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Resisteva, diciamo così, alle sirene della tecnica, soltanto lo spettacolo di prosa<br />
dal vivo con il suo armamentario scenico e la sua attrezzeria pre-industriali, ma<br />
soprattutto l’attore di prosa, hombre vertical, e la sua voce.<br />
Per lunghi periodi della storia del teatro, l’attore è stato considerato<br />
interprete, quando non semplicemente portatore, della parola del poeta. Egli<br />
era principalmente se non esclusivamente voce, phoné. La voce essendo<br />
considerata l’unica dote veramente indispensabile dell’attore (e quella inoltre<br />
che lo nobilitava, assimilandolo all’oratore), è ovvio che la sua preparazione<br />
vertesse principalmente sullo sviluppo della potenza, della duttilità, della<br />
flessibilità e della resistenza degli organi vocali. Fin dall’antichità greca, si ha<br />
notizia di esercizi specifici intesi a questo sviluppo e ancora oggi nelle scuole di<br />
arte drammatica si dedica particolare attenzione a quest’organo (per i francesi,<br />
l’organe per eccellenza): si insegna agli allievi ad emettere il fiato utilizzando<br />
i muscoli del diaframma, per non affaticare eccessivamente le corde vocali e a<br />
variare il colore della voce, impostandola di petto, di gola o di testa. La voce<br />
dell’attore. Un valore.<br />
Io non so se <strong>Aldo</strong> Engheben abbia mai sfogliato il saggio di Benjamin, ma so<br />
per certo che qualsiasi discorso lo riguardi, non può prescindere da questa<br />
premessa. Perché, comunque, le domande che <strong>Aldo</strong> si poneva sul finire<br />
degli anni settanta, erano le stesse del filosofo tedesco: come rendere meno<br />
effimero l’autentico, come documentarlo, come eternare l’attimo? E ancora:<br />
nello statuto dell’immagine, del gesto d’arte, la riproduzione, quale posto<br />
occupa? È gesto blasfemo o legittimo? Ha pari dignità? E l’attore di teatro ha<br />
diritto di lasciare una traccia del suo passaggio affidando voce e gesto alla<br />
strumentazione tecnica?<br />
Certo, queste domande, oggi, fanno davvero sorridere, ma quarant’anni fa<br />
scatenavano passioni e dibattiti senza fine ai quali era difficile sottrarsi. E<br />
così <strong>Aldo</strong>, che diffidava e diffida delle delizie di ogni dibattito intellettuale,<br />
dovendo scegliere, scelse senza indugi la tecnologia sposando microfoni e sala<br />
di registrazione e legandosi indissolubilmente al REVOX, emblema insostituibile<br />
di quella stagione popolata anche di molti feticci. (Per chi non lo sapesse, il<br />
Revox era un magnetofono, un registratore a bobina professionale prodotto da<br />
una nota azienda di apparecchi elettronici tedesca. Era famoso per la grande<br />
fedeltà e per la mole. Ogni compagnia teatrale di rispetto ne possedeva uno<br />
per registrare la colonna sonora e poi diffonderla nel corso degli spettacoli.)<br />
Del resto, sembrò una scelta obbligata e perfino economica. Obbligata perché<br />
egli avvertiva la difficoltà di definire uno stile attoriale suo personale, agendo<br />
all’interno dei complessi professionali del periodo, economica perché sorella<br />
tecnica azzerava di fatto l’organico di una compagnia.<br />
L’apripista di questa modalità nuova di intendere la scena e di queste inedite<br />
nozze di skené con techne, fu, com’è noto, Carmelo Bene, il quale negli<br />
anni sessanta, avvertendo il crepuscolo del teatro di tradizione, ingaggiò<br />
una lotta senza quartiere contro i sacerdoti della conservazione e, sorretto<br />
da truppe sceltissime provenienti d’oltralpe (Deleuze, Derrida…), impose il<br />
