale nel caso di un prolungamento nel tempo del<br />

conflitto. Ma l’attività diplomatica italiana cominciò ad agire su due fronti in attesa delle occasioni propizie.<br />

Le operazioni militari sul fronte trentino<br />

Nel Trentino il preannuncio della guerra ebbe ripercussioni ancor prima dello scoppio delle ostilità. Il 30<br />

marzo veniva sciolto il consiglio comunale di Trento ed il capoluogo affi<strong>da</strong>to ad un amministratore ufficioso,<br />

l’avvocato Adolfo de Bertolini, rimasto in carica fino al 4 gennaio 1918 quando venne arrestato con l’accusa<br />

di spionaggio in favore dell’Italia. Medesima sorte toccherà a Rovereto, affi<strong>da</strong>ta <strong>da</strong>l 21 giugno al capitano<br />

distrettuale Giovanni Hafner. Le misure di polizia, scattate immediatamente, portavano all’arresto di<br />

numerose persone sospettate d’irredentismo, destinate ad essere trasferite nel campo d’internamento di<br />

Katzenau. La città di Trento, dichiarata "fortezza", già a partire <strong>da</strong>l 20 maggio conosceva l’ordine di<br />

evacuazione seguita <strong>da</strong> altre aree a rischio. Aveva così inizio il dramma delle popolazioni trentine, colpite,<br />

travolte e disperse nel corso di tre anni destinati a lasciare sul territorio distruzioni immani.<br />

Il fronte di combattimento, aperto col 24 maggio, risultava assai ampio e difficile per le caratteristiche<br />

geografiche del paese; <strong>da</strong>lle valli s’innalzava a quote altissime attestandosi sul crinale dei monti e dei<br />

ghiacciai come l’A<strong>da</strong>mello e la Marmola<strong>da</strong>. Nel versante austriaco correva uno sbarramento di fortificazioni,<br />

a volte distanti <strong>da</strong>i confini in base al calcolo delle capacità difensive. La guerra avrebbe assunto l’aspetto<br />

degli arroccamenti nelle trincee, degli sforzi per strappare lembi di terreno, delle avanzate sempre aleatorie,<br />

dell’incubo <strong>da</strong>to <strong>da</strong>lle avversità atmosferiche: una tipica guerra di montagna fatta di enormi disagi, ma anche<br />

d’interventi tecnici a volte geniali ed innovativi per costruire strade, teleferiche, linee telefoniche,<br />

baraccamenti e fortini onde permettere gli insediamenti umani in condizioni estreme.<br />

Il 1915 vide il successo delle operazioni militari italiane impegnate nell’offensiva. L’avanzata dell’esercito<br />

portò all’occupazione del Tonale, della valle di Ledro e della conca di Bezzecca, di alcune posizioni sul<br />

Baldo, sul Pasubio e verso Lavarone, alla pe<strong>net</strong>razione nella valle dell’Adige arrestata alle soglie di<br />

Rovereto, all’occupazione della Valsugana fino a Borgo, di Primiero e di Cortina. La ritirata austriaca<br />

risultava motivata <strong>da</strong> cause strategiche; il fronte in questo modo si riduceva e presentava maggiori possibilità<br />

difensive agevolate <strong>da</strong>lle fortificazioni.<br />

All’aprirsi del 1916 venne progettata la controffensiva austriaca tra l’Adige e il Brenta, concretatasi nella<br />

Strafexpedition iniziata il 15 maggio e fermata il 16 giugno <strong>da</strong>lle armate italiane. Il 10 luglio, durante uno<br />

scontro sul monte Corno in Vallarsa, avveniva la cattura di Cesare Battisti. Egli, trasportato nelle carceri del<br />

castello del Buonconsiglio e processato il 12 luglio per alto tradimento, venne con<strong>da</strong>nnato a morte per<br />

capestro; la sentenza ebbe esecuzione nella sera del medesimo giorno, come quella di Fabio Filzi fatto<br />

prigioniero insieme a Battisti.<br />

130


Successivamente all’occupazione italiana del monte Cauriol, compiuta nell’agosto, le operazioni militari<br />

conobbero una lunga tregua, fino alla battaglia dell’Ortigara del giugno 1917. Nel settembre del medesimo<br />

anno fallì il progetto di cogliere a sorpresa le difese austriache a Carzano, in Valsugana, ed aprire la via per<br />

giungere fino a Trento. Dopo la sostituzione del generale Cadorna con Armando Diaz, il 9 novembre<br />

avvenne la rotta di Caporetto con la perdita delle province di Udine, Belluno, parte di quelle di Venezia e<br />

Vicenza, Cortina e, nel Trentino, del Primiero e della Valsugana in concomitanza con gli scontri sanguinosi<br />

del Grappa e degli altipiani.<br />

Nel 1918 mutava il quadro generale dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro gli imperi centrali<br />

(nell’aprile 1917 contro la Germania, nel dicembre contro l’Austria) e l’armistizio firmato nel marzo <strong>da</strong>lla<br />

Russia dove si era affermata la rivoluzione bolscevica. In tale contesto l’Italia riprendeva le operazioni<br />

difensive sia sul Piave (giugno-luglio), sia sul crinale occidentale del Trentino. A fine ottobre, mentre<br />

avveniva il collasso della Germania e dell’Austria-Ungheria, gli italiani si impegnavano nell’offensiva di<br />

Vittorio Ve<strong>net</strong>o e nello sfon<strong>da</strong>mento del fronte del Grappa. Il 3 novembre veniva firmato l’armistizio di Villa<br />

Giusti, diventato esecutivo il giorno 4; le prime truppe italiane raggiungevano Trento il 3 novembre.<br />

I fuorusciti trentini, ottenuto il permesso di arruolarsi nell’esercito italiano, parteciparono, nel numero<br />

complessivo di 759, alle operazioni militari sui diversi fronti distinguendosi per abnegazione e valore. La<br />

con<strong>da</strong>nna di Cesare Battisti provocò l’ordine del loro ritiro <strong>da</strong>lla prima linea nel timore di altre tragiche<br />

catture, ma il provvedimento del comando supremo venne revocato in poco tempo per le proteste dei<br />

volontari costituitisi in "Legione Trentina". Questo gruppo di giovani, entrati in guerra sull’on<strong>da</strong><br />

dell’entusiasmo, era destinato a pagare un tributo altissimo agli ideali patriottici con più di cento morti e<br />

numerosi feriti.<br />

Cesare Battisti<br />

Nato a Trento nel 1875, iniziò gli studi universitari a Vienna e li concluse a Firenze, dove aderì ai principi<br />

del socialismo. Tornato nel Trentino nel 1899, si pose alla gui<strong>da</strong> del partito socialista e fondò, agli inizi del<br />

'900, il quotidiano socialista “Il Popolo”. Nel 1902 venne eletto al consiglio comunale di Trento e iniziò una<br />

dura battaglia per la rivendicazione dell’Università italiana in Austria. Con gli anni andò sempre più<br />

accentuandosi il carattere irredentista dell’azione politica di Battisti (lontana <strong>da</strong>lle posizioni dei nazionalisti<br />

accesi, come ad esempio Ettore Tolomei), che sfociò in una collaborazione con alcuni esponenti liberali sui<br />

temi dell’autonomia <strong>trentina</strong>. Nelle elezioni politiche del 14 maggio 1911 venne eletto deputato per il<br />

collegio di Trento al parlamento di Vienna, dove si fece promotore di una lotta radicale per l’autonomia e<br />

insieme per il riconoscimento dei diritti nazionali. Fu anche eletto deputato alla dieta di Innsbruck nel 1914.<br />

Con lo scoppio della prima guerra mondiale decise di passare in Italia, dove prese parte attiva allo<br />

schieramento interventista contro l’Austria. Entrata in guerra l’Italia, Battisti si arruolò volontario<br />

nell’esercito italiano e il 10 luglio 1916, nel corso di combattimenti sul monte Corno, venne fatto<br />

prigioniero e portato a Trento, dove fu accusato di alto tradimento <strong>da</strong>l Tribunale militare e con<strong>da</strong>nnato<br />

all’impiccagione. La sentenza venne eseguita il 12 luglio 1916 nel Castello del Buonconsiglio.<br />

La guerra e le popolazioni civili<br />

L’apertura del fronte italiano ebbe sulle popolazioni civili del Trentino effetti devastanti, come conseguenza<br />

diretta della situazione politico-nazionale e delle operazioni militari. I sospettati d’irredentismo vennero<br />

internati (circa 2.000 dei quali 1.754 nel campo di Katzenau) o confinati (oltre 1.000). Nella zona interessata<br />

all’attività bellica – tutta l’area adiacente alla Lombardia ed al Ve<strong>net</strong>o – si rese necessaria l’evacuazione in<br />

massa dei residenti, costretti a lasciare nell’arco di pochi giorni le case e le terre per essere avviati verso i<br />

lontani paesi dell’Austria inferiore e superiore, della Moravia, Stiria, Boemia, Salisburghese e perfino<br />

dell’Ungheria. L’esodo coatto interessò oltre 70.000 profughi, alloggiati in baraccamenti – i maggiori dei<br />

quali furono Mitterndorf, Pottendorf, Braunau e Wagna – o presso famiglie, ma sempre in forme precarie e<br />

di estremo disagio dove le sofferenze dello sradicamento si legavano a quelle materiali dovute alla carenza<br />

dei primari beni di sussistenza.<br />

L’avanzata italiana nel primo anno di guerra portava all’evacuazione d’autorità di coloro che si trovavano<br />

ancora sul territorio via via occupato, circa 35.000 persone trasferite nelle province del regno, sovente senza<br />

mantenere unite le comunità in base ai luoghi di provenienza e smembrando gli stessi nuclei familiari.<br />

Tenuto conto dei richiamati nell’esercito austriaco, di coloro, non molti, che volontariamente erano passati in<br />

Italia, dei profughi nello stato asburgico e nel regno, il Trentino vedeva quasi dimezzata la sua popolazione<br />

131


assommante, in base al censimento del 1910, a 386.437 abitanti.<br />

I residenti rimasti nelle zone considerate non pericolose, costituiti in massima parte <strong>da</strong> disabili alla guerra,<br />

donne e minori, vennero sottoposti al regime militare con l’obbligo al lavoro coatto, anche femminile, e<br />

colpiti <strong>da</strong> ripetute requisizioni di beni e derrate agricole. Ulteriori sofferenze erano <strong>da</strong>te <strong>da</strong>lla rarefazione dei<br />

generi alimentari e di quanto fosse necessario ad assicurare un minimo vitale, mentre s’interrompeva<br />

l’attività produttiva per la mancanza della forza lavoro e per le distruzioni.<br />

La sorte dei profughi trentini in Austria venne seguita con impegno <strong>da</strong> Alcide Degasperi fin <strong>da</strong>l 1915, ma fu<br />

solo con la riapertura del Parlamento nel maggio 1917, dopo la morte di Francesco Giuseppe, avvenuta nel<br />

novembre 1916, che la deputazione <strong>trentina</strong>, composta <strong>da</strong> sette rappresentanti popolari e <strong>da</strong> un liberale, riuscì<br />

ad intervenire in modo incisivo nella difesa dei loro diritti e per approntare un’adeguata assistenza,<br />

sollevando anche il problema dei <strong>da</strong>nni economici provocati alle popolazioni <strong>da</strong>gli spostamenti compiuti in<br />

forma coercitiva e <strong>da</strong>lla guerra. Alla fine del novembre 1917 le condizioni dei profughi vennero regolate con<br />

un testo legislativo finalizzato a togliere le cause di maggiore disagio, concedere sovvenzioni e permettere la<br />

libertà di scelta rispetto alla residenza, nei baraccamenti o presso famiglie.<br />

Sorte peggiore venne riservata ai profughi in Italia, tranne che in alcune colonie modello situate nel<br />

settentrione. L’evacuazione non era stata preparata nella parte logistica, ed i profughi conobbero una<br />

diaspora in 264 comuni di 69 prefetture collocate in tutte le regioni del regno, comprese quelle del sud;<br />

alcuni di essi vennero internati perché sospettati di austriacantesimo. La maggioranza si trovò costretta a fare<br />

fronte a condizioni igieniche disastrose, a malattie causate <strong>da</strong> sporcizia e <strong>da</strong> intolleranza all’alimentazione ed<br />

al clima, alla carenza di strutture scolastiche per i giovani, alla mancanza di lavoro, nonostante le iniziative<br />

delle Commissioni di patronato e le pubbliche denunce apparse sul giornale dei fuorusciti trentini, "La<br />

libertà".<br />

Dal web<br />

TRENTINO GRANDE GUERRA<br />

http://<strong>www</strong>.trentinograndeguerra.it/<br />

14 18 immagini della grande guerra<br />

http://<strong>www</strong>.14-18.it/1418/index.php?1/home<br />

Scritture di guerra<br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/asp/bibliografia.htm<br />

L'archivio di Cinema e <strong>storia</strong><br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/cinema/attivita.htm<br />

Monumenti della grande guerra - mostra<br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti<br />

/mostra.htm<br />

Monumenti ai caduti in Trentino<br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti<br />

/monumenti.htm<br />

I caduti in divisa austroungarica<br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti<br />

/austroungarici.htm<br />

I caduti in divisa italiana<br />

http://<strong>www</strong>.museostorico.tn.it/editoria_ricerca/caduti<br />

/italiani.htm<br />

Forte Belvedere - Gschwent di Lavarone (TN)<br />

http://<strong>www</strong>.fortebelvedere.org<br />

Le iniziative politiche dei trentini in Italia e in Austria<br />

I trentini fuorusciti nel regno, mentre s’impegnavano con parecchie iniziative nell’aiuto e nella tutela dei<br />

compaesani profughi, non mancavano di seguire gli aspetti politici legati al conflitto. La preoccupazione del<br />

futuro amministrativo ed economico della provincia, nella prospettiva dell’annessione all’Italia, li portò<br />

all’elaborazione di numerosi studi e memoriali, promossi soprattutto <strong>da</strong>ll’iniziativa del Comitato d’azione di<br />

Verona, che venivano inviati ai responsabili del governo. Altri studi, memoriali, relazioni, inchieste, vennero<br />

stesi per l’Unione economica nazionale entro la quale si era costituito un comitato trentino.<br />

La maggioranza dei fuorusciti, indipendentemente <strong>da</strong>lle posizioni politiche, confluì nella Associazione<br />

politica degli italiani irredenti, palesemente conservatrice e attestata sulla linea dell’annessionismo di<br />

massima, mentre in numero esiguo parteciparono alla Democrazia sociale irredenta, di stampo democratico –<br />

radicale. I trentini però, abbastanza contenuti rispetto alle esuberanze nazionaliste ed imperialiste, furono<br />

presenti al congresso di Roma delle nazionalità oppresse tenuto nell’aprile 1918 e taluni di essi, come il<br />

liberale Antonio Stefenelli, dichiaravano che il futuro confine avrebbe dovuto essere posto a Salorno anziché<br />

132


al Brennero.<br />

A Vienna i deputati trentini, oltre a prendere iniziative per la tutela dei profughi, seguivano gli sviluppi del<br />

disfacimento dello stato asburgico dove la guerra aveva ancor più esaltato le rivendicazioni nazionali. Anche<br />

i cattolici si erano ormai schierati in difesa dell’italianità del Trentino, rafforzati in tale scelta <strong>da</strong>l <strong>tratta</strong>mento<br />

riservato <strong>da</strong>ll’Austria al vescovo Celestino Endrici, arrestato nel marzo 1916, deportato ed internato perché<br />

in sospetto di sentimenti filoitaliani. Nel maggio 1918 Enrico Conci a Praga, nell’ambito di solenni<br />

manifestazioni, teneva un discorso a sostegno delle nazionalità oppresse.<br />

Mentre a Vipiteno, nel maggio, e a Bressanone, in ottobre, il Tiroler Volksbund chiedeva l’unità del Tirolo<br />

<strong>da</strong> Kufstein alle Chiuse di Verona ed il diritto di autodeterminazione per tutti gli abitanti, l’impero asburgico<br />

conosceva gli ultimi atti della sua dissoluzione. Respinta <strong>da</strong>l presidente Wilson la richiesta d’armistizio del 4<br />

ottobre, l’Austria, sia pure in ritardo, tentava di risolvere in modo radicale il problema delle nazionalità con il<br />

manifesto dell’imperatore Carlo in <strong>da</strong>ta 16 ottobre che trasformava l’impero in stato federale. Ma i deputati<br />

trentini non tennero nemmeno in considerazione questa proposta istituzionale; il 24 ottobre i rappresentanti<br />

trentini ed i liberali adriatici si costituivano in fascio nazionale presieduto <strong>da</strong>l Conci che, alla Camera, nella<br />

seduta del 25 ottobre, a nome dei colleghi dichiarava come i territori italiani entro i confini della monarchia<br />

erano <strong>da</strong> ritenersi ormai virtualmente appartenenti all’Italia. Firmato l’armistizio, i deputati Alcide<br />

Degasperi, Enrico Conci e Valeriano Malfatti si recarono immediatamente a Roma per esporre ai<br />

rappresentanti del governo i problemi del Trentino all’atto del passaggio <strong>da</strong>ll’Austria all’Italia e per chiedere<br />

la conservazione delle strutture autonomistiche.<br />

I governi provvisori del dopoguerra di Maria Garbari<br />

Il governatorato militare<br />

Il 3 novembre 1918, apertosi il periodo armistiziale, venne costituito un Governatorato militare per il<br />

Trentino, Ampezzano e Alto Adige affi<strong>da</strong>to al generale Guglielmo Pecori Giraldi, coman<strong>da</strong>nte della Iª<br />

armata. Provvisoriamente, ed in attesa dell’introduzione della legislazione italiana, sul territorio rimanevano<br />

in vigore le strutture politico-amministrative austriache, ma prive degli organi di governo collocati ad<br />

Innsbruck. Per ricomporre il tessuto dell’ordinamento provinciale fu istituito un Commissariato per gli affari<br />

autonomi affi<strong>da</strong>to ad Enrico Conci, nominati commissari civili in sostituzione dei capitani distrettuali,<br />

riconfermate, ove possibile, le amministrazioni comunali e riconosciute le facoltà sancite <strong>da</strong>gli statuti propri<br />

delle città di Trento, Rovereto e Bolzano. Venne anche creata una Consulta composta <strong>da</strong> sei popolari, tre<br />

liberali e due socialisti, con presidente il Conci e segretario Alcide Degasperi, quale elemento di raccordo fra<br />

il paese ed il governatore; ma la sua attività fu vanificata <strong>da</strong> diatribe di parte e <strong>da</strong> richieste incompatibili con<br />

il vigente impianto costituzionale italiano.<br />

La situazione, <strong>da</strong>l punto di vista politico, si presentava assai delicata per l’inclusione entro i confini del<br />

regno, non certo per libera scelta ma solo per le ragioni della vittoria, della minoranza austrotedesca. Il fatto<br />

che l’Italia fosse priva di tradizioni autonomistiche e di esperienza nel <strong>tratta</strong>mento di comunità etniche<br />

minoritarie, poteva portare a lacerazioni incomponibili. Tuttavia il Pecori Giraldi si mosse generalmente con<br />

prudenza e tatto, avvalendosi dell’opera dei trentini che si erano subito candi<strong>da</strong>ti come attori e mediatori<br />

all’interno del nuovo ordine, forti dell’esperienza maturata nel nesso asburgico.<br />

Un problema immediato fu quello del rientro dei profughi, una massa di circa 100.000 persone che, nel giro<br />

di pochi mesi e nella stagione invernale, avrebbe fatto ritorno in una zona devastata <strong>da</strong>lla guerra, sfornita di<br />

alloggi, di beni di sussistenza e con l’economia paralizzata. La precedenza venne <strong>da</strong>ta ai provenienti<br />

<strong>da</strong>ll’Austria il cui rientro, nonostante l’accurata preparazione del governatore, conobbe numerose difficoltà<br />

ed ulteriori disagi per i rimpatriati costretti ancora, per il numero delle abitazioni distrutte o <strong>da</strong>nneggiate, alla<br />

vita di baracca o alla sistemazione provvisoria.<br />

Gli ingenti lavori di ricostruzione – nella "zona nera", dove era passato il fronte, la devastazione risultava<br />

pressoché totale – vennero assunti in un primo momento <strong>da</strong>l Genio militare della prima armata. Il ripristino<br />

delle infrastrutture e del patrimonio edilizio, sostenuto <strong>da</strong> ingenti finanziamenti, non conobbe sosta e portò a<br />

risultati positivi, nonostante gl’inevitabili episodi di sperperi o di irregolarità amministrative. Altri problemi<br />

connessi a situazioni di forte disagio sociale furono quelli del cambio della corona austriaca con la lira<br />

italiana, fissato prima al 40%, poi al 60%; quello della perdita di valore dei titoli austriaci ed ungheresi dove<br />

erano confluiti i risparmi di molti cittadini, ed il risarcimento dei <strong>da</strong>nni di guerra alle persone e cose,<br />

riconosciuto legittimo in quasi tutti i 120.000 casi di denuncia.<br />

133


Il Governatorato civile e la conservazione dell’ordinamento autonomo<br />

A fine luglio 1919 cessava il Governatorato militare che aveva avviato il Trentino alla normalizzazione,<br />

sostituito <strong>da</strong> un Governatorato civile assunto il 4 agosto <strong>da</strong>ll’on. Luigi Cre<strong>da</strong>ro destinato ad agire in un<br />

contesto difficile. Forti preoccupazioni destavano i tempi lunghi interposti al definitivo assetto istituzionale.<br />

