Eliante o della Modernitaʼ - Fondazione Bruno Zevi
Eliante o della Modernitaʼ - Fondazione Bruno Zevi
Eliante o della Modernitaʼ - Fondazione Bruno Zevi
You also want an ePaper? Increase the reach of your titles
YUMPU automatically turns print PDFs into web optimized ePapers that Google loves.
<strong>Eliante</strong> o <strong>della</strong> <strong>Modernitaʼ</strong><br />
di Benedetto Gravagnuolo<br />
“Il vero, il solo modo che ha la nostra epoca di prendere coscienza di se stessa, è<br />
di definirsi rispetto al passato: solo così possiederà il futuro” 1 .<br />
Questʼaforisma, che conclude il celebre dialogo <strong>Eliante</strong> o dellʼArchitettura (1956),<br />
può valere come incipit per una ricognizione critica sullʼapporto teoretico recato da Cesare<br />
Brandi nello specifico ambito disciplinare dellʼarchitettura. I ventʼanni circa che ci separano<br />
dalla scomparsa dellʼautore non hanno scalfito lʼattualità delle sue tesi. Anzi. Faremmo un<br />
torto alla passione intellettuale del grande studioso se, con parole alate, provassimo a<br />
erigere un aulico piedistallo su cui collocare il suo busto marmoreo, indulgendo<br />
nellʼagiografia per segnare una distanza del suo pensiero dal presente. La validità di una<br />
teoria non si misura con le lancette dellʼorologio. Pertanto, dando per acquisita la latitudine<br />
mentale di Cesare Brandi – raffinatissimo critico dʼarte e al tempo stesso “filosofo”,<br />
nellʼaccezione più autentica del termine – è forse più opportuno entrare nel vivo delle sue<br />
idee 2 , ridiscutendo con inalterato rigore dialettico la validità dei suoi enunciati<br />
sullʼarchitettura.<br />
Di tutti i dialoghi brandiani <strong>Eliante</strong> resta “il più versato sullʼattualità” 3 . Questa<br />
constatazione di Paolo DʼAngelo, uno dei più acuti esegeti del sistema teoretico di Cesare<br />
Brandi, è tuttʼaltro che trascurabile. Mentre negli altri tre testi dedicati alle Arti - vale a dire<br />
Carmine o <strong>della</strong> Pittura (edito nella prima versione nel 1945), nel coevo Arcadio o <strong>della</strong><br />
Scultura (1956) e nel successivo Celso o <strong>della</strong> Poesia (1957) - il discorso brandiano tende<br />
deliberatamente a elevarsi nella sfera astratta <strong>della</strong> pura speculazione noetica, in <strong>Eliante</strong> il<br />
critico si cala senza perifrasi nellʼasprezza delle polemiche contingenti di quella delicata<br />
fase storica, contrassegnata in Italia dalla ricostruzione post-bellica dei centri storici<br />
lacerati dagli ordigni esplosivi. Certo, resta invariata lʼelegante formula letteraria del<br />
dialogo socratico à la Paul Valéry, che consente di attenuare la radicalità delle divergenze<br />
concettuali verso alcuni suoi illustri contemporanei, grazie al gioco di specchi degli<br />
1<br />
Cesare Brandi, <strong>Eliante</strong> o dell’Architettura, Einaudi, Torino 1956; nuova ed. (con prefazione di Paolo D’Angelo)<br />
Editori Riuniti, Roma 1992, p. 368.<br />
2<br />
Non ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare direttamente Cesare Brandi, al pari di Vittorio Brandi Rubiu, suo<br />
figlio adottivo e stimatissimo interprete del suo lascito teoretico, né ho fatto parte del gruppo dei suoi qualificatissimi<br />
allievi, da Giuseppe Basile a Maria Andaloro. Ciò nonostante il pensiero di Brandi ha rappresentato un punto di<br />
riferimento ineludibile nella mia formazione, non fosse altro che per il “dialogo a distanza” con Renato De Fusco, che<br />
ha guidato i miei primi passi nel campo <strong>della</strong> metodologia storiografica.<br />
1
pseudonimi ellenici. Tantʼè che, nella Nota dʼepigrafe, lʼautore mette subito in guardia il<br />
lettore dallʼaffannarsi nel vano tentativo di identificare gli autentici opinion-makers<br />
dissimulati nelle metaforiche maschere <strong>della</strong> fabula. “I personaggi di questo, come degli<br />
altri dialoghi – sottolinea Brandi – essendo puramente immaginari, non si dovrebbe<br />
aggiungere, come invece si fa, a scanso di inutile equivoco, che neppure la guerra e la<br />
ricostruzione cui si allude sono da identificarsi esattamente con lʼultima guerra mondiale e i<br />
suoi attuali postumi, risultando apparenti gli eventuali anacronismi”.<br />
Si tratta, con tutta evidenza, di unʼexcusatio non petita. A ben vedere lʼaggancio<br />
<strong>della</strong> controversia architettonica alla particolare realtà del proprio tempo non solo non<br />
