31.05.2013 Views

Aldo Hengheben - Scena Sintetica

Aldo Hengheben - Scena Sintetica

Aldo Hengheben - Scena Sintetica

SHOW MORE
SHOW LESS

You also want an ePaper? Increase the reach of your titles

YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.

6<br />

Resisteva, diciamo così, alle sirene della tecnica, soltanto lo spettacolo di prosa<br />

dal vivo con il suo armamentario scenico e la sua attrezzeria pre-industriali, ma<br />

soprattutto l’attore di prosa, hombre vertical, e la sua voce.<br />

Per lunghi periodi della storia del teatro, l’attore è stato considerato<br />

interprete, quando non semplicemente portatore, della parola del poeta. Egli<br />

era principalmente se non esclusivamente voce, phoné. La voce essendo<br />

considerata l’unica dote veramente indispensabile dell’attore (e quella inoltre<br />

che lo nobilitava, assimilandolo all’oratore), è ovvio che la sua preparazione<br />

vertesse principalmente sullo sviluppo della potenza, della duttilità, della<br />

flessibilità e della resistenza degli organi vocali. Fin dall’antichità greca, si ha<br />

notizia di esercizi specifici intesi a questo sviluppo e ancora oggi nelle scuole di<br />

arte drammatica si dedica particolare attenzione a quest’organo (per i francesi,<br />

l’organe per eccellenza): si insegna agli allievi ad emettere il fiato utilizzando<br />

i muscoli del diaframma, per non affaticare eccessivamente le corde vocali e a<br />

variare il colore della voce, impostandola di petto, di gola o di testa. La voce<br />

dell’attore. Un valore.<br />

Io non so se <strong>Aldo</strong> Engheben abbia mai sfogliato il saggio di Benjamin, ma so<br />

per certo che qualsiasi discorso lo riguardi, non può prescindere da questa<br />

premessa. Perché, comunque, le domande che <strong>Aldo</strong> si poneva sul finire<br />

degli anni settanta, erano le stesse del filosofo tedesco: come rendere meno<br />

effimero l’autentico, come documentarlo, come eternare l’attimo? E ancora:<br />

nello statuto dell’immagine, del gesto d’arte, la riproduzione, quale posto<br />

occupa? È gesto blasfemo o legittimo? Ha pari dignità? E l’attore di teatro ha<br />

diritto di lasciare una traccia del suo passaggio affidando voce e gesto alla<br />

strumentazione tecnica?<br />

Certo, queste domande, oggi, fanno davvero sorridere, ma quarant’anni fa<br />

scatenavano passioni e dibattiti senza fine ai quali era difficile sottrarsi. E<br />

così <strong>Aldo</strong>, che diffidava e diffida delle delizie di ogni dibattito intellettuale,<br />

dovendo scegliere, scelse senza indugi la tecnologia sposando microfoni e sala<br />

di registrazione e legandosi indissolubilmente al REVOX, emblema insostituibile<br />

di quella stagione popolata anche di molti feticci. (Per chi non lo sapesse, il<br />

Revox era un magnetofono, un registratore a bobina professionale prodotto da<br />

una nota azienda di apparecchi elettronici tedesca. Era famoso per la grande<br />

fedeltà e per la mole. Ogni compagnia teatrale di rispetto ne possedeva uno<br />

per registrare la colonna sonora e poi diffonderla nel corso degli spettacoli.)<br />

Del resto, sembrò una scelta obbligata e perfino economica. Obbligata perché<br />

egli avvertiva la difficoltà di definire uno stile attoriale suo personale, agendo<br />

all’interno dei complessi professionali del periodo, economica perché sorella<br />

tecnica azzerava di fatto l’organico di una compagnia.<br />

L’apripista di questa modalità nuova di intendere la scena e di queste inedite<br />

nozze di skené con techne, fu, com’è noto, Carmelo Bene, il quale negli<br />

anni sessanta, avvertendo il crepuscolo del teatro di tradizione, ingaggiò<br />

una lotta senza quartiere contro i sacerdoti della conservazione e, sorretto<br />

da truppe sceltissime provenienti d’oltralpe (Deleuze, Derrida…), impose il<br />

rinnovamento drammaturgico nel teatro italiano facendo della sua phoné<br />

alterata, enfatizzata, urlata, seducente e geniale, l’organo imprescindibile<br />

di ogni legittima sperimentazione. Come si diceva: la voce dell’attore: un<br />

valore. Ma questa è storia gloriosa! Carmelo Bene entrò trionfalmente nel<br />

pantheon di molti teatranti e grazie a quell’intuizione (che a dire il vero era più<br />

figlia dell’ultimo straziante Artaud di Per farla finita col giudizio di Dio, che di<br />