Il 10 settembre veniva firmato il <strong>tratta</strong>to di pace di Saint Germain, ma la sua ratifica <strong>da</strong> parte del Parlamento<br />

italiano conosceva ritardi, procrastinando la legge d’annessione ed impedendo le consultazioni<br />

amministrative e politiche che avrebbero normalizzato la vita dei comuni e permesso ai rappresentanti del<br />

paese l’entrata alla Camera dei deputati. La legge d’annessione, in applicazione del <strong>tratta</strong>to di pace, veniva<br />

promulgata solo il 26 settembre 1920.<br />

Nel periodo del Commissariato civile le forze politiche del Trentino, già attive nell’immediato dopoguerra,<br />

definirono la loro organizzazione. I socialisti, favorevoli al massimalismo, nel luglio 1919 erano confluiti nel<br />

Partito socialista italiano mentre il dissidente gruppo "battistiano" nell’ottobre 1920 aderiva al socialismo<br />

riformista; un’altra scissione avveniva dopo il congresso di Livorno del 1921 che <strong>da</strong>va origine, anche in<br />

Trentino, al Partito comunista. Il Partito popolare, attivissimo fin <strong>da</strong>l primo dopoguerra nella ripresa del<br />

movimento associazionistico e cooperativistico, si ricostituì nell’ottobre 1919. I liberali <strong>da</strong>vano vita alla<br />

Associazione liberale democratica <strong>trentina</strong> nell’ottobre 1920 ed entravano nel partito nazionale all’atto della<br />

sua costituzione nell’ottobre 1922.<br />

In previsione della sistemazione definitiva del paese, tutti i partiti concor<strong>da</strong>vano sulla necessità di mantenere<br />

in vita l’impianto autonomistico provinciale, dotato di facoltà e competenze simili a quelle della cessata<br />

Dieta tirolese, e quello comunale, compresi gli statuti propri per le città maggiori. Le diversità riguar<strong>da</strong>vano<br />

il quadro territoriale dell’autonomia che i liberali avrebbero preferito regionale, i socialisti attribuito a<br />

ciascuna delle due province, il Trentino e l’Alto Adige, ed i popolari alla regione articolata in due province,<br />

anch’esse autonome.<br />

Il fatto che il passaggio all’Italia non avesse cancellato la richiesta dell’autogoverno indicava come, per i<br />

trentini, l’autonomia non rivestiva solo un significato di tutela nazionale ma corrispondeva ad un modello di<br />

stato decentrato opposto al livellamento del centralismo italiano. Il carattere di difesa etnica era invece<br />

essenziale per il gruppo sudtirolese, ridotto a minoranza in uno stato di altra nazionalità, come appariva <strong>da</strong>l<br />

progetto d’autonomia del Deutscher Verband presentato a Nitti nel marzo 1920. Assicurazioni sul futuro<br />

autonomistico del paese erano state <strong>da</strong>te <strong>da</strong>l sovrano, <strong>da</strong>l governo Nitti, <strong>da</strong> quello retto <strong>da</strong> Giolitti e la stessa<br />

legge d’annessione prevedeva il coordinamento delle leggi del regno con le autonomie provinciali e<br />

comunali dei territori annessi. Le consultazioni politiche del maggio 1921 attraverso l’elezione, per la<br />

circoscrizione del Trentino, di cinque popolari e due socialisti, permisero di sollevare alla Camera tutti i<br />

problemi della provincia <strong>da</strong> parte dei diretti interessati. Spettò ad Alcide Degasperi, nel discorso tenuto il 24<br />

giugno, illustrare il progetto autonomistico legittimato <strong>da</strong>lla tradizione storica e <strong>da</strong>lla speranza di comporre il<br />

conflitto tra le nazionalità che per la prima volta si presentava ai confini dell’Italia.<br />

Le lentezze e le resistenze della capitale, dovute anche al mutato clima politico, erano destinate a incidere<br />

sulla rapi<strong>da</strong> soluzione dell’assetto istituzionale del Trentino. La costituzione della Giunta provinciale<br />

straordinaria, decisa nell’agosto 1921, avveniva solo nel novembre con componenti di nomina governativa<br />

anziché eletti; le Commissioni consultive centrale e regionale, investite di poteri costituenti e previste fin <strong>da</strong>l<br />

1919, prendevano vita nel settembre 1921. La Commissione per la Venezia Tridentina (denominazione<br />

infelice <strong>da</strong>ta alla regione, contestata anche <strong>da</strong>gli intellettuali irredentisti) nell’aprile 1922 approvava un<br />

ordine del giorno che sollecitava l’Ufficio centrale per le nuove province ad elaborare un abbozzo di statuto<br />

per coordinare l’autonomia provinciale e comunale alle leggi del regno; ma questo avveniva in concomitanza<br />

con l’agonia dello stato liberale.<br />

Il commissario Cre<strong>da</strong>ro, liberale e laico, ammiratore della cultura tedesca, neutralista allo scoppio della<br />

guerra, uomo dotato di moderazione e di equilibrio, si trovò al centro di accuse rivolte <strong>da</strong> tutti i settori. I<br />

cattolici lo avversavano, almeno all’inizio, per il suo laicismo, i liberali per il rispetto verso la chiesa, i<br />

nazionalisti per la disponibilità nei confronti dei tedeschi ed il presunto tradimento dell’italianità, la<br />

minoranza sudtirolese per i provvedimenti ritenuti lesivi dei loro diritti specie in campo scolastico. In realtà<br />

Cre<strong>da</strong>ro si sforzò costantemente di capire le ragioni di ognuno, di mediare le posizioni estreme e di<br />

mantenere un ordine politico – amministrativo nel quale la legge potesse garantire e tutelare sia i singoli che<br />

le comunità. Venne continuata e potenziata l’opera di ricostruzione, attraverso la sezione lavori pubblici del<br />

Commissariato, con interventi considerevoli sorretti <strong>da</strong> massicci finanziamenti che ebbero effetti positivi per<br />

la ripresa del paese dove, però, serpeggiava il malcontento per il ritar<strong>da</strong>to pagamento dei <strong>da</strong>nni di guerra.<br />

Le speranze dei trentini all’atto dell’annessione all’Italia erano destinate a spegnersi con il crollo del regime<br />

134


politico del regno. La crisi del ministero Bonomi (febbraio 1922), la costituzione del primo (febbraio) e del<br />

secondo governo Facta (agosto), l’avanzata del fascismo con i suoi miti nazionalisti e dello stato<br />

accentratore, non solo portavano alla frantumazione delle forze politiche italiane tradizionali con il<br />

conseguente vuoto di potere, ma cancellavano anche ogni apertura verso l’autonomia identificata con lo<br />

strumento di difesa della libertà. La distruzione dello stato liberale ad opera dei fascisti ebbe inizio, non a<br />

caso, con l’azione su Bolzano e Trento compiuta nei giorni 1- 4 ottobre 1922, l’occupazione della Giunta<br />

provinciale straordinaria e la cacciata del governatore Cre<strong>da</strong>ro. Il 17 ottobre l’amministrazione della<br />

provincia era affi<strong>da</strong>ta ad un prefetto mentre veniva messo in liqui<strong>da</strong>zione l’Ufficio centrale per le nuove<br />

province.<br />

Poco dopo l’assunzione di Mussolini a capo del governo, il 14 novembre, si tenne a Trento l’adunanza dei<br />

sin<strong>da</strong>ci e dei comuni per reclamare, di fronte a un folto pubblico, la conservazione dell’ordinamento<br />

decentrato: una manifestazione ormai resa inutile, ma di grande significato per capire il successivo<br />

atteggiamento dei trentini di fronte al fascismo.<br />

La ripresa dell’attività culturale<br />

La rinascita dell’attività culturale avvenne nel clima contrassegnato <strong>da</strong>ll’entusiasmo per il congiungimento<br />

del Trentino all’Italia. Il progetto, già steso <strong>da</strong> Gino Onestinghel nel corso della guerra, di riunire tutti gli<br />

studiosi in un’unica associazione e di pubblicare i loro contributi su una sola rivista al posto di quelle<br />

esistenti prima del conflitto, fu realizzato in tempi brevi. Con l’appoggio del sin<strong>da</strong>co di Trento, senatore<br />

Vittorio Zippel, un gruppo d’intellettuali in rappresentanza dei diversi indirizzi di ricerca, riuniti presso il<br />

municipio del capoluogo, <strong>da</strong>vano vita nell’agosto 1919 alla "Società per gli studi trentini" composta <strong>da</strong> 102<br />

soci, scelti sulla base della produzione scientifica senza alcuna preclusione di carattere ideologico o politico.<br />

Con il marzo 1920 iniziava la pubblicazione della rivista della Società, "Studi Trentini" che, fino al 1926,<br />

accolse sia i contributi di carattere storico che di scienze naturali. Gli studi, i saggi, le notizie apparse sulle<br />

sue pagine mantenevano fede al rigore metodologico ed ai criteri che avevano ispirato la piccola scuola<br />

storiografica del passato, onde non perdere un patrimonio di valori originali dei quali i trentini si sentivano<br />

orgogliosi. Gl’intellettuali della provincia accettarono anche di confluire nella Deputazione ve<strong>net</strong>a di <strong>storia</strong><br />

patria, trasformata in ve<strong>net</strong>o-tridentina, ma senza rinunciare ad una società propria ed autonoma dove essi,<br />

per quanto italianissimi, avrebbero difeso la loro identità culturale contro ogni livellamento.<br />

La riorganizzazione dell’Accademia roveretana degli Agiati si ebbe tra gennaio e febbraio del 1920, con<br />

notevoli difficoltà dovute alle conseguenze della guerra che aveva disperso il suo patrimonio ed arrecato<br />

<strong>da</strong>nni alla collezione di quadri, alle raccolte librarie e archivistiche. Ricostituiti gli organi sociali,<br />

l’Accademia prese contatto con le autorità per averne il sostegno, procedette alle nuove associazioni<br />

aggregando i maggiori esponenti – politici compresi – dell’attività nazionale, e riprese il lavoro scientifico,<br />

iniziando con letture <strong>da</strong>ntesche, in conformità con i filoni che avevano caratterizzato il suo passato.<br />

L’Accademia chiese subito di ottenere il titolo di "Regia" ma la richiesta, sempre ripetuta e costantemente<br />

elusa, venne accolta solo nell’aprile 1943.<br />

Nel 1919 gli studiosi maggiormente legati alla lotta nazionale ed alla campagna interventista ripresero il<br />

progetto di Cesare Battisti della costituzione di un Museo del Risorgimento per documentare, con materiali<br />

ostensivi, le tappe della partecipazione <strong>trentina</strong> al risorgimento italiano. Preceduto <strong>da</strong>ll’attività promozionale<br />

di un Comitato provvisorio, nel 1921 nasceva il Comitato per il Museo del Risorgimento e, nel 1923, la<br />

Società del Museo del Risorgimento in Trento in concomitanza con l’apertura al pubblico, presso il castello<br />

del Buonconsiglio, delle prime due sale dedicate ai martiri della redenzione.<br />

Fortunato Depero<br />

Nato a Fondo nel 1892, morto nel 1960. Trasferitosi con la famiglia a Rovereto, frequenta la Scuola Reale<br />

Elisabettina, che abbandona al termine del V anno di corso; respinto all'esame di ammissione all'Accademia<br />

di Belle Arti di Vienna, inizia a lavorare come scultore.<br />

Nel dicembre del 1913 si trasferisce a Roma, dove conosce Balla, Cangiullo, Mari<strong>net</strong>ti e Sprovieri.<br />

Nel marzo del 1915 pubblica con Giacomo Balla la "Ricostruzione Futurista dell'Universo", manifesto che<br />

apre una nuova stagione del Futurismo, proponendo una fusione delle diverse arti e un maggior<br />

coinvolgimento dell'arte nella vita.<br />

Nel 1916 riceve nel suo studio romano l'impresario dei Balletti Russi Sergeij Diaghilev: gli vengono<br />

commissionati scenografia e costumi per il balletto "Le chant du rossignol" di Igor Strawinskij, balletto che<br />

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purtroppo non verrà rappresentato. Depero incontra in quel periodo il ballerino Massine, il poeta Cocteau e<br />

molti artisti, fra cui Picasso, Larionov, la Gontcharova.<br />

Conosce Gilbert Clavel, poeta svizzero, e con lui soggiorna a Capri nel 1917, illustrando il racconto "Un<br />

istituto per suicidi"; prepara in questo periodo spettacoli teatrali, e nel 1918, in collaborazione con Clavel,<br />

rappresenta a Roma i "Balli Plastici", spettacolo di mario<strong>net</strong>te composto <strong>da</strong> cinque azioni, musicate <strong>da</strong><br />

Casella, Malipiero, Bartok, Tyrwhitt.<br />

Apre a Rovereto la "Casa d'Arte Depero" nel 1919, dove vengono prodotti tarsie in panno, collages, oggetti<br />

d'arte applicata. Realizza in quegli anni decorazioni e arre<strong>da</strong>menti d'interni, come quella del Cabaret del<br />

Diavolo.<br />

Nel 1925, insieme a Balla e Prampolini, rappresenta l'Italia all'Esposizione Internazionale di Parigi.<br />

Nel 1927 pubblica "Depero-Dinamo Azari" (libro imbullonato), primo esempio di libro-oggetto futurista<br />

dove risalta la sua fantasia grafica.<br />

Nel settembre 1928 è a New York, dove conduce un'attività intensa nei settori della scenografia teatrale e<br />

della pubblicità.<br />

Rientrato in Italia, nel 1930 fon<strong>da</strong> e dirige la rivista "Dinamo", pubblica le "Liriche radiofoniche", partecipa<br />

a numerose mostre nazionali ed internazionali.<br />

Nel 1940 esce il volume "Fortunato Depero nelle opere e nella vita", autobiografia edita a cura della<br />

Legione Trentina.<br />

Nel 1948 si trasferisce nuovamente negli Stati Uniti, dove cerca di pubblicizzare un nuovo materiale <strong>da</strong> lui<br />

utilizzato, il buxus, e tiene a New York due personali.<br />

Nel 1956 completa la decorazione della Sala del Consiglio Provinciale di Trento.<br />

Nel 1957, in collaborazione con il Comune di Rovereto, realizza la Galleria Permanente e Museo Depero,<br />

istituzione che oggi conta più di 3000 fra dipinti e disegni, circa 7500 manoscritti, e una nutrita biblioteca<br />

sul futurismo.<br />

Il Trentino nel ventennio fascista di Maria Garbari<br />

L'avvento del fascismo<br />

Dopo il primo fugace esperimento fascista del 1919, dovuto al roveretano Alfredo Degasperi, un fascio di<br />

combattimento venne costituito a Trento nel 1920 ad opera di Achille Starace, caratterizzato <strong>da</strong>lle pesanti<br />

critiche rivolte a Cre<strong>da</strong>ro accusato di debolezze e cedimenti nei confronti del gruppo tedesco. Starace fu<br />

anche al comando delle squadre fasciste che a Bolzano, il 24 aprile 1921, aggredivano un corteo in costume<br />

tirolese causando un morto e diversi feriti. L’azione su Bolzano e Trento dell’ottobre 1922, compiuta in<br />

grandi forze, venne organizzata fuori regione, <strong>da</strong>i vertici del partito, per il suo significato di attacco diretto al<br />

governo.<br />

Fin <strong>da</strong>l primo impatto con il Trentino, il fascismo assunse l’aspetto del centralismo statale imposto ad un<br />

paese legato ad inveterate tradizioni di decentramento e di autonomia. Con decreto del 21 gennaio 1923<br />

veniva istituita la Provincia di Trento, comprendente anche i circon<strong>da</strong>ri di Bolzano, Merano e Bressanone ma<br />

con distacco dell’Ampezzano, affi<strong>da</strong>ta al prefetto Giuseppe Gua<strong>da</strong>gnini. L’erezione della provincia unica<br />

non dispiaceva ai ceti dirigenti trentini che si sentivano investiti del compito di difendere l’italianità ai<br />

confini; il prefetto, tuttavia, subito impegnato in Alto Adige ad imporre la trasformazione della scuola<br />

tedesca in italiana, era più propenso ad ascoltare la voce di Roma ed a sostenere i provvedimenti formulati<br />

<strong>da</strong>l Tolomei per l’assimilazione rapi<strong>da</strong> dei sudtirolesi con il resto del regno.<br />

Il 18 febbraio 1923 entrava in vigore nella provincia la legge comunale italiana che cancellava le antiche<br />

libertà dei comuni e gli statuti propri delle città maggiori e, nel dicembre, la nuova legge provinciale e<br />

comunale ispirata ad un accentramento ancora maggiore. Con provvedimento legislativo del febbraio 1926<br />

saranno poi istituiti il podestà e la consulta municipale non elettivi, ma nominati <strong>da</strong>ll’esecutivo, nei comuni<br />

non eccedenti i 5000 abitanti ed infine, con decreto del settembre 1926, l’ordinamento podestarile verrà<br />

esteso a tutti i comuni del regno. Successivamente, con interventi d’autorità, si avrà l’aggregazione dei<br />

comuni trentini portati <strong>da</strong> 366 a 127 distruggendo un’articolazione che, nonostante i limiti obiettivi, era<br />

conforme alla geografia del paese e costituiva l’elemento basilare della vita comunitaria.<br />

La pe<strong>net</strong>razione del fascismo nel Trentino non si presentava facile, compromessa anche <strong>da</strong>lle ricorrenti<br />

beghe e <strong>da</strong>lle crisi interne dei fasci locali, mai risolte nemmeno con il loro affi<strong>da</strong>mento a personalità del<br />

luogo. Perfino la valorizzazione del nazionalismo e dei combattenti non corrispondeva pienamente alle<br />

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previsioni, perché si riscontrarono adesioni all’associazione antifascista "Italia libera" e la stessa Legione<br />

Trentina sollevava qualche perplessità sulla politica del governo. Le popolazioni, pur senza atti di palese<br />

contestazione, provavano delusioni e disagi di fronte ai provvedimenti politici ed amministrativi che<br />

sconvolgevano gli assetti esistenti e sentivano il fascismo come estraneo alla loro mentalità, anche per<br />

ragioni di stile. Il vescovo Endrici, preoccupato per gli interventi scolastici in Alto Adige, ed i popolari,<br />

interessati a difendere gli interessi sociali ed economici legati all’associazionismo di stampo cattolico,<br />

esprimevano pubblicamente il dissenso.<br />

Le consultazioni politiche del 1924, compiute sulla base della nuova legge che prevedeva un forte premio di<br />

maggioranza allo schieramento vincente, non lasciavano equivoci sull’estraneità del fascismo nella<br />

provincia. Alla lista d’ispirazione fascista che, nel complesso d’Italia, aveva ottenuto il 65% dei suffragi, sul<br />

totale di 105.706 voti ne erano an<strong>da</strong>ti solo 22.244, collocandosi terza dopo quella tedesca (33.115) e quella<br />

popolare (25.788); un notevole successo avevano ottenuto anche i socialisti ed i repubblicani nel Trentino.<br />

Per i popolari risultarono eletti Degasperi (con 15.810) preferenze) e Carbonari, per i socialisti Avancini e,<br />

per la lista fascista, Gianferrari e Lunelli. Mussolini non dimenticherà mai questo risultato facendolo pagare<br />

soprattutto con l’abbandono economico del paese.<br />

L’attacco fascista alla più consistente delle forze avversarie del Trentino s’incentrò su Alcide Degasperi,<br />

segretario del PPI (Partito popolare italiano), dopo che i popolari erano stati licenziati <strong>da</strong>l governo. Contro il<br />

deputato che difendeva le prerogative del Parlamento, venne scagliata nell’ottobre 1924 una campagna<br />

denigratoria sulla stampa nazionale con, al centro, l’accusa di "austriacantesimo". Molte furono le voci che si<br />

alzarono in difesa della figura morale e dell’ "italianità" di Degasperi. Ma queste voci, già compromesse<br />

<strong>da</strong>lla censura e <strong>da</strong>i sequestri della stampa, erano destinate a ridursi al silenzio con l’avvento dello stato<br />

totalitario.<br />

I primi anni del regime<br />

La trasformazione del fascismo in regime ebbe inizio nel 1925-26 con l’emanazione delle leggi che, pur<br />

senza abolirlo, svuotavano lo Statuto albertino annullando le libertà garantite <strong>da</strong>lla costituzione. Dichiarati<br />

decaduti i deputati aventiniani e i comunisti, tutti i partiti, tranne il fascista, vennero considerati illegali e<br />

soppressi i loro organi di stampa. La legge sulla difesa dello stato portava all’istituzione del Tribunale<br />

speciale ed alla introduzione della pena di morte. L’organizzazione dello stato totalitario vedeva<br />

l’asservimento del mondo del lavoro con la disciplina dei contratti collettivi, il sin<strong>da</strong>cato unico, la Carta del<br />

lavoro ed il progetto dell’ordinamento corporativo. Il regime operava inoltre l’inquadramento ed il controllo<br />

della gioventù, della scuola, della cultura, dello sport e del tempo libero, costringendo alla clandestinità<br />

qualsiasi forma di dissenso.<br />

Le conseguenze del nuovo corso politico si fecero sentire subito anche nel Trentino. Il giornale liberale "La<br />

libertà", colpito <strong>da</strong> sequestri e <strong>da</strong>lla devastazione della tipografia, cessava a fine dicembre 1925. "Il nuovo<br />