sminuisce il valore matastorico degli assiomi, ma dona più gusto alla dialettica. Tantʼè che<br />
<strong>Eliante</strong> fu - con tempestività - recensito, chiosato, apprezzato e contraddetto da Giulio<br />
Carlo Argan, <strong>Bruno</strong> <strong>Zevi</strong> e Giò Ponti, per citare solo alcuni degli autentici maîtres à penser<br />
stanabili quali probabili ispiratori dei personaggi immaginari. Dei sette protagonisti che<br />
affollano il cenacolo – <strong>Eliante</strong>, Eftimio, Cortese, Delano, Diodato, Carmine e Celso – due<br />
almeno sono riconoscibili dai tratti distintivi inequivocabili che affiorano nel ritratto narrato,<br />
al di là <strong>della</strong> ricercata allusività. Si tratta di Giulio Carlo Argan nelle vesti di Cortese “più<br />
teorico che architetto” 4 , caldeggiatore dellʼarchitettura “razionale”; e di <strong>Bruno</strong> <strong>Zevi</strong> nei panni<br />
di Delano, promotore <strong>della</strong> poetica “organica”, rientrato in Italia dopo cinque anni “un poʼ<br />
più americano di prima, con la giovinezza ritrovata del giovane continente” 5 . Va da sé che<br />
il terzo - vero – teorico in fabula sia lo stesso Cesare Brandi, malcelato sotto il manto<br />
consueto dello pseudonimo Eftimio.<br />
Eʼ ben vero che le sette voci arricchiscono il confronto, consentendo “allʼautore –<br />
come osservò Giò Ponti – di manifestare gli opposti e diversi pareri tanto più<br />
opportunamente oggi che ognuno tira dritto con le sue idee e non vuol sapere altro, mentre<br />
realtà è conoscenza delle varie verità coesistenti 6 ”. Resta tuttavia altresì innegabile che<br />
lʼattore dominante <strong>della</strong> scena risulta con troppa evidenza Eftimio-Brandi, che stronca con<br />
radicale fermezza le idee altrui e si dilunga in funambolici monologhi, esibendosi peraltro<br />
in unʼarticolata e per molti versi suggestiva conferenza sulla “Architettura del<br />
Rinascimento”, tenuta (nella finzione letteraria) a Firenze una settimana dopo il primo<br />
incontro con gli amici. Il che comprova la tensione ormai matura nellʼautore a superare la<br />
3<br />
Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia, Quodlibet, Macerata 2006.<br />
4<br />
C. Brandi, <strong>Eliante</strong> cit., p.130<br />
5<br />
Ivi, p.140.<br />
6<br />
Gio Ponti, in «Corriere <strong>della</strong> Sera», 24 agosto 1957.<br />
2
formula del dialogo per giungere alla scrittura saggistica, come nei fatti accadrà, dal<br />
momento che <strong>Eliante</strong> e il pessoché coevo Celso chiudono definitivamente il ciclo di<br />
“Elicona”.<br />
La finzione del dialogo – che eludendo lʼautentico contraddittorio maieiutico si riduce<br />
a un soliloquio assiomatico contro gli equivoci del Movimento Moderno, reso ancor più<br />
perentorio dalla inconsistenza delle presunte obiezioni - non sfuggì allʼattenzione dei suoi<br />
più intimi amici, che pur nutrendo unʼautentica e profonda stima verso Cesare Brandi per<br />
lʼirreprensibile afflato culturale che animava la sua passione polemica, non condividevano<br />
però la sua estremizzata avversione contro le innovazioni concettuali recate dalle<br />
avanguardie artistiche. Nel recensire <strong>Eliante</strong>, dopo un fugace e deferente attestato su<br />
“lʼincanto delle eleganze espressive” di Eftimio, <strong>Bruno</strong> <strong>Zevi</strong> rimarcò senza perifrasi: “gli altri<br />
personaggi sono ridotti a fantocci […]. Manca vigore di dialogo e pungenza di regia.<br />
Eftimio, con poche battute demiurgiche, sgomina tutti, e indulge nellʼimpartire lezioni agli<br />
astanti rapiti e narcotizzati” 7 . In un precedente articolo, lo stesso <strong>Zevi</strong> aveva convalidato la<br />
poetica organica di Frank Lloyd Wright sostenendo che lʼirrealizzata Palazzina Masieri 8 ,<br />
pur nella sua avanzata modernità linguistica, non avrebbe turbato il fascino storico del<br />
Canal Grande, a differenza dello sventramento <strong>della</strong> “spina” dei Borghi vaticani, attuato da<br />
Marcello Piacentini per realizzare, con ostentato lessico antimoderno, lʼaulica Via <strong>della</strong><br />
Conciliazione. A sua volta Giulio Carlo Argan, con minor asprezza lessicale ma con<br />
altrettanta causticità polemica, confutò alla radice la critica brandiana verso lʼarchitettura<br />
“razionale”, sottolineando lʼabbaglio metodologico di voler valutare le opere costruite da<br />
