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<strong>Liceo</strong> Classico Orazio<br />

Roma<br />

Religioni<br />

e convivenza civile<br />

Tema di approfondimento culturale<br />

per l’a.s. 2006 / 2007<br />

a cura della<br />

Prof.ssa Licia Fierro<br />

con la collaborazione di<br />

(in ordine alfabetico)<br />

Prof. Mario Carini<br />

Prof.ssa Elisabetta De Dato<br />

e con la collaborazione tecnica di<br />

Fabiana Laggetto<br />

Tutto il materiale pubblicato è consultabile<br />

sul sito del <strong>Liceo</strong> Orazio:<br />

www.liceo-orazio.it<br />

- 1 -


S o m m a r i o<br />

Introduzione<br />

Parte prima<br />

Le riflessioni degli studiosi<br />

www.liceo-orazio.it - Religioni e convivenza civile<br />

L’esperienza ebraica nella cultura italiana 6<br />

G. GOMEL – conferenza del 18 gennaio 2007<br />

Un palestinese nel nostro Parlamento 20<br />

A. RASHID – conferenza del 8 febbraio 2007<br />

La religione come strumento di pace e convivenza civile 42<br />

F. DI LEO.– conferenza del 2 marzo 2007<br />

Tavola rotonda sul tema: moderatore dott. P. Naso 64<br />

conferenza del 19 aprile 2007<br />

Parte seconda<br />

Le relazioni degli studenti<br />

Relazioni sulla conferenza del prof. G. Gomel<br />

Massimo Colagiovanni 82<br />

Flaminia Di Lorenzo – Arianna Sorrentino – Silvia Staffa 84<br />

Relazioni sulla conferenza dell’on. A. Rashid<br />

Rosa Calabrese 86<br />

Adriano Masci 89<br />

Carlo Rengo 91<br />

Relazioni sulla conferenza del prof. F. Di Leo<br />

Francesca Caloccia 93<br />

Michelangelo Iuliano 95<br />

Relazioni sulla tavola rotonda moderatore dott. P. Naso<br />

Enrico Campelli 100<br />

Giulia Carrarini 102<br />

Ilaria Gravina 104<br />

Sabina Pieroni 106<br />

Manuela Rasori 110<br />

Aurora Volpini 112<br />

- 2 -


www.liceo-orazio.it - Religioni e convivenza civile<br />

INTRODUZIONE<br />

Il tema del rapporto tra religioni e convivenza civile si colloca più che mai nell’attualità<br />

culturale e politica del nostro paese e dunque lo abbiamo scelto per fornire a studenti e<br />

docenti uno “spazio” di discussione all’interno della scuola.<br />

Sia che la religione si consideri come un’ ideologia derivata dalla “falsa coscienza”, sia<br />

che la si riconosca come prerogativa originaria dell’uomo, sua dimensione costitutiva,<br />

sta di fatto che l’uomo religioso agisce la sua fede nella realtà collettiva in cui i suoi<br />

comportamenti, le regole che li guidano, le stesse pratiche rituali determinano il<br />

costituirsi di una comunità morale che può integrarsi, sovrapporsi, imporsi alla comunità<br />

civile e politica. Ci sono studiosi convinti che la religione, come ricerca del senso<br />

profondo dell’esistenza, come approdo ad una verità assoluta e trascendente abbia<br />

contribuito a conservare la società, ovvero i sentimenti e le idee collettive attraverso il<br />

legame con il sacro si sono saldate e confermate nel tempo e ciò ha reso possibile la<br />

continuità storica di società che altrimenti si sarebbero dissolte. Ma ci sono anche<br />

uomini di pensiero che mettono l’accento sul carattere “autoritario” delle religioni per<br />

la pretesa che tutte hanno di possedere la verità e dunque, al di là della fede privata,<br />

del modo di sentire e conoscere il sacro esse si costituiscono in quanto “chiese” come<br />

centri di potere. La storia dei conflitti di religione, delle momentanee pacificazioni,<br />

degli accordi programmatici mai rispettati, attraversa la vicenda umana nei secoli e<br />

rappresenta un terreno di studio che si arricchisce di sempre nuove chiavi di lettura.<br />

Oggi più che di scontro tra religioni, per lo più disposte in via di principio a confrontarsi<br />

e rispettarsi, si discute di scontro tra civiltà e il paradosso si ritrova proprio nel fatto<br />

che le “civiltà” individuano come elemento costitutivo di sé stesse, primario rispetto a<br />

tutti gli altri, la religione.<br />

I problemi della convivenza civile, in Italia, sono diventati più netti e precisi proprio a<br />

partire dagli effetti dell’immigrazione e delle sue varie anime.<br />

Il nostro paese, a parte un’antica presenza della comunità ebraica, non era fino all’altro<br />

ieri una società multiculturale o multietnica. L’impreparazione ad affrontare il<br />

problema, ha fatto anche emergere, in un conteso storico di “quasi morte delle<br />

ideologie”, uno scontro idelogico in cui si riconoscono rigurgiti di razzismo, egoismi di<br />

varia natura ammantati dal nobile scopo di preservare la nostra tradizione culturale e<br />

religiosa. E ritorna prepotente il tema dell’identità, la necessità di riconoscersi, come se<br />

ciò fosse possibile ad una sola dimensione, come se ciascuno fosse un “io” abilitato a<br />

confrontarsi solamente con quel “tu” che parla in tutti i sensi la medesima lingua. Una<br />

sorta di nuova selezione naturale per preservare la “purezza” delle società storicamente<br />

superiori. Sono queste delle realtà o dei pericoli ? Come si possono ripensare le regole<br />

della comune convivenza? Quale il ruolo dei singoli, delle associazioni e soprattutto,<br />

quale il compito dello stato? Chi è, oggi, l’uomo religioso? E soprattutto le chiese in<br />

quali ambiti possono intervenire per aiutare e sostenere le relazioni fra uomini che<br />

vengono da mondi e tradizioni diverse?<br />

Su tali complesse tematiche sono stati chiamati a discutere nell’Aula Magna del nostro<br />

liceo alcuni intellettuali particolarmente impegnati a promuovere l’incontro e la<br />

collaborazione fra culture diverse. Il dottor Giorgio Gomel, direttore dell’ufficio per le<br />

relazioni internazionali della Banca d’Italia, tra i fondatori negli anni ’80 del “Gruppo<br />

Martin Buber-Ebrei per la pace”, ha tenuto una lezione-dibattito incentrata<br />

sull’esperienza passata e presente degli ebrei italiani , avvalendosi di ampia<br />

documentazione e inserendo la questione religiosa nel contesto politico interno al nostro<br />

paese, senza sottacere i risvolti del problema a livello internazionale. L’onorevole Alì<br />

- 3 -


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Rashid, un diplomatico palestinese, eletto nel nostro Parlamento, ha fornito una<br />

preziosa testimonianza di come sia possibile mantenere la propria “appartenenza “ al<br />

paese d’origine e al tempo stesso inserirsi a pieno titolo nella nazione ospitante. La sua<br />

relazione ha toccato gli aspetti più controversi del rapporto religione- convivenza civile<br />

con riferimenti puntuali anche a singole, particolari situazioni concrete. Il professor<br />

Federico Di Leo, che è un economista, qui si è presentato soprattutto come esponente<br />

della Comunità di Sant’Egidio, ed ha inteso comunicare agli studenti un modo di<br />

concepire la religione e di viverla nel servizio e nello spirito della reciproca<br />

“conversione”. Egli ha impostato la sua riflessione partendo dalla dimensione ecumenica<br />

di “Assisi”ed ha quindi riferito, anche attraverso la sua storia personale, il contributo<br />

della Comunità alla convivenza tra popoli e culture.<br />

Il ciclo di conferenze si è concluso con una tavola rotonda cui hanno partecipato tutti i<br />

relatori tranne l’onorevole Rashid che se ne è rammaricato Il dottor Paolo Naso,<br />

moderatore della tavola rotonda, è direttore della rivista “Confronti” e fra l’altro,<br />

conduce la trasmissione televisiva “Protestantesimo”. La sua presenza è stata oltremodo<br />

importante, non solo per la funzione cui era stato deputato, ma anche perché i suoi<br />

interventi e le spiegazioni fornite agli studenti si sono tradotti in una sorta di<br />

“conferenza” aggiunta alle altre, come un vero e proprio completamento degli incontri<br />

sul tema, nella consapevolezza non di esaurirlo, ma di fornire spunti per una riflessione<br />

sempre più ricca.<br />

In questo saggio, accanto alla rielaborazione delle conferenze-dibattito, vengono<br />

pubblicate le migliori relazioni degli studenti come segno concreto di una scuola che ha<br />

l’ambizione di confrontarsi con i problemi attuali alla luce di un patrimonio antico di<br />

conoscenza e di studio.<br />

- 4 -<br />

La Coordinatrice<br />

Prof. Ssa Licia Fierro


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P a r t e p r i m a<br />

Le riflessioni degli studiosi<br />

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L’esperienza ebraica<br />

nella cultura italiana<br />

Giorgio Gomel<br />

Conferenza del 18 gennaio 2007<br />

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Prof.ssa Fierro: Cari ragazzi, innanzitutto benvenuti a questo ciclo di conferenzedibattito<br />

sul tema “Religione e convivenza civile”, che si articolerà, a partire da oggi<br />

fino ad aprile, con scansione mensile. Prima di presentarvi il nostro ospite di oggi, voglio<br />

darvi alcuni cenni introduttivi all’iniziativa. E’ tradizione consolidata del nostro liceo,<br />

quella di individuare tematiche di riflessione particolarmente pregnanti nell’attualità<br />

culturale e di trattarle, per quanto possibile con gli strumenti e le collaborazioni che<br />

riusciamo ad ottenere, anche grazie alla disponibilità di intellettuali che ci regalano<br />

tempo e competenza. Perché questo tema…Si fa un gran parlare di identità in questo<br />

mondo sempre più globalizzato e, come afferma Amartya Sen nel suo “Identità e<br />

violenza”, l’identità può anche uccidere e uccidere con trasporto, perché la solidarietà<br />

all’interno di un gruppo può alimentare la discordia fra gruppi e il discorso si complica<br />

oltre ogni misura, quando la diversità intellettuale e religiosa sembra giustificare lo<br />

scontro delle civiltà e l’unicità dei valori ridesta la guerra, lo spirito di crociata . E così<br />

lo straniero non è più (per dirla con Enzo Bianchi, priore di Bose) “uno che viene da<br />

lontano e non parla la nostra lingua, ma uno che è diverso e al suo apparire si configura<br />

come l’hostis latino, mentre dovremmo renderlo hospes. Non accogliere la diversità è<br />

uno dei grandi mali del nostro tempo”. Dove affonda la radice del problema, come se lo<br />

pongono le varie religioni nella teoria e come lo risolvono nella prassi; quali sono le<br />

dinamiche che in una società civile presiedono o dovrebbero presiedere alla convivenza<br />

nel rispetto reciproco. Di questo vogliamo parlare senza alcuna presunzione e su un<br />

piano didattico-formativo. Oggi è con noi e lo salutiamo con entusiasmo, il dottor<br />

Giorgio Gomel , direttore per le Relazioni internazionali della Banca d’Italia. Egli ha<br />

insegnato in varie Università in Italia e all’estero e sono molteplici le sue pubblicazioni<br />

in ambito “tecnico”, ovvero sui temi relativi al coordinamento internazionale delle<br />

politiche economiche, sulle crisi finanziarie, sul debito estero, sui movimenti migratori<br />

internazionali. Egli è stato, inoltre, tra i fondatori negli anni ’80 del “Gruppo Martin<br />

Buber-Ebrei per la pace” che è un’associazione politico-culturale ebraica, impegnata nel<br />

dialogo interculturale, tra religioni e culture, nella lotta al razzismo e all’antisemitismo,<br />

nella promozione di una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina. Il dottor<br />

Gomel, è, per tali aspetti della sua storia pubblica e personale l’intellettuale più adatto<br />

ad introdurre la questione in esame nella prospettiva laica ed illuminata, fuori da ogni<br />

tentazione integralista. A lei la parola dottor Gomel e ancora grazie.<br />

Dott. Gomel: Ringrazio la prof.ssa Fierro e il preside; le loro parole sono state troppo<br />

elogiative per cui adesso sono un po’ in imbarazzo. Il tema fra l’altro è molto difficile;<br />

sta diventando più complesso in un paese come l’Italia che non era assuefatta per la sua<br />

storia al rapporto con le minoranze, con il diverso, con lo straniero. Dunque, questo<br />

tema della convivenza multiculturale è oggi più concreto; al di là dell’astrattezza<br />

filosofica, fa parte anche del vostro vissuto personale e collettivo. Dirò qualcosa<br />

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soprattutto dal punto di vista dell’esperienza ebraica, perché la cosa molto peculiare<br />

dell’essere ebreo è la condizione di minoranza; gli ebrei sono vissuti nella storia europea<br />

in una condizione di minoranza, in generale piccola, certamente in Italia esigua, altrove<br />

un po’ meno, ma strettamente integrata con la società circostante. Questa esperienza<br />

può servire forse anche da paradigma per altre minoranze che col fenomeno<br />

dell’immigrazione vengono a integrarsi nella società italiana. Quindi dobbiamo<br />

affrontare i problemi che ne scaturiscono, le difficoltà che ci sono e gli antidoti che ci<br />

assicurino che il rapporto con l’altro sia qualcosa di non violento, sia percepito come un<br />

beneficio per tutti e non come un demone. Parlerò a titolo personale essenzialmente<br />

perché l’essere ebreo è qualcosa di molto pluralistico; ci sono molti modi di essere ebrei<br />

e non vi è nell’ebraismo una organizzazione gerarchica come la chiesa. Se ne fa anche<br />

un po’ di bonaria ironia, osservando che “ci sono tanti ebraismi quanti sono gli ebrei,<br />

magari anche qualcuno di più”, oppure che se ci sono due ebrei ci sono tre opinioni.<br />

Dunque il tema fondamentale è quello del confronto interculturale, del rapporto cioè fra<br />

culture, religioni, civiltà in senso più lato; è come fare sì che il confronto fra culture<br />

assuma delle forme non violente. Ora non è una cosa facile l’incontro tra culture<br />

diverse. L’incontro con l’altro è qualcosa di per sé abbastanza problematico, perché<br />

nell’incontro con l’altro tu come individuo, come società, come comunità, devi in primo<br />

luogo definire te stesso, la tua identità. La questione dell’identità, che è così<br />

fondamentale nel dibattito contemporaneo, è qualcosa di complesso, perché l’identità<br />

umana è un insieme molteplice di riferimenti, di esperienze, di appartenenze. Amartya<br />

Sen dice “io sono indiano, ma sono anche inglese perché ho vissuto in Inghilterra tanti<br />

anni, sono anche un filosofo e un economista, sono anche un giocatore di cricket, mi<br />

piace la Juventus, mi piace mangiare il cus-cus, mi piace di più il pollo all’indiana, ecc.<br />

ecc..” Se voi pensate a voi stessi, già definire la vostra identità è qualcosa di complesso;<br />

direte probabilmente: sono italiano dal punto di vista della cittadinanza, sono cattolico<br />

di nascita o di formazione. Se pensate alle vostre propensioni, ai vostri gusti e alla<br />

vostra tradizione familiare, alla vostra educazione, troverete una lunga lista di elementi<br />

che costituiscono la vostra identità. Il punto molto delicato è che il rapporto con l’altro,<br />

sia come individui e tanto più come comunità organizzate - religioni, società, civiltà -<br />

presuppone che voi definiate voi stessi, che voi riconosciate in qualche modo la vostra<br />

identità e questa identità è qualcosa di multiforme, di complesso. E’ vero che oggi si<br />

enfatizza enormemente questo tema delle identità, che è diventato qualcosa di<br />

ossessivo a volte. Nelle ideologie razziste si postula una gerarchia fra le identità, fra le<br />

differenze: si afferma che una civiltà è superiore alle altre. Questo è inaccettabile, però<br />

è anche inaccettabile, a mio parere, il mito di un’eguaglianza astratta fra gli uomini.<br />

C’è qualcosa di comune fra di noi, in quanto apparteniamo tutti al genere umano; quindi<br />

io ho qualcosa certamente in comune con la ragazza della prima fila o con il preside che<br />

è accanto a me, perché apparteniamo a qualcosa che possiamo chiamare umanità,<br />

genere umano. Ma ci sono molte differenze fra di noi e queste differenze vanno<br />

riconosciute con civiltà, con educazione, con rispetto, ma vanno riconosciute non<br />

soltanto perché esistono, ma perché è il rapporto fra queste differenze e la<br />

comunicazione fra esse che genera progresso. Un grandissimo antropologo ormai più che<br />

novantenne, Claude Lévi-Strauss, dice in uno dei suoi libri che “occorre evitare<br />

l’avvento di un mondo in cui le culture animate da una passione reciproca non<br />

aspirassero ad altro che a celebrarsi l’un l’altra, in una confusione in cui ciascuna di esse<br />

perderebbe il fascino che avrebbe potuto esercitare sulle altre e la propria ragione di<br />

esistere”. Quindi dobbiamo cercare un punto di equilibrio che è molto delicato fra<br />

l’universalità dell’appartenere al genere umano e il rispetto e il riconoscimento delle<br />

differenze ed è questo, credo, il faticoso sentiero su cui ci dobbiamo incamminare. La<br />

tolleranza, il rispetto della differenza dell’altro, come principio su cui fondare le<br />

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relazioni umane, poggia per un verso sulla capacità di affermare la propria identità e per<br />

l’altro sulla necessità di riconoscere un diritto uguale al nostro da parte di chi afferma<br />

se stesso. Questo vuol dire, al di là dell’enunciato un pochino astratto, che nel rapporto<br />

con l’altro ogni individuo o società deve affermare la propria identità in un modo non<br />

esclusivistico, deve essere in grado, cioè, di mettere in forse i propri riferimenti<br />

culturali, anche in rapporto, in conflitto con quelli dell’altro. Il grande filosofo ebreotedesco<br />

Martin Buber, al quale noi ci ispiriamo nel nostro lavoro di gruppo, ha teorizzato<br />

un’idea del dialogo, che richiama il titolo di un suo libro, “Io e tu”, secondo cui io<br />

capisco come sono fatto soltanto nel rapporto con te. Il dialogo va inteso come<br />

confronto autentico fra l’io e il tu. Se ciò vale tra individui, si può estendere<br />

ovviamente al caso di società, di civiltà e di religioni.<br />

Voglio ora affrontare più specificamente l’esperienza ebraica; intanto perché è<br />

importante come esperienza di per sé storicamente, ma poi anche perché forse può<br />

servire come modello da imitare, un’esperienza comunque da cui trarre insegnamenti<br />

anche per la società contemporanea più in generale. In che senso è importante<br />

l’esperienza ebraica? Gli ebrei della diaspora sono stati un popolo disperso tra i popoli,<br />

come suggerisce la parola diaspora, dispersione; l’esperienza ebraica della diaspora è<br />

stata quella di una minoranza in un rapporto di scambio con altre società; gli ebrei<br />

hanno interiorizzato così la condizione di minoranza. L’essere minoranza per tanti versi<br />

è doloroso e difficile, ma per altri è benefico nel senso che uno è costretto<br />

fisicamente, materialmente a porsi in rapporto con l’altro, con la cultura maggioritaria<br />

della società in cui vive. L’identità ebraica è qualcosa di molto complesso, un insieme<br />

di elementi che hanno a che fare con la religione, la cultura, l’appartenenza comune,<br />

ma l’aspetto distintivo dell’identità ebraica nel vivere concreto degli ebrei è stata<br />

questa interazione con le società circostanti: gli ebrei sono vissuti nello Yemen, in<br />

Spagna, in Germania, in Italia e altrove, in alcuni momenti della loro storia in modo<br />

molto doloroso, soggetti a persecuzioni , ad esili, in altri interagendo in modo fecondo<br />

con la società intorno a loro. Credo che la grandezza della cultura ebraica e il contributo<br />

che gli ebrei hanno dato alla storia dell’umanità al di là dei propri numeri abbiano a che<br />

fare con questa specificità, col fatto di vivere in mezzo agli altri e di fondere la propria<br />

cultura con altre. Il motivo per cui gli ebrei hanno dato così tanto alla letteratura, alla<br />

scienza, alla musica non è perché essi siano come nello stereotipo comune più<br />

intelligenti, ma perché sono vissuti in mezzo agli altri e hanno dovuto, voluto interagire<br />

con gli altri assimilando la cultura circostante, cercando di fonderla con gli elementi<br />

costitutivi della propria identità. Si tratta ora di chiarire in che senso questa esperienza<br />

possa servire in società come la nostra oggi, come l’Italia e altre società soprattutto in<br />

occidente che si vanno evolvendo verso forme multiculturali e multietniche. Il caso<br />

italiano è abbastanza problematico perché l’Italia è una società che fino a venti anni fa<br />

pur con la sua esperienza di municipalismi, di localismi, di dominazioni straniere, non è<br />

stata nella sua storia una società multietnica. E’ vero che gruppi di popolazioni si sono<br />

insediati via via in questo paese con il succedersi delle dominazioni e si sono assimilati<br />

con il nucleo preesistente, però non si è avuta in Italia, rispetto ad altre nazioni<br />

d’Europa, un’esperienza di convivenza fra etnie, culture e religioni diverse. Fino a<br />

mezzo secolo fa, fino alla seconda guerra mondiale, in fondo questa era una società<br />

prevalentemente contadina e quindi il rapporto con l’altro da sé e il contatto con lo<br />

straniero non facevano parte del vissuto, del retaggio esistenziale e concreto della<br />

gente. Le cose stanno cambiando molto rapidamente negli ultimi anni; però forse questo<br />

substrato italiano non multietnico concorre a spiegare la soglia piuttosto bassa di<br />

tolleranza rispetto allo straniero, e gli stessi fenomeni di razzismo come reazione alla<br />

immigrazione. Se uno rapporta il numero di stranieri in Italia alla popolazione, rispetto<br />

alla Germania o alla Francia o all’Inghilterra, ma anche a paesi piccoli, come la<br />

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Svizzera, il Belgio ecc., l’Italia ha pochi stranieri, però il punto è il dinamismo del<br />

fenomeno, il fatto che sia un fenomeno molto recente, ma tumultuosamente rapido. La<br />

gente non sa come reagire a questo fenomeno; vi è dunque un’opera non soltanto di<br />

educazione dal punto di vista intellettuale, ma di concreta educazione al convivere con<br />

l’altro che si impone adesso con urgenza in Italia. Nel caso dell’Italia gli ebrei hanno<br />

costituito per molti secoli, anzi per millenni, in fondo, l’unica minoranza veramente<br />

diversa, l’unica minoranza religiosa e culturale, con una storia alterna di espulsioni, di<br />

persecuzioni, di esili e ritorni, ma anche di permanenza ininterrotta per ormai oltre due<br />

millenni, caso unico in occidente. Gli ebrei sono arrivati in Italia deportati da Tito<br />

quando l’Israele biblico fu distrutta, conquistata dai romani. Tito deportò in condizioni<br />

di schiavitù gli ebrei a Roma; alcuni rimasero in Palestina, ci furono ulteriori ribellioni<br />

fino ad Adriano nel 200 quando finì l’esperienza statuale, nazionale degli ebrei in<br />

Palestina. Con la nascita dello stato di Israele nel 1948, questo si è riproposto dopo<br />

duemila anni di interruzione. Ma il fatto specifico dell’Italia, cosa che non si ritrova in<br />

Francia, in Germania, in Polonia, in comunità ebraiche molto più consistenti di quella<br />

italiana, è che gli ebrei sono vissuti in modo permanente nel paese per duemila anni.<br />

Fino al 1200 vivevano essenzialmente nel Meridione, da cui furono poi espulsi (c’erano<br />

comunità ebraiche in Puglia, in Sicilia, a Napoli), costretti a emigrare verso il nord. Poi<br />

vi furono immigrazioni di comunità ebraiche sempre piccole nei numeri dal centro ed est<br />

d’Europa e con le espulsioni dalla Spagna nel 1492 altri ebrei sono arrivati in Italia. Vi è<br />

stata quindi una storia ininterrotta di presenza ebraica in Italia, molto piccola nei<br />

numeri nell’età moderna (il massimo raggiunto negli anni ‘30 prima delle persecuzioni<br />

fasciste è stato di cinquantamila persone). Secondo gli storici ci fu un momento nella<br />

storia italiana, tra il 1000 e il 1100, in cui vivevano in Italia centomila ebrei, un numero<br />

cospicuo rispetto alle dimensioni della penisola, concentrati nel Meridione, tra la Sicilia,<br />

la Puglia, la Calabria. Comunque parliamo in generale di numeri molto esigui rispetto<br />

alla popolazione italiana e rispetto anche ad altre comunità ebraiche nel mondo, in<br />

particolare in Europa. In realtà, ci sono residui, segni nelle epigrafi, nelle iscrizioni<br />

ritrovate nell’isola Tiberina, che mostrano una presenza ebraica a Roma fin dal secondo<br />

secolo A.C. Alcuni ebrei probabilmente attratti dal potere crescente di Roma in campo<br />

intellettuale ed economico, dalla Palestina o da altre regioni del Mediterraneo<br />

immigrarono a Roma. In Italia, come altrove in Europa, ma soprattutto in Italia per le<br />

ragioni che ho detto, gli ebrei hanno rappresentato per molti secoli il paradigma del<br />

diverso, di una minoranza religiosa e culturale, irriducibilmente diversa, che permaneva<br />

nella società, ma era qualcosa di estraneo alla cultura cattolica dominante, che la<br />

Chiesa ha ripetutamente nella storia tentato di eliminare, di espungere da sé.<br />

L’emblema di ciò è l’esperienza del ghetto, inventato intorno alla metà del ‘500. Che<br />

cosa è effettivamente il ghetto? E’ l’idea e la pratica di separare gli ebrei dal resto della<br />

società, cioè di costruire un luogo di segregazione in cui questa minoranza fosse<br />

fisicamente oltre che culturalmente separata. Gli ebrei hanno dovuto vivere in<br />

condizione di esclusione ed emarginazione per circa tre secoli in Italia dalla metà del<br />

‘500 fino al 1848 e a Roma fino al 1870, con la liberazione della città dallo Stato<br />

pontificio. Nel resto dell’Italia furono formalmente le Costituzioni del 1848 che<br />

conferirono agli ebrei diritti di eguaglianza civile e politica e quindi la partecipazione<br />

alle professioni, il diritto di voto, il diritto alla scolarità. Perché è significativa questa<br />

vicenda storica? Perché vi dà esattamente il senso della questione: conciliare<br />

l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, con il rispetto del diritto alla diversità sul<br />

piano religioso, culturale, etnico. Questo confine fra il diritto alla differenza e il vincolo<br />

dell’uguaglianza davanti alla legge è qualcosa di fragile; e cioè, come si concilia da un<br />

lato il principio dei diritti uguali per tutti con il rispetto della diversità nelle cose<br />

concrete, nel modo di lavorare, nell’organizzazione del lavoro, nel tempo di lavoro. Gli<br />

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ebrei, per esempio, celebrano la festività religiosa il sabato, i musulmani il venerdì, i<br />

cristiani la domenica; come si fa allora a rispettare queste diversità e a conciliarle nella<br />

organizzazione del lavoro? Oppure le regole alimentari che nell’ebraismo, nell’islam<br />

sono molto simili e al tempo stesso assai diverse dalle vostre; come si possono conciliare<br />

queste esigenze concretamente? Sono temi che vanno al di là del piano filosofico, hanno<br />

a che fare con il vissuto concreto di tutti i giorni. Pensate, per esempio, agli immigrati<br />

più recenti in Italia; sicuramente conoscete dei giovani immigrati o figli di immigrati di<br />

seconda generazione. Il dilemma posto dall’insediamento degli immigrati in una società,<br />

qual è? Da un lato gli immigrati vogliono essere trattati in modo uguale (siamo tutti<br />

uguali davanti alla legge e vogliamo essere trattati esattamente come gli altri), però<br />

nello stesso tempo vogliono essere trattati differentemente, cioè auspicano che la<br />

società riconosca la propria differenza. Per esempio nell’accesso ai servizi sociali, nel<br />

diritto di famiglia, nell’orario di lavoro, tutte cose che dovrebbero rispettare le diverse<br />

appartenenze culturali, tradizioni religiose, ecc. In generale nelle società di<br />

immigrazione in un primo momento c’è un processo assimilatorio abbastanza rapido,<br />

perché lo straniero che immigra in un paese all’inizio vuole assimilarsi, diventare come<br />

gli altri, soprattutto quando si tratta di un’immigrazione individuale come è successo in<br />

Italia quindici anni fa. Era un’immigrazione di individui, in genere maschi che venivano a<br />

lavorare in Italia, lasciando le famiglie nel proprio paese di origine, ma adesso la<br />

tipologia dell’immigrazione sta cambiando perché ora immigrano anche le famiglie, si<br />

formano nuclei familiari e sociali più complessi, più numerosi. Quando ci sono comunità<br />

più vaste, soprattutto con famiglie, allora la domanda degli immigrati diventa diversa;<br />

non è più tanto una spinta ad assimilarsi, ma un desiderio di formare scuole, di esigere<br />

rispetto, anche nell’orario di lavoro, delle proprie tradizioni, in particolare delle<br />

festività, così come nelle mense di scuola, nel servizio militare o negli ospedali - un<br />

trattamento specifico in cui ci siano per esempio rabbini nel caso ebraico o imam nel<br />

caso musulmano che possano assistere i malati negli ospedali. Questo è successo anche<br />

con le comunità ebraiche, riconosciute dallo stato italiano come comunità organizzate<br />

agli inizi della storia dell’Italia unitaria dopo il 1861; un passo giuridicamente<br />

importante è avvenuto soltanto nel 1987. In quella occasione, le comunità ebraiche<br />

hanno firmato le Intese con lo Stato così come altre comunità religiose minoritarie, per<br />

esempio i protestanti, i testimoni di Geova, gli avventisti e altri. Il caso musulmano è<br />

molto complesso perché ci sono diversi organismi rappresentativi dei musulmani e quindi<br />

il fatto di firmare un’unica intesa con lo Stato è qualcosa di molto difficile. Voglio fare<br />

due esempi molto concreti di cosa voglia dire conciliare l’idea dell’uguaglianza di tutti<br />

con il rispetto delle diversità; nelle Intese con lo stato, per esempio, gli ebrei hanno<br />

accettato leggi italiane che sono in contrasto con le norme dell’ebraismo. Il rito della<br />

sepoltura è un caso del genere: un ebreo quando muore viene avvolto in un lenzuolo<br />

bianco e sepolto nella terra, secondo la tradizione ebraica. L’idea è che il corpo ritorni<br />

alla terra, diventi polvere così come era nel momento della nascita. Gli ebrei hanno<br />

dovuto in questo caso conformarsi alle leggi dello stato che impongono la sepoltura in un<br />

cimitero, in una bara. Al contempo lo stato ha riconosciuto la differenza ebraica; per<br />

esempio, pur essendo gli ebrei una minoranza molto piccola (in Italia trentamila<br />

persone) lo stato ha riconosciuto la specificità delle norme alimentari ebraiche. Gli ebrei<br />

possono mangiare la carne bovina ma soltanto se l’animale è macellato in un certo<br />

modo: esso viene sgozzato e il sangue viene tolto perché simbolicamente è qualcosa che<br />

rappresenta l’impurità. Lo stato riconosce agli ebrei il diritto di macellazione, nell’islam<br />

è la stessa cosa perché quello che noi chiamiamo “kasher” i musulmani chiamano<br />

“halal”. Lo stato riconosce agli ebrei il diritto di macellare l’animale secondo la propria<br />

tradizione e di mangiare quel tipo di carne e non altro e riconosce, pur con alcune<br />

difficoltà, il rispetto delle festività ebraiche: nella scuola, nei concorsi di Stato, nel<br />

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servizio militare. Io ho fatto il servizio militare venticinque anni fa, non sono un ebreo<br />

osservante, ma alcune festività importanti come il Capodanno e la Pesach (la Pasqua) le<br />

volevo osservare e devo dire che le ho osservate anche prima dell’intesa con lo Stato.<br />

Fino agli anni ‘70, la situazione era molto diversa rispetto ad oggi e tutto dipendeva<br />

dalla cortesia del comandante, il che è inaccettabile, perché ci deve essere una norma<br />

giuridica uguale per tutti. Insomma, ho insistito e sofferto per ottenere che nelle<br />

festività ebraiche mi dessero una licenza, o il giorno di Kippur, che è il giorno del<br />

digiuno ebraico per ventiquattro ore, non mi facessero lavorare, non mi facessero fare le<br />

guardie, né tenere un fucile in spalla. Un altro esempio: il Ministero degli Interni emana<br />

all’inizio dell’anno ebraico, in settembre, un calendario delle festività ebraiche<br />

riconosciute e in quei giorni gli ebrei hanno diritto nell’impiego pubblico così come nel<br />

privato, nelle scuole come negli ospedali, di astenersi dal lavoro con l’intesa che poi<br />

questo tempo sia recuperato flessibilmente nel corso del mese successivo o dell’anno.<br />

Ho fatto questo lungo discorso esemplificando con alcuni casi concreti per darvi il senso<br />

di come sia difficile passare dall’enunciazione astratta dell’idea di società<br />

multiculturale che molti accettano (non tutti la accettano idealmente) al viverla<br />

concretamente. Le relazioni fra culture non devono portare a una situazione in cui tutti<br />

dissolviamo le nostre differenze, ci mescoliamo e siamo contenti di essere uguali,<br />

indistinti. Al contrario, ognuno riconosce la diversità dell’altro, ma non in una relazione<br />

di dominio per cui una cultura è egemone sulle altre, una cultura domina e opprime le<br />

altre, ma ci si accetta reciprocamente e le culture minoritarie hanno la stessa dignità<br />

delle altre.<br />

Vi dicevo all’inizio della condizione di minoranza, del fatto che per un certo verso è una<br />

bella sciagura, perché essere trentamila ebrei in una società di sessanta milioni di<br />

persone non è facile, ma anche una fortuna perché uno impara i modi concreti del<br />

vivere con l’altro. Mi ricordo anni fa in un liceo feci una battuta e la ripeto adesso: io vi<br />

augurerei di essere minoranza per almeno qualche tempo della vostra vita perché è una<br />

cosa che fa bene all’anima e al corpo. Se uno di noi va per cinque mesi a vivere in<br />

Camerun, un paese in cui la gente intorno a noi è nera, uno assimila che cosa significhi<br />

concretamente essere minoranza; è una esperienza positiva che segna nel profondo la<br />

vita e che vi auguro sinceramente di provarla perché è una cosa molto formativa. Il<br />

passo molto difficile che le società devono fare, e non l’abbiamo ancora fatto<br />

certamente noi in Italia, è accettare che ci siano culture di minoranza e che esse<br />

debbano essere accettate nella loro dignità, nella loro integrità esattamente come le<br />

altre. C’è qui un punto assai delicato. Quando si parla del rispetto delle diversità, ci<br />

sono delle “diversità diverse” (scusate il gioco di parole); ci sono invece diversità che io<br />

considero neutre come il modo di vestire, il modo di mangiare. Sono delle diversità<br />

neutre nel senso che possono essere tutte facilmente accettate, nel convivere. Vi sono<br />

invece alcune diversità che caratterizzano una società e sono irrinunciabili come la<br />

parità dei sessi, i diritti umani, lo stato di diritto, la democrazia; questi elementi sono<br />

quei valori condivisi e costitutivi di una società. Perché oggi siamo in una condizione così<br />

delicata nel mondo in generale, non soltanto in Italia? Perché si deve trovare un modo in<br />

cui le diversità che ho chiamato neutre possano essere rispettate e diventare il<br />

fondamento della convivenza fra le culture. Ma ci sono altre diversità, quei principi<br />

fondamentali del vivere tra umani che io chiamerei i diritti umani, di cui due<br />

fondamentali, la parità dei sessi e lo stato di diritto; questi due principi sono veramente<br />

costitutivi di una società, perché rappresentano un minimo di valori condivisi sulla base<br />

dei quali la comunità può riuscire a far convivere etnie e culture diverse in modo non<br />

violento. E’ questo il sentiero sicuramente tortuoso sul quale dovremo procedere,<br />

dovrete procedere voi negli anni e nelle generazioni a venire.<br />

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Prof.ssa Fierro: Io sono rimasta colpita da una serie di riflessioni, ma ne propongo una<br />

ancora all’attenzione come domanda e cioè il discorso sui nuovi ghetti. Da una parte,<br />

dottore, lei ci diceva che in realtà c’è un diritto irrinunciabile alla diversità e cioè<br />

contestava il concetto astratto di uguaglianza e dall’altro però c’è anche bisogno di<br />

riconoscere quelle che sono le varie minoranze. Il riconoscimento nel momento in cui<br />

ognuna di queste rivendica la sua scuola, il suo modo di organizzare l’istruzione, di<br />

organizzare la vita associata non può diventare un nuovo ghetto in cui relegare appunto<br />

queste nuove minoranze che all’interno delle nostre società diventano sempre più<br />

numerose, addirittura più numerose di quella minoranza storica presente da tanti anni<br />

da noi quale può essere la minoranza ebraica?<br />

Michelangelo: Spero che sia pertinente, essa riguarda la nostra identità politica. Io ho<br />

letto un suo articolo che ha scritto nei riguardi di Alleanza Nazionale. In questo partito<br />

negli ultimi anni abbiamo visto una svolta democratica rispetto all’ex MSI, Movimento<br />

Sociale Italiano, portatore e continuatore dei valori del ventennio fascista. Si è avuta<br />

una svolta democratica con il Congresso di Fiuggi e con il viaggio di Fini in Israele.<br />

L’apparenza democratica di questo partito io credo che sia sovrastrutturale rispetto alla<br />

sua base. Io conosco tanti giovani che continuano nei comportamenti e negli<br />

atteggiamenti a riesumare quelli che erano i gesti e gli atteggiamenti tipici del periodo<br />

fascista. Lei da esponente della comunità ebraica come giudica questo movimento<br />

politico italiano?<br />

Daniele: Secondo lei l’esperienza ebraica come minoranza è assimilabile alle esperienze<br />

di immigrazione? Secondo me no, proprio per una diversità storica e anche dal punto di<br />

vista sociale.<br />

Giulio: E’ importante per noi e per tutti quanti avere un’identità e soprattutto è<br />

importante riflettere sulla propria identità, quindi non deve essere, come lei stesso ha<br />

chiarito, una bandiera da sventolare soltanto quando ci fa più comodo o è più utile per<br />

noi. Di conseguenza quanto secondo lei è determinante l’utilizzo a comodo della propria<br />

identità nella nostra società e quanto può influenzarla in modo positivo o negativo?<br />

Dott. Gomel: Inizio dall’ultima. Giulio, concordo con te. Ho insistito sul tema<br />

dell’identità e mi sono soffermato e sull’esperienza ebraica perché è mio compito<br />

parlarne in questo ciclo di lezioni. C’è però oggi un’ossessione dell’identità e trovo<br />

molto bello il libro di Amartya Sen che vi ha suggerito la professoressa Fierro. Esso non<br />

dice niente di davvero rivoluzionario per gente che conosce questi temi; però è scritto in<br />

modo divulgativo, lineare. La citazione che abbiamo letto all’inizio, quando Sen dice: "io<br />

sono un giocatore, sono un amante del jazz, sono un diplomatico…” cosa vuol dire più<br />

profondamente? L’identità non è qualcosa da sventolare, come emblema, come bandiera<br />

in ogni istante; fra l’altro non sarebbe possibile perché se uno ha un’identità così<br />

multiforme, così molteplice, come farebbe a sventolare quindici bandiere al tempo<br />

stesso oppure a sventolare una bandiera alla volta secondo le circostanze? Ci sono in<br />

ognuno di noi delle identità dominanti. Un altro filosofo americano ebreo Michael<br />

Walzer, un filosofo politico di orientamento progressista, ha usato invece l’espressione<br />

del “trattino”. Walzer dice “noi siamo ebrei trattino americani”; per esempio, lui è un<br />

ebreo-americano, ci sono gli italo-americani, gli “african-americans”, cioè i neriamericani<br />

che chiamano se stessi afro-americani. Walzer ha usato questa espressione del<br />

trattino, per chiarire che l’identità è almeno binaria, composta da due cose; in realtà è<br />

composta da molte più cose, in un senso simile al lungo elenco di Sen. Io concordo su<br />

questo, però la complessità del problema, per certi versi irrisolvibile, nel vivere<br />

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quotidiano è che bisogna trovare un punto di equilibrio assai fragile fra il riconoscere<br />

che l’identità è qualcosa di variegato e quindi il rispettare, convivendo, le differenze,<br />

con il fatto che c’è un elemento unificatore, cioè che si appartiene all’umanità, e che<br />

non ci devono essere gerarchie fra le differenze, ovvero non ci sono differenze prime e<br />

differenze seconde, civiltà superiori e civiltà inferiori. L’ossessione dell’identità può<br />

degenerare in alcuni casi in una gerarchia fra le identità, fra le differenti culture e<br />

religioni. Questo è un terreno pericoloso, perciò io credo che sia importante riconoscere<br />

le differenze, ma poi riportare ad un unum che è in fondo l’appartenenza al genere<br />

umano.<br />

La seconda domanda, quella di Daniele. Certamente io ho forzato un po’ il confronto fra<br />

ebrei e immigrati, l’ho forzato perché ho voluto raccontare una storia che è quella<br />

dell’unicità degli ebrei come minoranza etnico-religiosa-culturale in Italia per secoli,<br />

tranne alcune minoranze allogene in Alto Adige, gli albanesi in Calabria. Ho forzato il<br />

confronto per far capire che cosa gli ebrei italiani possano insegnare agli italiani in<br />

genere circa il modo di affrontare il fenomeno attuale e più complesso delle minoranze<br />

immigrate, fenomeno questo complesso sia per l’aspetto numerico (gli immigrati sono<br />

oggi in Italia circa due milioni e non “i trentamila ebrei”), sia per affrontare le diversità<br />

più profonde, perché è vero, e su questo ha ragione Daniele, che dal punto di vista<br />

sociale, culturale gli ebrei sono parte integrante dell’Italia da sempre, per certi versi<br />

sono persino più italiani degli altri italiani e i nuovi arrivati non sono in questa<br />

condizione. Cosa vuol dire d’altra parte essere italiani? È difficile risalire alle proprie<br />

radici etniche. Gli ebrei romani, in particolare, o alcuni di essi, vivono a Roma da<br />

duemila anni; sono in un certo senso più romani dei romani. Personalmente io vengo dal<br />

lato paterno da una famiglia ebraica cacciata dalla Spagna cinquecento anni fa e poi<br />

trasmigrata nel Mediterraneo fino alla Turchia. Mio padre è venuto in Italia soltanto<br />

negli anni trenta, ma mia madre che è piemontese, viene da una famiglia piemontese,<br />

ebraico-piemontese probabilmente da due, tre secoli. Venivano, forse, dal sud della<br />

Francia, ma non lo sappiamo, perché fra l’altro una genealogia non c’è modo di farla;<br />

può darsi che l’origine fosse in Francia, nella Provenza e poi ad un certo punto, intorno<br />

al settecento, hanno varcato le Alpi e sono finiti in Piemonte. Quindi hai ragione, per<br />

certi versi, è un confronto che io ho voluto forzare per indicare come sia possibile ora<br />

come società, come individui affrontare questa realtà nuova della convivenza<br />

interculturale con minoranze più cospicue e diverse.<br />

Per quanto attiene l’articolo che scrissi sul giornale “La Stampa” nel 2003 sul viaggio di<br />

Fini in Israele ero, allora, contrario a questo viaggio e diedi un giudizio negativo; forse<br />

adesso col senno del poi questa “conversione” di Alleanza Nazionale è più profonda, più<br />

vissuta di quanto pensassi allora. Forse invece ha ragione Michelangelo che conosce<br />

meglio di me l’ambiente giovanile di Alleanza Nazionale; c’è, di sicuro, uno scollamento<br />

anche significativo fra il vertice del partito che ha riconosciuto a Fiuggi e con notevoli<br />

ambiguità negli anni successivi gli errori commessi, ha ripudiato l’esperienza del<br />

totalitarismo fascista, e la base giovanile e locale. A tal riguardo c’è una casistica<br />

interessante di fatti inaccettabili, per esempio di enti locali retti da Alleanza Nazionale<br />

hanno intitolato strade, piazze, scuole a gerarchi fascisti. Dunque, nel comportamento<br />

concreto purtroppo ci sono casi non marginali che mostrano una grande ambiguità del<br />

partito e una direzione diversa da quella che uno sembrerebbe dedurre dal<br />

comportamento del suo vertice. Penso che dal punto di vista ebraico - italiano questa<br />

componente della destra che riconosce gli errori compiuti e lo fa con schiettezza<br />

ripudiando il passato abbia una valenza positiva. Non mi illudo però che non restino<br />

sacche di antisemitismo, di razzismo, di xenofobia tra i giovani e i meno giovani di<br />

Alleanza Nazionale.<br />

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Sul tema delle scuole come luogo di socializzazione, il tema dei nuovi ghetti, Lei,<br />

professoressa pone una questione che effettivamente è molto difficile. Io penso che la<br />

scuola pubblica sia fondamentale come luogo di socializzazione e di convivenza fra le<br />

diversità, che debba essere una scuola pluralistica e non confessionale. E ciò in l’Italia<br />

non è ancora stato acquisito malgrado gli sforzi di presidi, professori ecc.. Il fatto, per<br />

esempio, che l’insegnamento della religione cattolica resti esclusivo in Italia è<br />

inaccettabile per noi minoranze; il fatto che in Italia, al di là della scuola, ancora non ci<br />

sia una legge sulla libertà religiosa la dice lunga; manca una legge, cioè, che definisca<br />

cosa vuol dire libertà religiosa e che equipari le varie confessioni religiose. La Chiesa<br />

Cattolica ha un concordato con lo Stato e le altre religioni minoritarie hanno, come vi ho<br />

descritto, delle Intese. E questo è un trattamento discriminatorio, inaccettabile. Faccio<br />

di nuovo un caso personale: prima delle Intese, il giovane non cattolico cosa doveva fare<br />

andando a scuola? Doveva chiedere l’esonero dall’insegnamento della religione cattolica<br />

e quindi io quarant’anni fa, quando avevo la vostra età, così ho fatto. Ho dei figli che<br />

frequentano le scuole medie e devo curiosamente ancora compiere lo stesso atto, anche<br />

se formalmente non è più chiamato esonero dalla religione cattolica, bensì un’opzione a<br />

favore o contro l’insegnamento della religione cattolica. Devo comunque firmare un<br />

documento che chiede come opzione non l’insegnamento delle religioni, della storia<br />

delle religioni, ma l’insegnamento della religione cattolica. In sintesi, una scuola<br />

autenticamente aconfessionale e pluralistica in Italia non è un fatto. C’è ovviamente la<br />

questione delle scuole religiose: in Italia, a Roma, a Milano, a Torino ci sono scuole<br />

ebraiche a cui possono iscriversi giovani non ebrei; ci sono scuole musulmane, private o<br />

riconosciute dallo Stato, o parificate. Io penso che uno possa accettare il fatto che ci<br />

siano delle scuole confessionali, cioè di comunità religiose, riconosciute dallo Stato<br />

quando alcune regole fondamentali siano osservate da queste scuole, ma penso che il<br />

luogo fondamentale di socializzazione debba essere la scuola pubblica, aperta a tutti e<br />

aconfessionale in quanto essa è strumento di educazione alla convivenza multiculturale;<br />

invece una scuola, confessionalmente “separata”, rischia effettivamente di diventare un<br />

preludio ad una ghettizzazione che non è positiva.<br />

Luca: Volevo fare una domanda riguardo in generale lo Stato di Israele. Io riflettevo<br />

prima mentre lei parlava: la diaspora prima e poi la Shoah sono stati due eventi<br />

drammatici per il popolo ebraico, due eventi che hanno segnato la sua storia in modo<br />

profondo; vorrei sapere, riallacciandomi anche al discorso che abbiamo fatto sulla<br />

convivenza e la tolleranza, cosa ne pensa la comunità ebraica italiana e anche lei della<br />

politica dello stato di Israele che in molte circostanze ha manifestato lontananza, come<br />

se avesse un po’ dimenticato tali eventi e ha quasi riproposto alcune volte gli stessi<br />

metodi tremendi che aveva subito.<br />

Arianna: Lei ha detto che la comunità ebraica ha costituito per molti secoli in Italia<br />

l’unica minoranza veramente diversa. Volevo sapere nella vostra storia, nella vostra<br />

permanenza qui in Italia. Come si è evoluta la vostra comunità, nel senso che,<br />

nell’assimilarvi alla nostra cultura avete perso alcune delle vostre caratteristiche o<br />

avete comunque puntato a salvaguardarle?<br />

Rosa: Vorrei tornare al concetto di identità. Gli studiosi hanno opinioni molto diverse:<br />

c’è chi predilige un approccio solitaristico, chi un approccio comunitario. Oggi<br />

assistiamo ad uno scontro di civiltà proprio a causa dell’identità, del fatto che ognuno<br />

tende a conservare la propria cultura, le proprie tradizioni; allora come dobbiamo<br />

definire l’identità, una ricchezza in quanto diversità e quindi possibilità di creare un<br />

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rapporto produttivo con gli altri, oppure un mezzo per opporsi all’altro e quindi creare<br />

continuamente degli scontri con l’altro?<br />

Prof.ssa Maestri: È una riflessione che mi è venuta soprattutto dopo l’intervento di<br />

Michelangelo, sempre in rapporto a certi atteggiamenti che si possono notare in tanti<br />

ragazzi anche di diffidenza nei confronti della diversità, a volte purtroppo con degli<br />

atteggiamenti anche di antisemitismo. Stavo pensando che, invece, noi dovremmo avere<br />

una grandissima riconoscenza proprio verso la civiltà dell’ebraismo perché già in tempi<br />

molto antichi ha valorizzato l’altro, e il dottore prima ha messo in evidenza gli studi e il<br />

pensiero di Martin Buber. Io vorrei ricordare che questa attenzione all’altro nasce fra<br />

l’altro da un arricchimento e da una sicurezza sulla propria identità la e troviamo in<br />

tempi molto più antichi. Vorrei citare una frase bellissima di Rabbi Hillel: “se io non<br />

sono per me chi è per me, se io fossi solo per me chi sarei… se non ora quando” che fra<br />

l’altro è la frase che è stata utilizzata da Primo Levi per quel suo bellissimo romanzo.<br />

All’inizio di questa frase c’è proprio l’idea dell’approfondimento della propria identità,<br />

solo chi è sicuro della propria identità non ha paura dell’altro e si presta ad un<br />

confronto.<br />

Dott. Gomel: La professoressa ma anche Rosa sono tornate su questo tema che è un po’<br />

il filo conduttore della nostra discussione, di cosa sia l’identità, come va commisurata<br />

con l’idea dell’uguaglianza, dell’unità del genere umano. Io concordo con quanto è stato<br />

detto, cioè se tu affermi la tua identità, se conosci te stesso, il rapporto fra culture può<br />

essere un rapporto non conflittuale, autentico, un beneficio per tutti, diceva Rosa.<br />

Perché il pregiudizio antisemita o razzistico in generale si nutre di diffidenza, e quella<br />

diffidenza affonda le proprie radici nell’ignoranza. Quindi, la conoscenza è molto<br />

importante e tutte queste iniziative che vanno nel senso della lettura, della discussione<br />

comune, dell’ascoltare l’esperienza di altri, anche di minoranze, è vitale per voi dal<br />

punto di vista formativo, perché vi consente di conoscere un po’ di più l’altro. Questa è<br />

una condizione necessaria, non sufficiente, per la convivenza tra diversità. Quindi lo<br />

studio è fondamentale. Come ha detto la professoressa, nella tradizione ebraica il fatto<br />

del conoscere l’altro e di rispettarlo come tale è molto importante, risale agli inizi della<br />

storia ebraica ed è connaturato all’ebraismo. Probabilmente questo è stato rafforzato<br />

dalla concreta esperienza ebraica, di essere una minoranza dispersa nel mondo,<br />

costretta nel bene e nel male a vivere con culture circostanti e quindi a doverle in<br />

qualche modo assimilare, apprendere. E così mi riporto anche alla domanda di Arianna<br />

sulla assimilazione. Parliamo del caso italiano ma è simile ad altri casi d’Europa. Per<br />

secoli gli ebrei sono vissuti in una condizione segregata nei ghetti senza poter uscire se<br />

non per lavori e in orari limitati Questo, in un certo senso, ha consentito in “positivo”<br />

agli ebrei di mantenere la propria identità, di conservare le proprie tradizioni religiose.<br />

Dall’emancipazione, cioè dalla fine del settecento ed in Italia dal 1848, cioè dall’uscita<br />

dai ghetti e dal momento in cui è stata conferita agli ebrei l’uguaglianza giuridica, essi<br />

si sono molto integrati in Italia. In una fase storica che va dalla seconda metà<br />

dell’ottocento fino agli anni trenta, fino all’avvento del fascismo e alle persecuzioni<br />

antiebraiche, vi è stata una spinta grandissima all’assimilazione. Gli ebrei si sentivano<br />

italianissimi; hanno partecipato attivamente al Risorgimento, erano animati da grande<br />

patriottismo, si sono integrati, molti si sono assimilati, cioè hanno perduto totalmente<br />

la loro identità ebraica. Il fascismo, le persecuzioni antiebraiche e l’indifferenza di gran<br />

parte della società italiana rispetto all’orrore delle persecuzioni è stato un trauma<br />

enorme soprattutto perché gli ebrei si erano sentiti molto italiani, integrati, simili ai<br />

loro confratelli. Adesso, dopo la guerra, dopo la Shoah, è un difficile equilibrio il nostro,<br />

tra l’essere partecipi della nazione italiana e nello stesso tempo gelosi della propria<br />

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differenza ebraica e ansiosi di mantenerla dal punto di vista religioso, culturale; è una<br />

cosa niente affatto semplice giacché esiste ovviamente una spinta all’assimilazione,<br />

perché la società sta diventando più multiculturale, le differenze anche religiose<br />

tendono a svanire e non sono più un elemento fondamentale del vivere. Questo rende<br />

più facile il rapporto con l’altro, ma vi è una tensione rispetto al desiderio di mantenere<br />

la propria appartenenza per coloro che sentono con l’ebraismo un legame più affettivo,<br />

culturale che non strettamente religioso. Circa la domanda di Luca, il tema non è<br />

oggetto della conversazione di oggi ma sono ben contento di rispondere. Io ho scritto<br />

moltissimi articoli sulla questione; vi posso indicare il sito della nostra associazione che<br />

contiene documenti e articoli (www.martinbubergroup.org). C’è, tra i tantissimi libri<br />

sull’argomento, e voglio citarlo e consigliarlo, un libro di Amos Oz, illustre scrittore<br />

israeliano, “In terra di Israele”, pubblicato in Italia dalla Marietti nel 1983. Dice Oz che<br />

“la storia ebraica è stata fondata nei secoli su un’utopia, ovvero l’idea di fondare una<br />

civiltà senza stato, senza guerre, senza eserciti”. Gli ebrei hanno cercato di fare una<br />

cosa forse illusoria, utopica, cioè quella di fondare una civiltà che non fosse basata<br />

sull’idea di stato. Spogliati dalla sovranità statuale dai romani, quando gli ebrei hanno<br />

iniziato a disperdersi, hanno vissuto per duemila anni nella diaspora senza un proprio<br />

stato. L’idea era che fosse possibile una civiltà senza gli strumenti tipici dello stato che<br />

sono la forza delle armi, l’esercito, le bandiere. Purtroppo questa utopia è fallita perché<br />

non ci è stato consentito di farlo, siamo stati perseguitati e, come hai ricordato<br />

giustamente, l’apogeo di questo orrore è stato la Shoah. La nascita dello stato di Israele<br />

forse ci sarebbe stata anche senza la Shoah, però certamente la nascita del movimento<br />

sionista alla fine dell’ottocento e il suo sviluppo negli anni venti - trenta del secolo<br />

scorso sono legati all’antisemitismo. Amos Oz dice ad un certo punto: “noi eravamo gli<br />

autentici europei perché eravamo quelli più transnazionali; non eravamo né italiani, né<br />

francesi, né tedeschi, né polacchi; la nostra era una cultura transnazionale,<br />

autenticamente europea, ma l’Europa non ci ha consentito di essere europei, ci ha<br />

cacciati”: questo effettivamente è il dramma dell’esperienza ebraica del secolo scorso.<br />

Gli ebrei hanno dovuto ad un certo punto fondare un proprio stato ed acquisire gli<br />

strumenti - la guerra, la forza delle armi - esattamente come gli altri popoli. La storia,<br />

poi, del conflitto ebraico - arabo ancor prima che israelo-palestinese ha a che fare con il<br />

fatto che quello è un piccolo pezzo di terra contesa fra due etnie che poi sono diventati<br />

due popoli. Nel 1948 gli israeliani sono diventati una nazione, i palestinesi hanno<br />

acquisito una coscienza di sé come nazione soltanto negli anni sessanta; nel conflitto<br />

con Israele hanno acquisito una identità nazionale come tale e quindi una volontà di<br />

costruire un proprio stato che io ritengo del tutto legittima. Il conflitto oppone quindi<br />

due diritti nazionali ambedue legittimi. Come si può risolvere il conflitto fra due diritti<br />

nazionali legittimi, fra due ragioni? Si deve trovare il modo di spartire la terra. Dagli<br />

accordi di Oslo del 1993, in cui finalmente israeliani e palestinesi hanno riconosciuto<br />

questo reciproco diritto, si è cercato di giungere a una soluzione pacifica del conflitto<br />

fondata sulla nozione dei due stati. Purtroppo, il progetto è finora fallito, ma il punto<br />

dirimente è che sono due popoli che devono poter convivere spartendosi quella piccola<br />

terra. Si tratta di definire le condizioni per cui questo sia possibile, di definire lo status<br />

di Gerusalemme, i confini. Sul principio fondamentale che sono due diritti nazionali a<br />

uno stato indipendente gli uni, gli israeliani, lo hanno conseguito sessanta anni fa, e gli<br />

altri, i palestinesi, non ancora. Su questo principio penso che la comunità internazionale<br />

debba impegnarsi perché sia applicato. Circa poi il rapporto fra gli ebrei e Israele, un<br />

rapporto assai dialettico, esso riguarda essenzialmente gli individui perché non si può<br />

dire che ci sia un rapporto fra l’ebraismo come tale o la comunità ebraica e Israele. Una<br />

parte del popolo ebraico ha deciso di vivere in Israele perché costretta dalle<br />

persecuzioni o per scelta ideale ritenendo che l’esperienza ebraica più completa sia<br />

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quella di vivere in uno stato in cui gli ebrei siano una nazione come le altre e padroni<br />

del proprio destino. Altri ebrei vivono nella diaspora, ritenendo proficuo integrarsi nelle<br />

società in cui vivono e lottando perché queste società divengano più democratiche e<br />

multiculturali. Il rapporto è complesso, è un rapporto affettivo, culturale; molti di noi<br />

hanno magari parte della propria famiglia o legami affettivi, personali, con Israele. La<br />

sicurezza di Israele è per noi fondamentale così come il diritto di Israele alla propria<br />

esistenza. Il giudizio sulle scelte contingenti del governo israeliano ha invece a che fare<br />

con ognuno di noi come individuo. Nel mondo ebraico si dibatte tantissimo sulla<br />

questione e ognuno ha le proprie opinioni; non c’è assolutamente una posizione unitaria<br />

che rappresenti una visione della diaspora come tale rispetto a Israele. Gli israeliani<br />

come popolo e anche i governi che si sono succeduti nella storia di Israele cercano il<br />

sostegno materiale, morale e politico della diaspora. La diaspora oscilla, in alcuni casi<br />

critica, in altri casi meno. Molti ebrei dicono: perché mai noi dovremmo giudicare quello<br />

che succede in Israele, in fondo non siamo cittadini di quel paese, non votiamo lì, non<br />

paghiamo le tasse, non moriamo sui confini per difendere il nostro paese? Che dirittodovere<br />

abbiamo noi di intervenire su quanto succede in Israele? Però è anche vero che<br />

Israele per me non è la Cina, cioè se io osservo la Cina la giudico sulla base delle letture<br />

che faccio e posso dire i cinesi violano i diritti umani, che le condanne capitali sono una<br />

mostruosità. Ma è un paese a cui guardo con un notevole distacco in fondo. Israele per<br />

me è un paese diverso dalla Cina per un legame affettivo, culturale, personale e questo<br />

rende il giudizio, il rapporto più difficile. Il mio atteggiamento rispetto a certe<br />

malefatte del governo di Israele è più sofferente e più doloroso. Questa è la condizione<br />

un po’ ambivalente in cui viviamo la situazione.<br />

Andrea: Abbiamo visto a Natale come in alcune scuole italiane siano stati eliminati canti<br />

natalizi nel rispetto di altre fedi religiose, volevo chiedere secondo lei è possibile che<br />

accettare diverse identità culturali possa progressivamente farci dimenticare le nostre<br />

tradizioni nazionali?<br />

Giulia: Volevo chiedere qual è la posizione della comunità ebraica - italiana a proposito<br />

degli interessi economici che a volte sembrano prevaricare sulle questioni di identità e<br />

di confronto. Penso, per esempio, alle grandi lobby ebraiche in America e ai rapporti<br />

soprattutto economici con lo stato di Israele che non sempre sono portatori di valori<br />

della tolleranza e dei valori pacifici che sono alla base di un confronto.<br />

Carlo: Riferendomi a quello che è successo in Francia, riguardo ai conflitti tra lo stato<br />

francese e le minoranze musulmane, anche se poi in Francia non sono tanto minoranze,<br />

non teme che possa succedere in Italia come è accaduto in Francia, che una eccessiva<br />

laicizzazione dello stato porti ad un livellamento della cultura e dell’identità sia dei<br />

musulmani ma anche degli ebrei, dei cattolici stessi. Non crede sia necessario che lo<br />

stato promuova la riscoperta delle proprie origini, del proprio patrimonio culturale che<br />

comunque è un arricchimento, secondo il mio parere, di tutte le minoranze e anche una<br />

riscoperta della cultura ebraica e di quella cattolica?<br />

Sara: Le volevo chiedere a proposito dell’antisemitismo e delle idee antisemite che,<br />

come ha detto lei giustamente, ci sono sia fra i giovani che fra i meno giovani. Come è<br />

possibile, alla luce dei trascorsi storici, che si ripropongano queste idee antisemite e<br />

come si spiegano i rigurgiti nazisti che ci sono stati ad esempio in Germania, l’alta<br />

percentuale registrata di politici di matrice nazista antisemita che sono saliti al potere,<br />

come ci dobbiamo rapportare noi davanti a queste situazioni che si ripropongono<br />

continuamente nella storia?<br />

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Dott. Gomel: I due maschietti hanno fatto domande abbastanza simili fra di loro.<br />

Crocifissi, simboli di identità religiosa, nazionale; personalmente ho convissuto con i<br />

crocifissi nelle scuole,ma ritengo assai più grave dei crocifissi il fatto che si continui a<br />

insegnare in modo esclusivo la religione cattolica. Ciò è profondamente contrario ad una<br />

concezione autenticamente pluralistica della scuola pubblica. Simboli come il crocifisso<br />

in un luogo pubblico, in un ospedale o in una scuola, penso che non dovrebbero esserci.<br />

Io ricordo di aver scritto una lettera alcuni anni fa al presidente Ciampi, che conosco da<br />

anni ed è stato il mio capo in Banca d’Italia. Egli dichiarò che il crocifisso è un simbolo<br />

dell’identità nazionale e questo onestamente non è vero. Affermai, nella mia lettera di<br />

protesta, che i simboli dell’identità nazionale sono altri, che l’identità nazionale si<br />

esprime nel Risorgimento, nella Resistenza, nella Costituzione. Il crocifisso è l’emblema<br />

dell’identità religiosa maggioritaria, assolutamente rispettabile, del cristianesimo in<br />

Italia, ma non è un simbolo dell’identità nazionale, ancorché gli italiani siano per il<br />

novantanove percento cristiani. Quindi non farei una guerra di religione per questo, ma<br />

penso che sulla base di un principio di laicità dello stato e delle sue istituzioni, in<br />

particolare la scuola o il municipio o gli ospedali, sarebbe opportuno che i crocifissi non<br />

fossero esposti. Sulla questione di Carlo circa il grado di laicità dello stato, posso dire<br />

soltanto una cosa perché è argomento che merita una conversazione a sé. Il caso<br />

francese è quello più radicale dello stato laico: niente velo islamico, niente simboli<br />

ebraici, come la kippà in testa per i ragazzi, niente simboli cristiani, come le croci<br />

esibite dalle ragazze nelle scuole… Penso che lo stato laico sia una fondamentale<br />

acquisizione, lo stato laico in quanto garante del neutrale rispetto delle diversità<br />

religiose. La mancanza tuttora di una legge sulla libertà religiosa in Italia è una lacuna<br />

gravissima. Detto ciò penso anch’io come te, se interpreto bene quello che dicevi, che<br />

stato laico non vuol dire che la religione deve essere espunta dal dibattito pubblico<br />

perché indubbiamente la religione è un elemento costitutivo della civiltà. Penso<br />

pertanto che nelle scuole è giusto affrontare il tema della religione, cosa che in Francia<br />

non si fa; nella scuola di stato francese la religione è bandita, non di recente, niente a<br />

che fare con la legge sulla proibizione del velo, ma dal 1792, cioè dalla Rivoluzione<br />

Francese e dalla costituzione della Prima Repubblica. Penso che questo non sia<br />

produttivo perché la religione è un elemento costitutivo del vivere individuale e<br />

collettivo, importante per persone di fede, meno importante per altri dal punto di vista<br />

del partecipare a una chiesa, a una confessione religiosa organizzata. Comunque nella<br />

storia dell’umanità e delle culture, la religione è stata un fenomeno rilevante nel bene e<br />

nel male, perché le religioni sono state sia elementi di pace e di dialogo, ma anche di<br />

violenza, di conflitto e di persecuzione. Quindi sarebbe opportuno affrontarle<br />

laicamente, da un punto di vista comparativo e storico. La stortura ovvia nel caso<br />

italiano risiede nel fatto che gli insegnanti di religione siano designati dal Vicariato e<br />

non dallo Stato e che abbiano un trattamento differenziato e di favore. Una volta Tullia<br />

Zevi che fu presidente dell’Unione delle comunità ebraiche disse: “in Italia le religioni<br />

sono tutte uguali ma alcune sono più uguali di altre”. E’ davvero così ed è inaccettabile.<br />

Detto ciò, penso che uno stato laico debba rispettare la diversità religiosa, ma non<br />

debba cacciare la religione dallo spazio pubblico Sulla questione dell’America - mi<br />

dispiace dirlo - hai usato delle espressioni giornalistiche: cosa vuol dire lobby ebraica<br />

negli Stati Uniti? Negli Stati Uniti vivono fra i cinque e i sei milioni di ebrei su una<br />

popolazione di trecento milioni di persone: intellettualmente sono molto importanti,<br />

economicamente lo sono forse altrettanto, politicamente contano onestamente poco.<br />

Fra l’altro votano massicciamente democratico: l’ottanta per cento degli ebrei, secondo<br />

i sondaggi di opinione, votano democratico e quindi non sostengono l’attuale<br />

amministrazione Bush. Quella ebraica è la comunità religiosa più progressista; mentre i<br />

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protestanti hanno votato massicciamente per Bush e i cattolici nelle ultime elezioni<br />

hanno votato per il cinquanta per cento per Bush e per il restante cinquanta per Kerry,<br />

gli ebrei americani hanno votato per quasi l’ottanta per cento per Kerry e nelle ultime<br />

elezioni per il Congresso degli Stati Uniti i sondaggi mostrerebbero che l’ottantacinque<br />

percento degli ebrei americani abbiano votato per i candidati democratici; c’è ora nel<br />

Congresso il maggior numero di deputati e senatori democratici ebrei nella storia degli<br />

Stati Uniti. Quindi se parliamo di sostegno dell’America a Israele questa è una cosa<br />

abbastanza “bipartisan”, comune cioè a democratici e repubblicani. In particolare, per<br />

quanto riguarda l’amministrazione Bush, se la tua allusione era anche alla questione<br />

dell’intervento in Iraq, semmai sono le correnti cristiano-fondamentaliste che hanno<br />

esercitato una forte influenza piuttosto che gli ebrei. Quanto al conflitto israelopalestinese,<br />

il punto è cercare di porsi in modo equanime rispetto ai diritti dei due<br />

popoli e agire per la loro riconciliazione. Gli israeliani principalmente vogliono la<br />

sicurezza e intendono la pace come sicurezza; i palestinesi intendono la pace come un<br />

proprio stato indipendente. Come si fa a rendere questi due diritti, questi due obiettivi,<br />

che sembrano incompatibili, conciliabili? Questo è quello per cui dobbiamo lavorare<br />

ricercando tutte le forme possibili in Italia o in una comunità più grande come l’Europa.<br />

Nelle scuole, promosse dal comune di Roma, si svolgono scambi con giovani israeliani e<br />

palestinesi. Sono azioni positive perché i due popoli chiusi nel loro conflitto non hanno<br />

quasi rapporti tra loro, neppure la possibilità di incontrarsi se non quando vanno in altri<br />

paesi per seminari, convegni ecc. Ogni occasione può essere liberatoria perché nel<br />

dialogo, lontani dalla violenza, giovani israeliani e palestinesi parlano di convivenza e di<br />

rispetto reciproco, un’esperienza molto importante dal punto di vista formativo. Quindi<br />

tutte queste iniziative anche piccole servono; questo noi dobbiamo cercare di fare<br />

piuttosto che appioppare colpe agli uni o agli altri, perché questo non è un conflitto fra<br />

una ragione e un torto, bensì fra due ragioni. Quando ci sono due ragioni ci sono anche<br />

due torti; bisogna cercare di eliminare i due torti e di conciliare le due ragioni e so bene<br />

che è molto difficile, ma è quello che gli uomini e le donne di buona volontà devono<br />

cercare di fare.<br />

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Un palestinese<br />

nel nostro Parlamento<br />

Alì Rashid<br />

Conferenza dell’8 febbraio 2007<br />

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Dirigente Scolastico prof. Gregorio Franza: Come sapete, questo è il secondo degli<br />

incontri che abbiamo programmato sul tema “Religione e convivenza civile”. Ci sarà un<br />

terzo incontro e poi una tavola rotonda. Le relazioni che presenterete, almeno le<br />

migliori, saranno selezionate e pubblicate nei nostri Quaderni. Con noi abbiamo la<br />

dottoressa Monteforte, assessore per le politiche scolastiche della provincia di Roma.<br />

Voi sapete che la dottoressa si è tanto adoperata per la succursale di via Isolabella,<br />

quindi le siamo grati della sua presenza.<br />

Nostro ospite, relatore, è l’onorevole Alì Rashid, deputato del Parlamento italiano, che<br />

terrà una conferenza sul tema comune a questi incontri.<br />

Il nostro <strong>Liceo</strong> ha una lunga tradizione di apertura ai problemi più scottanti<br />

dell’attualità ed io intendo promuovere ancor di più il dibattito culturale in vista della<br />

crescita umana e civile di voi studenti. È vero i mezzi di cui possiamo disporre non sono<br />

tanti, ma grazie alla buona volontà delle persone moltissimo si può fare. L’esempio di<br />

coloro che, impegnati nei vari ambiti della vita dello Stato, mettono a disposizione il<br />

loro tempo per formare la classe dirigente del futuro, vi sia di sprone anche quando<br />

diventate adulti, svolgerete il vostro laovo.<br />

La professoressa Fierro, organizzatrice di questi incontri, presenterà in modo adeguato il<br />

nostro ospite. Grazie.<br />

Prof.ssa Fierro: In questa seconda conferenza-dibattito sul tema “Religione e<br />

convivenza civile” avremo modo di conoscere una persona speciale. Si tratta<br />

dell’onorevole Alì Rashid, un diplomatico palestinese che è entrato a far parte del<br />

nostro Parlamento proprio nelle ultime elezioni del 2006 eletto alla Camera dei deputati<br />

nella tredicesima circoscrizione(Umbria) con Rifondazione Comunista . Gli sono stati<br />

assegnati incarichi nella Commissione Affari Esteri e Comunitari che egli assolve con<br />

grande competenza e serietà. La sua è una bella storia di impegno civile e di studio<br />

volto a creare le condizioni per superare il dissidio tra ebrei e palestinesi in quella terra<br />

contesa, luogo primitivo di religioni sorelle, di grandi ricchezze e nobili tradizioni.<br />

