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associazione culturale <strong>Larici</strong><br />
http://www.larici.it<br />
occhi e gli apparisse sotto un aspetto diverso. Una specie di forza<br />
soprannaturale lo respinse dai compagni con i quali aveva fatto<br />
conoscenza ritenendoli persone distinte ed educate. E poi per molto<br />
tempo, nei momenti più allegri, seguitò ad apparirgli il piccolo<br />
funzionario con le calvizie che diceva le parole toccanti: «Lasciatemi<br />
stare, perché mi offendete?» e in queste parole altre ne echeggiavano:<br />
«Io sono un tuo fratello.» <strong>Il</strong> povero giovanotto si copriva allora la<br />
faccia con una mano e in seguito molte volte trasalì nella sua vita,<br />
vedendo quanta disumanità ci sia nell’uomo, quanta furiosa volgarità si<br />
nasconda nella personalità più raffinata e colta, e, Dio! persino in<br />
individui che il mondo reputa nobili e onesti.<br />
Sarebbe stato difficile trovare un uomo che vivesse così del suo lavoro.<br />
È poco dire che egli prestava servizio con zelo; no, prestava servizio<br />
con amore. Lì, in quel copiare, egli vedeva un certo mondo proprio,<br />
vario e piacevole. La soddisfazione si dipingeva sulla sua faccia; alcune<br />
lettere erano le sue favorite e, quando vi s’imbatteva, non era più lui:<br />
ridacchiava, ammiccava, si aiutava con le labbra, sicché pareva che<br />
sulla sua faccia si potesse leggere ogni lettera che la sua penna<br />
vergava. Se l’avessero ricompensato in maniera proporzionata al suo<br />
zelo, con sua meraviglia egli sarebbe forse diventato persino<br />
consigliere di stato; mentre tutto ciò che aveva ottenuto, come si<br />
esprimevano gli spiritosi suoi compagni, era una mostrina all’occhiello<br />
e le emorroidi ai lombi. Del resto, non si può dire che non si facesse<br />
alcuna attenzione a lui. Un direttore che era un buon uomo e voleva<br />
ricompensarlo per il lungo servizio, ordinò di dargli qualcosa di più<br />
importante della solita copiatura; gli fu così ordinato di stendere, di<br />
una pratica già pronta, una relazione a un altro ufficio; si trattava<br />
soltanto di cambiare il titolo di testa e poi di portare alcuni verbi dalla<br />
prima persona alla terza. Ma questo gli costò una tale fatica che egli<br />
diventò tutto un sudore, si terse la fronte e alla fine disse:<br />
«No, datemi piuttosto qualcosa da copiare.»<br />
Da quella volta lo lasciarono per sempre al suo lavoro di copiatura.<br />
Fuori del copiare sembrava che per lui non esistesse niente. Non<br />
pensava affatto al proprio abito: l’uniforme che portava non era verde,<br />
ma di un certo colore rossiccio farinoso. <strong>Il</strong> colletto l’aveva così basso e<br />
stretto, che il collo, quantunque non fosse affatto lungo, uscendo da<br />
quel colletto pareva insolitamente lungo, come in quei gattini di gesso<br />
che muovono la testa e che venditori ambulanti russi sedicenti stranieri<br />
portano sul capo a decine intere. E poi c’era sempre qualcosa<br />
appiccicato alla sua uniforme, una pagliuzza o un filo; per di più aveva<br />
la speciale arte, quando usciva in strada, di capitare sotto una finestra<br />
proprio nell’istante in cui da essa buttavano fuori ogni sorta di<br />
porcherie e perciò sul suo cappello non mancavano mai scorze di<br />
anguria e di melone e altre sciocchezzuole del genere. Mai una volta<br />
nella vita aveva rivolto l’attenzione a ciò che si faceva e che accadeva<br />
ogni giorno per strada, cosa a cui, com’è noto, sempre guardano i suoi<br />
colleghi, i giovani funzionari che talmente estendono la capacità<br />
penetrativa del loro vivace sguardo da notare addirittura sul<br />
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