Trentino", organo dei popolari più volte sequestrato, doveva rinunciare <strong>da</strong>gli inizi del 1926 alla direzione di<br />

Alcide Degasperi ed a sospendere le pubblicazioni il 3 novembre dopo l’aggressione alla re<strong>da</strong>zione. Nella<br />

notte 31 ottobre – 1 novembre 1926 la violenza delle squadre fasciste si abbattè su tutte le organizzazioni<br />

cattoliche, <strong>da</strong>lla Giunta diocesana, agli oratori, ai circoli associativi, al SAIT, agli enti cooperativi, alle casse<br />

rurali. Le istituzioni economiche, in gran parte commissariate, venivano così sottoposte al controllo ed alla<br />

gestione fascista. L’insediamento del regime nel settore del credito e del risparmio si rese possibile attraverso<br />

la forzata fusione della Banca cattolica <strong>trentina</strong> con la Banca cooperativa, originando nel febbraio 1927 la<br />

Banca del Trentino e dell’Alto Adige.<br />

L’istituzione della Commissione provinciale per l’ammonizione e il confino, presieduta <strong>da</strong>l prefetto, formò<br />

lo strumento per il controllo e la repressione rivolti, in primo luogo, a colpire i socialisti ed i comunisti<br />

ritenuti, per la loro organizzazione nazionale e internazionale, il maggiore pericolo. Ma ai rigori della polizia<br />

non sfuggivano gli esponenti delle altre correnti politiche: Alcide Degasperi, arrestato a Firenze nel maggio<br />

1927, veniva con<strong>da</strong>nnato <strong>da</strong>l tribunale di Roma a quattro anni di reclusione per tentato espatrio clandestino.<br />

La costituzione della Provincia di Bolzano con decreto del 2 gennaio 1927 rappresentò, per i trentini, un fatto<br />

traumatico ed offensivo. Essi si sentirono defrau<strong>da</strong>ti <strong>da</strong>l ruolo di difensori dell’italianità ai confini e<br />

scavalcati <strong>da</strong>gli organi centrali dello stato che si assumevano direttamente il compito dell’assimilazione<br />

dell’elemento tedesco. L’impressione che la provincia di Trento fosse stata degra<strong>da</strong>ta ad un rango di secon<strong>da</strong><br />

categoria e la previsione che le provvidenze e gl’interventi economici avrebbero sorvolato il Trentino per<br />

riversarsi in abbon<strong>da</strong>nza sull’Alto Adige, provocarono un atteggiamento risentito e di chiusura, bollato <strong>da</strong>gli<br />

esponenti fascisti e <strong>da</strong> Ettore Tolomei come deteriore "trentinismo". La polemica sul trentinismo tardò a<br />

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decantarsi e lasciò malesseri destinati ad oscurare l’immagine trionfalistica che il regime aspirava a <strong>da</strong>rsi nel<br />

paese.<br />

Il fascismo trentino continuava ad essere travagliato <strong>da</strong> rivalità interne, lotte per il potere e continue crisi<br />

organizzative, tanto <strong>da</strong> portare a diverse sostituzioni dei segretari federali, ma si moltiplicava anche l’opera<br />

d’inquadramento e di indottrinamento della popolazione nelle istituzioni del regime: l’Opera nazionale<br />

balilla, il Dopolavoro, l’Istituto fascista di cultura, il Gruppo universitario fascista. La firma dei Patti<br />

lateranensi, la "conciliazione" dell’11 febbraio1929 magnificata <strong>da</strong>l giornale fascista locale, "Il Brennero",<br />

venne salutata nel Trentino come un evento positivo, apprezzato <strong>da</strong>i cittadini e <strong>da</strong>l clero perché cancellava<br />

l’annosa e sofferta spaccatura apertasi fra lo stato e la chiesa. Solo gli uomini più consapevoli dei pericoli<br />

insiti in questo compromesso rivolto soprattutto a puntellare il regime (Degasperi, don Giulio Delugan, don<br />

Simone Weber), sollevarono dubbi e perplessità.<br />

Le consultazioni politiche del 24 marzo 1929 svolte con il metodo plebiscitario (possibilità di accettare o<br />

respingere la lista unica predisposta <strong>da</strong>l Gran Consiglio del fascismo), tenute sulla scia dei consensi per il<br />

Concor<strong>da</strong>to, segnarono nel Trentino un successo per il fascismo, ma non clamoroso come nel resto d’Italia:<br />

la media dei votanti fu minore in confronto a quella nazionale – il 73% contro il 90% circa – e i 5197 "no"<br />

rappresentarono il 6,5% rispetto all’1,6% del complesso d’Italia.<br />

Il consoli<strong>da</strong>rsi del regime<br />

Con l’aprirsi degli anni trenta il regime puntò al suo consoli<strong>da</strong>mento normalizzando alcune situazioni<br />

amministrative, come quella del comune di Trento con la nomina a podestà di Mario Scotoni, e quella del<br />

rettorato dell’amministrazione provinciale. Lo svolgimento a Bolzano e a Trento, nel settembre 1930, del<br />

XIX congresso della Società italiana per il progresso delle scienze, costituì una importante e reclamizzata<br />

occasione per dimostrare la vitalità culturale all’ombra del fascismo ed il rilancio della ricerca scientifica<br />

nelle due province, improntata ai sensi dell’italianità.<br />

Il 1931 fu contrassegnato nel Trentino, come in tutta Italia, <strong>da</strong>llo scontro fra chiesa e regime sul diritto<br />

all’educazione dei giovani che il fascismo reclamava alle proprie competenze in forme totalitarie e la chiesa<br />

manteneva in vita sotto lo scudo dell’Azione cattolica. Per ordine di Mussolini avvenne lo scioglimento delle<br />

federazioni e dei circoli giovanili cattolici, degli oratori e ricreatori con chiusura delle sedi e sequestro dei<br />

materiali in esse contenuti. Le forti reazioni e le polemiche consigliarono però il fascismo a fare retromarcia<br />

e, nel settembre, si giunse ad un accordo che permise il ritorno in vita delle associazioni cattoliche, per<br />

quanto controllate in modo attento e continuativo <strong>da</strong>ll’autorità politica. Un’altra crisi, di tipo diverso, ebbe<br />

inizio nel 1932 con il crollo degli istituti bancari dovuto alla forte recessione ed alla contrazione dei depositi.<br />

I maggiori contraccolpi sulla tenuta del sistema politico – economico furono <strong>da</strong>ti <strong>da</strong>l tracollo della Banca del<br />

Trentino e dell’Alto Adige. Il nuovo istituto bancario, la Banca di Trento, sorta al posto di quello messo in<br />

liqui<strong>da</strong>zione, venne aperta solo nel gennaio 1935.<br />

Mentre la contrapposizione tra le fazioni del fascismo locale non conosceva tregua e portava al ricorso di<br />

interventi esterni, il regime continuava la pe<strong>net</strong>razione in tutte le pieghe della società civile con particolare<br />

cura rivolta al mondo della scuola ed alla massa della popolazione agricola. L’assenso, almeno formale,<br />

risultò <strong>da</strong>lle elezioni del marzo 1934: i votanti furono il 98% ed i "no" alla lista unica furono 278. In realtà<br />

l’espressione del dissenso comportava un rischioso atto di coraggio perché non esisteva la segretezza del<br />

voto, <strong>da</strong>to che le schede per il "si" erano tricolore. La strumentalizzazione del mito nazionale per gua<strong>da</strong>gnare<br />

il Trentino trovò il suo culmine nel 1935 quando venne inaugurato il monumento a Cesare Battisti eretto sul<br />

Doss Trento. In occasione della cerimonia, svoltasi il 26 maggio, l’aspetto del capoluogo venne trasformato<br />

in una immensa immagine coreografica magnificante il fascismo, con palese tradimento della figura del<br />

martire ridotto a precursore del regime. Nel medesimo anno giungeva in provincia Benito Mussolini, recatosi<br />

prima in Valle di Non dove si svolgevano le manovre militari e poi a Trento dove, il 31 agosto, arringava<br />

nell’attuale piazza Duomo una folla di 70.000 persone.<br />

Il paese, gra<strong>da</strong>tamente e sovente in forme passive, si adeguava al nuovo corso politico accettando la fatalità<br />

degli eventi che apparivano inevitabili. La guerra dichiarata nel 1935 contro l’Etiopia, fu l’occasione per una<br />

martellante propagan<strong>da</strong> a sostegno dei diritti coloniali italiani e contro le potenze plutocratiche che avevano<br />

deliberato le sanzioni economiche, tanto <strong>da</strong> convincere alla generosa offerta alla patria delle fedi nuziali<br />

d’oro. Alcuni trentini, oltre ai richiamati, partirono come volontari e poi, a guerra finita, un migliaio di operai<br />

si trasferì in Africa Orientale con il miraggio di un lavoro vantaggioso. La guerra civile spagnola (1936-<br />

1939) portò all’invio di qualche centinaio di militari trentini a sostegno dell’esercito franchista mentre altri,<br />

già all’estero, fecero parte delle brigate internazionali antifranchiste.<br />

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L’occupazione fascista di ogni spazio, anche minimo, della vita individuale e sociale non conosceva sosta; le<br />

associazioni già esistenti venivano potenziate e se ne creavano altre di natura militare o paramilitare,<br />

culturali, professionali, sportive, femminili, in modo che la vita dei cittadini e le loro coscienze, <strong>da</strong>lla nascita<br />

alla morte, fossero irregimentate nell’unico progetto del cesarismo mussoliniano. Nel marzo 1939 avvenne la<br />

sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, non elettiva ma designata<br />

<strong>da</strong>gli apparati del regime. Di essa fecero parte, per il Trentino, Italo Lunelli, Bruno Mendini (podestà di<br />

Trento dopo i nove anni di Mario Scotoni), Vittorio <strong>da</strong>lla Bona e Augusto Garbari. Nel 1939, mentre già<br />

spiravano arie di guerra, giunse a Trento il fascistissimo prefetto Italo Foschi, destinato a rimanere in carica<br />

fino al crollo del regime.<br />

Gli anni neri dell'economia <strong>trentina</strong><br />

Nel Trentino, che non si era ancora completamente ripreso <strong>da</strong>lle conseguenze della guerra, l’avvento ed il<br />

consoli<strong>da</strong>rsi del fascismo in parte coincisero ed in parte furono causa del deterioramento della situazione<br />

economica. Il fon<strong>da</strong>mentale settore dell’agricoltura, anziché conoscere una fase di decollo, ristagnava o<br />

arretrava per la svalutazione dei prodotti fino a generare gravi condizioni di miseria. L’industria era investita<br />

<strong>da</strong> una crisi preoccupante con paralisi pressoché totale nel campo dell’edilizia. Il commercio rimaneva<br />

anemico e limitato all’interno della provincia, compromesso anche <strong>da</strong>ll’abbassamento dei prezzi dei prodotti<br />

agricoli. Il credito risultava condizionato <strong>da</strong>lla drastica riduzione dei depositi a risparmio, proprio quando<br />

sarebbero stati necessari forti capitali per il rilancio dell’economia. Qualche spiraglio positivo presentavano<br />

invece l’industria idroelettrica ed il turismo.<br />

La rivalutazione e stabilizzazione della lira, voluta <strong>da</strong> Mussolini nel 1927 soprattutto per ragioni di prestigio,<br />

portava alla riduzione dei salari, non compensata <strong>da</strong>lla parallela diminuzione del costo della vita, tanto <strong>da</strong><br />

contrarre ulteriormente il potere d’acquisto delle classi meno abbienti già colpite <strong>da</strong>l carico fiscale. Anche gli<br />

interventi nel campo degli enti cooperativistici, passati sotto il controllo dell’autorità fascista, furono<br />

determinanti per comprimere le iniziative economiche e causare l’impoverimento nei paesi di montagna e<br />

nelle vallate. Era inoltre venuta meno la valvola dell’emigrazione, impedita <strong>da</strong>lle leggi restrittive degli USA<br />

e <strong>da</strong>lle disposizioni del governo fascista.<br />

La stagnazione industriale, appesantita ulteriormente agli inizi degli anni trenta, provocava numerosi<br />

licenziamenti; i tentativi di assorbire la mano d’opera nei lavori pubblici, peraltro non ingenti, costituiva un<br />

palliativo limitato nel tempo. I contraccolpi della crisi economica mondiale si sommarono nel Trentino agli<br />

elementi negativi locali <strong>da</strong>ti <strong>da</strong> cause strutturali e congiunturali. Diminuiva la retribuzione degli impiegati, i<br />

salari erano colpiti <strong>da</strong> nuove decurtazioni, crollava il prezzo dei prodotti agricoli tanto <strong>da</strong> non compensare i<br />

costi di produzione, i terreni si svalutavano, il commercio si contraeva ulteriormente, i depositi a risparmio<br />

erano sempre più esigui; nel 1931 la cifra dei disoccupati saliva a 7.701 per toccare nel 1933 gli 11.824. I<br />

riflessi sociali delle precarie condizioni economiche erano testimoniati <strong>da</strong>lla caduta demografica, con una<br />

diminuzione del 36 ‰ nel giro di 10 anni, nonostante la politica d’incremento della popolazione voluta <strong>da</strong>l<br />

regime. Il culmine della crisi si ebbe con il crollo del sistema bancario che portò a momenti di panico <strong>da</strong><br />

parte dei risparmiatori e mise a terra tutta l’economia <strong>trentina</strong>.<br />

Per quanto fosse evidente la necessità di ricorrere a provvedimenti straordinari, gli interventi della capitale<br />

rappresentarono un aiuto di poco conto. Solo con il 1936 iniziò una lenta ripresa nell’agricoltura sotto<br />

l’impulso della politica autarchica e le coreografie della "battaglia del grano", ma senza portare al<br />

miglioramento delle condizioni di vita dei ceti contadini. Qualche incremento registrò la produzione<br />

industriale e si ebbe l’insediamento di alcune fabbriche, il commercio fu avviato ad un maggiore dinamismo<br />

ed un ottimo decollo ebbe l’attività turistica rafforzata <strong>da</strong> indovinate iniziative degli operatori economici e<br />

dell’ente pubblico. Nonostante questo e l’esecuzione di opere pubbliche, con precedenza accor<strong>da</strong>ta a quelle<br />

destinate a rappresentare il regime, il Trentino rimase nell’abbandono economico, accentuato <strong>da</strong>l confronto<br />

con l’Alto Adige dove affluivano copiosi i contributi dello stato.<br />

Di tale situazione, che scontentava perfino i quadri del fascismo locale, se ne rese conto lo stesso Mussolini<br />

tanto <strong>da</strong> riconoscere, nell’incontro a Roma del 15 maggio 1940 con i gerarchi e le autorità della provincia di<br />

Trento, di avere fatto tutto per Bolzano e poco per Trento. Ma lo scoppio della guerra di lì a pochi giorni<br />

impedì l’entrata in vigore di un concreto piano di sviluppo economico del paese.<br />

L'antifascismo<br />

Le voci e le correnti di opposizione al regime vennero costrette alla clandestinità dopo i provvedimenti che,<br />

in nome dello stato totalitario, avevano posto tutti i partiti, tranne il fascista, fuori legge. I più decisi a<br />

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mantenere in vita l’apparato organizzativo furono i comunisti, per quanto non numerosi nel paese. Si deve a<br />

costoro il tentativo effettuato nel 1926 di creare un fronte antifascista esteso a tutte le forze politiche,<br />

destinato subito al fallimento per l’intervento dell’apparato poliziesco. L’attività cospirativa di socialisti e<br />

comunisti (sotto queste voci vennero sche<strong>da</strong>te fra i "sovversivi" rispettivamente 712 e 399 persone) era<br />

particolarmente temuta perché rientrante in un quadro che superava la provincia, e quindi maggiormente<br />

controllata come dimostrano gli arresti, i processi e le con<strong>da</strong>nne del 1926-28, 1930-31, 1937-38 abbattuti sui<br />

comunisti. L’azione di costoro non sfociò in atti pubblici e clamorosi, del resto resi impossibili, ma nella<br />

diffusione della stampa antifascista, nella propagan<strong>da</strong> continua, nel mantenere vivi i rapporti con le cellule<br />

esterne al Trentino ed i contatti con il fronte comunista europeo.<br />

Sciolta l’associazione "Italia libera" nel 1925, i suoi aderenti più attivi, in gran parte di estrazione<br />

repubblicana e socialista, fecero capo al gruppo Gigino Battisti - Giannantonio Manci, legato <strong>da</strong> rapporti<br />

costanti con l’antifascismo all’estero, che si distinse nell’organizzazione degli espatri clandestini con l’aiuto<br />

della gui<strong>da</strong> alpina Tita Piaz. Questo gruppo, non consistente <strong>da</strong>l punto di vista numerico, poteva però contare<br />

sulla preparazione politica e culturale dei suoi affiliati, quasi tutti rappresentanti della borghesia progressista<br />

ed intellettuale, impegnati sul piano operativo ed in grado di elaborare coerenti programmi in vista della<br />

ricostruzione dello stato democratico. I liberali, dopo lo sfal<strong>da</strong>mento del partito, conobbero solo<br />

l’antifascismo legato ad alcune prestigiose figure intenzionate a non scendere a compromessi con il regime.<br />

I popolari e gli aderenti all’associazionismo cattolico sche<strong>da</strong>ti come "sovversivi" non furono molti ma, <strong>da</strong>gli<br />

atti politici e di polizia, risultavano i più sospettati e temuti perché diffusi nell’intera società civile<br />

profon<strong>da</strong>mente legata ai valori religiosi e pronta a seguire i suggerimenti della chiesa. L’opposizione<br />

cattolica agiva attraverso le parrocchie, gli oratori, le associazioni legate all’Azione cattolica, in quanto era<br />

sopravvissuto dei consorzi, delle cooperative e degli enti mutualistici, senza azioni provocatorie, creando una<br />

rete inafferrabile ma robusta che provocava il vuoto intorno al regime e <strong>da</strong>va luogo a una specie di<br />

"resistenza silenziosa". Le autorità fasciste imputavano questo stato di cose al vescovo, ai parroci, ai curatori<br />

d’anime e, con particolare acrimonia, al giornale "Vita <strong>trentina</strong>", diretto <strong>da</strong> don Delugan, che <strong>da</strong>l dicembre<br />

1926 aveva sostituito "Il nuovo Trentino". Il tono glaciale tenuto <strong>da</strong>l periodico nei confronti del fascismo e la<br />

difesa dei valori avversati <strong>da</strong>l regime, sia pure compiuta in chiave religiosa, costituivano un argine<br />

all’invadenza della propagan<strong>da</strong>, soprattutto tenendo conto della capillare diffusione dell’organo di stampa.<br />

Accanto all’antifascismo improntato a dottrine politiche o morali, esisteva tutta una zona dove il malcontento<br />

era confinato negli atteggiamenti di disagio o di isolamento, sfogandosi in mugugni, mormorii o barzellette,<br />

puntigliosamente registrati nei verbali d’incriminazione delle forze inquirenti. Il consenso di facciata,<br />

espresso nel corso degli anni trenta, non ingannava le autorità che ne coglievano la fragilità e i limiti. I<br />

trentini, infatti, non potevano perdonare al fascismo la distruzione delle strutture politico – amministrative<br />

nelle quali si era realizzata nel passato la loro libertà decisionale, né potevano piegarsi ad una concezione<br />

dello stato e della società estranea alla loro <strong>storia</strong>.<br />

Una particolare opposizione si verificò nei paesi della zona mistilingue, aggregata alla provincia di Trento,<br />

dove serpeggiavano espressioni d’irredentismo tedesco e che, nel 1939, vedrà i suoi abitanti ammessi ad<br />

esercitare il diritto di opzione per la Germania. Il timore che Hitler, nonostante le reiterate assicurazioni<br />

sull’intangibilità del confine al Brennero, potesse sollevare la questione dell’Alto Adige, portò al pesante<br />

controllo ed a diversi provvedimenti contro gli "hitleriani", in palese contrasto con lo spirito della<br />

conclamata alleanza fra i due dittatori.<br />

La cultura <strong>trentina</strong> nell'età del fascismo<br />

La cultura <strong>trentina</strong>, durante il ventennio, non rimase insensibile ai miti patriottici e nazionalisti abilmente<br />

sfruttati <strong>da</strong>l regime in un paese che aveva visto molti intellettuali battersi per il congiungimento della<br />

provincia all’Italia. Tuttavia le maggiori istituzioni culturali seppero esprimere una produzione scientifica<br />

autonoma e di notevole valore, non per merito, ma "nonostante" il fascismo. Perfino la Legione Trentina,<br />

tutt’altro che avversa al regime, conservò sempre alla sua rivista, "Il Trentino", il tono di una dignitosa<br />

pubblicazione divulgativa con pregevoli articoli, specie nel campo dell’arte. Influì molto sulla produzione<br />

culturale il fatto che gl’intellettuali appartenevano ad una generazione formatasi alla scuola severa<br />

dell’anteguerra che non intendeva dimettere i tradizionali percorsi di ricerca e di metodo.<br />