L’onorevole Rashid è nato ad Amman, è laureato in scienze politiche, è stato segretario<br />

dell’ANP, collabora ormai da molti anni con alcuni giornali italiani ed è ambasciatore di<br />

pace al Parlamento Europeo dove promuove l’incontro costruttivo e il dialogo tra<br />

palestinesi ed ebrei disposti a riconoscere vicendevolmente due popoli in due stati liberi<br />

e sovrani . Tale obiettivo si inserisce nella politica estera del nostro paese perché si<br />

rafforzi la posizione storica e le relazioni dell’Italia con la sponda Sud del Mediterraneo.<br />

Stiamo trattando, nei nostri incontri, di culture che si confrontano, di parametri da<br />

utilizzare, di identità da salvaguardare. Alì Rashid viene dalla cultura arabo-musulmana<br />

e nel suo vissuto testimonia l’incontro complesso e avvicente con la cultura occidentale.<br />

Ci sembra dunque, oltremodo preziosa, oggi la sua riflessione. Grazie, a lei la parola.<br />

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Giacchè la dottoressa Monteforte non può fermarsi per tutta la durata della lezione mi<br />

correggo, e le do per prima la parola.<br />

Dott.ssa Monteforte: Grazie, ovviamente non farò una relazione. Io voglio ringraziarvi<br />

per questo incontro, e per questa serie di iniziative di approfondimento culturale,<br />

teorico, che trova un riferimento molto diretto sulle questioni dell’oggi.<br />

Credo che sia anche molto importante che questo delle religioni e della convivenza<br />

civile sia uno dei temi alla base del confronto e anche poi del vostro approfondimento<br />

attraverso i lavori che farete, perché la scuola è esattamente questo, una prima grande<br />

palestra di democrazia e di confronto e queste iniziative servono molto a comprendere i<br />

fenomeni dell’oggi.<br />

Le questioni che sono oggetto della discussione e della relazione sono sicuramente<br />

problemi non solo di attualità politica, culturale, ma sono le questioni fondamentali.<br />

Perché noi siamo davanti a due fenomeni di grandissima rilevanza: uno riguarda un<br />

flusso ormai inarrestabile che c’è da alcuni anni e che sarà sempre più inarrestabile, che<br />

vede la presenza, la trasmigrazione di tantissime persone, di immigrati che provengono<br />

da tutte le parti del mondo e portano nei luoghi dove vanno, anche nelle scuole che i<br />

ragazzi frequentano, le loro culture, il loro senso di appartenenza, la loro identità di cui<br />

fa parte integrante la religione.<br />

L’altro fenomeno è quello della cosiddetta globalizzazione, che non riguarda soltanto le<br />

merci, i mercati, Internet, ma attiene proprio alla necessità di costruire una nuova<br />

forma di linguaggio e di incontro.<br />

Io credo che questi siano gli elementi fondamentali.<br />

Zagrebelsky dice che L’Europa, e quindi noi in prima persona, abbiamo dei motivi storici<br />

e culturali per cui siamo assolutamente impreparati rispetto a questa nuova fase.<br />

Allora il problema è come noi governiamo questi processi e , per dirla in maniera molto<br />

sintetica, perché sono solo delle considerazioni, come noi passiamo dalla costruzione di<br />

una identità nazionale che è il frutto del Rinascimento, della nostra storia, e che era<br />

fondata soltanto sull’idea di una società, diciamo così, “omologata”, in cui tutti, in un<br />

modo o nell’altro, erano uguali, con un’unica religione, con un unico sentire, ad una<br />

società in cui noi dobbiamo intanto governare questo processo, e costruire una nuova<br />

identità. Zagrebelsky dice “identità multiculturale”, che è fatta non dall’integrazione,<br />

non dalla tolleranza di Lutero (anche qui tradizione europea), ma che si nutre della<br />

capacità di convivere condividendo, in cui l’elemento della religione, che è un pezzo<br />

fondamentale dell’identità, non può essere né tollerata né ignorata, ma deve far parte<br />

di un nuovo comune sentire. Cioè, deve far parte di quella capacità di scambio, di quella<br />

nuova capacità di dialogo, quella nuova koinè, che noi dobbiamo essere tutti chiamati a<br />

ricostruire: ci vuole una nuova grammatica del vivere comune e lo possiamo e lo<br />

dobbiamo fare perché questa è la sfida.<br />

Diversamente ci sono altre soluzioni, quelle che in altre parti del mondo si stanno<br />

praticando, che sono l’intolleranza, il fanatismo, l’idea di avere l’unica verità in tasca,<br />

l’unica certezza possibile.<br />

E allora, quando si ha quest’ idea di sé e della propria cultura, l’unica soluzione e<br />

l’unico risultato che noi vediamo sono i conflitti. Sono i conflitti tra i popoli, determinati<br />

molto spesso, non tanto e non solo dalle diversità religiose, ma anche dall’uso politico<br />

che delle religioni si fa.<br />

Questo è il dato di fatto. Dentro a questo dato di fatto, a cosa noi siamo chiamati? Noi<br />

siamo chiamati ad una nuova responsabilità, quella responsabilità che ci ha affidato<br />

anche il Concilio Vaticano II, laddove si dice che le diverse identità religiose devono<br />

trovare spazio in una capacità di dialogo e di confronto in cui ciascuno esprime la<br />

propria fede, ma lo fa non con una logica di antagonismo rispetto all’altro, ma secondo<br />

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una logica di competitori: cioè ciascuno compete con l’altro che pensa sì di avere una<br />

verità, ma non la verità assoluta e trova insieme le forme del comune sentire, le<br />

eventuali assonanze. Cosa è stato, se non questo, l’incontro di Assisi? Ma io dico anche<br />

l’ultimo incontro che ha fatto il Papa.<br />

Adesso, al di là del credo religioso, noi dobbiamo essere in grado di leggere questi<br />

messaggi che ci pervengono, ma dobbiamo essere soprattutto in grado di praticare, con i<br />

nostri comportamenti, una nuova capacità di dialogo e di confronto.<br />

Io credo che questa sia la grande sfida, che è una grande sfida culturale, perché segna<br />

il passaggio da una società dove c’è un’unica identità, ad una società in cui ci sono tante<br />

identità.<br />

E l’altro punto ancora, lo dico soltanto come considerazione generale, è che noi stiamo<br />

assistendo, anche nel dibattito politico, culturale, ad una questione molto pesante,<br />

molto complessa, che è quella delle due sfere, cioè di quanto o di se (io dico di quanto,<br />

perché sul “se” c’è la Costituzione che parla da sola) i principi della religione devono e<br />

possono governare una società. Cioè se ci deve essere o non ci deve essere l’autonomia<br />

tra la sfera religiosa, del proprio credo, e la sfera collettiva che è fatta di norme, di<br />

regole.<br />

Allora, ecco che questo diventa un altro punto importante e noi possiamo affrontarlo e<br />

superarlo soltanto se abbiamo un’idea delle religioni in cui c’è un senso<br />

dell’appartenenza, come identità anche culturale, come adesione spirituale, ma c’è al<br />

tempo stesso, ed ha il primato, il senso dell’appartenenza ad una società ampia,<br />

multiculturale, in cui in primo luogo c’è il tema della convivenza civile.<br />

Quindi come, “insieme”, pur partendo da delle diversità, noi possiamo costruire un<br />

comune modo di sentire.<br />

Dentro a che cosa? Dentro alle regole, le regole democratiche, le regole della<br />

convivenza civile, le leggi, e quindi la Costituzione.<br />

Credo che questo sia il passaggio al quale noi siamo chiamati, ed è proprio per questo<br />

motivo che, come vedete, anche il mondo degli adulti, il mondo della politica, il mondo<br />

della cultura, si interroga, discute; anche “male”, fatemi dire il mio pensiero, male<br />

perché oggi il politico deve fare il teologo, il teologo deve fare il politico, il giornalista<br />

deve dare i voti a destra e sinistra, cioè, secondo me, c’è un problema non solo di<br />

confusione, ma di non rispetto delle competenze e delle responsabilità che ciascuno ha.<br />

E allora penso che proprio per questo tali argomenti siano particolarmente importanti,<br />

perché aiutano voi, e anche il mondo degli adulti, a costruire una nuova idea e un<br />

nuovo senso di identità multiculturale, in cui non c’è la tolleranza, ma c’è la<br />

condivisione di chi vi appartiene, di chi è portatore di un altro credo e anche di altre<br />

tradizioni culturali.<br />

Questa è la vera sfida della globalizzazione alla quale noi siamo chiamati.<br />

On. Alì Rashid: Allora, buongiorno. Permettetemi all’inizio di ringraziare la<br />

professoressa per il lavoro di convincimento che ha fatto e il preside che ha autorizzato<br />

questo incontro.<br />

Ho ascoltato con molto piacere le sue parole, assessore, le condivido e ho anche un<br />

motivo particolare perché io dieci anni fa, quando ho lasciato Roma e sono andato a<br />

vivere a Orvieto, abitavo in questo quartiere.<br />

Mia figlia ha la vostra età, fa l’ultimo anno di liceo classico, quindi poteva benissimo<br />

essere questa la sua scuola.<br />

Ecco, credo proprio che questo sia il luogo ideale, più adatto, per discutere insieme del<br />

momento storico che stiamo vivendo e di quello che ci attende.<br />

Sicuramente, per le ragazze e i ragazzi della vostra età, gli strumenti culturali, la<br />

passione, le curiosità, ma anche la volontà di affrontare il futuro rappresentano tutti<br />

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stimoli importanti per poter costruire insieme un discorso, di cui Roma, l’Italia, il mondo<br />

hanno bisogno.<br />

Ci sono molti aspetti positivi che accompagnano la nostra vita, sono momenti<br />

interessanti che viviamo tutti i giorni, ma ci sono anche gravi preoccupazioni che si<br />

accumulano.<br />

Non passa un giorno che non sentiamo attraverso la televisione, la radio, leggiamo sui<br />

giornali di problemi che sconvolgono il mondo. Divisioni di carattere etnico, religioso,<br />

problemi che riguardano l’ambiente, problemi che riguardano la scuola, la sanità.<br />

Sono tutti elementi che in qualche modo ci riguardano da vicino e chiamano il senso di<br />

responsabilità di noi tutti.<br />

Questo è il paese, questo è il mondo dove abbiamo la nostra cittadinanza, sicuramente è<br />

la nostra città, il nostro paese, però la nostra patria più grande è questa terra su cui<br />

viviamo e anche essa oggi richiama il nostro senso di responsabilità.<br />

Rispetto all’argomento specifico, è vero io sono nato ad Amman, ma per un caso, perché<br />

il medico che seguiva mia madre era ad Amman, il parto era difficile e quindi ci siamo<br />

trasferiti; mia madre si è trasferita da Gerusalemme ad Amman per il parto. Ma io sono<br />

di Gerusalemme da diverse generazioni, quella è la mia città e la mia cultura trae<br />

origine da quella città.<br />

Parlare di convivenza religiosa, etnica per uno che viene da Gerusalemme è un<br />

argomento molto facile anche se oggi sembra tutto sconvolto, più difficile. Basta vedere<br />

come è costruita quella città, dal punto di vista architettonico, per trovare tracce di<br />

molte civiltà, in un luogo molto piccolo.<br />

Ma anche per avere la testimonianza viva di una convivenza che è durata molti anni,<br />

molti secoli.<br />

A Gerusalemme sono nate e cresciute, hanno lasciato importanti testimonianze tutte le<br />

religioni monoteiste: l’Islam, il Cristianesimo, l’Ebraismo.<br />

E quando parliamo di Cristianesimo parliamo di tutte le chiese cristiane, non solo i<br />

cattolici.<br />

E la città potrebbe anche rappresentare un esempio vivo di ciò, giacché quando c’è<br />

comprensione, quando c’è rispetto tutti possono stare insieme, possono costruire e<br />

migliorare. Quando invece entrano in crisi la convivenza e il rispetto reciproco, i risultati<br />

sono tragici.<br />

Oggi più che mai il mondo e Gerusalemme affrontano un momento molto critico della<br />

storia della convivenza<br />

E quindi dipende da noi, da come vogliamo pensare alla religione e vivere la religione, la<br />

quale dovrebbe essere uno strumento per aiutare le donne e gli uomini a trovare la pace<br />

interiore, a migliorare il proprio stato, a condizione però che nella religione si legga un<br />

messaggio d’amore e di rispetto, altrimenti essa finisce per diventare uno strumento di<br />

guerra senza fine.<br />

E nella storia ne abbiamo avuti di esempi. Quindi dobbiamo essere psicologicamente e<br />

culturalmente pronti all’incontro.<br />

Ogni incontro porta delle novità e le novità sono di solito positive se noi ci mettiamo<br />

nello stato d’animo giusto per riceverle.<br />

Devo dire che la storia della convivenza vive oggi tempi drammatici, soprattutto perché<br />

sta venendo meno quella speranza alla quale abbiamo guardato tutti, che è lo stato di<br />

diritto.<br />

E io credo che solo le regole, lo stato di diritto possono garantire la convivenza tra<br />

entità diverse perché stabiliscono un rapporto basato sul diritto, sul rispetto, sia nella<br />

sfera privata che nella sfera pubblica.<br />

E senza lo stato di diritto oggi le religioni stanno manifestando una incapacità, non<br />

intrinseca, di convivere e di rispettarsi.<br />

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E qui diventa secondo me doveroso dire che la Chiesa Cattolica ha fatto uno sforzo in<br />

più rispetto a tutte le altre religioni, anche perché ha una sua storia particolare: il<br />

Cristianesimo è stato attraversato da tutti i fenomeni che hanno caratterizzato la<br />

crescita culturale e politica europea, la quale ha portato l’umanità verso lo stato di<br />

diritto.<br />

Perché lo stato di diritto parte, è importante dirlo, dalla cultura del mondo europeo.<br />

E il mondo europeo è stato attraversato dall’Umanesimo, dal Rinascimento: ridurre la<br />

civiltà occidentale alle sue radici soltanto, esclusivamente, cristiane, a me sembra un<br />

po’ riduttivo.<br />

Anche noi, provate ad immaginare quale ruolo e quale responsabilità abbiamo.<br />

Non lo dico per spaventarvi, però secondo me questa nuova generazione europea deve<br />

essere conscia anche delle sue responsabilità.<br />

Sono palestinese, sono stato cacciato via dalla mia terra, ho attraversato molte culture,<br />

paesi, esperienze positive, negative, però la cultura del diritto, dello stato di diritto,<br />

della legalità internazionale, che è un ulteriore sviluppo dello stato del diritto, è stata e<br />

rimane fondamentale.<br />

Perché basta pensare, e sicuramente qualche nonno se lo ricorda, a cosa sono state la<br />

prima e la seconda guerra mondiale per l’Europa e per il mondo.<br />

Il genio europeo aveva pensato addirittura a un governo sovranazionale, come le Nazioni<br />

Unite, per prevenire le guerre, per dare certezza al diritto, non soltanto sul piano<br />

nazionale, ma anche sul piano internazionale.<br />

Io faccio parte di quella generazione che guardava a due cose per migliorare le proprie<br />

condizioni politiche, culturali, economiche, ma anche di vita, di serenità, di sicurezza<br />

personale: io guardavo al modello dello stato di diritto che fa parte della cultura<br />

dell’Europa, e guardavo con grande speranza a queste grandi strutture internazionali,<br />

come gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto prevenire la guerra.<br />

Oggi sembriamo molto lontani da questa speranza: io non vorrei parlare male del mondo<br />

politico di cui faccio parte, però noi scopriamo tutti i giorni che la politica, intesa come<br />

è intesa oggi, non è in grado di rispondere ai nostri problemi personali o collettivi, ma<br />

nemmeno a quelli internazionali. Basta vedere quante guerre ci sono nel mondo, basta<br />

riflettere sul leit-motiv dal quale veniamo bombardati tutti i giorni.<br />

Io faccio anche politica e quindi non posso immaginare questa nostra conversazione se<br />

non assume anche tale carattere. La politica però nel senso più alto di questo termine:<br />

ruolo partecipato di tutti noi perché la nostra vita, il nostro presente, il nostro futuro<br />

appartiene a noi e dobbiamo essere protagonisti nel disegnarlo.<br />

Noi viviamo oggi una crisi dello stato di diritto, del rispetto delle regole, e questo si<br />

manifesta anche nell’incapacità di convivenza tra le religioni.<br />

Quindi è un compito grande quello che vi aspetta. E credo che momenti di dibattito<br />

come questo ci aiutino tutti ad assolvere i nostri compiti nel modo migliore.<br />

Non si può immaginare la politica senza la partecipazione, perché rischia di ridursi solo<br />

ad una astuzia tra i capi, e abbiamo visto che quando la politica viene guidata con<br />

questa visione, perde il suo senso più profondo, quello di rendere la vita di tutti<br />

migliore; essa ha bisogno di essere rinnovata continuamente, ma abbiamo bisogno<br />

soprattutto di ripristinare il ruolo della politica, perché ogni vuoto che lascia la politica<br />

nella società viene riempito o dall’ ignoranza o dalla religione che sconfina dal suo<br />

spazio naturale, e questo mette a rischio il nostro presente e il nostro futuro, ed anche<br />

la possibilità di convivenza e di rispetto basato sulle regole e sulla certezza del diritto.<br />

Ecco, questo è secondo me l’aspetto fondamentale che caratterizza il nostro momento:<br />

la mancanza di certezza per quasi tutte le forme di diritto, sul piano nazionale e sul<br />

piano internazionale.<br />

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Non si può parlare di rispetto in modo astratto, se il consorzio umano non è governato da<br />

regole e soprattutto da uno stato d’animo, un atteggiamento caratterizzato dal fatto<br />

che ci si aspettano delle novità da ogni incontro che possiamo avere.<br />

Novità positive, novità che a volte sono anche negative, ma è l’accettazione dell’altro<br />

che permette ad entrambi di crescere.<br />

E devo dire che Gerusalemme, la Palestina, che è una terra a me molto cara, perché lì<br />

sono nato, lì sono cresciuto e poi ho fatto per molti anni il lavoro del rappresentante<br />

diplomatico di quella terra e dei suoi problemi, rappresenta in qualche modo lo stato del<br />

momento in cui viviamo: in Palestina c’è una concentrazione di tutti i problemi del<br />

nostro tempo: la guerra, lo scontro di carattere religioso, l’incapacità della politica di<br />

diventare lo strumento per risolvere questi problemi.<br />

E quando la politica non è all’altezza di risolvere i problemi, ecco, c’è un esempio molto<br />

importante in Palestina e in Israele stessa: la crescita del fondamentalismo religioso.<br />

Si ama parlare di fondamentalismo islamico: certamente c’è, è pericoloso, ci preoccupa,<br />

ed ha delle manifestazioni anche molto inquietanti. Però, se noi volessimo analizzare<br />

con onestà la situazione regionale, internazionale, vediamo che i fondamentalismi,non<br />

solo quello islamico, stanno dilagando. E se con onestà volessimo analizzare le parole, i<br />

concetti, i discorsi fatti da Bin Laden e da Bush, vi troveremmo molta somiglianza, con<br />

una differenza sostanziale, che Bin Laden rappresenta una situazione arretrata dal punto<br />

di vista culturale, economico, politico, mentre l’amministrazione americana di oggi<br />

rappresenta l’unica superpotenza esistente nel mondo che ci condiziona tutti i giorni;<br />

basti pensare alla lettera scritta da sei ambasciatori negli ultimi giorni laddove<br />

interferisce direttamente con la politica interna di uno stato sovrano e si rivolge<br />

direttamente alla popolazione di questa nazione invitandola a prendere parte ad un<br />

discorso che spetterebbe ai governi.<br />

Che poi non è neanche un discorso di pace, ma un discorso di guerra: aumentare le<br />

truppe, aumentare lo sforzo bellico.<br />

Io credo che, al contrario, ci siano le condizioni per una soluzione politica a tutti<br />

problemi e che l’umanità abbia gli strumenti giusti per poterlo fare.<br />

E quindi mi rivolgo di nuovo ad un modo diverso da quello che abbiamo oggi di stare al<br />

mondo: fa parte della nostra storia, fa parte della nostra cultura, fa parte anche della<br />

nostra esperienza.<br />

Ormai si dice a voce alta, siamo arrivati ad un momento dove anche strutture grandi,<br />

importanti nella vita del mondo, come le Nazioni Unite, che furono pensate, concepite,<br />

create per prevenire la guerra, oggi sono chiamate solo per legittimare la guerra; il<br />

concetto è stato rovesciato .<br />

E vediamo cosa provoca questa guerra. Vi ricordate all’inizio quando si diceva : “Adesso<br />

si va verso l’Iraq, si porta la libertà, la democrazia in tutto il Medio Oriente, si combatte<br />

il terrorismo”.<br />

Il terrorismo andrebbe sicuramente combattuto, e credo che, con tutta questa ricchezza<br />

di esperienza umana, avremmo anche gli strumenti per poterlo combattere e<br />

sconfiggere.<br />

La guerra d’altra parte ha dimostrato questo: che è in grado di distruggere un intero<br />

paese, di provocare perdite umane, politiche, culturali, riportare una società indietro<br />

nel tempo (basti pensare che la settimana scorsa in Iraq sono morte mille persone) e<br />

quando si parla di morti in una situazione di guerra bisogna immaginare che c’è un<br />

numero di feriti dieci volte maggiore, però non è in grado di avere un controllo sul<br />

territorio, stimolare la crescita, lo sviluppo, la libertà, la democrazia, anzi.<br />

E quindi la guerra sta dimostrando la sua incapacità di essere lo strumento per risolvere i<br />

problemi. Del resto è quello che dimostrano anche la prima guerra e la seconda guerra<br />

mondiale e sicuramente voi avete anche più strumenti di me per via delle vostre<br />

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conoscenze, per la vostra cultura, anche per le testimonianze dirette che avete nelle<br />

vostre famiglie, nella vostra realtà, per capire quanti danni, quanti drammi abbiano<br />

creato le guerre.<br />

D’altra parte non si può parlare di pace senza parlare di democrazia, di partecipazione,<br />

di vicinanza. Mi ha fatto molto piacere sentire il discorso che ha fatto l’assessore,<br />

questo rapporto tra le istituzioni e la popolazione.<br />

Quindi dobbiamo tornare a queste certezze; le religioni intese nel senso giusto, quello<br />

che esprime il senso più profondo della religione, l’amore per il prossimo, la ricerca<br />

interiore anche della pace, di una appartenenza, di un modo di essere al mondo: sono<br />

elementi che possono arricchire questa nostra ricerca, questo nostro sforzo per<br />

l’incontro con l’altro. E quando tutto questo viene a mancare dalla nostra esperienza,<br />

quando tutte le religioni, soprattutto quelle monoteiste, il Cristianesimo, l’Islam,<br />

l’Ebraismo, perdono questo concetto importante, ossia l’incontro, l’incontro come<br />

occasione per arricchirsi, per apprendere cose nuove, diventano uno strumento di<br />

distruzione, di morte, e perdono il senso profondo per cui sono state adottate.<br />

L’esempio di Gerusalemme, della Palestina, l’esempio della guerra, dell’ esperienza<br />

cristiana nell’America del Sud e delle altre religioni dimostra questo, e al centro di tutto<br />

questo, alla fine del discorso, c’è l’essere umano, le donne e gli uomini. Come utilizzano<br />

la cultura? Come utilizzano la storia? Come utilizzano la religione? E tutti gli strumenti<br />

che sono a disposizione?<br />

Io ho enorme fiducia in questa vostra generazione. Innanzitutto perché possa essere<br />

ripristinato il ruolo della politica come unico strumento in grado di migliorare le<br />

condizioni umane, di vita, di cultura, di economia.<br />

E soprattutto perché siate messaggeri di pace e di rispetto verso l’intero mondo.<br />

L’Europa ha assunto questo ruolo. Ed era un punto di riferimento per tutte le donne e gli<br />

uomini del mondo che volessero migliorare le proprie condizioni.<br />

Abbiamo avuto, negli anni ’60 e ’70, grandi movimenti di liberazione che hanno<br />

attraversato tutte le culture, tutti i luoghi e che all’Europa, e alla cultura del diritto<br />

europeo guardavano con grande speranza.<br />

E quindi lo smarrimento dell’Europa, il vostro smarrimento, significa lasciare il mondo al<br />

buio.<br />

Ma sta alla base di tutto la certezza della possibilità di convivere tutti, ognuno con la<br />

sua religione, ognuno con la sua cultura, ognuno anche con i suoi punti di riferimento<br />

nazionali, politici, culturali, che sono diversi ma è il loro insieme che forma l’esperienza<br />

umana, che oggi ha decine di migliaia di anni ed è destinata a crescere, a continuare.<br />

Tocca a noi stabilire le condizioni per questa crescita, in modo positivo o in modo<br />

negativo. E i problemi sono arrivati a un livello tale da richiedere la partecipazione di<br />

ognuno di noi e un senso di responsabilità espresso al massimo, nel modo migliore, da<br />

tutti perché la nazione, il paese e il mondo appartengono a tutti.<br />

E in verità, le nostre radici più profonde, sì, si trovano anche nella vita di quartiere,<br />

nella vita nazionale, però oggi, con la globalizzazione, sono di carattere planetario.<br />

Io vi invito e mi faccio anche carico, come esponente del Parlamento, a partecipare a<br />

questa ricerca, a questa discussione; io credo ad esempio che padre Balducci abbia<br />

detto delle cose molto importanti sul passato, sul futuro. E’ venuto a mancare presto<br />

quest’ uomo che ci avrebbe detto molte cose che riguardano il nostro momento, e<br />

sicuramente il destino di ognuno di noi, il destino dell’umanità che oggi deve essere<br />

inteso in senso planetario. Le appartenenze piccole sono importanti, sono decisive per<br />

la formazione della nostra personalità, ma sono rivolte a tale livello planetario.<br />

Oggi è giunta l’ora, secondo me, di incominciare a pensare nella dimensione planetaria<br />

che ci riguarda come umanità.<br />

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In questi giorni si sta parlando dei problemi dell’ambiente, della questione della pace,<br />

della guerra, della questione della legalità internazionale, problemi che lasciano<br />

intravedere come siano interconnessi ormai i destini di tutte le donne, di tutti gli<br />

uomini, ovunque si presentino, insieme all’ambiente, insieme agli alberi, all’ossigeno,<br />

all’aria, alle cose che ci circondano.<br />

E’ questo il destino unitario che ci aspetta tutti e quindi la convivenza tra le religioni è<br />

necessaria perché è un elemento importante della nostra formazione, della nostra<br />

personalità, ma bisogna anche dire che questo concetto della convivenza dovrebbe<br />

essere esteso oltre i confini nazionali, verso tutte le realtà che ci circondano.Grazie.<br />

Prof.ssa Fierro: Bene, adesso comincia la parte in cui i ragazzi piano piano, vedrà,<br />

onorevole, verranno fuori con le loro domande.<br />

Lei ci ha sollecitato ad una serie di riflessioni in più ambiti, perché ha fatto una serie di<br />

riferimenti, anche attraverso un accenno al suo vissuto di persona che viene da<br />

Gerusalemme; ci ha tenuto molto a mettere in luce il fatto che è nato per caso ad<br />

Amman, però la sua città è Gerusalemme.<br />

Prima di dare la parola ai ragazzi, che sono sicura avranno già tantissime domande da<br />

fare, ed è questo il momento più bello, quello in cui loro diventano protagonisti di<br />

questo scambio di idee, vorrei fare alcune considerazioni: sono rimasta, diciamo così, a<br />

riflettere, mentre lei parlava, su due punti, sui quali vorrei che lei tornasse un attimo.<br />

Mi inserisco solo per cominciare questo discorso, dopo di che darò la parola ai ragazzi,<br />

alla dottoressa Monteforte, a chiunque dei colleghi voglia inserirsi.<br />

Riguardo alla crisi dello stato di diritto, lei ha insistito sul concetto della legalità, cioè<br />

se lo stato di diritto non esiste, o è in crisi o comunque non ci sono le regole, non c’è<br />

possibilità di convivenza.<br />

E poi su un altro punto, questo ultimo toccato, l’importanza delle “appartenenze<br />

piccole”, le ha chiamate così, mi piace molto questa definizione, gliela rubo,<br />

l’importanza delle “appartenenze piccole”, per non dire, appunto, delle identità<br />

particolari, e però la necessità di “uscire”, tra virgolette, dalla dimensione individuale.<br />

Allora, la mia domanda è questa: in che senso lei vede, per esempio nel nostro paese,<br />

proprio concretamente, una crisi dello stato di diritto? Dov’è che vede questi elementi,<br />

se ci sono anche da noi. E poi in che senso secondo lei in Italia, anche per la sua<br />

esperienza di parlamentare, sussistono ancora particolarismi, cioè difese appassionate di<br />

quelle che lei ha chiamato “appartenenze piccole”?<br />

Do la parola a chiunque voglia fare domande in maniera tale che, come siamo abituati,<br />

se ne facciano almeno tre o quattro, e così l’onorevole potrà rispondere a gruppi di<br />

domande.<br />

Do la parola a chi voglia cominciare. Oggi comincia una professoressa, la parola alla<br />

professoressa Peretti.<br />

Prof.essa Peretti: Io veramente, più che una domanda, la volevo ringraziare per la sua<br />

pacatezza. Adesso sembra fuori posto come discorso, ma invece sono rimasta affascinata<br />

proprio da questo elemento, perché i nostri ragazzi sono poco abituati a persone che si<br />

esprimono in modo pacato su temi così scottanti, tutto sommato. Quindi stavo notando,<br />

per esempio, che alcuni parlavano e non sono capaci di ascoltare, alcuni, pochi soltanto,<br />

per fortuna. Però, ecco, la capacità dell’ascolto, dell’ascoltare l’altro, del non urlare<br />

quando si affronta una discussione così importante, soprattutto penso alla televisione,<br />

penso, ahimè, anche al Parlamento, al Senato, spesso, con queste reazioni inconsulte,<br />

devo dire. Ecco, come è possibile educare i giovani, secondo lei, a questo rispetto, ad<br />

ascoltare l’altro anche su temi così importanti? Grazie.<br />

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Prof.ssa Fierro: Ringraziamo la professoressa Peretti per questa bellissima domanda.<br />

Continuiamo?<br />

Venite, venite senza timore.. E’ sempre così. Poi vedrà che non la manderanno via,<br />

perché quando cominciano a fare le domande, poi continuano. Su, rompiamo il ghiaccio.<br />

Vieni.<br />

Daniele: Buongiorno, sono Daniele Costanzo. Senta, prima lei ha parlato dell’Unione<br />

Europea. Lei la classifica come identità piccola, l’Unione Europea?<br />

Prof.ssa Fierro: Ripeti, non hanno capito.<br />

Daniele: Ho chiesto se considera l’Unione Europea come un’identità piccola, come le ha<br />

chiamate lei. In caso contrario, non vede una dicotomia tra identità piccola, Unione<br />

Europea e il discorso universalistico che ha fatto prima?<br />

Prof.ssa Fierro: Ancora.<br />

Prof. Carini: Grazie. La ringrazio per il discorso che ci ha fatto e volevo attirare la sua<br />

attenzione su questo: lei ha parlato prima dello stato di diritto; una piccola riflessione a<br />

proposito delle condizioni degli stati islamici per quanto concerne il rapporto tra<br />

cittadino singolo e stato.<br />

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ONU, adottata nel ’48, all’articolo 18<br />

statuisce la libertà di coscienza e di espressione per tutti gli individui. E questa<br />

dichiarazione, se non ricordo male, fu firmata anche dai paesi islamici, dagli stati arabi.<br />

Gli stessi paesi islamici hanno adottato la risoluzione del Cairo, nel 1990, che stabilisce<br />

proprio i diritti dell’uomo nell’Islam. L’articolo 22, sì, riconosce la libertà di coscienza,<br />

ma a condizione che non contrasti con i principi della shari’a . Ecco, non voglio essere<br />

polemico, per carità, ma non le sembra un limite alla libertà di coscienza che è un<br />

principio fondamentale nei paesi che sono retti dalla democrazia liberale, come<br />

l’Occidente? Questo non potrebbe in qualche modo ostacolare il dialogo tra comunità<br />

islamiche e paesi retti da tradizione occidentale? Lo vediamo anche come riflesso nella<br />

condizione, magari, dell’islamico che si converte ad un’altra religione, perché<br />

l’apostasia è punita ancora, mi sembra, con la pena di morte.<br />

Però voglio dire un’altra cosa: devo prendere atto che si stanno facendo dei passi per in<br />

qualche modo liberalizzare, se posso usare questo termine, le società islamiche negli<br />

stati islamici.<br />

Per esempio, in Tunisia c’è una grande apertura verso il ruolo della donna, ci sono anche<br />

delle donne esponenti di governo. Così mi sembra anche in Algeria.<br />

Il re Assan II, mi sembra, in Marocco ha ultimamente abolito la sanzione della pena di<br />

morte per l’apostasia. Questi, se non ricordo male, mi sembrano dei passi verso la strada<br />

della democrazia e della libertà. C’è un lungo cammino da fare, ma mi sembra molto<br />

promettente. Volevo sapere il suo parere su questo.<br />

Prof.ssa Fierro: Salutiamo la dottoressa Monteforte che deve andare via e ringraziamola<br />

di essere stata qui con noi.<br />

Cominciamo con le risposte.<br />

On. Rashid: Grazie, professoressa Peretti, per le sue parole gentili. Sì, io credo nel<br />

valore profondo delle parole dette in modo pacato, perché le parole urlate, quando<br />

esprimono rivendicazioni di carattere religioso o nazionale, non mi convincono molto.<br />

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Padre Balducci, del quale io mi considero allievo, in un suo discorso, parla delle “parole<br />

non dette”, che esprimono molto di più delle parole urlate.<br />

E bisogna anche pensare ad un’altra cosa che accomuna tutta la specie umana e non<br />

solo, ed è quel posto che si trova da qualche parte dentro di noi, dove sta la parola non<br />

detta che viene riempita dopo, durante la nostra storia, durante la nostra evoluzione,<br />

dalle parole inculcate, insegnate dalla madre. Noi però siamo già predisposti<br />

geneticamente ad avere un linguaggio per comunicare e non solo per trasmettere;<br />

quando uno vuole comunicare sceglie il modo pacato, se vuole trasmettere ordini,<br />

indicazioni, allora si usano le parole urlate. E quando si parla di problemi veri, di<br />

religione, di sentimenti, di diritto allora si tende a comunicare e non soltanto a<br />

trasmettere.<br />

Sicuramente io appartengo a quella parte del mondo che è il mondo arabo, il mondo<br />

islamico, con tutta la sua storia, la sua civiltà, le sue decadenze e la crisi che vive da<br />

molti anni.<br />

Il mondo arabo è caratterizzato dal fatto che esiste uno stato nazionale di sovranità<br />

incompiuta. Tutta quell’area che oggi si chiama il “mondo arabo” fino al 1916 –17 veniva<br />

definita dagli stati nazionali europei come l’eredità turca. Cosa si deve fare di questa<br />

area del mondo? Le potenze che hanno vinto la prima guerra mondiale hanno diviso<br />

questo mondo in diversi stati, staterelli, in eterno conflitto tra di loro. E quindi nel<br />

mondo arabo non c’è lo stato di diritto compiuto e sta a testimoniarlo il fatto che in<br />

quella parte del mondo non c’è nessun governo eletto democraticamente. E’ difficile<br />

immaginare una situazione dove siano rispettate, assicurate le certezze del diritto in<br />

tutte le sue forme, personali, collettive, nazionali, se non c’è la democrazia. Questo<br />

vale per il Marocco, vale per la Giordania, per la Siria, per l’Egitto.<br />

Naturalmente la situazione è diversa da un paese all’altro, però possono essere<br />

inquadrati tutti in una situazione di non democrazia, di non partecipazione vera, di<br />

mancanza di un sistema parlamentare che svolga in pieno il suo ruolo.<br />

E quindi non mi scandalizza il fatto che le condizioni politiche, umane, culturali,<br />

scientifiche, ma soprattutto le condizioni delle donne, vivano la mancanza di questo<br />

elemento fondamentale che è il diritto, uguale per tutti, a partecipare all’elaborazione<br />

delle politiche di un paese.<br />

Il mondo arabo, nella sua attuale configurazione geopolitica, fu disegnato da chi aveva<br />

vinto la prima guerra mondiale. Churchill disse: “Ho disegnato con il mio sigaro la<br />

cartina del Medio Oriente su un tavolo pieno di tazze da tè”.<br />

Insomma, basta guardare la cartina geografica per vedere questi confini fatti secondo<br />

una linea retta. Ma dentro questi confini, poi, furono disegnate anche le dinastie.<br />

L’Arabia Saudita, che per tutta la sua storia fu chiamata la penisola arabica, oggi si<br />

chiama Arabia Saudita: la parola Saudita è il cognome della famiglia regnante, hanno<br />

dato anche il loro cognome allo stato. In Giordania è la stessa cosa, il regno Hashemita,<br />

è un’altra famiglia.<br />

E quindi è ancora una zona del mondo che sta cercando una sua stabilità fin dal 1916 e<br />

ancora oggi non l’ha trovata.<br />

Tra l’altro sono state commesse delle aberrazioni.<br />

Ad esempio, per inventare la Giordania fu portato il re da Mecca, in Arabia Saudita; un<br />

pezzo di popolo dal deserto dell’Arabia Saudita, un altro pezzo dal deserto della Siria,<br />

per la formazione della legione araba di Lorenzo d’Arabia: tale è il nucleo fondamentale<br />

degli abitanti della Giordania. E oggi questo è uno stato sovrano.<br />

Vi porto un altro esempio che spiega meglio la situazione:<br />

Due anni fa, un paese sul golfo che si chiama Al Baђrayn (Bahrein) ricco di petrolio, ha<br />

indetto un referendum per trasformare il principato in un regno. Naturalmente il<br />

referendum è passato, come passa tutto nel mondo arabo, con il 99,9 per cento e oggi<br />

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questo paese è un regno, pur contando solo centomila abitanti. Regno riconosciuto dalle<br />

Nazioni Unite, uno stato sovrano che ha un suo inno nazionale, ha la sua bandiera,<br />

mentre in questa regione 32 milioni di curdi non sono riconosciuti come nazione.<br />

Il re del Marocco, oltre ad essere re, dal punto di vista costituzionale, del Marocco, ha<br />

un altro patto di fedeltà con la sua popolazione, in quanto è il principe dei fedeli, come<br />

nel califfato.<br />

E quindi i confini tra lo stato laico e lo stato feudale sono così labili.<br />

Qui non ci sono scorciatoie perché, se andiamo ad indagare in profondità, vediamo che<br />

la crescita dell’integralismo islamico è avvenuta soprattutto per l’incompiutezza dello<br />

stato di diritto, per la mancanza di democrazia e perché la politica ha perso spazi e<br />

ruolo.<br />

Questo vale anche per l’Iran: è una grande nazione, di grande civiltà, di grande storia,<br />

quando parliamo dei Persiani insomma, voi che avete studiato nel liceo classico sapete<br />

anche più di me, e sapete di cosa stiamo parlando. Anche la Persia fu sotto il mandato<br />

inglese , era occupata dagli inglesi i quali avevano favorito il regime antidemocratico<br />

dello scià. Poi c’è stato, nel 1953, un grande movimento di massa in Persia che ha<br />

rovesciato la situazione, ha allontanato lo scià ed è iniziato un cammino verso lo stato di<br />

diritto, l’assemblea costituente, i partiti.<br />

E vi prego di prestare particolare attenzione per capire l’importanza che ha l’Occidente<br />

nei confronti dell’intero mondo.<br />

Giustamente i persiani ad un certo punto hanno nazionalizzato il petrolio perché veniva<br />

rapinato dalle potenze nazionaliste di allora, che erano Inghilterra, Francia, Stati Uniti.<br />

E siccome hanno nazionalizzato il petrolio, la risposta dell’Occidente democratico qual è<br />

stata? E’ stata quella di organizzare il colpo di stato, riportare lo scià, mettere fuori<br />

legge tutti i partiti, non era possibile costituire neanche un’associazione culturale. Tutte<br />

le forme di associazionismo erano fuori legge. E quindi nel paese cosa è rimasto? Lo scià<br />

e Allah. Non c’era altro.<br />

E’ questa l’origine dell’ integralismo islamico che ha poi portato alla rivoluzione<br />

Khomeinista.<br />

Altrimenti il popolo iraniano aveva risolto questo problema, c’erano grandi partiti<br />

democratici, progressisti, conservatori. E quindi poteva essere una società normale, con<br />

uno sviluppo normale.<br />

E un’altra cosa, e qui mi rivolgo a voi veramente con il cuore in mano. L’Occidente<br />

democratico per sé, con il resto del mondo non ha avuto un rapporto di carattere<br />

politico e culturale, ha avuto un rapporto di carattere economico e di potere, di<br />

dominio. Non ha mai tollerato un’esperienza democratica al di fuori dei suoi confini. E<br />

se noi andiamo a vedere nell’Africa, nel Medio Oriente, nell’America del Sud, tutti i<br />

colpi di stato furono organizzati dai servizi segreti dei paesi democratici.<br />

Perché l’Occidente è bivalente: ci sono gli aspetti positivi, interessanti, importanti ma<br />

c’è anche l’altro lato, l’altra faccia della medaglia.<br />

Bisogna secondo me uniformare il messaggio che il nuovo Occidente, che dovete creare<br />

voi, deve essere in grado di rivolgere all’intera umanità.<br />

E in questo senso l’Europa, la sua cultura, la democrazia, lo stato di diritto possono<br />

riconquistare di nuovo un aspetto centrale e determinante per quello che dovrà essere il<br />

mondo, altrimenti l’Europa perderà la sua centralità.<br />

Per capire cosa succede quando la questione diventa soltanto economica e militare,<br />

basta vedere che cosa sta avvenendo in Cina, in India.<br />

E quindi diventa una sfida di tutti, degli europei e di tutti quelli che credono in questo<br />

modello e in questa cultura, diventa la sfida del futuro, e ciò dipende in modo<br />

particolare dalla vostra capacità.<br />

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Questa nuova generazione si affaccia al mondo con grande preoccupazione perché,<br />

diciamoci anche un’altra cosa, l’Europa ha raggiunto un importante livello di benessere,<br />

di democrazia, di libertà però siamo anche tutti attraversati ogni giorno da un senso di<br />

paura, di preoccupazione, di impotenza, di solitudine.<br />

E sono tutte domande alle quali dobbiamo trovare una risposta e voi siete nella<br />

condizione ottimale, in quanto vi trovate in una fase bellissima della vita, per cercare di<br />

trovarla, lo fate per voi ma lo fate per l’intera umanità e io ho grande fiducia in voi.<br />

Grazie.<br />

Prof.ssa Fierro: Ragazzi, aspettiamo le vostre domande. Mi hanno fatto impressione le<br />

cifre che lei ci ha comunicato a proposito di questo piccolissimo stato, il Barhein:<br />

centomila persone un regno, trentadue milioni di curdi non hanno uno stato. Non sono<br />

riconosciuti nemmeno come nazione.<br />

E poi mi ha colpito pure, in questa ultima parte della sua riflessione, il discorso sulle<br />

responsabilità dell’Occidente. Quello che aveva detto Daniele, no? l’Europa. L’Europa<br />

che poi in realtà perde la sua centralità se l’Occidente stabilisce solo rapporti di tipo<br />

economico- militare.<br />

Però adesso io vorrei sentire i ragazzi su queste ultime riflessioni. Anche sulle donne, ad<br />

esempio.<br />

Arianna: Io volevo chiederle: da quanto ho capito, è emerso che lei è contro la guerra e<br />

anche contro i fondamentalismi in tutte le religioni. Ma, in particolare, riguardo al<br />

fondamentalismo islamico, verso questa forma comunque un po’ esaltata della religione,<br />

noi allora come ci dobbiamo comportare? Di fronte alle stragi degli esaltati che uccidono<br />

migliaia e migliaia di persone anche tutti i giorni, persone magari innocenti, nei<br />

mercati, nei luoghi pubblici, nelle panetterie. Se non con mezzi violenti, allora come<br />

fare? Se uno spunto, una modifica non nasce dal loro interno?<br />

Silvia: Buongiorno, mi chiamo Silvia, volevo sapere: perché in molte parti del mondo<br />

musulmano la donna è così lontana dal raggiungimento della parità dei diritti umani,<br />

viene sottomessa all’autorità maschile ed esclusa dalla vita politica, relegata tra le<br />

mura domestiche? E in particolare, in quale aspetto della religione può trovare<br />

fondamento una società chiusa e patriarcale, come ad esempio quella dell’Arabia<br />

Saudita? Grazie.<br />

Flaminia: Buongiorno, sono Flaminia. Le volevo chiedere, la dottoressa Monteforte ha<br />

parlato prima di autonomia tra sfera politica e religiosa, un’autonomia che del tutto<br />

non c’è nemmeno in Europa, in Italia in effetti. Ma fin dove si può parlare di religione<br />

vera e propria quando questa viene strumentalizzata dalla politica soprattutto nei paesi<br />

islamici? Dove finisce la religione? Dove inizia la politica?<br />

Marta: Buongiorno, io mi chiamo Marta. Noi, dietro consiglio della professoressa Fierro,<br />

abbiamo letto l’introduzione di Andrea Riccardi al libro Islam e Occidente che tratta<br />

proprio di questi argomenti, e l’autore sostiene che ciò che principalmente “fonda”, usa<br />

questo termine, un’identità e i rapporti di ostilità che possono derivare da esse sono due<br />

cose, principalmente: la religione e la memoria. E per quanto riguarda la seconda,<br />

l’autore afferma che la costante adozione della memoria storica rende molto difficili i<br />

processi di riconciliazione tra i popoli.<br />

In certe situazioni, addirittura, riscontra una patologia della memoria e parla di una<br />

responsabilità di dimenticare al fine di convivere serenamente. Io volevo sapere la sua<br />

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opinione riguardo a ciò e chiederle se sia possibile trovare un punto di equilibrio tra<br />

memoria e oblio. Grazie.<br />

Stefano: Buongiorno, io volevo chiederle di tornare un attimo sulla situazione politica in<br />

Italia, ossia come il mondo politico si inserisce all’interno di questo dibattito sociale,<br />

culturale, religioso ma anche politico. Lei prima parlava di vuoti che la politica lascia e<br />

che spesso vengono colmati dai fanatismi, da altre cose che comunque portano poi a<br />

degenerazioni poco auspicabili. Anche in base a quella che è la sua esperienza<br />

personale, oltre che da emigrato, da uomo che vive in un paese straniero, anche da<br />

uomo politico di primo piano, un membro del Parlamento. Quindi come i politici, il<br />

mondo politico, si dovrebbero porre o si pongono di fronte a questi problemi?<br />

Prof.ssa Fierro: E’ meglio rispondere, perché sono tantissime le domande adesso.<br />

On. Rashid: Allora, vediamo la prima domanda, quella di Arianna, su come combattere il<br />

terrorismo. Sì, io sono contro la guerra, che considero come una forma di terrorismo<br />

perché agisce al di fuori della legalità e utilizza lo strumento militare come una<br />

scorciatoia che alla fine, in verità, non porta a nessun risultato. Se noi riusciamo a<br />

metterci d’accordo che anche la guerra è una forma di terrorismo, rendiamo la<br />

possibilità di dialogo più vicina. E la verità è che il terrorismo è funzionale alla guerra e<br />

la guerra è funzionale al terrorismo. Questo non significa che il terrorismo non andrebbe<br />

contrastato anche con strumenti di forza, quando necessario; però diventa una<br />

questione di ordine pubblico, che è solo un elemento di tutta una serie di iniziative che<br />

qualsiasi governo è chiamato ad adottare per prevenire e combattere il terrorismo ed<br />

ampliare la democrazia e la partecipazione. Questi due elementi sono legati insieme.<br />

Per darvi esempi pratici, quando noi parliamo di terrorismo islamico, inteso come quella<br />

forma originaria che aveva espresso Bin Laden e la sua organizzazione Al Qaeda, bisogna<br />

avere anche qui la capacità di ricordare che l’organizzazione di Bin Laden, Al Qaeda, la<br />

stessa che oggi gli americani combattono e per la quale hanno giustificato questa<br />

guerra, fu creata dagli americani, durante l’occupazione sovietica in Afghanistan.<br />

Creata, organizzata, addestrata, armata, finanziata, e dopo si sono rivolti contro gli<br />

americani perché sono subentrati alcuni problemi, alcune contraddizioni, tra di loro.<br />

E poi, con la guerra, che mirava a sconfiggere il terrorismo in Iraq, noi abbiamo visto<br />

aumentare il terrorismo e non il contrario.<br />

Io credo che sul piano internazionale, ma anche sul piano nazionale, la lotta contro il<br />

terrorismo, contro la malavita, contro qualsiasi forma di deviazione, deve utilizzare<br />

diversi strumenti, quello politico, quello culturale, ma anche quello della repressione,<br />

nell’ambito però di un quadro di certezza del diritto e non in un quadro di annullamento<br />

del diritto che la guerra provoca. E si può benissimo utilizzare anche la forza, quando è<br />

necessaria, per combattere il terrorismo, ma questo non significa automaticamente che<br />

bisogna lanciare le guerre.<br />

Questo aspetto del contrasto al terrorismo che delle volte implica l’uso della forza,<br />

conviene considerarlo in un ambito o un quadro di legalità e di rispetto di tutte le altre<br />

forme di diritto.<br />

Anche in Italia c’è stato il terrorismo e lo Stato ha vinto questa battaglia, ma senza<br />

trasformarsi in un paese dove non vengono rispettati il diritto, la partecipazione e la<br />

democrazia; non si è snaturato lo Stato italiano per combattere il terrorismo, e questa<br />

è stata la forza. Quindi è possibile, anzi è necessario, per vincere il terrorismo e le altre<br />

forme di involuzione come il fondamentalismo, mantenere uno stato di legalità<br />

altrimenti, anzi, questo diventa uno strumento che aumenta il terrorismo, fa crescere il<br />

fondamentalismo e altre forme non democratiche della politica.<br />

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E quindi va bene l’uso della politica, insieme a tutta una serie di norme, di leggi, in un<br />

ambito democratico, per risolvere i problemi anche dell’arretratezza, i problemi di<br />

carattere economico, politico e per vincere anche il terrorismo. Io non vedo alcuna<br />

contraddizione.<br />

Ma comunque la guerra, secondo me, è una forma di terrorismo, ingiustificata e<br />

soprattutto inopportuna e produce proprio il contrario di quello che noi vorremmo<br />

avere.<br />

Le ultime due guerre in Medio Oriente dimostrano esattamente questo.<br />

Oltretutto gli Stati Uniti sono la più grande superpotenza che la storia abbia mai visto.<br />

Bush ha chiesto altri 240 miliardi di dollari per proseguire la guerra in Afghanistan e in<br />

Iraq: basti pensare che l’ultima manovra del governo italiano è stata di 35 miliardi per<br />

capire di che cosa stiamo parlando.<br />

Poi naturalmente la guerra alimenta tutta un’altra serie di fenomeni negativi, come la<br />

corruzione, la violenza.<br />

Io vi auguro di non vivere una situazione in cui viene usata la violenza, perché ora<br />

stiamo parlando di alcuni danni diretti, collaterali, però il danno fondamentale la<br />

violenza lo produce dentro l’essere umano. E vi assicuro che la violenza danneggia non<br />

soltanto chi la subisce, ma anche chi ne fa uso.<br />

Eppure noi avremmo tutta una serie di strumenti molto efficaci: la storia nostra,<br />

dell’Italia, dell’Europa, del mondo lo dimostra.<br />

Bisogna bandire la guerra dal mondo, soprattutto noi, stati sovrani.<br />

Datemi un solo esempio in cui la guerra abbia dato esiti positivi.<br />

Naturalmente è necessario che il mondo si attrezzi, e oggi è in grado di farlo, di tutta<br />

una serie di strumenti che impediscano la dittatura, la guerra, la questione dei diritti<br />

umani, la questione dei diritti delle donne, alla fine sono tutti connessi tra di loro e la<br />

risposta deve essere sì nazionale, ma anche globale.<br />

Adesso c’è una importantissima iniziativa del governo italiano presso le Nazioni Unite<br />

contro la pena di morte. E dobbiamo lavorare tutti, e stiamo lavorando nel Parlamento<br />

Europeo, nel Consiglio d’Europa, nelle Nazioni Unite: questo è il frutto di un dibattito<br />

parlamentare. Perché quando i parlamentari decidono di fare qualcosa di utile, di<br />

positivo riescono anche a farlo, e oggi il governo italiano è impegnato tramite il<br />

Parlamento a promuovere questa battaglia di altissimo livello giuridico su scala mondiale<br />

per una moratoria.<br />

Speriamo che un giorno possa essere addirittura possibile cancellare la pena di morte<br />

anche come concetto.<br />

E dunque abbiamo molti strumenti per vincere la povertà, l’arretratezza, il terrorismo,<br />

basta non pensare a scorciatoie che non esistono.<br />

Riguardo al problema delle donne, sì, le donne hanno rappresentato sempre l’anello<br />

debole in queste società, dove manca la democrazia, dove manca lo sviluppo, la crescita<br />

economica. Molte volte, siamo obiettivi, la libertà della donna è sì un fatto culturale,<br />

però legato a una situazione storica, sociale, politica, economica. Nelle società<br />

arretrate, nelle società povere, le condizioni delle donne sono più difficili.<br />

C’è poi tutta una serie di altri problemi di natura diversa, legati alle società più ricche,<br />

più industrializzate, ma le religioni in generale, monoteiste soprattutto, non hanno mai<br />

teorizzato l’uguaglianza perfetta tra donne e uomini.<br />

Pensate anche alla condizione delle donne cinquanta, sessanta, settant’anni fa qui in<br />

Italia, in Europa.<br />

Prof.ssa Castriota: Lei giustamente richiama le responsabilità dell’Europa. Bene, di<br />

Churchill, dopo la prima guerra mondiale, la costruzione di stati arabi, sono d’accordo<br />

con lei, ci sono tante colpe, e chi non le ha? Però, dopo tanti anni, ecco vorrei sentire<br />

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da lei un’autocritica dal di dentro del mondo arabo, e non sempre questo ritornello,<br />

l’Europa, l’Europa o l’America.<br />

Certo, indubbiamente quello che ha detto è vero, però vorrei sentire da lei anche una<br />

voce di autocritica, dall’interno. Sono tanti anni, no?<br />

On. Rashid: Autocritica, più di così l’ autocritica, più di quello che ho detto riguardo<br />

alla situazione di arretratezza in cui si trova il mondo a cui appartengo; io ho fatto la<br />

lotta contro quel mondo per tutta la vita, ho dovuto anche uscire, scappare; ho fatto la<br />

prigione, migliaia di giovani come me hanno perso la vita, quindi l’autocritica è forte, io<br />

li chiamo governi corrotti, reazionari. Tra palestinesi vi assicuro che, come risulta dalle<br />

ricerche, il quaranta per cento della popolazione, che è una cifra altissima, ha fatto in<br />

media tre mesi di carcere.<br />

La storia della repressione nel mondo arabo è una storia spietata, lunga, e io dico che<br />

sono regimi corrotti, antidemocratici, reazionari. Quindi è una critica aperta, enorme.<br />

Ma questo non ha nulla a che vedere con la responsabilità, con una complicità che c’è e<br />

che continua ad esserci. Il primo computer entrato in Giordania non era per l’Università<br />

di Amman, era per le forze dell’ordine, per i servizi segreti. I corsi di formazione,<br />

l’organizzazione, gli aiuti erano solo per loro.<br />

C’è una responsabilità da parte dei governi che sono stati insediati, anche sul piano<br />

economico, culturale, sociale, di arretratezza del mondo arabo. E noi continuiamo ad<br />

avere sempre gli stessi regimi: gli Hashemiti sono in Giordania dal 1920, i Sauditi dagli<br />

anni trenta e ciò che ha reso ancora più difficile la situazione è stata la guerra fredda:<br />

quando il mondo fu diviso in zone di influenza tra i due blocchi, cambiare in termini<br />

democratici non era semplice. L’unica forma di cambiamento era il colpo di stato e qui<br />

torno di nuovo all’uso della forza e della guerra.<br />

Tutti i movimenti di liberazione che hanno usato il colpo di stato come strumento per il<br />

cambiamento, alla fine sono stati trasformati in regimi antidemocratici e dittatoriali.<br />

E quindi sì, c’è della responsabilità e la mia critica a questi governi è forte, però c’è<br />

anche una responsabilità concreta da parte dell’Occidente nel determinare queste<br />

condizioni.<br />

E spesso si parla di mondo arabo moderato: chi sono questi moderati, secondo i criteri<br />

dell’Occidente democratico? L’Arabia Saudita viene considerato un paese moderato, per<br />

il semplice fatto che permette agli Americani di avere il pieno dominio sulle loro risorse,<br />

sul loro territorio, e quindi diventano moderati e accettabili, tollerati e protetti.<br />

Io non ho risparmiato l’autocritica, la responsabilità di questi governi, di questi regimi<br />

antidemocratici.<br />

L’Europa ha conosciuto anche forme di governi antidemocratici e cambiare non fu facile<br />

per le organizzazioni progressiste e democratiche. Ce n’erano qui in Europa, sono stati<br />

anche loro arrestati, incarcerati, esiliati, ma in una situazione internazionale<br />

sfavorevole il cambiamento diventa molto difficile.<br />

E quindi ci sono le responsabilità di questi governi, ci sono varie responsabilità<br />

collettive; oggi per la caduta della speranza di poter cambiare in senso laico,<br />

democratico, progressista questa situazione, sta crescendo il fondamentalismo che è una<br />

forma di opposizione sì arretrata, però è comunque una forma di opposizione.<br />

La gente è portata normalmente a migliorare, a fare di tutto per migliorare le proprie<br />

condizioni, perché questi non sono solo governi antidemocratici che reprimono le libertà<br />

individuali e collettive, ma sono anche corrotti, e affamano la loro gente.<br />

A volte non hanno trovato la possibilità di cambiamento anche per errori che la gente<br />

stessa ha commesso, ma la situazione è questa: la volontà di cambiare c’è, è diffusa.<br />

Devo però aggiungere un’altra cosa: in mancanza di democrazia rischiano di aumentare<br />

non le forme migliori di organizzazione e di politica, ma spesso le peggiori. E questo sta<br />

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avvenendo: per cinquant’anni i partiti, le popolazioni hanno tentato un processo di<br />

cambiamento, senza riuscirci. E oggi stanno tentando con una forma arretrata, stanno<br />

cercando aiuto nella religione, in Dio, laddove è fallita la politica.<br />

Non ci sono popoli che non tendono normalmente e naturalmente a trovare gli strumenti<br />

per migliorare le proprie condizioni, a volte ci riescono, molte altre volte non ci riescono<br />

per motivi locali, nazionali, ma anche per la situazione internazionale.<br />

Guardate la situazione dell’Africa oggi: negli anni sessanta, negli anni settanta c’era<br />

molta più dinamicità; c’era la povertà, c’era la fame, però oggi ce n’è di più e non c’è<br />

più neanche la politica perché quanti leader sono stati uccisi, quanti partiti sono stati<br />

sciolti con la forza. Inoltre, durante il periodo della guerra fredda, se un’area del mondo<br />

veniva considerata area d’influenza per l’Unione Sovietica o per gli Stati Uniti<br />

d’America, cambiare ordinamenti era non facile.<br />

E lo abbiamo visto anche in quella parte dell’Europa oltre il muro di Berlino. Adesso<br />

cominciano a vivere una situazione di democrazia, di libertà, di partecipazione, con<br />

tutta una serie di problemi di carattere economico. Però la situazione è cambiata. Prima<br />

non era immaginabile… Abbiamo visto cosa hanno fatto i sovietici in Bulgaria.<br />

No, la critica, l’autocritica, le responsabilità io le ho ammesse tutte, non le ho nascoste,<br />

non mi sono tirato indietro, quindi ci sono delle nostre responsabilità ma le condizioni<br />

sono queste.<br />

Prof.ssa Fierro: Dove non c’è sviluppo economico…<br />

Prof.ssa Peretti: Inserendomi in questo dibattito, volevo suggerire ai ragazzi che stanno<br />

facendo questa settimana di protagonismo giovanile, la visione del film Syriana, non so<br />

se lei l’ha visto, ecco mi ha fatto pensare proprio all’intervento della collega, magari se<br />

lei può darci anche un parere.<br />

On. Rashid: No, non ho visto il film, ma il mio intervento precedente era relativo alla<br />

risposta ad Arianna, quando parla di terrorismo, di stragi; è vero, il terrorismo porta a<br />

questo, ha una sua strategia, un metodo. Però in una situazione tesa, complessa come<br />

nel Libano, come in Iraq oggi, la cosa non è così lineare, non è così chiaro chi stia dietro<br />

a questi atti. Ci sono atti che vengono rivendicati da alcune organizzazioni che si<br />

possono classificare come terroristiche e utilizzano il metodo terroristico perché<br />

attaccano la gente civile che non c’entra nulla col conflitto, allo scopo di creare una<br />

situazione di tensione.<br />

Una cosa che abbiamo vissuto in Italia, basta ricordare alcuni atti terroristici come<br />

Brescia, ad esempio.<br />

Fa parte della strategia del terrorismo, della strategia di tensione colpire i civili e<br />

optare per operazioni crudeli che creino tensione.<br />

In Iraq ci sono anche movimenti di resistenza contro l’occupazione americana, non<br />

cadiamo nella banalità di classificare come terroristica ogni forma di opposizione ad<br />

un’occupazione straniera, perché la resistenza è un diritto, io dico un dovere a volte,<br />

garantito anche dalla legalità internazionale che riconosce ai popoli il diritto di opporsi<br />

anche militarmente a chi li aggredisce.<br />

Io sarei favorevole, dove è possibile, con grande sforzo intellettuale, a trovare delle<br />

forme più pacifiche per resistere anche all’occupazione militare.<br />

Dalla mia esperienza personale, dall’esperienza della Palestina, credo che sia la forma<br />

migliore, per ragioni politiche ma soprattutto per ragioni culturali.<br />

Ecco, adottare il mezzo violento che ha usato il tuo avversario per umiliarti, per<br />

occupare il tuo territorio, per annullarti non è auspicabile. Alla fine un’occupazione non<br />

è soltanto un’aggressione di carattere collettivo, ma anche individuale, e in modo<br />

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particolare l’occupazione israeliana della Palestina, perché ormai si è arrivati ad un<br />

tasso di violenza così alto che è entrato anche nella vita quotidiana di ogni palestinese.<br />

Io ritengo che la sconfitta più profonda sul piano politico e sul piano culturale è quando<br />

la vittima adotta lo strumento dell’aggressore, lì ha perso.<br />

E molte volte il rapporto di forza tra le due parti è così schiacciato a favore<br />

dell’occupante che il popolo resistente con la forza, oltre a non ottenere un risultato<br />

concreto sul piano della battaglia politica, sul piano culturale già parte sconfitto e<br />

trasferisce questa violenza anche all’interno della stessa società che ha usato la<br />

violenza per opporsi all’occupante. Gli scontri tra Hamàs e Al fatah di cui si parla oggi<br />

sono un risultato concreto.<br />

E quindi bisogna privilegiare, per vincere, non per perdere, gli aspetti non violenti della<br />

violenza. Naturalmente, perché questo mezzo possa essere efficace, deve trovare una<br />

risposta positiva nella grande opinione pubblica mondiale.<br />

Sfortunatamente, la cultura delle non violenza non è destinata a vincere se non viene<br />

adottata dalla grande opinione pubblica mondiale. E non può vincere solo in un<br />

territorio, perché in un solo territorio la legge spietata del rapporto di forza è quella che<br />

incide, è quella che produce i risultati.<br />

E per questo diventa importante il riferimento ad una certezza del diritto, della legalità<br />

internazionale, diventa importante che ci sia una comunità internazionale organizzata<br />

che abbia i mezzi per intervenire.<br />

Una cosa che non è avvenuta fino a oggi, perché la condotta anche delle Nazioni Unite è<br />

stata caratterizzata da due pesi e due misure e hanno spesso usato una forma di<br />

indignazione selettiva rispetto a chi fa lo stesso errore: qui è permesso, lì è sbagliato. Il<br />

regime iraniano diventa antidemocratico puramente perché non è d’accordo con gli Stati<br />

Uniti; l’Arabia Saudita, che fa molto peggio ma appoggia gli Stati Uniti, diventa un<br />

regime moderato.<br />

Anche questo è un elemento da tenere in considerazione se vogliamo favorire un<br />

discorso di comprensione e di rispetto tra diversi paesi, diverse nazioni, diverse culture<br />

e civiltà.<br />

Perché non ci sono civiltà negative e positive, dentro ogni civiltà ci sono diversi aspetti,<br />

sono tutte ambivalenti.<br />

Passiamo all’equilibrio tra memoria e oblio. Io credo che nel rapporto tra Islam e<br />

Occidente la cosa si riferisca in modo particolare alla questione palestinese e al conflitto<br />

tra israeliani e palestinesi in cui l’Occidente ha preso le parti di Israele. E qui la<br />

situazione è complessa. E’ difficile trovare una soluzione giusta se noi per giustizia, per<br />

soluzione giusta intendiamo giustizia assoluta; non esiste, ormai appartiene alla storia<br />

perché quello che è stato fatto non si può cancellare.<br />

Naturalmente io vengo dalla Palestina, quindi sono di parte, però devo dire intanto che i<br />

palestinesi non hanno aggredito nessuno, sono stati aggrediti nel loro territorio,<br />

occupati, umiliati, espulsi. Nel 1948, quando si è formato lo stato di Israele, due terzi<br />

della popolazione palestinese fu espulsa dal proprio territorio, dalle proprie case.<br />

Questo è un conflitto diverso da tutti gli altri: non si tratta dell’ occupazione di una<br />

nazione da parte di un’altra; si tratta dell’insediamento di un popolo al posto di un<br />

altro. E per far posto a questo nuovo popolo, che è venuto dall’Europa per vivere in<br />

Palestina, furono cacciati i palestinesi. Dal 1948 due terzi del popolo palestinese vive<br />

nei campi per i rifugiati.<br />

I campi per i rifugiati sono stati inventati per far fronte alle situazioni di emergenza:<br />

una catastrofe naturale, una guerra, finché non si calmano le acque e poi la gente torna<br />

a casa. Dal 1948 intere generazioni di palestinesi sono nate, cresciute, morte in<br />

condizioni drammatiche nei campi per i rifugiati, e non vedono alcuna soluzione per i<br />

loro problemi.<br />

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E’ difficile dimenticare, con tutta la buona volontà.<br />

Mia figlia è nata qui e si chiama Āida, voi dite Aìda, Āida significa “colei che ritorna”,<br />

quindi il ritorno è un pensiero costante nella nostra vita, perché siamo stati espulsi.<br />

Tutti gli esiliati, tutti gli espulsi sono accomunati da questo pensiero: il ritorno.<br />

Puoi avere tutte le case del mondo, però la tua casa è quella. E’ normale che un popolo<br />

lotti per ripristinare i propri diritti.<br />

Che i palestinesi abbiano sbagliato, d’accordo, molti sbagli abbiamo commesso, però<br />

sono i palestinesi che sono stati invasi nella loro terra, i palestinesi sono stati espulsi,<br />

sono loro che subiscono l’occupazione.<br />

Bisognerebbe avere l’onestà almeno di ammettere questo. E dopo si possono trovare<br />

tutte le soluzioni.<br />

Ma Israele rifiuta di essere definito come potenza occupante, e quindi le posizioni sono<br />

molto lontane, e tutti sanno oggi che senza una soluzione alla questione palestinese non<br />

ci potrà essere pace. Però una soluzione non significa la guerra, che ha prodotto tutta<br />

una serie di problemi, una soluzione politica deve considerare questi problemi, e non<br />

necessariamente ripristinare la situazione com’era.<br />

Però bisogna ammettere che c’è un problema da risolvere e che riguarda quattro milioni<br />

di rifugiati palestinesi: che ne facciamo di questi? E’ giusto chiedere cosa si deve fare di<br />

questi? E non hanno avuto la possibilità di risolvere i loro problemi lì dove sono andati. In<br />

Giordania hanno avuto il massacro di “Settembre nero”, in Libano hanno avuto Sabra e<br />

Shatila; in Libano, dove vivono, non possono fare, per legge, settantadue tipi di lavori,<br />

dal docente fino a tutte le altre forme di lavoro. Laureati in tutti i campi ma non<br />

possono fare gli ingegneri, per legge, perché sono rifugiati, perché non sono cittadini. In<br />

Siria sono cittadini di serie B, in Iraq si trovano perseguitati da entrambe le parti: prima<br />

perché erano contro Saddam, poi, venuti dopo, perché erano filo-Saddam.<br />

Quindi non hanno risolto nel frattempo il loro problema di vita. E intanto si firma<br />

l’accordo di Oslo del ’93 e la situazione peggiora, economicamente, politicamente,<br />

culturalmente; la colonizzazione ebraica in quello che resta della Palestina aumenta,<br />

costruiscono anche il muro, e oggi stanno scavando sotto la moschea di Gerusalemme<br />

per stimolare ancora la crescita del movimento islamico.<br />

Io credo che la comunità internazionale abbia tutti gli strumenti per dire basta: ci sono<br />

risoluzioni delle Nazioni Unite, del Consiglio di Sicurezza che riguardano questo<br />

conflitto, che stabiliscono quale sia la soluzione.<br />

E’ ora che Israele venga considerato uno Stato come tutti gli altri, che deve rispettare a<br />

sua volta la legalità internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite; è possibile fare la<br />

guerra a Saddam perché non ha rispettato la risoluzione delle Nazioni Unite mentre<br />

Israele non rispetta quasi duecento risoluzioni?<br />

Per risolvere il rapporto tra memoria e futuro bisogna mettere la gente in condizione di<br />

dimenticare, di perdonare, ci deve essere un tentativo serio di risolvere i problemi del<br />

momento per dimenticare quelli del passato, altrimenti i problemi si accumulano.<br />

Quindi secondo me è possibile conciliare questi due momenti, del passato e del futuro, a<br />

condizione di garantire il futuro, ma questo non viene proposto ai palestinesi. Pertanto<br />

diventa difficile dimenticare il passato.<br />

Nel ’93 quella grande partecipazione dei palestinesi al processo di pace ha dimostrato<br />

che sarebbero disponibili a dimenticare.<br />

E dunque i problemi sono tanti e richiedono l’impegno di tutti.<br />

Prof.ssa Fierro: Noi abbiamo sentito anche il dottor Gomel, nella scorsa conferenza,<br />

non so se lei… lei lo conosce?<br />

On. Rashid: E’ un mio amico<br />

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Prof.ssa Fierro: Ecco. Quindi dobbiamo avere fiducia, davvero, negli uomini di buona<br />

volontà che da una parte e dall’altra siano in grado di costruire le condizioni perché,<br />

come lei ha detto adesso, si possa dimenticare. Dimenticare il male, salvaguardando<br />

però ciascuno il proprio mondo, la propria cultura, la libertà del proprio credo. Io come<br />

adulta, però penso anche i ragazzi, abbiamo davvero difficoltà a costruire una speranza<br />

che non sia priva di fondamento. Pur avendo fiducia negli uomini di buona volontà,<br />

perché, come lei ci ha detto adesso, la situazione anziché migliorare, peggiora, cioè è<br />

sempre più difficile. E naturalmente in queste difficoltà noi ci chiediamo tutti che cosa<br />

si debba fare anche all’interno di quelle che sono le nostre istituzioni.<br />

Mi volevo riagganciare pure a quella domanda, cioè al ruolo che l’Italia ha in questo<br />

momento storico. Ci stanno dicendo in continuazione che non abbiamo una politica<br />

estera. Secondo lei, in questa situazione, proprio così come ce l’ ha caratterizzata e così<br />

come è venuta fuori anche attraverso tutte le bellissime domande che hanno fatto i<br />

ragazzi e gli adulti qui oggi, quali sono le nostre possibilità, quelle nostre, di italiani?<br />

Che poi sono capaci di accogliere, visto che lei è qui.<br />

Mi ha molto commosso sentire come ha chiamato sua figlia, “colei che ritorna”. Anche<br />

se noi le auguriamo di ritornare, consideriamo una ricchezza averla qui, nel nostro<br />