Walter Gropius, da Mies van der Rohe o da Le Corbusier, non già per il loro intrinseco<br />
valore estetico, bensì per i proclamanti (e fumosi) moventi ideologici. “Accanirsi contro<br />
lʼingenua, inconsistente logica delle proposizioni razionalistiche è proprio lo stesso che<br />
giudicare Brunelleschi dalla prospettiva o gli Impressionisti dallʼottica di Chevreul” 9 .<br />
Nonostante lʼeco non sopita delle repliche tranchants e dei più rari commenti<br />
entusiastici - o forse proprio in forza <strong>della</strong> vivacità del dibattito suscitato allʼatto stesso <strong>della</strong><br />
pubblicazione - lʼ<strong>Eliante</strong> resta a tuttʼoggi un testo fondamentale per valutare i postulati<br />
stessi del pensiero di Cesare Brandi sullʼarchitettura. Nelle righe del dialogo troviamo<br />
7<br />
<strong>Bruno</strong> <strong>Zevi</strong>, Soliloqui di Eftimio-Brandi, in «L’Espresso», 31 marzo 1957, oggi in Cronache di Architettura, Laterza,<br />
Roma-Bari 1978, vol. 4, p. 343.<br />
8<br />
B. <strong>Zevi</strong>, Architettura moderna alla sbarra. L’invettiva di Cesare Brandi, in «L’Espresso», 3 giugno 1956, oggi in<br />
Cronache di Architettura, Laterza, Roma-Bari 1978, vol. 3, pp. 156-157.<br />
9<br />
Giulio Carlo Argan, in «Casabella», n. 216, 1957.<br />
3
condensati in nuce concetti che verranno ulteriormente sviluppati in saggi successivi: da<br />
Due vie (1966) a Struttura e Architettura (1967); da La prima architettura barocca (1970)<br />
fino al sistematico trattato su la Teoria generale <strong>della</strong> critica (1974).<br />
Lʼaspetto di maggior interesse sta proprio nellʼinserimento <strong>della</strong> dissertazione<br />
architettonica nel quadro <strong>della</strong> più ampia ermeneutica delle Arti, declinata nei quattro<br />
dialoghi di Elicona. Comʼè noto, Benedetto Croce commentò positivamente lʼesordio di<br />
Cesare Brandi nel Carmine o <strong>della</strong> Pittura, raccomandando questo pamphlet “agli studiosi<br />
<strong>della</strong> teoria dellʼarte così per le cose giuste e calzanti che dice, come per lo spirito che lo<br />
anima” 10 . Lʼelogio del grande filosofo non deve tuttavia indurre allʼequivoco di convogliare il<br />
discorso brandiano nellʼalveo dellʼortodossia crociana. LʼEstetica di Benedetto Croce ha<br />
rappresentato indubbiamente un paradigma referenziale nella formazione del più giovane<br />
storico dellʼarte, paradigma peraltro mai rinnegato. Il sistema teoretico di Brandi ha tuttavia<br />
attinto anche ad altre fonti filosofiche, rivisitando i principì <strong>della</strong> Kritik der Urtheilkrft di Kant<br />
alla luce dei nuovi apporti di Husserl, Heidegger, Sartre e di altri autori ancora poco noti<br />
nellʼItalia dellʼimmediato dopoguerra. Dalla lettura intrecciata dei testi rilucenti in questa<br />
costellazione di ʻpensieri diversiʼ scaturì lʼoriginale tesi di Cesare Brandi sulla<br />
“fenomenologia <strong>della</strong> creazione artistica”, già introdotta nel Carmine, ma poi rielaborata e<br />
precisata nella successiva saggistica più specificamente dottrinaria.<br />
Senza limitarsi al giudizio critico sullʼopera compiuta, vale a dire sullʼelaborazione<br />
artistica giunta alla sua forma ultima e definita, Brandi indaga innanzitutto sul processo<br />
creativo che muovendo dalla “costituzione dʼoggetto” conduce alla “formulazione<br />
dʼimmagine”. Davanti allʼimmagine dellʼoggetto reale da rappresentare lʼartista opera<br />
consapevolmente una selezione simbolico-interpretativa. “Il risultato – si legge nel<br />
Carmine – è lʼoggetto costituito, ossia unʼimmagine che non è affatto un duplicato<br />
dellʼoggetto, ma in cui lʼoggetto è sostanza conoscitiva e figuratività, a seconda dellʼuso<br />
stesso che dellʼimmagine farà la coscienza”. Negli anni Sessanta, Brandi svilupperà<br />
ulteriormente questo teorema, distinguendo nettamente due categorie fenomeniche : da un<br />
lato, la “astanza”, ovvero la particolare forma di presenza che contrassegna lʼopera dʼarte;<br />
e dallʼaltro, la “flagranza”, che costituisce lʼessenza percepibile dellʼesistente, sia esso<br />
naturale che oggettuale.<br />
10 Benedetto Croce, Rivista Bibliografica, in «Quaderni <strong>della</strong> Critica», n. 4, aprile 1946, p. 81; ried. in Vittorio Rubiu (a<br />
cura di), L’estetica di Cesare Brandi: antologia critica, in «Storia dell’Arte», n. 43, 1981.<br />
4
Fin qui un rapido accenno alle note teorie brandiane. Per quanto possa apparire<br />