È certo che, per assicurarsi la sopravvivenza e qualche appoggio economico, non potevano mancare gli atti<br />

di deferenza al fascismo in occasione di pubbliche manifestazioni, ma poi, nel mondo degli studi, le uniche<br />

ragioni valide per il sapere restavano quelle della correttezza scientifica. Questo si verificò per la Società di<br />

Studi Trentini che, quasi chiusa in un Aventino culturale, puntò solo sulla ricerca, con compiacenze per<br />

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l’erudizione, mantenendo vivo il gusto della produzione storica separata <strong>da</strong>lle ideologie di mo<strong>da</strong>, ed<br />

affi<strong>da</strong>ndo i risultati scientifici alla propria rivista, alla pubblicazione di raccolte di fonti e alle monografie.<br />

L’Accademia roveretana degli Agiati, forse perché attiva in più settori e non limitata all’asettica erudizione<br />

storica, fu pesantemente condizionata nella vita associativa. Controllata <strong>da</strong>l ministero dell’educazione<br />

attraverso il prefetto, venne costretta a mutare lo statuto, a ritmare gli anni accademici sul calen<strong>da</strong>rio fascista<br />

e perfino, con il 1938, a rendere conto dell’appartenenza razziale dei soci e ad espellere gli ebrei. Gli studi, le<br />

memorie e le informazioni bibliografiche apparsi sugli "Atti" accademici mantennero comunque fede alle<br />

solide tradizioni culturali dell’istituzione.<br />

La Società del Museo del Risorgimento, vicina alla Legione Trentina e particolarmente sensibile agli ideali<br />

del combattentismo, si ritenne votata alla religione della patria, ma non alla retorica fascista che manipolava<br />

le memorie storiche e le figure esemplari del passato trentino. Essa continuò la raccolta dei materiali<br />

ostensivi, ma s’impegnò anche nella pubblicazione di studi affi<strong>da</strong>ti a persone di comprovate capacità. Il fatto<br />

che i medesimi studiosi fossero, contemporaneamente, soci di Studi Trentini, dell’Accademia degli Agiati e<br />

del Museo del Risorgimento, portava ad una fruttuosa collaborazione ed all’omogeneità della produzione,<br />

costantemente di buona qualità scientifica.<br />

Un notevole dinamismo presentò il Museo civico di <strong>storia</strong> naturale, diventato regionale nel 1929. Oltre ad<br />

aumentare in modo consistente le sue collezioni, esso avviò una sostenuta opera di ricerche e di<br />

pubblicazioni e mise in atto iniziative allora all’avanguardia per la protezione della fauna e della flora. Nel<br />

1932 il Museo cadde sotto il controllo diretto dell’autorità fascista, ma questo, soprattutto per la disponibilità<br />

umana dei singoli dirigenti, non compromise lo sviluppo dell’istituzione favorita, anzi, <strong>da</strong>i contributi<br />

governativi. Per tutte le associazioni culturali del Trentino il convegno della Società italiana per il progresso<br />

delle scienze del settembre 1930, propagan<strong>da</strong> del regime a parte, rappresentò un’importante occasione che<br />

mise in luce, attraverso tutta una serie di interventi e di pubblicazioni, l’impegno scientifico e la serietà degli<br />

studiosi della provincia.<br />

Ettore Tolomei (1865-1952)<br />

Nato a Rovereto nel 1865, fondò e diresse la “Nazione italiana” di Roma <strong>da</strong>l 1889 al 1890; fu addetto alla<br />

direzione generale delle scuole italiane all'estero <strong>da</strong>l 1901 al 1921. Acceso nazionalista, nel 1906 fondò la<br />

rivista storico-politica “Archivio per l’Alto Adige” <strong>da</strong>lle cui pagine diffuse l’idea della necessità di porre il<br />

confine al Brennero, in contrasto con la maggior parte degli irredentisti, i quali mantenevano la<br />

rivendicazione nazionale entro il confine etnico-linguistico, e che Tolomei tacciò come rinunciatari e poi<br />

“salornisti”, poiché limitavano le rivendicazioni alla chiusa di Salorno. Durante la prima guerra mondiale<br />

continuò la sua azione per l’italianità dell’Alto Adige e, nel 1918, divenne Commissario per l’Alto Adige a<br />

Bolzano. Nel 1921 fondò l’Istituto di studi per l’Alto Adige e, nel 1923, divenne senatore del Regno. Con la<br />

sua opera culturale e politica Tolomei impose la denominazione Alto Adige per il territorio della provincia<br />

di Bolzano e questa sarà la denominazione usata negli anni del fascismo. Il suo programma di<br />

nazionalizzazione dell’Alto Adige venne inizialmente adottato <strong>da</strong>l gran Consiglio del fascismo con voto<br />

unanime ed entusiasta: Tolomei chiedeva di istituire un’unica provincia, Trento e Bolzano, e di nominare<br />

segretari comunali italiani, restringendo e limitando i permessi di soggiorno dei cittadini germanici ed<br />

austriaci, imporre l’italiano come lingua ufficiale, licenziare gli impiegati tedeschi, italianizzare tutta la<br />

toponomastica e i cognomi germanizzati, ed altro ancora. Molte delle sue proposte trovarono applicazione,<br />

fra queste la creazione della Provincia unica nel 1927. Nel 1943 fu deportato a Dachau <strong>da</strong> dove ritornò a<br />

guerra ultimata. Morì a Roma il 25 maggio 1952.<br />

Il Trentino nella secon<strong>da</strong> guerra mondiale di Maria Garbari<br />

I disagi per una guerra considerata estranea<br />

Allo scoppio del conflitto, iniziato <strong>da</strong>lla Germania con l’aggressione alla Polonia il 1° settembre 1939,<br />

Mussolini aveva proclamato la non belligeranza dell’Italia; ma i trentini non si sentivano tranquilli, convinti<br />

che l’alleanza fra Hitler e il capo del fascismo, culminata nel "patto d’acciaio" del maggio, lasciasse poco<br />

spazio alla pace: lo confermavano le prove d’oscuramento della città di Trento, iniziate nel settembre in<br />

previsione delle operazioni militari. Il 10 giugno 1940 la folla, radunata sulla piazza Littorio del capoluogo,<br />

l’attuale piazza Cesare Battisti, ascoltava via radio il discorso del duce che annunciava l’entrata in guerra<br />

dell’Italia.<br />

141


Nel paese ebbe subito inizio una massiccia mobilitazione propagandistica attraverso alcune centinaia di<br />

conferenze promosse <strong>da</strong>ll’Istituto fascista di cultura e la pressione sugli insegnanti e sulla scuola per la<br />

conversione dei giovani al militarismo. Aumentava anche il controllo sulle opposizioni per impedire la loro<br />

riorganizzazione, ed il clero era guar<strong>da</strong>to a vista perché in sospetto di attività disfattista, tanto <strong>da</strong> costringere<br />

don Delugan a lasciare la direzione di "Vita <strong>trentina</strong>". L’ingresso a Trento del nuovo vescovo nel giugno<br />

1941, Carlo de Ferrari ritenuto ossequioso all’autorità costituita, solo in parte rassicurò gli esponenti del<br />

regime di avere gua<strong>da</strong>gnato il consenso della chiesa.<br />

Il tentativo di ottenere il favore dei contadini migliorandone le condizioni economiche con il loro trapianto in<br />

Alto Adige sui terreni lasciati liberi <strong>da</strong>gli optanti, incontrava molte difficoltà, anche per il ritardo del<br />

trasferimento degli allogeni in Germania. Né era servito a molto l’invio di contingenti operai nelle fabbriche<br />

del Reich dove i salari erano assai alti. Sotto la spinta della politica autarchica e della guerra che richiedeva il<br />

rafforzamento dei ritmi produttivi, l’apparato industriale locale conosceva però un’espansione con notevole<br />

assorbimento di manodopera fino all’azzeramento quasi totale della disoccupazione. Ma il rapido aumento<br />

del costo della vita superava i vantaggi apportati <strong>da</strong>ll’incremento del reddito e continuava a comprimere il<br />

potere d’acquisto di salari e stipendi.<br />

Il razionamento dei generi di prima necessità aveva creato la nascita del mercato nero, con forti contraccolpi<br />

sui ceti meno abbienti impossibilitati a rifornirsi per vie illegali dei beni spariti o rarefatti sul mercato<br />

ufficiale. La carenza di prodotti alimentari era aggravata inoltre <strong>da</strong>l fallimento degli ammassi ai quali, in<br />

modo coercitivo, avrebbe dovuto confluire una percentuale delle derrate agricole. L’appello ad estendere le<br />

coltivazioni anche nei ritagli di terreno destinati prima ad altri usi, compresi i giardini pubblici, gli "orti di<br />

guerra", doveva tradursi in un palliativo irrilevante con esiti solo propagandistici.<br />

L’apertura dei fronti di combattimento, quello francese durato pochi giorni ma abbastanza per mietere<br />

vittime, quello africano e, dopo l’attacco italiano alla Grecia il 28 ottobre, quello balcanico, portò alla<br />

mobilitazione e all’invio negli scacchieri delle operazioni militari di numerosi giovani, precettati a<br />

sacrificarsi in una guerra poco sentita ed al fianco di un alleato non certo gradito. Particolarmente sofferto fu<br />

l’invio di truppe alpine in Russia, destinato a finire in tragedia, un pesante tributo pagato <strong>da</strong>ll’Italia al Reich<br />

nazista dopo la rottura del patto di non aggressione firmato nel 1939 fra la Germania e l’URSS e l’invasione,<br />

nel giugno 1941, dell’Unione Sovietica. Le ripetute sconfitte su tutti i fronti, in un primo momento riparate<br />

<strong>da</strong>ll’intervento tedesco ma poi diventate irreversibili, avevano ormai debilitato la capacità di resistenza delle<br />

popolazioni che chiedevano solo la fine di un conflitto del quale non avevano mai inteso le ragioni ed era<br />

stato subìto in forme rassegnate.<br />

Dalla caduta del fascismo all'armistizio<br />

La caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, fu salutata nel Trentino con manifestazioni di soddisfazione,<br />

abbastanza contenute e senza forme di violenza. Il podestà di Trento, Bruno Mendini, venne sostituito con il<br />

commissario prefettizio Gilberto Mazzanti e, al posto del prefetto Foschi, si ebbe la nomina di Tommaso<br />

Pavone. Le autorità locali, preoccupate di mantenere l’ordine pubblico tanto <strong>da</strong> istituire il coprifuoco,<br />

vigilavano perché continuasse la normalità dei rapporti pubblici e privati, ma questo non impedì che già il 26<br />

luglio s’incontrassero gli esponenti delle forze antifasciste per progettare una serie di iniziative <strong>da</strong> far<br />

pervenire anche a Roma.<br />

La fine del regime, nell’intero paese, venne identificata con la speranza che potesse cessare il centralismo<br />

della capitale per fare ritorno al decentramento, all’autonomia, alla ricostituzione del precedente tessuto<br />

organizzativo civile ed economico, ossia alle istituzioni che avevano garantito la libertà. Quest’ansia di<br />

cambiamento, nonostante i limiti della censura ancora in vita, trovò espressione sulle pagine de "Il<br />

Brennero", affi<strong>da</strong>to il 3 agosto alla direzione del liberale Gino Marzani. Gli articoli pubblicati e le numerose<br />

lettere inviate alla re<strong>da</strong>zione <strong>da</strong> parte di note figure dei disciolti partiti, <strong>da</strong> uomini di cultura e <strong>da</strong> molti<br />

cittadini qualsiasi, erano legati <strong>da</strong> un filo conduttore comune: rimuovere la soffocante burocrazia e cancellare<br />

il malgoverno per riconsegnare alle popolazioni la gestione diretta dei loro interessi attraverso la rinascita<br />

dell’autonomia provinciale e comunale.<br />

L’euforia per la liberazione <strong>da</strong>l fascismo era però compromessa <strong>da</strong>ll’incubo della presenza nazista, sempre<br />

più massiccia e poco compatibile con lo spirito dell’alleanza italo-tedesca ancora in vita. Per quanto<br />

Badoglio avesse dichiarato la continuazione della guerra, alla Germania era ben chiaro che il nuovo governo<br />

si apprestava a <strong>tratta</strong>re la resa con le potenze alleate e, se continuava il gioco della collaborazione, era solo<br />

per attestarsi sal<strong>da</strong>mente sul suolo italiano. Le truppe tedesche, anziché limitarsi a scorrere sull’asse del<br />

Brennero per raggiungere il fronte di combattimento, cominciarono ad insinuarsi nelle valli e a stabilirsi<br />

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nelle località strategicamente importanti, oltre che sui valichi alpini. Il generale Alessandro Gloria,<br />

coman<strong>da</strong>nte delle divisioni dislocate al confine, fece più tentativi per impedire quella che ormai era una<br />

palese occupazione, ma senza riuscire ad opporsi all’esercito nazista, determinato a ricorrere perfino alla<br />

forza. La gravità della situazione era ben chiara al Comando dell’Arma dei carabinieri di Trento che teneva<br />

sotto controllo il tran<strong>sito</strong> delle truppe e degli armamenti tedeschi; si sapeva perfino che il generale<br />

Kesselring, in una riunione tenuta il 3 settembre ad Egna, aveva annunciato l’imminente occupazione della<br />

regione.<br />

Il 2 settembre Bolzano e Trento vennero colpite <strong>da</strong>l primo, gravissimo bombar<strong>da</strong>mento, che portò a ingenti<br />

devastazioni del tessuto abitativo e viario ed a numerosi morti ( 223 a Trento). La tragedia dei sinistrati che<br />

fuggivano <strong>da</strong>lla città alimentava l’avversione alla guerra ed il senso di generale disfacimento. In questo clima<br />

giunse la notizia dell’armistizio italiano, comunicata l’8 settembre, destinata a costituire il prologo di un<br />

dramma dopo la breve illusione che fossero giunti la pace e la normalizzazione. Le prime ore della notte<br />

trascorsero tranquille, ma verso le tre del giorno 9 cominciarono le operazioni dell’attacco tedesco dopo<br />

l’eliminazione dei sol<strong>da</strong>ti incaricati del turno di guardia alle caserme e agli uffici pubblici. L’assalto,<br />

compiuto con un consistente numero di uomini e di carri armati, colse di sorpresa le forze italiane; i militari<br />

cercarono di contrastare con coraggio l’aggressione, ma ogni azione risultava disperata di fronte alle armi<br />

dell’ex alleato. Dopo poche ore di lotta la resistenza era costata 48 morti e oltre 200 feriti; i militari sfuggiti<br />

cercavano di gua<strong>da</strong>gnare le montagne ed i catturati venivano ammassati provvisoriamente in un campo di<br />

concentramento allestito a Gardolo. Il Trentino era ormai interamente caduto in mani naziste.<br />

I venti mesi dell'Alpenvorland<br />

Con ordinanza di Hitler del 10 settembre 1943 venivano costituite le due zone d’operazione Prealpi<br />

(Alpenvorland con le province di Bolzano, Trento e Belluno) e Litorale adriatico (Adriatisches Küstenland).<br />

L’Alpenvorland, affi<strong>da</strong>ta al Gauleiter del Tirolo Franz Hofer in qualità di commissario supremo, di fatto<br />

veniva eretta a provincia del Reich, con sospensione sul suo territorio della sovranità della Repubblica<br />

sociale italiana (RSI), costituita dopo la liberazione di Mussolini <strong>da</strong>lla prigione del Gran Sasso.<br />

L’annessione alla Germania, per quanto mai formalizzata ufficialmente, risultava <strong>da</strong> alcuni elementi<br />

inequivocabili: l’amministrazione civile passava alle dirette dipendenze del governo nazista; venivano<br />

riformate le circoscrizioni comunali e quelle delle preture e dei tribunali; la Corte d’Appello di Trento era<br />

staccata <strong>da</strong> Venezia ed a Bolzano veniva istituito un Tribunale speciale che applicava le norme del diritto<br />

germanico e che, potendo avocare a sé ogni procedimento penale e civile, diventava supremo organo di<br />

giurisdizione; le forze militari della RSI erano escluse <strong>da</strong>ll’Alpenvorland nel quale risultava vietata la<br />

ricostituzione del partito fascista e dove era permesso entrare solo se forniti di un permesso.<br />

Nell’Alto Adige la costituzione dell’Alpenvorland poteva raccogliere consensi in quanto reintegrava i<br />

tedeschi dei diritti negati nell’età fascista. Nel Trentino, avverso al cessato regime, poteva essere gradita la<br />

separazione <strong>da</strong>lla RSI, ma non l’occupazione nazista che, oltretutto, mal si conciliava con l’italianità e, per<br />

taluni, con il passato risorgimentale del paese. Le popolazioni, disorientate <strong>da</strong>ll’accaduto e nelle condizioni<br />

di non potersi opporre, scelsero un atteggiamento di chiusura e di difesa in modo <strong>da</strong> salvare il salvabile in<br />

attesa degli eventi. Franz Hofer, consapevole di questa situazione, cercò di gua<strong>da</strong>gnare il consenso trentino<br />

offrendo un simulacro d’autonomia. Il 17 settembre chiamò a raccolta gli uomini più rappresentativi della<br />

provincia, compresi gli antifascisti, affi<strong>da</strong>ndo ad essi il compito di nominare un commissario-prefetto. La<br />

scelta unanime cadde sull’avvocato Adolfo de Bertolini, apprezzato <strong>da</strong> tutti per serietà professionale,<br />

coerente e radicato antifascismo, aderenze alle istanze autonomistiche; al suo fianco venne però posto<br />

d’autorità il consigliere Kurt Heinricher con l’incarico di controllare e comprimere in forme coattive lo<br />

spazio decisionale del commissario-prefetto.<br />

Il de Bertolini accettò l’ingrata nomina solo per tutelare la popolazione <strong>da</strong>i disastri della guerra e <strong>da</strong>lle<br />

rappresaglie dei tedeschi, sopportando disagi, crucci e rischi personali legati a scelte mai accompagnate <strong>da</strong><br />

certezze; si convinse anche a ritirare la decisione di dimettersi dopo la strage operata <strong>da</strong>i nazisti nel basso<br />

Sarca nel giugno 1944. Egli chiese ed ottenne di mantenere in vita il corpo dei carabinieri – quasi un<br />

cusci<strong>net</strong>to difensivo posto fra gli occupati e gli occupanti – instaurando una fattiva collaborazione con il<br />

coman<strong>da</strong>nte col. Michele de Finis. Entrambi furono consapevoli della difficoltà del loro compito, destinato<br />

ad incontrare comunque, accanto ai consensi, critiche per i bei gesti mancati sostituiti <strong>da</strong>l grigio lavoro di<br />

mediazione, privo della luce dell’eroismo, ma altrettanto faticoso, sofferto e necessario.<br />

Le ordinanze del novembre 1943 e del gennaio 1944 precettavano al servizio militare prima i giovani delle<br />

classi 1924-1925 e poi tutti i nati fra il 1894 e il 1926. Il servizio obbligatorio, una volta scoraggiato quello<br />

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nei reparti della RSI che era teoricamente ammesso, an<strong>da</strong>va effettuato o nell’esercito regolare tedesco o nel<br />

Corpo di sicurezza trentino (CST). Tale Corpo avrebbe dovuto essere impiegato solo in loco per la tutela<br />

dell’ordine pubblico ma, contrariamente alle assicurazioni <strong>da</strong>te, venne adibito anche a operazioni militari<br />

nella lotta antipartigiana. Il deterrente della pena di morte e dell’arresto dei congiunti, in base al diritto<br />

penale germanico, contenne le defezioni e convinse molti giovani, compresi gli imboscati dopo il<br />

disfacimento dell’esercito italiano, ad arruolarsi nel CST considerato il male minore.<br />

L'occupazione nazista e le popolazioni civili<br />

Le popolazioni civili conobbero ben presto le conseguenze del regime nazista attraverso i provvedimenti che<br />

colpivano i beni e le persone. Un’ordinanza dell’ottobre 1943 obbligava alla cessione, in base alle necessità<br />

militari, delle case d’abitazione, di materiali <strong>da</strong> costruzione, mezzi di locomozione, animali, foraggi, perfino<br />

delle stoviglie e degli utensili di cucina. Subito dopo avvenne la precettazione al lavoro per tutti gli uomini<br />