Parlamento ed è anche un segno della nostra maturazione civile, politica, umana. Allora<br />

io le chiedo: ce l’abbiamo una politica estera per avere un ruolo in questa possibile<br />

soluzione?<br />

On. Rashid: Io credo che l’Italia abbia un grande ruolo. Innanzitutto storicamente, tutti<br />

i popoli, tutte le nazioni hanno guardato con grande rispetto alla politica estera italiana<br />

nel passato, al ruolo che aveva svolto.<br />

Insieme alla commissione esteri, due settimane fa, siamo stati in Libano e abbiamo visto<br />

le forze armate italiane sul territorio e quali rapporti siano riusciti a creare con la<br />

popolazione libanese.<br />

Rapporti molto positivi. Vi dico soltanto una cosa per farvi capire la differenza tra come<br />

viene visto il ruolo italiano e come viene visto il ruolo di altre nazioni: l’esercito italiano<br />

ha già costruito tre campi grandi con l’appoggio della gente, anche perché lì il territorio<br />

non è dello Stato ma è della popolazione, quindi è necessaria l’approvazione da parte<br />

della popolazione per avere un terreno su cui costruire i campi.<br />

In sei mesi gli spagnoli non sono ancora riusciti a costruire neanche un campo, hanno<br />

delle vecchie caserme dell’esercito libanese ma la popolazione non ha dato loro la<br />

possibilità di costruire un campo. Abbiamo visto con quale attenzione, con quale<br />

passione svolgono il loro lavoro, e là dove operano hanno restituito al territorio anche un<br />

certo livello di vivibilità. Basti pensare che in tre mesi gli italiani hanno distrutto<br />

trentaduemila mine antiuomo mentre gli spagnoli sono riusciti a sminarne solo mille e<br />

duecento.<br />

Oltre naturalmente alla posizione politica, la conferenza di Roma è stata un grande<br />

successo per la diplomazia internazionale e, se permettete adesso sono parte politica, io<br />

ho cercato il meno possibile di esprimere un punto di vista politico, però c’è un rigoroso<br />

rispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza.<br />

Noi riteniamo che la missione in Libano sia diversa dalle altre missioni, perché siamo<br />

andati in Libano per stabilizzare una tregua, applicare la risoluzione delle Nazioni Unite<br />

e immaginare anche la possibilità di una estensione del processo di pace ad altri paesi.<br />

Sono obiettivi che sono stati raggiunti: la tregua c’è e viene rispettata da tutti, la<br />

popolazione si sente più sicura al punto che sono tutti tornati nelle loro case, nei loro<br />

villaggi e oggi con molta difficoltà si parla anche di una estensione di questa iniziativa<br />

politica fino a toccare altri punti di conflitto. E perciò l’Italia non sta facendo guerra a<br />

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nessuno, i soldati non hanno sparato neanche una pallottola fino ad oggi e hanno svolto<br />

un ruolo che viene considerato da tutti positivo, dagli israeliani e dai libanesi.<br />

Questo dimostra che l’Italia può avere un grande ruolo sul piano internazionale.<br />

Una cosa molto positiva è che sulla questione dell’intervento in Libano, sulla missione<br />

internazionale in Libano, c’è un accordo tra opposizione e maggioranza. E nella<br />

Commissione Esteri del Parlamento, sia la maggioranza che l’opposizione riescono a<br />

discutere in modo molto sereno e c’è un comune interesse per far crescere ancora di più<br />

il ruolo dell’Italia.<br />

A volte alcune dichiarazioni, alcune interferenze esterne non aiutano in questo senso,<br />

come ad esempio la lettera dell’ambasciatore americano più altri sei ambasciatori di<br />

altri paesi, che non è stata considerata positivamente da una parte del mondo politico<br />

italiano, è stata considerata come una interferenza.<br />

L’Italia dovrebbe riuscire a caratterizzare, come ha fatto nel passato, la sua politica<br />

internazionale in modo che sia in linea con lo spirito delle risoluzioni delle Nazioni<br />

Unite, e non per favorire una guerra; nel mondo ci sono già molti che vogliono fare la<br />

guerra, è ora che ci sia qualcuno che esprima la volontà di fare il contrario.<br />

Abbiamo visto i fallimenti della guerra e quello che hanno provocato, ora forse sarebbe<br />

bene sperimentare la pace, una politica di pace che poi dall’Italia è stata praticata<br />

sempre. Solo negli ultimi anni c’è stata questa avventura a seguito di alcune scelte<br />

sbagliate; per fortuna in Iraq siamo riusciti a ritirare l’esercito italiano. Io mi auguro,<br />

come parte politica, di poter ritirare anche le nostre truppe dall’Afghanistan, questo è<br />

un mio parere personale che non trova grande convergenza nel mondo politico italiano,<br />

però democraticamente cerchiamo di fare quello che si può.<br />

Flaminia: Le volevo chiedere un’ultima cosa, riguardo all’argomento del ruolo della<br />

donna.. Com’è possibile che persone di cultura islamica, che però conoscono la cultura<br />

occidentale, che vivono anche in Occidente, siano capaci ancora di essere chiusi nella<br />

loro cultura, nonostante siano anche persone di cultura, e com’è possibile che<br />

succedano quei fatti di cronaca che conosciamo benissimo, famiglie che uccidono la<br />

figlia soltanto perché si è adeguata al modello occidentale. Io “giustifico” chi vive<br />

sempre chiuso nella cultura islamica e quindi non ha possibilità di uscirne, ma chi ne è<br />

uscito, come può a un certo punto mettersi sullo stesso piano di chi ne è all’interno?<br />

Alessandra: Mi chiedevo, è un fatto di interpretazione. Nella vostra tradizione c’è il<br />

vostro libro sacro, il Corano, però il Corano molto spesso interferisce, oserei dire, nella<br />

vostra vita, perfino in un fatto come l’eredità. Nel Corano c’è scritto, ad esempio, che<br />

un uomo vale due donne: ma voi ancora vi basate su qualcosa che è stato scritto secoli<br />

e secoli fa? E poi, mi chiedevo, perché se una donna musulmana volesse sposare un<br />

uomo cattolico, per esempio, quest’uomo deve per forza cambiare religione, e invece se<br />

un uomo vuole sposare una donna cattolica la donna può tranquillamente rimanere della<br />

sua religione soltanto che poi non potrà mai avere l’eredità di suo marito? E poi perché i<br />

figli rimangono al padre invece che alla madre, anche perché ho sentito che il primo<br />

caso di figli che sono andati alla madre mi pare fosse un avvocato siriano, un avvocato<br />

donna che praticamente ha fatto avere alla madre i figli, l’adozione.<br />

Giovanni: Salve, io volevo fare una domanda che si sposta pure un po’ sull’ambito<br />

politico e sulle guerre che attanagliano il Medio Oriente. Volevo chiederle: noi ci<br />

troviamo di fronte a uno Stato come l’America che spende miliardi di dollari attraverso<br />

le industrie belliche per armi che potenzialmente fanno tornare il mondo all’età della<br />

pietra. Le industrie raddoppiano i propri guadagni con contratti governativi. Non è che<br />

per caso il problema del fondamentalismo islamico diventa anche una scusa al fine del<br />

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semplice guadagno dell’industria bellica, provocando così una subordinazione del mondo<br />

islamico e dei suoi diritti civili rispetto al guadagno e all’industria?<br />

Rosa: Buongiorno, Onorevole. Io voglio fare soltanto una riflessione generale riguardo a<br />

quello che si è detto oggi. Vorrei dire che il mio pensiero è molto simile a quello che ha<br />

detto Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose, il quale afferma che un’identità<br />

senza gli altri è un’identità contro gli altri. Ecco, io ritengo sia necessario che da tutte<br />

le parti, e se permette anche dalla parte politica, ci debba essere in qualche modo una<br />

rinuncia a qualcosa, perché se ognuno cerca soltanto di conservare le proprie tradizioni,<br />

la propria cultura senza rinunciare a qualcosa non potrà mai raggiungere in effetti quello<br />

che noi desideriamo così ardentemente, la pace. Noi stessi che apparteniamo al mondo<br />

europeo, abbiamo fatto degli errori, e lo dobbiamo ammettere, si deve ammettere<br />

anche che dalla parte islamica ci sono stati dei comportamenti estremisti che hanno<br />

fatto violenza non solo materialmente, ma anche psicologicamente. Quindi io penso<br />

questo, che per ottenere un obiettivo così alto ognuno di noi debba rinunciare a<br />

qualcosa.<br />

On. Rashid: Sono d’accordo completamente con Rosa. Ho conosciuto anche il suo<br />

maestro, Enzo Bianchi, in diverse occasioni abbiamo fatto dibattiti insieme.<br />

Detto questo, io non avrei mai immaginato nella mia vita di dover intervenire come<br />

musulmano, perché non lo sono, semplicemente. Io sono Alì Rashid, primo, di<br />

Gerusalemme, secondo, progressista, terzo, esiliato, quattro, italiano, cinque; l’Islam<br />

nella mia cultura, nella mia condotta, non ha mai avuto peso. Cinque anni fa non<br />

sarebbe stato possibile per un italiano chiamarmi ad intervenire come musulmano,<br />

perché questo non era ammesso neanche in Italia. E’ stata una sorpresa per me, un<br />

mese fa, quando una persona che rispetto anche se non ne condivido le idee politiche,<br />

della quale adesso non posso dire il nome, mi ha invitato alla presentazione del suo libro<br />

come musulmano. Io gli ho detto: “Guarda che è la prima volta che avviene nella mia<br />

storia, che vengo chiamato come musulmano; mi chiamavano come palestinese, come<br />

laico, come miscredente, come quello che vuoi, però come musulmano no, non lo sono.<br />

E’ per me una violenza quando dicono: “Secondo voi, la vostra cultura…”, ma io parlo<br />

della mia cultura, della mia generazione: la mia generazione era più progressista della<br />

vostra, allora. Il tasso di politicizzazione nella società palestinese quando ho lasciato la<br />

Palestina nel ’71, dopo il massacro di “Settembre nero” in Giordania, era molto alto:<br />

quasi l’80 per cento dei palestinesi era coinvolto nella vita politica e non avevamo<br />

neanche un partito di carattere religioso, erano tutti laici.<br />

E’ questo il mio ricordo di quella terra, poi sono venuto qui e ho naturalmente creato<br />

rapporti particolari, forti con chi è affine alla mia tendenza politica, per scoprire, dopo<br />

trentacinque anni che vivo in Italia, che vengo chiamato come musulmano, non lo sono.<br />

Vivo qui da trentacinque anni, dal 1971, quindi molti di voi, sì tutti voi non eravate<br />

neanche nati.<br />

Quindi io non prendo le difese di una cultura che non è la mia semplicemente perché è<br />

la cultura di maggioranza della mia terra. Io sono un uomo libero, sono quello che sono,<br />

e spero che voi non vi facciate condizionare troppo e cerchiate di essere quello che siete<br />

anche sul piano individuale.<br />

Altrimenti come farete ad incidere, ad arricchire questa realtà molto ricca che è l’Italia<br />

di oggi.<br />

Una persona, per dare un contributo, deve averlo. E il mio contributo in Palestina,<br />

quando riesco a darlo, è proprio quello che rappresento. Non è che se oggi cresce il<br />

movimento islamico in Palestina io divento islamico, io sono quello che sono e non credo<br />

che le idee cadano dal cielo, le idee le dobbiamo coltivare, creare tutti i giorni<br />

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attraverso l’incontro, le novità che vengono, la curiosità che abbiamo verso l’altro, il<br />

rispetto.<br />

Se volete che io dia un giudizio su quello che dice il Corano sulla questione della donna,<br />

che non è mio, è del Corano, lo posso anche fare. Il Corano riconosce alla donna una<br />

assoluta uguaglianza<br />

con l’uomo, tranne per alcuni aspetti che riguardano il carattere economico, come<br />

l’eredità. Allora quando si dice che per il Corano un uomo vale due donne, nell’eredità<br />

sì, ma non nell’umanità della persona, perché non è vero. E comunque, sempre secondo<br />

il Corano, la donna non è responsabile del mantenimento economico del marito anche<br />

quando abbia la possibilità di farlo. E’ il marito che deve occuparsi del mantenimento<br />

della propria famiglia, la donna non è tenuta, anche quando lavora può non dare<br />

neanche una lira alla famiglia; naturalmente le donne non lo fanno per il loro senso di<br />

responsabilità.<br />

Rispetto a quell’ episodio… è sbagliato secondo me, sì ha ucciso la figlia perché ha avuto<br />

un fidanzato: questo è un malato mentale, non si può attribuire questo fatto alla<br />

religione. Sono le condizioni politiche, di salute mentale, di sviluppo, di crescita<br />

culturale che portano a queste cose.<br />

Poi, se pure c’è qualche insegnamento religioso sbagliato che stimola ancora di più<br />

questa barbarie, questa barbarie non ha nulla a che vedere con la religione e con<br />

l’interpretazione della religione. E non si può generalizzare ogni episodio. E’ avvenuto<br />

questo come ci sono stati casi di violenza sessuale in ambiti cristiani contro i bambini,<br />

insomma cerchiamo di avere il senso della misura quando parliamo di fatti terribili come<br />

questi. E’ sbagliato attribuirli a una civiltà, a una cultura, a una tradizione, a una storia.<br />

Sono casi io spero sempre più isolati, e comunque se avvengono andrebbero condannati,<br />

non c’è nulla che può giustificarli. Il Corano dice che se uno uccide un’altra persona è<br />

come se avesse ucciso tutta l’umanità, pertanto non è permesso, non è lecito uccidere<br />

per la religione: sono gli uomini che uccidono, non le religioni, non il Dio. Dio non può<br />

autorizzare questo, è una questione di buon senso.. E cerchiamo di estendere questo<br />

buon senso alle altre civiltà, alle altre culture, alle altre religioni.<br />

Alla fine ognuno di noi è un mondo, non perché cristiano, musulmano o italiano. Grazie.<br />

Dirigente Scolastico: Ringraziamo l’onorevole Rashid per questo incontro appassionato<br />

fatto di riflessioni, vi ha tenuto attenti per due ore, questo è un grande merito<br />

dell’Onorevole Rashid. Lo ringraziamo ancora. Per voialtri l’appuntamento è per il due<br />

marzo: un avvenimento, il prossimo, ravvicinato. Vi lascio alle vostre attività, un minuto<br />

solo per un altro saluto da parte della Professoressa Fierro.<br />

Prof.ssa Fierro: Allora, il Preside vi ha già detto che il due marzo, dalle 9:30 alle 11:30<br />

avremo l’esponente della Comunità di sant’Egidio.<br />

E poi volevo ringraziare tutti per questa attenzione e questa magnifica partecipazione,<br />

siete capaci davvero, adesso, di interagire con gli altri, di proporvi, questo è veramente<br />

molto bello e io voglio farvi i complimenti, veramente tutti i miei complimenti, siete<br />

stati encomiabili.<br />

Noi vogliamo fare un regalo all’onorevole Rashid, dal momento che tutti questi<br />

intellettuali vengono a darci il loro tempo gratis, cioè nessuno di loro si fa pagare per<br />

stare con noi, noi ogni volta facciamo un pensierino. Allora io ho comprato per<br />

l’onorevole Rashid due libri, uno di Averroè sull’incoerenza dei filosofi e un altro di Le<br />

Goff sul Medioevo.Glieli doniamo con la speranza che possano essergli graditi.<br />

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La religione<br />

come strumento di pace e convivenza civile<br />

Federico Di Leo<br />

Conferenza del 2 marzo 2007<br />

Prof.ssa Fierro: Siamo giunti alla terza conferenza-dibattito sul tema “Religione e convivenza<br />

civile” ed oggi rifletteremo sul punto di vista di un giovane intellettuale di fede cristiana. Si tratta<br />

del professor Federico Di Leo che di mestiere fa l’economista; egli è primo ricercatore all’Istat e si<br />

occupa della stima del PIL, il prodotto interno lordo. Prima dell’attuale incarico ha svolto studi di<br />

politica economica sui Paesi in via di sviluppo e continua ad indagare questa materia complessa<br />

che condiziona e spesso determina il nostro modo di stare nel mondo. L’impegno nella ricerca non<br />

gli impedisce di svolgere un’attività parallela con la Comunità di S. Egidio che qui rappresenta, anzi<br />

ben si concilia con la scelta complessiva della sua vita orientata a dare testimonianza viva del<br />

Vangelo. Il professor Di Leo ha partecipato al primo incontro di preghiera per la pace organizzato<br />

da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 e da allora ha seguito gli incontri interreligiosi e di dialogo.<br />

In particolare si interessa del mondo arabo-musulmano e del dialogo con l’Islam. Ha partecipato ad<br />

alcune missioni della Comunità di S. Egidio nell’Africa sub-sahariana (Mozambico e Malawi) per<br />

programmi di sostegno sanitario e di cooperazione. Si può intuire quanto sia prezioso per noi<br />

conoscere le sue esperienze per saldare lo studio teorico dei problemi relativi alla convivenza tra<br />

diverse culture e religioni con esempi concreti di vita vissuta ed anche sofferta nello spirito<br />

dell’incontro, dell’aiuto, della reciproca “conversione”. Dunque, siamo pronti all’ascolto ed anche<br />

al dibattito che ne seguirà. A lei la parola.<br />

Prof. Di Leo: Anzitutto desidero ringraziare il Preside, la prof.ssa Fierro e tutti voi che<br />

siete qui per l’invito ricevuto per questa lezione-dibattito. Sono stato particolarmente<br />

contento di accogliere questo invito anche per una ragione di storia personale e di storia<br />

della Comunità di Sant’Egidio, che rappresento. La Comunità di Sant’Egidio è nata ormai<br />

quaranta anni fa, in un mondo giovanile e nell’ambito delle scuole. Dunque l’incontro<br />

con il mondo della scuola è da sempre un po’ un momento importante, ne parlo a titolo<br />

personale, ma per tutta la storia della Comunità è sempre stato un momento<br />

particolarmente significativo.<br />

La Comunità di Sant’Egidio è nata nel 1968, quindi in un periodo anche di sviluppo<br />

scolastico abbastanza diverso da quello attuale. I primi membri erano degli studenti del<br />

<strong>Liceo</strong> classico Virgilio e anch’io a mia volta conobbi la Comunità quando facevo l’ultimo<br />

anno delle superiori. Non siamo un’agenzia di geopolitica, non siamo un’organizzazione<br />

internazionale, siamo innanzitutto un gruppo radicato nel tessuto di Roma, dal quale<br />

traiamo la nostra forza. Quindi con piacere darei la parola a Mario Lai, per introdurvi un<br />

po’ nella realtà della Comunità e del suo radicamento con il territorio.<br />

Dott. Lai: Sono molto contento oggi di partecipare a quest’assemblea sul dialogo<br />

interreligioso. Vorrei parlarvi dell’impegno della Comunità nei quartieri di Roma, a<br />

Montesacro tra gli altri, perchè viviamo in un mondo in cui è normale vivere insieme a<br />

persone di altre culture, a fianco di persone di altre religioni, e questo lo vediamo<br />

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appunto nel quartiere, lo vediamo anche qui a scuola. E allora ci chiediamo: che cosa<br />

vuol dire per noi questo?<br />

Per noi è molto importante questo tema dell’incontro, c’è un gusto nell’incontrare gli<br />

altri e questo si manifesta anche in iniziative concrete: tutti i martedì in questo<br />

quartiere un gruppo di persone della Comunità prepara i panini e le cose da bere da<br />

portare alle persone che vivono per strada; sono circa duecento, le persone che in<br />

questo quartiere ricevono un aiuto concreto. Ma non si tratta solo di fornire un aiuto<br />

concreto ma è anche un modo per incontrarsi, per fare amicizia, per parlare di molte<br />

cose con le persone che incontriamo. Ci sono delle storie molto belle che si potrebbero<br />

raccontare, penso a delle amicizie che noi abbiamo con gente che adesso sta molto<br />

meglio, oggi però volevo solo accennare a questo tema perché dall’incontro concreto<br />

nasce un interesse più grande per il dialogo che è alla base della crescita della<br />

convivenza civile.<br />

Due settimane fa abbiamo ricordato la morte di Modesta Valenti, un’anziana che viveva<br />

alla Stazione Termini e che un giorno si sentì male. Qualcuno chiamò l’ambulanza che<br />

arrivò dopo poco ma i portantini non vollero farla salire sull’ambulanza perché era<br />

sporca. Rimase quattro ore alla Stazione Termini dove è morta. Questo episodio tragico<br />

ci ha molto colpito al punto che ogni anno lo vogliamo ricordare insieme a tanti nostri<br />

amici che vivono per strada. Dopo la messa abbiamo fatto anche un pranzo con molti dei<br />

presenti tra cui una famiglia rumena che non vive più per strada. Durante il pranzo<br />

raccontavano delle cose molto semplici, dicevano “Noi, in fondo, siamo venuti qua<br />

perché così i nostri figli stanno molto meglio”, cioè quello che dicono tutti i nostri<br />

genitori, no? Si fanno tanti sacrifici, si dice “Mia figlia va bene a scuola, spero che sia un<br />

qualcosa che si realizza”.<br />

Da alcuni anni a Cinquina, un quartiere non molto lontano da Montesacro abbiamo<br />

aperto una Scuola della pace e questo un altro modo concreto per costruire la<br />

convivenza e il dialogo. La Scuola della pace è un doposcuola in cui due, tre volte a<br />

settimana si incontrano i bambini delle elementari e delle medie della zona per aiutarsi<br />

nello studio. E un modo molto semplice per aiutare anche un po’ la vita di un quartiere,<br />

un modo semplice che incide tanto nella vita del quartiere. A Cinquina, infatti, accanto<br />

alla presenza italiana c’è una presenza di bambini che vengono dalla Tunisia, dall’Egitto,<br />

da molti Paesi nordafricani. Moltissimi di questi bambini fanno fatica ad imparare<br />

l’italiano, di certo non è che possono essere i genitori ad insegnargli l’italiano. La Scuola<br />

della pace con l’educazione allo studio svolge un compito importante, inizia a cambiare<br />

il quartiere e la città. Allora questo mi sembra anche un aiuto concreto per costruire<br />

una città migliore.<br />

Tante volte si parla anche di un dibattito teorico sul dialogo interreligioso,<br />

sull’integrazione. Allora si dice, per esempio: “Ma i musulmani si integrano?” Però,<br />

certo, c’è anche bisogno di porgere la mano, di aiutare questa integrazione. La<br />

Comunità di Sant’Egidio qui a Montesacro, come in tante parti d’Italia e del mondo, è<br />

una realtà di gente comune, che lavora, di studenti i “Giovani per la pace” che vogliono<br />

vivere secondo lo spirito di cui vi ho parlato per vincere la sfida della convivenza. Penso<br />

che questa è una sfida bella, una sfida bella e appassionante, quella di capire gli altri, di<br />

capire un mondo che è diverso, di capire anche una città che sta cambiando, in cui ci<br />

sono presenze diverse dal passato, e queste cose che ho detto sono anche un invito<br />

molto aperto, per chi vuole, per iniziare a incontrare queste situazioni che dicevo,<br />

aiutare la Comunità in queste situazioni concrete. Volevo dire questo, vi ringrazio per<br />

avermi dato l’occasione di incontrarci.<br />

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Prof. Di Leo: Abbiamo deciso di cominciare questo incontro con una testimonianza a<br />

partire dalla realtà del quartiere, per dire che per la Comunità di Sant’Egidio il dialogo,<br />

l’incontro non sono una realtà teorica, ma sono una realtà alla portata di tutti. E questa<br />

ci sembra un po’ una cosa preziosa per noi, perché altrimenti pensiamo alla fine che le<br />

grandi questioni internazionali possano essere affrontate solo dagli specialisti. In realtà<br />

questo non è vero. Ognuno può dare il suo contributo dal punto in cui si trova e<br />

sviluppare nel tempo abilità e interessi. Anche una parola, un gesto sono importanti.<br />

Entrando ora più direttamente nel merito del nostro incontro, mi sembra di poter<br />

ricordare che questo incontro si tiene a più di cinque anni dall’undici settembre 2001, il<br />

giorno del terribile attacco terroristico agli Stati Uniti. Molto è stato detto e scritto su<br />

quei tragici eventi, tanto che la politica internazionale fa i conti ancora oggi con quello<br />

che è successo cinque anni fa. Tanto è cambiato e in profondità. Si è sviluppata ormai<br />

tra la gente preoccupazione, incertezza, diffidenza, ansietà per il futuro e queste sono<br />

presenti sia a livello internazionale che nella consapevolezza di tante persone. Un<br />

mondo è finito, potremmo anche dire, si ha la percezione acuta di un profondo<br />

cambiamento nei rapporti tra i popoli. Forse è tramontata una visione ottimistica del<br />

mondo, quella visione che aveva contagiato tante persone, che nel 1989 credevano che<br />

si stesse aprendo una grande stagione di pace e prosperità.<br />

Oggi ci poniamo tante domande diverse. Ci chiediamo se non sia finita la stagione del<br />

dialogo e poi ci chiediamo a che cosa serve il dialogo tra culture, popoli e religioni.<br />

Taluni hanno insistito sull’ingenuità del dialogo stesso. Lo riprenderò alla fine. Ci<br />

potremmo chiedere, come leggiamo a volte sui giornali o sentiamo dire alla televisione,<br />

se il dialogo non sia un po’ l’arma degli ingenui, l’arma dei buoni e in fondo anche<br />

l’arma degli stupidi. Il dialogo non apre ingenuamente le porte alla violenza, a quella<br />

violenza che nasce dalla religione. In fondo se si dialoga si pensa sempre che i nostri<br />

interlocutori, più furbi di noi, ci possano imbrogliare. C’è un terreno di pessimismo in<br />

cui maturano tutte queste osservazioni. Questo pessimismo si proietta nei rapporti<br />

internazionali e rappresenta un clima che, all’interno delle diverse società, acuisce le<br />

tensioni. Il nostro appare un tempo di relazioni tese, più che una stagione di incontri<br />

gratuiti.<br />

Dopo l’ ’89 si sono succedute tantissime situazioni di grande violenza. Possiamo<br />

ricordare quello che è successo in Kossovo, nella ex Yugoslavia, la crisi dei Grandi Laghi<br />

in Africa e ancor più recentemente la situazione in Medio Oriente. Insomma l’undici<br />

settembre è stato un po’ la pietra tombale che ha spento le speranze di quelli che<br />

credevano nel dialogo. Dopo l’undici settembre c’è stata la guerra in Afghanistan, la<br />

guerra in Iraq, la guerra in Libano, per non parlare di tante guerre dimenticate. Si è<br />

parlato qualche tempo fa della situazione in Somalia, ora non se ne parla più. Tante<br />

sicurezze sono entrate in crisi e si potrebbe dire che è stato un tempo di prova. Questo<br />

tempo di prova, potremmo dire noi come cristiani, è il tempo in cui nel cuore dell’uomo<br />

dovrebbe maturare più forte lo spirito del dialogo. Lo spirito del dialogo ha una<br />

manifestazione concreta nello spirito di Assisi.<br />

Nel 1986 Giovanni Paolo II invitò tutti i leader religiosi a partecipare a questo grande<br />

Incontro di preghiera per la pace. Era prima del 1989, c’era ancora la Guerra Fredda,<br />

c’erano ancora i blocchi, e sul colle di San Francesco si trovarono appunto i leader di<br />

tutte le religioni mondiali, da quelli più autorevoli a presenze che allora furono<br />

giudicate folkloristiche. Eppure quella cerimonia è rimasta nel cuore e negli occhi di<br />

tanti, non soltanto di quanti, come me, hanno avuto la fortuna di parteciparvi. È anche<br />

una data per molti simbolica. Giovanni Paolo II in quell’occasione propose il legame tra<br />

la forza debole della preghiera e la pace. Giovanni Paolo II, sempre in quello stesso<br />

periodo, varcò per la prima volta le porte della sinagoga di Roma. Poi è stato a<br />

Gerusalemme, ha visitato il mausoleo che ricorda le vittime dell’Olocausto, lo Yad<br />

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Vashem, è stato al Muro del Pianto, e poi ha reso visita ai musulmani, prima nel 1985<br />

con un grande incontro a Casablanca e poi nel 1986 quando entrò nella grande moschea<br />

di Al-Aqsa. Fu a Damasco, nella grande moschea degli Omayyadi, una moschea un po’<br />

particolare, perché è una moschea che, prima di essere una moschea, fu una chiesa<br />

dedicata a un grande santo orientale, San Giovanni Damasceno.<br />

Insomma, Giovanni Paolo II, con il suo grande pontificato, ha varcato tante soglie<br />

importanti e , con queste soglie varcate, ha incontrato tanti uomini che sono diventati<br />

amici nel nome della pace. Giovanni Paolo II ha creduto nella forza mite delle correnti di<br />

spiritualità di pace, ha pensato che la religione potesse lavorare al fianco della politica<br />

per sviluppare degli itinerari di pace. Lo spirito di Assisi è proseguito, dopo<br />

quell’incontro dell’ ’86. Annualmente si svolgono degli incontri, in vari Paesi d’Europa,<br />

ma anche fuori dall’Europa, per ravvivare quello spirito. Giusto quest’anno si è svolto un<br />

nuovo Incontro di preghiera per la pace, per ricordare i vent’anni di Assisi, nuovamente<br />

ad Assisi.<br />

Noi vogliamo continuare a diffondere il messaggio della pace che veniva, appunto, da<br />

questo spirito di Assisi e l’idea è di fornire un servizio alla pace. La pace ha bisogno di<br />

servitori. Si diceva prima che l’impegno della Comunità è nato accanto ai poveri e si<br />

comincia dall’incontro con i poveri e poi ci si può aprire a un impegno di dialogo con le<br />

religioni: i poveri sono le prime vittime della guerra e che poi è la madre di tutte le<br />

povertà.<br />

Le religioni non possono restare insensibili al grido delle persone che chiedono la pace.<br />

Si diceva prima che questi incontri di preghiera hanno seguito tanti Paesi nel cuore del<br />

Mediterraneo e in Europa, ma hanno seguito anche la via dell’aiuto concreto alla gente<br />

in tanti Paesi del mondo. Siamo giunti anche a Gerusalemme nel ’93 e in quell’occasione<br />

per la prima volta ebrei, cristiani e musulmani parlarono di pace. La convivenza tra i<br />

credenti di queste religioni è una condizione per la pace.<br />

Faccio qui un piccolo inciso. Quando parliamo del dialogo tra cristiani, ebrei e<br />

musulmani, questo nasce da un’idea bella, sviluppata all’inizio del secolo, ovvero delle<br />

tre grandi religioni abramitiche, le tre religioni che si riferiscono tutt’e tre, come figura<br />

originaria, ad Abramo. Abramo è una persona ricordata dai cristiani, dagli ebrei e dai<br />

musulmani come il padre dei credenti, il primo che si fidò di Dio, il primo che seguì<br />

l’indicazione ricevuta da Dio di spostarsi dalla sua terra natale e di andare là dove lui<br />

era stato invitato. Ora questo legame in Abramo, in realtà, nel tempo si è un pochino<br />

modificato, perché se è vero che tutte e tre le religioni abramitiche, appunto, si<br />

riferiscono ad Abramo, non è vero che tutte e tre le religioni abramitiche dialogano nel<br />

nome di Abramo. Se voi pensate ai rapporti tra cristiani, ebrei e musulmani e incontrate<br />

degli ebrei, vi diranno che il dialogo con i cristiani è fecondo e importante; se incontrate<br />

dei cristiani, vi potranno dire che esiste un buon dialogo con i musulmani, pur tra le<br />

difficoltà. Non esiste, però, o esiste in maniera molto sporadica, un dialogo tra ebrei e<br />

musulmani.<br />

Il dialogo tra ebrei e musulmani è condizionato, principalmente, dal grande problema di<br />

cui voi avete sentito sicuramente parlare da altri prima di me, ovverosia lo status<br />

politico della Palestina, di Gerusalemme e della Terra Santa. E’ uno dei grandi problemi<br />

del tempo presente, ma non solo del tempo presente. È il grande problema degli ultimi<br />

quarant’anni. Un po’ è il padre di tanti problemi del dialogo tra le religioni. Torneremo<br />

a parlare di questo punto, perché è alla base di tanti discorsi sul dialogo.<br />

Torniamo, ora, ad Assisi, torniamo al punto da cui è nato questo dialogo, perché è stata<br />

scelta Assisi. Assisi, come voi sapete, è la città di San Francesco, lui che è forse uno dei<br />

primi padri del dialogo tra le religioni. San Francesco andò a visitare in un tempo<br />

difficile, il tempo delle crociate, il sultano Al Malek nella città di Damietta. Intorno a<br />

questa visita sono sorte testimonianze e anche leggende, tra cui quella che forse è la più<br />

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famosa, la famosa leggenda dell’ordalìa, ovverosia del passaggio sui carboni ardenti,<br />

come testimonianza e prova della fede provata di San Francesco. Di questa vicenda non<br />

esiste una traccia storica certa. Esistono tracce leggendarie, ma ciò che è provato è che<br />

San Francesco, che originariamente voleva essere crociato, decise di andare a parlare<br />

con il sultano, e tornò vivo, cosa che non era affatto banale in quel periodo. Francesco<br />

forse è un nostro padre spirituale. Francesco era un uomo ingenuo? Solo all’apparenza.<br />

In un tempo, come quello attuale ma anche come quello di Francesco, in cui è più facile<br />

fare la guerra che fare la pace il dialogo è essenziale; fare il dialogo da ingenui, secondo<br />

me, è certamente il modo migliore per far sviluppare la guerra. Siamo convinti che il<br />

dialogo non sia affatto un’arte povera degli ingenui. È un’arte piuttosto difficile e<br />

richiede parecchio impegno.<br />

Ma torniamo ad Assisi. Direi che Assisi è un po’ il luogo dove, secondo noi, si<br />

costruiscono ponti. C’è una civiltà da realizzare nel mondo, la civiltà del vivere insieme<br />

nella libertà, nella pace e nel rispetto. La proposta di Assisi, fin dal 1986, non era il<br />

dialogo tra esperti, quanto mostrare il bene del vivere insieme, la pace che non teme la<br />

diversità. Lo spirito di Assisi non è rinuncia alla propria identità. È in forza della mia<br />

fede che amo gli altri, che pure non la condividono, che dialogo con loro, che voglio<br />

vivere in pace con loro. Lo spirito di Assisi non è negare le differenze, non sarebbe<br />

rispettoso verso milioni di credenti. Le differenze esistono: crediamo in modo diverso,<br />

preghiamo in modo diverso, ma le differenze non possono essere il motivo per odiarsi.<br />

Dio non vuole l’odio, non può volere la guerra e la violenza. Dialogare con musulmani ed<br />

ebrei non è affatto una cosa facile. Sentiamo e leggiamo sui giornali che si cerca l’Islam<br />

moderato. Allora la ricerca dell’Islam moderato è giusta anche se non credo sia un modo<br />

non del tutto corretto di porsi nei confronti dei musulmani, perché è come se i<br />

musulmani decidessero quali sono i cristiani con cui si può dialogare. Io penso che se noi<br />

sapessimo che un grande leader musulmano, supponiamo il grande imam di Al Azhar, 1<br />

che è una delle figure spirituali più importanti tra i musulmani, dicesse che è importante<br />

dialogare con gli anglicani e non con il Papa, io credo che noi saremmo tutti sdegnati,<br />

diremmo che dialogare con il Papa è una cosa importante. Allora, quando noi diciamo<br />

che vogliamo dialogare con l’Islam moderato, dobbiamo farci una domanda. L’Islam<br />

moderato a volte è una realtà che non esiste.<br />

Questo non significa che vogliamo dialogare con Al Qaida, non vogliamo cioè dialogare<br />

con i terroristi, ma è necessario precisare che non esiste solo l’Islam moderato con cui<br />

dialogare. Per questo dicevo che il dialogo non è facile.<br />

Tra i musulmani ci sono tante personalità importanti, istruite, intelligenti, che dal<br />

nostro punto di vista sono personalità tutt’altro che moderate. Ma anche tra i cristiani ci<br />

sono tanti cristiani che non sono affatto moderati, questo non vuol dire che noi non li<br />

consideriamo cristiani. Allora quando si invoca il dialogo con l’Islam moderato, secondo<br />

me si rischia di fare un grande errore. Cioè bisogna dialogare con l’Islam che è<br />

autorevole, ovviamente non violento, ovviamente non favorevole agli attacchi dei<br />

“kamikaze”. Non vogliamo nulla di questo genere, però l’Islam è una religione<br />

complicata. Noi come cristiani crediamo nella misericordia, nel perdono, in tante cose in<br />

cui i musulmani credono in maniera diversa da noi. L’Islam è una religione della<br />

sottomissione, direi che, se vogliamo parafrasare questo discorso, è una religione della<br />

grande obbedienza. Non è una religione figlia della filosofia occidentale, come in parte<br />

è il Cristianesimo. Il Cristianesimo è una religione che si è sviluppata molto non solo nei<br />

Paesi del Medio Oriente, ma anche in Europa e il Cattolicesimo, in particolare, di cui<br />

molti di noi sono fedeli osservanti o credenti o battezzati o quant’altro, è una religione<br />

1 La più antica università islamica, fondata in Egitto nel secolo X dai Fatimidi, oggi il principale punto di riferimento<br />

spirituale e culturale per i musulmani sunniti di tutto il mondo (ndc).<br />

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che si è nutrita di dubbi, di riflessioni filosofiche, di riflessioni greche, è una religione un<br />

po’ complicata, in cui la revisione storica ha grande parte. Allora noi non possiamo<br />

pretendere che altre religioni abbiano avuto lo stesso cammino storico del<br />

Cristianesimo. Se noi andiamo a cercare l’Islam moderato, andiamo a cercare qualcosa<br />

di particolare, che si trova un po’ col lumicino, cerchiamo dei leader religiosi che<br />

abbiano studiato ad Harward, che abbiano sviluppato le loro conoscenze a Parigi. Non<br />

sono tantissimi, questi. Ci sono alcune personalità che possono essere dei ponti, ma non<br />

sono gli interlocutori unici possibili. Allora, intanto, cominciamo a sgombrare un po’ il<br />

campo sul tema Islam moderato. L’Islam è una religione di sottomissione, cioè i<br />

musulmani sono coloro che si sottomettono a Dio. Per i musulmani, visto che siamo in<br />

Quaresima, il Ramadan, che è un po’ l’equivalente della nostra Quaresima, è qualcosa di<br />

molto severo. Cioè se a noi qualcuno ci chiede di osservare i precetti della nostra<br />

Quaresima, chi più chi meno li potrebbe conoscere, esiste grande elasticità nel loro<br />

rispetto.<br />

Quando oggi il Papa Benedetto XVI, che è un uomo di cultura diversa rispetto a Giovanni<br />

Paolo II, ci chiede il rispetto della famiglia, il rispetto della vita, eccetera, lui fa<br />

riferimento a una cultura fatta anche di precetti. Quando noi parliamo di dialogo,<br />

dobbiamo innanzitutto sapere chi sono i nostri interlocutori. Quando noi diciamo che il<br />

dialogo è una cosa complicata, vogliamo dire che dialogare non vuol dire sedersi a un<br />

tavolo di fronte a persone che ci sorridono, tante volte dialogare vuol dire trovarsi di<br />

fronte a persone che non solo ci potrebbero imbrogliare, ma che tante volte hanno una<br />

convinzione di loro stessi diversa dalla nostra. Si dice che i cristiani hanno fatto male a<br />

chiedere perdono per tante cose, ma noi lo facciamo perché siamo onestamente convinti<br />

di questo, cioè chiedere perdono è per noi un valore. Non lo facciamo perché siamo<br />

deboli, lo facciamo perché per noi è importante chiedere perdono, e non ce ne importa<br />

niente se qualcuno ci dice che siamo deboli. Noi lo facciamo perché è giusto, se poi uno<br />

si vuol credere debole, si crede debole. E sentirsi forti non vuol dire fare le vignette su<br />

Maometto, perché fare le vignette su Maometto è come dire “Ho visto il Preside che<br />

girava con la cravatta storta”. Magari è pure vero, però è anche un modo di prendere in<br />

giro delle persone senza poi averne veramente il coraggio. Quindi dialogare vuol dire<br />

conoscere l’interlocutore. Ci tornerò dopo, ma voglio finire su Assisi prima. Quindi<br />

dicevo che le differenze esistono e per noi la preghiera fianco a fianco, pur non<br />

cancellando le differenze, manifesta il legame profondo che fa di noi tutti umili<br />

cercatori di quella pace che Dio solo può donare, diceva Giovanni Paolo II.<br />

La preghiera è alla radice della pace. Le religioni, aggiungeva il Papa, oggi in misura<br />

maggiore del passato devono comprendere la loro responsabilità storica di lavorare per<br />

l’unità della famiglia umana. Molti credenti lo hanno capito e non è una vittoria da<br />

poco. Quanti sottratti all’ignoranza o alle pressioni fanatiche o al disprezzo per l’altro,<br />

quanti invece possono essere amici della pace! Dico amici della pace, perché amici della<br />

pace potete esserlo anche voi. Io ho iniziato la mia personale esperienza, andando,<br />

quando facevo l’ultimo anno delle superiori. Mi era stato regalato un motorino, volevo<br />

provare se funzionava, e mi invitarono a una Scuola della pace, era a Tor Tre Teste. Io<br />

non avevo nessuna intenzione di andare a vedere queste iniziative, perché avevo altre<br />

cose da fare, però siccome avevo questo motorino nuovo e andare a Tor Tre Teste, che<br />

era abbastanza lontano da casa mia, mi consentiva di provarlo, arrivai in questo posto e<br />

da allora ci sono anche rimasto, senza peraltro che nessuno mi chiedesse di tornarci per<br />

forza. Dico questo perché, in fondo, il cammino dei cercatori della pace può cominciare<br />

anche da Cinquina, non è detto che parta dal colle di Assisi. E se non ricordo male,<br />

anche Cinquina si trova su un colle alla fine di un salitone.<br />

Però, a parte Cinquina, torniamo di nuovo a parlare del dialogo. Le religioni parlano agli<br />

uomini e alle donne in un modo personale e spirituale, sono anche reti di cuori e di<br />

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esistenze. Parlando del messaggio di Dio, parlano anche di pace, parlano dell’altro, di<br />

colui che è diverso. Ma occorre il coraggio. A volte il coraggio di incontrare l’altro<br />

spaventa. Ci si sente intimiditi da quelli che si considerano poteri o opinioni più forti,<br />

ma non si può restare inerti davanti alla violenza. Occorre il coraggio di una nuova e più<br />

incisiva riflessione, anche per fermare la violenza. E qui vorrei introdurre una domanda,<br />

che ci condurrà a incontrare un mondo diverso.<br />

La domanda che si pongono molti è se, in fondo, lo spirito di Assisi non si sia esaurito. In<br />

fondo, chi è stato ad Assisi era un po’ ingenuo, in fondo l’undici settembre ha<br />

consumato le speranze di quanti credevano nel dialogo. Però, come esperienza della<br />

Comunità di Sant’Egidio, noi crediamo che uno degli ingredienti del dialogo sia la<br />

conoscenza personale degli altri e anche una conoscenza che si matura attraverso la<br />

lettura della cronaca. Quando io andavo a scuola, si usava un vecchio detto, figlio del<br />

Sessantotto, ovverosia di andare a scuola col giornale, e per i cristiani era Bibbia e<br />

giornale. Mi chiedo che cosa sia rimasto di quell’idea di quel tempo. Apriamo una grande<br />

parentesi sulla storia di come si è sviluppato questo dialogo tra cristiani e musulmani.<br />

Abbiamo verificato i tempi, direi che ci basterà il tempo che ci è stato assegnato.<br />

Quando e come è nato il dialogo? Il dialogo tra cristiani e musulmani, tra cristiani ed<br />

ebrei, eccetera, è nato molto di recente. Il dialogo, in realtà, è stato più che altro un<br />

incontro armato. Se avete tempo, e ve lo consiglio, di leggere un bel libro, scritto da un<br />

autore libanese, Amin Maalouf, sulle crociate viste dal lato degli arabi, 2 troverete che<br />

una delle figure più note delle crociate, ossia il crudele Saladino, in realtà era per loro<br />

un grande condottiero, un uomo puro, buono, un grande musulmano. Parlo delle<br />

crociate perché, se noi pensiamo al rapporto tra cristiani e musulmani, voi non ci<br />

crederete, ma uno dei discorsi che viene più spesso ripreso è “Ma in fondo ci sono le<br />

crociate, i cristiani un po’ sono sempre i crociati”. Vi può anche far ridere (però non<br />

vedo che state ridendo, per fortuna), però alla fine il tema delle crociate, e vi invito a<br />

conoscerle bene, è un po’ un momento che ha segnato i rapporti tra cristiani e<br />

musulmani. I cristiani si sono presentati in terra islamica, laddove cristiani e musulmani<br />

convivevano, pur tra difficoltà: si sono presentati con le loro navi, con le loro armi e<br />

hanno conquistato Gerusalemme e non solo. Però, precedentemente, potremmo dire<br />

noi, i musulmani, partendo dall’Arabia Saudita, partendo dall’Iraq attuale, partendo<br />

dalla Persia, si erano impadroniti di territori che erano storicamente cristiani.<br />

Allora il dialogo, in realtà, da sempre è stato scontro e incontro. Il clima è cominciato a<br />

cambiare all’inizio di questo secolo. Ci sono grandi personaggi che hanno segnato l’inizio<br />

del dialogo. Ve ne cito alcuni, più che altro per fare approfondimento in una seconda<br />

fase. Qualcuno avrà sentito parlare di Giorgio La Pira, questo grande politico e sindaco<br />

di Firenze, che era un po’ un genio del dialogo, nel senso che pur dalla sua posizione di<br />

semplice sindaco di Firenze (non era un Capo di Stato, non era un leader politico, era un<br />

sindaco), fece di Firenze un centro di riferimento del dialogo. Ma parlo anche di un<br />

francese, Louis Massignon, un personaggio molto particolare (anche lui forse vittima del<br />

revisionismo storico) è stato considerato un grand’uomo forse un po’ un ingenuo. Questo<br />

francese visse per un lungo periodo al Cairo e sviluppò al Cairo degli ambiti di grande<br />

dialogo tra cristiani e musulmani, ma anche ebbe contatti con ebrei. Creò una sua<br />

comunità. Ho parlato di queste due figure ma se ne potrebbero aggiungere altre: un<br />

cardinale franco-algerino, il cardinale Duval, che visse appunto sulla sua pelle il tema<br />

del dialogo, essendo appunto l’arcivescovo di Algeri. In tutto questo ambito nacque il<br />

Concilio Vaticano II. Il Concilio Vaticano II è stato un po’ il momento finale per i cristiani<br />

dell’apertura del dialogo, è stato l’apertura del dialogo con gli ebrei, nella misura in cui<br />

2<br />

Amin Maalouf, Le crociate viste dal lato degli arabi, trad.di Ziba Moshiri Coppo, SEI, Torino 2003 rist. (I ed. 1989)<br />

(ndc).<br />

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si è cominciata a creare l’idea che gli ebrei sono un po’ i nostri fratelli maggiori (fratelli<br />

maggiori non nel senso che dicono quello che devono fare i cristiani, ma nel senso che<br />

sono nati prima di noi). E soprattutto è stato l’apertura del dialogo con l’Islam in<br />

maniera formale. Cioè nella Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II si parla<br />

della stima che i cristiani hanno per le altre religioni. Questa stima, scritta formalmente<br />

in un documento ufficiale, è stata un punto di non ritorno per la Chiesa cattolica. La<br />

Chiesa cattolica, dopo il Concilio, ha creato una serie di organismi, direi di ministeri, per<br />

usare una versione politica, che erano incaricati proprio del dialogo, sia con gli altri<br />

fratelli cristiani sia soprattutto con le religioni non cristiane. Il primo cardinale<br />

incaricato di questo compito fu il cardinale Pignedoli. Allora, la figura del cardinale<br />

Pignedoli è importantissima perché è stato il primo cardinale a rendere visita allo shaikh<br />

di Al Azhar. Lo shaikh di Al Azhar è la figura principale dell’Islam, di un certo tipo di<br />

Islam, e nel 1964, se non ricordo male, il cardinale Pignedoli andò a far visita allo shaikh<br />

di Al Azhar e fu una cosa che non era mai successa. Soprattutto andò a parlare agli<br />

studenti di una università di grandissimo prestigio, e fu un po’ come l’ingresso, per loro,<br />

del diavolo a casa loro, come momento iniziale di questo dialogo.<br />

Il dialogo poi ha seguito varie stagioni. Abbiamo parlato di Assisi. Dopo questo inizio<br />

degli anni Sessanta, si è sviluppata una trama che ha visto protagonista Paolo VI. Paolo<br />

VI visitò l’Oriente, ma fece altri passi altrettanto noti. Ricorderei, per chi ne ha sentito<br />

parlare, lo storico incontro di Paolo VI con Atenagora, che avvenne a Gerusalemme. 3 Ma<br />

Paolo VI fu anche colui che aiutò la crescita di una serie di cardinali che oggi sono<br />

anziani, ma che sono stati coloro che hanno reso possibile il dialogo, come il noto<br />

cardinale Etchegaray, francese. Ma oggi il cardinale che si occupa del dialogo è un altro<br />

francese, il cardinale Poupard. Quindi, diciamo Paolo VI, Giovanni Paolo II e poi<br />

arriviamo ai giorni nostri: Benedetto XVI. Allora, vorrei aprire un breve inciso sul<br />

discorso del Papa a Ratisbona. 4 Qualcuno ne ha sentito parlare di questo discorso, che ha<br />

suscitato tanti problemi. Io lo liquiderei in questa maniera. Dopo l’attacco alle Torri<br />

Gemelle, il clima è cambiato da tutte le parti. È cambiato nel mondo musulmano come è<br />

cambiato nel mondo cristiano. Bisogna fare molta attenzione, il dialogo è diventato<br />

difficile, sono cambiati gli uomini, e si è generato quello che certamente è un grande<br />

fraintendimento, nel senso che i musulmani probabilmente non cercavano niente di<br />

meglio delle parole del Papa. Certamente se il Papa non le avesse dette sarebbe stato<br />

meglio. Quindi io non vorrei entrare nel merito delle colpe e delle ragioni, se ce ne<br />

sono, direi che c’è stato sicuramente un clima sbagliato nel quale si è sviluppato un<br />

episodio sbagliato. Non sono assolutamente nella testa del Papa e dei suoi consiglieri per<br />

sapere che cosa hanno pensato dopo l’episodio. Io credo, parlo a titolo assolutamente<br />

personale, che oggi probabilmente il Papa non avrebbe mai e poi mai usato quei termini,<br />

non perché si sia pentito, direi, ma semplicemente perché saprebbe che qualcuno, nel<br />

mondo musulmano, avrebbe gioco facile nel dire “Vedete, tanti anni di dialogo hanno<br />

portato a questo stato di cose”.<br />

Allora il dialogo è finito? Attenzione, e qui vorrei dire le ultime due cose brevissime<br />

prima di aprire lo spazio al dialogo con voi. Anche il mondo musulmano vive una stagione<br />

di grande confusione. È uscito un libro, un po’ difficile ma molto interessante, di un<br />

noto islamista che si chiama Gilles Kepel, pubblicato da Laterza, il cui titolo in arabo è<br />

3 Atenagora I (1886-1972), patriarca ecumenico ortodosso, incontrò Papa Paolo VI a Gerusalemme il 5 gennaio 1964.<br />

Lo storico incontro costituì la ripresa ufficiale delle relazioni tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa. Un<br />

ulteriore passo avanti fu rappresentato dalla successiva cancellazione delle scomuniche reciproche emesse dalle due<br />

Chiese nel 1054, l’anno dello scisma (ndc).<br />

4 Si riferisce al discorso tenuto da Benedetto XVI all’università di Regensburg (Ratisbona) il 12 settembre 2006 sul<br />

tema Fede, ragione, università. La citazione, da parte del Papa, delle parole dell’imperatore bizantino Manuele II<br />

Paleologo, contenenti una forte critica a Maometto, ha scatenato le violente proteste del mondo islamico (ndc).<br />

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Fitna. 5 Fitna è una parola araba per dire “C’è grande crisi”, per parafrasare quello che<br />

si sente dire, “C’è grossa crisi”. E c’è grossa crisi nel mondo islamico, nel senso che<br />

l’iniziativa di Al Qaida ha spiazzato l’Islam ufficiale. Allora i musulmani importanti,<br />

anche quelli più duri, tutt’altro che moderati, oggi si sentono spiazzati certamente da Al<br />

Qaida. Al Qaida non è rappresentativo di molti musulmani, però ha inferto un danno<br />

d’immagine agli americani, che sono, certamente e da sempre, visti in molto mondo<br />

musulmano come i tradizionali amici degli ebrei. Questo è il vero problema degli<br />

americani. Quindi, in qualche modo, Al Qaida, che così rappresenta gli umori della<br />

pancia (gli umori dell’intestino che ha mangiato i fagioli) del mondo musulmano, ha<br />

avuto la possibilità di avere le prime pagine dei giornali. Questo ha messo in grande crisi<br />

il mondo musulmano, che non riusciva più a parlare alla sua gente. Questi hanno fatto<br />

ciò che si voleva tanto fare. Adesso io non so quali sarebbero i vostri desiderata nei<br />

riguardi degli insegnanti, spero nessuno e buonissimi, però se ci sta un compagno che<br />

mette su una cosa che non deve fare nei confronti degli insegnanti, naturalmente gli<br />

altri bravi studenti non fanno altro che manifestare solidarietà agli insegnanti. Però se<br />

quell’insegnante era un po’ antipatico, alla fine si dice “Vabbèh, insomma se l’è pure un<br />

po’ voluta”. Allora, in questo stato, siccome non ci sono grandi leader musulmani<br />

presenti, i musulmani fanno grande fatica a riprendere le redini del gioco e quindi<br />

diciamo che la dichiarazione del Papa ha fatto grande gioco al mondo musulmano di dire<br />

“Vedete, anche noi sappiamo alzare la voce e dire che il Papa ha detto male”. Allora,<br />

questo è un po’ per chiarirvi lo scenario. E poi l’altro problema di scenario sono gli<br />

sciiti. Gli sciiti sono diventati molto potenti oggi. In un convegno per specialisti,<br />

recentemente, i sunniti, che sono maggioritari nel mondo islamico, hanno accusato gli<br />

sciiti di fare proselitismo. È una cosa che nel mondo musulmano non esiste, esiste nel<br />

mondo cristiano. I russi ortodossi tante volte hanno accusato i cattolici di fare<br />

proselitismo. Ma nel mondo musulmano questo è un problema che non è mai esistito.<br />

Oggi il mondo sciita non è solo l’Iran, ma è anche l’Iraq, dove è uscita vincitrice dalle<br />

elezioni la parte sciita, e vorrei ricordare soprattutto il Libano, dove gli Hezbollah sciiti<br />

hanno resistito coraggiosamente agli attacchi dei “perfidi” ebrei (poi vi dirò una cosa).<br />

In realtà probabilmente anche la guerra del Libano è nata perché non si sperava altro,<br />

nel senso che gli Hezbollah e gli israeliani si lanciavano bombe da anni. Così gli scontri di<br />

frontiera in Libano sono una cosa nota. Ma del Libano riparlerò alla fine, perché io sono<br />

uno degli italiani, ahimè, che è stato rimpatriato in Italia dal Libano durante la guerra<br />

del 2006. Quando è scoppiata la guerra del Libano nel 2006 io stavo a Beirut, quindi vi<br />

racconterò una particella. Però vorrei dire un’altra cosa. Il dialogo a che serve?<br />

Anzitutto il dialogo non si fa soltanto con quelli che ci sembrano simili a noi, e qua<br />

vorrei ritornare alle parole di Mario all’inizio. Il dialogo si fa pure con i barboni per<br />

strada, il dialogo si fa con gli zingari, questo ci ha insegnato la comunità di Sant’Egidio.<br />

Se noi non fossimo andati a incontrare tanti anni fa i bambini poveri nelle baracche, e<br />

diciamolo chiaramente, non è che a uno gli viene in mente di entrare in una baracca,<br />

non avremmo imparato a dialogare. Entrare in una baracca è un posto dove uno dice<br />

“Purtroppo, poveracci”, nel migliore dei casi. La Comunità di Sant’Egidio ha voluto<br />

varcare delle frontiere un po’ complicate. Io vorrei dire che l’esperienza nostra è per<br />

tutti, però richiede anche una scelta, richiede anche l’idea di dire, anche solo per<br />

curiosità, “Vorrei andare a vedere che succede”. Però richiede anche l’idea di<br />

incontrare qualcuno, diverso, perché è molto facile fare amicizia con chi ci è simile, è<br />

molto più difficile provare a essere amici con chi è molto diverso da noi. Molto diverso<br />

da noi vuol dire pure uno che ha hobby diversi dai miei, non dobbiamo andare a cercare<br />

5 Gilles Kepel, Fitna. Guerra nel cuore dell’Islam, Editori Laterza, Roma-Bari 2004 (ndc).<br />

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per forza l’anziano barbone che vive per strada. Ci sono tante esperienze scolastiche<br />

che ce l’hanno insegnato e ce lo insegneranno più avanti.<br />

Quindi direi che l’esperienza di Sant’Egidio è l’esperienza del dialogo, e infine vorrei<br />

dire a che serve il dialogo e qui chiuderei con la mia esperienza. Voi siete cresciuti con<br />

l’idea che tutto il mondo era visitabile. Esistono le linee low-cost, si può andare<br />

dappertutto, si sente parlare di tutti i Paesi del mondo, direi che io stesso, dieci anni fa,<br />

avrei pensato che tutto il mondo era visitabile. Oggi non lo crediamo più. Oggi pensiamo<br />

che alcune parti del mondo, e non dico solo quelle in guerra (non sto parlando di andare<br />

a fare il turista in Iraq o in Afghanistan o in Somalia), direi che anche gli stessi viaggi a<br />

Sharm-El-Sheik, che pure erano così tradizionali, sono diventati meno interessanti. Ci<br />

sono state le bombe a Sharm-El-Sheik. Direi che oggi viviamo in un mondo in cui<br />

viaggiare, vedere gente diversa, è diventato meno consigliabile. In fondo si sta di nuovo<br />

restringendo il nostro mondo. Allora io direi che al di là del problema religioso, che per<br />

me è importante, al di là del problema umano, direi che oggi il dialogo serve per non<br />

chiudere le porte del mondo. Allora, io ero andato a Beirut non per una missione<br />

particolare, ero andato a studiare arabo nell’Università cattolica dei Gesuiti che si trova<br />

a Beirut, l’Università di San Giuseppe, Saint Joseph: mi trovavo lì, stavo finendo il mio<br />

corso e stavo per tornare indietro. Il giorno in cui è iniziato il macello, stavo a scuola<br />

perché le prime bombe sono cadute molto lontano da Beirut. Un’esperienza che non<br />

avevo mai vissuto, nel senso che si sentono i fischi di questi aerei che ti passano sopra la<br />

testa. Dopo che l’hai vissuta, te la ricordi. Però non volevo dire questo solo per dire che<br />

è stata una brutta esperienza, perché per fortuna è finita bene anche grazie alle<br />

autorità. Devo dire che, qui parlo della mia esperienza, pur nella situazione di tensione<br />

che pure c’è stata, l’idea di avere amici (e la Comunità di Sant’Egidio ha amici in<br />

Libano) mi dava l’idea di non trovarmi in una prigione. C’era una via d’uscita, c’erano<br />

delle persone con cui poter ragionare su come uscire dal Paese, che poi questo era<br />

l’ideale a quel punto, prima che l’ambasciata organizzasse quei pullman che avete visto,<br />

che hanno fatto un lungo viaggio e hanno attraversato le frontiere.<br />

Direi che se uno si trova in una situazione di difficoltà, l’idea di avere delle persone che<br />

giudica non nemiche è fondamentale, perché se tu ti trovi soltanto in un mondo di<br />

persone che reputi potenzialmente ostili, è un mondo che non visiti più. Alla fine, e<br />

questo vale dal proprio quartiere al mondo intero, se uno immagina un futuro di persone<br />

potenzialmente ostili, potenzialmente nemiche, è un gran problema. Il dialogo però non<br />

richiede un atteggiamento direi naïf, che è dire “Ho voglia di stare con te”, richiede<br />

anche la possibilità di comprendere l’interlocutore. E qui vorrei dire l’ultima battuta. La<br />

guerra in Iraq e in Afghanistan: gli americani oggi hanno un grande problema, e non solo<br />

loro, forse. Cioè, loro hanno iniziato una guerra (non sto a entrare nel merito se era<br />

giusta o sbagliata, ognuno ha le sue idee) e hanno la difficoltà di voler fare la pace e,<br />

secondo me, hanno degli strumenti non sempre adeguati per poterla fare. Per poter<br />

dialogare, occorre trovare le parole giuste per incontrare il proprio interlocutore,<br />

occorre trovare quelle cose che piacciono all’interlocutore, occorre metterlo a proprio<br />

agio. Si parla anche del dialogo con la Cina, ma se uno non sa come sono fatti i cinesi,<br />

non è sufficiente andare dai cinesi e vendergli la pastasciutta, perché se a loro gli fa<br />

schifo, neanche se è la migliore del mondo gliela vendi. Allora il dialogo richiede<br />

cultura, coscienza storica, interessi dell’interlocutore, ovvero caratteristiche tutt’altro<br />

che ingenue. Grazie.<br />

Prof.ssa Fierro: Dunque, innanzitutto questa parte frontale della lezione personalmente<br />

l’ho trovata così tanto ricca e piena di stimoli alla riflessione che sicuramente tutti<br />

avremmo bisogno anche un momento di sedimentare. Tuttavia questo è il tempo che ci è<br />

consentito di utilizzare. Certo avremo anche tempo di riflettere ancora, però io vi<br />

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chiederei fin da subito di tirar fuori quelle che sono le vostre prime impressioni, quelle<br />

che sono anche le vostre curiosità, perché avete visto come, accanto al discorso teorico,<br />

sia stato da Federico Di Leo posto l’accento anche sulla testimonianza personale,<br />

dall’incontro, direi per lui fondamentale, di Assisi fino a tutte le esperienze.<br />

Naturalmente non ce le ha raccontate tutte, le ultime esperienze che ha fatto. Allora<br />

comportiamoci come sempre, cioè io do la parola a voi. Naturalmente anche gli adulti<br />

sono assolutamente liberi di intervenire. E quindi io comincerei a prendere gli<br />

interventi, in maniera tale che il prof. Di Leo possa rispondere prima a tre o quattro,<br />

come abbiamo sempre fatto. Per rompere il ghiaccio, io vorrei cominciare da una cosa<br />

su cui ho riflettuto mentre lui parlava, e cioè questa responsabilità storica delle<br />

religioni. Che differenza c’è, mi chiedo, tra quello che è l’impegno dei singoli e dei<br />

gruppi, e quindi in questo caso anche della Comunità di Sant’Egidio, rapportato con<br />

quelle che sono poi le posizioni ufficiali della Chiesa istituzionalizzata? Parlo proprio dei<br />

momenti in cui sembra esserci se non una frattura perlomeno uno iato, una distanza tra<br />

quelle che sono le posizioni dei singoli e delle comunità e quelle che poi diventano le<br />

posizioni ufficiali della gerarchia. Trovo che, per quello che riguarda il nostro mondo,<br />

quello cristiano, questo sia ancora un problema su cui riflettere e volevo sapere anche la<br />

posizione del prof. Di Leo. Adesso io do la parola a voi, sperando appunto che questo<br />

secondo momento della nostra lezione sia davvero per voi un momento di riflessione<br />

comune e di partecipazione attiva e intelligente, come siete stati sempre capaci di fare.<br />

Prof. Carini: Buongiorno, io la ringrazio anzitutto per il suo discorso così ampio e<br />

articolato. Riprendo la sua domanda sullo spirito di Assisi, chiedendomi anch’io quanto<br />

oggi sopravviva dello spirito di Assisi, dopo le ultime vicende. Io ricordo il convegno di<br />

Assisi del gennaio 2002, in cui, come ci spiegò un illustre giurista, il prof. Francesco<br />

Paolo Casavola, tutte le religioni apparvero nude, cioè su un sostanziale piede di parità,<br />

di fronte al compito enorme della promozione dell’uomo. 6 E quel convegno, quella<br />

conferenza di capi religiosi, terminò con una dichiarazione di impegno, un decalogo<br />

famoso, mandato da Papa Giovanni Paolo II ai grandi delle nazioni. Era una serie di dieci<br />

proposizioni che iniziavano tutte con “Noi ci impegniamo” per la pace, la convivenza, il<br />

rispetto tra le religioni, la promozione dell’uomo, contro l’ingiustizia e la povertà. Ecco,<br />

come è stato recepito questo decalogo dai grandi, dai politici? Questa è la mia prima<br />

domanda. E poi, a proposito del discorso di Ratisbona e della infelice, purtroppo,<br />

citazione delle parole dell’imperatore Manuele Paleologo, se non ricordo male, che<br />

diceva, appunto, che la religione di Maometto aveva portato soltanto delle cose cattive,<br />

chiedo se questo non possa configurarsi obiettivamente un po’ come un non voluto,<br />

forse, passo indietro rispetto allo spirito di Assisi. Ricordo che nel convegno di Assisi il<br />

Papa Giovanni Paolo II seppe in qualche modo andare oltre il compito esclusivo di<br />

salvezza che è proprio della Chiesa cattolica, per presentare un impegno condiviso da<br />

tutte le altre religioni. Mi chiedo invece se dietro queste parole non ci fosse in fondo la<br />

riaffermazione della unicità della Chiesa di Cristo nell’economia salvifica. Io ricordo che<br />

l’allora cardinale Ratzinger fu l’estensore della Dominus Jesus, la Dichiarazione della<br />

Congregazione per la Dottrina e la Fede, in cui si affermava l’unicità del messaggio<br />

salvifico attraverso Cristo. E allora io mi chiedo anche questo, per carità, senza nulla<br />

togliere al dogma e riconoscendomi anch’io credente: se la pretesa o l’affermazione che<br />

solo una religione è la via esclusiva della salvezza, poi non porti per conseguenza a una<br />

6 Vd. Francesco Paolo Casavola, Gli aspetti della società multiculturale e multireligiosa, in Fedi e ateismo nella civiltà<br />

contemporanea, Tema di approfondimento culturale per l’a.s. 2003/2004, a cura della prof.ssa Licia Fierro, <strong>Liceo</strong><br />

Classico Orazio, Roma 2004, pp.15-17 (ndc).<br />

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distinzione tra religioni vere e religioni false. E se questo possa in qualche modo<br />

ostacolare il dialogo che deve sempre basarsi sulla stima e sul rispetto tra le religioni.<br />

Tommaso: Buongiorno, innanzitutto sono Tommaso. Allora, il problema è piuttosto<br />

vario, piuttosto articolato e io spero di non aver frainteso il suo pensiero. Però lei ha<br />

detto che quando noi parliamo con l’Islam sicuramente non parliamo con qualcosa di<br />

moderato, è difficile definirlo così. Io credo che sia qualcosa di difficile, invece,<br />

ragionare per categorie, cioè dire che l’Islam non è moderato. Io credo che l’Islam sia<br />

composto di persone e penso che una parte rilevante di persone, soprattutto in<br />

Palestina, per esempio, vorrebbe vivere in pace. Allora forse dovremmo ragionare su<br />

quella che è la concezione di moderato, di moderazione. Un moderato credo di poterlo<br />

definire come una persona che, se necessario, rinuncia ad alcuni dei suoi pensieri-chiave<br />

pur di raggiungere un’intesa comune. E quindi certamente nell’Islam esistono delle<br />

posizioni di estremismo pericoloso, nel senso che sappiamo tutti dei “kamikaze”. E<br />

quindi è una religione fondamentalmente meno elastica, lo abbiamo detto. Allora, forse<br />

ci dovremmo interrogare sul perché l’Islam è a un livello storico, cronologico (è una<br />

religione più giovane del Cristianesimo), di quando noi ci scannavamo nelle guerre di<br />

religione che abbiamo avuto nel Cinquecento, nel Seicento. Sono cose che noi abbiamo<br />

già visto. Però, per dialogare, io non credo che bisogna arrivare al tavolo di dialogo<br />

affermando una superiorità, nel senso che andare al dialogo con l’Islam dicendo “L’Islam<br />

è una religione estrema”, ci mette in una posizione di presunta superiorità. Cioè io<br />

dialogo con te, ma tu sei in una posizione per tua natura estrema. Io credo che questo<br />

porti a paralizzare il dialogo. Se io devo dialogare con una persona, mi devo porre alla<br />

pari con lui. Se io vado lì dicendo “Tu sei comunque diverso per tua natura”, non voglio<br />

dialogare, voglio arrivare ad affermare una mia superiorità. Il che, temo possa portare<br />

solamente a dei problemi. Quindi, forse sarebbe il caso di interrogarci su quello che noi<br />

vogliamo raggiungere: la pace fra le religioni? La pace nel mondo? Oppure un mondo<br />

dominato, lo abbiamo detto, da una religione vera e da altre religioni ritenute meno<br />

vere, meno applicabili, meno universali? L’Islam, l’Ebraismo e il Cristianesimo parlano<br />

tutti allo stesso Dio, in forma diversa. Se parliamo tutti allo stesso Dio, mi chiedo se non<br />

sia il caso di rinunciare a tutti i nostri estremismi, per sederci a uno stesso tavolo e dire<br />

“Va bene, viviamo in questo mondo, vediamo cosa fare”. Se no io credo che il dialogo,<br />

appunto, venga paralizzato. Un’altra cosa sulla questione palestinese di cui, secondo<br />

me, si parla sempre troppo poco, perché il problema alla fine è quello: risolto quello,<br />

metà dei problemi sono risolti. Secondo me è riduttivo dire che è un problema di ebrei e<br />

musulmani, perché io, per quello che so e per quello che ho studiato, ricordo che lo<br />

Stato d’Israele è stato costituito dall’Europa e dall’America dopo la seconda guerra<br />

mondiale, per qualcosa di dovuto, perché prima dell’Olocausto si parlava del Madagascar<br />

per un posto dove trasferire il popolo d’Israele e il movimento sionista. Quindi secondo<br />

me, posso sbagliarmi, non è un problema di islamici ed ebrei, è un problema di tutti,<br />

che deve essere risolto da tutti, senza affermazioni di superiorità.<br />

Antonio: Le volevo chiedere, mi sembra che il succo degli interventi esprima molto bene<br />

la società in cui viviamo. Potremmo dire che ci troviamo nell’era del pensiero debole, in<br />

cui l’identità viene spesso percepita come una violenza. Allora, le volevo chiedere, è<br />

ancora possibile oggi, per noi cristiani, proporre il motto da sempre proposto di<br />

“proclamare la verità nella carità”?<br />

Carlo: Volevo sapere due cose. Innanzitutto volevo dire la mia opinione. Io penso che<br />

c’è un errore frequente nella mentalità di molte persone, che è quello di pensare che un<br />

cattolico credente, un musulmano credente, un ebreo credente, sono estremisti. Allora<br />

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per forza un dialogo si può fare tra quelli che chiamano moderati e che poi sono persone<br />

che fondamentalmente sono laici o, comunque sia, persone che hanno vissuto la<br />

secolarizzazione. Questo invece mi sembra molto sbagliato, perché mi trovo molto<br />

d’accordo con lei, per esempio, su quello che diceva a proposito degli islamici moderati.<br />

Quello che volevo sapere era, appunto, se pensa che questo sia un errore ricorrente nel<br />

pensiero delle persone e come, forse, si può fare per cercare di dare una immagine<br />

diversa dei cattolici e anche dei musulmani credenti. E poi volevo chiedere un’altra<br />

cosa, riguardo a una questione più prettamente italiana. Ci sono stati casi di famiglie<br />

musulmane in Italia, dove per esempio le donne, dopo dodici anni che erano in Italia,<br />

non parlavano ancora una parola di italiano perché erano segregate in casa, casi come<br />

quello di un padre che ha ucciso la figlia per i motivi che ben sappiamo. Questi sono<br />

problemi che riguardano più l’Italia, che riguardano più la nazione, e volevo sapere cosa<br />

pensava che fosse giusto fare. Io credo che le soluzioni prese in Francia, cioè la<br />

posizione molto estremista di tagliare qualsiasi rapporto tra la religione e lo Stato, come<br />

il divieto di indossare il burqa e altre cose, sono un estremo, e forse l’altro estremo è il<br />

nostro Paese, dove questo argomento non viene quasi toccato. Allora io volevo sapere<br />

cosa lei pensava fosse giusto fare, in questi particolari casi.<br />

Prof. Di Leo: Allora, cominciamo a rispondere. Io inizio a rispondere a chi mi ha<br />

superato a sinistra, si direbbe in altri termini, cioè al primo intervento, ovverosia di<br />

