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Il pane e la rosa. Antologia della poesia napoletana ... - Adda Editore

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Achille Serrao<br />

IL PANE E LA ROSA.<br />

ANTOLOGIA DELLA POESIA<br />

NAPOLETANA DAL 1550 AL 2000<br />

Cofine, Roma 2005.<br />

È difficile dire se ancora oggi, a distanza di più di cento anni dai primi saggi organici e dalle prime raccolte<br />

di <strong>poesia</strong> <strong>napoletana</strong> approntate nel tardo romanticismo italiano da eruditi quali Bartolomeo Capasso, che nel<br />

1883 pubblicava sull’Archivio Storico per le Province Napoletane un agile pamphlet sul<strong>la</strong> Poesia popo<strong>la</strong>re in Napoli,<br />

vi sia davvero <strong>la</strong> necessità di antologizzare e selezionare, magari con criteri e acume da edizione critica, alcune<br />

decine di testi che vogliano rappresentare l’anima del<strong>la</strong> ‘napoletanità’. A domanda risponde <strong>Il</strong> <strong>pane</strong> e <strong>la</strong> <strong>rosa</strong>, bel<br />

volume di Achille Serrao, che sin dal<strong>la</strong> copertina, un pastello di Aldo Pievanini, si propone non solo come<br />

crestomazia raffinata di elementi tipici del<strong>la</strong> tradizione <strong>napoletana</strong>, ma non disdegna aperture alle novità e<br />

neppure <strong>la</strong> dinamicità del<strong>la</strong> ricerca.<br />

<strong>Il</strong> <strong>pane</strong> e <strong>la</strong> <strong>rosa</strong> sin dal<strong>la</strong> prima lettura ha in sé tre grandi meriti. <strong>Il</strong> primo è quello di dare spazio all’interno<br />

del<strong>la</strong> stessa raccolta, al<strong>la</strong> <strong>poesia</strong> <strong>napoletana</strong> antica e a quel<strong>la</strong> contemporanea, mancando per quasi tutte le<br />

letterature dialettali un’idea complessa come quel<strong>la</strong> di modernità. Serrao, infatti, propone un percorso<br />

cronologico che rappresenti l’evoluzione del<strong>la</strong> lingua e delle tendenze lirico-poetiche concedendo egualmente<br />

dignità ai fenomeni più canonicamente letterari, quali i testi seicenteschi di Giovan Battista Basile o Giulio Cesare<br />

Cortese, e quelli maggiorente legati al costume, che è poi <strong>la</strong> Napoli ‘da cartolina’, delle liriche di Salvatore Di<br />

Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Raffaele Viviani. Secondo merito intrinsecamente legato al primo, è<br />

quello di aver mostrato in un volume agile e di facile lettura come il sentimento lirico partenopeo, non si limiti<br />

al<strong>la</strong> stagione aurea del<strong>la</strong> canzonetta e che esso proceda speditamente anche al di là delle Spingole frangese e dei<br />

racconti di una composta emigrazione, tradotti in struggenti romanze e portate in giro per il mondo sulle bocche<br />

e nei diaframmi asso<strong>la</strong>ti di augusti carusi e titoschipi.<br />

Dal punto di vista del<strong>la</strong> fruizione dell’opera però il terzo merito è quello più grande e consiste nel<strong>la</strong><br />

traduzione posta in calce a ciascun testo presentato. Di per se stesso questo dato non rappresenterebbe<br />

un’innovazione significativa, se non fosse che Serrao, lui stesso traduttore, tenga conto, nel<strong>la</strong> sua versione<br />

italiana, sia del cambiamento epocale, sia del<strong>la</strong> realtà <strong>napoletana</strong> di fine Ottocento, e dia spiegazione puntuale di<br />

espressioni idiomatiche che oggi neppure molti napoletani intenderebbero con facilità. Espressioni come «pizzichi<br />

e vase nun fanno pertose» usata da Di Giacomo nel<strong>la</strong> sua Spingole Frangese contiene al suo interno una realtà assai<br />

quotidiana ai tempi dell’autore come potevano essere i tarli dei mobili, che appunto procuravano buchi<br />

facilmente osservabili e fastidiosi. Serrao, se pur brevemente, attesta anche alcune innovazioni del<strong>la</strong> lingua<br />

<strong>napoletana</strong>, quali l’abitudine, a cavallo fra Ottocento e Novecento, di condire il par<strong>la</strong>to quotidiano, e quindi<br />

anche <strong>la</strong> <strong>poesia</strong>, con termini fino a quel momento sconosciuti nel<strong>la</strong> lingua, spesso frutto del<strong>la</strong> sonorizzazione in<br />

lingua <strong>napoletana</strong> di vocaboli stranieri, <strong>la</strong>tini, o italiani, o <strong>la</strong> creazione di neologismi che rendessero più vitale e<br />

realistica <strong>la</strong> lingua stessa quali sostantivi provenienti da radici verbali già usate nel napoletano popo<strong>la</strong>re o gergale.<br />