<strong>da</strong>i 16 ai 60 anni e delle donne <strong>da</strong>i 18 ai 45, con esonero per gli addetti a tempo pieno nell’agricoltura, per le<br />

gestanti e le madri di figli non ancora in età scolare.<br />

Questa ordinanza aveva pesanti contraccolpi sull’economia togliendo braccia ai tradizionali comparti di<br />

produzione.L’inquadramento dei lavoratori avveniva soprattutto nella Organisation Todt (OT), addetta alle<br />

fortificazioni ed alla riparazione dei <strong>da</strong>nni causati <strong>da</strong>i bombar<strong>da</strong>menti a strade, ferrovie e ponti. L’intento di<br />

controllare l’intero settore economico portava alla creazione di una struttura articolata negli uffici del lavoro,<br />

dell’industria, dell’agricoltura ed alimentazione e del credito, con l’imposizione di commissari gerenti a capo<br />

delle imprese. La paziente opera del de Bertolini riuscì a fare in modo che il numero maggiore dei<br />

commissari fosse della provincia ed anche che il reclutamento dei lavoratori si mantenesse in forme non<br />

eccessive, almeno fino a quando la Germania non tentò con ogni mezzo di evitare la ormai prevedibile<br />

sconfitta.<br />

A cominciare <strong>da</strong>l bombar<strong>da</strong>mento del 2 settembre 1943 e fino alla conclusione del conflitto, nel Trentino si<br />

verificarono 591 incursioni aeree, fra le quali 30 compiute a on<strong>da</strong>te successive che, intervenendo "a tappeto",<br />

operavano distruzioni pressoché totali. Le aree ripetutamente prese di mira erano quelle della valle<br />

dell’Adige dove passava la ferrovia, ma le bombe vennero sganciate sull’intera provincia colpendo 91<br />

località. I cittadini, per la perdita della casa e dei beni o per precauzione erano costretti allo sfollamento,<br />

spostando con grandi disagi la loro residenza <strong>da</strong>i centri alla periferia dove si tentava di ricostituire il tessuto<br />

sociale e quello scolastico, indispensabile per i giovani. I luoghi colpiti <strong>da</strong>i bombar<strong>da</strong>menti erano gravati <strong>da</strong>l<br />

problema dello sgombero delle macerie, del ripristino delle vie e degli argini dei fiumi ed anche <strong>da</strong>l porre<br />

blocchi per evitare i furti.<br />

Nel Trentino i generi di prima necessità, ed in particolare quelli alimentari, subirono restrizioni e carenze ma<br />

non mancarono mai completamente. Fu lo stesso Hofer ad intervenire perché derrate di una certa consistenza<br />

venissero importate <strong>da</strong>lla Germania per fare fronte ai bisogni più impellenti delle popolazioni al fine di<br />

mantenere la tranquillità ed evitare le cause di tensione sociale. Giovò molto anche l’incisiva azione dei<br />

carabinieri rivolta a combattere il mercato nero, la sottrazione dei prodotti alimentari, del legname e del<br />

bestiame, ed a rendere esecutivo l’obbligo degli ammassi. Per quanto in un contesto di devastazioni, lutti,<br />

dilacerazioni e sofferenze, nella provincia la vita continuava svolgendosi in forme quasi ovattate o<br />

rinunciatarie, come se tutto si fosse assopito in attesa che gli eventi si chiarissero e, nel frattempo, si potesse<br />

sfuggire alla catastrofe.<br />

La resistenza<br />

Il fenomeno resistenziale nel Trentino fu abbastanza contenuto, non privo di personalità di spicco e di<br />

episodi rilevanti, ma mancante di organizzazione unitaria. L’attività partigiana risultò più incisiva dove si<br />

appoggiava a formazioni operanti fuori provincia come quelle del vicentino e del bellunese che estendevano<br />

la loro azione oltre i confini. Zone di attività cospirativa furono il basso Sarca, l’area di Fiemme, la valle di<br />

Non, Trento e dintorni, il Tesino, l’altopiano di Folgaria.<br />

Poco dopo la costituzione dell’Alpenvorland, aveva preso vita il Comitato di liberazione nazionale di Trento<br />

con la presenza di Giannantonio Manci, Egidio Bacchi e Guido Pancheri, tutti d’indirizzo socialista, Guido<br />

de Unterrichter, cattolico, Beppino Disertori, repubblicano e Giuseppe Ottolini, comunista. Il Comitato, in<br />

rapporto con il CLN Alta Italia, composto <strong>da</strong> uomini di notevole preparazione politica e dottrinale (nel<br />

febbraio 1944 usciva il "Manifesto del movimento socialista trentino" con un solido programma per la<br />

ricostruzione democratica), incontrò difficoltà nel <strong>da</strong>re un coordinamento organico al movimento di<br />

opposizione ed alla resistenza armata, destinata a risolversi in iniziative isolate di disturbo e sabotaggio.<br />

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Nel maggio 1944 avveniva un’azione di rastrellamento <strong>da</strong> parte delle SS nell’area Pre<strong>da</strong>zzo – valle di<br />

Cembra – val Calamento con la cattura di alcuni partigiani. L’operazione più massiccia era però rivolta alla<br />

zona del basso Sarca dove, il 28 giugno, venivano truci<strong>da</strong>ti 11 militanti nella resistenza. Subito dopo, a<br />

Trento, erano arrestati alcuni elementi di punta del CLN, fra i quali Giannantonio Manci, suici<strong>da</strong>tosi per non<br />

tradire i compagni sotto interrogatorio. Solo nell’autunno il CLN provinciale riuscì a ricostituirsi, ma<br />

rimanendo travagliato <strong>da</strong>i problemi sorti <strong>da</strong>lle diverse posizioni ideologiche e tattiche dei rappresentanti i<br />

partiti. Le repressioni più violente <strong>da</strong> parte nazista si ebbero, nella secon<strong>da</strong> metà del 1944, con l’eccidio di<br />

malga Zonta nell’altopiano di Folgaria (12 agosto); nel Tesino (novembre 1944 – inizi 1945) dove il forte<br />

movimento di resistenza venne stroncato <strong>da</strong> rastrellamenti seguiti <strong>da</strong> arresti e fucilazioni che portarono alla<br />

morte anche di due donne, Clorin<strong>da</strong> Menguzzato e Ancilla Marighetto; con gli interventi in valle di Fiemme<br />

(novembre) e nella zona di Pinè (dicembre).<br />

Nelle popolazioni l’attività dei partigiani suscitò più apprensioni e timori per le possibili rappresaglie che<br />

consensi: l’atteggiamento generalizzato rimase quello di sfuggire all’assunzione di scelte rischiose, trovando<br />

rifugio sotto lo scudo protettivo eretto <strong>da</strong>l commissario – prefetto.<br />

Proclamata l’insurrezione generale del 25 aprile 1945 che avrebbe portato alla resa delle armate tedesche in<br />

Italia, anche i partigiani del Trentino si sollevarono per liberare il paese <strong>da</strong>ll’occupazione nazista. Il compito<br />

di recarsi presso le autorità germaniche con la richiesta della cessione dei poteri civili spettò, su delega<br />

dell’infermo de Bertolini, al colonnello de Finis accompagnato <strong>da</strong>l vice prefetto Meneguzzer. Dopo il primo<br />

<strong>net</strong>to rifiuto, il colonnello dei carabinieri tornava con l’arcivescovo Carlo de Ferrari chiedendo anche la<br />

tutela dei cittadini e delle opere pubbliche ed ottenendo, alla fine di difficili e reiterate insistenze, il trapasso<br />

dei poteri e l’assicurazione di una ritirata senza violenze. Purtroppo, nonostante il servizio d’ordine e<br />

l’impegno <strong>da</strong> entrambe le parti di astenersi <strong>da</strong> atti aggressivi, il 2-4 maggio, a guerra ormai finita, uno<br />

scontro fra partigiani e tedeschi portava agli eccidi ed alle rappresaglie di Castello di Fiemme, Ziano,<br />

Stramentizzo e Molina dove persero la vita una cinquantina di civili.<br />

Dal termine del conflitto allo Statuto d'autonomia di Maria Garbari<br />

La ripresa della vita politica e le istanze autonomistiche<br />

Finite le ostilità, il CLN provinciale presieduto <strong>da</strong> Giovanni Gozzer si assunse, come in tutte le province<br />

italiane liberate, il compito di <strong>da</strong>re una prima intelaiatura politico - amministrativa al paese: la carica di<br />

prefetto venne assegnata al comunista Giuseppe Ottolini, questore divenne Ivo Perini del Partito d’azione, a<br />

capo della Deputazione provinciale fu collocato il democristiano Pietro Romani, a sin<strong>da</strong>co di Trento venne<br />

chiamato il socialista Gigino Battisti e tutti gli altri incarichi di responsabilità furono distribuiti tra i<br />

rappresentanti dei partiti antifascisti. Con l’entrata in Trento delle truppe americane, il 4 maggio,<br />

l’amministrazione passava nelle mani della Commissione alleata che non fu troppo drastica nel contenere o<br />

mutare le nomine effettuate <strong>da</strong>l CLN. Solo con il 1° gennaio 1946 all’amministrazione alleata subentrava<br />

quella italiana, sia nel Trentino che nell’Alto Adige le cui sorti risultavano però ancora incerte.<br />

L’avvio della vita politica nel nuovo clima di libertà fu contrassegnato <strong>da</strong>lla riorganizzazione dei partiti ed<br />

anche <strong>da</strong> una richiesta generalizzata e così estesa <strong>da</strong> assumere il carattere di un pronunciamento popolare:<br />

quella della separazione dei comuni aggregati <strong>da</strong>l fascismo e del ritorno alla loro autonomia. L’urgenza di<br />

tale richiesta, precedente addirittura a quella dell’autonomia per l’intero paese, nasceva <strong>da</strong>lla convinzione<br />

che bastasse rimettere in piedi gli ordinamenti cancellati <strong>da</strong>l regime. Domande di separazione dei comuni<br />

cominciarono a giungere fin <strong>da</strong>l maggio 1945 al CLN provinciale e, successivamente, alla prefettura, in un<br />

crescendo senza sosta fino a raggiungere, nella primavera del 1946, la somma di 205, alcune cumulative di<br />

più frazioni. Nella sostanza non vi era sobborgo o minimo aggregato urbano che non chiedesse di costituirsi<br />

in comune autonomo azzerando le manipolazioni apportate <strong>da</strong>l fascismo.<br />

Con altrettanta urgenza s’impose la questione dell’autonomia per tutto il paese, posta al vertice dei<br />

programmi di ogni partito, tenuta viva nei dibattiti politici, sulla stampa, negli incontri con il pubblico.<br />

Nell’estate 1945 il CLN provinciale costituiva un Centro studi per l’autonomia affi<strong>da</strong>ndo all’avvocato<br />

liberale Francesco Menestrina, persona di grande competenza, l’incarico di stendere un progetto di statuto.<br />

Agli inizi di agosto una delegazione del CLN accompagnata <strong>da</strong>l prefetto e <strong>da</strong>l sin<strong>da</strong>co di Trento presentava a<br />

Parri, allora a capo del governo, un ordine del giorno concernente l’autonomia; l’accoglimento della richiesta<br />

<strong>da</strong>va il via ai lavori per la preparazione di uno schema di statuto, reso pubblico il 25 novembre sulle pagine<br />

di "Liberazione nazionale", organo di stampa del CLN.<br />

Accanto a questo progetto presero corpo numerose altre iniziative, proposte e progetti elaborati ad opera di<br />

145


partiti, movimenti, singole personalità; fra i primi si collocavano quelli del Partito d’azione e di Enrico<br />

Conci, seguiti <strong>da</strong> quelli del Movimento autonomista regionale (MAR) e del prefetto di Bolzano, Silvio<br />

Innocenti, quest’ultimo steso su incarico del governo. Iniziava pure la sua attività l’Associazione studi<br />

autonomia regionale (ASAR), un movimento nato nell’agosto 1945 e subito fornito di una larghissima base<br />

di consenso popolare. Nella presunzione che l’Alto Adige sarebbe rimasto all’Italia, per tutti i progetti il<br />

quadro territoriale dell’autonomia era <strong>da</strong>to <strong>da</strong>lla regione all’interno della quale la tutela della comunità<br />

sudtirolese veniva affi<strong>da</strong>ta ad un impianto giuridico – istituzionale inteso a non creare steccati fra i due<br />

gruppi etnici. I progetti si differenziavano invece per le ideologie in essi riflesse che an<strong>da</strong>vano<br />

<strong>da</strong>ll’identificazione tra democrazia ed autogoverno fino al conservatorismo politico e sociale di stampo<br />

nostalgico.<br />

Il dibattito sull’autonomia regionale s’intrecciava con quello sulla separazione dei comuni – con particolare<br />

incisività presso il consiglio comunale di Trento dove era in gioco il distacco delle frazioni – ed aveva<br />

riflessi sull’indizione delle elezioni amministrative, necessarie per normalizzare la vita comunale. Il timore<br />

era infatti che l’an<strong>da</strong>ta alle urne costituisse un atto di acquiescenza alla situazione esistente e potesse<br />

pregiudicare l’e<strong>sito</strong> positivo delle domande di separazione. Le assicurazioni <strong>da</strong>te <strong>da</strong>l ministero dell’interno<br />

sull’accoglimento delle richieste, purché suffragate <strong>da</strong>lla dimostrazione che i ricostituiti comuni potevano<br />

contare su una soli<strong>da</strong> base patrimoniale, fecero sì che nelle tornate elettorali amministrative del marzo-aprile<br />

e dell’ottobre-dicembre 1946 non vi fossero astensioni in segno di protesta, tranne che nella zona mistilingue<br />

intenzionata a staccarsi <strong>da</strong>lla provincia di Trento.<br />

Le consultazioni del 2 giugno 1946 per il referendum istituzionale e le elezioni per la Costituente<br />

registrarono una massiccia partecipazione attestata al 91%. I risultati misero in luce la reale consistenza<br />

numerica dei diversi partiti politici: la DC, con 129.321 voti (57,41%) appariva la forza di maggioranza<br />

seguita <strong>da</strong>i socialisti (27,69%), <strong>da</strong>i comunisti (8,11%) e <strong>da</strong>gli azionisti-repubblicani (4,87%). Alla<br />

Costituente vennero eletti i democristiani Alcide Degasperi, Luigi Carbonari, Elsa Conci ed il socialista<br />

Gigino Battisti. Il referendum vide l’85% dei suffragi favorevoli alla repubblica, la più alta percentuale<br />

registrata in Italia dove, a differenza del Trentino, la scelta accor<strong>da</strong>ta alle istituzioni repubblicane correva in<br />

parallelo con quella per lo schieramento di sinistra. Era il segno evidente delle delusioni provate <strong>da</strong>lla<br />

provincia dopo la sua annessione al regno.<br />

Alcide Degasperi<br />

Nato a Pieve Tesino nel 1881 <strong>da</strong> una famiglia di umili origini e profon<strong>da</strong>mente cattolica, studiò a Trento nel<br />

collegio vescovile. Frequentò i corsi di filosofia dell’Università di Vienna, dove venne a contatto con il<br />

movimento cristiano-sociale di Karl Lueger e fece opera di proselitismo presso gli ambienti operai<br />

dell’emigrazione <strong>trentina</strong>. Lo sviluppo del movimento cattolico trentino fu il centro dei suoi interessi<br />

giovanili: entrò nella direzione dell’Unione politica popolare per il Trentino, che tenne il suo congresso nel<br />

1904 e il vescovo Endrici lo chiamò a sostituire mons. Guido de Gentili nella direzione de “La Voce<br />

cattolica”, che in seguito divenne “Il Trentino”. In questo periodo la posizione di Degasperi sul problema<br />

nazionale si atteneva alla formula “nazionalismo positivo”, che significava difesa dei diritti della<br />

nazionalità all’interno delle strutture dello stato austriaco. Nello stesso anno fu coinvolto negli scontri di<br />

Innsbruck tra studenti italiani e studenti tedeschi e venne arrestato assieme a Cesare Battisti.<br />

Il partito popolare trentino vinse con una grande maggioranza le elezioni politiche del 14 maggio 1907. Nel<br />

1911 Degasperi fu eletto deputato al parlamento di Vienna. In occasione dello scoppio della guerra si<br />

dichiarò neutrale. Guidò la delegazione <strong>trentina</strong> al primo congresso, svoltosi a Bologna nel 1919, del Partito<br />

popolare di Sturzo. All’avvento del fascismo, fu tra coloro che erano favorevoli ad una collaborazione con<br />

il partito fascista: infatti i popolari entrarono nel primo governo Mussolini, ma ben presto, anche in seguito<br />

al delitto Matteotti, Mussolini scaricò i popolari, i quali presero parte all'Aventino. Dopo il fallito attentato<br />

di Zaniboni a Mussolini, Degasperi venne arrestato in treno a Firenze e, processato per tentato espatrio<br />

clandestino, fu con<strong>da</strong>nnato a quattro anni, di cui scontò sedici mesi. Negli anni della guerra si mosse per<br />

ricostruire un partito dei cattolici col nome di Democrazia Cristiana, avvicinandosi anche ai gruppi<br />

dell’Azione cattolica. Dopo la caduta del fascismo fu tra i maggiori esponenti del Comitato di Liberazione<br />

Nazionale e nel giugno del 1944 entrò a far parte, assieme a Palmiro Togliatti, del governo Bonomi. Al<br />

termine della secon<strong>da</strong> guerra mondiale Degasperi si occupò della questione dell’autonomia e il 5 settembre<br />

1946 venne sottoscritto l’accordo Degasperi-Gruber, un <strong>tratta</strong>to con cui si stabilivano pari diritti per gli<br />

abitanti di lingua tedesca e quelli di lingua italiana della Regione.<br />

146


La schiacciante vittoria della DC nelle elezioni del 18 aprile 1948 mutò i presupposti politici della strategia<br />

di Degasperi che si trovò ad affrontare il problema del nuovo ruolo del partito. Dal 15 dicembre 1945 al<br />

luglio del 1953 tenne ininterrottamente la presidenza del Consiglio dei ministri, gui<strong>da</strong>ndo otto governi;<br />

assunse poi la segreteria della DC.<br />

Degasperi morì a Borgo Valsugana nel 1954.<br />

L'accordo Degasperi - Gruber e l'autonomia regionale<br />

Alcide Degasperi, ministro degli esteri nel governo Parri e, <strong>da</strong>l dicembre 1945, presidente del consiglio dei<br />

ministri con conservazione degli esteri, era consapevole come la questione dell’autonomia si congiungeva<br />

alla vertenza sull’Alto Adige e che questa costituiva un problema internazionale, legato agli equilibri fra le<br />

grandi potenze, dove all’Italia era riservato un minimo spazio decisionale. Il 14 settembre 1945, durante la<br />

prima sessione del Consiglio dei ministri degli esteri delle quattro potenze vincitrici (USA, URSS, Gran<br />

Bretagna e Francia), convocato a Londra per la stesura dei <strong>tratta</strong>ti di pace, venne accolta la proposta degli<br />

Stati Uniti di mantenere immutato il confine del Brennero, salve minori rettifiche che l’Austria avrebbe<br />

potuto chiedere in suo favore. Solo il 24 giugno 1946 il Consiglio, valutate le richieste austriache e i<br />

memoran<strong>da</strong> italiani, chiudeva la questione dei confini assegnando l’intero Alto Adige all’Italia.<br />

Sulla base della risoluzione del 24 giugno, che cancellava l’ipotesi di autodeterminazione del gruppo<br />

sudtirolese, l’Italia e l’Austria, sollecitate anche <strong>da</strong>lle grandi potenze, cercarono di giungere ad un accordo.<br />

Ad esso erano favorevoli Alcide Degasperi che, fin <strong>da</strong>l 1945, aveva promosso diversi interventi legislativi<br />

per reintegrare i sudtirolesi dei loro diritti e <strong>da</strong>to assicurazioni sull’autonomia, e Karl Gruber, ministro degli<br />

esteri austriaco. La composizione della vertenza non si presentava però facile, perché l’Austria doman<strong>da</strong>va<br />

l’autonomia garantita internazionalmente solo per l’Alto Adige. Le richieste autonomistiche del Trentino,<br />

poco recepibili <strong>da</strong>gli stati vincitori, risultavano estranee anche al mai dimesso centralismo romano che<br />

acconsentiva ad accettarle solo nell’ottica della costituzione di un quadro regionale a maggioranza italiana,<br />

dove poter controllare la minoranza tedesca.<br />

Degasperi si trovò di fronte al duplice problema di rendere giustizia al gruppo sudtirolese, appianando una<br />

vertenza internazionale, ed al Trentino con la concessione di quell’autonomia che, sempre chiesta e mai<br />

ottenuta, aveva sperimentato nel passato solo nel nesso con la provincia tirolese. I colloqui per l’intesa,<br />

compiuti <strong>da</strong>l rappresentante italiano a Londra Nicolò Carandini, ma costantemente seguiti <strong>da</strong> Degasperi, e<br />

<strong>da</strong>l ministro Gruber, partivano <strong>da</strong> proposte assai distanti fra di loro. Ma la buona volontà e la correttezza dei<br />

protagonisti degli incontri, sinceramente interessati a giungere ad una soluzione positiva, portò, dopo una<br />

laboriosa revisione dei testi preparati <strong>da</strong>lle due parti, all’accordo di Parigi del 5 settembre 1946. Il testo<br />

dell’accordo venne comunicato alla Conferenza della pace dove le potenze vincitrici alleate e associate ne<br />

prendevano atto, compiacendosi del modo con il quale era stata risolta una questione riguar<strong>da</strong>nte un gruppo<br />

minoritario; esso venne poi inserito in qualità di allegato nel <strong>tratta</strong>to di pace con l’Italia del 10 febbraio 1947.<br />

Il quadro (frame nel testo ufficiale steso in lingua inglese) dell’autonomia, per quanto non direttamente<br />

specificato, sarebbe sfociato in un ambito regionale, accettato <strong>da</strong> Gruber dopo riserve e perplessità, superate<br />