Tommaso: l’Islam e la modernizzazione, il tema della superiorità, ebrei, musulmani e la<br />

Palestina, eccetera. Allora quello che voglio dire è che, anzitutto, mi trovo abbastanza<br />

d’accordo sull’idea che lo sviluppo storico dell’Islam è, ai miei occhi, estremamente<br />

lento, per usare un eufemismo. È molto lento, è anche prigioniero di tanti problemi<br />

politici e non politici, perché, non dimentichiamolo, i musulmani vivono in tanti Paesi<br />

dove la democrazia è un concetto un po’ difficile.Uno dei temi dei grandi convegni dei<br />

musulmani è “Islam e democrazia”. Allora, per dirla tutta, nei Paesi musulmani non mi<br />

risulta che si siano sviluppate grandi democrazie. Diciamola tutta, così ti supero a mia<br />

volta un po’ a sinistra. Ebrei, musulmani e la Palestina: è un problema di tutti, certo.<br />

Sulla Palestina dovremmo fare anche una gara su chi ha commesso più errori, perché gli<br />

errori li hanno commessi pure i palestinesi, ai quali fu offerto vari anni fa un territorio<br />

molto più grande di quello che loro oggi rivendicano e dissero che non erano d’accordo,<br />

che volevano l’annientamento dello Stato ebraico. Quindi, voglio dire, se vogliamo fare<br />

“le pulci” al discorso palestinese, se ne esce solo facendo la guerra, perché gli errori li<br />

hanno commessi tutti. Certamente gli accordi di Balfour, gli accordi dei francesi che<br />

hanno mollato da una parte, eccetera, li conoscete, anzi vi invito ad approfondirli.<br />

Ognuno si può fare la sua idea, siete studenti dell’ultimo anno, quindi mi sembra che sia<br />

parte del programma di storia.<br />

Direi che il tema dell’identità, e così mi ricollego al secondo intervento, quello di<br />

Antonio, è un tema un po’ delicato. Allora chi è che ha ragione? Qual è la religione<br />

giusta? Anzitutto, a me non interessa dire “La mia religione è giusta, le altre sono<br />

sbagliate”, perché c’è un bel vizio, che è quello di manifestare la propria identità in<br />

contrapposizione. Allora la mia identità è giusta, quella degli altri è un problema degli<br />

altri. Non mi interessa se l’identità dei musulmani è giusta o sbagliata, perché io non<br />

sono un musulmano né lo devo diventare. Quello che mi interessa è di poter dire che io<br />

sono con un musulmano e ci posso andare a mangiare volentieri una pizza insieme, se<br />

vado a vedere un Paese musulmano e sono in difficoltà, lo posso chiamare e dirgli<br />

“Guarda, aiutami, mi stanno a lanciare le bombe in testa”, se rapiscono Giuliana Sgrena,<br />

di cui avete sentito parlare, si può trovare un leader musulmano con cui parlare e dire<br />

“Ci sono dei pazzi che girano armati, che hanno rapito una giornalista che forse ha<br />

compiuto un’imprudenza” (perché andare a fare un’intervista davanti a una moschea<br />

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sciita da sola non è una cosa che averi consigliato, però, poveraccia, stava pure a fare il<br />

suo mestiere). Quindi, di converso, gli sciiti sono arrivati là e se la potevano pure<br />

risparmiare, perché quella era una donna, avrà fatto forse un’imprudenza, però, voglio<br />

dire, hanno rapito una povera donna. Quindi sapere che ci sta un musulmano con cui<br />

poter parlare, questo è quello che mi serve nel dialogo.<br />

Il tema estremisti e moderati, l’Islam in Italia, eccetera. Allora, intendiamoci su che<br />

cosa intendiamo per estremisti e per moderati. Per me gli estremisti che accetto, gli<br />

altri non sono neanche da prendere in considerazione, sono quelli pacifici. Cioè, uno che<br />

propugna a un suo fedele di andarsi a far esplodere con una bomba, non è un estremista<br />

con cui dialogo. Deve essere una persona che almeno dice “Io accetto di smettere di<br />

combattere”. Attenzione, non ne abbiamo parlato e non è ambito di questo discorso. La<br />

Comunità di Sant’Egidio nel suo passato ha fatto una cosa complicata, che tuttora<br />

consideriamo importante, cioè aiutare a facilitare la pace in Mozambico, Paese dove ci<br />

sono stati più di dieci anni di guerra. Intorno al tavolo di quella pace si sedettero quelli<br />

che il governo chiamava bandidos armados, cioè gente che aveva usato il kalashnikov,<br />

gente che aveva ucciso. Allora, se uno dice che tuttora vuole uccidere, per me non è un<br />

interlocutore, ma se uno che ha ucciso ci ripensa, non dico domani (perché se uno ha<br />

ucciso ci vuole una bella strada prima di diventare un interlocutore affidabile, se no alla<br />

fine finiamo nella pace dei fumetti), può diventarlo. Secondo me, la possibilità di,<br />

diremmo noi, pentimento, oppure, potremmo dire, di revisione politica, deve essere<br />

concessa un po’ a tutti.<br />

L’Islam in Italia, e poi finisco con le due domande dei professori che ho lasciato in coda.<br />

L’Islam in Italia è abbastanza una grande contraddizione, perché i musulmani che vivono<br />

in Italia sono considerati da quelli che vivono in patria come un po’ dei poveracci, gente<br />

che è andata a cercare il lavoro all’estero. Non sono certamente considerati come la<br />

testa di ponte di un’invasione. Questo loro lo soffrono e reagiscono esattamente con<br />

degli atteggiamenti a volte non propriamente ortodossi. Noi lo sappiamo, parlo a questo<br />

punto come Comunità di Sant’Egidio, e lavoriamo per evitare che si consumino dei<br />

drammi, ché tali sono. Il fatto che vogliamo evitare che si consumino dei drammi non<br />

vuol dire fare un’azione in cui vengono umiliati i costumi altrui. I musulmani che<br />

arrivano in Italia vedono un mondo che non gli piace. Non gli piace non perché non sia<br />

giusto, però per un musulmano abituato anche al velo, senza gli eccessi del burqa,<br />

abituato anche a forme un po’ di pudicizia, direi, vedere il mondo occidentale è come se<br />

un bambino, mio figlio, entrasse a vedere le donne al Crazy Horse a Parigi. Cioè, ci<br />

sarebbe quella reazione che è un po’ di curiosità, un po’ di stupore, e poi direbbe “In<br />

fondo sono tutti zozzoni”, ecco questo è quello che si finisce per provare. Allora, noi<br />

vogliamo evitare che la gente pensi questo, perché io non lo penso, però evidentemente<br />

questo è quello che succede. E questo è un problema. È un problema che si può<br />

sciogliere parlando, voglio dire. Il primo messaggio sbagliato arriva dalla pubblicità. La<br />

pubblicità è il primo luogo che offre questo tipo di immagine. La televisione, le<br />

parabole: se voi andate in Medio Oriente, i balconi sono pieni di parabole. Finisco<br />

rapidamente con i professori e poi ridò la palla a voi, se avete altre cose da chiedere. Il<br />

rapporto con la gerarchia e quanto sopravvive dello spirito di Assisi, il dialogo con i<br />

politici, eccetera. Allora, noi, parlo come Comunità di Sant’Egidio, crediamo che la<br />

Chiesa sia una famiglia. Quindi, come famiglia, vuol dire che nell’ambito della famiglia<br />

ci possono essere sfumature diverse, modi di pensare che non sono identici, no? Questo<br />

non vuol dire che esiste disaccordo, vuol dire che insieme si possono trovare idee<br />

diverse, perché, diciamola chiaramente, il Papa a Ratisbona poteva usare parole<br />

diverse, però ha sollevato un problema che esiste. Cioè, nell’Islam la condanna esplicita<br />

e forte della violenza non c’è, Gandhi nell’Islam non c’è mai arrivato. Se Gandhi andasse<br />

a parlare con i musulmani non credo che avrebbe una bella stampa, come si suol dire.<br />

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Il tema della violenza nei confronti dell’Islam è un tema un po’ complicato. Cioè,<br />

nessun musulmano direbbe di sé “Io sono un violento”, però nessun musulmano sarebbe<br />

considerato bene se dicesse “Io sono un pacifista”, questo voglio dirvi. Cioè, “Sono una<br />

persona rispettosa”, lo potrebbe dire. Dirà soprattutto, “Se non mi vengono a rompere<br />

le uova nel paniere io non le rompo a nessuno”. Però loro storicamente sono anche il<br />

popolo della spada, diciamolo chiaramente, quindi il tema della violenza, magari, non<br />

doveva essere affrontato con le parole di un imperatore del 1200, ma affrontato con<br />

parole più attuali non era sbagliatissimo, il tema della violenza. Non è facile da tirare<br />

fuori il discorso della violenza nell’Islam. I cristiani hanno altri problemi. Noi abbiamo<br />

un’identità debole, è inutile dirlo. Oggi, nel mondo moderno occidentale, noi siamo<br />

gente che non ha più il comunismo, non ha più il cattolicesimo, ha la famiglia. Però,<br />

insomma, le famiglie si rompono. Diciamolo chiaramente, noi viviamo anche un po’<br />

“incasinati” per le identità deboli. Hai voglia a dire “Era peggio quando papà mi<br />

strillava”, però avere papà che strilla a volte è pure la sicurezza di averci un baluardo,<br />

riaverci uno che in qualche modo ti dice quello che devi fare. Noi oggi abbiamo vinto<br />

tanti problemi, però ci ritroviamo anche in una società di identità un po’ deboli. Il<br />

rapporto con la gerarchia spero di averlo detto, ora passo al rapporto con i politici. I<br />

religiosi possono parlare ai politici ma purtroppo non possono prendere le decisioni<br />

finali.<br />

Maria Anita: Io sono Maria Anita, volevo dire che quello che lei definisce una identità<br />

debole, io la ritengo una identità realista, nel senso che, nel momento in cui viviamo in<br />

un periodo in cui la famiglia non ha più quella base solida che aveva prima, non vuol dire<br />

che è più debole, vuol dire che ci si sta calando nella realtà. Secondo, si parla tanto di<br />

democrazia nel momento in cui lo Stato Vaticano è una monarchia assoluta, per cui non<br />

vedo sinceramente nessun nesso. La posizione della donna, pure all’interno del mondo<br />

cattolico, sicuramente è migliore che nel mondo islamico, ma non ha di sicuro raggiunto<br />

il livello pari dell’uomo. Quindi, io questo atteggiamento autoreferenziale che spesso ha<br />

il mondo cristiano cattolico, rispetto agli interventi precedenti che abbiamo sentito, non<br />

l’ho sentito, nel senso che gli interventi che abbiamo sentito dal punto di vista della<br />

religione ebraica e della religione islamica non hanno avuto questo atteggiamento così<br />

autoreferenziale come il suo. A me dispiace dirlo, però ho notato che il porsi di fronte<br />

all’altro solo in maniera caritatevole e pietosa porta solo, forse sarò ripetitiva rispetto a<br />

Tommaso, a una autostima che poi ti pone comunque verso il diverso in maniera più<br />

alta, comunque. Io questo non l’ho apprezzato, mi dispiace.<br />

Prof.ssa Fierro: Su, venite ancora a fare le domande, così risponde a questa seconda<br />

tornata. Abbiate coraggio, avete visto con quanto coraggio la vostra amica ha detto<br />

quello che pensa facendo una critica.<br />

Prof.ssa Peretti: Mi ricollego all’intervento di quest’ultima ragazza per dire che anche a<br />

me sarebbe interessato sentire da parte, appunto, di un esponente della religione<br />

cattolica, qualcosa sui laici. Ecco, per esempio, Rashid ha parlato dei laici. Io ho avuto<br />

un’educazione religiosa, sono laica adesso, e mi accorgo che c’è sempre questa chiusura<br />

nei confronti dei laici. D’altra parte i problemi politici di questi giorni ce lo stanno<br />

insegnando. Ecco, su questo, secondo me, noi dovremmo ragionare da una parte e<br />

dall’altra, perché invece, da parte del mondo cattolico, c’è una chiusura molto drastica<br />

e pericolosa verso il mondo laico. Anche perché, secondo me, qui volevo un pochino<br />

correggere Tommaso, il dialogo non è dare ragione all’altro ma accettare l’altro.<br />

Oltretutto io sono ben contenta che i religiosi non debbano prendere le decisioni<br />

politiche.<br />

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Michelangelo: Sono Michelangelo. La mia domanda riguarda più specificamente la<br />

Comunità di Sant’Egidio, ecco. E ricalca in un certo senso la domanda della prof.ssa<br />

Fierro, però volevo sentire più nello specifico una risposta da lei. Allora, la comunità di<br />

Sant’Egidio che si occupa in particolar modo del Terzo Mondo, e non solo del Terzo<br />

Mondo inteso come Africa, ma anche del Terzo Mondo che noi vediamo tutti i giorni<br />

sotto casa nostra, dei barboni e della povertà che è anche da noi, volevo sapere come si<br />

rapporta, come si sente nei confronti di una gerarchia ecclesiastica nelle sfere più alte,<br />

che io credo sia palesemente eurocentrica, nel senso che nelle dichiarazioni, nelle<br />

espressioni, si concentra molto su dei temi che riguardano esclusivamente l’Europa o i<br />

governi occidentali. Ecco, non ho mai sentito parole di denuncia, ora mi esprimo<br />

banalmente, da parte del Papa, da parte di personalità ecclesiastiche di alto livello, nei<br />

confronti delle innumerevoli ingiustizie, degli innumerevoli crimini che vengono<br />

compiuti nel Sud del mondo anche da parte delle organizzazioni occidentali. Ecco, vorrei<br />

sapere come la Comunità di Sant’Egidio si pone nei confronti di questo tema.<br />

Prof. Di Leo: Allora, in questo caso risponderò prima alla professoressa. Della sua<br />

domanda mi sono anche un po’ dispiaciuto, a titolo personale. Nel senso che, purtroppo,<br />

quando uno affronta un discorso, sceglie sempre un taglio. Quindi, diciamo,<br />

evidentemente, che il tema dei laici l’ho lasciato fuori dal nostro dibattito, però lo<br />

faccio volentieri rientrare perché mi sembra importante. Allora, quello che volevo dire<br />

prima è che a me sembra importante il discorso del dialogo con tutti. Lo dicevamo<br />

all’inizio con Mario, lo ripeto anche adesso, nel senso che il fatto che una persona abbia<br />

costruito negli anni, in maniera giusta o sbagliata (ognuno dà il suo giudizio secondo le<br />

proprie convinzioni), una propria identità, non vuol dire una chiusura nei confronti degli<br />

altri. Questa è una cosa che non vorrei sia emersa dalle cose che ho detto, non è una<br />

cosa che certamente penso e non è neanche una cosa che ho vissuto. L’idea di costruire<br />

un dialogo è anche per me personalmente, ma penso per la esperienza di Sant’Egidio nel<br />

suo complesso, l’idea di potersi arricchire di posizioni diverse. Lo dico anche, così a<br />

questo punto vi faccio una testimonianza personale. Ogni membro di Sant’Egidio ha un<br />

suo servizio, una sua attività, direi, caritatevole. Se poi l’attività caritatevole assume<br />

forme diverse, riteniamo innanzitutto con Sant’Egidio che la carità non è solo fare<br />

l’elemosina, che pure è una cosa importante, ma anche incontrare gli altri e trattare<br />

tutti come amici. Ovverosia non considerare nessuno in maniera pregiudizievole<br />

superiore a se stesso. Questo non lo voglio dire per dire “Uh, guarda che bello<br />

l’egalitarismo, siamo tutti uguali, che belle parole, è facile”. No, non è affatto facile,<br />

ve lo dico anche per difficoltà personali a viverla come esperienza. Con la Comunità di<br />

Sant’Egidio, al di là delle cose che vi ha raccontato con parole fin troppo gentili la<br />

prof.ssa Fierro, io mi occupo, anche in questa zona che conosco bene, di aiutare persone<br />

che hanno problemi mentali, che è un’attività non esattamente facile.<br />

Allora, io vi dirò che la Comunità di Sant’Egidio aiuta varie situazioni di povertà e che, a<br />

titolo personale e totalmente umano, quindi non c’entrano discorsi sui massimi sistemi,<br />

anche una persona che ha difficoltà mentali, schizofrenia o cose di questo genere, può<br />

arricchire la propria esperienza umana, può farti capire una sensibilità che uno tante<br />

volte non conosce perché è abituato a considerare le cose in maniera frettolosa o<br />

spicciola, oppure semplicemente perché è fortunato e sta bene. Allora, io direi questo,<br />

innanzitutto, che accettare gli altri vuol dire, se volete in maniera un po’ utilitaristica,<br />

trovare il meglio da parte di tutti. E ogni persona ha un meglio che può dare. Per noi di<br />

Sant’Egidio, nessuno è così povero da non poter aiutare. Ma noi pensiamo anche che<br />

nessuna persona è così semplice e banale da non avere un tesoro dentro di sé. Questo lo<br />

dico sia sul discorso dei laici sia sul discorso autoreferenziale. Io personalmente penso<br />

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che effettivamente essere autoreferenziali è un grande limite, e di questo sono<br />

assolutamente d’accordo con Maria Anita. Non sono assolutamente d’accordo con<br />

l’identità realistica, perché a volte l’identità realistica si sposa anche con una mancanza<br />

di progetti, sogni, desideri, che sono la possibilità di fare di più rispetto a quello che il<br />

realismo consiglierebbe di fare. Quindi su quello non sono d’accordo.<br />

Sull’autoreferenzialità, invece, il discorso mi sembra molto corretto. Non è quello che<br />

penso, non so se è quello che è uscito dalle mie parole, ed è un discorso che è stato<br />

sviluppato, per esempio, anche con i laici. Vorrei dire che agli incontri, diciamo anche<br />

all’ultimo di Assisi, è stato dato un ambito particolare al dibattito con i laici. Ne cito<br />

alcuni, di estrazioni totalmente diverse: per esempio, Arrigo Levi, che è persona di<br />

estrazione ebraica, evidentemente, che si proclama e si professa ufficialmente non<br />

credente. Io credo che, anzitutto, per fare la pace, ma anche per fare cose buone, c’è<br />

bisogno di tutti, e questo lo penso in maniera molto convinta. Riguardo a quello che<br />

dicevo prima dell’identità, l’identità per me vuol dire che capiremo chi aveva ragione<br />

nell’ultimo giorno. Io ti dirò che penso che la mia identità è quella giusta, ma non sarò<br />

mai io a dirti con le parole “Tu sbagli”. Ti dirò “Io faccio una strada diversa”, questo sì,<br />

mi è consentito, diciamo che potremo trovarci su fronti diversi su alcune battaglie.<br />

Difficilmente un cristiano si troverà a favore dell’eutanasia. Mi dispiace per chi magari è<br />

un laico e pensa a favore dell’eutanasia o dell’aborto. Se sono posizioni cattoliche un<br />

po’ con i paraocchi, purtroppo io dirò che ho i paraocchi. Insomma, accetterò questo<br />

giudizio così duro, me ne rattristo molto, però io sono su questa posizione.<br />

Però quando si ritorna al discorso sulla gerarchia, allora a questo punto ridiciamo due<br />

parole sulla Comunità di Sant’Egidio partendo un po’ più dalla storia. Noi siamo figli del<br />

Sessantotto. Quando mi si tirano fuori questi discorsi sulla gerarchia, mi sento in un<br />

abito un po’ stretto, Mario, nel senso che storicamente la Comunità di Sant’Egidio ha<br />

avuto una massa di problemi con la gerarchia. Siamo stati considerati eretici,<br />

protestanti, comunisti, fascisti, tutto quello che vi pare. La Comunità di Sant’Egidio ha<br />

avuto problemi infiniti con la gerarchia, ricuciti con delle sofferenze personali delle<br />

persone che hanno guidato a suo tempo la Comunità, piuttosto lunghe, perché chiunque<br />

esprima una posizione che sia un pochino fuori dalle righe, è considerato strano. Ed è<br />

un’esperienza che ci ha un po’ forgiati. Allora, io vi dico questo, che (a distanza di<br />

quarant’anni, non avendo più diciott’anni, un po’ li rimpiango) non vi dirò mai che il tal<br />

cardinale ha detto una stupidaggine. E poi vi dirò, anche un po’ stupidamente, che San<br />

Francesco parlava dei suoi compagni preti e diceva “Alcuni preti sono poverelli”, per<br />

dire anche tra i preti ci sono persone un po’ stupide. “Però il prete è importante perché<br />

mi dà la Comunione”. Allora, per lui che era cristiano avere la Comunione era una cosa<br />

importante. Evidentemente per chi è laico, per chi crede ad altre cose è libero di dire<br />

che tutti i preti sono poverelli. Vorrei ora dare la parola di nuovo a Mario.<br />

Dott. Lai: Ecco, io volevo dire una cosa rispetto ad alcune domande che ho sentito. In<br />

particolare, sentendo alcune cose che diceva Maria Anita. Spero che questo non sembri<br />

un intervento presuntuoso, perché in realtà ho sentito soltanto l’ultima parte. Però mi<br />

colpiva una cosa. Prima Federico, nelle cose che diceva, spiegava come in realtà questo<br />

lavoro della Comunità anche per il dialogo, è un po’ un servizio alla pace. Lui ha usato<br />

una parola, per noi le parole sono importanti, mi sembra una parola che ha un bel<br />

significato. Cosa vuol dire un servizio alla pace? Vuol dire che è un lavoro, che molti di<br />

noi fanno, che la Comunità fa, che anche chi non va in varie parti del mondo vive come<br />

una cosa importante da seguire, da capire: un servizio alla pace nel senso che è un<br />

lavoro che oggi è importante, che noi possiamo fare e che può essere determinante.<br />

Allora, questo è presuntuoso? È presuntuoso dire che noi pensiamo di fare delle<br />

iniziative da cui nasce uno spirito di collaborazione? Io non penso che è presuntuoso, non<br />

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penso che questo esprime una nostra idea di superiorità. Anzi molte delle cose che<br />

dicevamo fanno capire come la scelta del cristiano è anche una scelta di uscire fuori da<br />

uno schema mentale per cui molte categorie non sono importanti, i poveri non sono<br />

importanti, chi non è come me è un po’ strano, eccetera. Lo sforzo del cristiano è<br />

invece quello di pensare agli altri come gente interessante, comunque persone che sono<br />

miei fratelli.<br />

Questo servizio alla pace di cui dicevamo noi abbiamo iniziato a farlo a partire anche da<br />

una cosa su cui spesso ci siamo trovati a riflettere. Cioè noi servivamo in un mondo in<br />

cui tutti possono fare la guerra. Oggi questo è verissimo, forse anche le giovani<br />

generazioni si rendono poco conto di questo, ma in realtà tutti possono fare la guerra.<br />

Come in Africa: anch’io sono stato in Malawi, conosco un po’ l’Africa, un tema<br />

appassionante. In Africa in realtà un matto che ha un po’ di soldi e raccoglie mille<br />

persone fa una guerra, perché l’Africa ormai è un continente abbandonato, chiunque in<br />

fondo si può fare promotore di conflitti. Allora, in un mondo in cui tutti possono fare la<br />

guerra, forse anche tutti possono fare la pace. Allora, forse bisogna anche raccogliere un<br />

po’ la sfida di lavorare per la pace. E noi questa l’abbiamo raccolta, ci sembrava<br />

appunto una cosa importante. E poi, un’altra cosa che volevo dire è che noi abbiamo<br />

parlato, appunto, di questo impegno internazionale, ma anche nella città vi è un<br />

impegno per aiutare gli altri, per incontrare gli altri, spesso in particolare i poveri. E mi<br />

sembra che ci sono due livelli di questo discorso. Da una parte c’è una scelta personale,<br />

cioè uno personalmente, a un certo punto, pensa che un po’ bisogna capire chi è il<br />

povero che abita sotto casa mia. Cioè, io tutti i giorni gli passo davanti, però non mi<br />

fermo mai perché non so che dirgli, perché in fondo se gli do un euro, poi che succede?<br />

Non cambia niente. Tanti sono i discorsi che noi abbiamo in mente, però un giorno uno<br />

un po’ deve fare la scelta di incontrare le persone che vivono a fianco a sé, e noi<br />

appunto come cristiani pensiamo che questo incontro è bello e significativo.<br />

Però diciamo che c’è un livello personale, di cui personalmente io sono contento. Penso<br />

che la mia vita è anche ricca di tante amicizie, con persone di tanti tipi, poveri, gente<br />

che vive per strada, eccetera. C’è un livello personale, però in realtà c’è anche, lo<br />

accennavamo e si capiva secondo me bene, un discorso rispetto a come questo incide<br />

sulla città, su come questo ci fa vivere tutti meglio. Io prima, collego un po’ questi due<br />

discorsi, parlavo della Scuola della pace a Cinquina, un quartiere in cui c’è una presenza<br />

dei musulmani, eccetera, e poi abbiamo toccato, voi lo riprendevate molto negli<br />

interventi, questo nodo dei rapporti con l’Islam. Io dicevo, appunto, che la Scuola della<br />

pace a Cinquina è un modo semplice di aiutare, un modo semplice ed efficace che<br />

costruisce anche l’integrazione. Però, per esempio, mi chiedo, se uno fa una scelta in<br />

fondo anche tranquilla, di dire “Vabbèh, in fondo a me non è che mi interessa tanto di<br />

quello che succede in periferia, ho la mia vita, sto un po’ tranquillo”, mi chiedo cosa<br />

succeda anche al nostro mondo quando non si fa una scelta un po’ umana di aiutare.<br />

Secondo me succede un po’ quello che succede, per esempio, nelle periferie francesi,<br />

dove c’è una grande ghettizzazione, ci si accorge che si potevano fare tante cose, cioè si<br />

potevano fare scuole migliori, si poteva vivere insieme meglio, dieci anni fa. E forse a un<br />

certo punto, però è tardi, perché si creano anche delle situazioni un po’ esplosive, no?<br />

C’è un nostro amico della Comunità, e concludo, che ha scritto questo libro molto<br />

semplice, che vi consiglio di leggere (oggi abbiamo parlato molto di libri, abbiamo fatto<br />

una lista): lo ha scritto Mario Giro, che è un membro della Comunità, e si chiama Gli<br />

occhi di un bambino ebreo. 7 Racconta, in maniera molto semplice, la storia di questo<br />

musulmano, che nasce in Algeria, però da ragazzino poi va a vivere a Parigi. Quindi è un<br />

7<br />

Mario Giro, Gli occhi di un bambino ebreo. Storia di Marzoug terrorista pentito, Guerini e Associati, Milano 2005<br />

(ndc).<br />

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percorso di una persona normale che a un certo punto vive due identità. Non è algerino,<br />

non è musulmano perché vive a Parigi, però in realtà il francese non lo sa bene. Poi lui,<br />

a un certo punto, per percorsi purtroppo tragici ma che ci sono, viene attratto dal<br />

discorso del terrorismo, eccetera eccetera. Allora, mi sembra anche che dire “Vabbèh,<br />

non facciamo niente, in fondo ognuno ha le sue posizioni, ha i suoi percorsi”, diventa la<br />

ghettizzazione di molte realtà di periferia, e questo in alcuni Paesi europei è successo.<br />

Chi ha parlato a tanti giovani musulmani? Gli europei non gli hanno parlato, hanno fatto<br />

poco, gli hanno parlato realtà estremiste, che gli hanno spiegato il mondo a modo loro,<br />

in modo semplificato. Gli hanno spiegato due stupidaggini, gli hanno detto “Guarda, tu<br />

devi fare questo”, e poi alla fine uno diventa terrorista. Volevo spiegare questo.<br />

Prof. Fierro: Io sono molto d’accordo con quello che ha detto adesso Mario, e cioè che<br />

gli incontri ad altissimo livello sono importanti, sono sicuramente necessari. Ma se non<br />

cominciamo dal basso a fare qualcosa, finiamo per fare soltanto teoria. E questo io<br />

penso che sia, come ho detto all’inizio presentando appunto la riflessione di oggi, io<br />

penso che questo ci debba rimanere proprio nella mente e nell’anima, la necessità di<br />

riflettere su quello che facciamo nella teoria e su come lo trasferiamo o siamo capaci,<br />

con tutti i nostri limiti, di trasferirlo nella prassi, nella realtà concreta, nel nostro<br />

vissuto, con quelli che sono “i nostri piccoli contributi”, che possono però diventare<br />

significativi, senza presumere che la volontà si debba nutrire di miti impossibili o di<br />

fantasie, per quanto belle esse siano. Quindi io penso che su questo dobbiamo riflettere<br />

e che oggi questo pensiero ci debba “accompagnare” nel seguito, appunto, delle nostre<br />

esperienze di vita. Se ci sono altre domande, altrimenti io la chiuderei qui. Se ci sono<br />

altre persone, per favore, che facciano gli interventi adesso, altrimenti quando loro se<br />

ne devono andare, perché finisce anche il loro tempo a disposizione, noi li blocchiamo<br />

nell’andarsene. Allora, veniamo fuori adesso con i nostri pensieri, perché è il momento,<br />

questo, più bello del dialogare comune. Io credo che questo sia un momento per voi<br />

importante, da non sprecare.<br />

Giulia: Sono Giulia. Volevo farle una domanda che, diciamo, non riguarda precisamente<br />

gli argomenti che si sono affrontati in questo dibattito, ma è trasferita un po’ sul piano<br />

politico, riguardo la politica italiana e l’allargamento della base di Vicenza. Allora, la<br />

posizione del governo, quella di non mettersi contro l’America che è un gigante dal<br />

punto di vista economico-politico, quindi la decisione di intraprendere una politica<br />

estera coerente rispetto agli sviluppi che ci sono stati negli ultimi anni, mi è sembrata<br />

contraddittoria nel non aver tenuto conto dei movimenti pacifisti e delle istanze della<br />

sinistra tradizionale, penso per esempio alla sinistra contro il finanziamento della<br />

missione in Iraq. Perciò, volevo sapere cosa lei pensa su questo fatto, l’allargamento<br />

della base di Vicenza, che a me non è sembrato assolutamente un messaggio di pace, di<br />

apertura e di dialogo nei confronti di culture diverse, comunque.<br />

Luca: Buongiorno. La mia domanda riguarda un po’ in generale la Comunità di<br />

Sant’Egidio su cui mi sono documentato. Ho letto dei vostri progetti in Africa e la mia<br />

domanda parte da uno spunto che lei prima ha fatto, una considerazione brevissima.<br />

Diceva prima che lei sull’eutanasia e sull’aborto generalmente non è d’accordo, come il<br />

mondo cristiano, è evidente. E io in questo senso volevo sapere: lavorando molto in<br />

Africa, andando molto in Africa come missione, aiutando e vedendo i problemi, come<br />

vedete il rapporto con quello che la Chiesa dice (pensavo al rispetto della famiglia e al<br />

fatto di astenersi), rispetto ai problemi dell’AIDS? Cioè, in qualche modo non vi trovate<br />

in conflitto? Come lo vedete questo rapporto?<br />

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Antonio: Mi ha colpito quando lei ha fatto un piccolo esempio del velo e, allacciandosi a<br />

questo, ha detto come i musulmani, che vengono in Italia, a volte sono molto colpiti da<br />

alcuni messaggi negativi che vedono nella nostra società occidentale, soprattutto a<br />

livello di mezzi di comunicazione. Allora le volevo chiedere, di fronte a prese di<br />

posizione che preferiscono magari proporre una relativizzazione dei costumi o un loro<br />

annullamento, diciamo, non è forse meglio cercare nelle identità i punti comuni e,<br />

appunto, cercare di non dare questi messaggi negativi e anzi di spingere sui messaggi<br />

positivi?<br />

Ilaria: Io sono Ilaria. Ufficialmente sembra che i religiosi non siano politici. In realtà la<br />

Chiesa esercita sulle coscienze dei singoli individui una grande influenza, basti pensare a<br />

quel cardinale che pretende di fare il politico, mi riferisco a Ruini. Ma nel ventunesimo<br />

secolo è assurdo, secondo il mio parere, indossare quei paraocchi che lei ha citato,<br />

perché questo comportamento ostacola il processo di emancipazione della società. Non<br />

crede che la Chiesa, prima di entrare nel politico, dovrebbe aprirsi alle istanze del<br />

tempo e non chiudersi nella corazza dell’ideologia?<br />

Prof. Di Leo: Anzitutto, io mi sto molto divertendo, vi devo dire la verità, perché mi<br />

trovo in una situazione un po’ paradossale. Allora, la mia situazione paradossale è<br />

questa, nel senso che comincio dalla base di Vicenza così vi spiego perché la mia<br />

situazione è paradossale. Allora, i politici, di cui si parlava, appunto, si trovano tante<br />

volte a prendere delle decisioni che sono diverse da quelle che prenderebbero se<br />

andassero dove li porta il cuore. Questo vuol dire che il cuore bisogna metterlo a tacere?<br />

No, lungi da me dirlo. Dico questo, però, per dire che (e cominciamo a parlare di<br />

politica, così facciamo un argomento che può interessare a tanti, anche se noi come<br />

Comunità di Sant’Egidio non abbiamo mai deciso di cavalcare questo tipo di argomento,<br />

la politica, non perché non abbiamo le nostre idee ma perché preferiamo lasciare ad<br />

altri questo compito) la politica, purtroppo, è il regno dei compromessi, come avete<br />

visto in questi giorni. Allora, che vuol dire questo? Questo vuol dire che se anche il<br />

governo, che attualmente è di centrosinistra, avesse l’idea che ampliare la base di<br />

Vicenza è sbagliato, le responsabilità che porta nei confronti degli equilibri<br />

internazionali, lo portano inevitabilmente a dei compromessi. Allora, il problema dei<br />

compromessi è il problema dell’età adulta. Mentre quando uno è più giovane,<br />

giustamente secondo me, deve avere meno compromessi, quando uno si trova di fronte a<br />

delle scelte più complicate, si trova di fronte all’esigenza dei compromessi. Non so se<br />

riuscirò a spiegarmi, però il problema è che bene fanno i giovani pacifisti a protestare,<br />

perché così fanno capire la loro idea. Però non si può pretendere che un politico eletto<br />

faccia la stessa cosa, perché un politico deve rispondere a un elettorato che è formato<br />

da diciottenni come da novantenni. Allora pure i novantenni, che hanno difficoltà a<br />

scendere in piazza, magari penserebbero delle cose, e credo che siano diverse. Allora io<br />

vi incoraggerei a manifestare liberamente, come abbiamo fatto oggi, il vostro pensiero,<br />

perché è anche la stagione più bella in cui farlo. Vi direi soltanto che i politici, però,<br />

rispondono anche alle esigenze degli anziani, che come voi sapete stanno diventando<br />

maggioranza nel nostro Paese. Una maggioranza silenziosa, una maggioranza a volte<br />

emarginata, una maggioranza a volte simpatica, a volte borbottona, a volte piena di<br />

esperienza, ma è la maggioranza. E allora questo è inevitabile. Io sono assolutamente<br />

convinto che la questione della base di Vicenza abbia fatto emergere tante<br />

contraddizioni.<br />

Vi dico la verità, io non è che ho elementi particolari per sapere tutto lo sviluppo se non<br />

quel che ho letto sui giornali o sentito dalla televisione, quindi direi che se dovessi<br />

prendere una posizione sarei un po’ in difficoltà. Ho grande simpatia, a pelle, vi direi,<br />

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per quelli che non vogliono le basi NATO a Vicenza, però, come si dice qualche volta, gli<br />

americani sono pure quelli che ci hanno liberato dal nazifascismo. Voglio dire, purtroppo<br />

l’Italia è un po’ così, non è che l’hanno fatto soltanto così, ci hanno chiesto un<br />

contraccambio. Quindi diciamo che, purtroppo, l’Italia continua a pagare quel debito di<br />

riconoscenza. La storia è andata così, forse tra quarant’anni cambieranno un po’ le<br />

cose. Craxi ricordava che quando ci fu la crisi di Sigonella, l’Italia fu l’unica ad alzare la<br />

voce contro gli americani. E tuttora gli italiani fanno, diciamo, gli alleati un po’<br />

imbronciati. Noi, tra gli alleati degli americani, assieme agli spagnoli, in questo periodo<br />

siamo un po’ quelli che fanno qualche distinguo. Però, voglio dire, per un politico ormai<br />

sessantenne qual è Prodi, difficilmente si può chiedere di scendere in piazza, insieme ai<br />

giovani che, ripeto, secondo me fanno benissimo a scendere in piazza. Ognuno faccia la<br />

sua parte, ecco. Anzi forse i giovani se scendessero di più in piazza farebbero pure<br />

meglio. Questo è quello che io penso. Allora, la Chiesa e le contraddizioni dell’Africa:<br />

bella domanda. Direi che prima che essere di Sant’Egidio le contraddizioni sono della<br />

Chiesa nel suo complesso e ancora prima del mondo: le contraddizioni sono nella vita,<br />

non tutto è bianco e non tutto è nero. Quindi vi risponderò dicendo che ci sono dei<br />

vescovi, dei preti e quant’altro, che hanno consigliato di fare delle cose che potrebbero<br />

sembrare inopportune. Allora, nella Chiesa c’è chi dice che il primo comandamento è<br />

quello di seguire, per chi è cristiano, la parola di Dio e anche la propria coscienza.<br />

Quindi io vi consiglio di sviluppare bene questa coscienza, perché effettivamente in<br />

Africa ci sono tante contraddizioni. Mi riferisco alla domanda di Luca, cioè il problema<br />

della prevenzione. Parliamo dell’AIDS, per esempio. Allora, il problema della<br />

prevenzione: effettivamente il discorso della prevenzione in Africa suona molto diverso<br />

dal discorso della prevenzione in Europa, perché lì muoiono migliaia di persone. Allora,<br />

che dire? Io vi dico questo, vi faccio un po’ una regola sommessa. Il problema in fondo è<br />

questo: di fronte al rischio di vita, in condizioni sanitarie assurde, il discorso della<br />

prevenzione va preso molto sul serio. Allora nessun cattolico potrà dire “Dovete usare il<br />

profilattico”, tanto per entrare un po’ nel merito delle questioni. Ci sono stati degli<br />

ospedali che lo fanno. Allora io, in una situazione di grave degrado sanitario, non andrò<br />

a combattere in Africa come battaglia decisiva quella per vietare l’uso del profilattico.<br />

Certo, in un Paese occidentale come il nostro, che ha tutte le possibilità, a uno che ha<br />

l’AIDS e vuole fare sesso sicuro io gli direi personalmente “Bèh, meglio che ti astieni”.<br />

Allora, ritorniamo al discorso di prima. Effettivamente fare un discorso uguale<br />

dappertutto è sbagliato. Io mi scuso se l’ho fatto qui, non lo penso assolutamente,<br />

andrebbero fatti dei discorsi differenziati a seconda del contesto. I punti comuni, i<br />

messaggi che si possono dare, l’Islam, eccetera. Allora, noi abbiamo un patrimonio da<br />

dare che non è soltanto di messaggi negativi, ma anche positivi. È evidente che se uno<br />

ha vissuto, parlo dei musulmani, in un ambiente pieno di proibizioni, una volta che<br />

arriva da noi, come faceva Lucignolo nella fiaba di Pinocchio, appena arriva nel paese<br />

dei balocchi, vuole tutti i balocchi. Quindi, il problema è che tante volte tante persone<br />

che hanno vissuto con il velo, con le proibizioni, eccetera, quando vedono una bella<br />

ragazza che non porta il velo, dicono “Uh, quanto è sbagliato!”, è sbagliato però magari<br />

è meglio stare senza velo. Oppure il vino, “Uh, mamma mia, che schifezza!”, però i<br />

musulmani ricchi in molti Paesi arabi bevono tranquillamente. Quindi una volta che<br />

arrivano qui molti musulmani finiscono per bere. Messaggi positivi. Innanzitutto parliamo<br />

di non violenza, di democrazia, di rispetto degli altri, di rispetto di chi è diverso, di<br />

rispetto di opinioni diverse. E in questo senso veramente, a questo punto, mi tolgo la<br />

casacca del cattolico con grande piacere, faccio assolutamente il laico e vi dirò che<br />

secondo me il problema del rispetto fa parte della nostra civiltà, è un valore diffuso da<br />

tutti, come diceva Voltaire “Io non sono d’accordo con quello che dici, ma farò di tutto<br />

affinché tu lo possa dire”. L’influenza dei religiosi, eccetera. Basta non dargli retta ai<br />

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religiosi che dicono una cosa su cui uno non è d’accordo. Quando uno va a votare non è<br />

che deve fare quello che dice il religioso. Io non è che faccio peccato se voto una cosa<br />

diversa da quella che mi ha detto Ruini, non mi risulta che rientri tra i peccati capitali.<br />

Se Ruini mi dice che è contrario all’aborto e io dico che sono favorevole, certo qualche<br />

problema ce l’ho, il che è una cosa diversa. Però, se uno mi dice invece che i Pacs sono<br />

proibiti, se la Chiesa mi dice “No, guarda, è proibito”, il dibattito nella Chiesa continua,<br />

la posizione di Ruini è autorevole ma non è la sola… Ruini avrà detto cose santissime, io<br />

non me le ricordo tutte, e anche se ha detto cose sbagliate, capita a tutti di dire cose<br />

sbagliate, ma è il cardinale vicario e ha il diritto di dire quello che gli pare. Ora, che lui<br />

non le possa neanche dire, mi sembra eccessivo.<br />

Prof. Fierro: Io non so a voi, ma a me questa chiusa è piaciuta moltissimo. Un osanna,<br />

appunto, a Voltaire e un osanna alla libertà di coscienza dell’uomo, fuori da tutti gli<br />

schemi e da tutte le casacche che anche il nostro prof. Di Leo nell’ultima parte della sua<br />

riflessione si è tolta, con grandissima nostra soddisfazione. Grazie.<br />

- 63 -


Tavola rotonda sul tema<br />

Moderatore dott. Paolo Naso<br />

Conferenza del 19 aprile 2007<br />

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Prof.ssa Fierro: Innanzitutto bentornati. Questo è l’ultimo incontro sul tema di<br />

approfondimento di quest’anno, “Religioni e convivenza civile”.<br />

Abbiamo il piacere di ospitare oggi, in questa tavola rotonda, come moderatore, il<br />

dottor Paolo Naso, direttore della rivista “Confronti”e, tra l’altro, del programma<br />

televisivo “Protestantesimo”; egli si occupa già da parecchio tempo del confronto<br />

interreligioso.<br />

Dunque è la persona adatta, è un cristiano protestante che esprime, anche dal punto di<br />

vista personale, le componenti di una cultura cristiana non cattolica. Oggi ha la funzione<br />

di moderare gli interventi dei relatori delle nostre conferenze, che sono il dottor Giorgio<br />

Gomel e il dottor Federico Di Leo. Manca in questo momento l’onorevole Rashid, che è<br />

in parlamento e sta votando, ma ha promesso che ci raggiungerà non appena potrà.<br />

Purtroppo questa volta non può assolutamente assentarsi e non era previsto che dovesse<br />

votare di mattina.<br />

Siamo dispiaciuti, ma dobbiamo assolutamente iniziare.<br />

Vorrei anche ricordare a voi studenti di mandarmi le relazioni, non solo perché esse<br />

forniscono un credito dal punto di vista formativo, ma anche perché rappresentano il<br />

vostro modo di riflettere sul tema di approfondimento del liceo. Ne ho ricevute già<br />

parecchie e ne ho corrette circa quindici, ne aspetto molte di più. Grazie.<br />

Do la parola al dottor Naso perché possa introdurre questa tavola rotonda..<br />

Dott. Paolo Naso: Buongiorno a tutti. Grazie di questo invito, di questa opportunità. Non<br />

abbiamo tanto tempo, perché alcuni relatori ci dovranno lasciare alle undici e un<br />

quarto.<br />

Il tema generale di questa tavola rotonda, che conclude un ciclo di incontri che già<br />

avete svolto, è “Religioni e convivenza civile”, tema che può essere affrontato in una<br />

prospettiva internazionale o nazionale.<br />

Io chiederò ai nostri relatori di tenere presenti questi due riferimenti.<br />

Comincerò dallo scenario internazionale. Nella scena internazionale di oggi si<br />

combattono all’incirca quarantacinque – cinquanta conflitti, di cui alcuni a bassa<br />

intensità, altri sono guerre vere e proprie, e almeno la metà di essi hanno una ideologia,<br />

una bandiera, un elemento, una simbolizzazione di tipo religioso.<br />

Pertanto quando noi decliniamo il tema “Religioni e convivenza civile”, se assumiamo<br />

questo dato non criticamente, dobbiamo rilevare che le religioni hanno una parte<br />

nell’animazione, nella propulsione, nella motivazione, nella giustificazione dei conflitti.<br />

D’altra parte possiamo constatare quanto alcune tradizioni religiose, o alcuni religiosi,<br />

siano anche soggetti protagonisti di iniziative di pace, di riconciliazione molto<br />

significative e altrettanto importanti.<br />

Tutti quanti avrete sentito parlare della svolta politica in Irlanda del Nord, una realtà,<br />

nel cuore della società europea, che ha prodotto negli ultimi trent’anni un conflitto che<br />

ha causato oltre tremila e seicento morti. Ebbene, tale svolta è stata dovuta ad<br />

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un’azione molto significativa, e positiva delle comunità di fede, di quelle che<br />

tradizionalmente vengono, invece, definite come responsabili del conflitto, cattolici e<br />

protestanti, per intenderci.<br />

E allora, prima domanda per i nostri due relatori: le religioni sono parte del problema o<br />

sono parte della soluzione? Sono colpevoli di questa ideologizzazione in senso<br />

fondamentalista, radicale dei conflitti, che diventano conflitti religiosi, oppure è tutto<br />

un pretesto perché in realtà il conflitto resta politico e le religioni possono avere<br />

soltanto un ruolo di pacificazione e di mediazione? Le religioni sono responsabili o sono<br />

strumentalizzate dalle ideologie politiche negli scenari che noi definiamo di conflitto<br />

politico-religioso?<br />

L’altra domanda riguarda non lo scenario internazionale, bensì quello nazionale. Tutti<br />

quanti abbiamo ben chiaro che negli ultimi venti-trent’anni, gli anni dei grandi processi<br />

di globalizzazione delle economie e delle culture nel mondo occidentale, abbiamo<br />

vissuto un’accelerazione dei processi di pluralizzazione delle nostre società. Società<br />

formalmente, tradizionalmente, costituzionalmente monoculturali o monoreligiose sono<br />

diventate negli ultimi trent’anni società esplicitamente multiculturali e multireligiose.<br />

Prendiamo il caso italiano: si è tradizionalmente consolidata l’idea che l’Italia sia un<br />

paese cattolico con uno statuto particolare, garantito dal Concordato, che riconosce una<br />

sorta di primato della Chiesa cattolica. E questo dimenticando le altre minoranze<br />

storiche che in questo paese sono presenti da secoli, come quella ebraica in primo<br />

luogo, quella valdese in secondo luogo, ma soprattutto mettendo in ombra la realtà del<br />

pluralismo religioso italiano che ormai diventa un elemento essenziale per capire la<br />

nostra società.<br />

Nei giorni scorsi, appena prima di Pasqua, il Presidente del Consiglio Prodi ha firmato<br />

otto nuove intese, possiamo dire accordi, con sei nuove confessioni religiose: due sono<br />

soltanto dei rinnovi.<br />

La notizia è passata in assoluto secondo piano, per un colpevole criterio di selezione<br />

dell’informazione giornalistica<br />

Quali sono queste nuove confessioni religiose riconosciute dallo Stato? Sono, ad esempio,<br />

la comunità buddista, la comunità induista, la comunità ortodossa, la comunità dei<br />

Mormoni; ossia realtà culturali, spirituali, religiose che nel nostro immaginario vengono<br />

considerate parte di mondi lontani come l’India, il Giappone, la Cina, gli Stati Uniti,<br />

diventano invece soggetti significativi e riconosciuti anche in Italia.<br />

Tutto questo pluralizza la scena religiosa. L’Italia diventa multiculturale e<br />

multireligiosa e ciò costituisce una grande opportunità ma allo stesso tempo comporta<br />

dei problemi.<br />

Pensate alle grandi polemiche sul tema dell’Islam, sulle correnti fondamentaliste che<br />

attraversano le diverse comunità di fede, pensate anche al rischio che il comunitarismo,<br />

le comunità religiose chiuse, possano minare un’idea fondamentale della nostra<br />

democrazia, cioè il principio di riconoscere uguali diritti a tutti i cittadini.<br />

In questo senso, le comunità devono essere aperte, trasparenti, di vetro, non possono<br />

essere comunità chiuse, che si sottraggono all’autorità generale della nostra norma<br />

costituzionale.<br />

E di nuovo, seconda domanda ai nostri relatori: come salvaguardare al tempo stesso<br />

questo grande patrimonio di pluralismo, che è un diritto democratico fondamentale,<br />

mantenendo anche coesa e unita la nostra comunità nazionale? Cioè, come evitare che<br />

il riconoscimento delle comunità, quella islamica, quella buddista, quella cinese,<br />

eccetera, finisca per essere un frazionamento negativo, una specie di giustapposizione<br />

di ghetti che non comunicano gli uni con gli altri?<br />

Per ora iniziamo con le domande, poi vediamo se riusciremo anche a trovare delle<br />

risposte.<br />

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Abbiamo due relatori già qui con noi, perciò do la parola a Giorgio Gomel.<br />

Dott. Gomel: Io fuggirei spaventato dalle sue domande se non fossi costretto dalla<br />

prof.ssa Fierro e da voi a restare, perché lei ci ha posto due domande una più complessa<br />

dell’altra.<br />

Cercheremo di rispondere perché è nostro dovere davanti a voi.<br />

In parte ne abbiamo già discusso, individualmente, nelle conversazioni che abbiamo già<br />

tenuto con voi.<br />

In ogni caso sono temi con i quali voi tutti avete una certa familiarità.<br />

E non lo dico per cercare un alibi, ma perché tutto sommato si tratta di argomenti ai<br />

quali avete già dedicato le vostre riflessioni.<br />

Per iniziare, direi essenzialmente questo: il mondo è effettivamente attraversato da<br />

conflitti fra culture e religioni. Questi conflitti di per sé non sono un male, ossia, se non<br />

fossero conflitti esplicitamente violenti non sarebbero un male, perché il confronto tra<br />

culture è, di per sé, un elemento di conflitto, di rivalità, di diversità.<br />

Non sarebbe corretto, secondo me, pensare ad un mondo che fosse tutto uniforme e in<br />

cui il conflitto e il confronto tra culture non ci fosse.<br />

Ovviamente, il nostro desideratum sarebbe un mondo in cui le diversità culturali,<br />

religiose, comunitarie, nel senso lato della parola, coesistessero in modo non violento.<br />

Non ci sono facili ricette per risolvere il conflitto tra culture e religioni. E’ inutile,<br />

secondo me, enunciare in maniera retorica un principio genericamente buonista secondo<br />

il quale il conflitto va risolto e tutti saremo contenti e felici per il resto della nostra<br />

storia, perché il conflitto tra culture è qualcosa che permea la storia dell’umanità e<br />

riguarda il fatto che viviamo in un mondo pluralista, in cui le civiltà e le religioni sono<br />

diverse.<br />

Il punto, semplicemente, è cercare di far sì che questa coesistenza sia benefica per<br />

tutti, che le differenze siano riconosciute come legittime e che il “conflitto”,<br />

chiamiamolo così, tra culture sia non violento.<br />

Ma l’antidoto affinché il conflitto tra culture non sia violento non è facile da trovare.<br />

E’ una battaglia di concezioni, di idealità, di moralità che ci avviluppa tutti, in cui tutti<br />

ci dobbiamo impegnare.<br />

Penso di poter dire una cosa, come enunciato generale: è importante, come antidoto al<br />

conflitto tra culture, affermare il principio secondo il quale quando ci sono culture<br />

minoritarie, piccole, non si può e non si deve chiedere loro di subordinarsi, di assimilarsi<br />

alle culture egemoni.<br />

Molte volte, nella storia dell’umanità, questo è accaduto.<br />

Ad esempio, è successo nel caso della storia ebraica: essendo noi ebrei sempre stati,<br />

nella storia dell’umanità, una minoranza in mezzo ad altri popoli, altre etnie, altre<br />

culture, abbiamo sofferto enormemente dell’antisemitismo, il cui connotato distintivo,<br />

anche nelle sue forme meno violente, è stato quello di chiedere agli ebrei di sparire, di<br />

assimilarsi agli altri, di tramutarsi in altri, di perdere la loro identità.<br />

Questo è inaccettabile, soprattutto oggi in cui il mondo, come ha descritto Naso,<br />

diventa sempre più plurale e in cui il conflitto tra culture c’è, ma va risolto in modo non<br />

violento.<br />

E’ una battaglia difficile, che impone una serie di comportamenti ideali, morali, politici,<br />

civili, ma credo che l’unico principio informatore per far sì che tale conflitto venga<br />

risolto in modo non violento, consista nell’applicare quel principio.<br />

L’immigrazione in Italia è un fenomeno recente, a cui il nostro paese non è abituato per<br />

le ragioni culturali di cui ha parlato Naso, ossia perché la nostra è sempre stata una<br />

società fondamentalmente monoculturale, malgrado i localismi, i comuni, le differenze<br />

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fra nord e sud, però, dal punto di vista etnico, religioso e culturale, è sempre stata una<br />

società abbastanza uniforme.<br />

E quando una società è uniforme, fatta esclusione per alcune minoranze molto piccole, è<br />

difficile accettare il diverso quando questo non è soltanto un pochino deviante o solo in<br />

piccola parte dissimile a noi, ma è molto diverso.<br />

Perciò bisogna abituarsi a questo faticoso processo culturale di accettazione dell’altro,<br />

ma senza la pretesa di assimilarlo fino a fargli perdere l’identità.<br />

Fin qui è la premessa di carattere generale, poi ci sono le due domande, spinosissime.<br />

Sulla prima, io non ho una risposta certa. Mi pare che se si guarda con animo il più<br />

possibile imparziale, distaccato, allo svolgersi degli eventi nel mondo, si deve<br />

riconoscere che le religioni sono al tempo stesso elemento di pace ed elemento di<br />

guerra.<br />

Voglio dire, ci sono momenti in cui le religioni in generale, senza distinguere tra religioni<br />

buone e cattive, sono state, e sono oggi, da una parte elementi di pace, di<br />

riconoscimento dell’altro e di riconciliazione, dall’altra, in alcune manifestazioni<br />

devianti, violente, sono elementi di contrapposizione bellicosa, violenta e devastante.<br />

Di conseguenza hanno dei meriti ma anche delle colpe.<br />

La questione che il dott. Naso poneva è dunque: la deriva fondamentalista è una deriva<br />

di alcune religioni o di tutte? E’ innata al fatto religioso di per sé oppure è una<br />

proiezione della politica, qualcosa che scaturisce dalla politica?<br />

Anche qui, onestamente, è difficile rispondere.<br />

Quello che connota il fondamentalismo in tutti i campi, quello islamico, quello cristiano,<br />

quello ebraico, secondo me, è essenzialmente un intreccio molto complicato tra politica<br />

e religione:<br />

consiste, cioè, nel ritenere che da un lato che la politica sia l’attuazione di precetti<br />

divini, dall’altro che la religione possa diventare, come dicevano gli antichi,<br />

“instrumentum regni”, cioè uno strumento di azione politica.<br />

Nell’Islam integralista, indubbiamente, questo pericoloso intreccio fra religione e<br />

politica è presente e i fondamentalisti ritengono che la politica consista proprio<br />

nell’attuazione dei precetti divini.<br />

Allo stesso tempo, però, secondo il modo opposto e simmetrico di guardare al processo,<br />

la religione diventa uno strumento di azione politica, uno strumento ideologico di<br />

mobilitazione delle masse, dei giovani, di indottrinamento a fini squisitamente politici.<br />

Pertanto, onestamente, mi è difficile rispondere alla domanda, ma possiamo dire che<br />

fattualmente le religioni siano un momento di pace e un momento di guerra al tempo<br />

stesso, in alternanza reciproca.<br />

Arrigo Levi, nel suo libro “Dialoghi sulla Fede”, dice: “Il mondo non è tanto un opporsi<br />

fra coloro che credono nella fede e coloro che credono nella ragione, c’è una fede<br />

religiosa e c’è una fede laica”. Di conseguenza gli uomini sono accomunati dal fatto di<br />

credere e di essere mossi da una fede, sia essa religiosa o laica.<br />

In questo senso, perciò, credo che il compito di tutti gli uomini sia quello di far sì che le<br />

religioni siano elemento di conciliazione, di pace e non di guerra, giacché non si può<br />

negare che le religioni abbiano sempre contato moltissimo nella storia dell’umanità e<br />

ancora oggi svolgono un ruolo centrale.<br />

Negli ultimi decenni, nella civiltà occidentale, in particolare in Europa, si era diffusa<br />

l’idea che con la secolarizzazione le religioni avrebbero perduto buona parte della loro<br />

influenza nelle scelte degli esseri umani, ma ciò non si è verificato. Che sia stata<br />

un’illusione illuminista, un errore di prospettiva, insomma un insieme di ragioni, ma<br />

quello che appare indubitabile è il fatto che le religioni contino ancora moltissimo nella<br />

condotta dell’umanità.<br />

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Anche la seconda domanda, quella riguardante l’Italia, presenta indubbiamente una<br />

tematica complessa perché, come abbiamo già detto, l’Italia sta diventando una società<br />

sempre più pluralista. La domanda che ci pone Naso è : “Cosa vuol dire società<br />

pluralista? A cosa dobbiamo tendere?”<br />

Intanto noi abbiamo una Costituzione che impone un vincolo di uguaglianza giuridica<br />

davanti alla legge per tutti, laici, religiosi, ebrei, cristiani e musulmani, ed è un<br />

principio fondamentale. Allo stesso tempo, però, dobbiamo riconoscere il diritto alla<br />

differenza, che costituisce un passo in più rispetto al passato.<br />

Tutto ciò assume una connotazione giuridica nelle intese. Nella lezione che ho tenuto<br />

qui due mesi fa, ho raccontato che, per esempio, l’intesa tra lo Stato e le comunità<br />

ebraiche, che risale ormai a vent’anni fa, ha comportato alcune concessioni da parte<br />

degli uni e alcune concessioni da parte degli altri. Ho portato questo esempio: nella<br />

tradizione ebraica religiosa, la sepoltura, come nell’Islam, non avviene in una bara, ma<br />

direttamente nella terra, avvolgendo il corpo in un lenzuolo.<br />

Questo non è accettato dall’Italia, perciò una delle concessioni che gli Ebrei, dal punto<br />

di vista religioso, hanno fatto allo Stato italiano nell’intesa è stata quella di accettare<br />

che la sepoltura si faccia in una bara.<br />

Nello stesso tempo, visto che per l’Ebraismo il giorno sacro è lo Shabbath, il sabato, lo<br />

Stato, finalmente, ha concesso agli Ebrei osservanti, quelli che intendono rispettare<br />

questo principio, questa mitzvah, come si dice in ebraico, di non andare a scuola il<br />

sabato. Io, che ho una certa età, ho fatto il servizio militare prima dell’intesa, e perciò<br />

non avrei potuto osservare il sabato.E’ vero che io non sono una persona osservante,<br />

per me il sabato non è fondamentale, ma, in ogni caso, non avrei potuto rispettare<br />

questo principio.<br />

Oggi lo Stato, in caso di concorsi pubblici o esami, riconosce il diritto degli Ebrei di non<br />

essere impegnati di sabato. Questo è un aspetto molto importante delle intese tra Stato<br />

e religione ebraica.<br />

Allo stesso modo, anche nei rapporti fra Stato italiano ed altre comunità religiose,<br />

esistono intese di questo tipo, cioè si riconosce la differenza e si cerca di conciliare tale<br />

diritto con il principio dell’uguaglianza giuridica davanti alla legge, che è unica e<br />

universale.<br />

Ora, dato il riconoscimento delle differenze, dato il continuo divenire di questa società<br />

sempre più multiculturale, dato il principio secondo il quale non bisogna fissare<br />

gerarchie ed egemonie, per cui quelli che sono maggioritari, ossia i Cattolici, dominano<br />

e quelli che sono minoritari, gli Ebrei, i Valdesi, i Buddhisti sono costretti a subordinarsi,<br />

ad accettare la cultura egemone, come si fa, in concreto, ad evitare il comunitarismo,<br />

cioè il nascere di comunità separate, chiuse, ghettizzate?<br />

Effettivamente questo è un punto molto delicato, in quanto se è vero che il pluralismo<br />

religioso e culturale è un fatto positivo, è pur vero che la coesistenza delle varie<br />

comunità in uno stato laico e aconfessionale è difficile.<br />

Faccio il caso, ad esempio, della questione francese e del velo e lo ricordo soltanto<br />

perché è un caso emblematico e recente, del quale avrete letto sui giornali.<br />

Il caso francese è quello più eclatante, rappresenta l’esaltazione dello stato laico: si è<br />

tutti uguali davanti alla legge, ciascuno è libero di professare la propria religione<br />

nell’intimità della propria casa, ma non all’esterno. Pertanto non può esibire simboli<br />

appartenenti alla propria religione nello spazio pubblico, che è laico e aconfessionale.<br />

Se vogliamo, l’emblema, il paradigma dello spazio pubblico è la scuola: le ragazze<br />

musulmane perciò non possono portare il velo, i ragazzi ebrei non possono portare la<br />

kippà,i ragazzi cristiani non possono esibire una croce.<br />

Personalmente sono contrario, penso che il pluralismo religioso si possa manifestare<br />

anche nello spazio pubblico, e mi sarei trovato onestamente a disagio se fossi stato un<br />

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Ebreo francese e, ancorché io non porti la kippà, ritengo molto importante che gli Ebrei<br />

osservanti, giovani o vecchi, siano liberi di farlo, così come le donne islamiche<br />

dovrebbero essere libere di portare il velo.<br />

Mi auguro che una cosa di questo genere non capiti in Italia.<br />

Concludo dicendo: questa battaglia, affinché non vincano le comunità separate ma si<br />

possa coesistere in modo non violento e rispettoso dell’altro, ci impegna tutti ma<br />

soprattutto voi, le generazioni più giovani, noi ci siamo riusciti fino a un certo punto.<br />

Quello che possiamo fare è soltanto offrirvi gli strumenti culturali e rendervi consapevoli<br />

del problema, ma siete voi che lo dovrete affrontare in prima persona perché siete voi<br />

che vivete pienamente la transizione della società italiana verso il pluralismo, noi<br />

l’abbiamo vissuta soltanto concettualmente, nei libri, anche se in questi ultimi anni ci<br />

stiamo impegnando in questo campo, ma voi, soprattutto negli anni a venire, nella<br />

vostra maturità, lo affronterete personalmente, nel quotidiano vissuto. Io, per esempio,<br />

nella mia scuola a Torino ero l’unico Ebreo, non c’erano Buddisti né Musulmani intorno<br />

a me, rappresentavo un caso isolato.<br />

Voi, invece, queste esperienze le fate concretamente nel quotidian, quindi forse anche<br />

gli strumenti di discussione, di riflessione, come questa tavola rotonda possono servire<br />

per il vostro vivere quotidiano.<br />

Dott. Naso: Grazie, Giorgio. Di tutte le cose che ci ha detto Giorgio Gomel sottolineerei<br />

questo invito: spero che non capiti in Italia.<br />

Credo che sia un invito molto interessante e valido sotto il profilo della programmazione<br />

culturale e politica. Perché l’Italia, tra tante sfortune, ha anche una fortuna: che cioè<br />

non ha ancora consolidato un modello di integrazione. Presentandosi il fenomeno in<br />

ritardo di circa venti o trent’anni rispetto a Francia, Inghilterra, Germania, Olanda,<br />

Belgio, abbiamo una possibilità che altri paesi d’immigrazione, fortemente segnati dal<br />

multiculturalismo, dalla multietnicità, non hanno avuto, cioè quella di fare tesoro delle<br />

esperienze pregresse. In questo senso io credo che la sfida che abbiamo di fronte sia di<br />

eccezionale interesse. Noi, ad esempio, conosciamo e abbiamo chiarissimi i limiti e le<br />

difficoltà di applicare un modello di integrazione dall’alto, istituzionale, laicista, come<br />

quello palesato in Francia.<br />

Al tempo stesso abbiamo anche, chiarissimi, i rischi di un comunitarismo a volte<br />

esasperato, cosa che è avvenuta in Olanda o in Inghilterra, laddove il diritto della<br />

persona finisce con l’essere limitato a quello che la persona esprime dentro la sua<br />

comunità di appartenenza.<br />

Non c’è più il cittadino, ma c’è il Musulmano, il Sikh, l’Induista, il Buddista.<br />

Il che crea una evidente limitazione nel pacchetto di diritti che la nostra legge, come<br />

ben sappiamo, garantisce a ogni persona, senza discriminazione di censo, di razza e di<br />

religione.<br />

Quindi mi sembra che l’avventura culturale e politica che abbiamo di fronte possa essere<br />

molto interessante.<br />

Do ora la parola a Federico Di Leo, della Comunità di Sant’Egidio, che da molti anni si<br />

occupa proprio del tema del dialogo interreligioso e in particolare del dialogo cristianoislamico.<br />

Dott. Di Leo: Grazie. Mi vorrei ricollegare subito a quanto dicevano sia il nostro<br />

moderatore che chi mi ha preceduto.<br />

E’ vero che l’Italia non ha ancora un modello stabile di convivenza, di integrazione, e<br />

dunque questa è una chance che tutti noi abbiamo davanti.<br />

Vorrei provare a rispondere a partire dalla seconda domanda che ci ha posto il nostro<br />

moderatore, ovvero dall’esperienza italiana.<br />

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In Italia, oggi, ci troviamo di fronte ad una presenza diversa da quella tradizionale,<br />

cattolica, laica, riformata o ebraica, che è relativamente recente ed importante.<br />

Sono state prima richiamate le intese siglate proprio negli ultimi tempi, ma vorrei<br />

ricordare che finora non è mai stata siglata l’intesa con la comunità più numerosa,<br />

ovvero quella musulmana.<br />

L’intesa con i musulmani è complicata perché in Italia esistono varie anime dell’Islam<br />

che, in qualche misura, sono tutte importanti e significative.<br />

A Roma esiste la moschea di Forte Antenne, il centro culturale islamico, che risponde<br />

sostanzialmente a una visione ufficiale dell’Islam. Accanto a questa, esistono delle<br />

presenze più di base, più popolari, di musulmani che si ricollegano ora a tradizioni<br />

locali, ora a quella organizzazione di cui forse avrete sentito parlare sui giornali, il COI,<br />

le cui dimensioni non sono ben note, ma che certamente è rilevante a livello italiano, ed<br />

è accusata da alcuni, a torto o a ragione, di essere collaterale al fondamentalismo<br />

islamico.<br />

Dico questo perché in realtà la questione delle intese, soprattutto con l’Islam, genera un<br />

problema molto rilevante in Italia, che riguarda propriamente il rapporto tra religione e<br />

democrazia.<br />

E’ questa una tematica estremamente importante anche perché la religione, per sua<br />

natura, non ragiona con le caratteristiche della democrazia, non sempre, quanto meno.<br />

La stessa<br />

religione cattolica non si basa su un parlamento che decide a maggioranza. E’ vero che il<br />

Papa recentemente ha chiesto maggiore collegialità nelle decisioni, però alla fine chi<br />

decide è sempre il sommo Pontefice, che è comunque sovrano.<br />

Altre esperienze religiose, tra cui quella riformata, hanno al loro interno un’<br />

organizzazione più “democratica”.<br />

In generale si può dire che il tema della democrazia suscita immediatamente dei valori<br />

positivi che condividono anche coloro che professano quello che il nostro moderatore<br />

chiamava una religione “laica”, cioè coloro i quali non si riferiscono ad alcun credo<br />

religioso ma in qualche modo sono presenti nella società.<br />

Difatti l’obiettivo comune a tutte le religioni è quello di identificare dei valori che<br />

possano essere condivisi.<br />

E in questo senso mi riferisco anche all’esperienza della quale io faccio parte.<br />

Dunque, dal punto di vista della convivenza, mi sembra che la piccola ricetta, della<br />

quale vorrei farvi partecipi, è quella di identificare degli obiettivi comuni, che<br />

potrebbero essere per esempio la difesa della natura, o la difesa delle classi più<br />

svantaggiate, oppure la possibilità di dare a tutti il minimo indispensabile per poter<br />

vivere.<br />

Su questi fondamenti comuni si può trovare uno spazio di collaborazione.<br />

A livello più “teorico”, la convivenza è una strada abbastanza complessa, perché penso<br />

che lo strumento che abbiamo a disposizione è quello di favorire il benessere comune, di<br />

creare una società che voglia il bene per tutti i suoi cittadini, che non crei barriere tra<br />

gli individui.<br />

Naturalmente voi sarete informati di quello che è successo a Milano con la comunità<br />

cinese.<br />

Mi sembra di poter dire che, a prescindere dalla situazione dei cattolici, dei musulmani,<br />

degli ebraici, la vera sfida della convivenza è quella di rompere le divisioni che si<br />

stanno generando in Italia, così come si sono generate in Francia nonostante il tentativo<br />

laico, e che consistono nel creare degli spazi isolati per queste comunità.<br />

Già nelle scuole questo un po’ si vede, a volte gli studenti che appartengono a culture<br />

differenti fanno più fatica a trovare uno “spazio” di convivenza tranquilla.<br />

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Alla fine dei conti abbiamo tutti la stessa responsabilità, qualunque sia la nostra<br />

religione, ed è quella di trovare la maniera di dialogare, a prescindere<br />

dall’appartenenza cattolica o non cattolica.<br />

A questo punto, come si inserisce la questione religiosa nel nostro dibattito? Secondo me<br />

oggi si inserisce in una maniera abbastanza furba. Come cattolico, dovrei dire che esiste<br />

una grossa insidia del diavolo da questo punto di vista. E lo affermo perché, secondo me,<br />

oggi le religioni rischiano di avere un ruolo subalterno a una logica di conflitto.<br />

Cioè le religioni vengono tirate per la giacchetta, per così dire, e fanno fatica a<br />

dichiarare quale sia la loro vera idea di convivenza. E’ difficile che un religioso, a<br />

qualsiasi confessione egli appartenga, possa dire che il tale politico si esprime contro la<br />

religione. Abbiamo assistito recentemente al dibattito sui DICO, però direi che è un<br />

dibattito di profilo molto interno. Sarebbe assai più interessante se un politico si<br />

trovasse di fronte alla propria responsabilità nei confronti di problemi ben più ampi che<br />

non il rispettabilissimo problema della famiglia. Perciò, in questo momento, se un<br />

rischio vivono le religioni, è quello di essere subalterne, di essere in qualche modo tirate<br />

per la giacchetta dalla politica, di non trovare un loro modo per affermare la<br />

convivenza; e sulle modalità della convivenza, secondo me, alcuni valori devono essere<br />

lasciati al ruolo della democrazia. Cioè, la religione, per quello che le compete, deve<br />

esporre dei principi alti, l’uguaglianza tra le persone, il ripudio della guerra, il rispetto<br />

della natura, il rispetto delle differenze, il modo di evitare di farci la guerra a vicenda.<br />