paradossale, è tuttavia proprio il rigore concettuale del “sistema estetico” eretto da Cesare<br />
Brandi, fondato sulla base <strong>della</strong> sua collaudata esperienza nelle arti figurative dalla Pittura<br />
alla Scultura, ad aver determinato alcune aporie applicative nei campi affini<br />
dellʼArchitettura e del Cinema. Se nei confronti del Cinema il critico senese giunse a<br />
negare lʼappartenenza di questa nuova forma dʼespressione estetica al novero delle Muse,<br />
nondimeno nei confronti dellʼArchitettura palesò le sue perplessità a partire proprio dallo<br />
statuto fondativo di tale disciplina. A differenza <strong>della</strong> Pittura, lʼArchitettura non può<br />
muovere dallo “oggetto” da rappresentare, bensì dallo “schema” che trae la sua ragion<br />
dʼessere nel bisogno pratico sotteso alla costruzione.<br />
Questa alterità strutturale dellʼarchitettura rispetto alle altre arti visive viene<br />
concettualmente risolta da Brandi nella tensione propria delle costruzioni culturalmente<br />
motivate a sublimare il movente utilitaristico originario nella “figuratività” estetica. Ne deriva<br />
come corollario la sua raffinatissima teoria dellʼ“ornato”. Significativo a tal proposito è un<br />
passaggio-chiave: il dialogo a tre voci tra Diodato, Eftimio e Cortese.<br />
Diodato :<br />
- “E per ora io so soltanto questo: che dal bisogno <strong>della</strong> casa nascerà la casa. Ma<br />
questa figuratività, come tu dici, dove si va a prenderla 11 ?<br />
Riprese subito Eftimio:<br />
- “Eʼ qui che si elabora la tettonica, in cui cʼè gradualità, evoluzione, progresso: tutto<br />
ciò che non esiste nellʼarte, ma esiste invece in questo necessario antefatto<br />
dellʼarchitettura che è la tettonica. La tettonica starà allora allʼarchitettura nello stesso<br />
identico rapporto in cui la conformazione sta alla forma, e non perché sia un rapporto<br />
analogo, ma perché è il medesimo […]. Ma quando la spiritualità umana prova la necessità<br />
di superare il bisogno pratico nel suo stesso bisogno […] possiamo osservare che la<br />
coscienza […] permetterà allʼinfinito di rinnovare la conformazione dellʼoggetto […]. Nasce<br />
così lʼornato, non come incrostazione arbitraria e subentrante, ma come originaria<br />
integrazione <strong>della</strong> nudità funzionale <strong>della</strong> tettonica per ascendere allʼimmagine 12 .”<br />
Fu a questo punto, che Cortese non si tenne:<br />
11 C. Brandi, <strong>Eliante</strong> cit., p.159.<br />
12 Ivi, p.163.<br />
5
- Eccoti arrivato, dopo la capanna di Vitruvio, a dar la mano a Ruskin e a Scott:<br />
“lʼarchitettura è lʼornamento <strong>della</strong> costruzione 13 .<br />
Pur collocandosi in deliberata antitesi contro il dogma antiornamentale <strong>della</strong> vulgata<br />
dellʼInternational Style, la teoria brandiana dello “ornato” riecheggia le tematiche dei “primi<br />
moderni”, e in particolar modo il Prinzip der Bekleidung formulato con insuperata chiarezza<br />
da Gottfried Semper in Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten 14 .<br />
Non meno significativa resta, per altri versi, la dialettica tra “langue” e “parole” che<br />
traspare in filigrana dalle righe dellʼ<strong>Eliante</strong>. Con leggero anticipo rispetto alla ricerca sulla<br />
semiologia dellʼarchitettura rigorosamente incentrata sui criteri metodologici di Ferdinand<br />
de Saussure 15 , che sarà in auge nel dibattito italiano 16 nei successivi decenni, Brandi<br />
introduce una tematica di indubbio interesse. Nella conferenza sulla Architettura del<br />
Rinascimento 17 , Eftimio ricorre a una suggestiva metafora, per spiegare lʼoriginalità <strong>della</strong><br />
relazione mentale che viene a instaurarsi nella Firenze del Quattrocento con il mitizzato<br />
passato Classico, sostenendo che Brunelleschi e Alberti usarono “parole” antiche per dire<br />
cose nuove. Certo, Brandi arresta volutamente lʼanalogia tra architettura e linguaggio su<br />
un piano meramente metaforico 18 , asserendo in sede teoretica lʼesigenza di non<br />
confondere la comunicazione iconica con la scrittura alfabetica, non fossʼaltro che per<br />
lʼirriducibile differenza tra la significazione “convenzionale” e “arbitraria” dei monemi e la<br />
comunicazione allusiva ed espressiva trasmessa dalle immagini. Nel successivo saggio su<br />
Segno e Immagine (1960) questa differenza incolmabile viene fissata nella dicotomia tra<br />