<strong>da</strong>lla fiducia nella collaborazione fra trentini e sudtirolesi. L’attuazione dell’accordo Degasperi – Gruber<br />

avrebbe sancito quindi e garantito anche l’autonomia <strong>trentina</strong> nel quadro della regione.<br />

La decisione di mantenere il confine al Brennero e, nel settembre, l’accordo Degasperi-Gruber, diedero<br />

nuovo slancio ai progetti autonomistici. Preso atto delle critiche allo schema steso <strong>da</strong> Innocenti e conosciuto<br />

quello dell’ASAR del luglio 1946, inteso a svuotare al massimo le competenze dello stato, il governo<br />

presentò un secondo progetto Innocenti sottoponendolo ai partiti della regione: esso venne però respinto <strong>da</strong><br />

ASAR, Volkspartei (SVP), socialisti e comunisti. Nel maggio fu presentato il progetto della SVP nel quale le<br />

due province di Trento e Bolzano erano erette in regioni autonome, ognuna con potere legislativo esclusivo<br />

in tutte le materie non riservate alle competenze dello stato. Contemporaneamente l’ASAR varava un<br />

secondo progetto dove, ancora più accentuatamente rispetto al primo, venivano rivendicati alla regione<br />

amplissimi poteri, facoltà e competenze. Lo zelo autonomistico aveva ormai gua<strong>da</strong>gnato tutti i partiti,<br />

compresi quelli a vocazione centralista che, per non perdere l’elettorato locale, dovevano farsi paladini di tesi<br />

poco recepite nelle loro direzioni nazionali.<br />

La constatata impossibilità di giungere ad un accordo tra le forze della regione per l’abbozzo di un progetto<br />

condiviso <strong>da</strong> tutti, portò alla nomina <strong>da</strong> parte del governo di una commissione di sette esperti, sotto la<br />

presidenza di Ivanoe Bonomi, con l’incarico di stendere uno schema di statuto. Nel novembre 1947, quando<br />

già la Costituente aveva approvato l’articolo 116 della costituzione che istituiva cinque regioni con speciale<br />

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autonomia, la bozza di statuto elaborata <strong>da</strong>lla commissione venne sottoposta ai partiti. La reazione fu<br />

piuttosto dura: solo la DC ed i liberali risposero con parecchie proposte di modifica, mentre le altre forze la<br />

respinsero in blocco. Il tentativo compiuto nella capitale di comporre la frattura con la SVP portò ad<br />

accettare alcune osservazioni, mutamenti ed introduzioni fra quelli chiesti <strong>da</strong> una delegazione dei maggiori<br />

esponenti sudtirolesi. Finalmente il testo dello statuto, appro<strong>da</strong>to alla Costituente, venne discusso ed<br />

approvato il 29 gennaio 1948, diventando la legge costituzionale n. 5 promulgata il 26 febbraio 1948. Si<br />

apriva, in questo modo e dopo tante attese, la stagione autonomistica del Trentino nel quadro della regione.<br />

L'Accordo di Parigi prevede all'art. 1 la completa eguaglianza di diritti degli "abitanti di lingua tedesca della<br />

provincia di Bolzano e di quelli dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento rispetto agli abitanti di<br />

lingua italiana" nel quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguar<strong>da</strong>re il carattere etnico e lo<br />

sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca. In particolare l'art. 1 garantisce ai cittadini di<br />

lingua tedesca l'insegnamento nella loro lingua materna, l'equiparazione della lingua tedesca alla lingua<br />

italiana nelle pubbliche amministrazioni, nella nomenclatura topografica bilingue, il ripristino dei nomi di<br />

famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nonché la parità di diritti nell'accesso a pubblici uffici allo<br />

scopo di attuare una più soddisfacente distribuzione degli impieghi tra i gruppi etnici ("appropriate<br />

proportion of employment").<br />

L'art. 2 riconosce "alle popolazioni delle zone sopradette l'esercizio di un potere legislativo ed esecutivo<br />

regionale autonomo", sancendo quindi la vera autonomia per la provincia di Bolzano e per "i vicini comuni<br />

bilingui della provincia di Trento". Allora facevano parte della provincia di Trento anche i vicini comuni<br />

bilingui della Bassa Atesina e della Valle di Non, ai quali, secondo l'interpretazione dei sudtirolesi, si<br />

faceva riferimento.<br />

Con l'art. 3 il Governo italiano s'impegna, previe consultazioni con il Governo austriaco, a rivedere il<br />

regime delle opzioni di cittadinanza, a concludere accordi per il reciproco riconoscimento dei titoli di<br />

studio, a facilitare il libero tran<strong>sito</strong> di passeggeri e merci nonché un più esteso traffico di frontiera.<br />

A quel tempo, parti della popolazione del Tirolo e del Sudtirolo reagirono con grande delusione ai risultati<br />

delle <strong>tratta</strong>tive di Parigi ed a questo accordo, che indirettamente significava l'approvazione dell'annessione<br />

del Sudtirolo all'Italia.Solo la <strong>storia</strong> potrà giudicare se fu giusto o meno approvare questo accordo; certo è<br />

che l'Accordo di Parigi garantisce oggi l'autonomia amministrativa e legislativa, promuovendo la tutela<br />

delle minoranze e la collaborazione dei gruppi etnici. All'Accordo Degasperi-Gruber fa esplicito<br />

riferimento la cosidetta "quietanza liberatoria" alla base della quale nel giugno 1992 è stata dichiarata<br />

conclusa la vicen<strong>da</strong> della questione sudtirolese aperta <strong>da</strong>vanti all'ONU nel 1960.<br />

Testo dell’Accordo di Parigi nella versione italiana<br />

1. Gli abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano e quelli dei vicini comuni bilingui della<br />

provincia di Trento, godranno di completa eguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana, nel<br />

quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguar<strong>da</strong>re il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed<br />

economico del gruppo di lingua tedesca.<br />

In conformità ai provvedimenti legislativi già emanati od emanandi, ai cittadini di lingua tedesca sarà<br />

specialmente concesso:<br />

a) l’insegnamento primario e secon<strong>da</strong>rio nella loro lingua materna;<br />

b) l’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche<br />

amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue;<br />

c) il diritto di ristabilire i nomi di famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nel corso degli ultimi anni;<br />

d) l’eguaglianza di diritti per l’ammissione a pubblici uffici, allo scopo di attuare una più soddisfacente<br />

distribuzione degli impieghi tra i due gruppi etnici.<br />

2. Alle popolazioni delle zone sopraddette sarà concesso l’esercizio di un potere legislativo ed esecutivo<br />

autonomo, nell’ambito delle zone stesse. Il quadro nel quale detta autonomia sarà applicata sarà<br />

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determinato, consultando anche elementi locali rappresentanti la popolazione di lingua tedesca. 3. Il<br />

Governo italiano, allo scopo di stabilire relazioni di buon vicinato tra l’Austria e l’Italia, s’impegna, dopo<br />

essersi consultato con il Governo austriaco, ed entro un anno <strong>da</strong>lla firma del presente Trattato:<br />

a) a rivedere, in uno spirito di equità e di comprensione, il regime delle opzioni di cittadinanza, quale risulta<br />

<strong>da</strong>gli accordi Hitler-Mussolini del 1939;<br />

b) a concludere un accordo per il reciproco riconoscimento della validità di alcuni titoli di studio e diplomi<br />

universitari;<br />

c) ad approntare una convenzione per il libero tran<strong>sito</strong> dei passeggeri e delle merci tra il Tirolo<br />

settentrionale e il Tirolo orientale, sia per ferrovia che, nella misura più larga possibile, per stra<strong>da</strong>;<br />

d) a concludere accordi speciali tendenti a facilitare un più esteso traffico di frontiera e scambi locali di<br />

determinati quantitativi di prodotti e di merci tipiche tra l’Austria e l’Italia.<br />

Il secondo dopoguerra e l'autonomia <strong>trentina</strong> di Armando Va<strong>da</strong>gnini<br />

Gli esordi dell'autonomia regionale<br />

L’approvazione dello statuto di autonomia per la Regione Trentino-Alto Adige venne accolta in Trentino<br />

senza trionfalismi. Tutti i partiti locali e l’opinione pubblica, con toni più o meno accentuati, sottolinearono<br />

l’importanza dell’avvenimento, pur nella consapevolezza che <strong>da</strong> quel momento sarebbe iniziato un periodo<br />

di notevole impegno e di forte responsabilità per tradurre sul piano concreto l’autonomia appena conquistata.<br />

Trascorsi alcuni mesi in cui prevalse l’attenzione per i fatti nazionali, il 28 novembre si tennero le prime<br />

elezioni regionali, che videro in Trentino il successo della Democrazia Cristiana (57,64%) seguita <strong>da</strong>l Partito<br />

Popolare Trentino Tirolese (16,83%), una formazione politica nuova, nata nel luglio precedente <strong>da</strong>lla<br />

spaccatura interna del movimento asarino.<br />

Il 13 dicembre si svolse la prima seduta del Consiglio regionale. Luigi Menapace (DC) venne eletto<br />

presidente dell’assemblea, mentre Silvius Magnago, uomo nuovo della Volkspartei, ricoprì l’incarico della<br />

vicepresidenza. I discorsi quel giorno furono brevi, ma carichi di tensione ideale e di buoni propositi.<br />

Menapace ribadì più volte che il successo dell’esperienza autonomistica si sarebbe giocato sul rispetto<br />

reciproco e la collaborazione tra i gruppi linguistici presenti nella regione, richiamando una frase di<br />

Degasperi che aveva citato la Svizzera come modello <strong>da</strong> imitare. Gli fece eco Magnago, che molto<br />

schiettamente si dichiarò disponibile alla collaborazione, purchè si facesse poca o nessuna politica, ma solo<br />

molta e buona amministrazione. "Wenig oder gar kein Politik, also viel, sehr viel Verwaltung und gute<br />

Verwaltung", disse parlando in tedesco.<br />

L'impegno della Giunta regionale nell'opera di ricostruzione<br />

Il periodo successivo al secondo conflitto mondiale rappresenta per l’Italia un momento storico di grande<br />

importanza e vitalità. Da paese sconfitto, <strong>da</strong> nazione lacerata al proprio interno e con scarso prestigio sul<br />

piano internazionale, l’Italia riuscì in poco tempo a impostare validi piani di ricostruzione e a rientrare nel<br />

gioco diplomatico dell’Occidente, mentre sul terreno economico le riforme ispirate al criterio neoliberista<br />

della coppia di governo Degasperi-Einaudi (il primo presidente del Consiglio per quasi otto anni, il secondo<br />

ministro del Bilancio per tre anni) favorirono la ripresa, sicché già nel 1951, come ricor<strong>da</strong> l’esperto di <strong>storia</strong><br />

economica, Giancarlo Galli, l’Italia riuscirà a recuperare il livello di reddito pro capite e un certo benessere<br />

diffuso che esistevano nel periodo prebellico, non solo prima dei paesi sconfitti come la Germania e il<br />

Giappone, ma perfino di altri paesi avanzati quali la Francia e la Gran Bretagna.<br />

Anche nel Trentino, dopo l’approvazione del primo statuto dell’autonomia regionale, la ripresa economica<br />

venne appoggiata <strong>da</strong>ll’ente pubblico. La prima Giunta regionale, nata nel gennaio del 1949, era composta <strong>da</strong><br />

rappresentanti della Democrazia Cristiana <strong>trentina</strong> e della Volkspartei di Bolzano. Il presidente, Tullio<br />

Odorizzi, si mise subito al lavoro per favorire lo sviluppo economico e sociale di una regione ancora per<br />

molti aspetti arretrata. Senza partire <strong>da</strong> studi teorici di programmazione, si puntò essenzialmente ad<br />

impiegare le risorse offerte <strong>da</strong>ll’autonomia per accelerare i lavori della ricostruzione, appoggiando le piccole<br />

iniziative dei paesi, soprattutto nel settore agricolo, dove vennero creati o rimessi in funzione caseifici<br />

sociali, magazzini di frutta, cantine cooperative e altre forme di attività economica, per <strong>da</strong>re alla popolazione<br />

quel sostegno immediato di cui aveva bisogno. In seguito vennero realizzate anche opere di maggiore rilievo,<br />

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tra le quali merita un accenno particolare l’Accordo preferenziale ("Accordino") con il Tirolo e il Vorarlberg,<br />

che facilitava gli scambi di determinati quantitativi di prodotti e di merci. Questo avvenne nel 1949 e già<br />

allora si parlò di avvenimento "sensazionale", in quanto non solo recava benefici notevoli all’economia dei<br />

due paesi, ma rafforzava anche i rapporti di buon vicinato tra due popolazioni, secondo lo spirito<br />

dell’Accordo di Parigi.<br />

Sempre in campo economico, la Giunta regionale si impegnò a sfruttare adeguatamente le risorse<br />

idroelettriche, anche a costo di entrare in conflitto con le grandi società private nazionali, Montecatini ed<br />

Edison in testa. Fu così che la prima legge approvata <strong>da</strong>l Consiglio regionale il 4 febbraio 1949 fissò<br />

un’imposta di dieci centesimi per chilowatt sulla produzione di energia elettrica nella regione. Qualche mese<br />

dopo, inoltre, la Regione approvò il progetto della SIT (in gran parte controllata <strong>da</strong>l Comune di Trento e<br />

<strong>da</strong>lla Magnifica Comunità di Fiemme) per la costruzione di una diga sul torrente Avisio, respingendo quelli<br />

di altre importanti società nazionali.<br />

Una vasta serie di lavori pubblici, avviati <strong>da</strong>lla Giunta, rappresentò uno strumento idoneo per affrontare la<br />

grave piaga della disoccupazione. Furono aperti nuovi cantieri di lavoro per ricostruire i ponti sul fiume<br />

Adige, abbattuti durante la guerra, ed altre infrastrutture colpite <strong>da</strong>i numerosi bombar<strong>da</strong>menti. All’opera di<br />

ricostruzione portò il proprio prezioso contributo anche il "Consorzio della provincia e dei comuni" (risorto a<br />

Trento fin <strong>da</strong>l giugno 1946, dopo la soppressione voluta <strong>da</strong>l fascismo), che provvide ad accelerare le pratiche<br />

dei vari comuni per ottenere <strong>da</strong>llo Stato sovvenzioni e finanziamenti nell’attività edilizia.<br />

Come eredità degli anni della guerra rimanevano ancora il mercato nero e l’aumento dei prezzi: due<br />

fenomeni negativi che colpivano la popolazione <strong>trentina</strong> e che la Giunta regionale si impegnò a combattere<br />

con ogni mezzo attraverso una politica di controllo sulla produzione di merci e di sostegno all’iniziativa<br />

privata.<br />

Sotto il profilo politico, si può ben dire che le prime due legislature della Regione trascorsero in un clima di<br />

grande operosità, senza gravi conflitti. "Numerose volte – scrive lo storico Alfredo Canavero – le<br />

deliberazioni furono prese all’unanimità o con la sola opposizione dei rappresentanti missini. Le polemiche<br />

erano nel complesso contenute, anche se non mancarono momenti di attrito".<br />

Queste polemiche si rivolsero in prevalenza contro i rappresentanti del governo centrale e la burocrazia, che<br />

frenavano la crescita dell’autonomia nella regione. Su questo fronte si trovarono uniti sia trentini che<br />

sudtirolesi, come pure i rappresentanti delle opposizioni: tutti insieme esprimevano anche gli orientamenti<br />

dell’opinione pubblica locale, in un momento storico in cui i partiti politici erano ancora capaci di svolgere<br />

un’azione mediatrice e di creare attorno ai loro programmi largo consenso, a volte sostenuto anche <strong>da</strong> una<br />

forte componente ideologica. Per questo motivo la vita delle istituzioni politiche locali era seguita con vivo<br />

interesse <strong>da</strong> parte della gente, che partecipò a varie manifestazioni pubbliche e ad altre iniziative promosse<br />

<strong>da</strong>i partiti e <strong>da</strong>lle amministrazioni autonomistiche.<br />

Anche la stampa locale, pur in una veste editoriale dimessa, riusciva ad avere molti lettori tra la popolazione<br />

<strong>trentina</strong>, in quanto <strong>da</strong>va voce alle proteste dell’opinione pubblica e dell’ente regionale contro le lentezze del<br />

potere centrale e contro la burocrazia, che interveniva troppo spesso per rallentare un effettivo esercizio<br />

democratico dell’autonomia. Articoli molto aspri, ad esempio, apparvero sulla stampa locale contro la<br />

commissione romana incaricata di definire le norme di attuazione dello statuto di autonomia, che soltanto nel<br />

luglio 1951 riuscì a varare una prima serie di norme, malgrado le molte insistenze e sollecitazioni anche <strong>da</strong><br />

parte del Capo del governo Degasperi. Altro esempio del prevalere del centralismo romano era costituito <strong>da</strong>l<br />

comportamento del Commissario del governo, il quale negli ultimi mesi del 1949 rinviò ben sette delle nove<br />

leggi approvate <strong>da</strong>l Consiglio regionale, suscitando, come era naturale, vibrate proteste e indignazione in vari<br />

ambienti della società <strong>trentina</strong>.<br />

Se dunque in quei primi anni della gestione autonomistica la lotta contro il centralismo statale riuscì a creare<br />

una notevole soli<strong>da</strong>rietà sia all’interno del Consiglio regionale, sia tra la popolazione civile e le istituzioni<br />

pubbliche locali, altri problemi, al contrario, misero in evidenza le diversità ideologiche tra i partiti politici,<br />

anche se poi esse an<strong>da</strong>vano ad incidere in maniera non molto pesante sull’opinione pubblica <strong>trentina</strong>, che<br />

rivelava una certa compattezza ed omogeneità.<br />

Benché i primi 25 anni del secondo dopoguerra, secondo la definizione dello storico inglese Eric J.<br />

Hobsbawm, abbiano rappresentato per il mondo occidentale "l’età dell’oro", per la straordinaria crescita<br />

dell’economia e per un diffuso benessere sociale, tuttavia proprio in quel periodo il mondo precipitò in quella<br />

che può essere considerata a ragione come una terza guerra mondiale, sia pure di carattere particolare, ossia<br />

la cosiddetta "guerra fred<strong>da</strong>", provocata <strong>da</strong> una precedente definizione delle sfere di influenza tra i paesi<br />

liberal-democratici dell’Occidente e quelli a sistema politico comunista dell’Est. Si <strong>tratta</strong> di una situazione<br />

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storica paradossale, in cui a un progresso economico e sociale corrispose la grande paura di uno scontro<br />

sempre possibile, anzi imminente, che avrebbe portato alla distruzione di tutta l’umanità. Questo scenario<br />

veniva spesso delineato con toni apocalittici e ingigantito <strong>da</strong> motivazioni ideologiche, che dividevano il<br />

mondo sulla base di un perfetto "bipolarismo", assegnando i ruoli dei buoni e dei cattivi a secon<strong>da</strong><br />

dell’angolo visuale <strong>da</strong> cui veniva vista la società.<br />

Su questa mentalità ebbe grande influenza anche il motivo religioso. Soprattutto in Italia e nel Trentino, le<br />

notizie che arrivavano <strong>da</strong>ll’Est europeo e che riferivano della massiccia opera di scristianizzazione attuata<br />

<strong>da</strong>l regime stalinista non potevano lasciare indifferente la grande massa dei cattolici e la Chiesa. Perciò<br />

venne avviata tutta una serie di iniziative per creare una barriera insormontabile contro il comunismo, sia<br />

nella sua versione sovietica che in quella nazionale-togliattiana, che però in definitiva, almeno in quegli anni,<br />

non era per nulla diversa <strong>da</strong>lla prima.<br />

Nel clima della guerra fred<strong>da</strong>, anche in Trentino non mancarono momenti di tensione. Già la campagna<br />

elettorale del 18 aprile 1948 per le elezioni politiche aveva visto la <strong>net</strong>ta contrapposizione tra i due blocchi<br />

dei socialcomunisti <strong>da</strong> una parte e dei democratici cristiani <strong>da</strong>ll’altra, anche se poi i risultati si rivelarono<br />

ampiamente favorevoli a questi ultimi (71,91%). "Era tempo di nemici, non di avversari", scrisse con amara<br />

ironia lo storico comunista Paolo Spriano, proprio per sottolineare l’asprezza di quel confronto. Come<br />

conseguenza di quell’appuntamento elettorale, chiaramente segnato <strong>da</strong> motivazioni ideologiche, si può<br />

ricor<strong>da</strong>re la grave tensione provocata in Italia <strong>da</strong>ll’attentato a Palmiro Togliatti il 14 luglio 1948, che portò il<br />