In questo senso, secondo me, le religioni non possono entrare nel merito di<br />

problematiche che afferiscono a questioni politiche.<br />

Perciò, un compito che abbiamo tutti noi, a qualsiasi comunità apparteniamo, è quello<br />

innanzitutto di creare un ambiente in cui si possa dialogare e si possano capire anche i<br />

problemi reali, quelli che riguardano la vita della gente.<br />

Per quanto riguarda il problema internazionale, anche se in questo settore non sono<br />

assolutamente competente, vorrei ricordare anch’io che le religioni sono state artefici<br />

sia di conflitti che di pace. Per esempio, vorrei ricordare un conflitto che ha avuto<br />

termine recentemente e che sembrava avere le caratteristiche del conflitto religioso,<br />

ossia quello della Costa d’Avorio. E’ stata siglata una pace, speriamo duratura, proprio<br />

alla vigilia di Pasqua, in Costa d’Avorio, in cui i contendenti erano musulmani e<br />

cristiani, ed essi si sono seduti intorno a un tavolo e hanno riconosciuto l’importanza del<br />

benessere e della salute per il paese. Oltretutto, si trattava di musulmani immigrati,<br />

perché gran parte di essi erano di origine del Burkina Faso. Quindi un problema di natura<br />

internazionale assai complicato è stato risolto per la buona volontà e per i buoni uffici di<br />

persone di credi diversi, come è stato il caso di cui si è parlato prima a proposito<br />

dell’Irlanda del Nord.<br />

A me sembra che viviamo una stagione di conflitti particolarmente complicata, non solo<br />

perché le religioni rischiano di svolgere un ruolo di subalternità che, nel momento in cui<br />

la cosa diventa palese, può essere causa di battaglie “sbagliate”, ma anche perché oggi<br />

viviamo certamente non un conflitto tra religioni, bensì il rischio di un conflitto tra<br />

civiltà , anche quelle occidentali.<br />

Non si può negare, infatti, che attualmente esistono due occidenti, che si stanno sempre<br />

più allontanando tra di loro: l’occidente anglosassone e l’occidente latino e del resto<br />

dell’Europa, che faticano a capirsi; un occidente che vuole esportare con i propri mezzi<br />

le sue convinzioni e un occidente che in parte dialoga e in parte vive una fase di<br />

“indebolimento” della propria identità.<br />

Accanto a queste, poi, esistono altre civiltà altrettanto forti quali la civiltà araboislamica,<br />

che non è debole e che si basa su una serie di “principi” in cui la violenza non<br />

viene rinnegata, la civiltà ebraico-israeliana, che si sente assediata e reagisce con mezzi<br />

non sempre pacifici, la civiltà sino-indiana, che si affaccia prepotentemente nel mondo.<br />

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Oggettivamente, per fortuna o per sfortuna, viviamo in un tempo complicato in cui<br />

secondo me la prima cosa da fare è cercare di capire che tipo di società vogliamo<br />

costruire. A me sembra che accettare da una parte i principi democratici e dall’altra le<br />

battaglie comuni per degli obiettivi condivisibili come, ripeto, l’ambiente, la pace, il<br />

rispetto delle minoranze, ecc., potrebbero essere dei temi su cui ritrovarsi insieme, a<br />

qualsiasi cultura si appartenga, che sia di fede confessionale, o anche di fede laica.<br />

Grazie.<br />

Dott. Naso: Grazie anche a Federico per questa conclusione che ci proietta non tanto<br />

sull’analisi quanto sull’agenda. Mi sembra che il tavolo sia pieno di suggestioni, alcune<br />

riguardano gli scenari internazionali, altre riguardano invece lo scenario interno;<br />

abbiamo un tempo congruo per raccogliere un po’ di domande e poi fare un giro di<br />

risposte conclusivo. Quindi, avanti, chi rompe il ghiaccio?<br />

Prof.ssa Fierro: Allora, ragazzi, rompiamo il ghiaccio, diceva il dottor Naso e voi come<br />

al solito all’inizio siete lì perplessi ma sono sicura che comincerete a tirare fuori le<br />

vostre domande. Forse aspettate che a rompere il ghiaccio sia io, ma invito sia i ragazzi<br />

sia i docenti presenti a partecipare a questo momento finale. Ascoltando la prima<br />

risposta del dottor Gomel ho segnato alcune riflessioni, in particolare il principio, che<br />

ritengo fondamentale, ovvero che la politica non debba essere attuazione di precetti<br />

divini. Però, dottor Gomel, la mia è una domanda e non è una provocazione, questo<br />

aspetto si ritrova anche nell’Ebraismo, no? Lei ha detto che le varie forme di<br />

fondamentalismo di fatto affliggono non questa o quella religione ma tutte le religioni,<br />

naturalmente con diverse connotazioni. La giustificazione ideale che è stata utilizzata a<br />

monte per legittimare la nascita d’Israele, era anche nell’immaginario degli Ebrei, oltre<br />

che nella loro religione: la terra promessa da Dio. Il ritorno a Sion, così come era stato<br />

predicato da Teodoro Herzl, alla fine dell’800, era anche motivato dal fatto che quella<br />

era la terra promessa agli Ebrei, la terra promessa da Dio.<br />

Allora, quanta parte ha ancora, non dico nell’immaginario ma proprio nella cultura<br />

ebraica, il discorso della terra promessa? E’ stata riconquistata e si deve mantenere?<br />

Non è questo, all’interno dell’Ebraismo, un problema che rientra in una parte del<br />

nazionalismo ebraico, per non chiamarlo fondamentalismo?<br />

Ai ragazzi le domande, su.<br />

Michelangelo: Sono Michelangelo. La mia domanda è molto semplice e la porrò anche in<br />

termini banali. Voi avete parlato della necessità di un modello integrativo da attuare in<br />

Italia. Ma non vi siete espressi su quale debba essere questo modello. Lo so che è una<br />

domanda difficile e molto generica, però volevo sapere l’opinione da parte vostra.<br />

Dott. Naso: Anzitutto vorrei sapere se siete d’accordo con la premessa di Michelangelo.<br />

Perché se Michelangelo vuole sapere qual possa essere il modello di integrazione, rende<br />

implicito il fatto che occorra promuovere un modello di integrazione. Perché vi è<br />

un’altra strada, ampiamente praticata nella politica recente di questo paese, che è<br />

quella della non integrazione, in quanto l’Italia non sarebbe un paese d’immigrazione.<br />

Una quota significativa del nostro sistema politico afferma che l’Italia non deve porsi il<br />

problema di definire strategie di integrazione, perché l’immigrazione in Italia non è un<br />

fatto strutturale, è un fatto contingente dovuto a un atteggiamento leggero delle<br />

autorità che permettono gli ingressi clandestini e quindi il problema vero non è<br />

l’integrazione, ma il contrasto dell’immigrazione. Se l’Italia, dunque, non è un paese<br />

d’immigrazione, è del tutto inutile porci un problema di integrazione.<br />

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Allora, io vorrei sapere se condividete la premessa implicita nella domanda di<br />

Michelangelo che è la seguente: comunque sia, l’Italia è ormai un paese multiculturale e<br />

quindi deve misurarsi col fatto che gli immigrati ci sono e sono portatori di culture e di<br />

tradizioni religiose diverse, perciò la sfida è trovare il “modus coesistendi”, per così<br />

dire.<br />

Prof. Carini: Buongiorno. Volevo fare una domanda a proposito del dialogo tra le<br />

religioni da un’altra prospettiva, cioè, se posso permettermi, da una prospettiva di tipo<br />

teologico.<br />

Potrebbero i teologi in qualche modo dare un loro contributo per agevolare il dialogo tra<br />

le religioni? Al di là dell’impegno sociale condiviso, di cui parlava il professor Di Leo, che<br />

già è un aspetto molto importante. Farò un discorso forse troppo utopistico, nel senso<br />

che ognuna delle tre religioni abramitiche si ritiene, penso in modo esclusivo,<br />

depositaria della via alla salvezza. Ma sappiamo che storicamente Dio ha chiamato gli<br />

uomini e gli uomini hanno risposto in modo diverso. Se in qualche modo si riuscisse ad<br />

attenuare o a superare questo principio, per cui ciascuna delle tre religioni pretenda di<br />

essere l’unica via per la salvezza, cosa che purtroppo ha per conseguenza quella di<br />

distinguere tra religioni vere e religioni false e quindi di porre anche dei problemi in<br />

merito al proselitismo che non è accettato, per esempio, nei paesi islamici,<br />

se si potesse rinunciare in parte, parlo naturalmente in modo molto utopistico, o<br />

attenuare questa pretesa, non potrebbe essere un contributo da parte dei teologi in<br />

qualche modo per fare accettare le religioni diverse?<br />

Io mi chiedo, e pongo questa domanda un po’ scandalosa, perché, ad esempio, un ebreo<br />

che è stato sempre osservante, onesto e giusto non può accedere a quello che è il<br />

Paradiso, anche in una visione cristiana? Un po’ troppo idealistica forse questa domanda.<br />

Grazie.<br />

Dott. Di Leo: Io vorrei iniziare a rispondere, anche se poi il dibattito credo si allargherà<br />

alla domanda precedente, cioè se l’Italia sia un paese multiculturale. Sulla base dei<br />

dati, l’Italia è un paese, per quanto riguarda la razza bianca nativa, in decremento<br />

demografico rapido e quindi credo che, anche per il bisogno che hanno le imprese di<br />

immigrati stranieri, è destinata a essere sempre più un paese multiculturale.<br />

Aggiungerei anche che lo è già in parte e che la strada da seguire mi sembra quella di<br />

non aver paura dell’integrazione, ma di prenderla dalla via maestra, cioè a dire: è, a<br />

seconda delle posizioni, un problema, una realtà, un’opportunità, un guaio, chiamatelo<br />

come vi pare, però esiste, e dunque mi sembra che l’unico modo sbagliato per porsi il<br />

problema dell’integrazione è quello di non porsi il problema dell’integrazione.<br />

Poi, secondo me, è utilissimo un bel dialogo sull’argomento, giacché alcuni dicono che i<br />

modelli esistenti, quello olandese, quello britannico, quello statunitense, sono falliti,<br />

hanno le loro difficoltà. Allora parliamone e troviamo la strada.<br />

Per quanto riguarda la domanda teologica, direi che i musulmani, di cui io non faccio<br />

parte, sostengono, come è scritto nel Corano, che quello che succederà dopo la nostra<br />

vita è nelle mani di Dio. Quindi ci potremmo tutti incontrare nello stesso Paradiso, non<br />

lo sappiamo, a ognuno è dato di seguire una strada da buon fedele della propria<br />

religione e io credo che coloro che desiderano seguire una via religiosa devono anche<br />

accettare di seguirne i principi in maniera coerente, senza confusione. Con l’occasione,<br />

purtroppo, vi devo anche salutare, però se ci saranno nuove occasioni, sarò ben lieto di<br />

essere con voi.<br />

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Dott. Naso: Ho dato la parola a Federico perché doveva andare, ma ora torno a voi, nel<br />

senso che prima di tornare a parlare da questa parte del tavolo sarebbe utile raccogliere<br />

ancora qualche altra domanda.<br />

Daniele: Abbiamo parlato di modelli di integrazione, potreste farci una breve<br />

panoramica? Lei ha parlato di modello olandese, francese, non li conosciamo, magari ne<br />

abbiamo sentito parlare, però sarebbe utile fare un’ulteriore specificazione.<br />

Prof.ssa Fierro: Ripeti, non si è capito.<br />

Daniele: La mia domanda è questa: se si può avere una breve panoramica sui vari<br />

modelli di integrazione, europei e non.<br />

Carlo: Buongiorno, sono Carlo. Con questa domanda voglio essere provocatorio e forse<br />

anche scomodo.<br />

Io penso che sia molto facile, in una cultura democratica come quella nostra, essere<br />

favorevoli all’integrazione. Ma dobbiamo capire che cosa intendiamo noi per<br />

integrazione. Perciò mi domando, e vi domando, che cos’è concretamente<br />

l’integrazione? In Francia, secondo me, il livellamento, l’ appiattimento della propria<br />

religione, del proprio credo, la laicizzazione estremista non sta portando ai risultati<br />

desiderati perché ci sono molti scontri; la ghettizzazione che si è voluta evitare<br />

abbattendo qualsiasi segno religioso, in realtà, si è venuta a creare anche più forte, e il<br />

contrasto che si voleva appiattire in realtà si è formato in modo sempre più netto.<br />

Riguardo poi al credo musulmano, al credo dell’Islam, io non mi trovai d’accordo quando<br />

l’onorevole Rashid, che cito anche se mi dispiace perché è assente, sostenne che nel<br />

Corano alla donna viene riconosciuta la stessa condizione dell’uomo: questo non è vero,<br />

ci sono molte sure in cui è scritto che la donna deve essere sottoposta all’uomo e in<br />

modo molto più radicale di quello che dice San Paolo, per esempio. Quest’estate i<br />

telegiornali italiani ci hanno raccontato storie di ragazze uccise dal proprio padre perché<br />

frequentavano ragazzi di un altro credo, donne segregate in casa e che dopo quindici<br />

anni che vivevano in Italia ancora non parlavano affatto l’italiano perché stavano chiuse<br />

in quell’ambiente. Questo secondo voi cos’è, un brutto esempio di come la religione<br />

possa essere male interpretata oppure un brutto esempio di come lo stato molte volte<br />

non fa nulla o forse agisce in un modo che finora non sta dando i risultati sperati?<br />

Dott. Naso: Prenderei un momento la parola per rispondere alla domanda di Daniele sui<br />

modelli. Ovviamente i modelli sono delle astrazioni, ma, convenzionalmente, gli studiosi<br />

dei processi di integrazione degli immigrati si riferiscono a tre modelli.<br />

Il primo è quello detto del “melting pot” americano. “Melting pot” è la traduzione della<br />

parola italiana “crogiuolo”, parola assolutamente obsoleta, che è uno strumento<br />

generalmente di marmo, o di altra sostanza resistente al calore, nel quale vengono<br />

sciolti i metalli.<br />

Quindi da metalli diversi si forma una lega che è diversa dai metalli originari.<br />

Uno degli slogan, presente anche sulle monete americane, è “ e pluribus unum”, latino<br />

abbastanza semplice da rendersi accessibile a chiunque.<br />

Cosa vuol dire “ e pluribus unum”? La pretesa della società americana, diciamo dal 1870<br />

al 1950, gli anni della grandissima immigrazione negli Stati Uniti, soprattutto quella<br />

degli anni ‘10, ‘20 e ’30 del novecento, di dire: questa è una nuova società che si<br />

compone della sintesi di identità diverse, il nativo americano, l’afro-americano, notate<br />

tutte parole col trattino, l’italo-americano, il sino-americano, l’ebreo americano,<br />

l’irlandese americano. Queste diverse ondate immigratorie, arrivate nell’arco di pochi<br />

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decenni, hanno determinato la constituency, il cuore della società nord americana. E<br />

quindi l’idea è: la società, essendo giovane, non ha una sua struttura identitaria, sotto il<br />

profilo culturale, religioso. Certo, la maggioranza è protestante, certo esiste una<br />

Costituzione, ma il corpo sociale di uomini e di donne che sta dentro questa cornice sarà<br />

costituito dalle diverse culture, religioni e tradizioni e lo stato avrà la funzione di<br />

fondere queste diverse identità in una del tutto nuova, diversa da quelle originarie. E’<br />

nuova anche rispetto all’identità dell’America delle origini che non esiste più, nel senso<br />

che se l’America aveva una identità era quella dei nativi americani la cui storia ci è ben<br />

nota.<br />

E quindi una cultura, un’integrazione che crea una nuova sintesi.<br />

Dove fallisce questo modello? Il processo funziona con qualche contraccolpo fino agli<br />

anni ’50, quando la società americana si stabilizza su alcune caratteristiche<br />

fondamentali: prevalentemente bianca, prevalentemente di ceto medio,<br />

prevalentemente integrata. A quel punto la domanda, anche di manodopera straniera,<br />

cessa e, da una politica di accoglienza si passa a una politica di chiusura, la barca è<br />

piena, per così dire, le nuove ondate migratorie che arrivano negli anni successivi<br />

incontreranno difficoltà eccezionalmente superiori ad integrarsi; perché? Perché il<br />

modello di integrazione si reputa chiuso.<br />

Essendo più difficile l’integrazione, nascono meccanismi identitari fortemente<br />

problematici per cui le comunità, che resistono comunque come luoghi identitari,<br />

tendono a chiudersi in se stesse.<br />

Dieci-dodici anni fa, a Los Angeles, c’è stata una vera e propria rivolta nata dal fatto<br />

che un tassista afro-americano è stato picchiato selvaggiamente da alcuni poliziotti.<br />

Sempre a Los Angeles, la comunità coreana ha tenuto in scacco alcuni quartieri per una<br />

settimana. Cosa esprimono queste rivolte? Esprimono l’idea di una integrazione fallita.<br />

“E pluribus unum” fino a un certo punto.<br />

Secondo modello, il criticatissimo modello francese. E’ un modello duro, hard, tosto, nel<br />

senso che, come ha ben richiamato Giorgio, è il modello che dice: tu, rispetto allo stato,<br />

sei semplicemente un “citoyen”, sei un cittadino. Non importa se sei musulmano,<br />

immigrato, tu sei un cittadino. Quindi, rispetto allo stato, non mi interessano le tue<br />

qualificazioni, i tuoi attributi particolari, le tue identità particolari. Mi interessa il tuo<br />

fare parte di questa comunità di diritti e di doveri.<br />

Una durezza che si esprime, per esempio, in polemiche tipicamente francesi come<br />

quella richiamata sul velo, che ha dei corollari ancora più gravi. Vi cito il caso dei Sikh: i<br />

Sikh vanno in giro con un turbante, molto bello anche, che serve a raccogliere la chioma<br />

fluente del maschio, il quale non taglia mai i capelli, dall’età della pubertà in poi.<br />

Quindi sono capelli, per così dire, di una certa consistenza. C’è anche un problema<br />

igienico di gestione di queste capigliature, per cui sotto il turbante vi è una specie di<br />

cuffia che assomiglia più che altro a una calza, un po’ come quella dei bravi manzoniani,<br />

sulla quale si appoggia il turbante vero e proprio, che è l’indumento per le occasioni<br />

solenni. I ragazzi maschi Sikh hanno chiesto alle autorità scolastiche francesi<br />

l’autorizzazione ad indossare non già il turbante, elemento rituale, ma la cuffietta.<br />

Le autorità scolastiche hanno risposto negativamente. Il che denota una sorta di<br />

accanimento contro le espressioni simboliche identitarie, che io critico enormemente.<br />

Tra l’altro c’è un problema di applicazione: i simboli ostensivi sono vietati, quindi nelle<br />

scuole cosa ci sarà? Un ispettore che verifica se la croce che le ragazze portano al collo<br />

è ostensiva oppure no? Cosa fa, la misura? Guarda, controlla? E’ una cosa che mi pare<br />

molto farraginosa e improbabile.<br />

Detto questo, cioè espressa la critica anche molto facile, cerchiamo di capire qual è il<br />

senso, la filosofia politica che c’è dietro quest’idea.<br />

L’idea è quella di una concezione altissima dello stato.<br />

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Prima di liquidare così il modello francese, noi italiani, il nord, il sud, le leghe e le<br />

controleghe, i particolarismi, i municipi e i campanili, le zone sottratte al controllo<br />

giuridico dello stato, cerchiamo di capire qual è la forte suggestione che porta a dire:<br />

noi siamo una comunità di diritti e di doveri. E’ certamente un concetto molto forte.<br />

Terzo modello: il modello cosiddetto comunitarista che ha la sua massima espressione in<br />

Olanda, ma in realtà quelli che l’hanno inventato sono gli inglesi.<br />

Cosa dice il modello comunitarista? L’Inghilterra aveva un grande impero, non<br />

dimentichiamolo. In virtù della cittadinanza del Commonwealth, le persone che<br />

risiedevano nei territori d’oltremare dell’impero di Sua Maestà, diventavano cittadini<br />

del Commonwealth. C’era dunque una forma di democrazia imperialista, non so come<br />

dire, che consentiva, per esempio, a un cittadino indiano di entrare agevolmente nel<br />

territorio britannico. Ragione per cui la comunità etnica immigrata più numerosa in<br />

Inghilterra è appunto quella indiana.<br />

Bene, il governo inglese si è posto il problema di come mantenere queste identità, di<br />

come salvaguardarle, arrivando a dei risultati del tutto opposti rispetto a quelli francesi.<br />

Voi sapete che alcuni reparti dell’esercito inglese sono scozzesi e indossano quindi,<br />

come uniforme d’ordinanza, il kilt. Il kilt ha una fantasia particolare, chiamata tartan,<br />

che risale agli antichi clan, quindi il massimo del comunitarismo: il clan, la tribù,<br />

l’organizzazione locale. Quando tanti soldati di origine indiana sono stati arruolati nei<br />

reparti dell’esercito scozzese, quelli del kilt, hanno chiesto: scusate, ma il nostro tartan<br />

qual è? Domanda risibile, perché il tartan, cioè questa particolare fantasia geometrica, è<br />

frutto di una antica tradizione. Ci sono quelli gialli e rossi, quelli sul verde, quelli sul<br />

blu. Le autorità britanniche militari hanno inventato il tartan per gli indiani, e quindi<br />

hanno concesso lo statuto di clan anche alla comunità degli immigrati.<br />

Sembrano piccoli aneddoti, ma invece riflettono una filosofia politica, l’idea cioè che lo<br />

stato punta, proprio perché ha una concezione forte del pluralismo, a valorizzare l’<br />

elemento dell’identità.<br />

Di nuovo, prima di liquidare l’esperienza inglese definendola comunitarismo deteriore,<br />

cerchiamo di capirne il senso: è il senso del pluralismo, della capacità di riconoscere e<br />

celebrare le differenze.<br />

In questo paese in cui la parola pluralismo suona come eversiva, io, prima di liquidare<br />

l’esperienza inglese, dico: valorizziamola.<br />

E’ chiaro che oggi, col senno di poi, questi modelli, quello della sintesi americana,<br />

quello dell’assimilazione francese, quello del comunitarismo anglosassone, appaiono<br />

fortemente in crisi.<br />

Qual è la sfida? La sfida è trovare la giusta combinazione tra i tre diversi modelli e<br />

quindi cercare un rigoroso equilibrio, come diceva anche Giorgio del resto, tra una<br />

pratica del pluralismo da una parte, ma anche un richiamo dell’identità nazionale<br />

dall’altra.<br />

Occorre un senso di appartenenza al sistema di diritti e di doveri, purché esso sia<br />

bilanciato da un forte riconoscimento delle identità particolari.<br />

E’ pertanto una strada veramente nuova e inedita, nella quale dobbiamo inventarci degli<br />

strumenti.<br />

Concludo rispondendo a un aspetto della domanda di Carlo, quando parla delle donne<br />

musulmane.<br />

Da qualche giorno la rivista che io dirigo organizza dei corsi di lingua e cultura civica<br />

italiana all’ interno della grande moschea di Roma. Un corso riservato alle donne. Carlo<br />

diceva che lo stato lascia che si creino queste sacche di isolamento, di chiusura delle<br />

donne. Ecco, proprio perché noi siamo consapevoli dell’esigenza di doverci inventare<br />

strumenti nuovi, abbiamo tentato questa formula. Se le donne musulmane vivono una<br />

realtà chiusa, e non accettano di venire, per esempio, a un corso di italiano organizzato<br />

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dalla comunità di Sant’Egidio o dalla Caritas, andiamo noi nei luoghi in cui le donne si<br />

raccolgono, per esempio la Moschea, e lì introduciamo anzitutto elementi di competenza<br />

linguistica, senza la quale non è data nessuna integrazione, né francese, né inglese, né<br />

olandese. In secondo luogo introduciamo elementi di coscienza e di sapere civico. Per<br />

esempio spieghiamo che in questo paese il lavoro è un valore fondamentale, che la non<br />

discriminazione su base di censo, razza, religione è un assunto fondamentale, non<br />

negoziabile.<br />

Spieghiamo che in questo paese l’istruzione, l’obbligo scolastico, è un dovere non<br />

derogabile, e che diventa un reato sfuggirvi.<br />

Se affermiamo questa carta dei principi non negoziabili, dei principi che fanno la storia,<br />

il nucleo della tradizione giuridica e civile di questo paese, se salviamo i principi<br />

fondamentali, ecco che allora possiamo aprire spazi e tavoli di negoziazione sulle altre<br />

questioni.<br />

Se richiamiamo il valore della persona, della libertà individuale, del diritto allo studio,<br />

del diritto al lavoro, dell’eguaglianza tra uomo e donna, allora potremo agevolmente<br />

discutere, senza troppi elementi ideologici, velo o non velo, carrellino per i cinesi o non<br />

carrellino per i cinesi, tali questioni diventano irrilevanti, se noi abbiamo avuto la<br />

capacità e l’intelligenza di focalizzare le questioni decisive, quelle sì rilevanti.<br />

Dott. Gomel: Concordo su come Naso ha descritto i diversi modelli di integrazione.<br />

Certamente quello americano è contrapposto per certi versi all’Europa, proprio per le<br />

ragioni fisiologiche che ha detto lui, cioè quella è una società di immigrati in cui tutti<br />

sono stranieri, quindi il “melting pot” si applica più facilmente, universalmente,<br />

indistintamente perché non c’è una società nativa , essendo stata essa sterminata.<br />

Gli abitanti arrivati durante le ondate migratorie erano tutti stranieri rifugiati, fuggiti<br />

dalla miseria o dalle persecuzioni religiose.<br />

Il caso dell’Europa ovviamente è complesso, perché esiste una storia e una struttura di<br />

identità. I due modelli che descrivevi, quello francese e quello inglese, infatti, hanno a<br />

che fare con una storia europea di stati nazionali in larga parte monoetnici. Possiamo<br />

aggiungere che in Europa esiste, o è esistito, un modello anche di non integrazione,<br />

ossia quello tedesco: fino a poco tempo fa in Germania i lavoratori stranieri non avevano<br />

il diritto di cittadinanza; oggi forse le cose sono un po’ cambiate e mi pare che la<br />

legislazione tedesca consenta il diritto di cittadinanza almeno ai figli dei lavoratori<br />

stranieri nati sul suolo germanico, ossia applica lo “ius solis”, come in Francia o in<br />

America, ma fino a poco tempo fa non era così.<br />

Voglio dire ancora una cosa in risposta anch’io a Carlo, e poi torniamo alla questione<br />

della professoressa Fierro.<br />

Anch’io penso che sia importante conciliare il diritto alla differenza con il principio<br />

dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e che ci sono delle diversità fra<br />

individui, fra culture o fra religioni che sono delle diversità che io chiamerei “neutre”, e<br />

cioè che hanno a che fare per esempio con il modo di mangiare, il modo di vestire.<br />

Accanto a queste, però, ci sono delle diversità più profonde, più rilevanti, tra società o<br />

tra culture, ed hanno a che fare , per esempio, con la dignità della persona umana, che<br />

richiamava Di Leo prima, la parità dei sessi o la libertà degli individui.<br />

Queste sono delle diversità non neutre, ma anzi distinguono nettamente fra una società<br />

e un’altra, fra una cultura e un’altra.<br />

E fra i valori condivisi, cui si riferiva Di Leo all’inizio, io penso che quelli fondamentali,<br />

che devono essere riconosciuti in tutte le società, siano il rispetto della dignità umana,<br />

l’inviolabilità dei diritti umani e individuali e la parità fra i sessi.<br />

Questo è un punto importante nel processo di integrazione degli immigrati, nel cercare<br />

di definire un modello nostro, guardando all’esperienza di altri paesi e cercando di<br />

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attuare nel concreto un qualcosa che abbia da un lato un legame con la storia, con le<br />

radici della società e della cultura italiana in cui viviamo e dall’altro guardi criticamente<br />

alle esperienze di altri che ci hanno preceduto in questa esperienza molto complicata e<br />

tumultuosa dell’ accoglienza e dell’integrazione degli immigrati.<br />

Per quanto riguarda la questione del legame degli ebrei con la terra promessa e le radici<br />

della storia di Israele, è un tema complicatissimo, ma io direi questo: gli ebrei, dopo la<br />

diaspora, hanno vissuto dispersi in varie parti del mondo e indubbiamente il legame<br />

sentimentale, affettivo con Sion, con la terra d’Israele, con la terra promessa, che<br />

richiama appunto la storia biblica della Genesi e cioè la rivelazione di Dio ad Abramo e<br />

l’indicazione ad Abramo da Ur, nell’attuale Iraq, di peregrinare nel deserto e di giungere<br />

finalmente alla terra promessa e lì edificare un paese e una religione ispirata al<br />

monoteismo, ha caratterizzato la storia ebraica per duemila anni. Gli ebrei nelle loro<br />

celebrazioni, nelle loro preghiere, in particolare nei giorni del Pesah, della Pasqua,<br />

ricordavano questo legame con Sion e dicevano: “La nostra è una condizione di<br />

schiavitù, fino ad oggi siamo stati schiavi ma un giorno saremo liberi a Gerusalemme, un<br />

giorno saremo liberi in Sion, un giorno saremo liberi nella terra promessa”.<br />

Quindi quest’idea della schiavitù, delle restrizioni, della persecuzione e della diaspora,<br />

contrapposta a un mondo di liberazione e di libertà nella terra promessa è stata,<br />

nell’immaginario ebraico, per duemila anni, sicuramente radicata.<br />

Molti pensatori ebrei sostengono che per secoli questo legame sia stato soltanto<br />

affettivo, sentimentale e in fondo l’Ebraismo è una religione della diaspora e il legame<br />

con lo spazio fisico, da quando il tempio di Gerusalemme fu distrutto da Tito nel 70<br />

dopo Cristo, è una cosa secondaria.<br />

L’ebraismo è una religione più del tempo che dello spazio. Il luogo materiale è poco<br />

importante, da quando il tempio è stato distrutto e gli Ebrei hanno trasformato la loro<br />

religione in un qualcosa che si può vivere nella casa o nelle sinagoghe o dovunque sia<br />

possibile, senza bisogno di un riferimento fisico.<br />

Nella storia poi, molto più recente, dalla fine dell’800, dell’ inizio dell’immigrazione<br />

ebraica in Palestina, e poi anche della nascita del movimento sionista, come lei<br />

ricordava, fondato da Herzl, sì, certo, c’è questo richiamo sentimentale a Sion e alla<br />

terra promessa, ma l’idea soprattutto era cercare di fuggire dall’antisemitismo europeo<br />

e di fondare uno stato in cui gli ebrei fossero padroni del proprio destino.<br />

Questa è un’idea fortemente laica. Gli Ebrei sono giunti molto tardi, per le loro vicende<br />

storiche, al nazionalismo, all’idea di fondare uno stato o nazione, rispetto all’esperienza<br />

ottocentesca dei nazionalismi europei, e ci sono giunti essenzialmente per ragioni che<br />

hanno a che fare con l’antisemitismo. Se non ci fosse stato l’antisemitismo,<br />

probabilmente gli ebrei sarebbero vissuti nei paesi in cui vivevano, cioè in Europa o nel<br />

mondo islamico o altrove nel resto del mondo.<br />

Ma la spinta fortissima è giunta alla fine dell’800 soprattutto per l’antisemitismo russo e<br />

polacco.<br />

Difatti gli inizi dell’immigrazione ebraica in Palestina sono lì.<br />

Poi, successivamente, nasce l’antisemitismo più occidentale, francese soprattutto,<br />

ricordate l’affare Dreyfus nel 1894-95. Il movimento sionista nasce ufficialmente dopo<br />

l’affare Dreyfus. Nel 1897, per la prima volta, il movimento sionista si organizza per<br />

cercare di fare immigrare gli ebrei da qualche parte nel mondo. L’idea della Palestina<br />

aveva a che fare con questo legame sentimentale che dicevo, ma non era il luogo fisico<br />

a cui gli Ebrei dovevano necessariamente tendere, tanto che il movimento sionista provò<br />

per alcuni decenni, forse queste cose le sapete, a trovare altri luoghi in cui gli Ebrei<br />

potessero andare, l’Argentina o l’Uganda o il Madagascar, ovunque fosse possibile che le<br />

potenze mondiali riconoscessero agli ebrei un luogo in cui avrebbero potuto fondare una<br />

propria comunità più o meno statuale.<br />

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Poi, per un insieme di ragioni, questo non è successo, probabilmente anche il legame<br />

sentimentale degli Ebrei con la terra promessa ha contato, e quindi a un certo punto si è<br />

compiuta questa scelta storica, negli anni ’20 e ’30, quella di fondare una nuova casa,<br />

inizialmente una nuova comunità. Con molta opposizione: si opposero gli inglesi, che<br />

erano la potenza mandataria britannica in Palestina, e si opposero gli arabi.<br />

Questo molto prima dell’idea di stato, perché l’idea di uno stato ebraico, di uno stato di<br />

Israele è nata soltanto nel pieno della seconda guerra mondiale. Solo nel 1942 il<br />

movimento sionista decise di fondare uno stato, in una situazione assolutamente<br />

disperata. Prima l’idea era di fondare una comunità che coesistesse in qualche modo con<br />

gli arabi. Allora la Palestina era sotto il mandato britannico e nessuno pensava che tale<br />

mandato sarebbe finito nel 1947, quindici diceva: “Fondiamo intanto una comunità,<br />

cerchiamo di stabilirci fisicamente lì”, ma l’idea di uno stato è successiva, è chiara a<br />

partire dal1942.<br />

Soltanto in anni molto più recenti, negli anni ’70, dopo la guerra dei sei giorni, dopo<br />

l’occupazione da parte di Israele soprattutto della parte araba di Gerusalemme, dei<br />

cosiddetti luoghi santi, che prima erano sotto il dominio giordano e del resto della<br />

Cisgiordania, lì, soltanto negli anni ’70, si rafforza un’idea, che prima era del tutto<br />

minoritaria, del movimento sionista e cioè che questo ritorno degli Ebrei in Palestina sia<br />

qualcosa voluto da Dio, sia un miracolo divino, sia un qualcosa che Dio ha consentito agli<br />

ebrei, e noi dobbiamo appieno, come ebrei, accogliere il miracolo.<br />

Il ritorno ai luoghi santi e a Gerusalemme è stato molto significativo nel rafforzare<br />

quest’idea, ripeto, prima minoritaria, del ritorno alla terra promessa come un precetto<br />

divino che gli ebrei e l’Israele contemporaneo devono pienamente riconoscere ed<br />

attuare.<br />

Ciò ha complicato molto le cose dal punto di vista soprattutto del conflitto israelo-<br />

palestinese, della coesistenza fra ebrei e arabi in Palestina, soprattutto nelle<br />

componenti religiose, sia ebraiche che arabo-palestinesi. A questo punto la terra è<br />

contesa non soltanto tra due popoli ma tra due religioni contrapposte che rivendicano la<br />

sacralità dei luoghi , cari agli uni e agli altri.<br />

La realtà è complicata perché un conflitto territoriale-politico, già difficile da risolvere<br />

di per sé, è diventato per alcuni, non per tutti, anche un conflitto di religioni<br />

contrapposte.<br />

Questo tema della terra promessa è stato perciò un catalizzatore di ulteriore<br />

contrapposizione, di ulteriore violenza, ed è un tema che continua ad attanagliare il<br />

dibattito contemporaneo nel tentativo di risolvere tale conflitto.<br />

Prof.ssa Fierro: Penso a questo punto che le lungaggini del nostro Parlamento abbiano<br />

impedito ad Alì Rashid di raggiungere la nostra scuola.<br />

Ci dispiace molto che non abbia potuto partecipare, però fino a ieri non era<br />

assolutamente previsto e d’altra parte il capogruppo gli ha imposto di rimanere perché<br />

la votazione è importante. Quindi a questo punto non credo che verrà più e ci dispiace<br />

perché manca naturalmente quest’altra voce.<br />

Do la parola al dottor Naso, per concludere quest’ ultima riflessione.<br />

Dott. Naso: Concludere mi sembra una parola grossa, nel senso che vorrei che fosse<br />

chiaro questo: anche se noi schematizziamo in formule precise, il problema che voi<br />

avete posto oggi è un problema di eccezionale rilevanza in Italia, in Europa e nel mondo.<br />

Le ricette non esistono. Da qui quella mia provocatoria puntualizzazione rispetto alla<br />

prima domanda che abbiamo ricevuto, perché mi sembra, dal vostro silenzio rispetto a<br />

quella mia provocazione, che almeno siamo tutti quanti consapevoli che la strada<br />

obbligata è una strada di promozione di politiche di integrazione. Cioè che nessuno<br />

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persegua quel mito, che ha lungamente condizionato una fase politica italiana ed<br />

europea, del pensare che l’immigrazione non esiste, che l’immigrazione è un fenomeno<br />

temporaneo e reversibile. Qualcuno pensa che se pure esiste, il problema non riguarda<br />

l’Italia perché comunque poi le immigrazioni puntano a spostarsi in paesi dal punto di<br />

vista migratorio più appetibili, come l’Olanda. Non è vero.<br />

E poi d’altra parte oggi l’Italia ha un bisogno consistente di quote crescenti di<br />

manodopera immigrata e l’unico problema, l’unica parola chiave, decisiva per<br />

promuovere intelligenti strategie a riguardo è la parola “governance”, governo di questi<br />

processi, cioè non la negazione, ma il governare questi processi in modo tale che i flussi<br />

siano ordinati, che la gente che arriva abbia un percorso d’integrazione, che sia un<br />

percorso virtuoso che arricchisce la società, consolida il nostro patto civile, il patto di<br />

cittadinanza; insomma sono davvero percorsi molto complessi.<br />

Questa mezza giornata ha ragionato soprattutto di questo; c’è stata una domanda,<br />

quella definita<br />

“teologica”, che mi lascia con mille punti interrogativi e mille dubbi: cioè le religioni,<br />

con la loro pretesa di risposta definitiva, assoluta ed esclusiva alla domanda della<br />

salvezza, non rischiano di essere in sé un fatto, un fenomeno di conflitto? Possiamo<br />

sognare, senza essere eretici, un approccio soft, morbido alle verità religiose per cui pur<br />

nella consapevolezza della preziosità di ogni identità, si riconosce anche l’altro?<br />

Insomma per me è una domanda decisiva. E’una domanda che trova risposta non nella<br />

dogmatica delle agenzie religiose, ma nella pratica dei credenti, di chi poi vive<br />

l’esperienza religiosa.<br />

Se Giorgio me lo permette, vorrei raccontare un midrash. Un midrash è un modo<br />

intelligentissimo e divertentissimo della tradizione ebraica per raccontare grandi verità.<br />

Quindi apparentemente il midrash è un aneddoto, in realtà è un’interpretazione della<br />

tradizione biblica. Il midrash che mi è venuto in mente, sentendo la sua domanda,<br />

racconta di un pio rabbino il quale muore, ma essendo stato molto pio in vita sua, ha un<br />

diritto che nessun’altro ha. Gli angeli, quando vanno a prelevarlo per portarlo in cielo,<br />

gli dicono: “Caro rabbino, sappi che tu hai il diritto di portare con te in cielo una cosa,<br />

soltanto una.” E allora il rabbino si chiede: “Che cosa porto con me in cielo?” E riflette:<br />

“La Torah, la legge del Signore, ce l’ho nella mia testa e ce l’ho nel mio cuore. Il pane e<br />

gli altri oggetti che servono per rispettare le mitzvot, le diverse regole, non mi servono<br />

nel cielo dei cieli”. Ci pensa ancora un po’ e dice agli angeli: “ Io voglio portare in cielo<br />

il suono delle campane di quella chiesa che è di fronte a me”.<br />

Il rabbino porta in cielo quello che non gli è appartenuto in vita, ciò che è diverso da<br />

lui. Ecco, mi piace rispondere alla sua domanda dicendo: le religioni potranno avere un<br />

ruolo positivo anche sul piano dei processi civili quando sapranno amare quello che non<br />

gli appartiene.<br />

Prof.ssa Fierro: Ringraziamo le persone che ci hanno oggi dato tutto questo tempo e<br />

quest’attenzione e ci hanno proposto ancora riflessioni che sono sicura resteranno nella<br />

vostra mente e nel vostro cuore. Sono certa che uscendo da qui avrete anche motivo di<br />

discussione e di critica come sempre è accaduto. Vi auguro buona fine d’anno scolastico<br />

e speriamo l’anno prossimo di fare lavori di approfondimento altrettanto belli e di<br />

avvalerci di persone altrettanto ricche. Arrivederci.<br />

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P a r t e s e c o n d a<br />

Le riflessioni degli studenti<br />

- 81 -


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dal prof. Giorgio Gomel<br />

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“Conosco la mia identità solo nel<br />

rapporto con te.”<br />

È’ ormai tradizione consolidata del nostro liceo la partecipazione ai progetti organizzati<br />

dalla prof.ssa Fierro sui più svariati temi di attualità. Il titolo del progetto di quest’anno<br />

è “Religione e convivenza civile”, tema che senza dubbio ci vede coinvolti da vicino in<br />

quelle che sono le numerose problematiche attuali nel rapporto tra culture diverse.<br />

Giorgio Gomel, direttore delle relazioni internazionali della Banca d’Italia ha tenuto una<br />

conferenza nel nostro liceo come rappresentante della comunità ebraica, specificando<br />

oltre alle tematiche più generali, in particolare la propria esperienza come membro<br />

della minoranza semita, la quale, per la sua storia, rappresenta quantomeno un esempio<br />

significativo, se non addirittura il paradigma del problema della convivenza civile con gli<br />

altri popoli.<br />

Il problema è il rapporto tra culture diverse, problema che ha origini antichissime nella<br />

storia e che mai ha trovato soluzioni definitive; esso necessita di sensibilità e apertura<br />

come di rigore e scientificità per essere affrontato, senza tuttavia alcuna pretesa di<br />

esaurirne l’enorme portata. Non è facile armonizzare i bisogni di culture diverse che si<br />

trovano a convivere, sia su un piano squisitamente teorico, sia soprattutto su quello<br />

pratico. Il punto di partenza, già di per sé molto complesso è definire la propria<br />

identità, quell’insieme molteplice di esperienze, gusti, appartenenze, tutti quegli<br />

elementi che costituiscono ogni individuo e ogni popolo. È fondamentale riconoscere le<br />

differenze tra le identità dei popoli senza scadere in forme ridicole e terribili di<br />

razzismo che crea una gerarchia delle identità, offendendo profondamente il sentire<br />

umano. Sono proprio queste differenze che, se riconosciute e accettate pacificamente,<br />

storicamente hanno portato ad un enorme progresso economico, scientifico, letterario<br />

nelle società di ogni tempo. Dunque questa famigerata “diversità” che tanto ha<br />

spaventato e purtroppo ancora oggi spaventa molti ad un primo superficiale impatto, è<br />

la ricchezza più grande, l’elemento costitutivo dell’umanità, e andrebbe concepita in<br />

quanto tale da tutti coloro che, attaccati infantilmente alla propria debole identità,<br />

impauriti dal “diverso” ancora oggi si ostinano a chiudere tutte le porte nei confronti<br />

delle altre culture.<br />

Il popolo ebraico, il “popolo disperso tra i popoli”, che nella sua storia ha sempre<br />

rivestito il ruolo di minoranza, un ospite o un nemico in terre straniere, è l’esempio più<br />

eclatante del dolore da una parte, e del beneficio dall’altra, che la condizione di<br />

minoranza porta con sé. Se da un lato infatti gli ebrei sono stati soggetti nel tempo a<br />

discriminazioni, persecuzioni, fino ad arrivare al genocidio dell’olocausto, dall’altro<br />

proprio il doversi porre sempre in rapporto con culture diverse ha prodotto quella<br />

fusione tra la cultura ebraica e quella dei popoli ospitanti, che ha fatto fare passi da<br />

gigante alla scienza, all’economia, alla letteratura. Un’esperienza multiculturale vissuta<br />

civilmente, come testimonia la storia del popolo ebraico, è possibile e può portare un<br />

grande beneficio per il progresso dell’intera umanità, oltre che per l’arricchimento<br />

interiore dei singoli individui.<br />

Ma il punto nodale, il più complesso e difficile da affrontare, che poi è la sintesi di tutto<br />

il problema della convivenza di culture diverse è il dover conciliare l’uguaglianza di tutti<br />

di fronte alla legge, alle regole, ai diritti e ai doveri etc, con le diversità che ogni


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individuo e ogni popolo ha il diritto di poter conservare. Il discorso è molto difficile e<br />

sottile se non si vuole attentare da una parte all’uguaglianza degli uomini, dall’altra al<br />

diritto alla diversità. Per quanto concerne il fenomeno dell’immigrazione, infatti,<br />

quando è un singolo a emigrare in un altro paese, in genere la volontà o meglio il<br />

bisogno di essere accettato fa si che si sviluppi nell’individuo una pulsione assimilatoria<br />

che lo porta a perdere progressivamente la propria cultura, le proprie tradizioni, le<br />

proprie origini; ma quando ad emigrare sono dei gruppi consistenti di persone, i bisogni<br />

e le richieste cambiano: gli stranieri chiedono di essere trattati con uguaglianza per<br />

certi versi, con diversità per altri, nel rispetto delle esigenze che la cultura (impone?). Il<br />

problema dunque è anche strettamente pratico poiché risulta molto difficile passare dal<br />

concetto ideale alla pratica nella convivenza.<br />

L’Italia non è mai stata una società multi-etnica, dunque non è assolutamente abituata<br />

al fenomeno della convivenza civile con altre culture tipica di molti altri paesi. Gli ebrei<br />

in Italia hanno rappresentato l’unica minoranza “diversa” che per ben duemila anni ha<br />

vissuto permanentemente in Italia, ma non è mai avvenuta una accettazione della<br />

cultura ebraica tanto che la cultura dominante ha sempre cercato di emarginare la<br />

minoranza ebraica con la segregazione che trova la sua massima espressione nella<br />

costruzione del ghetto ebraico. Solo negli ultimi 15 anni in Italia ha avuto inizio il<br />

fenomeno dell’immigrazione massiccia con una velocità e una dinamicità impressionanti,<br />

anche se tuttora il numero di stranieri in Italia risulta molto esiguo rispetto a quello<br />

degli altri paesi europei.<br />

Solo nel 1987 la comunità ebraica ha firmato le intese con lo stato italiano, che risultano<br />

essere una sorta di mediazione tra la rivendicazione delle diversità della cultura ebraica<br />

e l’accettazione degli ebrei di sottoporsi alle leggi italiane. Così per esempio se da una<br />

parte gli ebrei accettano di seppellire i propri corpi secondo le leggi dello stato italiano,<br />

che sono tuttavia contrarie alla tradizione semita, lo stato italiano riconosce le festività<br />

ebraiche. Questo è solo un esempio di come si possano trovare dei punti di mediazione<br />

tra le esigenze di culture diverse nell’accettazione e nel riconoscimento delle “diversità<br />

neutre”, come le chiama Giorgio Gomel, cioè le differenze che non sono così profonde o<br />

fondamentali come il modo di vestire, di mangiare etc.<br />

È questa la strada che bisogna percorrere, su cui almeno occorre indirizzarsi nel<br />

rapporto inter-culturale, nella consapevolezza e nella convinzione della ricchezza e<br />

della fecondità dello scambio tra culture diverse, e nella speranza del raggiungimento di<br />

una convivenza civile pacifica, almeno in Italia.<br />

- 83 -<br />

Massimo Colagiovanni


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dal prof. Giorgio Gomel<br />

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Il giorno 13-01-2007 è intervenuto, nella conferenza organizzata dalla prof.ssa Fierro in<br />

tema di religioni e convivenza civile, Giorgio Gomel, direttore delle pubbliche relazioni<br />

della Banca d’ Italia, in quanto esponente della cultura ebraica.<br />

Il dottor Gomel ha incentrato il suo discorso sull’ identità, il confronto interculturale, la<br />

convivenza e il rispetto reciproco, analizzando in modo particolare questi elementi<br />

all’interno della storia ebraica. Gli ebrei possono essere considerati un esempio<br />

paradigmatico per le altre minoranze: infatti, a partire dalla loro dispersione per il<br />

mondo, la diaspora, hanno sempre costituito una realtà minoritaria nelle società<br />

ospitanti, e con questa dimensione di minoranza hanno dovuto imparare a convivere.<br />

Partiamo dal presupposto che di questi tempi il tema dell’identità viene eccessivamente<br />

enfatizzato, che la gerarchia tra identità porta a nuove forme di razzismo che è<br />

inaccettabile esattamente quanto il mito dell’ uguaglianza: gli uomini sono uguali poiché<br />

appartengono tutti al genere umano, ma le differenze vanno riconosciute e considerate<br />

preziose, perché solo il pacifico confronto tra le civiltà, e quindi tra le diversità, può<br />

portare al progresso delle stesse. Come diceva Levi Strauss, le varie culture devono<br />

creare un punto di equilibrio tra uguaglianza e rispetto delle diversità, e per dirla con<br />

Martin Wubert, l’uomo può arrivare a comprendere la sua propria identità solo dal<br />

confronto con l’altro, con il diverso.<br />

Le minoranze ebraiche, venendo a contatto con altre culture e civiltà, sono state in un<br />

certo senso “costrette” al confronto con realtà maggioritarie e diverse, ed hanno<br />

formato una propria identità dalla fusione di alcuni elementi culturali propri con altri<br />

delle società ospitanti.<br />

Quella italiana è una realtà complessa, poiché la nostra società non è mai stata<br />

multietnica, non ha mai costituito lo scenario adatto per la convivenza tra culture<br />

diverse, e per questo la soglia di tolleranza verso il “diverso” è molto bassa, ci sono casi<br />

di razzismo un po’ ovunque e in generale una diffusa diffidenza verso le ondate<br />

migratorie intensificatesi sempre più negli ultimi dieci anni. E’ stato proprio il<br />

dinamismo di questo fenomeno, di rapidissimo sviluppo, a destare perplessità, a<br />

traumatizzare, e questa chiusura rappresenta un problema concreto, che andrebbe<br />

affrontato con un’adeguata educazione ala convivenza civile.<br />

Gli ebrei, per millenni, hanno costituito l’unica minoranza italiana, e l’unico caso di<br />

convivenza ebraica persistente in Europa, per duemila anni, da quando vennero<br />

deportati in Italia da Tito. A metà ‘500 la Chiesa cattolica creò i ghetti, per separare<br />

fisicamente dal resto della popolazione le minoranze ebraiche, che hanno dovuto<br />

condurre un’esistenza emarginata per oltre tre secoli, fino al 1343, con la legge sul<br />

diritto di emancipazione, e l’ uscita dai ghetti. Questa ghettizzazione, allora fisica, oggi<br />

spesso psicologica, del diverso è assurda, perché in uno stato di diritto tutti dobbiamo<br />

godere delle stesse opportunità, compresi il diritto di differenza e quello di uguaglianza<br />

davanti alla legge, che sono i fondamenti della convivenza civile e devono caratterizzare<br />

la società al di là delle diversità neutre, come il modo di vestire, o quello di mangiare.<br />

Nel 1937 la comunità ebraica italiana ha siglato un’ intesa con lo Stato, in cui gli Ebrei<br />

hanno accettato le norme per la sepoltura italiane, che non prevedono il rito di<br />

sepoltura ebraico (avvolgere il cadavere in un lenzuolo bianco e seppellirlo direttamente<br />

nella terra), mentre ad essi sono stati riconosciuti il rispetto delle festività ebraiche<br />

nelle scuole e negli uffici dove il diritto di astensione al lavoro nei giorni festivi prevede<br />

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il recupero dei giorni perduti in maniera flessibile. Inoltre agli Ebrei è stata garantita la<br />

possibilità di rispettare le abitudini alimentari proprie della loro tradizione, inclusa la<br />

procedura di macellazione della carne, differente dalla nostra.<br />

A tale exursus sulla cultura ebraica, e sui rapporti di convivenza civile in Italia, è seguito<br />

poi un lungo momento di interazione, nel quale gli studenti hanno avuto la possibilità di<br />

porre una serie di domande al sig. Gomel, inerenti al tema trattato. Dal dibattito che ne<br />

è derivato sono emerse problematiche più che mai vaste e complesse, tra cui ricorrente<br />

è stato il tema del riconoscimento dello Stato d’ Israele da parte del popolo palestinese.<br />

Altre domande sono andate invece a vertere sull’ ambito sociologico, laddove<br />

fondamentale è stato il dibattito circa il sorgere dei “nuovi ghetti” che, secondo il sig.<br />

Gomel, coincidono in primis con le scuole, che ad un pluralismo teoricamente doveroso<br />

contrappongono una aconfessionalità manifesta. Interessante è risultata anche la<br />

riflessione sulla tematica dell’ identità che, in quanto caratterizzata da molteplici<br />

spaccature, non può e non deve essere sventolata a piacimento, similmente ad una<br />

bandiera; infatti risulta semplice, da ciò scivolare in quella che si può definire “l’<br />

ossessione della propria identità”, giungendo ad un’ inevitabile gerarchizzazione delle<br />

culture e delle identità stesse.<br />

Infine, numerosi sono stati i quesiti in materia politica, che hanno evidenziato l’ accusa<br />

verso episodi di rigurgiti nazisti ed antisemiti, ai quali Gomel contrappone la volontà di<br />

riflessione e il dialogo, volti all’ eliminazione dell’ ignoranza e del pregiudizio, che più<br />

di ogni altra cosa dobbiamo temere.<br />

In conclusione nella conferenza sono state esplicate e ribadite problematiche forse già<br />

note, ma arricchite da spunti di riflessione, tutti tesi allo sradicamento della persistente<br />

xenofobia, a vantaggio della tolleranza e della convivenza tra popoli e culture.<br />

- 85 -<br />

Flaminia Di Lorenzo<br />

Arianna Sorrentino<br />

Silvia Staffa


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dall’on. Alì Rashid<br />

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Ali Rashid primo segretario della delegazione palestinese in Italia, oltre che<br />

ambasciatore di pace al parlamento europeo,è stato ospite del <strong>Liceo</strong> classico Orazio<br />

in occasione di una delle quattro conferenze,promosse con particolare entusiasmo dalla<br />

professoressa Fierro,riguardanti il rapporto tra le religioni e convivenze civili,in<br />

particolare le tre monoteiste.La questione non è,dunque,di piccola portata ed ha<br />

attirato un grande interesse tra studenti,professori e personalità esterne alla<br />

scuola,come l’assessore alla provincia,Monteforte,la quale è intervenuta personalmente<br />

in quest’ultima conferenza.<br />

E' necessario rinunciare ad ogni sorta di fanatismo e intransigenza,sforzarsi di ascoltare<br />

l’altro e con il dialogo affrontare insieme i problemi:questo è il messaggio con cui Ali<br />

Rashid ha aperto la conferenza,un messaggio rivolto soprattutto ai giovani.Essi infatti<br />

sono il futuro e,se non vengono educati ai buoni principi,si mette in discussione la<br />

stabilità e la pace del mondo intero,in una realtà che già al presente,da questo punto di<br />

vista,è poco confortante. Deve comunque ammettere Ali Rashid che anche la<br />

politica,che dovrebbe essere una guida e un esempio da seguire per la popolazione,non<br />

è in grado di mettere in pratica questo atteggiamento e, di conseguenza, di affrontare<br />

la situazione in modo soddisfacente. Bisogna innanzitutto “ripristinare il ruolo della<br />

politica,come unico messaggero di pace e di rispetto per il mondo intero”;ottenuto ciò<br />

si può pensare ad una maggiore diffusione dei veri principi e all’ acquisizione di risultati<br />

concreti. Monteforte si esprime in termini molto chiari e ,se vogliamo,più<br />

diretti:secondo lei la tendenza oggi è quella di fare una politica delle religioni,in una<br />

logica di antagonismo e di competizione ,mentre sarebbe opportuno”convivere<br />

condividendo”,uno scambio reciproco,portatore di nuova linfa per il genere umano.<br />

Rashid pur condividendo l’opinione della Monteforte e apprezzando la sua fiducia per un<br />

ristabilimento delle situazione ,deve pur sottolineare che le situazione è davvero<br />

complessa e,anche quando c’è una sincera volontà di migliorare,alcuni ostacoli sono così<br />

grandi che,a volte sembrano insormontabili.Questo non vuol dire che Ali Rashid non<br />

nutra forti speranze per il raggiungimento di un accordo:anzi,anche lui sa che con i<br />

dovuti provvedimenti è possibile ristabilire un ordine nel mondo ma ci invita a non<br />

sottovalutare l’entità dei problemi.<br />

Nella seconda parte delle conferenza,quella più ampia e ricca di contenuti siamo stati<br />

invitati a partecipare al dibattito che è stato più vivo delle attese.Gli studenti,dopo aver<br />

vinto un primo momento di soggezione, si sono fatti avanti con domande tanto inerenti e<br />

interessanti che hanno fatto meravigliare lo stesso Ali Rashid .I professori hanno<br />

apprezzato non solo i contenuti del suo discorso ma anche la sua pacatezza e<br />

moderazione nel trattare argomenti così delicati, e sono rimasti affascinati a tal punto<br />

che c’è stato chi ha chiesto al parlamentare un metodo per educare i giovani a saper<br />

ascoltare.Non sono mancate le domande,ed esse,in generale,riguardavano oltre la<br />

suddetta questione palestinese anche il fenomeno del terrorismo,i conflitti religiosi ,<br />

politici e sociali,l’emarginazione delle donne e il rispetto dei diritti umani. La<br />

guerra,dice Rashid non solo non è,e non potrà mai essere,strumento di pace, ma<br />

insuperbisce gli animi e spinge gli uomini alla violenza materiale e spirituale.<br />

L’esplosione di continue violenze, governi inefficienti e incapaci di controllare la<br />

situazione ,la crescita del malcontento della popolazione,tutto vale a peggiorare lo stato<br />

delle cose.E dove non interviene la politica prende posto la religione;e quando anche la<br />

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religione trova difficoltà ad affrontare i problemi con misure moderate, essa si<br />

inasprisce e… nasce il fondamentalismo.Un errore che l’Occidente spesso commette è,<br />

secondo Rashid,quello di attribuire al solo mondo islamico il fenomeno del<br />

fondamentalismo religioso,senza ammettere che in realtà del fondamentalismo c’è e c’è<br />

stato in tutte le religioni,non esclusa quella cattolica che,spinta da momenti di profonda<br />

esaltazione e di fanatismo ha commesso grandi e gravi errori che non<br />

possono,certamente,essere dimenticati. Da questo momento in poi il viso di Ali Rashid<br />

non trasmetteva più quella sicurezza che aveva dimostrato all’inizio,quando esortava gli<br />

ascoltatori ad essere esempio di rispetto e di apertura verso gli altri.Ora il suo sguardo e<br />

i lineamenti diventano più tristi e sommessi,in particolare quando ci si addentra sempre<br />

più nelle difficoltà,nelle questioni irrisolte,nelle disuguaglianze,nelle ingiustizie,in tante<br />

speranze ,anche e soprattutto della sua gente, andate deluse.<br />

Sicuramente il fondamentalismo è una forma di opposizione arretrata ma è soprattutto<br />

la mancanza di governi stabili che ne causa l’aumento.La popolazione infatti,sottolinea<br />

Rashid,è portata a migliorare, ma i governi arabi corrotti non trovano la possibilità di<br />

un cambiamento. Anche in questo caso egli tiene ad evidenziare che c’è una<br />

responsabilità dell’Occidente riguardo la situazione dei governi arabi che spesso hanno<br />

subito le conseguenze di avvenimenti a loro estranei,come nel caso dell’Africa che negli<br />

anni sessanta era un paese più”dinamico”,e che dovette però pagare “il prezzo della<br />

Guerra Fredda”.Inoltre la maggior parte degli Stati arabi sono stati delineati dalle<br />

potenze europee “a tavolino” senza tener conto delle istanze della popolazione,né delle<br />

diversità ideologiche,culturali e religiose causando forti tensioni sfociate molto spesso in<br />

violenti conflitti armatiAlla base del fondamentalismo ci sono,dunque, motivi non solo<br />

locali,ma anche nazionali ed internazionali.Esso deve essere distrutto e con questo<br />

anche ogni forma di negazione dei diritti umani, di intransigenza ed esaltazione,tutto<br />

ciò che comporta guerra e violenza.Il terrorismo in primis,dunque deve essere<br />

annientato essendo “il terrorismo funzionale alla guerra e la guerra funzionale al<br />

terrorismo”.Anzi,la guerra è una vera e propria forma di terrorismo ingiustificata.Come<br />

combattere il terrorismo?A questa domanda,dice Rashid,non c’è una risposta<br />

univoca.Esistono,infatti,vari mezzi per sconfiggere questa forte minaccia per il mondo<br />

intero,uno dei quali ,e quello essenziale,è la presenza di uno Stato di diritto,unico in<br />

grado di garantire il rispetto dei diritti umani,e la concordia reciproca.Come l’Italia non<br />

si è “snaturata”nella lotta contro il terrorismo,così è necessario mantenere uno Stato di<br />

legalità.Bisognerebbe ,inoltre, opporsi alla pena di morte e combattere per la libertà<br />

della donna,la cui condizione è tristemente legata alla situazione politica,economica e<br />

sociale delle diverse realtà.In effetti,è proprio il Corano che stabilisce una netta<br />

discriminazione tra l’uomo e la donna.E' scritto ,ricorda Rashid,che un uomo vale due<br />

donne,e che la donna non è responsabile del mantenimento economico della<br />

famiglia,né può avere un proprio patrimonio pur lavorando,sì è vero…Tuttavia nella vita<br />

quotidiana le cose oggi sono cambiate,egli assicura ,e la società è più aperta nei<br />

confronti della donna.A chi ha contestato ciò portando ad esempio casi di donne anche<br />

giovani uccise dai mariti o dai padri per aver cercato di conformarsi ad uno stile di vita<br />

troppo libero ed aperto,più simile a quello occidentale,Ali Rashid rimprovera ,a sua<br />

volta, la tendenza a generalizzare un caso singolo per estenderlo addirittura ad una<br />

intera popolazione e ricorda che casi di estrema intransigenza finiti tragicamente tra<br />

mariti e mogli e tra padri e figli sono attestabili in ogni parte del mondo.<br />

Si,deve,insomma,a tutti i costi porre fine alla guerra e alle ingiustizie!.Prima del<br />

termine del discorso, Rashid è stato interrotto da un grande applauso da parte di<br />

tutti,segno di un consenso,ma anche di ringraziamento.<br />

Dunque Ali Rashid è moderato,fautore del dialogo e dell’ uso di mezzi non<br />

violenti,perché è convinto che dalla violenza non possa che derivare altra violenza in un<br />

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ciclo continuo ed infinito.Molte violenze sono state commesse dalle diverse parti del<br />

mondo a discapito di altri,ma ora è arrivato il momento di cedere le armi e stringersi la<br />

mano…Allora che rapporto c’è tra ricordo ed oblio?La ragazza che ha formulato questa<br />

domanda ha posto l’interrogato in una difficile situazione.Non che egli non sapesse<br />

rispondere,ma è sottile l’argomento e va a tastare i ricordi del suo<br />

paese,Gerusalemme,che più di una volta ha citato con una forte nostalgia,e poi la sua<br />

famiglia,il suo popolo,le sofferenze e le ingiustizie subite da lui stesso con la prigionia e<br />

l’esilio. Come dimenticare quel 1948 quando i 2/3 dei Palestinesi sono stati costretti a<br />

lasciare la loro terra per fuggire in campi di rifugiati ,(luogo che da sempre era destinato<br />

ad accogliere provvisoriamente chi si trovava in uno stato di emergenza e che ora è<br />

diventato permanente rifugio di un intero popolo),privati così dei loro diritti,del loro<br />

onore,offesi e umiliati agli occhi del mondo intero?Chi è a conoscenza del fatto che in<br />

Libano,non essendo i Palestinesi attualmente dei cittadini,essi non possono svolgere ben<br />

settantadue tipi di lavoro?Chi sa che in Siria i Palestinesi sono considerati cittadini di<br />

“serie B”?<br />

Nell’aula magna c’è stato un gran silenzio e ognuno riflette profondamente su quello che<br />

Ali Rashid sta dicendo:egli è riuscito ad attirare l’attenzione di tutti gli studenti.<br />

Rashid ricorda che ha chiamato sua figlia Aida,ovvero”colei che ritorna”,c’è quindi in<br />

lui la volontà tornare alla sua terra.Eppure ha dovuto infine ammettere che”per<br />

dimenticare bisogna mettere le persone in condizione di dimenticare;è possibile<br />

conciliare questi due momenti per garantire il futuro”Mi sono venute in mente mentre<br />

parlava le parole di Gigi Bettoli che commentando una intervista fatta ad Ali Rashid nota<br />

che egli “,con il suo tono di voce discorsivo ed il temperamento triste,ha sempre<br />

rappresentato fisicamente il dramma dello sradicamento di un popolo privato della sua<br />

terra e del suo futuro”<br />

Giustizia e violenza,pace e sofferenza,guerra e ragione,passione e dolore,ricordo ed<br />

oblio:questi grandi temi sono stati affrontati da Ali Rashid con sincera emozione e<br />

moderato trasporto,atteggiamenti che sono coerenti con le sue parole.E quando un<br />

uomo riesce a realizzare con i fatti ciò che predica con le parole,credo che possa<br />

davvero raggiungere anche gli obiettivi che per altri possono sembrare irraggiungibili…<br />

Si è conclusa così la conferenza ,con la semplicità e la schiettezza con cui era<br />

cominciata,tra l’approvazione e l’entusiasmo di tutti.<br />

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Rosa Calabrese


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dall’on. Alì Rashid<br />

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Ospite della seconda conferenza sul tema “religione e convivenza civile” è stato<br />

l’Onorevole Ali Rashyd. Nato ad Amman in Giordania, è attualmente impegnato<br />

politicamente in Italia ed è stato eletto parlamentare alla Camera dei Deputati con il partito<br />

di Rifondazione Comunista. Svolge inoltre un importante ruolo all’estero, essendo primo<br />

segretario della delegazione palestinese e ambasciatore di pace del Parlamento Europeo,<br />

impegnato a risolvere il conflitto tra Israele e Palestina. In modo molto pacato, l’Onorevole<br />

Rashyd ha saputo trattare un tema che oggi risulta essere particolarmente delicato: quello<br />

della religione e della convivenza civile. Tale tema richiede la nostra assunzione di<br />

responsabilità, al pari degli altri problemi che gravano sul nostro benessere e sul nostro<br />

sistema sociale, civile e politico.<br />

“Quando la convivenza ed il rispetto entrano in crisi, i risultati sono tragici e devastanti” ha<br />

affermato Rashyd “ma questo dipende solo da noi” ha poi precisato. Con tale affermazione<br />

ha voluto sottolineare quanto sia importante per noi riuscire ad essere pronti (e prepararci)<br />

psicologicamente all’incontro con culture diverse.<br />

Ha quindi descritto il suo ruolo di testimone diretto, protagonista di molteplici esperienze,<br />

quale palestinese costretto ad abbandonare la sua terra d’origine. Provato da queste<br />

esperienze, ha espresso, dal punto di vista razionale, una comprensibile sfiducia nella<br />

possibilità di evitare futuri conflitti. Il fatto che le speranze di soluzione dei conflitti siano<br />

remote è dovuto, ha sostenuto giustamente l’Onorevole Rashyd, ad un’assenza di<br />

partecipazione e d’impegno da parte di tutti noi.<br />

La politica senza partecipazione è inattuabile e non si può e tanto meno si deve parlare di<br />

rispetto solo in senso ed in modo astratto.<br />

Tornando poi ad esaminare le sue esperienze, ha concentrato la sua attenzione sulla<br />

situazione in Palestina, descrivendola come il risultato di una sovrapposizione di gravi<br />

problemi quali l’incapacità d’azione politica e la crescita del fondamentalismo religioso. Tali<br />

problemi, oscurando l’idea di convivenza civile, sono stati, sono e saranno ancora capaci,<br />

se non affrontati, di scatenare tragici conflitti.<br />

Ha quindi terminato ponendo l’accento sull’incapacità della nostra società di valutare a<br />

fondo gli errori del passato ed in primo luogo sulla mancata comprensione che la guerra<br />

come strumento di soluzione dei conflitti ha generato soltanto regresso ed immani sacrifici.<br />

Ha però sottolineato, introducendo una nota di sereno ottimismo, di avere grande fiducia<br />

nelle capacità creative delle nuove generazioni, che hanno il dovere di partecipare alla vita<br />

pubblica per ripristinare e far prevalere il vero ruolo della politica: quello di assicurare la<br />

coesistenza pacifica e la convivenza non solo tra le religioni ma anche tra tutte le cose<br />

che ci circondano perché…”la nostra vita è piena di parole non dette che riempiamo con la<br />

nostra storia”.<br />

Al termine della sua esposizione, l’Onorevole Rashyd, ha risposto ad alcune domande<br />

formulate dai docenti e dagli studenti.<br />

Alla domanda su come si possa educare i giovani ad ascoltare “l’altro” su temi così<br />

importanti, ha risposto che per comunicare occorre una predisposizione pacata al dialogo.<br />

Alla richiesta di individuare il ruolo dell’Italia nell’ambito di tale dibattito, ha precisato di<br />

ritenere giusta la missione in Libano, dove si sta lavorando per mantenere una tregua, più<br />

di quella in Iraq, dove si è intervenuti in una guerra. In tale prospettiva, ha affermato che il<br />

ruolo dell’Italia deve essere sviluppato nella direzione della missione in Libano, ricercando<br />

nel Parlamento un sereno dialogo con le forze politiche dell’opposizione.<br />

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Alla domanda su come ci si può opporre al terrorismo, ha risposto partendo dall’assunto<br />

che anche la guerra promossa dagli stati sovrani è una forma di terrorismo in quanto si<br />

legittimano a vicenda. A questo proposito ha invitato a riflettere sul fatto che, ad esempio,<br />

Al Qaeda è stata creata, armata ed addestrata, durante il conflitto fra Afghanistan ed<br />

Unione Sovietica, dagli stessi USA che oggi la combattono. Al contrario l’Italia, vittima del<br />

terrorismo politico negli anni ’70 ed ’80 lo ha combattuto e vinto senza snaturare la propria<br />

democrazia.<br />

Oltre ad essermi sembrato particolarmente coerente, il discorso di Rashyd mi ha colpito e<br />

coinvolto.<br />

Nonostante le altre due esposizioni, rispettivamente di Gomel e di Di Leo, siano risultate<br />

anch’esse molto coerenti e pertinenti, il discorso dell’Onorevole Rashyd ha suscitato in<br />

me un maggiore interesse.<br />

Tale interesse è derivato, in parte dal fatto che il relatore appariva coinvolto in situazioni<br />

più strettamente attuali, in parte dalla sua stessa persona che, proprio per la sua massima<br />

pacatezza e compostezza, mi è sembrata molto singolare ed affascinante.<br />

Il suo discorso mi ha infine portato a riflettere non solo sul presente ma anche su ciò che<br />

sarà il futuro; anch’io infatti sono fermamente convinto che siamo noi a dover agire<br />

attivamente, perché possiamo farlo, al fine di creare le condizioni per rendere possibile un<br />

pacifico incontro tra le religioni ed una serena convivenza civile tra i popoli.<br />

- 90 -<br />

Adriano Masci


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dall’on. Alì Rashid<br />

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Il secondo degli incontri sul tema “Religioni e Convivenza Civile”, introdotto da un breve<br />

intervento dell’Assessore alle Politiche Scolastiche della Provincia di Roma, Daniela<br />

Monteforte, ha ospitato il deputato di Rifondazione Comunista Alì Rashid, in quanto di<br />

origine islamica e rappresentativo del pensiero di un musulmano immigrato in Italia.<br />

L’impostazione del discorso di Rashid si è però incentrata non tanto sul problema del<br />

rapporto tra i musulmani con la società e la cultura dell’Occidente (tema ovviamente<br />

molto delicato ma allo stesso tempo ricchissimo di spunti, vista la molteplicità dei<br />

rapporti con il proprio credo degli islamici sparsi in tutto il mondo occidentale), quanto<br />

sul problema, sicuramente più generale ma forse un po’ meno pregnante, di come e<br />

quanto la politica debba intervenire per assicurare il mantenimento dello “stato di<br />

diritto” di ogni persona.<br />

Solo lo “stato di diritto”, secondo Rashid, può garantire la convivenza tra religioni<br />

diverse, perché “garantisce un rapporto basato sul reciproco rispetto”; senza questo<br />

fattore “le religioni manifestano l’incapacità, pur se non intrinseca, di rispettarsi”:<br />

un’affermazione simile ritrae con precisione la sua visione d’insieme della religione, che<br />

viene da lui delimitata, in un certo senso, come semplice strumento per la “ricerca<br />

interiore della pace”. Sulla falsariga di questo pensiero, Rashid afferma che le religioni,<br />

in particolare quelle monoteiste, quando perdono il loro vero senso di “incontro per<br />

arricchirsi”, diventano automaticamente strumento di distruzione e di morte: il<br />

terrorismo islamico è uno degli esempi di come la religione, senza il controllo di uno<br />

stato forte, può trasformarsi in strumento per fomentare le masse. Nonostante tracci<br />

uno scenario tristemente attuale e ben preciso, affermando che la politica oggi non sia<br />

pienamente in grado di affrontare una situazione come, ad esempio, quella israelianopalestinese,<br />