semiosi e astanza. E ancora, in Struttura e Architettura ribadirà: “La casa non comunica di<br />
essere una casa, più di quanto una rosa di essere una rosa […]. Qualsiasi sistema<br />
semiotico elabora un codice per trasmettere un messaggio, e lʼarchitettura questo<br />
messaggio non lo trasmette: le informazioni, che se ne possono dedurre o ricavare, non<br />
sono il messaggio che dovrebbe garantire la sua natura semiotica” 19 .<br />
Sta di fatto che <strong>Eliante</strong> resta un testo senza tempo anche per la pluralità di<br />
interpretazioni dischiuse dalle espressioni figurate e dalle allegorie poetiche che costellano<br />
13<br />
Ibidem.<br />
14<br />
Cfr. Benedetto Gravagnuolo, Semper e lo Stile, in Gottfried Semper, Lo Stile (a cura di R. Burelli, C. Cresti, B.<br />
Gravagnuolo,F. Tentori), Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 353-376.<br />
15<br />
Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale (Paris, 1913), Laterza, Roma-bari 1967.<br />
16<br />
Cfr. R. De Fusco, Segni, storia e progetto dell’architettura, Laterza, Roma-Bari 1973 (e relativa bibliografia di<br />
riferimento).<br />
17<br />
C. Brandi, <strong>Eliante</strong> cit., pp.174–224.<br />
18<br />
Ivi, pp. 224 e sgg.<br />
19<br />
C. Brandi, Struttura e architettura, Einaudi, Torino 1967, p. 37.<br />
6
il dialogo. Si pensi al principio di indissolubile reciprocità tra interno ed esterno quale<br />
peculiarità del linguaggio architettonico. “Lʼarchitettura non potrà mai essere soltanto un<br />
interno o un esterno, ma lʼesterno dovrà godere di una spazialità che lo rende interno a se<br />
stesso, e lʼinterno reciprocamente esterno […] dunqe interno ed esterno, non sono altro<br />
che le proprie dimensioni <strong>della</strong> spazialità dellʼarchitettura” 20 . Rileggendo la configurazione<br />
dei monumenti storici attraverso il filtro di queste inedite lenti esplorative, Brandi stila già<br />
nellʼ<strong>Eliante</strong> pagine di straordinario fascino interpretativo su San Vitale di Ravenna e Santa<br />
Sofia di Instabul, così come lʼambivalenza interno-esterno rappresenterà lʼinnovazione<br />
critica più pregnante nella sua appassionata ricognizione analitica su La prima architettura<br />
barocca (1970).<br />
Aldilà dei nuovi apporti ermeneutici sulla fenomenologia dellʼarchitettura e aldilà<br />
<strong>della</strong> stessa eleganza letteraria profusa nelle puntuali esegesi estetiche, la questione<br />
nodale - e per molti versi ineludibile - sollevata da <strong>Eliante</strong> verte, come si è accennato, sulla<br />
critica ai miti del Movimento Moderno; critica che apre e chiude il sipario del confronto<br />
dialettico.<br />
“Accadde dunque, o Gàrico, che trovandoci riuniti in pochi amici nella villa di<br />
Carmine, presente ma di mala voglia Eftimio, fosse iniziata una discussione sul valore o<br />
per meglio dire sulla validità da riconoscersi ancora allʼarchitettura detta razionale o<br />
funzionale…” 21 . Su questo primo tema si sviluppa una serrata disputa, il cui passaggio-<br />
chiave sta nella legittimità di riconoscere la qualità di forma in un oggetto prodotto in serie<br />
mediante una meccanica catena di montaggio industriale. <strong>Eliante</strong>, affrontando tale<br />
interrogativo da unʼangolazione artistico-artigianale, mette in luce che “gli oggetti in serie<br />
sono autentici, ma non sono degli originali, in quanto lʼoriginalità implica lʼunicità” 22 . Si<br />
tratta, a ben vedere, di una vexata quaestio, ampiamente discussa nei simposi del<br />
Werkbund, e concettualmente risolta nel trapasso epocale dallʼoggetto al progetto che<br />
contraddistingue la nascita del moderno industrial design. La conformazione dellʼoggetto<br />
passa storicamente dalle mani pensanti dellʼartigiano al disegno astratto del progettista.<br />
Va da sé che tale disegno sia ineluttabilmente “irreale” nellʼaccezione de Lʼimmaginarie di<br />
Jean-Paul Sarte 23 . Resta altresì innegabile che lʼaltissimo livello tecnico <strong>della</strong> riproduzione<br />
meccanica, affrancando lʼoggetto dalle eventuali imperfezioni esecutive del prodotto<br />
20<br />
C. Brandi, <strong>Eliante</strong> cit., pp. 264 e sgg.<br />
21<br />
Ivi, p. 130.<br />
22<br />
Ivi, p. 132.<br />
23<br />
Jean-Paul Sartre, L’immaginaire. Psychologie phénoménologique de l’immagination, Gallimard, Paris 1986.<br />
7
arigianale, ne determina conseguentemente anche la perdita dellʼaura fondata<br />