Benjamin) ancora oggi è possibile vedere e gustare in disco e in video. CB per<br />

<strong>Aldo</strong>: un faro nella notte, una figura sacrale.<br />

Ma vivere e operare in provincia battendo vie nuove è rischioso. Delusioni,<br />

solitudine e anche afasia sono nel programma.<br />

(Il vecchio Marconi insegnava che il genio provinciale è genio di reazione e<br />

asseriva che probabilmente Dante non avrebbe mai scritto la Commedia se<br />

non fosse stato cacciato da Firenze: (“Mi mandate in esilio, eh? E io scrivo<br />

quest’operina per non cadere in depressione!”) Ma in provincia le cose<br />

non hanno quasi mai esiti così gloriosi. In provincia si vive troppo lontani da<br />

capezzoli di sostanza per crescere sani e ci si nutre di pettegolezzo che, com’è<br />

noto, ingrassa se non uccide; in provincia si è costretti a crescere insieme<br />

a cucciolate rissose che sfibrano le madri e si azzannano tra loro, invece ci<br />

vuole silenzio per udire l’improvviso schiudersi dei piccoli baccelli di ginestra,<br />

scaldati dal sole d’agosto. In provincia, l’unica audacia consentita è l’imitazione<br />

e il talento quando c’è, va esercitato in solitudine o nascondendolo dietro la<br />

formula curiale “si licet parva componere magnis”. In provincia…)<br />

Nello stesso periodo e nella medesima provincia (anzi ad un solo isolato di<br />

distanza da <strong>Aldo</strong>) chi scrive, insieme ad altri ardimentosi, “solitari e molti, /<br />

giocavamo ad essere il primo Adamo / che diede il nome alle cose. / Per i vasti<br />

declivi della notte / che confinano con l’aurora, / cercammo (lo ricordo ancora)<br />

le parole / della luna, della morte, del mattino / e delle altre consuetudini<br />

dell’uomo./ Fummo l’immaginismo, il cubismo, / le conventicole e le sette / che<br />

le credule università venerano. / Inventammo… / (… / … /.) Cenere la fatica<br />

delle nostre mani / e un fuoco ardente la nostra fede.”<br />

Il Borges della seconda lirica a Joyce mi aiuta a definire il percorso artistico<br />

che, chi scrive, insieme ad altri ardimentosi, andava conducendo in San Carlino<br />

e a focalizzare quel che vide <strong>Aldo</strong> Engheben venendo quivi in visita: un<br />

gruppo di giovani che, alla fine degli anni settanta, (pur pressati da gruppi di<br />

posteggiatori che dai quartieri periferici, armati di retorica tribunizia marciavano<br />

alla conquista dei palazzi d’inverno peraltro già occupati da compagni<br />

provenienti dai campi e dalle officine), giorno dopo giorno e notte dopo<br />

notte (se ne ricordano bene Guido e Gianluigi, Giorgio ed Emanuela, Fausto e<br />

Candida, Claudio e Patrizia, Benedetta, Livia, Giorgio, Maura e Giovanni, Enrica<br />

e numerosissimi altri che non dimentico) andavano allestendo quella scena<br />

della sensibilità e della comunità (il teatro del corpo e del coro) che ancora oggi<br />

è oggetto delle loro cure.<br />

Ma forse, più che la cura maniacale dei linguaggi della scena, più che il rigore<br />

drammaturgico, più che le smaglianti forme, più che la gratuità, (tutte cose di<br />

7

Hooray! Your file is uploaded and ready to be published.

Saved successfully!

Ooh no, something went wrong!