Rashid esprime la sua piena fiducia non soltanto nella politica, secondo lui<br />

“unico strumento in grado di migliorare le condizioni umane, economiche e sociali”, ma<br />

anche nella nuova generazione, la nostra generazione.<br />

Al termine della conferenza, molto spazio è stato dato alle domande, e fin da subito è<br />

emerso come molti punti “caldi” del rapporto Islam-Occidente non siano stati, forse<br />

volutamente, toccati dal relatore: il professor Carini ha posto una domanda su un tema<br />

molto delicato, ovvero sul fatto che in molti paesi Islamici la libertà di coscienza e di<br />

espressione non deve essere in contrasto con la Sharìa, mentre le studentesse Arianna e<br />

Silvia hanno chiesto a Rashid come sia possibile conciliare la violenza dell’Islam<br />

estremista e la condizione di inferiorità della donna con l’Occidente.<br />

Le risposte dell’Onorevole sono quanto mai significative: dal momento che, per motivi<br />

storici, economici, politici e culturali, la maggior parte degli stati arabi sono ancora<br />

molto arretrati dal punto di vista dello sviluppo politico, la democrazia non è venuta a<br />

formarsi e insieme ad essa deve ancora nascere la concezione di Stato di diritto.<br />

Riguardo la condizione della donna, l’Onorevole si è trovato quasi in difficoltà e, come<br />

nella domanda precedente, la sua analisi non ha trovato le ragioni dell’inferiorità della<br />

donna nel credo del culto islamico, ma nell’evidente situazione di arretratezza degli<br />

stati arabi, come a dire che, se non ci fosse questa situazione, ovvero se gli stati arabi<br />

fossero “progrediti” e “democratici”, automaticamente la religione assumerebbe<br />

caratteri non estremisti.<br />

Risposte simili pongono bene in evidenza che, secondo il punto di vista di Rashid, un<br />

punto di vista, come si è capito subito, né da islamico estremista, né da islamico<br />

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moderato, quanto piuttosto, se mi è concesso esprimermi così, da laico “estremista”,<br />

non può esserci democrazia, non può esserci “Stato di diritto” (l’Onorevole si è mostrato<br />

molto affezionato a questo termine) se non riducendo la religione a un semplice “fatto<br />

privato”: prova ne è il fatto che, secondo il relatore, negli stati arabi in cui la religione<br />

non è moderata (ma è assurdo, a parer mio, parlare di Islam “moderato”, almeno<br />

secondo la concezione di moderato comunemente usata) c’è arretratezza culturale,<br />

economica e politica; usando le sue stesse parole, “la religione non deve riempire un<br />

vuoto lasciato dalla politica, non deve sconfinare”.<br />

Devo ammettere la conferenza mi ha lasciato un po’ di “amaro in bocca”: onestamente<br />

non credo che la visione d’insieme della politica e della religione dell’Onorevole Rashid,<br />

“giusta” o “sbagliata” che sia, possa essere considerata rappresentativa per la maggior<br />

parte del mondo musulmano: abbiamo infatti ascoltato un punto di vista<br />

sostanzialmente laico anzi, “radicalmente” laico, che ben poco può avere di<br />

musulmano. Sono del parere che un punto di vista radicale sia il più delle volte molto<br />

limitato, non sia cioè in grado di esaminare in modo sufficientemente oggettivo alcuni<br />

aspetti come, in questo caso, l’estrema problematicità di un particolare credo religioso<br />

(l’Onorevole infatti ha accomunato tutte e tre le religioni monoteiste, come se fossero<br />

la stessa cosa) in un contesto totalmente diverso come quello dell’Occidente. Ritengo<br />

sarebbe stato molto più interessante sentire l’opinione di un musulmano praticante, non<br />

essendo assolutamente d’accordo con chi crede che “musulmano praticante” sia<br />

equivalente a “musulmano radicale”. Credo infatti che un dibattito su un tema così<br />

scottante (ma d’altra parte che necessita urgentemente di un confronto vero) come<br />

quello della convivenza tra le religioni debba ospitare dei credenti, non dei laici, sicuro<br />

del fatto che soprattutto in questo modo sia possibile avere un incontro veramente<br />

fruttuoso e formativo.<br />

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Carlo Rengo


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dal prof. Federico Di Leo<br />

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Dopo i saluti rituali da parte del Preside dell’istituto, la prof.ssa Fierro introduce gli<br />

ospiti del 3° incontro che il <strong>Liceo</strong> Orazio ospita sul tema della religione e convivenza<br />

civile.<br />

Relatore sarà Federico Di Leo, economista, 1° ricercatore dell’ Istat, il quale interviene<br />

in qualità di membro della Comunità di Sant’ Egidio.<br />

Di Leo è accompagnato da Mario Lai, anch’ egli della Comunità e attivo nel nostro<br />

ambito territoriale.<br />

Nella sua presentazione la prof.ssa Fierro ribadisce l’ importanza della presenza di<br />

Federico Di Leo, la cui vita è orientata a dare testimonianza viva del Vangelo. Studioso<br />

del mondo arabo musulmano, più volte presente nell’ Africa sub-sahariana in programmi<br />

di cooperazione portati avanti con la Comunità di Sant’ Egidio, Di Leo con il suo lavoro<br />

“salda lo studio teorico dei problemi relativi alla convivenza delle varie culture e<br />

religioni con esempi concreti di vita sofferta nello spirito della reciproca accettazione”.<br />

Finita la presentazione, la parola passa a Mario Lai. Membro anch’ egli della Comunità,<br />

ribadisce che gli incontri nelle scuole costituiscono momenti altamente significativi. La<br />

Comunità di Sant’ Egidio, nata quaranta anni fa, è presente in tutto il territorio<br />

nazionale e anche nel nostro quartiere dove appunto lui opera.<br />

Lavorare nel territorio, incontrarsi con gli “ultimi”, con quelli che vivono nelle strade,<br />

numerosi anche in una realtà come quella del nostro quartiere, significa affrontare l’<br />

incontro, il rapporto e l’ amicizia con il “diverso da noi” non da specialisti, e dunque<br />

legare le grandi questioni internazionali alla nostra quotidianità, significa lasciare<br />

sempre aperta la porta al dialogo nonostante la difficoltà.<br />

E il “dialogo” è il tema trattato da Federico Di Leo.<br />

E’ forse finita la stagione del dialogo dopo l’ 11 settembre? – Questa è la domanda che si<br />

pone il relatore.<br />

E’ certo che dopo l’ attentato alle Torri Gemelle il clima è fortemente cambiato, si è<br />

diffusa diffidenza ed ansietà per il futuro, le posizioni si sono radicalizzate.<br />

Sembra così lontano il 1986, quando Giovanni Paolo II ad Assisi aveva incontrato i<br />

leaders di tutte le religioni mondiali. Da allora lo “ spirito” di Assisi era proseguito,<br />

caparbiamente perché “ la pace ha bisogno di servitori”.<br />

Ma l’ 11 settembre ha prodotto la percezione acuta di un profondo mutamento. Da<br />

allora le guerre si sono succedute, Afghanistan, Iraq, Libano; la certezza che qualsiasi<br />

posto del mondo fosse visitabile si è rivelata illusoria, le sicurezze sono entrate in crisi.<br />

Ed allora poniamoci nuovamente la domanda – è finita la stagione del dialogo? Il dialogo<br />

è forse l’ arma degli sciocchi sognatori, degli ingenui ?-.<br />

No. Anzi più che mai deve maturare forte lo spirito del dialogo, non come arte povera<br />

degli ingenui, ma come arte difficile della civiltà del vivere insieme nella pace e<br />

solidarietà.<br />

“Assisi”, dunque, non come dibattito tra esperti, ma come sforzo continuo, incessante,<br />

teso a mostrare la “convenienza” del vivere insieme nella pace che non teme le<br />

diversità. Le diversità non vanno negate, ma le identità non vanno neanche difese in<br />

contrapposizione a quelle degli altri.<br />

Già il Concilio Vaticano II aveva ufficialmente sancito l’apertura del dialogo con le altre<br />

due grandi religioni abramitiche: la religione ebraica e quella islamica. I rapporti tra<br />

queste due ultime, però, sono sempre stati molto controversi perché, continua poi Di<br />

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Leo entrando ancora di più nello specifico del tema, se la guerra è la “madre di tutte le<br />

povertà”, sicuramente il “problema palestinese” è il padre delle grandi difficoltà che<br />

stanno alla base del dialogo tra le religioni.<br />

L’11 settembre ha poi travolto tutti, ha radicalizzato le posizioni, ha creato grande<br />

confusione anche nel mondo musulmano, poiché Al Quaeda ha spiazzato l’islam<br />

ufficiale.<br />

A questo punto è ancora più importante continuare nel dialogo e ci vuole coraggio,<br />

perché il dialogo è cosa complicata. Richiede “cultura, conoscenza storica, conoscenza<br />

degli interessi e dei costumi del nostro interlocutore”.<br />

Ed allora dobbiamo sgombrare il campo da un grosso equivoco: non si può dire di voler<br />

scegliere come interlocutore “ l’Islam moderato”. Non esiste. Si rischia di fare un errore<br />

perché applichiamo ad altre culture le nostre categorie mentali.<br />

Dobbiamo avere come interlocutore l’Islam autorevole, quello non violento.<br />

La religione cattolica è figlia della filosofia occidentale, si è nutrita di dubbi; l’Islam è<br />

una religione di “sottomissione” a Dio.<br />

E’ una religione “giovane”, come mette bene in rilievo un intervento durante il dibattito<br />

che ha seguito la relazione di Di Leo (è, infatti, nel 622, anno della fuga di Maometto<br />

dalla Mecca, che prende inizio il computo degli anni dell’era musulmana). Lo sviluppo<br />

storico dell’Islam è lento ed anche la democrazia è un concetto difficile nel mondo<br />

musulmano.<br />

Un altro ragazzo tocca il tema del rapporto tra Islam e violenza, terreno questo che<br />

richiederà ancora molto tempo per produrre un’evoluzione in senso positivo.<br />

Ed ancora si parla dell’ identità debole del cristiano, delle contraddizioni tra la politica<br />

delle gerarchie vaticane e le comunità di base che caparbiamente perseguono il dialogo<br />

come unico strumento possibile.<br />

Federico Di Leo e Mario Lai non si sottraggono al dibattito, anzi la partecipazione degli<br />

studenti li vede pronti a rispondere con generosità anche quando si toccano temi come<br />

l’ampliamento della base militare di Vicenza o le critiche alle posizioni della Chiesa<br />

ufficiale per quanto riguarda la lotta all’Aids in Africa, questione per la quale vige la<br />

“regola silenziosa” di posizioni differenti a seconda del contesto di riferimento (e questo<br />

ci da sicuramente molto su cui riflettere riguardo all’attuabilità del messaggio cristiano<br />

e all’”arroccamento” di certe posizioni ideologiche…).<br />

La conferenza si chiude con una sorta di “osanna a Voltaire e alla libertà della<br />

coscienza”, ma soprattutto con l’invito a liberarsi di “abiti mentali” troppo stretti, per<br />

aprire le nostre menti verso armonie superiori, che solo lo sforzo di mantenere vivo il<br />

dialogo e il confronto,aldilà di tutte le difficoltà, può garantire.<br />

Compito delle religioni è lavorare per l’unità della famiglia umana.<br />

- 94 -<br />

Francesca Caloccia


<strong>Relazione</strong> sulla conferenza<br />

tenuta dal prof. Federico Di Leo<br />

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Il progetto culturale del nostro liceo Orazio anche quest’anno è stato occasione di<br />

approfondimento culturale e di profonda riflessione per noi studenti. Lo scottante tema<br />

di attualità toccato dal ciclo di conferenze organizzato dalla professoressa Fierro, ha<br />

dato il titolo agli incontri di noi ragazzi con autorevoli esponenti delle principali<br />

confessioni religiose presenti nel nostro paese. L’argomento, infatti, su cui ha impostato<br />

la sua relazione Federico Di Leo (primo ricercatore all’ISTAT, economista, ma anche<br />

importante esponente della Comunità di Sant’Egidio), è stato quello di “Religione e<br />

convivenza civile”. La conferenza del professor Di Leo è la terza sul tema, seguita a<br />

quelle di Giorgio Gomel (direttore del Dipartimento delle relazioni internazionali della<br />

Banca d'Italia., ed esponente della comunità ebraica) e di Alì Rashid (membro del<br />

Parlamento italiano di origine palestinese).<br />

Il preside Gregorio Franza e la professoressa Fierro, nell’introdurre l’ospite prima della<br />

sua relazione, hanno ricordato che, a conclusione di questi incontri, vi sarà un’ultima<br />

lezione-dibattito, una tavola rotonda alla quale interverranno tutti i partecipanti alle<br />

conferenze precedenti, moderati da Paolo Naso (cristiano protestante direttore<br />

dell’autorevole rivista “Confronti”, la quale si occupa del tema del dialogo<br />

interreligioso).<br />

Dopo aver ascoltato le parole di introduzione al professor Di Leo, incentrate soprattutto<br />

sulla coerenza e sulla compenetrazione delle sue scelte di vita (studioso dei PIL nazionali<br />

all’ISTAT, ma anche attivo in diverse missioni internazionali della Comunità di<br />

Sant’Egidio, come quelle in Mozambico e in Malawi), non ho potuto che apprezzare la<br />

grande dimestichezza con la quale il relatore ha saputo presentare a noi ragazzi le sue<br />

opinioni basate su un punto di vista teorico sapientemente mescolate con racconti di<br />

emblematici episodi della sua vita.<br />

Prima di affrontare il tema della conferenza, è intervenuto un amico di Di Leo, Mario<br />

Lai, anch’egli appartenete alla comunità di Sant’Egidio, il quale ha presentato le<br />

caratteristiche specifiche dell’organizzazione: il radicamento nel territorio di Roma, lo<br />

stretto legame con i quartieri, e l’assistenza, prima che ai poveri dei paesi dei<br />

continenti più martoriati, a tutti quelli, piccoli fiammiferai delle nostre città, che la<br />

società ha lasciato fisicamente ai margini.<br />

La relazione di Federico Di Leo si è incentrata principalmente sulla questione del dialogo<br />

interreligioso, focalizzando l’attenzione sul problema del rapporto tra cristianesimo e<br />

islam (infatti, se tra cristiani ed ebrei, e tra cristiani e musulmani, esiste un discreto<br />

rapporto, a causa del grandissimo problema della Palestina sono oggi inevitabili attriti<br />

tra le altre due religioni abramitiche).<br />

Partendo da una lucida analisi della grande incertezza e preoccupazione che attanaglia<br />

il mondo di oggi, sia a livello pubblico, delle grandi istituzioni, che privato, ossia relativo<br />

ad ognuno di noi, il professore ha individuato negli attacchi terroristici agli Stati Uniti<br />

dell’11 settembre 2001 quella che può essere definita come la pietra tombale che ha<br />

chiuso un’epoca di relazioni tese e di violenza (gli anni novanta, con le guerre nei<br />

Balcani, la crisi dei grandi laghi in Africa, la prima guerra del Golfo…), generando un<br />

diffuso pessimismo e ponendo fine alle speranze di quanti avevano vissuto una stagione<br />

ottimistica di fiducia in una nuova armonia mondiale dopo il crollo dell’Unione Sovietica<br />

nel 1989.<br />

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È dunque definitivamente tramontato quello “spirito di Assisi”, che, dallo storico primo<br />

incontro interreligioso organizzato nella cittadina umbra da Giovanni Paolo II nel 1986,<br />

ha risvegliato le forze di quanti credevano nella possibilità di instaurare un proficuo e<br />

fruttuoso dialogo tra le religioni di questo mondo?<br />

Questo è dunque il quesito che Federico di Leo si è posto ricordando gli importantissimi<br />

primi passi compiuti dal precedente pontefice sulla strada del dialogo interreligioso e<br />

dell’incontro di correnti di spiritualità di pace, unite dalla comune fiducia nella forza<br />

debole della preghiera: la visita alla sinagoga di Roma, alla moschea (ex chiesa di San<br />

Giovanni Battista) degli Omayyadi a Damasco e il viaggio a Casablanca, oltre a numerosi<br />

altri.<br />

Fiduciosi nella possibilità di uno sguardo comune di politica e religione verso il condiviso<br />

impegno per la pace, gli esponenti della comunità di Sant’Egidio hanno sempre<br />

partecipato con entusiasmo a tutti gli incontri interreligiosi tenuti ad Assisi in ricordo di<br />

quello del 1986. Essi, come ha tenuto a specificare il relatore, si ritengono servitori<br />

della pace: la religione, infatti, non può rimanere insensibile al grido di coloro che la<br />

invocano. E anche un’associazione impegnata nell’assistenza ai più poveri deve<br />

impegnarsi per tale scopo: sono infatti i più deboli, gli ultimi di tutto il mondo, a fare<br />

per primi le spese degli orrori di ogni guerra.<br />

Luogo prescelto per gli incontri interreligiosi degli ultimi due decenni, Assisi è anche la<br />

chiave di volta dell’intera relazione del professor Di Leo: la cittadina umbra è infatti il<br />

luogo di nascita di San Francesco, definito come il primo dei padri del dialogo tra le<br />

differenti confessioni. In un’epoca di crociate e di acutissimi scontri tra il mondo<br />

cristiano e quello musulmano, il santo infatti, dapprima desideroso di andare a<br />

combattere in terra santa, dopo la propria conversione, scelse di portare, in occasione<br />

della quinta crociata, un messaggio cristiano di pace anche ai “pagani” incontrandosi<br />

con il sultano al-Malik al-Kāmil e, fatto straordinario, riuscendo a ritornare<br />

all’accampamento dei crociati incolume.<br />

Ecco dunque come il dialogo si configura, sin da tempi antichi, non come un’arte povera<br />

degli ingenui, ma come una pratica difficile ed impegnativa. Tale pratica non dovrebbe<br />

però essere patrimonio solo di pochi esperti, ma condivisa da tutti, nella volontà di<br />

costruire una civiltà di pace e di rispetto, senza rinunciare alla propria identità. È infatti<br />

proprio in quanto cristiani che bisognerebbe desiderare di convivere in armonia con gli<br />

altri: le differenze non possono costituire un motivo di odio.<br />

È a questo punto che Di Leo inserisce nel suo discorso una delle sezioni più controverse,<br />

ma allo stesso tempo anche più originali, come dimostrano le domande poste al<br />

professore nella parte della conferenza dedicata al dibattito con gli studenti. È scorretto<br />

parlare di islam moderato. È sbagliato sia porsi con questa espressione nei confronti dei<br />

musulmani (come reagiremmo noi infatti se un importante imam decidesse di<br />

interloquire solamente con gli anglicani, adducendo a pretesto che il papa cattolico non<br />

è “moderato”?), sia convincersi davvero che questa religione possa essere tale. L’Islam è<br />

una religione della sottomissione e dell’obbedienza cieca, non è neanche in parte figlia<br />

della filosofia greca come il cristianesimo, alcuni pilastri del quale sono costituiti dalla<br />

misericordia e dal perdono. Nel ricercare gli interlocutori all’interno del mondo<br />

islamico, non possiamo pretendere di avere a che fare solo con la classe più colta e<br />

istruita (magari nelle università occidentali): nei limiti della non violenza, chiunque può<br />

sedere ad un tavolo dinanzi a noi. La forza di chi ricerca il dialogo, ed in particolare<br />

modo dei cristiani che lo desiderano, risiede nel conoscere bene coloro con cui si parla,<br />

e nella consapevolezza che gli interlocutori hanno delle convinzioni su loro stessi a volte<br />

anche profondamente diverse dalle nostre. Questa forza non si esprime infatti nel<br />

proporre sterili vignette satiriche (come quelle celebri danesi), che in realtà esprimono<br />

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solo una volontà di prendere in giro senza averne realmente il coraggio, ma semmai<br />

nella capacità di chiedere perdono.<br />

Le religioni, nel mondo attuale, devono comprendere la loro responsabilità storica di<br />

lavorare per l’unità della famiglia umana, e la preghiera fianco a fianco, come quella<br />

tentata negli incontri di Assisi, può costituire un forte legame per tutti gli umili<br />

ricercatori di quella pace che Dio solo può donare. È nostro dovere sforzarci di essere<br />

“amici della pace” (come l’associazione a cui il relatore si unì, a Cinquina, per puro<br />

caso: li conobbe infatti solo perché aveva voluto testare il suo nuovo motorino), e non<br />

temere il dialogo per paura di trovarsi dinanzi a poteri e ad opinioni più forti della<br />

nostra.<br />

A questo punto Di Leo decide, per rispondere all’interrogativo che egli stesso ha posto,<br />

ossia se lo spirito di Assisi sia morto, perché l’11 settembre ne ha messo nudo<br />

l’ingenuità, di effettuare una carrellata storica per inquadrare quale possa essere stata<br />

la storia del dialogo interreligioso. Dopo secoli e secoli di conflitti (a partire dalle<br />

crociate, durante le quali furono effettivamente i cristiani a penetrare armati in<br />

territori dove dapprima altri cristiani e musulmani convivevano, e delle quali si potrebbe<br />

approfondire la conoscenza con la lettura di un libro come “Le crociate viste dal lato<br />

degli arabi” di Maalouf), è solo nell’ultimo secolo che vi è stato una progressiva<br />

distensione dei rapporti tra le due religioni, grazie all’opera di personaggi come Giorgio<br />

la Pira (il sindaco di Firenze che fece del capoluogo toscano un centro di riferimento del<br />

dialogo interreligioso), l’arcivescovo di Algeri Duvall, cardinale franco-algerino, il<br />

cardinale Pignedoli e lo sheik di Alazar (che organizzarono un incontro del primo in una<br />

università islamica nel 1974, evento fondamentale perché mai era avvenuta prima di<br />

allora una cosa simile). L’azione del Concilio Vaticano secondo (1958-1963), l’enciclica<br />

“Nostra aetate” e la creazione di ministeri all’interno della Chiesa cattolica relativi<br />

proprio al rapporto con le altre confessioni religiose, hanno costituito poi una specie di<br />

punto di non ritorno, o quasi, introducendo un nuovo punto di vista, almeno per i<br />

cattolici, e avviando di fatto il dialogo formale con l’Islam. È proprio in questo periodo<br />

inoltre, che vi sono ufficiali attestati di stima della Chiesa cattolica nei confronti delle<br />

altre religioni, e che si comincia, ad esempio, ad utilizzare l’espressione di “fratelli<br />

maggiori” nella fede per designare gli ebrei. Prima dei grandi passi compiuti da Giovanni<br />

Paolo II, anche Paolo VI aveva compiuto un viaggio in oriente, contribuendo a creare<br />

quel particolare clima di “concilio”, nel quale sono cresciuti quelli che oggi sono,<br />

all’interno della Chiesa cattolica, i cardinali responsabili dei dicasteri del dialogo<br />

interreligioso, come il cardinal Chegaray e il cardinal Paupard.<br />

Proseguendo nella sua digressione storica sul dialogo tra le religioni, Federico Di Leo, si<br />

sofferma sul discorso tenuto da Benedetto XVI, attuale pontefice, a Ratisbona, che ha<br />

causato enormi ripercussioni negative all’interno dell’opinione pubblica dei paesi a<br />

maggioranza musulmana. Un grande fraintendimento, un episodio sbagliato in un clima<br />

sbagliato, che ha fatto semplicemente il gioco di quanti, come al-Quaeda,<br />

rappresentano la “pancia” di un mondo, quello islamico, privo di forti figure di<br />

riferimento, o di importanti leader religiosi (basti pensare agli scontri intestini tra sciiti<br />

e sunniti).<br />

Il dialogo, dunque, non può e non deve morire. Dobbiamo trovare la forza e il coraggio di<br />

dialogare, soprattutto con quelli diversi da noi. Perché il dialogo, almeno secondo il<br />

nostro relatore, è questo: parlare con i diversi, fossero anche zingari, barboni o bambini<br />

che vivono nelle baracche.<br />

Dobbiamo proseguire sulla strada del dialogo, almeno per non far chiudere le frontiere<br />

del mondo. Per permetterci di visitare tutti i luoghi della terra e di poter trovare<br />

ovunque la stessa atmosfera, di amicizia e tolleranza. Per non sentirci soli, come non è<br />

accaduto a Federico Di Leo quando, nell’orribile situazione del bombardamento di Beirut<br />

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nel contesto dell’ultima guerra del Libano, nel 2006, non ha avuto paura. Perché sapeva<br />

che lì, anche nel Libano sotto i bombardamenti, grazie alla presenza dei membri della<br />

comunità di Sant’Egidio, aveva amici, e non si trovava circondato da ostilità e terrore.<br />

Dopo quest’ultima parte della relazione, arricchita dal partecipato racconto della<br />

propria esperienza personale, è iniziata la sezione della conferenza dedicata al<br />

confronto con gli studenti. Le domande, stimolate dall’efficace discorso di Di Leo, sono<br />

state molte, e hanno toccato parecchi argomenti, anche al di fuori delle tematiche<br />

analizzate dalla relazione. Alcuni studenti hanno per esempio esposto la loro posizione<br />

di dissenso nei confronti dell’atteggiamento del professore sull’Islam, giudicandolo come<br />

espressione di una presunta superiorità della cultura cristiana, che si atteggia quindi in<br />

maniera caritatevole e pietosa verso gli altri. A questo, e alla constatazione fatta da un<br />

ragazzo secondo la quale basterebbe risolvere il problema della Palestina per sciogliere<br />

molti delle questioni irrisolte all’interno del mondo arabo-musulmano, il relatore ha<br />

risposto dicendo che è necessario analizzare con attenzione la fase dello sviluppo storico<br />

dell’Islam. Infatti esso procederebbe in maniera lentissima (analisi, questa, condivisa<br />

anche da chi, tra i ragazzi, ha posto la questione), bloccando così i processi di<br />

democratizzazione e inducendo le autorità palestinesi a commettere diversi errori, come<br />

quello di rifiutare la proposta, qualche anno fa, di un territorio per il loro stato di gran<br />

lunga maggiore rispetto a quello richiesto adesso, in virtù di una malsana volontà di<br />

voler vedere la cancellazione dello stato di Israele. All’interno di questo discorso, il<br />

professore ha ribadito l’importanza del dialogo, anche con chi è stato violento, ma ha<br />

deciso di abbandonare questa strada, come hanno fatto i “bandidos armados”, i quali si<br />

sono seduti al tavolo della conferenza di pace in Mozambico, a cui ha dato un forte aiuto<br />

la stessa comunità di Sant’Egidio.<br />

Sul problema specifico dell’identità, alla questione se la salvezza sia solo possibile<br />

all’interno della Chiesa, e dunque se esistano religioni vere e false, Di Leo ha ribattuto<br />

che la questione riguarda la coscienza di ciascuno di noi: uno infatti crede nella<br />

fondatezza della propria identità, della propria fede, lasciando agli altri il medesimo<br />

interrogativo.<br />

Un’altra questione posta è stata quella sui musulmani immigrati in Italia, relativamente<br />

alle loro difficoltà di integrazione nella nostra società, evidenziate da alcuni<br />

sconcertanti casi di cronaca. Qui Di Leo ha posto in risalto il fatto che la condizione<br />

degli immigrati è particolarmente difficile, sia perché essi vengono considerati, dai<br />

propri compatrioti, come dei diseredati in quanto lontani dalla propria patria, sia perché<br />

la nostra società offre dei modelli talvolta molto distanti dalla loro etica, causando così<br />

attriti tra le vecchie e nuove generazioni (la figlia uccisa dal padre a causa del suo<br />

desiderio di voler diventare un’attrice è emblematica di tutto ciò): essi dunque non sono<br />

la testa di ponte di un’invasione, e bisogna sforzarci di comprenderli a fondo per poterci<br />

meglio relazionare.<br />

A proposito di ciò, il professore si è anche soffermato sulla questione dell’ Islam e della<br />

violenza, un tema controverso e difficile ma che necessiterebbe di maggiori<br />

approfondimenti.<br />

Interrogato sul perché non abbia affrontato nella sua relazione il problema del rapporto<br />

tra la Chiesa e i laici non credenti, dopo aver sottolineato che l’argomento della<br />

conferenza riguarda il tema delle “religioni” e la convivenza civile, Di Leo ha affermato<br />

che con i laici si sono svolti proficui confronti, adducendo come esempio quello svolto<br />

con Mario Levi proprio ad Assisi recentemente: non si sono mai chiuse le porte in faccia<br />

a nessuno, concependo il dialogo sempre come qualcosa di fruttuoso e importante.<br />

All’amara constatazione di una ragazza secondo la quale quelle che alcuni chiamano le<br />

“identità deboli” a causa del progressivo disfacimento dei valori e delle istituzioni<br />

tradizionali nella società attuale, altro non sono che le effettive “identità reali”, Di Leo<br />

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ha sottolineato come in una tale affermazione vi sia una mancanza non solo di progetti<br />

per la propria vita, ma anche una pressoché totale assenza di sogni, aspirazioni e<br />

desideri.<br />

Contestato su una presunta eccessiva autoreferenzialità cristiana, il relatore ha<br />

affermato che si tratta di una critica legittima, riconoscendo in ciò un proprio limite.<br />

Diverse domande sono state poste invece relativamente alla difficile relazione tra il<br />

cristiano, inteso anche come singola comunità, e le posizioni, spesso difficili da<br />

accettare, della gerarchia ecclesiastica (a questo proposito sono stati posti vari esempi:<br />

una comunità così impegnata nei paesi più poveri del continente africano, come può<br />

accettare l’eccessivo silenzio della Chiesa sugli scottanti temi relativi all’Africa, rispetto<br />

al grande impegno profuso su argomenti più propriamente “europei”, come quelli della<br />

famiglia e della bioetica; o ancora, sempre rispetto all’Africa, come è possibile vietare<br />

l’uso del preservativo davanti a una tragedia quale è l’AIDS): Federico Di Leo ha<br />

ammesso che, nello specifico, tra la comunità di Sant’Egidio e la Chiesa ai suoi vertici<br />

spesso ci sono stati amari contrasti e incomprensioni reciproche, se non addirittura<br />

strappi, spesso ricuciti con molta sofferenza. Anche perché, se alcuni preti possono<br />

essere, per citare San Francesco, “poverelli”, essi comunque hanno l’autorità di dare la<br />

Comunione e questo è un fattore non secondario da prendere in considerazione,<br />

soprattutto per un credente. Inoltre dissapori e conflitti esisteranno sempre, ma ogni<br />

cristiano ha il dovere di ascoltare la propria coscienza, più che qualsiasi autorità, per<br />

capire come orientare la propria condotta.<br />

La conferenza, ricca di spunti per originali e approfondite riflessioni, si è conclusa così<br />

con la consegna di alcuni libri in regalo per gli ospiti, ma soprattutto con un caloroso<br />

applauso, emblematico della soddisfazione e della sincera partecipazione di noi studenti<br />

ad un confronto, talvolta anche duro, ma comunque utilissimo e “vero”.<br />

- 99 -<br />

Michelangelo Iuliano


<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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“Se tutti gli uomini,meno uno,avessero la stessa opinione,non avrebbero più diritto di<br />

far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe lui di far tacere,avendone il<br />

potere,l umanità”.<br />

Sono parole-queste- espresse da Stuart Mill,filosofo liberale della metà dell’800,parole<br />

che sintetizzano bene il suo progetto politico e filosofico:quello destinato a combattere<br />

la pericolosa tendenza della maggioranza a far coincidere le proprie convinzioni con la<br />

verità e con generali norme di comportamento. Dentro questa tendenza è<br />

evidentemente annidata anche l intolleranza religiosa,come una insidiosa forma di<br />

compressione delle libertà individuali e,più generalmente,del pensiero delle minoranze.<br />

Parlare di dialogo interreligioso,di convivenza,di tolleranza,non è forse sempre la stessa<br />

cosa. Questi termini si sono comunque intrecciati e sovrapposti largamente nel corso<br />

delle conferenze cui abbiamo assistito e soprattutto nell’ultima,che ha funzionato da<br />

bilancio.<br />

Ne è emerso un quadro tutt’altro che limpido, anzi una miriade di problemi dentro il<br />

problema stesso, ancora tutti aperti,aperti addirittura ad una definizione precisa,più<br />

ancora che ad una soluzione. Provando a fare un rapido elenco:diritto all’uguaglianza e<br />

al riconoscimento paritario;diritto alla differenza e all’identità;rapporto tra religione e<br />

politica;moderatismo e integralismo;ricerca di un “quarto modello”.<br />

1)Diritto all’eguaglianza e al riconoscimento paritario di tutte le fedi religiose.<br />

Che il mondo vada verso il progressivo incontro di culture,etnie e religioni è un dato di<br />

fatto. La parola”tolleranza” non è ormai molto di moda e non lo è stata neanche in<br />

questo ciclo di conferenze. Siamo e saremo sempre di più di fronte a un quadro di fedi<br />

religiose non concorrenti ma contigue,tutte egualmente e legittimamente tese ad un<br />

reciproco ed egualitario,appunto,riconoscimento. Non si tratta quindi di tollerare ma di<br />

riconoscere pari diritti.<br />

La questione tuttavia sembra essere un'altra:esiste un criterio assoluto o comunque<br />

ragionevole per “circoscrivere” la tolleranza?Quello che tradizionalmente viene<br />

proposto(la tolleranza va estesa a tutti meno che a coloro che ne negano la validità)oggi<br />

vacilla. Provare ad essere tolleranti con gli intolleranti può essere un rischio accettabile<br />

per la democrazia?<br />

2)Diritto alla differenza. Il dialogo interreligioso postula un equilibrio nelle diverse<br />

fedi,tra le proprie istanze identitarie e la spinta all’interazione,intesa come<br />

commistione e “contaminazione”.<br />

La questione uscita dalle conferenze può facilmente porsi in questo modo:quanto è<br />

giusto che una fede accetti l’interazione fino a perdere nella mescolanza le proprie<br />

connotazioni più intime?Come arrivare ad un giusto mezzo?Non è forse giunto il<br />

momento in cui il diritto ad esistere delle varie fedi sia anche un diritto a non diventare<br />

uguali a tutte le altre?<br />

3)Rapporto religione-politica. Dei 40-50 conflitti in questo pianeta almeno la metà,dice<br />

il moderatore dell’ultima conferenza dott. Naso,sono di origine religiosa:le religioni<br />

dunque sono parte del problema o parte della soluzione?<br />

L intreccio tra politica e religione è sicuramente un campo dalla complessità estrema,in<br />

cui preferisco non avventurarmi,ma alcuni elementi sono chiaramente riconoscibili in<br />

tutti i conflitti di matrice religiosa:da una parte la politica è intesa come attuazione di<br />

precetti divini,le religioni arrivano dove la politica non arriva più e,se le motivazioni<br />

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“secolari”appaiono deboli,la promessa di elezione appare invece validissima per<br />

sostenere odio,violenza e discriminazione. D’altra parte,come sostiene Di Leo, le<br />

religioni fanno fatica a uscire da un’ottica strumentale alla politica:smettono quindi di<br />

esprimere principi ”alti” e si fanno tirare giù verso i bassifondi della società civile.Ma<br />

non è forse qui che l’uomo concreto si misura con la sua spiritualità?Invece di<br />

cristallizzare la dimensione della fede in ragioni esclusivamente ideali e non concrete<br />

non sarebbe meglio rifiutare alla politica ogni connotazione salvifica?<br />

4)Rapporto tra moderatismo e integralismo.<br />

E’ evidente che le istanze “moderate”(e le pratiche relative)di tutte le religioni non<br />

pongono problemi di accettazione e riconoscimento del diverso.<br />

E’ invece il fondamentalismo,a costringerci alla domanda:fino a che punto spingere la<br />

tolleranza nei confronti del diverso?Dobbiamo essere tolleranti anche nei confronti di<br />

tutti quegli elementi che,nell’ambito degli integralismi,sono in rotta di collisione con<br />

valori fondamentali della convivenza civile(integrità fisica,dignità umana,parità dei<br />

sessi,difesa dei bambini)?<br />

4)Esiste un quarto modello?<br />

Nei tre modelli di interpretazione e convivenza di cui ha parlato il dott.Naso nell’ultima<br />

conferenza,sono presenti importanti suggerimenti per la costruzione di un eventuale<br />

quarto modello italiano. Il caso americano del “melting pot” è scarsamente adatto a<br />

interpretare la realtà italiana poiché postula l’assenza di una forte struttura identitaria<br />

che invece è molto presente nel nostro paese.<br />

Nel secondo modello,quello francese,è presente l idea di uno stato superiore a qualsiasi<br />

espressione di particolarismo,politico,culturale e religioso.<br />

Il modello francese suggerisce una concezione altissima dello stato laico (Naso)che non è<br />

affatto da sottovalutare,soprattutto in un paese in cui la tradizione religiosa<br />

maggioritaria ha la tendenza a dilagare nella politica.<br />

Gomel,esponente ebraico,esprime a questo proposito una perplessità:difendere o<br />

affermare un’identità religiosa in pubblico può essere considerato contrario alle norme<br />

di uno stato laico e offendere qualcuno?Gomel è chiaramente del parere che<br />

l’ostentazione di un credo religioso in uno spazio pubblico non sia lesiva di alcun<br />

diritto.(a questo proposito lo stato Italiano ha ormai da tempo deciso di intraprendere la<br />

via dei concordati).<br />

Il punto è forse la conoscenza reciproca delle fedi e l estensione della sensibilità comune<br />

alla questione dei diritti delle minoranze,religiose e non.<br />

Quanto al terzo modello,quello inglese,definito dal tentativo di creare una cittadinanza<br />

allargata,valorizzando ed estendendo l’esperienza dell’identità britannica e fermo<br />

restando il diritto delle minoranze a coltivare la propria identità,esso può,a mio<br />

parere,dirci molto su quale strada percorrere per la cosiddetta integrazione.<br />

Ma se siamo alla ricerca di un modello italiano,bisogna aggiungere alle suggestioni dei<br />

precedenti esempi alcuni elementi,cm propone Di Leo,esponente e relatore cattolico.<br />

Definiti non negoziabili i valori democratici e l’ambito dei diritti umani reciprocamente<br />

riconosciuti,rimane infatti il problema di individuare una campo comune,aspirazioni<br />

politiche e ideali ancora da condividere tra le varie fedi.<br />

Non si tratta di un modello già operante ma di una strada ancora tutta da percorrere che<br />

chiama le diverse etnie e fedi a condividere valori come la difesa della legalità e delle<br />

classi svantaggiate,la cura e la protezione dell’ambiente, la difesa dei più deboli e il<br />

rifiuto della violenza,il tema della responsabilità individuale al di là dell’appartenenza<br />

religiosa.<br />

Questi e molti altri,come mondi ancora tutti da costruire.<br />

- 101 -<br />

Enrico Campelli


<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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Come ogni anno la nostra scuola ha avuto l’onore e la fortuna di ospitare personalità di<br />

rilievo del panorama politico internazionale; personalità importanti non solo per la<br />

propria azione diplomatica, ma anche, e soprattutto, per l’impegno etico, sociale e<br />

religioso di cui si fanno carico. Ed è questo l’aspetto che merita maggiore attenzione, e<br />

sul quale durante questi anni la scuola si è concentrata; forse perché la morale, da<br />

intendersi come qualità e caratteristica propria di ogni uomo, è relativa al mondo dello<br />

spirito e della coscienza, e gli ambiti che vi ruotano intorno sono sentiti da tutti<br />

estremamente vicini.<br />

Il ciclo di conferenze organizzate questa volta verteva sul tema “Religione e convivenza<br />

civile”, argomento quanto mai scottante poiché vede scontrarsi valutazioni ed opinioni<br />

relative, per l’appunto, alla sfera morale e al modo in cui essa si esterna nelle situazioni<br />

storico-sociali che di volta in volta si presentano; soprattutto, tema estremamente<br />

attuale.<br />

Dopo diversi incontri, grazie ai quali abbiamo avuto la possibilità di conoscere e<br />

incontrare il pensiero di rappresentanti di diverse identità religiose, quali Giorgio<br />

Gomel, per la comunità ebraica; Alì Rashid, diplomatico palestinese, nonché deputato al<br />

nostro parlamento ed ambasciatore di pace al parlamento europeo; Federico Di Leo,<br />

della comunità di Sant’Egidio; Paolo Naso,direttore del mensile Confronti e della rubrica<br />

televisiva Protestantesimo, ha infine avuto luogo l’ultima conferenza, la così detta<br />

“tavola rotonda”. E nonostante i precedenti incontri siano stati fondamentali, in quanto<br />

ci hanno fornito la chiave per entrare davvero nel merito del problema, ritengo che<br />

l’ultimo, al quale essi sono stati propedeutici, sia quello che merita maggiore<br />

attenzione, in quanto momento di sintesi, di comunicazione e di scambio, e dunque, a<br />

mio parere, di maggiore acquisizione ed arricchimento.<br />

Il dibattito è stato aperto da Paolo Naso, il quale ha immediatamente ricordato<br />

l’esistenza, talvolta vero e proprio “tabù” (credo che questo termine sia più che mai<br />

appropriato), dei numerosi conflitti religiosi che sconvolgono oggi il nostro pianeta,<br />

rammentando a tal proposito come l’Italia abbia recentemente, con Prodi, stipulato<br />

nuove intese con sei confessioni religiose, quali, ad esempio, mormoni, buddhisti,<br />

induisti ed ortodossi; azione questa da inserirsi entro un progetto di pluralizzazione dello<br />

scenario religioso. Ha dunque posto un interrogativo di carattere universale agli ospiti<br />

presenti: come salvaguardare tale panorama pluralistico, e come evitare che si<br />

trasformino in mera frammentazione negativa e distruttiva?<br />

Ha preso quindi la parola Giorgio Gomel, affermando che il conflitto interculturale<br />

permea la storia dell’umanità e che le differenze dovrebbero essere riconosciute ed i<br />

conflitti divenire pacifici; certo non è semplice, e per il raggiungimento di tale scopo,<br />

quasi utopistico (non perché si assuma un atteggiamento pessimistico, ma perché la<br />

storia finora è stata, nostro malgrado, fin troppo eloquente al proposito) le minoranze<br />

non dovrebbero essere subordinate. Le religioni sono infatti al tempo stesso elemento di<br />

guerra e di pace. C’è però da domandarsi: il fondamentalismo è proprio di tutte le<br />

religioni? È una componente innata o il risultato di processi politici? Gomel ritiene che<br />

esso sia politica che attua precetti religiosi in ambiti che, se uniti, si strumentalizzano<br />

vicendevolmente, perdendo di vista il loro specifico contenuto e fine. La legge parla di<br />

uguaglianza, ma non esclude differenze. È questo l’aspetto sul quale bisognerebbe<br />

soffermarsi. Il fondamentalismo consta della esistenza o meglio coesitenza di due<br />

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momenti co-essenziali alla realizzazione del medesimo: nella fattispecie fede laica e<br />

fede religiosa, momenti liberi per natura reciprocamente, intrappolati nella loro stessa<br />

essenza in una strumentalizzazione che confonde l’un principio con l’altro… dimensioni<br />

veritiere di una realtà complessa e difficilmente esplorabile se non con la profonda<br />

analisi di contenuti concreti, testimonianze dell’esperienza umana, e non ultima tra<br />

queste la religione. Quest’ultima potrebbe, se autonoma, rappresentare un adeguato<br />

strumento di risoluzione delle controversie interne o tra popoli differenti. L’esempio<br />

francese è emblematico e sintomatico di realtà laiciste che concepiscono la libertà<br />

religiosa come espressione del singolo che cede di fronte al sommo principio di<br />

uguaglianza, concernendo con ciò anche manifestazioni esteriori della propria<br />

personalità religiosa in luoghi che per definizione la collettività nazionale contempla<br />

come propri, primo fra tutti la scuola. È dunque necessario trovare un antidoto al fine di<br />

una convivenza inter-religiosa. L’identità umana è il risultato multiforme e complesso di<br />

idee, riferimenti, culture, esperienze, mentre il razzismo crea livelli gerarchici di<br />

identità imponendo il concetto precostituito di superiorità. La civiltà sta nel riconoscere<br />

le differenze esistenti e saperle accettare, comprendere, saperci convivere, alla<br />

continua ricerca di un punto stabile di equilibrio tra umanità, universalità e tolleranza<br />

del diverso. L’esclusivismo danneggia la libertà di affermazione delle identità; al<br />

contrario il rispetto dell’altro è alla base della capacità di accettazione e<br />

riconoscimento della diversità che ognuno conserva nel proprio dna morale identitario.<br />

Strauss e Martin Buber, filosofo e studioso della bibbia, sottolinearono come l‘uomo<br />

possa capire come è fatto, solo in rapporto con l‘altro. Ciò comporta una dimensione<br />

dialettica di costante confronto intellettuale sui temi che contano ai fini della<br />

convivenza pacifica.<br />

La realtà italiana non è mai stata multi-etnica, rispetto alle altre nazioni europee non si<br />

sono avute fino a mezzo secolo fa esperienze di convivenza multi-culturale, e la scarsa e<br />

deficitaria esperienza in questo senso è, fonte e causa del razzismo che si cela dietro<br />

certi atteggiamenti.<br />

Obbiettivo da porsi è conciliare l’uguaglianza con il rispetto del diritto alla libertà<br />

religiosa nella società. Bisogna cercare il nodo cardine tra uguaglianza e diritto alla<br />

diversità, attraverso l’accettazione delle culture minoritarie con il rispetto reciproco<br />

necessario dei diritti fondamentali per la realizzazione di tale scopo. Le diversità sono<br />

disomogenee e varie, alcune (neutre) non intaccano l’altro-diverso e non interrompono<br />

la convivenza pacifica, come cibo o vestiario; altre sono invece la chiave di lettura della<br />

possibilità di convivere, poiché interpretano il bisogno universale di parità sessuale, la<br />

necessità di uno stato di diritto e la cogenza di diritti universali inviolabili.<br />

Federico Di Leo, ha invece ricordato come l’Italia non abbia di certo un modello di<br />

organizzazione religiosa dello Stato, ma la presenza forte della Chiesa Romana che<br />

rappresenta una costante ed un punto di riferimento per la religiosità. La sfaccettata<br />

componente religiosa musulmana è schiva riguardo un eventuale accordo, a causa della<br />

varietà che presenta al suo interno. Ma la conciliazione è possibile attraverso la ricerca<br />

di finalità comuni che permettano la realizzazione di un processo di co-integrazione a<br />

più livelli. Il rischio di un eventuale fallimento nella convivenza inter-religiosa si<br />

protrarrebbe fino al ben più pericoloso ed incontrollabile scontro di civiltà, non solo di<br />

religioni. In un tempo di ambiguità e pochezza di valori dobbiamo orientarci nel nulla<br />

della non-scelta, capire quale civiltà preferiamo. L’11 Settembre ha rappresentato il<br />

termine post quam per una nuova welthanshaung, forse più pessimistica, ma non meno<br />

responsabile; oggi ci troviamo di fronte ad un bivio, e dobbiamo chiederci se dialogare<br />

sia ancora l’unico mezzo per sopravvivere o soltanto l’arma degli ingenui.<br />

Risposte a tali domande si cercano dentro di sé nel confronto con il mondo…<br />

Giulia Carrarini<br />

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<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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Il 19/04/2007 si è tenuta l’ ultima delle conferenze organizzate dalla prof. Fierro sul<br />

tema di approfondimento culturale del liceo ”religioni e convivenza civile” a cui hanno<br />

partecipato tutti i relatori che erano venuti precedentemente ad esprimere le loro idee:<br />

Giorgio Gomel rappresentante della fede ebraica, Federico di Leo esponente della<br />

comunità di S. Egidio e di fede cattolica, Paolo Naso direttore della rivista “Confronti”<br />

di fede protestante; purtroppo era assente l’Onorevole Rashid trattenuto in Parlamento<br />

da un impegno imprevisto. Il dottor Naso, in qualità di moderatore, ha dato inizio alla<br />

conferenza ricordandoci che nel mondo sono combattuti circa cinquanta conflitti dei<br />

quali almeno la metà sono di carattere religioso. Le religioni sono, quindi, parte del<br />

problema internazionale ma spesso costituiscono anche importanti iniziative di pace. Ne<br />

è un esempio la svolta politica in Irlanda del Nord dove una guerra, che in pochi anni<br />

aveva prodotto oltre 3600 vittime, è stata ora risolta grazie all’ azione delle comunità di<br />

fede cattolica e protestante. Nella prima domanda posta dal moderatore ai relatori si<br />

chiede se le religioni debbano essere considerate causa di tale problema o strumento di<br />

soluzione e se il fondamentalismo sia innato ad ogni credo o se sia conseguenza della<br />

politica.<br />

Spostando l’ attenzione di noi tutti dallo scenario internazionale a quello nazionale, il<br />

dottor Naso, ci fa notare come, negli ultimi venti anni, in Italia, ci sia stata un’<br />

accelerazione del processo di globalizzazione che sta portando il nostro paese a<br />

trasformarsi in multietnico e pluralista da monoculturale qual era. A conferma di ciò,<br />

recentemente il premier Prodi ha firmato nove intese con sei nuove confessioni religiose<br />

riconosciute dallo stato, tra cui quella buddista, induista, ortodossa, che noi pensavamo<br />

essere confinate in India o in Cina e che invece sono più vicine di quanto ognuno possa<br />

credere. La seconda domanda riguarda la maniera di conservare questo patrimonio di<br />

pluralismo mantenendo coesa e unita la comunità nazionale. Il primo a prendere la<br />

parola è Giorgio Gomel il quale apre il suo discorso con una premessa introduttiva,<br />

dicendo che tutti i conflitti combattuti nel mondo non sarebbero un male se non fossero<br />

un violento confronto tra le diversità ma che è ingiusto pensare ad un mondo uniforme<br />

ed anche poco utile sostenere di poter risolvere il problema poiché i confronti religiosi<br />

hanno da sempre permeato la storia dell’umanità. L’antidoto migliore sarebbe quello di<br />

cercare di rendere tali ostilità benefiche e non dannose evitando, quando sono presenti<br />

all’interno di uno Stato minoranze, di chiedere loro di subordinarsi alle culture egemoni.<br />

Gli Ebrei, per esempio, hanno sofferto molto l’antisemitismo e spesso è stato imposto<br />

loro di sparire o omologarsi agli altri.<br />

Come risposta alla prima domanda Gomel sente di poter affermare innanzitutto che la<br />

risoluzione del problema sarebbe più vicina se si tenesse in considerazione quanto detto<br />

precedentemente e cioè che non bisogna pretendere l’appiattimento delle differenze<br />

culturali e che la religione a volte può essere strumento di pace ma a volte anche di<br />

guerra; ha quindi meriti e colpe. Per quanto riguarda il fondamentalismo, l’ha definito<br />

un intreccio pericoloso di politica e religione in quanto consiste proprio nel ritenere la<br />

prima attuazione di precetti divini, e la seconda “instrumentum regni”.<br />

Considerando invece la situazione italiana bisogna tener presente che la nostra<br />

Costituzione garantisce l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini ma che deve essere<br />

assicurato anche il diritto alla differenza. Come conciliare questi due elementi? Dato il<br />

pluralismo che negli ultimi anni sta caratterizzando sempre maggiormente il nostro<br />

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paese, la cosa migliore da fare sarebbe trovare dei punti comuni per stabilire una<br />

convivenza pacifica ed evitare il comunitarismo e la ghettizzazione.<br />

A questo punto della conferenza riprende la parola il moderatore, il quale si augura che<br />

non capiti in Italia ciò che è successo in Francia perché nel nostro paese, a differenza di<br />

altri, non è ancora in uso un particolare modello di integrazione e per questo abbiamo la<br />

possibilità di fare tesoro delle esperienze pregresse come quella francese e inglese.<br />

Interviene quindi Federico di Leo che riallacciandosi a quanto detto da Paolo Naso fa<br />

notare come in Italia non sia ancora stata firmata un’intesa con i musulmani e questo<br />

perché sono presenti varie e differenti anime dell’Islam e tutte quanti importanti.<br />

Sostiene quindi che vi sono valori e obbiettivi comuni come la difesa della natura o<br />

l’assistenza dei poveri sui quali si potrebbe lavorare per costruire un dialogo e per<br />

creare una collaborazione fra le diverse religioni. Conclude dicendo che queste ultime<br />

devono essere subalterne alla politica, occuparsi di questioni più elevate ed esprimere il<br />

loro pensiero sul modo di trovare una convivenza pacifica.<br />

Ai relatori sono state poste anche alcune domande e a mio parere la più interessante è<br />

stata quella riguardante i modelli di integrazione. Paolo Naso ha risposto in maniera<br />

esauriente spiegandoci i tre diversi modelli teorizzati. Il primo è quello del melting- pot,<br />

adottato in America, che avrebbe dovuto creare una società più omogenea ma non ha<br />

ottenuto i risultati sperati in quanto ogni comunità ha accentuato le sue differenze. La<br />

parola melting-pot vuol dire “crogiolo” che è un vaso di marmo nel quale vengono fusi i<br />

metalli per formare leghe. Il secondo è quello laico francese nel quale ogni persona è<br />

cittadino dello stato a prescindere dalla sua fede ma nel quale, proprio per questo, è<br />

impossibile esibire simboli religiosi in luogo pubblico. Il terzo e ultimo è quello<br />

comunitario codificato dagli inglesi ma in uso in Olanda che riconosce le singole<br />

comunità e punta a valorizzare la loro identità. Lo stesso Naso ha concluso la conferenza<br />

raccontando un aneddoto - in ebraico midrash – avente come protagonista un rabbino<br />

che dopo la morte deve decidere cosa portare con sé in Cielo e non sceglie né i testi<br />

sacri poiché li conosce, né qualsiasi altro bene materiale ma solo il suono della campane<br />

della Chiesa di fronte. Questo perché le religioni devono imparare ad amare ciò che<br />

non appartiene loro. L’aneddoto o il midrash, per dirla correttamente, mi ha fatto<br />

molto pensare. Ritengo sia davvero difficile che ognuno rinunci a qualcosa e si<br />

arricchisca col patrimonio culturale dell’altro, ma è anche la sfida più grande che si<br />

offre alla mia generazione. La discussione ci aiuta a conoscere i problemi, a<br />

confrontarci, a trovare strade non sempre lineari e piane, ma dobbiamo percorrerle. La<br />

filosofia è nata nell’agorà, il luogo in cui si incontravano e si scontravano persone di<br />

lingue, tradizioni, religioni diverse. A che serve saperlo, se poi la conoscenza non si<br />

traduce in comportamenti conseguenti?<br />

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Ilaria Gravina


<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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Il 19/04/07, ultima sezione-dibbattito sul tema approfondito quest anno: Religione e<br />

convivenza civile,il nostro liceo ginnasio Orazio ha avuto la preziosa opportunità di<br />

ospitare nuovamente come relatori il Dott. Giorgio Gomel,rappresentante<br />

dell’ebraismo,il Dott.Federico Di Leo,rappresentante della comunità cattolica di<br />

sant’Egidio e il moderatore della “tavola rotonda”,dirigente della rivista Confronti che si<br />

occupa del confronto inter-religioso,il protestante Paolo Naso.<br />

A malincuore l’assemblea degli studenti rinuncia alla presenza dell’ Onorevole Rashid ;e<br />

al suo intervento quale voce rappresentante dell’islam per un’inevitabile imprevisto.<br />

Il moderatore Paolo Naso introduce con audacia e vivacità il tema generale su Religioni e<br />

convivenza civile. L’argomento può essere affrontato non solo per quanto concerne il<br />

panorama nazionale ma anche quello internazionale.<br />

La scena internazionale odierna è dominata da 45-50 tra guerre e conflitti a bassa o<br />

alta intensità. di cui,almeno la metà mostrano apertamente o nascondono una<br />

bandiera,una simbologia di tipo religioso. Questo dato di fatto ci fa intendere come e<br />

quanto le religioni siano parte considerevole della scena internazionale.<br />

Le religioni hanno quindi spesso una responsabilità nello scatenarsi dei conflitti , ma<br />

d’altra parte sono anche protagoniste di importanti iniziative volte alla conciliazione<br />

degli stessi conflitti, come è per il caso dell’ Irlanda del Nord con i suoi<br />

3600morti,vittime di una guerra estenuante durata un trentennio di cui è recente la<br />

risolutiva svolta politica.<br />

Se focalizziamo sullo scenario nazionale degli ultimi 20-30 anni,periodo<br />

dell’inarrestabile processo di globalizzazione delle economie e delle culture, si assiste<br />

allo stesso tempo all’ accelerazione del processo di pluralizzazione delle nostre società<br />

tradizionalmente mono culturali e monoreligiose diventate esplicitamente<br />

multiculturali e multireligiose. Parlando dello specifico caso italiano si può dire che si è<br />

consolidata l’ idea dell’ Italia come paese cattolico ma allora si dimenticando le<br />

minoranze storiche anch’esse innegabilmente facenti parti ormai del dna italiano e<br />

tuttavia spesso lasciate nell’ombra,è il caso di quella ebraica e di quella valdese. Il<br />

pluralismo religioso è essenziale per capire anche la realtà italiana. Durante il periodo<br />

pasquale è passata quasi totalmente inosservata la notizia secondo cui il presidente del<br />

consiglio Prodi ha firmato 8 nuove intese con 6 nuove confessioni religiose: la comunità<br />

buddista, induista, ortodossa,quella dei mormoni… divenute soggetti significativi e<br />

riconosciuti anche in Italia nonostante la loro patria originaria si localizzi in altri paesi<br />

lontani dal nostro. Questa situazione pluralizza la nostra scena religiosa e ciò può essere<br />

considerato come una grande opportunità ma anche come una grande problematica di<br />

difficile risoluzione. Pensiamo all’Islam come anche ad altre correnti fondamentaliste<br />

che attraversano varie religioni,esse si trovano in conflitto con il principio fondamentale<br />

della nostra democrazia che riconosce uguali diritti per tutti. Le comunità religiose<br />

devono pertanto essere effettivamente aperte e al contrario non devono sottrarsi<br />

all’autorità generale della nostra norma costituzionale.<br />

La seconda domanda che il moderatore Naso rivolge ai relatori è:“Come salvaguardare<br />

tale immenso patrimonio di pluralismo, come mantenere coesa e unita la nostra<br />

comunità nazionale? il riconoscimento di tali comunità religiose non dovrebbe non essere<br />

solo una giustapposizione di ghetti che non comunicano?”<br />

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La prima risposta allo scottante quesito posto dal moderatore viene formulata dal<br />

relatore Giorgio Gomel. Il relatore sostiene la necessità di articolare una premessa,utile<br />

al fine di introdurre e costruire la propria risposta. Il mondo è solcato da controversie<br />

culturali-religiose che di per sè non sarebbe un male qualora esse nascessero come<br />

confronti-scontri privo di connotati violenti. Ponendosi l’obbiettivo di coesistere in modo<br />

pacifico,rispettando le inevitabili e connaturate diversità,tutte le religioni dovrebbero<br />

mirare ad una benefica e proficua coesistenza per il benessere dell’umanità<br />

L’antidoto,la ricetta per realizzare ciò non e facile da individuare,ma è utile affermare<br />

tale principio : quando sono presenti culture minoritarie non in uno stesso contesto è<br />

possibile obbligarle a subordinarsi o ad assimilarsi a quelle egemoni. Spesso la storia ci<br />

ha dimostrato come ciò si sia verificato più volte(rifacendoci all’eloquente esempio del<br />

popolo ebraico come perenne minoranza);il connotato distintivo dell’antisemitismo è<br />

sempre stato quello che la religione ebraica dovesse sparire e perdere la propria<br />

identità.<br />

Anche oggi, in Italia,ci troviamo di fronte al caso dell’Islam ( tema eclatante per la<br />

consistente presenza di mussulmani nel nostro paese).Dal momento che l’Italia è stata<br />

sempre sostanzialmente una monocultura uniforme sia per etnia che per cultura ,tale<br />

situazione, che vede un islam sempre più presente e radicato nel nostro paese,è difficile<br />

da gestire perché comporta accettare il diverso,il che è ancor più difficile soprattutto<br />

se parliamo di una cultura molto diversa dalla nostra.<br />

Sulla prima domanda il Dott. Gomel non si sente di fornire una risposta<br />

certa,definitiva,piuttosto,dichiarando di parlare con animo distaccato,sostiene che le<br />

religioni sono al tempo stesso elemento di guerra e di pace e che tra tutte le religioni in<br />

generale non si può fare una distinzione tra religioni buone e cattive. Certamente,<br />

dunque,il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam sono state e sono al momento elementi di<br />

pace e di riconciliazione ma anche di contrapposizione violenta se volgiamo l’attenzione<br />

a determinate manifestazioni.<br />

La deriva fondamenetalista è una deriva innata a tutte le religioni in sè o è una<br />

proiezione della politica? Quello che connota il fondamentalismo è un complicato<br />

intreccio tra politica e religione , cioè il ritenere che la politica sia attuazione di i<br />

precetti divini ,e che la religione diventi “ instrumentum regni”, cioè strumento di<br />

azione politica. Nell’islam fondamentalista ritroviamo con sicurezza questa componete (<br />

dio ci ha comandato di conquistare…).La politica, dal canto suo si serve della religione<br />

come strumento di indottrinamento dei giovani a fini politici. Il compito degli uomini di<br />

fede come pure degli uomini laici,non è di opporsi e scontrarsi. In un libro di Arrigo<br />

Levi,si individua l’esistenza e una distinzione tra una fede religiosa ed una laica<br />

accomunate dal fatto di credere ed il loro compito è che il confronto tra tali<br />

fedi,consista nel far si che esse stesse siano elemento di conciliazione, perché le<br />

religioni hanno un passato di fondamentale importanza e tutt’ora contano molto nella<br />

storia della umanità; con la secolarizzazione non hanno perso affatto l’influenza che<br />

esercitano nei confronti dei comportamenti dell’umanità.<br />

Una società laica pluralista e non confessionale,pur riconoscendo il diritto di<br />

uguaglianza di fronte alla legge e il diritto alla diversità non è ancora una società<br />

autenticamente multiculturale, ciò assume un carattere giuridico nelle intese tra stato<br />

italiano e comunità religiose, es:nell’ebraismo vi è l’usanza di seppellire i defunti<br />

direttamente nella terra ma una volta qui hanno accettato di seppellire i propri defunti<br />

in bare, dall’altra parte lo stato italiano riconosce agli ebrei di non andare a lavoro o a<br />

scuola il sabato,sacro per il culto ebraico.<br />

Come si fa a evitare la formazione di comunità religiose ghettizzate, ( comunitarismo )<br />

esperienza molto dolorosa ( ghetti ebraici dal 1555-1850 circa in Italia) ? Il coesistere di<br />

queste diversità in uno stato laico non confessionale come dimostra la questione del velo<br />

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in Francia,esaltazione dello stato laico,non è affatto semplice. Tuttavia il relatore si<br />

dimostra sfavorevole alle decisioni prese negli stati laici aconfessionali come la<br />

Francia,per cui ad esempio a scuola non si possono indossare ne il velo,ne<br />

l’ecchippa,dal momento che la scuola è l’emblema dello spazio pubblico. Gomel si avvia<br />

a concludere il suo discorso sostenendo che si augura di non vivere in Italia la situazione<br />

che si vive ora in Francia.Il relatore termina il suo percorso ammettendo umilmente di<br />

non avere una risposta facile a questa domanda, come evitare che tale confronto tra<br />

culture e identità religiose diventi uno scontro violento?Sicuramente ci si deve<br />

impegnare tutti in tal senso, soprattutto nel quotidiano,nel presente e nel futuro.<br />

L’Italia ha una fortuna tra molte sfortune, non ha ancora consolidato un modello di<br />

integrazione, essendo il fenomeno in Italia di 20-30 anni più in ritardo rispetto a Francia,<br />

Inghilterra e Germania. Possiamo quindi fare tesoro delle esperienze degli altri. Sono<br />

chiare le difficoltà ,i limiti di imporre un modello di integrazione laicista<br />

Federico. Di Leo, rappresentante della comunità di s Egidio,ricollegandosi al moderatore<br />

Naso e al precedente oratore , ripete dunque che l’Italia non ha ancora un modello di<br />

integrazione consolidato.Di Leo risponde ai quesiti posti dal moderatore,guardando<br />

all’esperienza italiana,in cui non è stata ancora siglata l’intesione con la numerosa<br />

comunità mussulmana . Ciò accade perché esistono diverse anime dell’islam nel nostro<br />

paese e sono tutte importanti e significative.La comunità della moschea di forte antenne<br />

è quella che risponde alla visione più ufficiale dell’islam, ma esistono altre comunità<br />

minoritarie collegate a tradizioni locali o ad esempio al COI, accusata da alcuni a torto<br />

o a ragione di essere collegata in qualche modo al fondamentalismo islamico.<br />

Il problema delle intese tra stato e islam è in relazione al confronto tra democrazie e<br />

religioni, tematica importante anche perchè la religione non ragiona sempre con le<br />

categorie della democrazia. Piuttosto, le religioni si dovrebbero porre come obbiettivo<br />

di trovare dei valori comuni. La piccola ricetta da noi sperimentata per venirsi incontro<br />

ed avere obbiettivi comuni..può essere:difendere la natura, le classi svantaggiate, e di<br />

procurare tutto il minimo indispensabile per vivere. Su tali fondamenti comuni si può<br />

trovare uno spazio di collaborazione, a livello più teorico.La convivenza è una strada<br />

complessa,se per esempio ci si rivolge alla recente questione dei cinesi di Milano, la<br />

strada giusta è quella di rompere le divisioni, gli spazi isolati ( quartieri scuole ecc).<br />

Come cattolico,Di Leo,si esprime affermando che gli sembra che le religioni facciano<br />

fatica a comunicare la propria idea di convivenza o di altro rispetto alle tesi dei politici,<br />

dai quali sono coinvolti invece solo in battaglie molto circostanziate ( esempio legge sui<br />

dico). La parola delle religioni dovrebbe invece essere ascoltata sui principi “alti”.<br />

Il Dott.Paolo Naso, riprende la parola rivolgendo a noi studenti avviandosi a concludere<br />

la Tavola Rotonda.<br />

Il problema dibattuto ,nonostante le necessarie schematizzazioni è molto vasto perché<br />

riguarda non solo l’Europa ma tutto il mondo. è chiaro per tutti che la strada da<br />

percorrere è quella dell’ integrazione , perchè l’ immigrazione non sarà un fenomeno<br />

transitorio, anche per la necessità di mano d’opera, quindi la parola d’ordine dovrà<br />

essere : “governare i flussi di immigrazione”.<br />

Naso,conclude la lezione-dibattito con un midrash,un racconto divertente,una sorta di<br />

aneddoto usato da tramite per illustrare l’interpretazione di episodi biblici. Il midrash<br />

scelto dal moderatore racconta di un pio ebreo che morendo riceve un diritto solo a lui<br />

riservato , gli angeli scendono dal cielo per prelevarlo e gli annunciano che può portarsi<br />

solo una cosa terrena in cielo,il pio ebreo esclude la torà perché la conosce a<br />

memoria,reputa il pane e altri oggetti per il rispetto delle regole religiose non<br />

necessari,ed infine sceglie il suono delle campane della chiesa di fronte alla sua dimora.<br />

Decide di portare con sé ciò che non gli è appartenuto in vita, il diverso.<br />

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Ciò per significare che forse le religioni avranno un ruolo positivo nei processi civili<br />

quando sapranno amare ciò che non gli appartiene.<br />

Secondo la mia personale impressione, nelle parole del Dott. Giorgio Gomel si trovano<br />

osservazioni utili per affermare che in realtà anche se i modelli di integraz fino ad ora<br />

sperimentati sono molto diversi tra loro, nessuno sembra essere il piu opportuno per<br />

conseguire l’obbiettivo di una convivenza che sia non solo meramente non-violenta ma<br />

come sarebbe piu fruttuoso e rassicurante, invece un confronto dialettico e costruttivo<br />

di pace, democrazia e crescita culturale per tutti.<br />

Il Dott.Di Leo riporta, sulla base di sue esperienze concrete nel campo del dialogo inter-<br />

culturale e inter-religioso, interessanti ed originali spunti propositivi, rappresentati dalla<br />

individuazione di valori di interesse condivisibili da tutti gli appartenenti alle diverse<br />

comunità culturali e religiose, quali la difesa della natura e delle classi svantaggiate .<br />

In sostanza lo sforzo del dialogo se verte alla ricerca di obbiettivi comuni ed importanti<br />

per tutti , diventa la base migliore per una convivenza non solo pacifica ma anche<br />

apportatrice di progresso culturale e sociale sia per la società nazionale che per quella<br />

sovranazionale.<br />

- 109 -<br />

Sabina Pieroni


<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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Il giorno 19\04\07 è stato organizzato un dibattito che ha concluso il ciclo di conferenze<br />

sull’ argomento “Religione e convivenza civile”. Seduti a questa “tavola rotonda”,<br />

abbiamo trovato Paolo Naso, direttore della rivista Confronti, Federico Di Leo,<br />

esponente della comunità di Sant’Egidio, e Giorgio Gomel, sostenitore della parità dei<br />

diritti tra le religioni maggioritarie e le minoranze. Dopo una premessa alquanto forte,<br />

nella quale Naso ha sottolineato sia il problema internazionale della moltitudine di<br />

conflitti a sfondo religioso (ben quarantacinque \ cinquanta attualmente), sia il<br />

problema nazionale della pluralizzazione progressiva della società, sono state poste a Di<br />

Leo e a Gomel due domande di fondamentale importanza: in primo luogo, è stato<br />

chiesto se la religione venga strumentalizzata dalla politica e sia causa di conflitto<br />

invece che di concordia; e ancora, come sia possibile affrontare il pluralismo sociale<br />

senza perdere la propria identità religiosa. Bisogna, in ogni caso, rendersi conto<br />

dell’immensa valenza che ricopre i pensieri di Gomel e di Di Leo che non solo, come<br />

studiosi, ci hanno presentato due facce di una stessa medaglia, ma, come uomini e<br />

cittadini, ci hanno invitato a riflettere su una tematica che ci circonda e ci riguarda ogni<br />

giorno e con cui le generazioni future dovranno fare i conti. Il messaggio che questa<br />

conferenza, in quanto conclusiva di un ciclo, ha lanciato è questo: che la diversità non è<br />

per forza un male e che è giusto dialogare per cogliere dei punti comuni, in modo da<br />

arrivare a dei compromessi ,che sfocino verso una convivenza civile. Per Gomel, la<br />

giusta ricetta per giungere alla concordia è accettare le minoranze senza subordinarsi o<br />

subordinare, continuando a dare la giusta importanza alla religione, che sicuramente,<br />

nel corso della storia, è stata monopolizzata dalla politica, che l‘ha utilizzata come un<br />

vero e proprio strumento ideologico di massa, diventando così instrumentum regni; ed<br />

ecco che le religioni acquistano sia dei meriti che delle colpevolezze. Benché il<br />

fondamentalismo, cioè l’estremo connubio tra precetti religiosi e politica autoritaria,<br />

rappresenti usualmente motivo di aspri contrasti, è giusto, secondo Gomel, che tutti gli<br />

uomini di “fede”, religiosa o laica che sia, si impegnino nel dialogo, facendo sì che la<br />

religione converga alla concordia. Ciò che invece suggerisce Di Leo, è di instaurare un<br />

clima di dialogo per arrivare alla difesa di obiettivi comuni, dalla preservazione<br />

dell’ambiente all’eliminazione della povertà. Inoltre egli, attraverso le sue parole, fa<br />

emergere la vera sfida di cui dobbiamo occuparci ogni giorno: rompere le divisioni che<br />

si stanno radicando sempre più in profondità all‘interno della nostra società, le quali<br />

provocano un immediato effetto di chiusura. Secondo Di Leo, il problema attuale non<br />

deriva dalla strumentalizzazione religiosa, bensì dalla difficoltà in cui si trovano le<br />

religioni, le quali ,depositarie di valori comuni, vengono ridotte molte volte ad un ruolo<br />

di subalternità. Risulta innegabile, inoltre, l’importanza della partecipazione di Naso<br />

che, attraverso le sue conoscenze, è riuscito abilmente ad introdurre i tre modelli di<br />

integrazione religiosa utilizzati attualmente: il primo è il modello melting pot, che<br />

letteralmente significa crogiuolo, lega costituita dalla fusione di diversi metalli, il quale<br />

viene utilizzato nella società americana. Il rischio che si corre, attuando questo<br />

modello, è di arrivare ad una progressiva ghettizzazione e alla chiusura verso<br />

l’immigrazione. Il secondo modello è quello attuato nella società francese che, in un<br />

certo senso, “aggira” l’ostacolo creato dalle minoranze religiose,in quanto lo Stato, che<br />