dellʼirripetibile unicità. Ma, in tale processo conformativo, la macchina altro non è che lo<br />
strumento moderno per lʼesecuzione materica dellʼidea dellʼoggetto disegnato. E la sua<br />
riproducibilità virtualmente infinita, nella benjaminiana Das Kunstwerk im Zeialter seiner<br />
technischen Reproduzierbarkeit 24 , nulla toglie alla qualità estetica <strong>della</strong> forma. Né devono<br />
distogliere dal severo vaglio del giudizio critico gli altisonanti proclami delle avanguardie<br />
weimariane sul destino “sociale” del progetto moderno, né gli appelli lecorbusiani sulla<br />
riduzione dellʼarchitettura a machine à habiter. In altri termini, ricorrendo alla terminologia<br />
cara a Brandi, così come lʼastanza <strong>della</strong> Pietà di Michelangelo non può essere valutata per<br />
i contenuti teologici che allegoricamente rappresenta né per la fisicità chimica del blocco<br />
marmo, bensì per lʼidea artistica che mette in forma; così la sedia-Bauhaus di Mies van<br />
der Rohe non può essere giudicata per la valenza sociologica che la sottende, né per i<br />
meri requisiti tecnici del tubolare dʼacciaio meccanicamente piegato, ma per la qualità <strong>della</strong><br />
forma ideata nel design, prima ancora di essere riprodotta in serie industrialmente.<br />
Ancor più drastica è nellʼepilogo la tesi sullʼinammissibilità dellʼinserimento<br />
dellʼarchitettura moderna nei contesti storici. A motivare tale diniego è la convinzione, più<br />
volte ribadita da Brandi, che negli anni a cavallo tra XVIII e XIX secolo “con lʼeutanasia<br />
dello stile Impero, lʼArchitettura moriva, né dopo è durevolmente risorta”.<br />
“Ma addirittura – anticipò titubando Cortese – non vorrai escludere la possibilità di<br />
edifici moderni in seno ai vecchi nuclei delle città 25 ?<br />
- E perché si dovrebbe escludere? – domandò allora Delano. - Ogni epoca ha<br />
lasciato le sue vestigia, che possono armonizzare magnificamente, e creare anzi<br />
complessi architettonici anche più belli che se fossero unitari. Perché proprio al nostro<br />
tempo dovrebbe essere negato?”<br />
La risposta di Eftimio è precisa.<br />
“La ragione non sta in una diversità “epiteliale” delle forme moderne rispetto a<br />
quelle antiche […] e neppure si potrebbe far risiedere nella diversità dei materiali […]. Su<br />
un punto invece non può arrestarsi la nostra indagine: ed è la spazialità […]. La rottura<br />
irrimediabile con la spazialità prospettica, realizzata dallʼarchitettura sia di tendenza<br />
razionale che organica, ha tolto la possibilità non solo di qualsiasi temperamento ma<br />
24 Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeialter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Berlin 1936; trad. it. L’opera<br />
d’arte nell’epoca <strong>della</strong> sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966.<br />
25 C. Brandi, <strong>Eliante</strong> cit., p. 361.<br />
8
anche di ogni contiguità con gli edifici preesistenti 26 […]. Lʼarchitettura moderna è<br />
necessariamente, costituzionalmente, extra moenia. Continuare lʼassurdo di inserire edifici<br />
modernistici […] significa produrre dei cancri architettonici la cui distruttività, sui vecchi<br />
tessuti storici, sʼavvera catastrofica […]. O si fanno dei quartieri integralmente moderni e si<br />
rispettano quelli antichi, oppure la nostra civiltà continuerà a distruggere se stessa, anche<br />
dove crede di salvare qualche residuo” 27 .<br />
Pur condividendo alcune acute considerazioni di Brandi sulla “fenomenologia <strong>della</strong><br />
creazione artistica” e pur rispettando lʼafflato etico che sottende la sua difesa dei centri<br />
storici, su questo punto proverò ad argomentare il mio dissenso per ragioni strettamente<br />
teoriche.<br />
Innanzitutto ritengo che lʼesausta riproposizione <strong>della</strong> tesi hegeliana sulla “morte<br />
dellʼarte” sia priva di fondamento, non solo e non tanto perché smentita dalla ricchezza<br />
ideativa dellʼesperienza artistica otto-novecentesca, quandʼanche e soprattutto perché<br />
presuppone lʼipostasi <strong>della</strong> “filosofia <strong>della</strong> storia”, lasciando intendere che lʼevoluzione<br />
storica <strong>della</strong> civiltà umana abbia una trama, una finalità verso cui tende linearmente. Dopo<br />
lʼinsuperata dimostrazione di Karl Popper su The Poverty of Historicism 28 , su tale<br />