Paese sull’orlo di una guerra civile. In Trentino, invece, la popolazione conservò la calma e anche la<br />

partecipazione allo sciopero generale indetto per quella occasione non fu massiccia, ma piuttosto scarsa o del<br />

tutto assente come avvenne nelle valli. La stampa locale valutò positivamente il comportamento dei trentini,<br />

attribuendolo al fatto che essi avevano preso coscienza di essere in parte diversi <strong>da</strong>l resto degli italiani poiché<br />

si sentivano partecipi di un sistema autonomistico.<br />

La conseguenza più grave, invece, di quell’episodio fu la rottura dell’unità sin<strong>da</strong>cale, che in Trentino si<br />

verificò il 6 agosto 1948, quando i rappresentanti della corrente cristiana furono espulsi <strong>da</strong>lla Camera<br />

confederale del Lavoro (il sin<strong>da</strong>cato unico, CGIL, sorto subito dopo la guerra), perché non avevano<br />

partecipato allo sciopero generale indetto per protestare contro l’attentato a Togliatti. Da allora, anche con il<br />

contributo attivo delle ACLI (nate in Trentino nel 1946), i sin<strong>da</strong>calisti cristiani si impegnarono nella<br />

costruzione di un sin<strong>da</strong>cato libero che ufficialmente nacque il 1° maggio 1950 e si chiamò "Confederazione<br />

italiana sin<strong>da</strong>cati dei lavoratori"- CISL.<br />

Il "Piano Marshall", che prevedeva una serie di aiuti degli USA ad alcuni stati europei per facilitarne la<br />

ricostruzione postbellica, e l’adesione dell’Italia al "Patto Atlantico" nel 1949 rappresentarono due eventi di<br />

cui anche in Trentino si sentì l’importanza vitale. Per questo motivo una mostra, che a Trento illustrava i<br />

progetti e le realizzazioni del Piano, in pochi giorni ebbe un numero considerevole di visitatori, mentre il<br />

dibattito sulla scelta di campo politico non mancò a volte di toccare momenti di polemica, con vivaci<br />

contraddittori pubblici tra i rappresentanti politici dei due schieramenti, anche se la sinistra in Trentino si<br />

trovava in <strong>net</strong>ta minoranza. Tutto sommato però in quel primo periodo di vita autonomistica la società<br />

<strong>trentina</strong> si presentava piuttosto omogenea, sia per orientamento politico che per stili di vita. Il Trentino, come<br />

osservò Guido Piovene nel suo fortunato libro Viaggio in Italia, stava crescendo tra le sue piccole speranze<br />

realizzate.<br />

A questa coesione contribuì anche la Chiesa locale, che attirò attorno alle proprie iniziative larghe schiere di<br />

giovani e di cattolici. Le processioni pubbliche, le inaugurazioni di nuove chiese, la cura dei chierici che in<br />

numero sempre molto alto venivano ordinati ogni anno sacerdoti, la crociata per il "Grande Ritorno", ossia<br />

"per la conversione dei comunisti mediante la carità e la dolcezza", la vita che pulsava attorno agli oratori<br />

anche nei paesi più sperduti della provincia e molte altre iniziative <strong>da</strong>vano l’immagine di una Chiesa forte e<br />

compatta, punto di riferimento anche per le autorità politiche e non ancora percorsa <strong>da</strong>i fermenti di<br />

rinnovamento degli anni successivi.<br />

Accanto ai meriti indiscutibili delle prime Giunte regionali gui<strong>da</strong>te <strong>da</strong> Odorizzi (la legislatura allora durava<br />

quattro anni), non va dimenticato anche qualche fallimento, fra cui è necessario ricor<strong>da</strong>re quello<br />

dell’emigrazione cilena, programmata e appoggiata <strong>da</strong>lla Regione nel febbraio 1951, che per vari motivi si<br />

trasformò in un’esperienza negativa per gli emigrati trentini, molti dei quali già agli inizi del 1954 iniziarono<br />

a fare ritorno in patria, dopo anni di disagi e di sofferenze.<br />

Il Trentino tra crisi politica e "miracolo economico"<br />

Il clima pacifico che nei primi tempi aveva caratterizzato la vita della Regione autonoma, alla metà degli<br />

151


anni Cinquanta iniziò a deteriorarsi per vari motivi. Sul piano internazionale e nazionale accaddero alcuni<br />

fatti che ebbero ripercussioni negative anche sulla vita della Regione. Anzitutto bisogna ricor<strong>da</strong>re che nel<br />

1954 la Germania federale era entrata a far parte del Patto Atlantico, ponendo le basi per una sua rinascita<br />

politica ed economica. A questa Germania, di nuovo forte e prosperosa, iniziò a guar<strong>da</strong>re l’Austria, che a sua<br />

volta il 15 maggio 1955 era riuscita a ottenere il Trattato di Stato, liberandosi in questo modo <strong>da</strong>l controllo<br />

degli Alleati. Il nuovo governo austriaco, formatosi nel giugno 1956 e gui<strong>da</strong>to <strong>da</strong> Julius Raab, avviò passi<br />

diplomatici formali presso il governo italiano chiedendo che le disposizioni dell’Accordo di Parigi del 1946<br />

a favore dei sudtirolesi fossero attuate in maniera completa; e per questo motivo all’interno del governo<br />

austriaco venne creata la carica particolare di sottosegretario agli Esteri per gli affari sudtirolesi affi<strong>da</strong>ta a<br />

Franz Gschnitzer, uno dei capi del "Berg Isel Bund", un’associazione fon<strong>da</strong>ta ad Innsbruck nel marzo 1954 e<br />

in breve tempo passata su posizioni oltranziste nella difesa delle richieste degli altoatesini di lingua tedesca.<br />

L’Austria, dunque, come nota lo storico Pietro Pastorelli, aveva decisamente scelto la politica della<br />

"rivendicazione" nei confronti dell’Italia riguardo alla questione dell’Alto Adige. Ma anche in Italia stavano<br />

emergendo correnti nazionalistiche, favorite <strong>da</strong>lla spinosa questione di Trieste, la città ancora contesa tra<br />

Italia e Jugoslavia. Nel momento culminante delle <strong>tratta</strong>tive con gli Alleati, il nuovo presidente del<br />

Consiglio, Giuseppe Pella, affermò che l’unico sistema democratico per risolvere la questione di Trieste era<br />

quello del plebiscito. Questo creò forti on<strong>da</strong>te di emozione collettiva in Italia, ma anche la reazione dei<br />

deputati sudtirolesi in Parlamento, i quali affermarono che se il plebiscito valeva per Trieste avrebbe dovuto<br />

valere anche per l’Alto Adige. Da quel momento, sia in Alto Adige che al di là del Brennero, ripresero vita le<br />

correnti più oltranziste, che tornarono a rivendicare per i sudtirolesi il diritto all’autodecisione<br />

(Selbstbestimmung), accusando la classe politica <strong>trentina</strong> di aver sempre governato senza tener conto delle<br />

richieste dei sudtirolesi. Anzi il canonico Michael Gamper, assai stimato e quasi venerato <strong>da</strong>lla popolazione<br />

sudtirolese come un "padre della Patria", nell’anniversario della marcia fascista su Roma, il 28 ottobre 1953<br />

aveva addirittura parlato di Todesmarsch (marcia della morte) per il Sudtirolo e di genocidio, ricor<strong>da</strong>ndo il<br />

progressivo impoverimento economico ed etnico della provincia di Bolzano.<br />

Gli esponenti della Volkspartei iniziarono ad esprimere in maniera sempre più forte la loro insoddisfazione,<br />

accusando soprattutto il presidente Odorizzi di comportarsi come un "prefetto di Roma" e denunciando la<br />

classe politica <strong>trentina</strong> di aver amministrato la Regione senza tener conto dei bisogni della minoranza<br />

sudtirolese, facendosi forte della maggioranza numerica in Consiglio regionale. In realtà, anche con il favore<br />

di mutamenti internazionali, fra i sudtirolesi stava riemergendo la vecchia nostalgia per l’autodecisione,<br />

sopita fino allora sotto le forme, accattivanti e anche, almeno fino allora, rassicuranti, dell’autonomia<br />

regionale.<br />

Di fronte a questa nuova situazione, la classe politica <strong>trentina</strong> non brillò certamente per lungimiranza e<br />

capacità di mediazione, a parte poche iniziative assunte isolatamente <strong>da</strong> qualche uomo politico o<br />

rappresentante del mondo ecclesiale. Formalmente tutto si giocò attorno al famoso articolo 14 del primo<br />

statuto di autonomia, che così recitava: "La Regione esercita normalmente le funzioni amministrative<br />

delegandole alle Province, ai comuni e ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici". La Volkspartei<br />

considerava questo articolo come base di un’autonomia di tipo provinciale, per cui continuava a chiedere<br />

deleghe per la provincia di Bolzano; il presidente Odorizzi, invece, partendo <strong>da</strong> un’interpretazione<br />

sottilmente giuridica di quell’articolo, in realtà lo svuotava di ogni potenzialità concreta. Quando dopo varie<br />

schermaglie si decise di fare ricorso alla Corte Costituzionale, essa riconobbe che la ragione stava <strong>da</strong>lla parte<br />

di Odorizzi. Ma questa decisione inasprì ancora di più il conflitto fra trentini e sudtirolesi. La Volkspartei<br />

accusò la classe politica <strong>trentina</strong>, e in particolare la Democrazia Cristiana, di non voler applicare l’articolo 14<br />

dello statuto e pertanto poco per volta si disimpegnò <strong>da</strong>l governo regionale. Nel 1955 fu l’assessore<br />

sudtirolese Hans Dietl ad uscire <strong>da</strong>lla Giunta regionale. Il 17 novembre 1957, dopo i primi attentati<br />

terroristici, il partito sudtirolese organizzò una massiccia manifestazione di protesta a Castelfirmiano,<br />

chiedendo a chiare lettere la separazione di Bolzano <strong>da</strong> Trento (molti cartelli recavano la scritta Los von<br />

Trient, "via <strong>da</strong> Trento"). I tempi delle cortesie stavano per finire. Infatti nel febbraio del 1959 i rappresentanti<br />

sudtirolesi uscirono <strong>da</strong>lla Giunta regionale e passarono all’opposizione. In questo modo il sogno di<br />

Degasperi e di Gruber di creare una pacifica convivenza tra i gruppi linguistici della regione Trentino-Alto<br />

Adige, dopo dieci anni si era già infranto.<br />

Come stava accadendo per il mondo occidentale sotto la cappa della "guerra fred<strong>da</strong>", così anche a questo<br />

grave periodo di crisi per la Regione corrispose paradossalmente un periodo di progresso sul piano<br />

economico. Lo storico sudtirolese Claus Gatterer parla a questo propo<strong>sito</strong> di "indisturbata normalità",<br />

alludendo al fatto che alla fine degli anni Cinquanta, in piena crisi politica, in regione erano arrivate le prime<br />

152


on<strong>da</strong>te del cosiddetto "miracolo economico", che aveva interessato il resto dell’Italia già negli anni del<br />

centrismo degasperiano, ma che raggiunse il suo apice soprattutto come conseguenza dell’avvio del processo<br />

di industrializzazione.<br />

Lo sviluppo industriale in Trentino avvenne con un certo ritardo rispetto al resto dell’Italia. A favorirlo<br />

furono senza dubbio la presenza di abbon<strong>da</strong>nte manodopera e la vicinanza con i centri di produzione dell’alta<br />

Italia e con i mercati centroeuropei. Non si può inoltre dimenticare il clima sin<strong>da</strong>cale relativamente<br />

tranquillo, ma soprattutto l’intervento dell’ente pubblico regionale che portò un sostegno diretto e sostanziale<br />

allo sviluppo dell’industria. Ancora sotto la gui<strong>da</strong> di Odorizzi e poi con la successiva Giunta di Luigi Dalvit<br />

nel 1961, furono presi provvedimenti importanti in questo senso, come ad esempio l’approvazione della<br />

legge sulle azioni al portatore, con la quale si intendeva attirare nella provincia capitali e imprenditori <strong>da</strong><br />

altre regioni, l’istituzione del Mediocredito per il finanziamento delle medie e piccole imprese, l’offerta a<br />

prezzo ridotto dell’energia elettrica alle nuove industrie, i notevoli contributi concessi ai comuni e ad altri<br />

enti pubblici per l’acquisto e l’apprestamento di aree destinate agli investimenti industriali, la progettazione<br />

dell’autostra<strong>da</strong> del Brennero, cui era legata anche la proposta, lasciata poi cadere, del traforo del Brennero.<br />

Anche per quanto riguar<strong>da</strong> la vita sociale, i primi anni Sessanta in Trentino portarono una ventata di novità.<br />

Il tenore di vita migliorò in maniera sensibile. Molti trentini impiegavano il tempo libero sfruttando le nuove<br />

forme di divertimento (l’uso dell’automobile, il nuovo ballo del Rock and roll reso celebre <strong>da</strong> Elvis Presley,<br />

le vacanze all’estero, la mo<strong>da</strong> giovanile con il lancio dei blue jeans, gli sport invernali favoriti <strong>da</strong>ll’apertura<br />

di vari impianti di risalita), tanto che un’in<strong>da</strong>gine dell’Istat definiva Trento come città "quasi ricca". Come<br />

nel resto d’Italia, anche nel Trentino insomma si viveva con grande ottimismo nel clima del "miracolo<br />

economico" o del Welfare State, nel senso che il benessere portato <strong>da</strong>lla tecnica e <strong>da</strong>lla produzione<br />

industriale aveva delle ricadute positive anche sulla classe media della popolazione, favorito <strong>da</strong> un sistema<br />

politico che sul piano nazionale aveva scelto l’apertura alla sinistra moderata e riformista.<br />

La Regione autonoma, invece, stava procedendo tra difficoltà sempre maggiori, anche perché l’Austria aveva<br />

posto la vertenza dell’Alto Adige all’attenzione internazionale con un duplice intervento all’ONU nel 1960 e<br />

nel 1961, in cui chiedeva l’allargamento di poteri per la provincia di Bolzano. La risposta dell’organismo<br />

internazionale riman<strong>da</strong>va ogni decisione alla buona volontà dei due Stati interessati alla questione, per cui <strong>da</strong><br />

allora tra Italia ed Austria prenderanno il via nuovi negoziati bilaterali, malgrado l’intensificarsi degli<br />

attentati, che culmineranno nella "notte dei fuochi" dell’11 giugno 1961 (in una sola notte si verificarono in<br />

Alto Adige ben 47 attentati; in totale gli attentati compiuti in dieci anni saranno 323 con 23 morti). Come<br />

scrive Pastorelli, insomma, dopo la fase della "rivendicazione", stava per iniziare quella della "conciliazione"<br />

tra Italia ed Austria per risolvere la questione sudtirolese.<br />

La fase della "conciliazione": due case sotto uno stesso tetto<br />

A Roma il 13 settembre 1961 il presidente del Consiglio Mario Scelba insediò una commissione di 19<br />

esperti, composta <strong>da</strong>i rappresentanti del governo italiano, dei partiti trentini, degli altoatesini e dei ladini, che<br />

aveva il compito di rivedere lo statuto del 1948, adeguandolo alle nuove richieste. La commissione lavorò tre<br />

anni in maniera molto intensa, compiendo frequenti viaggi nella regione per incontrare gli esponenti locali<br />

della vita politica e civile e discutere con loro una nuova forma possibile dell’autonomia. Al termine di<br />

questo lungo lavoro, nel maggio 1964, la commissione presentò al governo italiano una lunga relazione, che<br />

in sostanza prevedeva il mantenimento dell’ente regionale, come elemento di raccordo tra le due province di<br />

Trento e di Bolzano, anche se alle due province venivano delegate molte competenze in vari settori.<br />

Nel settembre 1966 il governo italiano, presieduto <strong>da</strong> Aldo Moro, dopo una fitta serie di colloqui bilaterali<br />

con Vienna, approvò una serie di misure, passate sotto il nome un po’ singolare di "Pacchetto", che<br />

modificavano in maniera sostanziale lo statuto originario dell’autonomia.<br />

Le norme del Pacchetto recepivano fon<strong>da</strong>mentalmente le proposte della commissione dei 19, in quanto molte<br />

competenze venivano trasferite <strong>da</strong>lla Regione alle due province di Trento e di Bolzano, anche se l’ente<br />

regionale non era del tutto svuotato delle sue prerogative. Come allora si disse, la Regione venne ristrutturata<br />

in maniera <strong>da</strong> creare due case sotto uno stesso tetto.<br />

Il Pacchetto si concludeva con un "calen<strong>da</strong>rio operativo", che definiva modi e tempi della realizzazione delle<br />

nuove disposizioni. Innanzi tutto an<strong>da</strong>va elaborato e promulgato <strong>da</strong>llo stato italiano un nuovo statuto di<br />

autonomia. In secondo luogo si sarebbe formata una commissione di dodici membri per stendere le norme di<br />

attuazione del nuovo statuto di autonomia, che avrebbero dovuto essere emanate entro due anni <strong>da</strong>lla sua<br />

approvazione. Infine, dopo il varo dell’ultima norma, l’Austria, riconosciuta Paese tutore dell’Alto Adige,<br />

avrebbe dovuto rilasciare la cosiddetta "quietanza liberatoria", che avrebbe posto fine alla controversia<br />

153


dell’Alto Adige, oggetto delle risoluzioni dell’ONU.<br />

Mentre tra Roma, Vienna e Bolzano si veniva delineando un preciso triangolo diplomatico, a Trento negli<br />

ambienti politici crescevano i timori per un’emarginazione del Trentino <strong>da</strong>l quadro istituzionale<br />

dell’autonomia. A questi timori però rispose in maniera energica Bruno Kessler, nominato nel 1960<br />

presidente della Giunta provinciale di Trento, che impresse alla sua amministrazione un impulso decisivo<br />

sulla via della modernizzazione, tanto <strong>da</strong> far scrivere alla stampa che il Trentino, come l’America di John<br />

Kennedy, si stava muovendo verso una "nuova frontiera" di benessere e di crescita culturale. Da allora si<br />

iniziò a parlare di programmazione economica ed urbanistica, che coinvolse illustri docenti universitari,<br />

incaricati di elaborare il "Piano urbanistico provinciale" (PUP), allo scopo di programmare lo sviluppo del<br />

territorio sulla base delle risorse e dell’aumento della popolazione, proprio in un momento storico in cui il<br />

"boom" stava raggiungendo il suo apice, mettendo tuttavia in evidenza anche i primi segnali negativi, che<br />

allora significavano caos edilizio, inquinamento, degrado ambientale, consumismo esagerato, di cui si iniziò<br />

a dibattere anche sulla stampa. Dopo lunghe discussioni in aula, il PUP venne approvato nel settembre 1967<br />

e nello stesso anno nacquero anche i comprensori – primi in Italia – che raggruppavano i paesi di una stessa<br />

valle (ora ve ne sono 11) e che avevano la funzione di razionalizzare le spese della Provincia per gli<br />

investimenti soprattutto nel campo della sanità, della medicina di fabbrica, dell’edilizia popolare e<br />

dell’organizzazione scolastica. Molti trentini, a dire il vero, non considerarono il comprensorio come<br />

elemento rappresentativo della propria <strong>storia</strong> e come strumento necessario per la crescita civile alla pari, ad<br />

esempio, del comune, bensì come una sovrastruttura; perciò si accesero vivaci dibattiti anche tra la<br />

popolazione, segno dell’intensità con cui venivano sentiti taluni problemi.<br />

Molto più estesa e partecipata fu, invece, la discussione sul progetto di creare a Trento l’università. La<br />

"voglia di università" aveva radici lontane, risalendo ai tempi della scuola di giurisprudenza fon<strong>da</strong>ta a Trento<br />

<strong>da</strong> Calepino dei Calepini nel XV secolo e poi al tentativo del cardinale Cristoforo Madruzzo di erigere uno<br />

"studium generale" a Trento nel 1553, fino all’importante cattedra di Diritto civile tenuta, sempre a Trento,<br />

<strong>da</strong> Carlo Antonio Pilati e <strong>da</strong> altri insigni docenti nell’epoca illuministica e soprattutto alle lotte sostenute <strong>da</strong>i<br />

trentini fra Otto e Novecento per la creazione di una università italiana in Austria.<br />

Nel secondo dopoguerra si era tentato di supplire a questa mancanza con l’istituzione di corsi estivi<br />

dell’università cattolica di Milano al Passo della Mendola (marzo 1954) e con la creazione a Trento di un<br />

Centro studi dell’università di Bologna (maggio 1954), dove si tenevano periodicamente cicli di conferenze<br />

su temi a carattere culturale.<br />

L’impulso determinante per elaborare un progetto organico di università venne <strong>da</strong>to però <strong>da</strong>lle circostanze<br />

politiche legate al problema dell’autonomia. Come ricordò lo stesso Kessler, quando l’autonomia speciale di<br />

tipo regionale entrò in crisi, lasciando prevedere attraverso il Pacchetto la piena autonomia concessa alla<br />

provincia di Bolzano, allora agli amministratori del Trentino si pose il grave problema di evitare per la loro<br />

provincia la caduta di prestigio cui Trento sarebbe an<strong>da</strong>ta incontro con lo smembramento della regione. Da<br />

qui l’impegno per la realizzazione dell’università, che avrebbe dovuto non solo far lievitare culturalmente la<br />

società <strong>trentina</strong>, ma anche distinguersi <strong>da</strong>gli altri atenei italiani per la novità della proposta e per il piano<br />

degli studi. Per questi motivi venne scelta come prima facoltà quella di Sociologia. La figura del sociologo,<br />

infatti, era nuova nel panorama culturale italiano.<br />

Il 27 luglio 1962 il Consiglio provinciale approvò il disegno di legge che creava l’ITC (Istituto trentino di<br />

cultura), un organismo appoggiato <strong>da</strong> vari soci fon<strong>da</strong>tori, che avrebbe dovuto garantire all’università <strong>trentina</strong><br />

la sua autonomia amministrativa. Qualche giorno dopo, il 31 luglio, con un solo voto contrario e<br />

un’astensione, venne approvato anche il disegno di legge che <strong>da</strong>va il via al "Libero Istituto di Scienze<br />