è laico, non si occupa di questioni che non siano strettamente legate alla politica e, di<br />

conseguenza, davanti ad esso l’individuo viene considerato solo come cittadino. Infine<br />

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l’ultimo modello è quello comunitario, caratterizzante la società olandese, che applica<br />

principi democratici, sostenendo la volontà di mantenere le varie identità minoritarie.<br />

Secondo l’opinione di Naso, è necessario trovare una giusta mediazione tra i tre modelli,<br />

in modo da mantenere un senso di appartenenza in concomitanza con il pluralismo<br />

religioso-sociale. Bisogna far conoscere agli altri la nostra cultura e trasmettere dei<br />

valori e dei principi non negoziabili, che caratterizzino la nostra identità. In accordo con<br />

Naso, ritengo giusto concludere con quelle che mi sembrano le parole che maggiormente<br />

sintetizzino lo spirito di questo ciclo di conferenze, a cui ho partecipato: “le religioni<br />

devono imparare ad amare anche ciò che non gli appartiene“.<br />

- 111 -<br />

Manuela Rasori


<strong>Relazione</strong> sulla tavola rotonda<br />

moderatore dott. Paolo Naso<br />

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Il giorno giovedì 19 aprile 2007 in una tavola rotonda,in cui ad aprire il dibattito sul<br />

tema curato dalla prof.ssa Fierro: “Religioni e convivenza civile”,è stato il moderatore<br />

Paolo Naso, si sono confrontati Giorgio Gomel,esponente della Comunità ebraica e<br />

Federico Di Leo,rappresentante della Comunità di Sant’Egidio. Il moderatore,sin<br />

dall’inizio ha posto all’attenzione dei 2 intellettuali le questioni del pluralismo etnico e<br />

della coesione religiosa-civile,domandando se le religioni costituiscono un problema o un<br />

sistema di soluzioni. Ad affrontare l’argomento interviene dapprima Giorgio Gomel,il<br />

quale premettendo che la questione è piuttosto complessa,poiché non esiste un’unica<br />

soluzione,afferma che le religioni,che dovrebbero essere un elemento di unione e spesso<br />

divengono motivo di conflitto. Infatti,talvolta esse acquisiscono un carattere politico e<br />

in qualità di “instrumentum regni”rischiano di essere manipolate per fini negativi.<br />

Perciò i conflitti,che come afferma Gomel,sono di per sé positivi,perché pongono in<br />

relazione ed in competizione differenti Stati,nel momento in cui diventano violenti si<br />

trasformano in contrasti culturali,nei quali è molto difficile trovare un antidoto. Se da<br />

un lato il conviver non è sinonimo di affermazione della propria identità,perché il<br />

diverso è ricchezza,ma consiste nel trovare un punto di equilibrio,dall’altro,è necessario<br />

che la propria identità non si dissolva in una società omogenea,affinché le minoranze<br />

culturali non scompaiano. Tuttavia l’individualismo non deve diventare<br />

esclusivismo,poiché altrimenti non si potrebbe costituire mai una società multietnica.<br />

Perciò,essendo la tolleranza il principio fondamentale per una convivenza civile,è<br />

indispensabile conciliare il principio giuridico dell’uguaglianza davanti alla legge con il<br />

diritto alla differenza,per concretizzare fino in fondo il problema,che spesso si presenta<br />

come una questione ideologica e filosofica,sebbene però non lo sia. In questa riflessione<br />

si inserisce l’esponente della Comunità di Sant’Egidio,il quale ribadisce quanto detto<br />

nella sua conferenza-dibattito e cioè che creare una comunità religiosamente e<br />

soprattutto socialmente unita si debbono ricercare punti in comune,che garantiscano<br />

rispetto e confronto.Una comunità di tal genere è inesistente in Italia,dove ancora non si<br />

è affermata un’intesa religiosa e civile,in quanto non si è consolidato quel dialogo<br />

politico e in particolare religioso,senza il quale non sussiste convivenza,dunque la<br />

discussione è aperta. Infatti negli altri Stati europei il problema è stato parzialmente<br />

risolto,mediante l’adozione di modelli di integrazione,alcuni dei quali tuttavia,si sono<br />

rivelati inadeguati ad un mondo in così rapida evoluzione. Proprio riguardo a ciò si è<br />

pronunciato Paolo Naso,il quale ha presentato una panoramica dei principali<br />

modelli,costruiti su “compromessi”necessari per una reciproca convivenza. A partire dal<br />

1870 e fino al 1950,negli Stati Uniti,il governo,cercando di creare una sintesi sociale ha<br />

introdotto il cosiddetto modello “melting pot”,ovvero ciò che in Italia è stato definito<br />

“crogiuolo”, formando,così,una società eterogenea ma al tempo stesso omogenea. In<br />

Francia invece,in cui è fortemente presente il senso dello Stato, a prescindere dalla<br />

propria religione ogni uomo è cittadino e in quanto tale ha il dovere di rispettare le<br />

leggi del governo a prescindere dall’appartenenza di “genere”. Infine l’ultimo<br />

modello,definito “comunitaristico”è stato adottato dall’Inghilterra,paese in cui lo Stato<br />

ha lo scopo di valorizzare l’identità di ciascuno,giacchè in Inghilterra c’è un forte senso<br />

di pluralismo. Secondo l’opinione di P.Naso, per poter convivere pacificamente sarebbe<br />

ideale,e forse non utopistico,collaborare per la realizzazione di una giusta combinazione<br />

fra i 3 modelli,poiché ognuno di essi si è dimostrato con il tempo non corrispondente alle<br />

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diverse esigenze. A tal proposito prende la parola Gomel,il quale mostrandosi d’accordo<br />

con Paolo Naso,conferma che l’incontro tra le culture non deve divenire uno<br />

scontro,come purtroppo è stato per il popolo degli Ebrei,da sempre errante ed escluso<br />

da ogni comunità. Infatti attraverso un breve excursus storico da parte<br />

dell’intellettuale,si mette in evidenza come le conseguenze di una mancata integrazione<br />

possano determinare la distruzione di una cultura,che non riesce in tal modo ad inserirsi<br />

nel contesto sociò-politico dell’identità maggioritaria. E qui si conclude la prima parte<br />

del dibattito. Pur non essendo presente il terzo intellettuale,Alì Rashid,diplomatico<br />

palestinese di origine arabo-musulmana,si riapre comunque il dibattito con alcuni<br />

interrogativi posti dagli studenti. Infatti cercando di focalizzare l’attenzione sugli eventi<br />

odierni,che testimoniano l’inesistenza di una convivenza civile,gli studenti domandano<br />

in che modo concretamente si può attuare uno Stato di diritto,nel quale tradizioni e<br />

religioni possano relazionarsi civilmente,e in che modo soprattutto in Italia,dove<br />

l’integrazione è alquanto difficile,è possibile creare le condizioni sociali con le quali<br />

vivere senza nè opprimere l’altro nè essere a nostra volta oppressi. La discussione si<br />

rianimata con l’intervento in primis di Paolo Naso e successivamente di Giorgio Gomel. I<br />

due, confessando di essere piuttosto in difficoltà,a causa della complessità della<br />

tematica,hanno esposto i propri pareri,raccontando persino un aneddoto ebraico: il<br />

midrash ,per poter chiarire i dubbi e le dinamiche mediante le quali si dovrebbe iniziare<br />

costruire una nuova società. Infine ad esaurire l’argomento è stato il<br />

moderatore,direttore della rivista “Confronti”,concludendo che si raggiungerà una reale<br />

convivenza civile solo quando le religioni sapranno amare almeno in parte quello che<br />

non appartiene loro.<br />

- 113 -<br />

Aurora Volpini


Mario Carini<br />

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Le religioni nella moderna società occidentale:<br />

incontri e scontri<br />

1. Di fronte all’ineludibile esigenza di un dialogo posta nella nostra società da questi<br />

travagliati anni che hanno aperto il Terzo Millennio, le grandi religioni monoteiste che<br />

derivano dalla comune fede nel Dio di Abramo (e perciò si sono chiamate religioni<br />

“abramitiche”) hanno compiuto notevoli passi avanti nel segno di una apertura reciproca<br />

verso il confronto rispettoso e costruttivo. cristiani, ebrei e islamici avvertono, sia pur in<br />

modo diverso, l’esigenza di impegnarsi a costruire e consolidare vicendevoli “ponti” di<br />

pace e di armonia, nella consapevolezza che il dialogo interreligioso è l’unica base su cui<br />

sviluppare la convivenza tra i credenti nelle diverse fedi, a tutela del generale interesse<br />

alla convivenza civile. 8<br />

La Chiesa cattolica, com’è noto, ha inaugurato la stagione del dialogo con la realtà del<br />

mondo, prima, e con le religioni non cristiane, poi, in due fondamentali documenti del<br />

suo magistero, l’enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964 e la dichiarazione conciliare<br />

Nostra aetate del 28 ottobre del medesimo anno, pubblicate entrambe sotto il<br />

pontificato di Paolo VI, la cui attività pastorale fu particolarmente impegnata nel segno<br />

dell’ecumenismo. 9<br />

Molto è stato indubbiamente fatto (ricordiamo, come significativo e grande momento di<br />

incontro delle religioni nel Terzo Millennio, tra le Giornate di preghiera per la pace,<br />

quella celebrata da Giovanni Paolo II ad Assisi il 24 gennaio 2002, con la partecipazione<br />

di duecentouno delegati che rappresentavano quarantaquattro differenti religioni) ma<br />

molto resta ancora da fare e il dialogo stesso, in più occasioni e in modo talora<br />

inaspettato, ha conosciuto brusche fasi di arresto e di regressione, a causa di situazioni<br />

nelle quali sono sembrate talora prevalere le voci delle componenti fondamentaliste,<br />

che peraltro in nessuna delle tre religioni abramitiche mancano. 10<br />

Nota: Ringrazio la Collega prof.ssa Licia Fierro per aver accolto questo mio contributo negli atti del ciclo di conferenze<br />

sul tema “Religioni e convivenza civile”, organizzato dalla docente per il corrente anno scolastico. I fatti di cronaca, con<br />

le opinioni e i commenti ad essi relativi, sono aggiornati fino al mese di febbraio 2007. Uso di norma il termine Islam<br />

con l’iniziale maiuscola; laddove esso appare con la minuscola, è dovuto alla fedele trascrizione del testo (interviste,<br />

articoli, dichiarazioni, citazioni) in cui il termine viene menzionato.<br />

8 Il convincimento della necessità del dialogo, nel caso specifico con l’Islam e con le centinaia di milioni di uomini di<br />

buona volontà ad esso appartenenti, è stato ancora una volta ribadito dal card. Paul Poupard, presidente del Consiglio<br />

per il dialogo interreligioso del Vaticano, in occasione della preparazione al viaggio in Turchia di Papa Benedetto XVI,<br />

durante i difficili momenti seguiti al famoso discorso di Ratisbona (intervista al card. Poupard di Luigi Accattoli, «Il<br />

Papa crede nel dialogo interreligioso.Così prepara il suo viaggio in Turchia», in «Corriere della Sera», 5 ottobre<br />

2006).<br />

9 Vd. per una succinta informazione, con rimandi bibliografici, la voce Dialogo delle religioni di Julien Ries, in<br />

Dizionario delle religioni, diretto da Paul Poupard, trad. di Mirella Comba Corsani – Paola Cignoni – Primula Vingiano<br />

– Marina Girardet, vol.I, Mondadori, Milano 2007³, pp.564-565.<br />

10 Componenti fondamentaliste che hanno ormai assunto i caratteri di movimenti sempre più aggressivi e organizzati, in<br />

particolare quello islamico, espresso dall’associazione dei Fratelli Musulmani, fondata in Egitto nel 1928 da Hasan al-<br />

Bannā e tesa, in reazione alla diffusione di idee occidentali nel mondo islamico, alla propagazione dell’Islam in<br />

Occidente. Sul fondamentalismo, data l’ampiezza della bibliografia, ci limitiamo a citare Stefano Allievi – David<br />

Bidussa – Paolo Naso, Il Libro e la spada.La sfida dei fondamentalismi, Claudiana Editrice, Torino 2000; Massimo<br />

Introvigne, Fondamentalismi.I diversi volti dell’intransigenza religiosa, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004.<br />

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Ciascuna delle tre religioni è impegnata non solo a sviluppare il dialogo con le altre due,<br />

ma spesso anche a difendersi, quando si sente attaccata nei propri valori e nell’essenza<br />

della propria fede non solo da ciascuna delle altre due (in nome della sempre sostenuta<br />

pretesa di ognuna ad essere l’esclusiva mediatrice di salvezza), 11 ma anche dalla società<br />

occidentale, che, storicamente formata nella tradizione del liberalismo laico e della<br />

democrazia, sembra cedere agli impulsi di un laicismo talora connotato in senso<br />

antireligioso o anticlericale tout court. Sicché oggi il comportamento degli esponenti<br />

ufficiali di ciascuna delle tre religioni appare improntato a una simmetrica tattica di<br />

apertura e chiusura difensiva, sia verso le altre due sia verso la società moderna.<br />

Numerosi episodi, di cui ricorderemo in questo lavoro i più eclatanti, provvedono a<br />

mostrare quasi ogni giorno quanto sia difficile l’itinerario verso la pacificazione dei cuori<br />

e delle menti, per evitare quel teorizzato e deprecato scontro di civiltà, 12 che sarebbe<br />

poi il riflesso di una ancor più rovinosa guerra di religione.<br />

2. I rapporti tra la Chiesa e il mondo islamico hanno alle spalle una plurisecolare storia<br />

di travagli e vicissitudini anche sanguinose, non escluso l’affrontamento militare (con lo<br />

scatenamento delle crociate, da parte cattolica, e della “guerra santa”, da parte<br />

islamica). 13 È soltanto nel Novecento che la Chiesa decide di analizzare accuratamente<br />

l’attività missionaria nei paesi islamici, al fine di istituire un possibile dialogo con le<br />

comunità dei fedeli di Maometto. 14 Anche nel dialogo con l’Islam, per lo straordinario<br />

impulso che ha saputo dare al suo sviluppo, si è distinto Papa Giovanni Paolo II:<br />

l’affermazione della stima e del rispetto verso i musulmani sono stati un motivo costante<br />

dell’azione del Pontefice polacco, affermato, già nel 1979, nella sua prima enciclica<br />

Redemptor Hominis. 15 Numerosi sono stati gli incontri del Papa con i credenti<br />

musulmani, in occasione della contestuale visita alle comunità cristiane presenti nei<br />

paesi di lingua araba o di religione islamica: ricordiamo l’incontro con i giovani<br />

musulmani del Marocco (1985), aperto con una professione di fede nel Dio unico,<br />

creatore e guida delle creature verso la perfezione, l’incontro con i capi musulmani del<br />

Senegal (1992), nel quale il Papa ha parlato di cristiani, ebrei e musulmani come<br />

11 I momenti di attrito mostrano la difficoltà nel mantenere lo spirito di Assisi, così suggestivamente descritto da un<br />

illustre giurista cattolico, Francesco Paolo Casavola: «Nell’incontro di Assisi tutte le religioni sono apparse nude,<br />

vestite ognuna della sola fede in Dio e tutte uguali e paritarie (ecco, accentuo, sottolineo questo punto: tutte uguali e<br />

paritarie, lo abbiamo visto nelle immagini televisive), non l’una più vera dell’altra, per un rapporto privilegiato con un<br />

Dio vero e non falso. La portata epocale della preghiera comune a Dio elevata ad Assisi, l’abbiamo verificata con questa<br />

suggestiva immagine delle fiamme accese dai rappresentanti delle dodici religioni mondiali in una finalmente raggiunta<br />

concordia delle religioni un tempo opposte e rivali» (Francesco Paolo Casavola, Gli aspetti della società multiculturale<br />

e multireligiosa (Conferenza del 23 gennaio 2004), in Fedi e Ateismo nella civiltà contemporanea, Tema di<br />

approfondimento culturale per l’a.s. 2003 / 2004, a cura della prof.ssa Licia Fierro, <strong>Liceo</strong> Classico Orazio, Roma 2004,<br />

p.15).<br />

12 Teorizzato nel famoso saggio di Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order,<br />

1996 (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad. di Sergio Minucci, Garzanti, Milano 2004, rist.).<br />

13 Sulla storia degli scontri bellici tra Occidente e Islam vd. Peter Partner, Il Dio degli eserciti.Islam e Cristianesimo: le<br />

guerre sante (God of Battles.Holy Wars of Christianity and Islam, 1997), trad. di Valentina Prosperi, Einaudi, Torino<br />

1997; le tragiche vicende dei cristiani che hanno sofferto il martirio nelle terre islamiche sono narrate da Camille Eid, A<br />

morte in nome di Allah, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2004.<br />

14 Significative le istruzioni, scritte nel 1938 e solo recentemente pubblicate, di padre Albert Perbal, a capo della<br />

Commissione vaticana di ricerche sull’Islam, relative all’azione missionaria nei paesi islamici e improntate a profondo<br />

rispetto e prudenza: vi si raccomanda, fra l’altro, di non ricercare conversioni individuali, che possono generare accuse<br />

di apostasia per il convertito e di far sprigionare il carattere universale del cristianesimo, separandolo nettamente da<br />

tutto ciò che è occidentale, europeo, nazionalista e legato allo spirito coloniale. Vd. al riguardo Paolo Conti, 1938, il<br />

Decalogo del Vaticano:«Morbidi con l’Islam», in «Corriere della Sera», 20 settembre 2006.<br />

15 Vd. enciclica Redemptor Hominis, § 11 «Il Concilio ha dedicato una particolare attenzione alla religione giudaica,<br />

(…), ed ha espresso la sua stima verso i credenti dell’Islam, la cui fede si riferisce anche ad Abramo», in ripresa della<br />

Nostra aetate, §§ 3-4.<br />

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appartenenti alla medesima tradizione abramitica, i viaggi, per citarne qualcuno tra i<br />

suoi numerosissimi, in Turchia (1979), Alto Volta (1980), Mali (1981, 1988, 1990),<br />

Tanzania (1987), Pakistan (1989), nel corso dei quali non ha perso occasione per<br />

riaffermare, oltre al rispetto per i “fratelli musulmani”, anche la necessità della<br />

comprensione e del dialogo tra i credenti delle due fedi, per scongiurare quello “scontro<br />

di civiltà” a cui la Chiesa fermamente si oppone. In tale prospettiva, un gesto carico di<br />

valenza simbolica è stato rappresentato dalla visita di Papa Giovanni Paolo II alla<br />

moschea di Damasco il 6 maggio 2001. 16<br />

Dopo Giovanni Paolo II il dialogo tra la Chiesa e l’Islam conosce ulteriori significativi<br />

passi avanti, lungo la via del reciproco rispetto e della comprensione (tra i quali,<br />

ricordiamo il saluto di Papa Benedetto XVI ai musulmani per la fine del Ramadan il 22<br />

ottobre 2006 17 e, soprattutto, la visita alla Moschea Blu di Istanbul compiuta il 30<br />

novembre 2006 da Benedetto XVI durante il suo recente viaggio in Turchia, un viaggio<br />

“pastorale e non politico”, con una forte connotazione ecumenica e interreligiosa), 18 ma<br />

anche battute di arresto, dovute, perlopiù, a equivoci e fraintendimenti, episodi non<br />

frequenti a cui però la stampa dà particolare risalto, contribuendo talvolta ad<br />

infiammare gli animi. Avviene, difatti, che determinate affermazioni di alti esponenti<br />

della Chiesa cattolica, e perfino del Pontefice, finiscano per urtare, quando siano lette<br />

in modo parziale e avulso dal contesto, la suscettibilità dei membri delle altre religioni.<br />

È quanto è accaduto, nel caso degli islamici, durante il viaggio pastorale in Baviera, il 12<br />

settembre 2006, allorché Benedetto XVI ha tenuto un discorso all’università di<br />

Regensburg (Ratisbona) sul tema Fede, ragione, università. Ricordi e riflessioni.<br />

Sintetizziamo rapidamente i fatti. Nell’ambito del discorso il Papa, per condannare il<br />

ricorso alla violenza da parte del fanatismo religioso (affermando testualmente che «la<br />

guerra santa è contro Dio»), cita il dialogo tra l’imperatore bizantino Manuele II<br />

Paleologo e un dotto musulmano, svoltosi forse nel 1391. Un passo della citazione papale<br />

(a commento della sura coranica 2,256, «Nessuna costrizione nelle cose di fede»,<br />

laddove riporta il giudizio assai negativo dell’imperatore bizantino su Maometto) 19<br />

scatena le reazioni di importanti esponenti musulmani di una decina di paesi, come il<br />

presidente degli Affari Religiosi della Turchia, Ali Bardakoglu, il quale, secondo quanto<br />

riferito dalle agenzie internazionali, considera provocatorio, ostile e pregiudiziale il<br />

discorso del Papa, affermando: «Aspettiamo che il Papa ritiri le sue parole e chieda<br />

16 Nella moschea degli Omayyadi di Damasco il Papa poté pregare presso il Memoriale di Giovanni il Battista, venerato<br />

anche dai musulmani: vd. Luigi Accattoli, La vita di Giovanni Paolo II, in Il pontificato di Giovanni Paolo II (vol.XI<br />

della Storia del Cristianesimo 1878-2005), a cura di Elio Guerriero e Marco Impagliazzo, Edizioni San Paolo, Cinisello<br />

Balsamo 2006, p.39 e, sul dialogo con l’Islam, le pp.146-149.<br />

17 Ai quali il Pontefice, unendosi al clima gioioso di festeggiamento per la fine del digiuno, ha augurato serenità e pace,<br />

non dimenticando di ricordare la gravissima situazione dell’Iraq (Luigi Accattoli, Il Papa saluta la fine del Ramadan<br />

«Serenità e pace ai musulmani», in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2006): un gesto di ulteriore pacificazione degli<br />

animi dopo le violente proteste per il discorso di Ratisbona.<br />

18 Sul viaggio del Papa in Turchia vd. Giovanni Marchesi S.I., La visita di Benedetto XVI in Turchia (28 novembre – 1°<br />

dicembre 2006), in «La Civiltà Cattolica», n. 3756, 16 dicembre 2006, pp.586-595.<br />

19 «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la<br />

sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava». Per la verità il Pontefice aveva utilizzato la<br />

citazione dell’imperatore bizantino per mostrare l’irragionevolezza della diffusione della fede mediante la violenza (con<br />

contestuale condanna di ogni “guerra santa”). Vittorio Messori, però, aveva previsto che il discorso di Benedetto XVI,<br />

con citazioni del Corano in chiave “pacifica”, avrebbe suscitato lo sdegno dei musulmani radicali e il consenso di quelli<br />

moderati (che, per la verità, non c’è stato o, se c’è stato, non è stato pubblicizzato adeguatamente dai mezzi di<br />

informazione): vd. Vittorio Messori, Semplicità e sciabolate, in «Corriere della Sera», 13 settembre 2006. Che il Papa<br />

non intendesse affatto condannare in toto l’Islam, ma soltanto il ricorso alla violenza come contrario alla natura di Dio,<br />

è stato rimarcato dall’editoriale della «Civiltà Cattolica», «Promuovere il dialogo per costruire la pace», in «La Civiltà<br />

Cattolica», n.3751, 7 ottobre 2006, pp.3-10.<br />

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scusa al mondo dell’Islam». 20 Ribatte il cardinale Paul Poupard, presidente del Consiglio<br />

per il dialogo interreligioso, invitando «gli amici musulmani di buona volontà a prendere<br />

in mano il testo del papa e a leggerlo per intero e a meditarlo»: risulterà chiaro,<br />

secondo il prelato, che il discorso del Pontefice è in realtà non un attacco all’Islam, ma<br />

una mano tesa, perché rivendica il valore delle culture religiose dell’umanità, tra le<br />

quali «un gran posto ha l’Islam». 21 A dispetto delle precisazioni, dei chiarimenti e delle<br />

scuse della Santa Sede (esce il 16 settembre una nota della segreteria di stato, con<br />

l’espressione dei sentimenti di “vivo dispiacere” di Benedetto XVI, 22 apprezzata,<br />

peraltro, dal Gran Muftì di Siria Ahmad Badr Al-Din Hassoun, il quale ammette che il<br />

Pontefice non aveva alcuna intenzione di offendere l’Islam), 23 molte comunità islamiche<br />

recepiscono, però, del discorso del Pontefice, soltanto il passaggio della citazione<br />

dell’imperatore bizantino, con il suo giudizio fortemente negativo sulla religione di<br />

Maometto. Le proteste trascendono in gravissimi atti di violenza, dopo gli inviti a colpire<br />

i cristiani: a Mogadiscio, il 17 settembre 2006, viene uccisa, davanti all’ospedale in cui<br />

lavorava, la missionaria suor Leonella Sgorbati, 65 anni. Il clima ostile peraltro non<br />

agevola atti umanitari da parte delle autorità statali islamiche: vengono giustiziati in<br />

Indonesia tre cristiani, Fabianus Tibo (60 anni), Marianus Riwu (48 anni) e Dominggus<br />

Silva (42 anni), già condannati nel 2001 con l’accusa (mai effettivamente provata) di<br />

aver assalito una scuola islamica, nonostante gli appelli alla clemenza della Santa Sede e<br />

di Amnesty International. 24 La Santa Sede, come riferisce il nuovo segretario di Stato<br />

vaticano, card. Tarcisio Bertone, incarica tutti i nunzi apostolici dei paesi islamici di<br />

spiegare il discorso papale. 25 Un coraggioso editoriale del vicedirettore del «Corriere<br />

della Sera», Magdi Allam, difendendo il Pontefice (che viene minacciato persino da Al<br />

Qaida) per aver detto la verità storica, accusa l’ideologia dell’odio (che ha fatto<br />

riesumare quell’alleanza internazionale dei musulmani anticristiana e antioccidentale,<br />

come in occasione delle vignette su Maometto), quale «realtà ancestrale che esiste in<br />

seno all’islam sin dai suoi esordi, per il rifiuto di riconoscere e rispettare la pluralità<br />

delle comunità religiose che sono fisiologiche data la soggettività del rapporto tra il<br />

fedele e Dio e l’assenza di un unico referente spirituale che incarna l’assolutezza dei<br />

dogmi della fede». 26 E, in effetti, va ricordato al riguardo che l’art. 22, comma a, della<br />

Dichiarazione del Cairo sui Diritti dell’Uomo nell’islam (Risol. 49/19-P della XIX<br />

Conferenza Islamica dei ministri degli esteri, 5 agosto 1990) riconoscendo per tutti gli<br />

20<br />

A lui si aggiungono, esternando il loro sdegno soprattutto per la citazione papale dell’imperatore bizantino su<br />

Maometto, alti esponenti religiosi di Kuwait, Egitto, Pakistan, e il rettore della Moschea di Parigi, il “moderato” Dalil<br />

Boubakeur. Vd. Luigi Accattoli, Proteste dall’Islam per le frasi del Papa: ostili e provocatorie, in «Corriere della<br />

Sera», 15 settembre 2006. Anche il gesuita padre Thomas Michel (già capo dell’Ufficio per l’Islam del Consiglio per il<br />

dialogo interreligioso del Vaticano) ha sorprendentemente affermato la necessità di «scuse chiare, nette e dirette» ai<br />

musulmani, suscitando le aperte critiche di Magdi Allam, che lo ha accusato di appartenere al fronte dei pastori della<br />

Chiesa fin troppo preoccupati di non inimicarsi i predicatori d’odio (Magdi Allam, Se l’Occidente decide di<br />

autocensurarsi, in «Corriere della Sera», 28 settembre 2006).<br />

21<br />

Vd. Luigi Accattoli, «Leggete bene quel testo di Benedetto XVI: è come una mano tesa», ibid.<br />

22<br />

Luigi Accattoli, «Benedetto XVI dispiaciuto.Non voleva offendere», in «Corriere della Sera», 17 settembre 2006.<br />

23<br />

Lorenzo Cremonesi, «Il Pontefice adesso ha chiarito tutto.Nessuna offesa alla nostra religione», in «Corriere della<br />

Sera», 18 settembre 2006.<br />

24<br />

Viviana Mazza, L’Indonesia non cede, giustiziati i tre cristiani, in «Corriere della Sera», 22 settembre 2006. Ha<br />

stigmatizzato, sul medesimo quotidiano, l’assenza di indignazione dei governi occidentali Piero Ostellino, per il quale la<br />

tolleranza è ridotta ad acquiescenza verso il fondamentalismo e le persecuzioni che i cristiani subiscono nelle terre<br />

dell’Islam (Piero Ostellino, Liberali senz’anima, ibid.).<br />

25<br />

Vd. l’intervista al card. Bertone di Luigi Accattoli, «Tutti i nunzi nei paesi islamici spiegheranno le parole del Papa»,<br />

in «Corriere della Sera», 18 settembre 2006.<br />

26<br />

Vd. Magdi Allam, La verità della storia, ibid.<br />

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uomini il diritto alla libertà d’opinione, sottomette questa ai principi della sharī’a, 27<br />

ossia della legge islamica derivante dal Corano. Tale limitazione, connaturata al<br />

principio dell’esclusività della fede islamica, si riflette nel problematico caso<br />

dell’apostasia, perché, com’è ben noto, il musulmano che sceglie di abbandonare la sua<br />

fede per convertirsi ad altra religione, rischia la pena di morte 28 (anche se in campo<br />

islamico è emersa recentemente una posizione più “liberale”, che considera con una<br />

certa tolleranza il fenomeno delle conversioni dall’Islam).<br />

Si tessono, però, contemporaneamente i fili del dialogo. Il rettore della Moschea di<br />

Marsiglia, Mohand Alili, capo una delle più grandi comunità musulmane in Francia,<br />

condanna le reazioni scomposte e assurde dei suoi correligionari e dei governi di paesi<br />

musulmani, che lo hanno negativamente colpito ben più delle parole del Papa (a cui<br />

riconosce il diritto di esprimersi anche sull’Islam). 29 Una lettera di trentotto teologi<br />

musulmani di ogni parte del mondo, il 14 ottobre, propone in forma rispettosa e garbata<br />

al Papa uno scambio di opinioni in merito alle sue affermazioni di Ratisbona. 30 Il<br />

successivo incontro del 25 settembre 2006 nella Villa di Castel Gandolfo tra Papa<br />

Benedetto XVI, i membri della Consulta Islamica e una delegazione di ambasciatori in<br />

rappresentanza di venti paesi a maggioranza musulmana, riafferma l’amicizia e la<br />

concordia tra il Vaticano e il mondo islamico. Però le minacce subite dal Papa sono nel<br />

frattempo divenute un caso politico: il presidente della Commissione Europea, l’ex<br />

premier portoghese Josè Manuel Barroso, in una dichiarazione ufficiale esprime il suo<br />

disappunto verso quei paesi membri dell’Unione Europea che si sono astenuti dal<br />

difendere il Pontefice di fronte agli attacchi degli islamici, in nome del principio della<br />

separazione tra Stato e Chiesa, 31 quel medesimo principio di laicità che ha portato<br />

all’esclusione di qualsiasi riferimento alle radici cristiane dell’Europa nel testo della<br />

Costituzione Europea. E da parte sua Magdi Allam, vicedirettore del «Corriere della<br />

Sera», commentando in veste di “italiano e musulmano laico di civiltà occidentale”<br />

l’incontro del Papa con gli ambasciatori e gli esponenti delle comunità islamiche,<br />

considera una sconfitta il fatto che il Pontefice sia costretto a spiegare che con il<br />

discorso di Ratisbona non intendeva offendere l’Islam, allorché esercitava il legittimo<br />

27<br />

Art. 22 comma a): Ognuno ha il diritto di esprimere liberamente la propria opinione in un modo che non<br />

contravvenga ai principi della sharī’a. Il testo della Dichiarazione del Cairo è riportato in Carlo Panella, Il «complotto<br />

ebraico». L’antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden, Lindau, Torino 2005, p.256, ove è sinotticamente messo<br />

a confronto con i principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’ONU il 10 dicembre 1948,<br />

segnatamente con l’art.18, che sancisce per tutti gli individui e senza alcuna limitazione la libertà di pensiero, coscienza<br />

e religione, incluso il diritto di cambiare fede.<br />

28<br />

In applicazione dei principi espressi nel Corano, come nelle sure 2,217 («E chi di voi rinnegherà la fede e morirà<br />

nella miscredenza, ecco chi avrà fallito in questa vita e nell’altra. Ecco i compagni del Fuoco: vi rimarranno in eterno»,<br />

in Il Corano, a cura di Hamza Roberto Piccardo, Newton & Compton, Roma 2004⁵, p.53), 3,90 («In verità, a quelli che<br />

rinnegano dopo aver creduto e aumentano la loro miscredenza, non sarà accettato il loro pentimento. Essi sono coloro<br />

che si sono persi», ibid., p.74), 4,115 («Chi si separa dal Messaggero dopo che gli si è manifestata la guida, e segue un<br />

sentiero diverso da quello dei credenti, quello lo allontaneremo come si è allontanato e lo getteremo nell’Inferno. Qual<br />

triste destino», ibid., p.101), 4,137 («Coloro che cedettero e poi negarono, ricredettero e poi rinnegarono, non fecero che<br />

accrescere la loro miscredenza. Allah non li perdonerà e non li guiderà sulla via», ibid., p.104), 9,74 («Se si pentono<br />

[scil. coloro che hanno rinnegato la fede in Allah] sarà meglio per loro; se invece volgono le spalle, Allah li castigherà<br />

con doloroso castigo in questa vitae nell’altra; e sulla terra, non avranno né alleato né patrono», ibid., p.176) e in<br />

numerose altre, che ispirano la legislazione dei paesi islamici. Sulle discussioni in campo islamico riguardo alle<br />

sanzioni con cui colpire gli apostati e sulla vita dei fuorusciti dall’Islam vd. Sandro Magister, Morte o libertà per gli<br />

apostati?La contro-fatwa dei musulmani liberali (30 novembre 2005), testo leggibile sul sito Internet www.chiesa<br />

all’indirizzo htp://chiesa.espresso.repubblica.it<br />

29<br />

Vd. l’intervista a Mohand Alili di Massimo Nava, «Le reazioni violente al Pontefice offendono anche l’Islam», in<br />

«Corriere della Sera», 19 settembre 2006.<br />

30<br />

Luigi Accattoli, I leader islamici al Papa: dialogo dopo le polemiche, in «Corriere della Sera», 15 ottobre 2006.<br />

31<br />

Vd. Ivo Caizzi, Barroso: «Deluso dai leader europei che non hanno difeso il Pontefice», in «Corriere della Sera», 25<br />

settembre 2006.<br />

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diritto alla libertà d’espressione. 32 Il suo commento ha il merito di sollevare il problema<br />

della effettiva rappresentatività dell’Islam, che non corrisponde oggi alla pluralità dei<br />

suoi orientamenti religiosi, sicché poche persone, e non si sa neppure quanto<br />

qualificate, hanno in Italia la pretesa di parlare a nome di tutto il mondo islamico (cosa<br />

che possono tranquillamente fare in virtù della sovraesposizione mediatica che privilegia<br />

qualsiasi dichiarazione o atto venga dalle comunità islamiche).<br />

Il viaggio che il Papa ha compiuto in Turchia dal 28 novembre al 1° dicembre 2006 ha<br />

avuto il merito di appianare i contrasti con i musulmani in merito al discorso di<br />

Ratisbona, anche se il fine principale era quello, duplice, di sollevare il problema della<br />

protezione delle piccole comunità turco-cristiane e di rendere visita al Patriarca di<br />

Costantinopoli Bartolomeo I nella speranza di comporre il dissidio sorto tra il<br />

predecessore Giovanni Paolo II e gli ortodossi, che non gradirono la decisione del<br />

Pontefice polacco di istituire quattro nuove diocesi in Russia (favorendo, secondo la loro<br />

visione, i cattolici Uniati, ossia quelli legati alla Chiesa di Roma). 33 Mentre il Papa non ha<br />

perso occasione di ribadire stima e amicizia per gli islamici, sottolineando le sue parole<br />

con il gesto della visita alla Moschea Blu di Istanbul, 34 una minoranza di turchi<br />

appartenenti al Partito della Felicità, d’ispirazione islamica, ha protestato il 26<br />

novembre e anche il premier turco Erdogan, cedendo evidentemente agli umori delle<br />

frange più estremiste, ha evitato d’incontrare il Papa in via ufficiale, sprecando una<br />

preziosa occasione (tanto più che è sub iudice la questione dell’ingresso della Turchia<br />

nell’Unione Europea) per dimostrare un atteggiamento di dialogo e comprensione.<br />

Accanto alle significative aperture verso l’Islam e all’infaticabile ricerca di un<br />

dialogo anche nei momenti più difficili, si deve registrare, però, nel mondo cattolico<br />

anche qualche posizione di prudenza, 35 se non di netta chiusura. L’esempio di Papa<br />

Giovanni Paolo II, infaticabile costruttore di ponti verso le altre religioni, non trova il<br />

consenso di tutti gli esponenti della Chiesa e del pensiero cattolico. Il sacerdote e<br />

politologo Gianni Baget Bozzo (di cui si ricorda il polemico pamphlet Di fronte<br />

all’Islam.Il grande conflitto, Marietti 1820, Genova 2001, nel quale conferma l’antico<br />

giudizio sulla religione di Maometto come una grande eresia anticristiana), in un suo<br />

recente intervento, traendo spunto dal caso della scuola di Colle Val d’Elsa<br />

(precisamente a San Gimignano, in provincia di Siena), dove il consiglio d’istituto ha<br />

impedito al vescovo di visitare la scuola per non turbare tre bambini musulmani, 36<br />

32 Magdi Allam, L’Islam, Benedetto XVI e un rischio, ibid.<br />

33 Vd. il commento di Sergio Romano, Il papa, l’Islam e gli ortodossi, in «Corriere della Sera», 27 novembre 2006, che<br />

pone l’accento proprio sulla finalità ecumenica del viaggio in Turchia di Papa Benedetto XVI, in attesa di ricevere il<br />

consenso della Chiesa ortodossa per compiere l’attesa visita in Russia.<br />

34 All’udienza generale del 6 dicembre 2006 il Pontefice, dando un significato “provvidenziale” all’emozionante visita<br />

nella Moschea Blu, ha parlato del suo raccoglimento in quel luogo di preghiera e ha detto di essersi rivolto all’unico<br />

Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità, augurando che tutti i credenti possano<br />

riconoscersi sue creature e dare testimonianza di vera fraternità (vd. Luigi Accattoli, «Nella moschea ho pregato il Dio<br />

unico.Il mio gesto ispirato dalla Provvidenza», in «Corriere della Sera», 7 dicembre 2006. Si noti come lo stile della<br />

preghiera papale risulta molto vicino alla sensibilità dei musulmani.<br />

35 I timori di una lenta ma inarrestabile penetrazione dell’Islam in Europa, a seguito dell’immigrazione di migliaia di<br />

maghrebini, e a fronte della debolezza delle comunità ecclesiali, è stata espressa nel documento della Conferenza<br />

Episcopale dell’Emilia Romagna, Islam e Cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Bologna 2000, pp.26-27. Il Pontificio<br />

Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti ha prescritto agli operatori parrocchiali di non mettere a<br />

disposizione dei non cristiani luoghi di culto e locali annessi, e di preparare accuratamente la fidanzata cattolica di un<br />

musulmano sulle profonde diversità culturali e religiose da affrontare (Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti<br />

e gli itineranti, La carità di Cristo verso i migranti, Edizioni Paoline, Milano 2004, § 61 p.78 e § 67 p.72).<br />

36 Mons. Antonio Buoncristiani non ha potuto effettuare la programmata visita alla scuola elementare per il rifiuto<br />

opposto dal consiglio d’istituto, con la motivazione che la visita avrebbe potuto turbare le minoranze religiose presenti<br />

nella scuola, sita a pochi chilometri da dove sorgerà la moschea di Colle Val d’Elsa. L’episodio ha sollevato polemiche<br />

e discussioni (il vescovo in una nota ha parlato di «precomprensione ideologica di stampo anticlericale») suscitando<br />

anche l’intervento sdegnato del Ministro della Pubblica Istruzione Fioroni. Anche l’imam della comunità islamica di<br />

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denuncia l’accordo che legherebbe islamici e laicisti al fine di obliterare la presenza<br />

cristiana nella società: «la presenza di musulmani in Italia diviene una occasione per<br />

ridurre l’influenza storica del Cristianesimo nel nostro Paese e rendere la Chiesa<br />

cattolica delegittimata in nome della libertà religiosa. La libertà non esclude la presenza<br />

del vescovo, che non lede i diritti dei non credenti. Ma l’esclusione del vescovo dipende<br />

dalla convinzione che il Cristianesimo è sentito come lesivo in quanto tale della<br />

posizione religiosa e culturale dei non credenti. La Chiesa cattolica in particolare è vista<br />

come per principio nemica della libertà: e questo pregiudizio fa sì che si chieda allo<br />

Stato di limitare la presenza ecclesiale. Il carattere laico della scuola viene inteso come<br />

eliminazione della Chiesa e del Cristianesimo dall’interno di essa.» 37 Ha respinto ogni<br />

ipotesi di avvicinamento tra Islam e cristianesimo il teologo e giurista Jacques Ellul<br />

(1912-1994), che in un testo apparso postumo, Islam e cristianesimo (Islam et judéochristianisme,<br />

2004), smonta ogni possibile ipotesi di parentela fra le due grandi<br />

religioni monoteiste, a partire dalla pretesa, a suo dire, comune origine abramitica,<br />

perché l’Abramo qual è raffigurato nel Corano non corrisponde affatto al Patriarca<br />

veterotestamentario (l’Alleanza con Dio sarebbe stata realizzata con la discendenza di<br />

Isacco, non con quella di Ismaele, che Abramo ebbe dalla schiava Agar). 38<br />

3. I rapporti non sempre facili tra Chiesa cattolica ed ebraismo si sono evoluti in un<br />

cammino di passi graduali che parte dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate,<br />

approvata nel 1965 dal Concilio Vaticano II (il quale che sancì lo speciale vincolo<br />

spirituale che lega il popolo del Nuovo Testamento alla stirpe di Abramo, cancellando<br />

per gli ebrei l’accusa teologica di deicidio), per finire con la fondamentale visita alla<br />

sinagoga di Roma di Giovanni Paolo II (che per l’occasione arrivò a chiamare gli ebrei “i<br />

nostri fratelli prediletti, i nostri fratelli maggiori”) il 13 aprile 1986, indimenticabile<br />

gesto di grande apertura nella storia dei rapporti tra le due grandi religioni<br />

monoteiste. 39 Vanno aggiunte anche le numerose occasioni in cui Papa Wojtyla, pur non<br />

formulando ancora una solenne richiesta di perdono (cosa che però avverrà la domenica<br />

del 12 marzo 2000), ha espresso il suo dolore sia per le sofferenze patite dagli ebrei<br />

durante la seconda guerra mondiale sia per la passività dei cristiani di fronte<br />

all’Olocausto. 40 Documenti ufficiali della Chiesa cattolica costituiscono passi sempre più<br />

decisi verso il riavvicinamento, se non la riconciliazione, tra cristiani ed ebrei. Citiamo<br />

in proposito il documento della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, dal<br />

titolo Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (Edizioni Paoline, Milano 1998), nonché<br />

Colle Val d’Elsa ha criticato la decisione del consiglio d’istituto. Sul fatto vd. Giordano Bruno Guerri, Più islamici<br />

dell’imam, in «Il Giornale», 18 dicembre 2006; Maria Cristina Carratù, “Rispetto per le minoranze religiose” a scuola<br />

salta la visita del vescovo, in «La Repubblica», edizione di Firenze, 20 dicembre 2006. Va ricordato che il mese<br />

precedente anche in una scuola elementare di Vigodarzere (Padova) era stato vietato l’ingresso all’arcivescovo di<br />

Padova, mons. Antonio Mattiazzo, dal direttore didattico a tutela, secondo quest’ultimo, della laicità della scuola, vd.<br />

Lucio Piva, «Difendo la laicità della mia scuola» Il direttore vieta l’ingresso al vescovo, in «Corriere della Sera», 14<br />

novembre 2006.<br />

37<br />

Gianni Baget Bozzo, Laicisti e islam, patto contro i cristiani, in «Il Giornale», 23 dicembre 2006.<br />

38<br />

Jacques Ellul, Islam e cristianesimo.Una parentela impossibile (Islam et judéo-christianisme, 2004), trad. di Gianluca<br />

Perrini, Lindau, Torino 2006, p.58.<br />

39<br />

Una commossa rievocazione di quell’incontro, da parte ebraica, è nelle memorie dell’ex rabbino capo di Roma, Elio<br />

Toaff, Perfidi giudei fratelli maggiori, Milano 1987², pp.233-241. Vd., per una rapida sintesi dei momenti<br />

dell’avvicinamento tra Chiesa cattolica ed ebraismo, la voce Dialogo ebraico-cristiano di Carmine Di Sante, in<br />

Dizionario delle religioni, cit., vol.I, pp.575-578; vd. anche Silvano Scalabrella, Gesù di Nazareth e il dialogo ebraicocristiano,<br />

in «Studium», n.6, 1987, pp.844-856 (mostra come ogni forma di antigiudaismo sia al contempo un<br />

anticristianesimo); Francesco Rossi De Gasperis S.I., I volti del Dio unico: cristiani ed ebrei in dialogo, in «La Civiltà<br />

Cattolica», n.3386, 20 luglio 1991, pp.160-164.<br />

40<br />

Vd. le pronunce papali raccolte in Luigi Accattoli, Quando il Papa chiede perdono, Mondadori, Milano 1997, pp.97-<br />

103.<br />

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il testo della Commissione Teologica Internazionale Memoria e riconciliazione: la Chiesa<br />

e le colpe del passato (Edizioni Paoline, Milano 2000). Nel primo, nel condannare nel<br />

modo più fermo tutte le ideologie razziste che hanno avvelenato l’umana convivenza, la<br />

Chiesa, esprimendo il suo profondo rammarico per la mancata protesta o, peggio,<br />

l’indifferenza di tanti cristiani di fronte alle sofferenze degli ebrei, «si accosta con<br />

profondo rispetto e grande compassione all’esperienza dello sterminio, la Shoah,<br />

sofferta dal popolo ebraico durante la seconda Guerra Mondiale» (p.19) e prega che il<br />

dolore che il popolo ebraico ha sofferto nel passato conduca a nuove relazioni con gli<br />

ebrei, a un nuovo futuro in cui non vi sia più né sentimento antigiudaico tra i cristiani né<br />

sentimento anticristiano tra gli ebrei, «ma piuttosto un rispetto reciproco condiviso,<br />

come conviene a coloro che adorano l’unico Creatore e Signore e hanno un comune<br />

padre nella fede, Abramo» (p.20). Il secondo testo, nel giudicare come un fatto storico<br />

doloroso e causa di profondo rammarico la diffidenza di numerosi cristiani per gli ebrei<br />

nel corso del tempo, riprende le tesi del primo, auspicando un approfondimento della<br />

memoria morale e religiosa riguardo alla ferita inferta agli ebrei, a cui concorse il<br />

manchevole comportamento di alcuni cristiani (pp.94-96). Ai testi hanno fatto riscontro i<br />

gesti, dal fortissimo impatto emotivo e simbolico, di Papa Giovanni Paolo II, determinato<br />

nel perseguire con incrollabile volontà la via del dialogo con gli ebrei: oltre alla storica<br />

visita alla sinagoga di Roma nel 1986, vanno certamente ricordati il mea culpa,<br />

pronunciato dal Papa in San Pietro il 12 marzo 2000, con le sette richieste di perdono<br />

(tra cui quello per i peccati commessi nel rapporto verso gli ebrei), 41 nonché il<br />

“pellegrinaggio giubilare” del 20-26 marzo 2000 in Terra Santa, che portò il Pontefice, la<br />

domenica del 26 marzo, a soffermarsi in preghiera a Gerusalemme, davanti al Muro del<br />

Pianto, lasciandovi in una fessura il messaggio contenente il testo del mea culpa verso<br />

gli ebrei recitato in San Pietro il 12 marzo precedente. 42<br />

Parallelamente si assiste a un’apertura alla Chiesa cattolica da parte dell’ebraismo: si<br />

tratta di voci isolate ma autorevoli, che si adoperano per smentire vecchi pregiudizi che<br />

gravano, talvolta come macigni, sul dialogo giudeo-cattolico e che vengono di quando in<br />

quando rispolverati. Così, mentre alcuni ambienti ebraici denunciano l’antisemitismo<br />

degli scritti di Padre Léon Dehon (1843-1925), fondatore dei Sacerdoti del Sacro Cuore,<br />

fermandone il processo di beatificazione, un saggio dello storico e rabbino David G.<br />

Dalin, apparso nel 2005, The Myth of Hitler’s Pope, si impegna a smentire il presunto<br />

filonazismo di Papa Pio XII, esaltando l’opera di assistenza fornita dalla Santa Sede agli<br />

ebrei perseguitati durante la Shoah e ricordando anche l’avversione che per Papa Pacelli<br />

nutrivano Hitler e i capi nazisti. 43<br />

Ma il dialogo tra Chiesa cattolica e mondo ebraico conosce anche momenti di polemica,<br />

legati anche a motivi squisitamente politici. Lo Stato d’Israele, come si ricorderà, nel<br />

41 Le altre richieste di perdono riguardavano quello per i peccati in generale, per i peccati commessi contro la<br />

persecuzione degli eretici, contro l’unità delle Chiese, contro la pace e i diritti dei popoli, contro la donna e l’unità del<br />

genere umano, contro i diritti fondamentali della persona: vd. al riguardo Luigi Accattoli, La vita di Giovanni Paolo II,<br />

cit., pp.32-33.<br />

42 Vd. Luigi Accattoli, La vita di Giovanni Paolo II, cit., p.38.<br />

43 Su Padre Dehon vd. Luigi Accattoli, Dehon, fermata la beatificazione, in «Corriere della Sera», 17 giugno 2005; sul<br />

saggio di David G. Dalin, Gabriele Pantucci, Pio XII tra i giusti, lo chiede un rabbino, in «Corriere della Sera», 5<br />

agosto 2005. La discussa figura di Papa Pacelli,e soprattutto il suo comportamento riguardo alla persecuzione degli<br />

ebrei, è al centro di un ampio filone pubblicistico, non sempre oggettivo e scevro da pregiudizi. Il culmine delle accuse<br />

a Pio XII si è forse toccato con il dramma Il Vicario di Rolf Hochuth (Der Stellvertreter, 1963), trad. di Ippolito<br />

Pizzetti, Feltrinelli, Milano 1967: l’autore ritrae nel dramma un Pontefice cinico e affarista, che assiste quasi<br />

indifferente allo sterminio degli ebrei. Si tratta, però, di un’immagine viziata da forzature e pregiudizi. Per una difesa di<br />

Pio XII, condotta con l’ausilio di una notevole documentazione sull’aiuto prestato agli ebrei, vd. Robert A. Graham S.I.,<br />

La Santa Sede e la difesa degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, in «La Civiltà Cattolica», n.3363/3364, 4-18<br />

agosto 1990, pp.209-226.<br />

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2005 protestò perché il papa aveva trascurato di citare Israele tra gli stati colpiti dal<br />

terrorismo (toccò allora al card. Achille Silvestrini, già responsabile della diplomazia<br />

vaticana, difendere la Chiesa dall’accusa di essere filopalestinese, accusa che, ribatté il<br />

prelato, sarebbe potuta venire da chi era pregiudizialmente filoisraeliano). 44 In risposta<br />

all’offensiva diplomatica del governo di Gerusalemme il Papa ha deciso di visitare la<br />

sinagoga di Colonia il 19 agosto 2006, durante il suo viaggio pastorale in Germania,<br />

contribuendo con questo gesto distensivo a rasserenare gli animi. Una recente mostra sui<br />

miracoli tenuta nella chiesa di San Francesco a Orvieto ha spinto gli esponenti<br />

dell’associazione «Amici di Israele» a scrivere al Papa Benedetto XVI, perché tra i<br />

materiali e documenti esposti ve ne erano alcuni, secondo gli autori della lettera, a<br />

forte contenuto antiebraico: in particolare, i quadri raffiguranti il miracolo di Trani, un<br />

tradizionale racconto che risale all’anno Mille e ricorda che le ostie consacrate che una<br />

donna ebrea voleva friggere in padella si tramutarono in carne e sangue, comprovando<br />

così la verità dell’Eucarestia. Il vescovo di Orvieto, monsignor Scanavino, ha dichiarato<br />

che non era intenzione degli autori della mostra di offendere alcuno, affermandosi<br />

altresì disposto a visionare e valutare. Ma sono iniziative come questa, hanno ribattuto i<br />

responsabili dell’associazione «Amici di Israele», a mostrare che nella cultura popolare<br />

«la brace dell’intolleranza e dell’odio cova ancora sotto una cenere che, dopo la Shoah,<br />

speravamo venisse definitivamente spenta». 45<br />

Ma v’è da osservare non senza un certo stupore che anche recentissime ricerche<br />

storiche, provenienti sorprendentemente dall’interno stesso dell’ebraismo, rischiano di<br />

fornire nuovi argomenti alle tradizionali accuse degli antisemiti, come il saggio Pasque<br />

di sangue.Ebrei d’Europa e omicidi rituali (Il Mulino, Bologna 2007) di Ariel Toaff,<br />

docente di storia all’università Bar Ilan di Tel Aviv e figlio dell’ex rabbino capo della<br />

comunità di Roma, Elio Toaff. La sconcertante conclusione a cui sarebbe pervenuto lo<br />

studioso è che alcuni rapimenti e omicidi “rituali” di giovanissime vittime, il cui sangue<br />

sarebbe stato utilizzato per impastare il pane azzimo, furono effettivamente compiuti,<br />

tra il 1100 e il 1500, in un’area compresa tra Reno, Danubio e Adige, da una setta di<br />

ebrei fondamentalisti, quale vendetta per le persecuzioni subite. Sconcertante<br />

conclusione (che sembrerebbe, purtroppo, confermare una delle più infami menzogne<br />

della propaganda antisemita), 46 che ha suscitato una durissima polemica, all’interno<br />

dell’ebraismo italiano, tradottasi in una lettera di aperta condanna sottoscritta da tutti i<br />

rabbini italiani 47 e nel successivo ritiro del saggio dalla distribuzione libraria. In effetti le<br />

conclusioni a cui perviene il Toaff lasciano alquanto perplessi. A parte il fatto che la<br />

tradizione ebraica vieta espressamente qualsiasi uso di sangue di animale (come gli<br />

44 Vd. l’intervista di Luigi Accattoli al card. Silvestrini, «Forse assuefazione a un male cronico. Ma la Santa Sede non è<br />

filopalestinese», in «Corriere della Sera», 27 luglio 2005.<br />

45 Vd. Gianna Fregonara, Mostra sui miracoli sotto accusa: «È antisemita», in «Corriere della Sera», 18 gennaio 2007.<br />

46 Ha creato sconcerto, anzitutto, l’assai favorevole presentazione del saggio fatta dallo storico Sergio Luzzatto sulle<br />

colonne del «Corriere della Sera» (Quelle Pasque di Sangue.Il fondamentalismo ebraico nelle tenebre del Medioevo, in<br />

«Corriere della Sera», 6 febbraio 2007). Si ricordi che proprio sulle accuse di infanticidio rituale e altre calunniose<br />

nefandezze (oltre al supposto predominio mondiale della finanza ebraica) era orchestrata la propaganda razzista e<br />

antisemita, che trovò in Italia il culmine durante il Ventennio fascista sulle pagine della famigerata rivista La difesa<br />

della razza. Vd., come esempio delle menzogne circolanti allora contro gli ebrei, l’art. di Carlo Alberto Masini, “Riti<br />

ebraici”, riprodotto parzialmente in Valentina Pisanty, La difesa della razza.Antologia 1938-1943, Bompiani, Milano<br />

2006, pp.273-274. Le infami menzogne degli omicidi rituali, che sarebbero compiuti dagli ebrei per preparare col<br />

sangue dei cristiani la matzah a Yom Kippur o i dolci per la festa di Purim, sono oggi riprese dalla stampa araba, come<br />

il giornale egiziano «Al-Akhbar» e quello saudita «Al-Riyhad» (vd. in proposito Gabriel Schonfeld, cit., pp.28-29).<br />

47 Vd. Elena Loewenthal, Sacrifici umani, gli ebrei divisi, in «La Stampa», 7 febbraio 2007; Fabio Isman, I rabbini:<br />

«Omicidi rituali? Una follia», in «Il Messaggero», 7 febbraio 2007; Sergio Frigo, Il figlio di Toaff: «Anche gruppi di<br />

ebrei fecero sacrifici umani», in «Il Gazzettino On Line», 7 febbraio 2007.<br />

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stessi rabbini hanno ricordato nella loro lettera), 48 avrebbe potuto una setta<br />

fondamentalista, dunque per definizione rigorosamente osservante, infrangere quelle<br />

norme religiose commettendo sacrilegio e macchiandosi, per giunta, di orrendi delitti<br />

che comunque i “gentili” avrebbero fatto (come peraltro fecero) duramente scontare su<br />

tutti i correligionari dei supposti colpevoli? E quanto poteva valere una confessione<br />

estorta al prezzo di indicibili tormenti e nel terrore di ulteriori e più gravi, da giudici<br />

che abusavano sistematicamente del loro potere, senza riconoscere alcun diritto di<br />

difesa all’imputato? Si è perciò giustamente scritto che “qualcosa nella ricostruzione<br />

dello storico non torna”. 49 Com’è noto, alle accuse di aver rapito e assassinato fanciulli<br />

cristiani, seguivano sempre per i malcapitati ebrei delle varie comunità (non solo,<br />

dunque, per i presunti colpevoli) la violenza dell’ira popolare, l’incarceramento, la<br />

confessione estorta sotto tortura e il supplizio, con il seguito di massacri indiscriminati<br />

allo scopo di appropriarsi dei loro beni. 50 Ricordiamo, al riguardo, che già il vecchio e<br />

dettagliato studio dell’insigne giurista Vincenzo Manzini (che fu tra i padri del diritto<br />

penale italiano), L’omicidio rituale e i sacrifici umani: con particolare riguardo alle<br />

accuse contro gli ebrei (Fratelli Bocca, Torino 1925), 51 provvide con dovizia di<br />

documentazione a dimostrare l’inconsistenza delle accuse di omicidi e infanticidi rituali<br />

a carico degli ebrei per tutti i 133 casi accertati dal medioevo all’età moderna. 52 E tra<br />

coloro che difesero gli ebrei da quelle orribili accuse, oggetto di tanta propaganda<br />

antisemita, vi furono anche i papi, come si rileva nello studio del Manzini: emanarono<br />

bolle di censura delle persecuzioni ebraiche, in quanto contrarie ai precetti di Cristo,<br />

ammonendo i fedeli a non credere alle false dicerie dei sacrifici umani e a non<br />

commettere violenza su persone e cose degli ebrei, numerosi pontefici, come Gregorio<br />

IX (1227-1241), Innocenzo IV (1243-1254), Gregorio X (1271-1276), fino a Clemente XIV<br />

48<br />

Si vedano, ad esempio, Genesi 9,4: «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue»; Levitico<br />

7,26: «E non mangerete affatto sangue, né di uccelli né di animali domestici, dovunque abitiate»; id., 7,27: «Chiunque<br />

mangerà sangue di qualunque specie sarà eliminato dal suo popolo»; id., 17,10: «Ogni uomo, Israelita o straniero<br />

dimorante in mezzo a loro, che mangi di qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò<br />

la faccia e lo eliminerò dal suo popolo», etc.<br />

49<br />

Vd. Giulio Busi, Brutte sorprese di Pasqua, in «Il Sole-24 Ore», 11 febbraio 2007; accusano Ariel Toaff di una<br />

lettura acritica dei documenti processuali, relativi ai fatti di Trento del 1475 (su cui vd. la nota successiva), Anna<br />

Esposito e Diego Quaglioni, Pasque di sangue, le due facce del pregiudizio, in «Corriere della Sera», 11 dicembre<br />

2007; ma lo storico Toaff ribatte lamentandosi di essere stato condannato prima ancora di essere stato letto e<br />

affermando di non credere che comunità ebraiche possano aver commesso omicidi rituali (vd. Davide Frattini, Toaff:<br />

infrango un tabù ma non accuso nessuno, in «Corriere della Sera», 13 febbraio 2007; vd. anche le critiche a Toaff degli<br />

storici Ronnie Po-Chia Hsia e Simon Levis Sullam in Alessandra Farkas, Gli storici: «È un’antica impostura<br />

riesumata.Quei documenti erano noti e non attendibili», ibid.). Umberto Eco (Mangiar bambini, in «L’Espresso», n.7,<br />

22 febbraio 2007, p.194) ricorda, citando numerosi documenti, che l’accusa di dissanguare e mangiare bambini fu<br />

rivolta non solo agli ebrei, ma anche agli eretici cristiani e alle streghe, come “luogo comune nella storia<br />

dell’intolleranza razziale e religiosa”.<br />

50<br />

Emblematico è il caso della scomparsa, nel 1475 a Trento, di un bambino di appena due anni, tale Simone, figlio del<br />

conciapelli Andrea, poi elevato alla venerazione nelle chiese come il Beato Simonino, oggetto di un culto popolare che<br />

durò fino al 1965, quando Papa Paolo VI lo dichiarò decaduto per comprovata infondatezza. Il cadavere del bambino,<br />

straziato da numerose ferite, venne ritrovato nella cantina della casa di un ebreo. Incolpati ingiustamente dell’assassinio<br />

del piccolo Simone, il capo della comunità ebraica di Trento, Samuele di Norimberga, e i suoi congiunti finirono sul<br />

rogo al termine di un processo inquisitorio che lo stesso legato pontificio inviato da Papa Sisto IV, il vescovo Battista<br />

de’ Giudici, aveva trovato irregolare e infondato. Sull’episodio vd. Isabella Bossi Fedrigotti, Simonino, la storia nera<br />

del santo ingannatore, in «Corriere della Sera», 23 dicembre 2003; vd. anche Armando Torno, L’accusa del sangue e il<br />

popolo eletto: così nasce un’infamia, in «Corriere della Sera», 21 agosto 2005.<br />

51<br />

Ristampato qualche tempo fa col titolo Sacrifici umani e omicidi rituali nell’antichità, Fratelli Melita Editori, Genova<br />

1988: a proposito dell’omicidio di Simonino, di cui alle pp.110-114, l’autore ricorda che la nuova inchiesta, promossa<br />

dal Papa Sisto IV dopo l’esecuzione dell’ebreo Samuele, portò all’accertamento del vero assassino del fanciullo, un<br />

certo Zaneto, svizzero di religione cristiana.<br />

52<br />

Il primo caso di omicidio, che diede luogo a un processo a carico di ebrei, avvenne a Fulda, in Germania, nel 1235,<br />

l’ultimo a Kiev nel 1913.<br />

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(1749-1774). 53 Il timore è che libri come il saggio dello storico Toaff possano, al di là<br />

delle effettive intenzioni dell’autore, incentivare episodi di antisemitismo, che la<br />

cronaca, purtroppo, presenta all’attenzione del lettore pressoché ogni giorno,<br />

soprattutto in occasione di significative ricorrenze. 54<br />

4. L’antisemitismo pregiudica ancora, purtroppo, i rapporti tra Islam ed ebraismo,<br />

soprattutto a causa della questione, squisitamente politica, di Israele. Ma l’avversione<br />

per gli ebrei, da parte dei musulmani, ha radici antiche. Denuncia, al riguardo, la<br />

diffusione di pregiudizi antisemiti nei paesi islamici il saggio di Carlo Panella, Il<br />

«complotto ebraico» (2005): 55 l’antisemitismo non sarebbe stato importato nella terra<br />

dell’Islam dall’Europa, anche se è preoccupante che in quei paesi un testo come il Mein<br />

Kampf, come denuncia l’autore, sia ampiamente diffuso, quanto piuttosto sarebbero<br />

stati gli europei ad ispirarsi al Corano per la teoria del «complotto ebraico», tipico<br />

frutto della propaganda antisemita negli anni Trenta. L’autore ricostruisce la genesi<br />

dell’ostilità per gli ebrei da parte dei musulmani, facendo risalire addirittura il primo<br />

“pogrom” alla guerra decretata dal Profeta contro gli ebrei medinesi Banu Quraizah. 56<br />

Secondo Gabriel Schoenfeld, autore di Il ritorno dell’antisemitismo (The Return of Anti-<br />

Semitism, 2004), 57 l’antisemitismo nei paesi islamici si spiegherebbe con la gelosia per i<br />

successi economici israeliani (commisurati nel confronto del reddito pro capite e delle<br />

aspettative di vita, che in Israele sono enormemente superiori rispetto agli altri paesi<br />

del Medio Oriente) e con il timore che la diffusione di una democrazia parlamentare<br />

come quella che vige in Israele, unico paese democratico circondato da monarchie<br />

assolute e teocrazie, possa spazzare via i privilegi di cui godono i governanti assieme ai<br />

loro regimi autoritari fondati sull’Islam. Una chiara manifestazione antisemita è stata il<br />

recente convegno intitolato Discutere la Shoah, svoltosi a Teheran nei giorni 11 e 12<br />

dicembre 2006 e promosso dal governo del presidente Ahmadinejad (accanito nemico di<br />

Israele), che ha visto propagandare le loro tesi numerosi esponenti del negazionismo,<br />

giunti da tutto il mondo, tra cui il francese Robert Faurisson. 58 Ma, a dimostrazione di<br />

come non si possa accusare in toto gli islamici di antisemitismo, anche se molti fra essi<br />

negano lo sterminio ebraico in odio a Israele, è stato messo in luce che proprio durante i<br />

terribili tempi dell’Olocausto gli ebrei seppero trovare inaspettato e solidale aiuto<br />

presso molti arabi del Maghreb. Rischiarono la vita marocchini, egiziani e tunisini,<br />

53<br />

Vd.Vincenzo Manzini, Sacrifici umani e omicidi rituali, cit., pp.217-229. Sul tema degli omicidi rituali vd. anche il<br />

saggio postumo di Furio Jesi, L’accusa del sangue, mitologia dell’antisemitismo, Morcelliana, Brescia 1993, che<br />

riconduce la genesi dell’accusa, rivolta agli ebrei, di utilizzare ritualmente il sangue umano, all’immaginazione popolare<br />

che distorceva il significato, nella liturgia cristiana, dell’Eucarestia.<br />

54<br />

La vigilia della Giornata della Memoria alcuni ignoti hanno deturpato l’albero d’ulivo, piantato a ricordo della Shoah,<br />

presso l’ex cimitero ebraico di Arezzo (vd. Marco Gasperetti, Profanato memoriale della Shoah, in «Corriere della<br />

Sera», 27 gennaio 2007). E, d’altra parte, la stessa memoria della Shoah corre il rischio di essere obliterata: ad esempio,<br />

la Deutsche Bahn, l’ente ferroviario tedesco, ha vietato l’allestimento della mostra itinerante sugli undicimila bambini<br />

ebrei deportati dalla Francia verso Auschwitz a bordo dei treni tedeschi (Paolo Valentino, Quei bimbi sui treni per<br />

Auschwitz.Mostra vietata negli scali tedeschi, in «Corriere della Sera», 14 novembre 2006).<br />

55<br />

Carlo Panella, Il «complotto ebraico».L’antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden, Lindau, Torino 2005.<br />

56<br />

Carlo Panella, cit., pp.60-64.<br />

57<br />

Gabriel Schoenfeld, Il ritorno dell’antisemitismo, trad. di Daniele Ballerini, Lindau, Torino 2005. Il testo rileva come<br />

l’influenza della propaganda antisemita non risparmi nessuno strato della società islamica, essendo parte integrante<br />

dell’educazione della gioventù islamica, che assorbirebbe dai maestri e dai testi scolastici il veleno dei pregiudizi contro<br />

gli ebrei fin dalla più tenera età. Perfino il moderato Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese,<br />

sarebbe un seguace delle teorie negazioniste di Robert Faurisson (vd. p.34). La raccolta di articoli di Fiamma<br />

Nirenstein, L’abbandono, Rizzoli, Milano 2003, contiene la cronaca del fallimento del processo di pace israelopalestinese,<br />

condizionato dai pregiudizi antisemiti di cui si alimenta il fondamentalismo islamico e, insieme, un appello<br />

all’Occidente perché non abbandoni il popolo israeliano in lotta per il suo diritto all’esistenza.<br />

58<br />

Alessandra Coppola, Razzisti e neonazisti a Teheran.Proteste nel mondo: «Vergogna», in «Corriere della Sera», 12<br />

dicembre 2006.<br />

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appartenenti a tutte le classi sociali, dai commercianti agli imam,dai diplomatici ai<br />

governanti (come il sultano del Marocco e il bey di Tunisi), nello sforzo di sottrarre gli<br />

ebrei all’internamento e alle camere a gas: questi i risultati della ricerca sui “Giusti<br />

d’Arabia” dello storico americano Robert Satloff, direttore del Washington Institute per<br />

il Medio Oriente, Among the Righteous (2006). 59 Una rivisitazione dell’Olocausto da<br />

parte dei paesi musulmani, afferma lo studioso, potrebbe aiutare il dialogo tra arabi e<br />

israeliani in buona parte del Medio Oriente e porterebbe al riconoscimento di Israele.<br />

Ma, secondo Ayaan Hirsi Ali, 60 gli Stati europei, e soprattutto le organizzazioni<br />

umanitarie cristiane che operano nel Terzo Mondo, dovrebbero farsi carico di avviare<br />

una capillare opera di informazione sul genocidio ebraico verso le popolazioni<br />

musulmane, scientemente allevate e tenute nell’ignoranza dai loro governanti: soltanto<br />

così i convegni organizzati dagli antisemiti saranno vanificati.<br />

5. Mentre le religioni sono impegnate, attraverso i loro uomini di buona volontà, a<br />

stabilire un dialogo reciprocamente fecondo, difficile rimane il rapporto tra queste e le<br />

società occidentali, ormai pienamente laiche e secolarizzate. Correttamente intesa, la<br />

laicità postula la separazione della sfera civile e della sfera religiosa, e delle istituzioni<br />

che le rappresentano, la Chiesa e lo Stato. Ma la separazione non esclude una<br />

collaborazione, laddove entrambe le istituzioni siano impegnate a svolgere una comune<br />

missione educativa e sia necessario ripristinare il senso delle istituzioni, il valore della<br />

legalità, il costume civico, l’ordine morale. 61 La politica, com’è stato autorevolmente<br />

ricordato, non dovrebbe mai rinunciare, nelle sue scelte, a ispirarsi ai valori spirituali:<br />

anche lo Stato, allora, dovrebbe impegnarsi a chiamare la Chiesa a collaborare insieme<br />

per il bene comune. Si ricordino le significative parole del Capo dello Stato, pronunciate<br />

in occasione del colloquio in Vaticano con Papa Benedetto XVI, il 20 novembre 2006: «Ci<br />

sono, certo, scelte che appartengono alla sfera delle decisioni dello Stato, alla<br />

responsabilità e all’autonomia della politica. Ma avvertiamo come esigenza pressante ed<br />

essenziale il richiamo a quel fondamento etico della politica, che fa tutt’uno col<br />

patrimonio della civiltà occidentale e si colloca tra «gli autentici valori della cultura del<br />

nostro tempo». Mai dovrebbe la politica spogliarsi della sua componente ideale e<br />

spirituale, della parte etica e umanamente rispettabile della sua natura. Ispirare a<br />

questa concezione più alta l’esercizio della politica, darvi nuovo e più profondo respiro,<br />

significa anche, oggi in Italia, tendere a rasserenare il clima dei rapporti politici e<br />

istituzionali, perseguire sempre il bene comune, pur nella dialettica e nel libero<br />

confronto delle idee e delle posizioni. Un clima più disteso, uno sforzo maggiore di<br />

ascolto e di dialogo, potrà favorire la ricerca di soluzioni valide, ponderate, non<br />

partigiane per gli stessi, complessi problemi del sostegno alla famiglia, della tutela della<br />

vita, della libertà e dell’educazione, che suscitano l’attenzione e le preoccupazioni<br />

della Chiesa e del suo Pastore». 62<br />

59<br />

Vd. I giusti d’Arabia.Storie dei musulmani del Nord Africa che salvarono gli ebrei dall’Olocausto, in «Corriere della<br />