questione non vale la pena di dilungarsi.<br />
In secondo luogo perché lʼinterpretazione brandiana del moderno, lungi da entrare<br />
nel merito <strong>della</strong> complessa vicenda storica di quel movimento - sfociato (proprio per la sua<br />
natura metodologicamente “dinamica”) in una pluralità di correnti morfologiche, peraltro<br />
diversamente evolutesi nel corso del tempo – pretende di fissarne il codice stilistico nei<br />
categorici assiomi <strong>della</strong> “favola” narrata da Nikolaus Pevsner. Come è noto, lʼautore dei<br />
Pioneers of the Modern Movement 29 (1936) aveva a sua volta ipostatizzato la “rottura<br />
irreversibile” prodotta dallʼavvento di una nuova Raumästetik declinata dalle avanguardie a<br />
seguito dellʼirruzione delle nuove tecniche e dei nuovi materiali (acciaio, vetro, cemento<br />
armato, eccetera). Da Morris a Gropius la storia dellʼarchitettura avrebbe seguito (in<br />
questo schema interpretativo a sua volta tardo-hegeliano) un percorso evolutivo lineare,<br />
raggiungendo nel Bauhaus la compiuta epifania del nuovo Zeitgeist epocale: “freddo come<br />
lʼacciaio e trasparente come il vetro”.<br />
26<br />
Ivi, p. 363.<br />
27<br />
Ivi, p. 365.<br />
28<br />
Karl Popper, The Poverty of Historicism, (in forma di articoli 1944-45), London 1957; trad. it. Miseria dello<br />
Storicismo, Milano 1957:<br />
29<br />
Nikolaus Pevsner, Pioneneers of Modern Movement from William Morris to Walter Gropius, London 1936.<br />
9
Lʼequivoco di Brandi sta proprio nellʼavallare, quasi fosse una certezza “ontologica”,<br />
lʼopinabile interpretazione del progetto moderno sostenuta da Nikolaus Pevsner. Non<br />
fossʼaltro che per questo paradosso, appare del tutto comprensibile la levata di scudi di<br />
vari opinionisti, da Giulio Carlo Argan a Gillo Dorfles, e in particolar modo di <strong>Bruno</strong> <strong>Zevi</strong><br />
che nella sua Storia dellʼArchitettura Moderna 30 (1948) aveva disegnato un tracciato<br />
storiografico ben diverso, sotteso da una coraggiosa e appassionata critica ai<br />
fraintendimenti dellʼesangue “funzionalismo”.<br />
Nella foga <strong>della</strong> controversia, Brandi trascura la fase in atto di profonda revisione<br />
teoretica <strong>della</strong> nozione stessa di “modernità”, dischiusasi proprio a seguito dei danni bellici.<br />
Le lacerazioni dei tessuti storici delle città europee avevano provocato un trauma nella<br />
coscienza degli innovatori. Come ha ben chiarito Ernesto Nathan Rogers – in un lucido<br />
scritto che reca il titolo Continuità o crisi? (1957) - “era ormai caduta la ragione polemica<br />
che aveva sollecitato i precursori del Movimento Moderno a qualificare le proprie azioni<br />
«contro» quelle dellʼambiente nel quale avevano dovuto operare con spirito di crociata,<br />
con un massimalismo anche verbale, con i manifesti” 31 .<br />
La visione progettuale da avversare non era più lʼanacronismo mimetico dello<br />
storicismo accademico, ma allʼopposto lʼassenza di senso storico dellʼInternational Style 32 .<br />
Non a caso Martin Heidegger pronunciò la celebre conferenza Bauen, Wohnen, Denken<br />
(Costruire, Abitare, Pensare) nel 1951 a Darmstadt “nel bel mezzo delle rovine provocate<br />
dalle distruzioni belliche” 33 . E forse non è casuale che Theodor W. Adorno abbia esposto<br />
la sua lucida requisitoria contro il funzionalismo 34 in una Berlino devastata dallʼasettica<br />
ricostruzione pseudo-modernista. Dʼaltronde gli stessi maestri del moderno rimisero in<br />
discussione lʼastratta stilematica degli “anni eroici” con opere paradigmatiche, prima<br />
ancora che con testi teorici. Si pensi alla riattualizzazione di antichi etimi messa in forma<br />
da Le Corbusier nella Cappella di Nôtre Dame-du-Haut a Rochamp (1950-55) e nel<br />
Convento di Sainte-Marie-de-la-Tourrette a Eveux (1953-59), o alla rievocazione <strong>della</strong><br />
classicità shinkeliana <strong>della</strong> Neue Nationalgalerie a Berlino (1968) di Ludwig Mies van der<br />
Rohe. Per Frank Lloyd Wright valga ad esempio la già menzionata armonia tra la<br />
30<br />
B. <strong>Zevi</strong>, Storia dell’Architettura Moderna, Einaudi, Torino 1948. Si vedano inoltre dello stesso autore: Verso<br />
un’architettura organica, 1945; F.L. Wright 1947; Saper vedere l’architettura, 1948.<br />
31<br />
Ernesto Nathan Rogers, Continuità o crisi, in «Casabella», n. 215, aprile-maggio 1957, p. 3.<br />