Sociali", inaugurato solennemente il 14 novembre, alla presenza dei più bei nomi del mondo accademico<br />

nazionale e in un’atmosfera di goliardia contenuta.<br />

Ben presto però tra la popolazione locale iniziarono a manifestarsi perplessità e diffidenze nei confronti<br />

dell’università, sia per la mancata definizione degli sbocchi professionali, sia per il crescente afflusso di<br />

giovani provenienti <strong>da</strong> fuori, che creavano qualche problema alla tranquilla vita di provincia. Di lì a pochi<br />

anni, queste diffidenze si tramuteranno in aperta ostilità, quando cioè gli studenti, anche a causa degli eventi<br />

politici nazionali ed internazionali, <strong>da</strong>ranno inizio alla cosiddetta "contestazione globale" al sistema.<br />

La posizione della Chiesa <strong>trentina</strong><br />

Nella questione dell’autonomia regionale, alla metà degli anni Sessanta, un elemento di dinamismo venne<br />

portato <strong>da</strong>lla Chiesa <strong>trentina</strong>. L’arcivescovo Carlo de’ Ferrari negli anni della crisi della Regione non aveva<br />

assunto posizioni ufficiali, mentre per cercare una mediazione fra trentini e sudtirolesi erano intervenuti altri<br />

154


esponenti del mondo cattolico trentino, come ad esempio don Giulio Delugan, direttore del settimanale<br />

diocesano "Vita <strong>trentina</strong>", o Luigi Menapace, primo presidente del Consiglio regionale, e qualche altro<br />

rappresentante della Democrazia Cristiana <strong>trentina</strong>, più disponibile al dialogo con i sudtirolesi per cercare di<br />

uscire <strong>da</strong>ll’impasse istituzionale e per evitare un ulteriore inasprimento del clima di convivenza.<br />

Quando l’arcivescovo de’ Ferrari si ammalò gravemente, tanto <strong>da</strong> essere impedito nella gui<strong>da</strong> della diocesi<br />

(morirà nel dicembre 1962), nel febbraio 1961 <strong>da</strong> Roma venne nominato amministratore apostolico di Trento<br />

il vescovo di Bressanone Joseph Gargitter, che già qualche anno prima era intervenuto in maniera molto<br />

equilibrata sia per deplorare gli attentati terroristici, sia per appoggiare le rivendicazioni dei sudtirolesi nella<br />

difesa della propria identità. A Trento la nomina di Gargitter, tuttavia, venne accolta con molto stupore. Tra i<br />

politici locali la si riteneva una mossa che avrebbe <strong>da</strong>nneggiato i trentini; negli ambienti più riservati della<br />

Curia <strong>trentina</strong> si temeva che il vescovo di Bressanone ambisse anche alla cattedra di S. Vigilio, mentre<br />

invece si sperava nella nomina di un vescovo locale (assai benvoluto era il vescovo ausiliare Oreste Rauzi).<br />

Ma Gargitter non pensava a questo. Il suo obiettivo era quello di ridefinire i confini della diocesi altoatesina,<br />

visto che la diocesi <strong>trentina</strong> comprendeva anche parte dell’Alto Adige, cioè tutta la zona mistilingue,<br />

Bolzano e una parte della Val Venosta. La questione dei decanati tedeschi appartenenti alla diocesi di Trento<br />

era stata sollevata ancora nel 1920 <strong>da</strong>l vescovo trentino Celestino Endrici, che aveva suggerito alle autorità<br />

italiane di aggregare quei decanati alla diocesi di Bressanone, suscitando le ire dei nazionalisti trentini. Nel<br />

breve periodo del suo man<strong>da</strong>to, anche Gargitter fece pressione sul patriarca di Venezia e sulle autorità<br />

romane perché fosse creata una diocesi altoatesina omogenea, ridisegnando i confini delle due diocesi.<br />

Il 12 maggio 1963 fece il suo solenne ingresso nella diocesi di Trento il vescovo Alessandro Maria Gottardi,<br />

proveniente <strong>da</strong> Venezia, ma di origini trentine. Il nuovo vescovo all’inizio, malgrado i frequenti scambi di<br />

opinione con il presule di Bressanone, non pensava ancora al cambiamento dei confini della diocesi; anzi si<br />

riteneva a tutti gli effetti vescovo anche di Bolzano, dove si recava ogni settimana per incontrare sacerdoti e<br />

fedeli, con i quali si intendeva attraverso "il linguaggio dell’amore" più che parlando in tedesco, non essendo<br />

egli bilingue. Questo fatto creava malumori e preoccupazioni tra i cattolici di lingua tedesca dell’Alto Adige.<br />

Gargitter, <strong>da</strong> parte sua, continuò a sostenere nelle sedi competenti il progetto di rivedere i confini delle due<br />

diocesi, trovando però ostilità ed ostacoli sia a Trento che a Roma, dove addirittura ad un certo momento si<br />

pensò di creare una diocesi di Bolzano, che avrebbe sostituito o affiancato quella di Bressanone, cancellando<br />

in questo modo secoli di <strong>storia</strong>.<br />

Dopo mesi di febbrili e concitate <strong>tratta</strong>tive, il 6 agosto 1964 due bolle pontificie stabilivano la nascita della<br />

diocesi di Bolzano-Bressanone, alla quale venivano aggregati i territori abitati <strong>da</strong> popolazioni mistilingui<br />

prima appartenenti alla diocesi tridentina. Il provvedimento suscitò qualche sorpresa e malumori diffusi in<br />

vari ambienti: a Trento venne ritenuto come un cedimento ai sudtirolesi, mentre altri, con un po’ di<br />

romanticismo, rimpiangevano i tempi in cui presso il seminario teologico di Trento venivano a studiare i<br />

chierici di Bressanone, favorendo perciò il dialogo e una certa apertura di orizzonti; a Bressanone invece si<br />

guar<strong>da</strong>va con preoccupazione allo spostamento della sede episcopale a Bolzano, mentre altre perplessità<br />

erano dovute alla "retrocessione" di Bressanone come sede suffraganea di Trento, e al distacco dei territori<br />

ladini di Cortina e di Livinallongo <strong>da</strong>lla diocesi sudtirolese.<br />

A parte il modo non sempre lineare con cui era stata portata avanti la vicen<strong>da</strong> e le ferite procurate, che<br />

rimarranno aperte per qualche tempo, i decreti del 1964 sulla ridefinizione dei confini delle due diocesi<br />

assunsero ben presto anche un significato politico molto importante, come modello di riferimento per<br />

riportare la pace tra i due gruppi linguistici. In effetti facendo coincidere i confini delle due diocesi con quelli<br />

linguistici della popolazione, la Chiesa intendeva offrire un suggerimento <strong>da</strong> tradurre anche sul piano politico<br />

ed amministrativo, come poi sarebbe avvenuto di lì a breve con il Pacchetto.<br />

La società <strong>trentina</strong> nell'età dei grandi mutamenti<br />

Nella secon<strong>da</strong> metà degli anni Sessanta, il mondo occidentale, che aveva attraversato una fase di grande<br />

sviluppo e di diffuso benessere, sembrò quasi avviarsi verso un periodo di "frana", come la definisce sempre<br />

Hobsbawm, dovuto all’inasprimento della guerra del Vietnam, allo scoppio di altre guerre come quella dei<br />

"sei giorni" tra paesi arabi ed Israele (1967), alla cosiddetta "contestazione studentesca" e alla "primavera di<br />

Praga" repressa nel sangue (1968), alla protesta operaia dell’autunno caldo (1969), al dopoconcilio e<br />

all’inizio della "strategia della tensione" (1969): tutti fenomeni legati al processo di trasformazione sociale e<br />

di mutamento culturale che aveva coinvolto soprattutto il mondo a capitalismo avanzato dell’Occidente.<br />

Per alcuni di questi cambiamenti, Trento si trovò in prima linea. La scelta dell’industrializzazione aveva<br />

provocato gravi dissesti nell’economia agricola della provincia. Nel febbraio 1964 c’era stata anche una<br />

155


clamorosa protesta di quattro mila contadini per il crollo del prezzo delle patate. Scesi <strong>da</strong>lle valli, erano<br />

sfilati per le vie di Trento scagliandosi contro la Regione, accusata di scarsa sensibilità nei confronti dei<br />

problemi del mondo agricolo. Ma anche gli operai trentini non potevano dichiararsi soddisfatti. La crisi<br />

economica del 1965 e l’inflazione avevano fatto svanire poco per volta il loro sogno di benessere, mentre i<br />

sin<strong>da</strong>cati organizzavano le prime massicce mobilitazioni di piazza e lo sciopero generale. A Trento furono<br />

gli operai della SLOI (una fabbrica a nord della città che produceva il tossico piombo tetraetile) a muoversi<br />

per primi, seguiti <strong>da</strong>i colleghi della Michelin e poi via via <strong>da</strong>gli operai delle fabbriche di Rovereto.<br />

Ma la società <strong>trentina</strong> esprimeva inquietudini non solo per le difficoltà economiche. Il Concilio Vaticano II si<br />

era concluso <strong>da</strong> poco tempo e, assieme al fervore del rinnovamento, aveva provocato anche episodi di<br />

contestazione all’interno della Chiesa. A Trento un gruppo di questi "cattolici del dissenso" aveva <strong>da</strong>to vita<br />

nel 1966 alla rivista "Dopoconcilio", dove si an<strong>da</strong>va definendo la nuova figura del "laico-cristiano",<br />

impegnato soprattutto ad affrontare e a discutere i problemi concreti della società, in una prospettiva<br />

secolarizzata della religione. Poco per volta sorsero altri gruppi spontanei e comitati di quartiere, animati <strong>da</strong><br />

giovani cattolici che assumevano posizioni sempre più critiche nei confronti della Chiesa.<br />

Ma l’ambiente più scosso <strong>da</strong>i fermenti e <strong>da</strong>lle tensioni di quegli anni fu senza dubbio quello dell’università e<br />

della scuola. Le proteste innescate contro la legge 2314 della riforma universitaria proposta <strong>da</strong>l ministro<br />

Luigi Gui (nei loro volantini gli studenti ironicamente scrivevano: "Siamo in un mare di gui!"), ben presto si<br />

trasformarono in contestazione verso l’istituzione scolastica nella sua globalità, considerata uno strumento di<br />

dominio nelle mani del potere "borghese". A Trento si iniziò nel gennaio 1966 ad occupare la facoltà di<br />

Sociologia, chiedendo riforme per quanto riguar<strong>da</strong>va il piano degli studi. Negli anni successivi, altre<br />

occupazioni si svolsero in maniera più radicale, fino al gennaio 1968, quando l’università <strong>trentina</strong> rimase<br />

occupata per 67 giorni, coinvolgendo anche qualche scuola superiore della città. I trentini, <strong>da</strong>pprima quasi<br />

disinteressati al fenomeno, si risentirono bruscamente soltanto quando il 26 marzo uno studente intervenne<br />

platealmente nella cattedrale di Trento per interrompere l’omelia quaresimale del padre predicatore (si parlò<br />

allora di "controquaresimale"). Questo episodio scatenò la reazione dei trentini, che qualche giorno dopo<br />

assediarono l’università, obbligando gli studenti a porre fine all’occupazione. Da allora però la facoltà di<br />

Sociologia venne trasformata <strong>da</strong>gli studenti in "università critica", nel senso che essa doveva diventare fucina<br />

di studio del marxismo in tutte le sue versioni storiche, quasi un laboratorio di pensiero per il cambiamento<br />

rivoluzionario della società, svolgendo una "funzione utopica di cervello sociale delle classi subalterne",<br />

come scrivevano con il loro inconfondibile linguaggio gli studenti in un loro documento. In altre parole, la<br />

contestazione <strong>da</strong>lle aule di Sociologia passava sulle strade, entrando nelle aule delle scuole superiori o nei<br />

capannoni delle aziende industriali e diventando anche lotta armata. Iniziava il periodo più caotico della<br />

<strong>storia</strong> italiana e <strong>trentina</strong> fino al termine del secolo.<br />

Silvius Magnago<br />

Nasce a Merano il 5 febbraio 1914. Avvocato, figlio di un magistrato trentino, mamma di madrelingua<br />

tedesca, ha compiuto gli studi in Italia. Optante per la Germania nel 1939 ha combattuto nelle file della<br />

Wehrmacht finendo gravemente ferito sul fronte russo. Vicesin<strong>da</strong>co di Bolzano <strong>da</strong>l 1948 al 1952,<br />

presidente del Consiglio regionale e provinciale tra il 1949 e il 1952, nel 1957 assume la presidenza della<br />

SVP, il partito unico di lingua tedesca dell'Alto Adige /Südtirol. Subito dopo, Magnago trascina il popolo<br />

südtirolese nella grande manifestazione di Castelfirmiano dove, su un palco ornato <strong>da</strong>ll'effigie del Sacro<br />

Cuore, lancia lo slogan Los von Trient, la rottura dell'esperimento regionale e la richiesta di un'autonomia<br />

separata <strong>da</strong> Trento. Dal 1967 al 1989 è presidente della Giunta provinciale di Bolzano, carica che lascia a<br />

Luis Durndwalder. Membro della Commissione dei diciannove, istituita <strong>da</strong>l Governo italiano dopo gli<br />

attentati del 1961 allo scopo di individuare una soluzione concor<strong>da</strong>ta della vertenza altoatesina; <strong>da</strong>lle<br />

misure proposte <strong>da</strong>lla Commissione nasce il “Pacchetto” che Magnago sostiene; solo il suo carisma porta la<br />

SVP ad approvarlo nel 1969 con una maggioranza risicata. Magnago ne segue poi tutte le fasi di attuazione<br />

fino alla quietanza liberatoria rilasciata <strong>da</strong>ll'Austria nel 1992. E' morto nel 2010.<br />

Enrico Pruner (1922-1989)<br />

Nacque a Frassilongo in Val dei Mocheni il 24 gennaio 1922. Si laureò in Scienze Agrarie a Milano. Dopo<br />

aver militato inizialmente nell’ASAR (Associazione Studi Autonomia Regionale), fu, nel 1948, tra i<br />

fon<strong>da</strong>tori del PPTT (Partito del Popolo Trentino Tirolese) del quale nel 1952 divenne segretario politico<br />

provinciale. Quello stesso anno fu eletto consigliere regionale, carica che mantenne ininterrottamente fino<br />

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al 1984. Dal 1960 al 1964 fu assessore regionale per l’economia montana e le foreste. Egli concepì<br />

l’autonomia <strong>trentina</strong> in chiave europea. A metà degli anni ’70 sostenne la proposta di aggiungere alla sigla<br />

PPTT la dizione UE (Unione Europea) nella visione di un’Europa dei popoli e delle regioni alla cui<br />

costruzione avrebbero dovuto tendere autonomisti e federalisti assieme.<br />

Verso un secondo statuto dell'autonomia: le due autonomie provinciali<br />

Sembra strano, ma corrisponde alla verità, il fatto che per la questione<br />

dell’autonomia regionale quegli anni siano stati invece di grande fervore,<br />

pieni di iniziative febbrili, sia sul piano politico che su quello istituzionale.<br />

Dopo l’approvazione del governo italiano, il Pacchetto venne sottoposto<br />

all’attenzione dei rappresentanti sudtirolesi. La Volkspartei il 22 novembre<br />

1969 tenne un Congresso provinciale straordinario a Merano, al termine del<br />

quale una maggioranza piuttosto risicata (52,8%) approvò le norme del<br />

Pacchetto, anche grazie all’appassionata difesa del leader Magnago, che sudò<br />

le proverbiali sette camicie per convincere i suoi ad accettare la proposta del<br />

governo italiano. "È vero – ricorderà poi in un’intervista – al Congresso ho<br />

chiesto di votare sì. Ma ho anche aggiunto che un sì eterno non esiste".<br />

Qualche giorno dopo, anche il Parlamento italiano approvò a larga<br />

maggioranza le norme del Pacchetto, mentre il 16 dicembre la stessa cosa fece il Parlamento austriaco,<br />

sebbene con una maggioranza appena sufficiente. In maniera sempre più incalzante e tempestiva nel tradurre<br />

gli accordi in leggi e decreti, nel gennaio 1970 il governo italiano formò un comitato di nove esperti con il<br />

compito di preparare il secondo statuto, in armonia con i princìpi che avevano ispirato il Pacchetto.<br />

Queste decisioni del governo si inquadravano anche nel fervore per i problemi del decentramento e delle<br />

autonomie regionali che allora avevano interessato gli ambienti politici italiani. Si pensi ad esempio al fatto<br />

che il 16 maggio 1970 era stata approvata una legge sul finanziamento delle regioni e che il successivo 7<br />

giugno si sarebbero tenute le prime elezioni regionali nella <strong>storia</strong> della Repubblica italiana, ottemperando<br />

così al dettato dell’art. 5 della Costituzione.<br />

Nel luglio e agosto 1971 il Parlamento italiano approvò a grande maggioranza la legge che modificava il<br />

vecchio statuto di autonomia del 1948. Dallo schieramento favorevole si astennero solo i liberali, mentre i<br />

missini votarono contro. Finalmente, con decreto del Presidente della Repubblica in <strong>da</strong>ta 31 agosto 1972,<br />

venne promulgato il nuovo statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, composto di 115<br />

articoli. L’aspetto più significativo e nuovo era il fatto che l’autonomia regionale veniva ufficialmente divisa<br />

in due autonomie provinciali, nel senso che la maggior parte delle competenze passava <strong>da</strong>lla Regione alle<br />

due Province autonome di Trento e di Bolzano, pur rimanendo alla Regione funzioni e compiti di raccordo<br />

tra le due Province.<br />

Per la Regione autonoma, ma ancora di più per le due Province di Trento e di Bolzano, si apriva in questo<br />

modo un periodo nuovo che schematicamente si può riassumere ricor<strong>da</strong>ndo i passaggi più importanti.<br />

La definizione delle norme di attuazione dello statuto richiese un lungo lavoro <strong>da</strong> parte di due commissioni<br />

(dei sei e dei dodici), che si concluse solo nel 1992, quando il Parlamento italiano, il 30 gennaio, approvò<br />

l’ultima norma prevista <strong>da</strong>llo statuto. Qualche mese dopo, il 22 aprile, il governo italiano consegnò<br />

all’ambasciatore austriaco a Roma una nota diplomatica in cui si trasmetteva il resoconto della seduta della<br />

Camera dei deputati del 30 gennaio sulla chiusura della vertenza sudtirolese. Superate le diffidenze della<br />

controparte, che chiedeva anche un "ancoraggio internazionale", finalmente il 19 giugno l’Austria rilasciò la<br />

"quietanza liberatoria" sulla questione del Sudtirolo e i due governi di Vienna e di Roma notificarono al<br />

Segretario generale dell’ONU la chiusura della controversia. Il 27 gennaio 1993 il Presidente della<br />

Repubblica italiana, Oscar Luigi Scalfaro, si recò a Vienna in visita ufficiale. Era la prima volta in questo<br />

secolo che ciò avveniva e quel gesto, almeno sul piano diplomatico e storico, significava la fine di un lungo<br />

periodo di "inimicizia ereditaria" e l’inizio di una collaborazione tra i due Paesi, con ricadute positive per la<br />

provincia di Bolzano.<br />

Per quanto riguar<strong>da</strong>, invece, la provincia di Trento, l’importante riforma istituzionale del 1971-72 ebbe<br />

riflessi non del tutto positivi sotto il profilo politico, poiché il Trentino si trovò nella situazione piuttosto<br />

scomo<strong>da</strong> di dover, per così dire, "giustificare" la propria situazione di provincia dotata di autonomia speciale,<br />

come se ciò costituisse un privilegio. D’altra parte nel decennio successivo la società <strong>trentina</strong>, a differenza di<br />

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quella sudtirolese, si andò sempre più uniformando ai mutamenti di costume e di mentalità che avevano<br />

interessato tutta la società italiana e anche quella occidentale a largo raggio, per cui le radici della propria<br />

identità culturale e storica sono an<strong>da</strong>te a poco a poco perdendo di vigore, malgrado gli sforzi <strong>da</strong> varie parti<br />

attuati per far conoscere alle generazioni più giovani la <strong>storia</strong>, le tradizioni, la cultura e tutti gli altri valori di<br />

una comunità un tempo caratterizzata <strong>da</strong> un forte senso di appartenenza.<br />

Certamente tutto ciò è comprensibile in una fase storica di mercato globale e di intensi scambi multietnici.<br />

Eppure, se rimane ancora qualche possibilità di evitare gli aspetti più degra<strong>da</strong>nti del processo di<br />

omologazione culturale e di massificazione, questa forse può essere offerta anche <strong>da</strong> una<br />

riappropriazione cosciente e appassionata della <strong>storia</strong> della propria "piccola patria", rifuggendo<br />

tuttavia <strong>da</strong> ogni forma di chiusura nei particolarismi e nel localismo.<br />

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