rinnovamento drammaturgico nel teatro italiano facendo della sua phoné<br />
alterata, enfatizzata, urlata, seducente e geniale, l’organo imprescindibile<br />
di ogni legittima sperimentazione. Come si diceva: la voce dell’attore: un<br />
valore. Ma questa è storia gloriosa! Carmelo Bene entrò trionfalmente nel<br />
pantheon di molti teatranti e grazie a quell’intuizione (che a dire il vero era più<br />
figlia dell’ultimo straziante Artaud di Per farla finita col giudizio di Dio, che di<br />
Benjamin) ancora oggi è possibile vedere e gustare in disco e in video. CB per<br />
<strong>Aldo</strong>: un faro nella notte, una figura sacrale.<br />
Ma vivere e operare in provincia battendo vie nuove è rischioso. Delusioni,<br />
solitudine e anche afasia sono nel programma.<br />
(Il vecchio Marconi insegnava che il genio provinciale è genio di reazione e<br />
asseriva che probabilmente Dante non avrebbe mai scritto la Commedia se<br />
non fosse stato cacciato da Firenze: (“Mi mandate in esilio, eh? E io scrivo<br />
quest’operina per non cadere in depressione!”) Ma in provincia le cose<br />
non hanno quasi mai esiti così gloriosi. In provincia si vive troppo lontani da<br />
capezzoli di sostanza per crescere sani e ci si nutre di pettegolezzo che, com’è<br />
noto, ingrassa se non uccide; in provincia si è costretti a crescere insieme<br />
a cucciolate rissose che sfibrano le madri e si azzannano tra loro, invece ci<br />
vuole silenzio per udire l’improvviso schiudersi dei piccoli baccelli di ginestra,<br />
scaldati dal sole d’agosto. In provincia, l’unica audacia consentita è l’imitazione<br />
e il talento quando c’è, va esercitato in solitudine o nascondendolo dietro la<br />
formula curiale “si licet parva componere magnis”. In provincia…)<br />
Nello stesso periodo e nella medesima provincia (anzi ad un solo isolato di<br />
distanza da <strong>Aldo</strong>) chi scrive, insieme ad altri ardimentosi, “solitari e molti, /<br />
giocavamo ad essere il primo Adamo / che diede il nome alle cose. / Per i vasti<br />
declivi della notte / che confinano con l’aurora, / cercammo (lo ricordo ancora)<br />
le parole / della luna, della morte, del mattino / e delle altre consuetudini<br />
dell’uomo./ Fummo l’immaginismo, il cubismo, / le conventicole e le sette / che<br />
le credule università venerano. / Inventammo… / (… / … /.) Cenere la fatica<br />
delle nostre mani / e un fuoco ardente la nostra fede.”<br />
Il Borges della seconda lirica a Joyce mi aiuta a definire il percorso artistico<br />
che, chi scrive, insieme ad altri ardimentosi, andava conducendo in San Carlino<br />
e a focalizzare quel che vide <strong>Aldo</strong> Engheben venendo quivi in visita: un<br />
gruppo di giovani che, alla fine degli anni settanta, (pur pressati da gruppi di<br />
posteggiatori che dai quartieri periferici, armati di retorica tribunizia marciavano<br />
alla conquista dei palazzi d’inverno peraltro già occupati da compagni<br />
provenienti dai campi e dalle officine), giorno dopo giorno e notte dopo<br />
notte (se ne ricordano bene Guido e Gianluigi, Giorgio ed Emanuela, Fausto e<br />
Candida, Claudio e Patrizia, Benedetta, Livia, Giorgio, Maura e Giovanni, Enrica<br />
e numerosissimi altri che non dimentico) andavano allestendo quella scena<br />
della sensibilità e della comunità (il teatro del corpo e del coro) che ancora oggi<br />
è oggetto delle loro cure.<br />
Ma forse, più che la cura maniacale dei linguaggi della scena, più che il rigore<br />
drammaturgico, più che le smaglianti forme, più che la gratuità, (tutte cose di<br />
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