32<br />
Henry Russel Hitchcock, Philip Johnson, The International Style, New York 1932; trad. it. Lo Stile Internazionale,<br />
Zanichelli, Bologna 1982.<br />
33<br />
A sottolineare il nesso tra le parole del filosofo e lo scenario urbano postbellico è stato un testimone <strong>della</strong> statura di<br />
Hans George Gadamer, nell’intervista pubblicata sulle pagine di «Domus», n. 670, marzo 1986.<br />
34<br />
Theodor W. Adorno, Funktionalismus heute, Berlin 1965.<br />
10
stratificazione storica del Canal Grande e la nuova poesia spaziale dellʼirrealizzato<br />
progetto per la <strong>Fondazione</strong> Masieri a Venezia, che al pari <strong>della</strong> Casa delle Zattere di<br />
Ignazio Gar<strong>della</strong> (1954-57) e <strong>della</strong> Stazione di Santa Maria Novella a Firenze (1933-35) di<br />
Giovanni Michelucci avrebbe potuto rappresentare una prova inconfutabile sulla<br />
compatibilità del linguaggio moderno nel cuore delle città storiche italiane. E lo stesso<br />
Walter Gropius, apparentemente più alieno al tema <strong>della</strong> storia, rielaborò senza<br />
infingimenti lʼaura ellenica nella Ambasciata USA ad Atene (1956-61) e, in una lettera<br />
pubblica nelle pagine di «Casabella», mise in guardia i critici frettolosi dal confondere la<br />
sua netta opposizione verso lʼinsegnamento “accademico”, laddove il passato veniva<br />
assunto a modello da plagiare, con il suo profondo interesse per la storia, se<br />
autenticamente intesa 35 .<br />
Lʼesito coerente di questa riscoperta del senso storico fu lo scioglimento definitivo<br />
dei C.I.A.M. 36 a Otterlo, in Olanda, nel 1959. Ebbene, in quella delicata fase storica di<br />
ripensamento del rapporto tra antico e nuovo, è proprio alla cultura italiana che va<br />
riconosciuto il merito di aver criticamente indicato “con maggior consapevolezza, che<br />
lʼenergia del Movimento Moderno stava per spegnersi in una negazione dei suoi stessi<br />
principi perché, nata come metodo di continua ricerca e di conseguenti superamenti del<br />
linguaggio interpretativo, stava per chiudersi – proprio essa che aveva debellato la<br />
concezione accademica degli stili – in uno stile fossile incapace di trasformarsi lungo il<br />
processo dinamico <strong>della</strong> storia […]. Quel che ha realizzato la parte migliore <strong>della</strong><br />
architettura italiana, la più battagliera, la più viva (o almeno quella che io ritengo tale) è<br />
servito a favorire lo scioglimento dello stile moderno, ad allargare il concetto di funzione, a<br />
recuperare il senso <strong>della</strong> storia” 37 .<br />
Riletta in tale ottica, la stessa estremizzata requisitoria di Cesare Brandi contro la<br />
visione “aggressiva” <strong>della</strong> modernità, benché non condivisibile sul piano teorico, resta un<br />
monito che ha offerto un contributo decisivo contro lʼequivoco di intendere lʼinnovazione<br />
estetica e tecnologica come volontà di dissonanza con la stratificazione storica<br />
preesistente. Il pericolo autentico del tempo moderno sta nellʼ“eccesso dei mezzi” che<br />
Gottfried Semper indicò con precoce e lungimirante critica in Wissenshaft, Industrie un<br />
35<br />
E. N. Rogers, Walter Gropius, Siegfried Giedion, Frank Zander, Gropius e il senso <strong>della</strong> storia. Dibattito, in<br />
«Casabella», n. 275, maggio 1963.<br />
36<br />
Crf. B. Gravagnuolo, La parabola del funzionalismo e la crisi dei CIAM, in La progettazione urbana in Europa. 1750-<br />
1960, Laterza, Roma-Bari 1991.<br />
37<br />
E. N. Rogers, Il passo da fare, in «Casabella», n. maggio 1961.<br />
11
Kultur 38 . Se è vero che “il solo modo che ha la nostra epoca di prendere coscienza di se<br />
stessa, è di definirsi rispetto al passato”, allora non resta che augurarsi che la cultura<br />
possa elevarsi fino al punto di incanalare la tecnica verso un progetto di armonia e che il<br />
rispetto <strong>della</strong> storia orienti come una stella polare le rotte progettuali delle nuove tendenze<br />
dellʼarchitettura contemporanea 39 .<br />
38<br />
G. Semper, Wissenshaft, Industrie und Kultur, 1852, trad. it. Architettura, Arte e Scienza, a cura di B. Gravagnuolo,<br />
Clean, Napoli 1987.<br />
39<br />
La bibliografia completa sugli scritti di Cesare Brandi è stata pubblicata in appendice al volume di Massimo Carboni,<br />
Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Jaca book, Milano 2004.<br />
12