Eppure vi è proprio nel<strong>la</strong> tradizione un punto di arrivo: nel teatro, nel<strong>la</strong> <strong>poesia</strong>, nel<strong>la</strong> letteratura in lingua<br />

<strong>napoletana</strong>. Lo spartiacque è rappresentato da Eduardo De Filippo. In tutte le forme d’arte a Napoli, Eduardo<br />

rappresenta <strong>la</strong> fine di un mondo. Non solo di un’epoca, ma di tante epoche prima di lui, ed egli è stato con <strong>la</strong> sua<br />

lunga vita l’unico in grado di poter uccidere e seppellire <strong>la</strong> tradizione; e riesumar<strong>la</strong> dopo, per gettare le basi di una<br />

contemporaneità che, come si è accennato, ha dovuto fare a meno di una vera e propria modernità. Anche nel<br />

Pane e <strong>la</strong> <strong>rosa</strong> Serrao guarda a Eduardo come chiave di volta efficace per il cambiamento, tanto che confermando<br />

le convenzioni del<strong>la</strong> critica militante, individua quelli che vengono dopo Eduardo, inevitabilmente, come neo,<br />

ossia nuovi. Eduardo è, infatti, l’ultimo dei padri, e contemporaneamente il primo dei figli, e per questo in lotta<br />

con i padri per un cambiamento ed è, a sua volta, contestato dai figli, perché esso stesso padre di questi. E qui è<br />

utile pensare al<strong>la</strong> lezione che, fino a poco tempo prima di morire, ci ha ripetuto Giorgio Caproni (a proposito<br />

‘divino’): bisogna uccidere i propri padri, per rinascere illuminati e metaforizzati il terzo giorno carichi di nuova<br />

vita. L’idea di neodialettalità di cui Achille Serrao stesso è in questo momento in Italia tra i massimi sostenitori,<br />

prevede, infatti, proprio un recupero di forme e strategie liriche, spesso dopo un antefatto di ostilità verso le<br />

forme più standardizzate e manierate del<strong>la</strong> tradizione. Trovano così spazio autori di grande impatto come<br />

Michele Sovente, Salvatore Di Natale, Mariano Bàino, tutti e tre nati in anni compresi fra il 1948 e il 1953 che<br />

spaziano fra diversi stili compositivi, e che si rifanno a modelli quasi mai tipici del<strong>la</strong> tradizione italiana, ma<br />

sempre affascinati da quel<strong>la</strong> anglosassone o francese. A questi nomi si devono poi aggiungere due casi che


andrebbero considerati nel<strong>la</strong> loro singo<strong>la</strong>rità: il primo è quello di Tommaso Pignatelli, di cui si sa solo che quello<br />

usato è lo pseudonimo di un importante ex par<strong>la</strong>mentare e quasi certamente ex ministro italiano. Lo pseudonimo<br />

è legato forse al<strong>la</strong> pubblicazione di Luigi Amabile, datata Napoli 1883, dal titolo Fra Tommaso Pignatelli. La sua<br />

congiura e <strong>la</strong> sua morte. Narrazione con molti documenti inediti e con un’appendice di documenti sulle macchinazioni di fra Epifanio<br />

Fioravanti, Rodolfo De Angelis principe di Sanza; questo farebbe pensare ad un personaggio dagli esiti personali non<br />

lieti e nel<strong>la</strong> medesima chiave si potrebbero interpretare alcuni suoi versi quali «tu mo vulisse / ca fute verità ntu<br />

terraturo / subissero n’eccrise», o anche «’O ssaccio chillo ca s’adda fa’ / certe vvote: appiccià o munno, / o ’nzerrasse a tutto,<br />

dicere è fennuta, / non azzetto cchiù manc’ o sole, / nun m’allicuordo d’esse nato». Achille Serrao stesso rappresenta poi un<br />

caso singo<strong>la</strong>re. Poeta, scrittore e saggista in lingua italiana, si è accostato ad un dialetto che non è né esattamente<br />

napoletano, né esattamente il suo. Infatti, figlio di genitori provenienti dall’hinter<strong>la</strong>nd napoletano e più<br />

precisamente da Caivano, nel<strong>la</strong> cosiddetta Terra di Lavoro, scrive in una lingua affettiva che non gli appartiene se<br />

non geneticamente, una lingua dunque ricostruita, e che è tale solo nell’uso letterario che egli ne fa.<br />

Carlo Coppo<strong>la</strong>

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