Sera», 28 novembre 2006.<br />

60<br />

Parlamentare olandese di origine somala, impegnata nel denunciare gli abusi e le violenze subite dalle donne<br />

musulmane, sceneggiatrice del film Submission (che è costato la vita al regista Theo van Gogh), oggi vive protetta in un<br />

luogo segreto a seguito delle minacce di morte ricevute da parte degli estremisti islamici. Vd. Ayaan Hirsi Ali, La carità<br />

che nega l’Olocausto, in «Corriere della Sera», 17 dicembre 2007.<br />

61<br />

Aggiunge la lotta alla bestiale violenza, all’inutile guerra, all’intolleranza, all’egoismo, al disconoscimento dell’altro<br />

e del diverso, come terreno in cui può avvenire l’incontro tra coscienza laica (che fa suo l’evangelico discorso della<br />

montagna) e coscienza religiosa, Eugenio Scalfari (in un saggio che allude nel titolo al famoso scritto di Croce), Perché<br />

non possiamo non dirci laici in Dibattito sul laicismo, a cura di Eugenio Scalfari, La Biblioteca di Repubblica, Roma<br />

2005, p.17.<br />

62<br />

Dal discorso del Presidente Giorgio Napolitano, La politica sia autonoma ma non perda la sua spiritualità, in<br />

«Corriere della Sera», 21 novembre 2006.<br />

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La laicità, però, viene intesa sempre più spesso come laicismo, come pretesa di<br />

escludere dalla società il fatto religioso, che è essa stessa una forma di intolleranza. Nel<br />

discorso rivolto ai partecipanti al 56° Congresso nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici<br />

Italiani, papa Benedetto XVI ha denunciato come la laicità oggi venga comunemente<br />

intesa come esclusione della religione dai vari ambiti della società, per essere confinata<br />

nell’ambito della coscienza individuale. «La laicità si esprimerebbe nella totale<br />

separazione tra lo Stato e la Chiesa, non avendo quest’ultima titolo alcuno ad<br />

intervenire su tematiche relative alla vita e al comportamento dei cittadini; la laicità<br />

comporterebbe addirittura l’esclusione dei simboli religiosi dai luoghi pubblici.» Alla<br />

base di questa concezione, continua il Pontefice, c’è una visione a-religiosa della vita,<br />

del pensiero e della morale: una visione, cioè, in cui non c’è posto per Dio, per un<br />

Mistero che trascenda la pura ragione, per una legge morale di valore assoluto, vigente<br />

in ogni tempo e in ogni situazione. I credenti, allora, hanno il compito di contribuire ad<br />

elaborare un concetto di laicità che, pur rispettando la legittima autonomia delle realtà<br />

terrene, riconosca a Dio e alla sua legge morale, a Cristo e alla sua Chiesa il posto che<br />

ad essi spetta nella vita associata. 63 Ma i gesti compiuti nell’ambito di occasioni ufficiali,<br />

da parte delle istituzioni di altri Stati europei, provvedono a rimarcare la separazione<br />

tra le religioni, in specie la Chiesa cattolica, e lo Stato: gesti che assumono, pur al di là<br />

delle intenzioni di chi li compie, il significato di un’intransigente difesa dei valori della<br />

laicità attraverso una voluta e visibile distanza dai capi religiosi. Così, il premier<br />

spagnolo José Luis Zapatero, fautore di una nuova legislazione laica e progressista che<br />

gli è valsa un forte attrito con la Chiesa spagnola (in materia di matrimoni tra<br />

omosessuali, riduzione dei tempi per ottenere il divorzio, adozioni da parte degli<br />

omosessuali, facoltatività dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola<br />

pubblica), in coerenza con i suoi orientamenti ha evitato di partecipare alla solenne<br />

funzione religiosa celebrata dal Papa Benedetto XVI domenica 9 luglio 2006, a Valencia,<br />

a conclusione del quinto Congresso internazionale delle famiglie. 64<br />

6. L’episodio delle vignette satiriche sul Profeta Maometto ha mostrato quanto sia<br />

delicata la convivenza tra le comunità islamiche e la moderna società occidentale, tra i<br />

cui capisaldi etici vi sono la libertà di coscienza e la libertà di espressione (anche se<br />

forse in questo caso se ne sono superati i limiti). Riassumiamo brevemente i fatti, che<br />

hanno avuto, com’è noto, risvolti tragici, soprattutto nei riguardi dei cristiani nei paesi<br />

islamici, poiché notoriamente molti musulmani tendono a considerare ogni espressione<br />

di ateismo o disprezzo verso la loro fede come ispirata direttamente dai cristiani. Il 12<br />

settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands-Posten aveva pubblicato alcune vignette<br />

raffiguranti il Profeta Maometto, il cui irridente contenuto certamente non poteva<br />

essere accettabile per i fedeli musulmani (ad esempio, per citare solo alcune delle<br />

vignette, quella del disegnatore Jens Julius raffigurava il Profeta che, sulla porta del<br />

Paradiso, arrestava una fila di kamikaze dicendo loro «Stop, stop, we have run out of<br />

virgins!», 65 quella di Kurt Westergaard il volto del Profeta con un turbante a forma di<br />

bomba). Le proteste, sopite per mesi, scoppiano con inusitata violenza a febbraio<br />

dell’anno successivo, dando origine ad uno scontro politico-culturale che giunge fino<br />

all’ONU (ma gli appelli alla ragione del segretario Kofi Annan rimangono inascoltati). Il 3<br />

63 Vd. i punti nodali del discorso del Papa in La marginalizzazione del cristianesimo mina le basi stesse della<br />

convivenza umana, in «L’Osservatore Romano», 9-10 dicembre 2006.<br />

64 Mentre le autorità spagnole hanno evitato di attribuire qualsiasi significato politico all’assenza del primo ministro<br />

Zapatero, di diverso avviso sono state le gerarchie vaticane: il card. Mario Pompedda, giurista della Curia romana, lo ha<br />

giudicato un “atto di eccessivo laicismo”, contrario ai doveri di ospitalità e cortesia, vd. l’intervista al card. Pompedda<br />

di Luigi Accattoli, «L’assenza del premier, atto di eccessivo laicismo», in «Corriere della Sera», 8 luglio 2006.<br />

65 Trad.: «Fermi, fermi, siamo a corto di vergini!»<br />

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febbraio vengono assalite da folle di musulmani inferociti la sede dell’Unione Europea a<br />

Gaza e l’ambasciata danese di Giakarta, mentre altre violente manifestazioni si<br />

registrano davanti alle ambasciate occidentali di vari paesi islamici, dall’Arabia Saudita<br />

al Bahrein e agli Emirati Arabi Uniti. Milioni di islamici inviano messaggi per E-mail alla<br />

Danimarca chiedendo di arrestare gli autori delle vignette. La pubblicazione sul<br />

quotidiano France Soir delle vignette danesi costa il posto al direttore del giornale<br />

Jacques Lefranc, che viene cacciato dal proprietario, l’uomo d’affari franco-egiziano<br />

Raymond Lakah.<br />

Comprensione per l’ira dei musulmani viene da parte degli esponenti delle altre<br />

religioni. Esprime la solidarietà al mondo musulmano il rabbino capo di Francia, Joseph<br />

Sitruk, che, in un incontro con il primo ministro Dominique de Villepin, dichiara di<br />

condividere la collera dei musulmani affermando che non si guadagna nulla a svilire la<br />

religione, a umiliarla e ridurla a caricatura, e che il diritto di satira deve fermarsi<br />

quando diventa una provocazione a danno dell’altro. Alla protesta del rettore della<br />

moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, per il quale la libertà di espressione non dà il diritto<br />

di raccontare menzogne, risponde il ministro dell’Interno, Nicholas Sarkozy, che,<br />

preferendo gli eccessi di critica agli eccessi di censura, afferma che la democrazia non è<br />

negoziabile. L’ira dei musulmani, però, alimentata da una equivoca visione che<br />

arbitrariamente identifica tutto ciò che proviene dall’Occidente (anche quando è<br />

manifestazione di secolarizzazione, ateo materialismo, edonismo, scherno verso i valori<br />

dell’Islam) con la cristianità, e in particolare con la Chiesa cattolica, si rivolge presto<br />

contro simboli e persone di fede cristiana. Sono attaccate e incendiate chiese cristiane<br />

in Pakistan e Nigeria. Il 6 febbraio 2006 scoppia la tragedia: a Trabzon (Trebisonda),<br />

città portuale turca sul Mar Nero, nella chiesa cattolica di Santa Maria viene ucciso a<br />

colpi di pistola il sacerdote italiano don Andrea Santoro, mentre era intento a pregare,<br />

da un giovane turco al grido di Allah-o-Akbar (Allah è grande). Il ministro italiano per le<br />

Riforme, il leghista Roberto Calderoli, si lascia riprendere, durante una trasmissione<br />

televisiva, con una maglietta raffigurante le famigerate vignette su Maometto e il gesto<br />

dell’esponente politico getta benzina sul fuoco: in Libia il 17 febbraio viene assaltato il<br />

nostro consolato a Bengasi e le violenze vengono sedate dalla polizia al prezzo di<br />

numerosi morti. Decine di cristiani vengono uccisi in Nigeria da orde inferocite di<br />

fanatici musulmani. Il Papa è costretto a intervenire, dichiarando totalmente<br />

inaccettabile la violenza in nome della fede, mentre le capitali europee restano<br />

colpevolmente inerti o addirittura indulgenti e comprensive, come stigmatizza il<br />

politologo Angelo Panebianco. 66<br />

L’episodio delle vignette su Maometto e le tragiche conseguenze che ne sono scaturite<br />

hanno offerto l’occasione ai nostri politici e opinionisti, laici e cattolici, di riflettere sui<br />

valori della libertà di espressione e della tolleranza, che costituiscono il patrimonio<br />

etico delle moderne società occidentali (e, direi, dell’Europa dopo la caduta del Muro di<br />

Berlino). Centinaia di dichiarazioni, commenti e prese di posizione sono fiorite in<br />

brevissimo tempo sulla stampa e nei programmi televisivi. È mancata, a nostro avviso,<br />

da parte del direttore e dei disegnatori del giornale danese una corretta valutazione<br />

della sensibilità e della possibile reazione dei lettori credenti musulmani, che non<br />

avrebbero mancato di interpretare nel segno della blasfemia ciò che per gli autori e per<br />

i lettori laici poteva essere tutt’al più una mancanza di riguardo (che non manca mai in<br />

ogni satira) verso il suo obiettivo, in quel caso rappresentato dalla religione islamica.<br />

Anche se il contenuto di qualcuna delle vignette incriminate, al di là dei pur criticabili<br />

aspetti formali, ci sembra in fondo essere un coraggioso tentativo di riflessione, rivolto<br />

agli stessi musulmani, sulle aberrazioni del fondamentalismo (che, promettendo il<br />

66 Angelo Panebianco, Sindrome di Stoccolma, in «Corriere della Sera», 21 febbraio 2006.<br />

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Paradiso ai martiri-suicidi, manda giovani fanatici a farsi massacrare e a massacrare<br />

decine di innocenti in nome di Allah), tuttavia non poteva essere quello il modo di<br />

sensibilizzare la coscienza di chi nei valori della civiltà occidentale stenta a riconoscersi,<br />

anche se dovrebbe comunque avere il senso della sacralità della vita umana. 67<br />

Il caso delle vignette “sataniche” ha portato alla luce in tutta la sua complessità il<br />

problema dei limiti tra la satira, e in genere tra qualsiasi prodotto della libera creatività<br />

del pensiero, e il sacro, un bersaglio che sembra urtare la suscettibilità dei credenti<br />

islamici molto più di quanto sembri urtare quella dei credenti cattolici. Di fronte alla<br />

violazione dei confini del sacro, rispetto agli islamici le reazioni dei cattolici, a parte<br />

quelle, ovvie, degli esponenti delle istituzioni ecclesiastiche, paiono talvolta improntate<br />

a una frusta, quasi rassegnata, tolleranza. E si pone anche un problema di reciprocità,<br />

giacché alcuni quotidiani hanno dato notizia di analoghe e simmetriche vignette<br />

anticattoliche diffuse sui giornali di lingua araba. 68<br />

I paesi occidentali hanno una lunga abitudine alla satira verso le persone o i contenuti<br />

della fede cristiana. Ricordiamo, tra gli ultimi esempi, che, nell’ambito dell’acceso<br />

dibattito occasionato dal referendum sulla legge n.40 del 19 febbraio 2004, concernente<br />

le norme in materia di procreazione assistita, un numero speciale del settimanale<br />

«Diario» (n.2, 6 maggio 2005) è uscito con una copertina dal sapore tra il goliardico e il<br />

blasfemo, sulla celeberrima “prima fecondazione eterologa”, quella della Vergine Maria<br />

(ed è significativo che la copertina sia stata suggerita al direttore di quel settimanale da<br />

un filosofo bioeticista, vd. Mario Porqueddu, La provocazione del «Diario»: «Maria disse<br />

sì all’eterologa», in «Corriere della Sera», 6 maggio 2005). 69 Anche episodi come<br />

quest’ultimo rimandano al problema del confine tra goliardia, e dunque satira che di<br />

essa è la più “nobile” espressione, e rispetto del sacro. Problema che si è posto in<br />

particolare evidenza ultimamente anche nel caso di personaggi dello spettacolo: forti<br />

proteste sono state elevate dalla Chiesa, attraverso il quotidiano Avvenire, per<br />

l’imitazione del Papa e del suo segretario, mons. Georg Genswein da parte,<br />

rispettivamente, dei comici Maurizio Crozza e Fiorello, imitazione definita “una satira<br />

fallimentare non priva di vigliaccheria”. 70 In effetti quello della Chiesa è un comodo<br />

bersaglio, come non ha mancato di far notare il giornalista Francesco Merlo, che, pur<br />

giustificando la satira quale “funzione dell’anima che deve esercitarsi su tutto”, ha<br />

invitato i due comici a fare la satira anche del Profeta Maometto. 71 Il giurista cattolico<br />

Cesare Mirabelli, per l’occasione, ha messo in chiaro che la libertà di manifestazione del<br />

pensiero e la libertà di espressione, che nella prima è compresa, non possono consentire<br />

di dileggiare e offendere la dignità delle persone e di ferire gratuitamente la sensibilità<br />

67 Condividiamo, perciò, le riflessioni del giornalista e musulmano laico Omran Salman, per il quale l’episodio del<br />

giornale danese ha avuto il merito di infrangere il tabù islamico accelerando una probabile riforma religiosa (il suo<br />

intervento I musulmani dovrebbero ringraziare il quotidiano danese si può leggere nell’antologia dell’Islam liberale<br />

Basta!Musulmani contro l’estremismo islamico, a cura di Valentina Colombo, Mondadori, Milano 2007, pp.45-47). Va<br />

ricordato che le famigerate vignette non sono state ritenute offensive dal tribunale di Aarhus, in Danimarca, che ha<br />

assolto dall’accusa di diffamazione, presentata da sette associazioni di musulmani, il direttore del quotidiano danese<br />

Jyllands-Posten il 26 ottobre 2006.<br />

68 Un campionario di vignette contro il Papa, diffuse sulla stampa dei paesi islamici in occasione delle proteste seguite<br />

al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, è stato pubblicato dal «Corriere della Sera», assieme a un severissimo<br />

commento sull’acquiescenza degli occidentali, di Magdi Allam, Le vignette dell’odio contro Ratzinger, in «Corriere<br />

della Sera», 19 settembre 2006. La serie di vignette, a nostro avviso, colpisce per la ferocia del pregiudizio: Benedetto<br />

XVI, che spara e uccide le colombe della pace liberate da Giovanni Paolo II, viene rappresentato e percepito come<br />

nemico dell’Islam e affossatore del dialogo.<br />

69 Vd. in proposito il caustico commento del giornalista cattolico Antonio Socci nell’intervista rilasciata a Mario<br />

Porqueddu, «Copertina choc? No, solo sciocca. È un paragone blasfemo», in «Corriere della Sera», 6 maggio 2005.<br />

70 Giuseppe Dalla Torre, Una satira fallimentare non priva di vigliaccheria, in «Avvenire», 11 novembre 2006; vd.<br />

anche Umberto Folena, Il diritto dei telespettatori? Non è l’assillo dei comici, ibid.<br />

71 Francesco Merlo, La satira e il Vaticano, in «Corriere della Sera», 15 novembre 2006.<br />

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per valori profondamente sentiti come quelli religiosi. Si tratta, perciò, di sollecitare la<br />

consapevolezza che l’offesa e il dileggio non possono nascondersi furbescamente dietro<br />

il paravento della libertà di manifestazione del pensiero. 72<br />

7. Altri attacchi sono stati portati alla sensibilità dei credenti dal fronte laico,<br />

soprattutto in materia di simboli religiosi, i più visibili segni di appartenenza a una<br />

comunità identitaria. Di fronte al rischio dell’insorgenza di fanatismi e derive<br />

confessionali, che frammenterebbero pericolosamente la società, può costituire una<br />

soluzione accettabile la formalizzazione del divieto tout court di portare addosso<br />

simboli religiosi? Ciò è quanto è stato fatto in Francia dalla Commissione Stasi, creata<br />

dal presidente Jacques Chirac nel luglio 2003, a seguito dell’espulsione dai licei francesi<br />

di alcune studentesse di fede islamica che avevano rifiutato di togliersi il velo in classe.<br />

La Commissione Stasi, com’è noto, ha elaborato un documento (intitolato Laïcite et<br />

Republique) contenente l’indicazione di vietare nelle scuole pubbliche tutti i simboli<br />

religiosi che manifestino in modo evidente e propagandistico (segni ostensibles)<br />

l’appartenenza a una religione, permettendo invece i piccoli segni (medagliette, manine<br />

di Fatima, piccoli Crocifissi e stelle di David) di fede privata. L’indicazione della<br />

Commissione Stasi è stata recepita nella legge sulla laicità, approvata definitivamente<br />

nel marzo 2004, la quale prevede anche una procedura disciplinare per il trasgressore:<br />

nella sostanza, però, la legge francese è sembrata penalizzare, fra i vari simboli<br />

religiosi, soprattutto il velo indossato dalle donne di fede islamica. Per l’occasione è<br />

intervenuto il Pontefice con una severa critica alla legge francese, e ammonendo al<br />

contempo che è contrario alla vera libertà cercare di cancellare una dimensione<br />

importante nella vita della gente. 73 Ma si consolida sempre più l’indubbia<br />

tendenza della società occidentale a ridurre se non eliminare la visibilità dei simboli di<br />

fede nel contesto sociale. Un giudice del Tribunale di Camerino (Macerata), seguace<br />

dell’agnosticismo, ha perseguito con singolare pervicacia la sua personale battaglia per<br />

togliere il crocifisso dall’aula giudiziaria, finendo per venire sospeso dalle funzioni e<br />

dallo stipendio dal Consiglio Superiore della Magistratura nel febbraio 2006. 74 Viceversa,<br />

un’impiegata della British Airways ha dovuto lasciare il suo posto di lavoro, non in<br />

qualche scalo arabo ma all’aeroporto di Heathrow (Londra), perché rifiutava di togliersi<br />

dal collo la catenina con il crocifisso. 75 Per il Natale 2006, molti grandi magazzini inglesi<br />

(e anche italiani) hanno evitato di esporre in vendita le statuine del presepe e<br />

decorazioni con riferimento alla festività cristiana, con il pretestuoso motivo di non<br />

offendere la sensibilità dei clienti non cattolici. 76 In una scuola italiana la<br />

rappresentazione della nascita di Gesù è stata sostituita con una recita sul tema della<br />

pace. 77 Ricorda il teologo Gianni Baget Bozzo che l’odierna civiltà occidentale, che<br />

tende a marginalizzare il cristianesimo come dottrina e i suoi simboli, è nata dal Natale,<br />

mentre per il sociologo Francesco Alberoni a voler obliterare i segni religiosi, in specie il<br />

crocifisso, nella società sono gli integralisti, eredi di Marx e Proudhon. 78 È proprio un<br />

72<br />

Cesare Mirabelli, La satira non può nutrirsi di oltraggio, in «Corriere della Sera», 13 novembre 2006.<br />

73<br />

Vd. Bruno Bartoloni, Il Pontefice critica la Francia: i simboli religiosi non minacciano lo Stato, in «Corriere della<br />

Sera», 28 febbraio 2004.<br />

74<br />

Per i dettagli della vicenda rimandiamo a Marisa Fumagalli, «Senza paga e toga ma non cedo» La sfida del giudice<br />

anti-crocifisso, in «Corriere della Sera», 2 febbraio 2006.<br />

75<br />

G.S., Non toglie il crocifisso al collo.Sospesa dalla British Airways, in «Corriere della Sera», 15 ottobre 2006.<br />

76<br />

Dai grandi magazzini è sparito il presepe, in «Il Giornale», 3 dicembre 2006; Enrico Franceschini, Londra, Natale<br />

senza luci per non offendere l’Islam, in «La Repubblica», 9 dicembre 2006.<br />

77<br />

Su questo e altri episodi di rimozione dei simboli religiosi natalizi, accaduti nelle scuole italiane, vd. A.G., Canti e<br />

celebrazioni natalizie in aula: è polemica, in «La Tecnica della Scuola», 20 dicembre 2006.<br />

78<br />

Gianni Baget Bozzo, L’Occidente nasce dal Natale, in «Panorama», n.52, 28 dicembre 2006, p.46; Francesco<br />

Alberoni, Il crocifisso non offende, ibid., p.27.<br />

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musulmano a richiamare il valore del Natale quale patrimonio comune e momento di<br />

unione per cristiani e islamici. In un lungo intervento Magdi Allam, musulmano laico e<br />

vicedirettore del Corriere della Sera, testimonia la sua partecipazione alla festa più<br />

importante della cristianità, auspicando che il Natale possa essere festeggiato in comune<br />

tra cristiani e islamici: «ed è proprio perché la Vergine Maria e suo figlio Gesù, venerati<br />

anche dall’islam, incarnano il miracolo della vita, che il Natale dovrebbe diventare una<br />

festa comune per onorare lo stesso Dio ed elevare il valore della sacralità della vita a<br />

fondamento della nostra umanità». 79 Sarebbero pertanto, conclude Allam, proprio i<br />

nemici del dialogo tra le religioni ad opporsi al presepe in nome di un malinteso rispetto<br />

delle religioni, quando nessuna ragione vieta agli islamici di festeggiare la nascita del<br />

Messia, quale Profeta dell’Islam, e la Vergine Maria, a cui il Corano dedica una intera<br />

sura, la XIX, e che nell’Islam è la donna più venerata. Altri ancora rileggono in chiave<br />

moderna la tradizione del presepe, aggiungendovi elementi di novità, in linea con le<br />

istanze più recenti della società, che però possono apparire grottesche forzature. 80<br />

8. Occasioni di polemiche non sono mancate e non mancano soprattutto quando sono in<br />

gioco i valori etici, campo in cui la Chiesa cattolica, per la natura della sua missione,<br />

non può astenersi dall’intervenire. È allora che l’intervento della Chiesa, la quale si<br />

rivolge anzitutto ai suoi fedeli, è visto dai laici più convinti come una illegittima<br />

ingerenza nella società civile: chi critica l’ingerenza ecclesiale, però, non si accorge di<br />

cadere in contraddizione con quel principio di tolleranza, che è uno dei cardini della<br />

laicità spesso invocata, se postula che, valendo per tutti la libertà d’espressione, proprio<br />

e soltanto per gli esponenti della Chiesa non dovrebbe valere. Si pensi al caso di<br />

Piergiorgio Welby, dirigente dell’associazione Luca Concioni, ammalato di distrofia<br />

muscolare all’ultimo stadio, che ha chiesto di poter concludere la propria vita e le<br />

proprie sofferenze mediante la morte assistita, ossia l’eutanasia, e ha scritto il 22<br />

settembre 2006 al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. 81 Laici e cattolici si<br />

sono divisi anche su questo tema: di fronte a chi ha ammesso l’esistenza di un “diritto<br />

alla morte” simmetrico al “diritto alla vita”, 82 netta è stata la condanna della Chiesa,<br />

pur con qualche posizione diversificata, all’interruzione volontaria della vita (nelle<br />

forme dell’eutanasia attiva e passiva, e del suicidio assistito). 83 Il paese reale, però, in<br />

79 Magdi Allam, Un presepe anche nel Natale dei musulmani, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 2006 (con accenti<br />

non dissimili da quelli del teologo spagnolo e presidente di Comunione e Liberazione Julián Carrón, Non chiudiamo gli<br />

occhi, in «Corriere della Sera», 28 dicembre 2006, per il quale il Natale di Cristo è l’annuncio dell’eccezionalità del<br />

Verbo incarnato, che irrompe nei chiusi confini dell’esperienza umana).<br />

80 Come l’aggiunta al presepe allestito a Montecitorio di due coppie di bambolotti gay (due Ken e due Barbie), da parte<br />

di due deputati radicali della Rosa nel Pugno, quasi a voler legittimare, all’ombra del presepe, l’unione omosessuale.<br />

Ma Gesù Bambino è venuto per salvare l’umanità, non per celebrare matrimoni o fidanzamenti, e d’altronde la Sua<br />

stessa nascita (il concepimento miracoloso di Maria, la paternità putativa di Giuseppe) nega il normale ordine familiare:<br />

«i due Ken e le due Barbie», così conclude le sue riflessioni Claudio Magris, «hanno sbagliato presepe e indirizzo; non<br />

saranno essi, con i loro sorrisi dolciastri, a trasformare il presepe in un’agenzia matrimoniale» (Claudio Magris,<br />

Betlemme non è una famiglia, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 2006).<br />

81 Il Capo dello Stato ha auspicato l’interessamento del Parlamento per disciplinare legalmente l’eutanasia. Ha ribattuto<br />

però mons. Rino Fisichella, rettore dell’Università Lateranense, che non è bene legiferare a partire da un caso umano né<br />

si può misconoscere il valore profondo della dignità della persona (vd. l’intervista a mons. Fisichella, «Ho rispetto<br />

dell’’uomo e della sua sofferenza ma la legge non si fa partendo da un caso», in «Corriere della Sera», 28 novembre<br />

2006).<br />

82 Il filosofo Emanuele Severino ha affermato che lo Stato deve riconoscere il diritto ad ogni uomo di morire senza<br />

soffrire oltre un certo limite, in nome del rispetto per la dignità dell’uomo (intervista di Alessandra Mangiarotti ad<br />

Emanuele Severino, «Morire senza soffrire è un diritto, lo stato faccia il suo dovere», in «Corriere della Sera», 5<br />

dicembre 2006).<br />

83 Secondo mons. Vicenzo Paglia, vescovo di Terni e presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il<br />

dialogo interreligioso, la risposta della Chiesa alla richiesta di chi come Welby chiede l’eutanasia non può che essere<br />

l’amore per chi soffre nella solitudine (intervista a mons. Paglia di Andrea Garibaldi, «Cristo e quel letto.Non c’è mai<br />

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questa delicata materia non sembra seguire la voce della Chiesa. Si dichiara, infatti, a<br />

favore dell’eutanasia la maggioranza degli italiani, ossia il 58% (diviso tra il 20% di chi<br />

ammette il ricorso all’eutanasia in qualsiasi caso e il 38% di chi l’ammette solo quando il<br />

dolore fisico risulti insopportabile per il malato), secondo un sondaggio curato dal prof.<br />

Renato Mannheimer e pubblicato sul «Corriere della Sera». 84 Un’ultima occasione di<br />

confronto, in campo morale e politico, tra laici e cattolici è stata occasionata dal<br />

disegno di legge che regola i patti per la disciplina della civile convivenza (chiamati non<br />

più “Pacs” ma “Dico”, diritti e doveri dei conviventi). La legislazione sulle coppie di<br />

fatto, ancorché non ancora istituzionalizzata nella forma della legge ordinaria, 85 non<br />

poteva non suscitare la reazione delle gerarchie vaticane, avendo più volte la Chiesa,<br />

per bocca dello stesso Pontefice, espresso di considerare valori irrinunciabili e non<br />

negoziabili quelli riguardanti la vita e la famiglia. 86 Lo studio del Consiglio per la<br />

famiglia, Famiglia e procreazione umana, pubblicato nel giugno 2006 a firma del suo<br />

presidente, il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, ribadiva la tradizionale posizione di<br />

severa condanna delle unioni di fatto, della fecondazione assistita, dell’aborto e del<br />

femminismo, quali minacce all’integrità della famiglia, effetto dell’ “eclissi di Dio” nella<br />

cultura di oggi. 87 Nell’immagine della “famiglia ferita” hanno perciò riassunto la loro<br />

preoccupata contrarietà il Papa e i vertici delle gerarchie vaticane. 88<br />

9. Anche le espressioni artistiche ispirate dalla fede cristiana danno occasione di<br />

innescare facili polemiche, amplificate dalla potenza mediatica. Si pensi alle discussioni<br />

che hanno accompagnato il film The Passion di Mel Gibson, una personale rilettura delle<br />

ultime ore della vita di Gesù Cristo, condotta con particolare attenzione alle sofferenze<br />

e alle violente torture che subì il Salvatore nelle mani dei soldati romani. 89 Se vi sono<br />

eutanasia se non c’è solitudine», in «Corriere della Sera», 25 settembre 2006). Non v’è distinzione tra eutanasia attiva e<br />

passiva, entrambe inaccettabili, per mons. Elio Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita (vd.<br />

l’intervista a mons. Sgreccia di Ignazio Ingrao, Il travaglio della Chiesa parte da un no deciso, in «Panorama», n.40, 5<br />

ottobre 2006, p.53). Piergiorgio Welby ha concluso le sue sofferenze il 21 dicembre 2006, per il distacco del ventilatore<br />

polmonare a cui era collegato. La Chiesa non ha concesso alla famiglia i funerali religiosi.<br />

84 Renato Mannheimer, Eutanasia, sì dalla maggioranza degli italiani, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 2006.<br />

Molti sacerdoti sembrerebbero contraddire, in senso piuttosto lassista, le direttive della Chiesa su eutanasia, prevenzione<br />

dell’AIDS, ricerche sugli embrioni, omosessualità, e altri delicati temi, stando all’inchiesta di un giornalista che,<br />

spacciandosi per penitente, è entrato nei confessionali di 24 chiese di Torino, Milano, Roma, Napoli e Palermo: vd.<br />

Riccardo Bocca, Benedette assoluzioni, in «L’Espresso», n.4, 1 febbraio 2007, pp.22-29. L’inchiesta è stata fortemente<br />

criticata sia nei contenuti sia sul piano deontologico professionale da un editoriale della «Civiltà Cattolica» (che si<br />

chiede polemicamente se soltanto in Italia i cattolici possano essere impunemente offesi): Un episodio avvilente, in «La<br />

Civiltà Cattolica», n.3760, 17 febbraio 2007, pp.319-323.<br />

85 Almeno fino al momento in cui scriviamo.<br />

86 Come nel discorso rivolto da Papa Benedetto XVI ai delegati del Partito Popolare Europeo nell’udienza del 30 marzo<br />

2006. Commentando le parole del Papa, il giurista Francesco Paolo Casavola, difendendo il diritto della Chiesa ad<br />

esprimere pubblicamente le proprie opinioni, ha osservato che la concezione cristiana della famiglia, quale unione tra<br />

uomo e donna fondata sul matrimonio, corrisponde esattamente alle tante pronunce in argomento della corte<br />

Costituzionale (Francesco Paolo Casavola, Ha solo la forza della fede, in «Il Messaggero», 31 marzo 2006).<br />

87 Luigi Accattoli, «Pacs e fecondazione assistita, è l’eclissi di Dio», in «Corriere della Sera», 7 giugno 2006. Vd. anche<br />

la recente intervista al card. Lopez Trujillo di Luigi Accattoli, Trujillo: chi vuole diritti si sposi.Non si fanno leggi per<br />

un capriccio, in «Corriere della Sera», 11 dicembre 2006, nel quale il prelato riafferma l’inaccettabilità della disciplina<br />

legale delle unioni di fatto, perché depotenzia la famiglia fondata sul matrimonio («i conviventi non si impegnano a<br />

nulla, neanche a durare per un giorno nella loro unione e non si impegnano versoi figli e verso la società, ma chiedono<br />

diritti. Chiedono senza dare: qui è il difetto della proposta»). Mons. Rino Fisichella si è appellato ai parlamentari<br />

cattolici perché non votino il disegno di legge sui “Dico”, in quanto in contrasto con i dettami della Chiesa (intervista a<br />

mons. Fisichella di Luigi Accattoli, Fisichella: ha vinto l’ideologia.I parlamentari cattolici votino no, in «Corriere della<br />

Sera», 10 febbraio 2007).<br />

88 Luigi Accattoli, Dico, offensiva della Chiesa.Il Papa: preoccupato, in «Corriere della Sera», 10 febbraio 2007.<br />

89 Mel Gibson, per sua stessa ammissione, si è ispirato anche alle visioni della mistica tedesca Anna Katharina<br />

Emmerick (1774-1824), trasposte per iscritto dal poeta Clemens Maria Brentano (si ricordi, ad esempio, la scena in cui<br />

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stati giudizi positivi in moltissimi esponenti della Chiesa cattolica, 90 la pellicola è valsa<br />

al suo autore critiche e accuse, soprattutto da parte ebraica. La rappresentazione della<br />

passione di Gesù realizzata da Gibson «ostacola il dialogo, evoca ostilità, ripropone<br />

l’accusa tradizionale di deicidio – il potere romano si astiene, la decisione è dei<br />

sacerdoti ebrei – e soprattutto la sua perpetuità»: così ha dichiarato il rabbino capo<br />

della comunità di Roma, Riccardo Di Segni, che ha chiesto alla Chiesa cattolica di<br />

prendere le distanze dal film. 91 Il rabbino Marvin Hier del Centro Simon Wiesenthal di<br />

Los Angeles si è spinto oltre, bollando il film come antisemita, 92 e il suo collega Shamuel<br />

Herzfeld ha persino affermato che la teologia da cui esso nasce è la stessa che ha dato<br />

origine all’Olocausto. 93 Il Vaticano, per l’occasione, pur non pronunciandosi<br />

ufficialmente sul valore dell’opera (che sembra aver avuto il gradimento del Pontefice,<br />

allora Giovanni Paolo II), ha però mostrato comprensione per la protesta degli ebrei: il<br />

predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, ha invitato a rispettare<br />

le preoccupazioni degli ebrei per l’antisemitismo, anche quando esse possano apparire<br />

Gesù incatenato viene gettato da un ponte nell’acqua, dagli sgherri che lo scortano): nel testo gli accusatori di Gesù<br />

sono insistentemente descritti come “perfidi e malvagi seguaci di Satana” (vd. La passione del Signore nelle visioni di<br />

Anna Katharina Emmerick, edizione a cura di Vincenzo Noja, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p.72). Ma<br />

potrebbe aver utilizzato anche la Storia di Cristo di Giovanni Papini (1921), altro testo dai violenti toni antisemiti,<br />

secondo lo storico Sergio Luzzatto (vd. Sergio Luzzatto, La «Passione» splatter di Gibson c’era già nel bestseller di<br />

Papini, in «Corriere della Sera», 1 aprile 2004).<br />

90 Vd., ad esempio, il giudizio di monsignor Joseph Augustine Di Noia, sottosegretario della Congregazione per la<br />

dottrina della fede, nell’intervista rilasciata a Paolo Scarano, L’uomo del Papa ha detto sì «Mel Gibson ha raccontato<br />

solo la verità», in «Gente», n.16, 2004, p.66: «È un film molto bello, con riprese spettacolari. Brillante la recitazione<br />

degli interpreti. Bravissimo il regista che ha saputo approfondire il significato teologico della Passione e della morte di<br />

Cristo, con grande sensibilità artistica e religiosa. Non esagero a dire che egli ha compiuto un’opera di apostolato: per i<br />

fedeli che vedranno il suo film, andare a Messa non sarà più come prima». Da citare anche il commento di Vittorio<br />

Messori, che, escludendo ogni intenzione antisemita, esalta la “cattolicità radicale” del film («In sintesi estrema, la<br />

«cattolicità» radicale del film sta innanzitutto nel rifiuto di ogni demitizzazione, nel prendere i vangeli come cronache<br />

precise: le cose, ci viene detto, sono andate così, proprio come la Scrittura le descrive. Il cattolicesimo sta, poi, nel<br />

riconoscimento della divinità di Gesù che convive con la sua piena umanità. Una divinità che erompe,<br />

drammaticamente, nella sovrumana capacità di quel corpo di subire una quantità di dolore come mai alcuno né prima né<br />

dopo, in espiazione di tutto il peccato del mondo. Ma la «cattolicità» radicale sta anche nell’aspetto «eucaristico»,<br />

riaffermato nella sua materialità: il sangue della Passione è intrecciato di continuo al vino della Messa, la carne<br />

martoriata del corpus Christi al pane consacrato. E sta, pure, nel tono fortemente mariano: la Madre e il Diavolo (che è<br />

femmina o, forse, androgino) sono onnipresenti, l’una con il suo dolore silenzioso, l’altro – o l’altra – con il suo<br />

compiacimento maligno», Vittorio Messori, Quella Passione oltre le parole.Per Gibson come una messa antica, in<br />

«Corriere della Sera», 17 febbraio 2004).<br />

91 Vd. Gian Guido Vecchi, «La Chiesa deve condannare Passion», in «Corriere della Sera», 11 marzo 2004.<br />

92 Si lamenta il rabbino: «Ci sono stati molti film sulla passione, ma nessuno ha mai avuto così tanto impatto e la<br />

ragione è semplice. Su due ore di film Mel Gibson ha scelto di dedicarne almeno una all’agonia fisica di Gesù. Ha<br />

scelto anche di rappresentare gli ebrei con tratti fisici caricaturali e sguardi sinistri, nessuno di loro dice mai una parola<br />

intelligente e se parlano è solo per invocare la crocefissione. Con l’eccezione dei quattro legionari che lo torturano, i<br />

romani invece ne escono bene, anche Ponzio Pilato emerge come una figura timida e ragionevole. E così, che cosa ne<br />

trarrà lo spettatore? Che i responsabili di questo tremendo atto di crudeltà inflitto su Gesù sono solo gli ebrei, una<br />

conclusione che alimenterà l’antisemitismo in un momento in cui, dall’Europa all’America latina all’Asia musulmana, è<br />

già in allarmante crescita. Un film che finirà per rafforzare vecchi stereotipi, proprio mentre la Chiesa insegue la via<br />

della riconciliazione» (dall’intervista di Marvin Hier a Lorenzo Soria, Gesù che passione, in «L’Espresso», n.9, 4 marzo<br />

2004, p.31). Anche un settimanale cattolico come «Famiglia Cristiana» non nasconde le perplessità sulle scene di<br />

terribile violenza nel film (Roberto Parmeggiani, La Passione secondo Mel, in «Famiglia Cristiana», n.12, 2004, pp.32-<br />

34), mentre sulle stesse pagine si confrontano il biblista mons. Gianfranco Ravasi e il rabbino capo di Milano Giuseppe<br />

Laras, mostrandosi parzialmente concordi sulle critiche al film: per il rabbino Laras il film rappresenta un passo indietro<br />

rispetto al Concilio Vaticano II e alla Nostra aetate, per mons. Ravasi la lettura della passione e morte di Gesù, fatta da<br />

Gibson, risente di una teologia tradizionale, un po’ datata, e pone tutto l’accento sull’aspetto del sacrificio e del<br />

martirio, trascurando la dimensione pasquale (Roberto Parmeggiani, «Gibson è un regista, non un teologo», ibid.,<br />

pp.34-37).<br />

93 Giudizio riportato, assieme ad altri del medesimo tenore, in Andrea Tornielli, La Passione, dai Vangeli al film di Mel<br />

Gibson, Società Europea di Edizioni – Il Giornale, Milano 2004, p.13.<br />

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ingiustificate. 94 In effetti, la fedele trasposizione delle pagine del Vangelo e<br />

l’accuratezza della ricostruzione (la fedeltà al contesto storico, pretesa da Gibson, è<br />

stata tale che perfino i dialoghi sono stati recitati in latino e aramaico) hanno<br />

necessariamente presentato al regista il problema (peraltro non risolto) di mostrare gli<br />

ebrei del tempo di Gesù, in specie i sinedriti che lo denunciarono alle autorità romane,<br />

in modo tale da non offendere la suscettibilità dei loro discendenti. In compenso il film<br />

ha incontrato il forte consenso degli spettatori islamici (laddove la visione del film è<br />

stata permessa: in Malaysia, ad esempio, le autorità hanno deciso di vietarla perché<br />

l’Islam non consente di rappresentare un profeta, come Gesù viene considerato nel<br />

Corano): siriani, libanesi, palestinesi si sono commossi nel riconoscere nelle sofferenze<br />

di Gesù Cristo, recitante in aramaico, le loro proprie di popoli condannati e umiliati<br />

nelle loro terre. 95<br />

Ma la Chiesa cattolica non emette anatemi né decreta condanne a di morte, anche<br />

quando sono in gioco i fondamenti stessi della dottrina cristiana. È il caso del recente<br />

saggio-inchiesta di Corrado Augias e Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù (Mondadori, Milano<br />

2006¹¹), le cui conclusioni, ossia che il Gesù della storia non coincida affatto con il<br />

Cristo della fede, hanno sollevato la reazione dei cattolici. Il fine degli autori (un noto<br />

giornalista televisivo e uno storico del cristianesimo), che pur assicurano di aver agito<br />

con onestà e buona fede, ossia quello di “sfatare i dogmi su cui si fonda il cristianesimo”<br />

per restituire Gesù alla sua piena dimensione umana, primo carattere della qual è<br />

l’essere stato ebreo (ma questa “scoperta” la si conosceva già), non può non collimare<br />

oggettivamente con quello di un certo laicismo, che vede nella desacralizzazione del<br />

Salvatore, condotta con le armi dell’analisi scientifica, un irrinunciabile obiettivo. In<br />

questo saggio il punto centrale della dottrina cristiana, ossia la fede nella resurrezione<br />

di Gesù, è svilito come effetto di visioni “di natura isterica” e perciò ogni testimonianza<br />

evangelica è aprioristicamente giudicata inattendibile (soprattutto quella di san Paolo in<br />

I Cor.15,6, ove l’apostolo parla di un’apparizione di Gesù risorto avvenuta davanti a più<br />

di cinquecento persone in una volta). 96 Sono negate altresì tutte le verità cristiane<br />

essenziali, quali, oltre alla resurrezione, la divinità di Gesù, la sua incarnazione, l’esser<br />

nato da una Vergine, il carattere redentivo della sua morte: in sostanza, gli autori<br />

pongono una frattura tra il Gesù della storia (l’ “ebreo Gesù”) e il Gesù della fede (il<br />

Cristo), creato dalle incrostazioni teologiche della Chiesa. 97 Risponde dal canto suo<br />

Vittorio Messori (che fu autore nel 1976 di un celebre saggio-inchiesta, Ipotesi su Gesù,<br />

ove rilevava che proprio quel passo della lettera ai Corinti mostra che la divinizzazione<br />

di Gesù è avvenuta in modo inspiegabile e pochissimi anni dopo la Sua morte), 98 citando<br />

94 Vd. Luigi Accattoli, Dal Vaticano una mano tesa agli ebrei, in «Corriere della Sera», 13 marzo 2004.<br />

95 Vd. Gabriele Romagnoli, La Passione di Mel Gibson che piace agli islamici, in «La Repubblica», 2 aprile 2004. Va<br />

ricordato anche l’elogio espresso dal leader palestinese Yasser Arafat, che ha paragonato le sofferenze che subì Gesù<br />

durante la crocifissione con quelle che ha subito il popolo palestinese (vd. Davide Fratini, Palestinesi a caccia di dvd<br />

«Ora è un film manifesto», in «Corriere della Sera», 6 aprile 2004).<br />

96 Così anche le visioni che ebbero San Paolo sulla via di Damasco e la Maddalena davanti al sepolcro sono ricondotte<br />

dagli autori rispettivamente a una crisi epilettica e alla proiezione dell’inconscio in una mente esaltata dal dolore,<br />

mentre l’episodio dell’apparizione sul lago di Tiberiade in Giovanni, 21,1-12, sarebbe frutto della trasposizione del<br />

medesimo episodio che Luca cita ante mortem in 5,4-11 (vd. Corrado Augias – Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù, Milano<br />

2006¹¹, pp.174-180).<br />

97 Sicché, come afferma l’autorevole rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica condannando il saggio di Augias e Pesce,<br />

«dispiace il fatto – storicamente ed esegeticamente ingiustificato – che in tale volume sia contenuto obiettivamente,<br />

quali che siano state le intenzioni dei due autori, un attacco frontale alla fede cristiana» (Giuseppe De Rosa S.I., Un<br />

attacco alla fede cristiana, in «La Civiltà Cattolica», n.3755, 2 dicembre 2006, pp.456-466).<br />

98 Riprendiamo le conclusioni a cui perviene il Messori, assolutamente opposte a quelle di Augias – Pesce: la prima<br />

lettera ai Corinti di san Paolo, contenente il kérygma, ossia l’annuncio della fede cristiana nelle sue Verità fondamentali,<br />

nel Dio fattosi uomo, morto e risorto per la salvezza dell’umanità, è la prova di un processo di divinizzazione della<br />

figura di Cristo compiutosi in modo rapidissimo e storicamente inspiegabile. Il significato del kérygma, con il suo<br />

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l’esempio del grande teologo Rudolf Bultmann (fondatore dell’esegesi neotestamentaria<br />

in chiave critico-mitologica), che sbaglia chi esamina le Scritture secondo gli assunti<br />

della scienza biblica, perché il succedersi delle scuole non fa che smentire i risultati di<br />

ogni precedente ricerca, sicché non può ammettersi un risultato definitivo in questo<br />

campo. 99 Va anche aggiunto che Augias e Pesce trascurano, nella loro analisi<br />

“scristianizzante” della figura di Gesù, ogni riferimento alla Sindone di Torino (che pure<br />

è stata oggetto di polemiche e interpretazioni assai controverse, a seguito della<br />

misurazione del carbonio C 14 compiuta sulla reliquia, che la daterebbe al medioevo).<br />

Ma anche gli scienziati non desistono dai tentativi di spiegare razionalmente (in omaggio<br />

a una visione scientista del fenomeno religioso) i prodigi di cui narra la Bibbia, come il<br />

prof. Doron Nof, docente della Florida University, che ha ipotizzato la formazione di uno<br />

strato di ghiaccio sul lago di Tiberiade, in corrispondenza di alcune sorgenti di acqua<br />

salata, tra i 1500 e i 2500 anni fa: questo fenomeno spiegherebbe, secondo lo studioso,<br />

il miracolo di Gesù che cammina sulle acque del lago di Tiberiade (in Giovanni 6,16-21).<br />

I credenti indignati, però, lo hanno sommerso di e-mail di protesta. 100<br />

Pensiamo, poi, al successo planetario decretato, con i quaranta milioni di copie<br />

vendute, a chi ha voluto reinterpretare perfino le radici cristiane della civiltà<br />

occidentale in chiave neognostica, attribuendo addirittura una discendenza segreta al<br />

Cristo e alla Maddalena, che si sarebbe perpetuata fino ai giorni nostri: 101 è il tema del<br />

fortunatissimo thriller Il Codice da Vinci di Dan Brown (The da Vinci Code, 2003), 102 che<br />

ha originato una proliferazione di romanzi analoghi, ridando vigore al genere<br />

“fantareligioso”. Il romanzo di Brown, com’è noto, mette in scena una caccia al Santo<br />

Graal (secondo la tradizione, la coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo), compiuta<br />

dai due protagonisti, un docente universitario americano e la figlia del direttore del<br />

museo del Louvre, i quali, dopo una serie di peripezie (nel corso delle quali devono<br />

addirittura affrontare le insidie dell’Opus Dei, dipinta come una società segreta che si<br />

servirebbe di sicari come il frate-killer Silas), giungono a scoprire che il Graal non è la<br />

coppa ma una persona, ossia Maria Maddalena, la quale si sarebbe congiunta con Gesù e<br />

gli avrebbe dato una discendenza che si sarebbe perpetuata in Francia, con i re<br />

Merovingi (il sang réal, da cui “Santo Graal”). Alla Maddalena, e non a San Pietro, Cristo<br />

avrebbe consegnato la Sua Chiesa, ad esaltazione del principio femminile nella comunità<br />

cristiana, ma l’imperatore Costantino, nel concilio di Nicea (325), avrebbe cancellato<br />

contenuto dottrinale già formato dopo pochissimi anni dalla vicenda terrena di Gesù, è che il Cristo della fede ha le sue<br />

radici nel Cristo della storia (Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, S.E.I., Torino 1977¹¹, pp.170-175). Per quanto riguarda<br />

la tesi di Augias – Pesce sulle visioni del Cristo risorto come effetto di patologie psichiche, portiamo a confronto le<br />

parole di Bruno Maggioni (citato in Andrea Tornielli, Inchiesta sulla resurrezione. Misteri, leggende e verità. Dai<br />

Vangeli al Codice da Vinci, Società Europea di Edizioni, Milano 2005, p.159): «Tutte le testimonianze in nostro<br />

possesso ci dicono che i discepoli non erano dei visionari. Il loro cammino è avvenuto in senso contrario rispetto a<br />

quello dei visionari. Questi dapprima sono certi e poi, sotto la spinta della ragione o di altro, giungono al dubbio. I<br />

discepoli, invece, partirono dal dubbio e non senza resistenze approdarono alla certezza. Questo è il cammino di uomini<br />

sanamente critici e non di uomini visionari». Riguardo al passo di I Cor.15,6 osserva il Tornielli che Paolo,<br />

aggiungendo che molti dei cinquecento che avevano visto il Signore risorto erano ancora in vita, dava la possibilità di<br />

verificare quanto aveva affermato (Andrea Tornielli, Inchiesta sulla resurrezione, cit., p.163).<br />

99 Vittorio Messori, Gesù, non separiamo la fede dalla storia, in «Corriere della Sera», 29 settembre 2006.<br />

100 Paolo Di Stefano, «Gesù camminò sul ghiaccio».Assedio allo scienziato, in «Corriere della Sera», 6 aprile 2006.<br />

101 Come intende da ultimo dimostrare, allegando le supposte prove, il saggio di Laurence Gardner, La linea di sangue<br />

del Santo Graal, Newton & Compton, Roma 2005; ma già prima la tesi di una discendenza segreta del Cristo,<br />

speculando sui vangeli apocrifi, era stata esposta in Michael Baigent – Richard Leigh – Henry Lincoln, Il santo Graal.<br />

Una catena di misteri lunga duemila anni, trad. di Roberta Rambelli, Fabbri Editori, Milano 2005 (i quali hanno<br />

accusato Dan Brown di plagio, intentandogli vanamente causa). Sulla commistione tra romanzo e religione, che sarebbe<br />

anch’essa una risposta al bisogno del sacro affiorante nella nostra società, vd. il commento del sociologo Francesco<br />

Alberoni, Va di moda contaminare romanzo e religione, in «Corriere della Sera», 1 maggio 2006.<br />

102 Dan Brown, Il codice da Vinci, trad. di Riccardo Valla, Mondadori, Milano 2004²º.<br />

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questo principio reistituendo la Chiesa cristiana in senso maschilista ed eliminando ogni<br />

presenza femminile dalla gerarchia e dal culto. Una setta segreta, il Priorato di Sion<br />

(fondata da Goffredo di Buglione, al quale risale anche l’origine dei Templari, che<br />

sarebbero stati il braccio armato del Priorato di Sion), che avrebbe avuto tra i suoi Gran<br />

Maestri eminenti personalità come Leonardo da Vinci (il quale avrebbe dipinto<br />

nell’Ultima Cena Gesù insieme con la Maddalena, figura tradizionalmente interpretata<br />

come l’apostolo Giovanni), Isaac Newton e Victor Hugo, avrebbe assicurato nei secoli la<br />

trasmissione del segreto sulla vera origine della Chiesa e avrebbe protetto la<br />

discendenza di Gesù. Contro il Priorato di Sion, a cui sarebbe collegata anche la<br />

massoneria, agisce l’Opus Dei, rappresentata nel romanzo come una società segreta<br />

guidata dal bieco prelato Aringarosa, il quale scatena i suoi frati-killer per sopprimere<br />

gli ultimi Gran Maestri del Priorato di Sion, conoscitori della verità sul Graal (come il<br />

direttore del Louvre che, nel romanzo, viene assassinato dal gigantesco albino frate<br />

Silas). La conclusione del romanzo è che la tomba della Maddalena viene trovata sotto la<br />

piramide di vetro del Museo del Louvre, mentre la giovane Sophie, nipote del direttore<br />

del Louvre che era stato assassinato da frate Silas perché ultimo Gran Maestro del<br />

Priorato di Sion, ha la sconvolgente rivelazione di appartenere alla dinastia di Cristo.<br />

Anche questo romanzo, un tipico esempio di paraletteratura (la struttura narrativa<br />

ricalca quella di una spy story) nel quale l’autore ha innestato la tematica religiosa<br />

fondando la trama su un’ampia documentazione (non si sa, però, quanto attendibile)<br />

desunta soprattutto dalle fonti gnostiche, ha originato una serie di polemiche,<br />

discussioni e prese di posizione. Le discussioni si sono acuite soprattutto quando Dan<br />

Brown ha cercato di spacciare questa congerie di fantasiose assurdità (abilmente<br />

utilizzate, lo ripetiamo, per costruire una trama romanzesca) per fatti realmente<br />

accaduti. Di fronte allo sconcerto dei cattolici e alle confusioni che la storia di Dan<br />

Brown ha ingenerato in molti lettori piuttosto sprovveduti 103 si sono levate prontamente<br />

le reazioni della Chiesa (legittimate, a nostro giudizio, non tanto dal romanzo in sé, che<br />

ha alle spalle un ampio e risalente filone di narrativa “fantareligiosa” e “fantavaticana”,<br />

quanto dalla pretesa di Dan Brown di attribuire credibilità a supposte e assai improbabili<br />

origini esoteriche ed “eterodosse” del Cristianesimo). 104 Si è registrata così l’ennesima<br />

spaccatura tra laici e cattolici, pronti a schierarsi ancora una volta in difesa di principi<br />

che appaiono irriducibili: da una parte la difesa della dottrina e della fede e dall’altra la<br />

difesa della libertà di pensiero e di espressione. Forti critiche al romanzo sono state<br />

espresse dallo storico Franco Cardini 105 e dallo studioso di fenomeni religiosi Massimo<br />

Introvigne, che, smascherandone tutte le incongruenze e le falsità, vi ha visto<br />

l’impronta del pregiudizio anticattolico. 106 Non si è forse tenuto sufficientemente conto<br />

103 In un sondaggio del settimanale «Panorama» il 36,1% degli intervistati riteneva che il supposto matrimonio di Cristo<br />

con la Maddalena e la loro discendenza fosse un’ipotesi su cui indagare, mentre il 10,1% lo riteneva essere la probabile<br />

verità (ma soltanto il 31,6% degli intervistati aveva letto il romanzo di Dan Brown): vd. Donatella Marino, Gesù sposò<br />

la Maddalena: perché no?, in «Panorama», n.20, 18 maggio 2006, pp.40-41.<br />

104 Vd. l’intervista a Dan Brown di Paolo Mastrolilli, «Nel nome del Padre, del Figlio e del sacro femminino», in «La<br />

Stampa», 25 aprile 2006. Brown cita in proposito fantomatici documenti ritrovati presso la Bibliothèque Nazionale di<br />

Parigi per affermare la reale esistenza del Priorato di Sion: ma tali documenti sarebbero opera dell’esoterista Pierre<br />

Plantard, il quale, a sua volta, si sarebbe ispirato alle leggende che circondano il paesino francese di Rennes-le-Château,<br />

la chiesa di Santa Maria Maddalena e il bizzarro sacerdote don Bérenger Saunière, che vi fu parroco alla fine<br />

dell’Ottocento.<br />

105 Il quale considera Il Codice da Vinci un esempio di “cultura cialtrona e di cassetta”, vd. l’intervista al prof. Cardini<br />

di Marco Neirotti, Cardini:«Un’apoteosi di cultura cartapesta», in «La Stampa», 17 maggio 2006. Altrove lo storico<br />

spiega il successo del libro di Dan Brown con l’appoggio dei circoli femministi americani, che rimprovererebbero alla<br />

Chiesa cattolica l’egemonia maschilista, vd. Franco Cardini, Il «Codice» della Dea, in «La Stampa», 13 maggio 2006.<br />

106 Massimo Introvigne, “Il Codice da Vinci”: ma la storia è un’altra cosa, in «Il Timone», n.31, marzo 2004, pp.47-49<br />

(il testo è leggibile, in versione più ampia, anche sul sito del Centro Studi dei Nuovi Movimenti Religiosi all’indirizzo<br />

www.cesnur.com ).<br />

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del fatto che Il codice da Vinci (il quale va considerato, ripetiamo, anzitutto un<br />

romanzo) 107 non nasce come una creazione originale dalla fantasia troppo sbrigliata di un<br />

autore in cerca di facile sensazionalismo, ma ha dietro di sé una lunga serie di romanzi,<br />

alcuni dei quali certamente non privi di valore letterario, che elaborano tematiche<br />

religiose in chiave letteraria, 108 talvolta esoterica o perfino fantascientifica, 109 oppure<br />

ambientano intrighi e complotti in Vaticano, presentando la figura del papa in chiave<br />

“eterodossa” e anticonvenzionale, o, ancora e più semplicemente, trattano la materia<br />

del sacro con le armi dell’ironia e della dissacrazione (pensiamo al più famoso di questi<br />

romanzi, Il nome della rosa di Umberto Eco (1981), che ambienta un oscuro complotto,<br />

al centro del quale vi è il perduto secondo libro della Poetica di Aristotele, in un<br />

monastero nel medioevo e chiama a sbrogliare l’intrigo un frate che, anche nel nome,<br />

107 Come fa Valerio M. Manfredi, che giustifica le fantasie di Brown in nome della libertà dell’immaginazione: vd.<br />

l’intervista a Manfredi di Marco Neirotti, Manfredi: «Il romanzo è libero di inventare», in «La Stampa», 17 maggio<br />

2006.<br />

108 Un caso di commistione tra letteratura e tematiche religiose è quello del famoso romanzo di Nikos Kazantzakis,<br />

L’ultima tentazione (La dernière tentation, 1959), trad. di Marisa Aboaf e Bruno Amato, Frassinelli, Milano 1987, che<br />

presenta una versione di Cristo certamente non tradizionale (e raffigura situazioni paradossali, come quella di un<br />

giovane Gesù falegname che costruisce le croci a cui i romani affiggono gli Zeloti condannati a morte, vd. p.35-46):<br />

l’autore pone l’accento soprattutto sulla natura umana di Gesù, mostrando la durissima lotta interiore di un uomo<br />

tormentato e inquieto che fatica ad accettare il suo destino di Salvatore e a non soccombere alla rabbiosa sfiducia e al<br />

richiamo della carne e dei sensi (manifestatosi con l’ultima tentazione di Satana, quella che dà il titolo al romanzo, ossia<br />

la felice vita quotidiana, ricca di gioie e di figli, che il diavolo mostra a Gesù sulla croce, come quella che avrebbe<br />

vissuto se non avesse scelto di obbedire alla Volontà del Padre, sacrificandosi per redimere l’umanità). A dispetto della<br />

affermata ammirazione di Kazantzakis per la figura di Gesù e delle intenzioni, che non erano affatto dissacratorie, il<br />

romanzo è valso all’autore critiche aspre e perfino la scomunica da parte della Chiesa ortodossa. Una “cristologia<br />

monca” (nella quale prevale l’erronea dicotomia dello spirito che lotta contro la carne, «quasi che in lui la realtà umana<br />

si possa contrapporre a quella divina», p.332), vede nel romanzo Ferdinando Castelli S.I., Il Cristo di Nikos<br />

Kazantzakis, in «La Civiltà Cattolica», n.3322, 19 novembre 1988, pp.322-335. Si veda l’apologia dello stesso Nikos<br />

Kazantzakis, Gesù è un modello per l’uomo che lotta, trad. di Nicola Crocetti in «Il Giornale», 8 settembre 1988.<br />

Conferma le inquietudini religiose del marito, la vedova di Kazantzakis, Hélène, nell’intervista rilasciata a Ornella Rota,<br />

Kazantzakis, il cercatore di Dio, in «Il Giornale», 12 settembre 1988. Dal discusso romanzo il regista Martin Scorsese<br />

ha ricavato un ancor più discusso film, L’ultima tentazione di Cristo (1988), bollato dalla C.E.I. come “inaccettabile e<br />

moralmente offensivo” e condannato, con un analogo comunicato, dai cardinali Albert Decourtray, arcivescovo di<br />

Lione, e Jean Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi, in nome del rispetto dovuto alla fede nel Cristo morto sulla croce<br />

(comunicati del 7 settembre 1988). Pur notandone la modestia culturale, respinge l’accusa di pornografia per il film,<br />

Vittorio Messori, Don Scorsese, in «Il Giornale», 12 settembre 1988.<br />

109 Dall’ampio filone della “fantareligione” vogliamo ricordare, come emblematico esempio di testo dissacrante, il<br />

romanzo I.N.R.I. di Michael Moorcock (Behold the Man, 1969), trad. di Teobaldo del Tànaro, MEB, Torino 1976: Karl<br />

Glogauer, il protagonista, viaggia nel passato e giunge nella Palestina del 28 d.C., alla ricerca di Gesù Cristo. Lo trova a<br />

Nazareth, tra i numerosi figli del falegname Giuseppe, ma purtroppo si accorge che è un povero minorato mentale.<br />

Decide allora di prendere il suo posto, incarnando il Messia e compiendo tutti gli atti della vita di Gesù, secondo la<br />

narrazione evangelica, fino al sacrificio sulla croce. Il trafugamento del corpo da parte dei discepoli crea il mito della<br />

resurrezione e fonda la nuova religione cristiana. L’autore muove, chiaramente, da una prospettiva antitetica a quella di<br />

fede, poiché attribuisce l’origine “mitica” del cristianesimo all’azione umana, operata manipolando il passato, da parte<br />

di un ipotetico viaggiatore nel tempo. Secondo altri, invece, il romanzo sarebbe ispirato da una sofferta e autentica<br />

religiosità, perché descrive la tensione dell’uomo verso il divino, l’uomo sofferente che muore sulla croce assumendo su<br />

di sé il fardello dei peccati sulla terra (così Enrico Rulli, INRI, testo leggibile sul sito The Blog all’indirizzo<br />

http://blogh.clarence.com/archive/036848 ). Viaggi nel tempo e vita di Gesù sono connessi ancora in un recente<br />

romanzo (che, dietro l’ingegnosa trovata dell’autore, contiene un oggettivo attacco al Magistero della Chiesa), Lo<br />

specchio di Dio di Andreas Eschbach (Jesus Video, 1998), trad. di Robin Benatti, Fanucci editore, Roma 2005². Nella<br />

necropoli di Bet Hamesh, presso Gerusalemme, l’archeologo Stephen Foxx scopre lo scheletro di un uomo morto<br />

duemila anni prima, insieme con un manuale di utilizzo della videocamera.Ma quel modello di videocamera deve<br />

ancora uscire sul mercato. L’incredibile ipotesi è che lo scheletro sia quello di un viaggiatore del tempo che dal futuro<br />

avrebbe visitato la Palestina per filmare la vita di Gesù Cristo. La ricerca della videocamera scomparsa e delle sue<br />

straordinarie registrazioni costituiscono la trama del romanzo. Quando le trova, l’archeologo vede una immagine di<br />

Gesù molto più “umana e vera” di quella tradizionalmente insegnata dalla Chiesa.<br />

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sembra un precursore di Sherlock Holmes). 110 Dunque più filoni narrativi, tutti scaturenti<br />

dalla commistione tra sacro e narrativa (che ha prodotto opere di assai disuguale pregio<br />

letterario) s’innestano e convergono nel Codice da Vinci. Al riguardo, per citare un<br />

esempio che mostra l’intenzione dissacrante di molti di questi autori, ricordiamo che<br />

fece un certo scalpore, alcuni anni fa, il racconto di Robert Silverberg Buone notizie dal<br />

Vaticano (Good news from the Vatican, 1971), che immaginava addirittura l’elezione al<br />

soglio pontificio di un robot. 111 Per l’elezione di Joseph Ratzinger alcuni periodici hanno<br />

ricordato (non si sa quanto a proposito) che il nome di Benedetto XVI era stato assegnato<br />

al protagonista di un racconto di fantascienza di Herbie Brennan, Il dilemma di<br />

Benedetto XVI (The Armageddon decision, 1976): 112 l’autore vi rappresenta il capo della<br />

Chiesa cattolica costretta all’esilio a Ginevra, sofferente di disturbi allucinatori (visioni<br />

dell’Anticristo), ma lo psichiatra ebreo, a cui la Curia vaticana affida segretamente il<br />

suo esame clinico, lo dichiara sano di mente, in modo che il pontefice possa lanciare il<br />

suo anatema contro il tiranno che domina l’Europa e perseguita i cristiani, e che ha<br />

fatto impiccare la giovane figlia dello stesso medico.<br />

Anche la figura della Maddalena è stata oggetto della fioritura di saggi e romanzi che,<br />

sulla scia del successo del Codice da Vinci, hanno fornito interpretazioni<br />

fantasiosamente eterodosse della discepola di Cristo, attribuendo veridicità alle versioni<br />

apocrife della vita di Gesù, ove il ruolo di Maria di Magdala è esaltato come quello di una<br />

autentica sposa di Cristo. 113 Tra i saggi è da citare almeno Maria Maddalena e il Santo<br />

Graal (The Woman with the Alabaster Jar – Mary Magdalen and the Holy Grail, 1993), di<br />

Margaret Starbird, trad. di Francesca Donatacci, Mondadori, Milano 2005: secondo<br />

l’autrice la Maddalena avrebbe sposato Gesù e gli avrebbe dato una discendenza (il<br />

saggio è stato evidentemente tra le fonti del romanzo di Dan Brown), poi, dopo la morte<br />

del Maestro, sarebbe fuggita in Gallia assieme a Giuseppe d’Arimatea e a sua figlia. Il<br />

Santo Graal sarebbe il sang raal (il sangue reale, in antico francese), ossia il grembo<br />

della Maddalena che porta la discendenza di Gesù, continuata attraverso i re Merovingi.<br />

A comprova della sua tesi, la Starbird compie un excursus nel medioevo, citando<br />

un’ampia documentazione che comprende vangeli gnostici, testimonianze ereticali, testi<br />

letterari, opere pittoriche (ma tra queste manca stranamente l’Ultima Cena di<br />

Leonardo, su cui invece Dan Brown compie le sue vertiginose elucubrazioni), ardite<br />

illazioni filologiche (il nome dei Merovingi conterrebbe i termini mer e vin, Maria e la<br />

vite, e significherebbe “la vite di Maria”, ossia la discendenza della Maddalena). La<br />

Chiesa cattolica avrebbe cercato di sopprimere il Santo Graal perché il mistero del Graal<br />

110 È noto che Il nome della rosa, come ha peraltro chiarito il suo illustre autore, al di là della sterminata messe di<br />

citazioni erudite desunte soprattutto dai filosofi scolastici, deve molto alla paraletteratura, dal romanzo poliziesco (dallo<br />

sviluppo della trama, con le morti misteriose dei frati, alla coppia Guglielmo di Baskerville e Adso di Melk, che<br />

riecheggia Sherlock Holmes e il dottor Watson) al fumetto (la trovata del veleno cosparso all’estremità delle pagine del<br />

codice risale a un episodio di Diabolik, come ha rivelato lo stesso Eco). Ma più irriverente verso la religione ci sembra<br />

l’episodio, in Baudolino (2000), dei mostriciattoli tratti dai bestiarî medievali, come gli Sciapodi, i Blemmi, i Panozi,<br />

che litigano sulla natura del Cristo e sulla Santissima Trinità.<br />

111 Robert Silverberg, Buone notizie dal Vaticano, trad. di Ursula Ormini Soergel, in Aa. Vv., Buone notizie dal<br />

Vaticano («Urania», n.623), Mondadori, Milano 1973, pp.4-12.<br />

112 Herbie Brennan, Il dilemma di Benedetto XVI, trad. di G. Rosella Sanità, in Aa. Vv., Il dilemma di Benedetto XVI<br />

(«Urania», n.745), Mondadori, Milano 1978, pp.4-18. Sul racconto vd. il commento di Francesco Scalone, Il dilemma di<br />

Benedetto XVI, testo accessibile in internet all’indirizzo www.carmillaonline.com/archives/2005<br />

113 In particolare nel Vangelo di Filippo, 63,32-64,5, ove Maria Maddalena è detta “compagna del Figlio”. Secondo<br />

Elaine Pagels la figura della Maddalena avrebbe avuto un ruolo dominante all’interno della prima comunità cristiana, in<br />

contrasto con Pietro (vd. Elaine Pagels, I vangeli gnostici (The Gnostic Gospels), trad. di Massimo Parizzi, Mondadori,<br />

Milano 2005, pp.117-118. Propugna, però, una interpretazione in senso spirituale del passo, secondo la dottrina<br />

gnostica, Antonio Piñero, La vita di Gesù secondo i Vangeli apocrifi (El otro Jesús.Vida de Jesús según los Evangelios<br />

Apócrifos, 1995), trad. a cura di Gabriella Zucchi, Centro Editoriale Dehoniano – Edizione Speciale per il Corriere della<br />

Sera, Milano 2006, pp.304-309.<br />

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fornirebbe una versione del Cristianesimo alternativa rispetto a quella ufficiale e<br />

istituzionalizzata: il Cristianesimo autentico “ricostruito” dalla Starbird postulerebbe un<br />

sacerdozio traente origine da Gesù, ma senza la mediazione della Chiesa. 114<br />

Testi come l’ultimo citato, e soprattutto quello di Dan Brown, costituiscono un attacco<br />

alla Chiesa, come hanno prospettato saggisti di parte cattolica? Pensiamo al giudizio di<br />

padre Livio Fanzaga, per il quale le ragioni del successo del Codice da Vinci vanno<br />

ricercate nel fascino che esercitano sui lettori sprovveduti il complottismo e<br />

l’esoterismo, ma anche nella tendenza, «sempre viva e sempre di moda, che è quella di<br />

diffamare la Chiesa, di voler scoprire presunti misteri che si celerebbero dietro la sua<br />

storia». 115 È vero che l’apparente finalità del divertimento, che gli autori di queste<br />

trame fantasiose sino all’assurdo hanno sempre professato come esclusiva (almeno fino a<br />

Dan Brown), non riesce a celare le sostanziali forti critiche rivolte alla Chiesa come<br />

istituzione terrena, critiche che rasentano il vero e proprio attacco, e addirittura la<br />

messa in discussione, con la legittimità della Chiesa, dei presupposti storici del<br />

Cristianesimo stesso. Sul piano istituzionale gli attacchi vengono portati allorché si<br />

dipinge, in modo pregiudiziale, il Vaticano come luogo del potere, della conservazione,<br />

dell’intrigo e del malaffare in temporalibus, i cardinali come più o meno biechi e avidi<br />

businnessmen, il Papa come pastore evangelico e onesto combattente (lui solo, però)<br />

contro la parte corrotta e reazionaria della Curia romana. 116 Sul piano dottrinale,<br />

allorché si vuol mettere in discussione la storicità dei Vangeli canonici e la loro<br />

interpretazione, tentando di dimostrarne la falsità per screditare il Magistero della<br />

Chiesa, oppure pretendendo di attribuire veridicità a quelli apocrifi, che, com’è ben<br />

noto, furono composti in epoca assai successiva ai canonici e contengono chiari<br />

riecheggiamenti di dottrine gnostiche. La sbrigliata fantasia dei romanzieri, ai quali si è<br />

affiancata parallelamente un’ampia saggistica a cui i romanzieri stessi hanno attinto, in<br />

una sorta di circolo vizioso, ha creato, pertanto, numerose versioni “eterodosse” o<br />

“esoteriche” della vita di Gesù. 117<br />

114 Ricordiamo tra i romanzi, Il Vangelo secondo Maria Maddalena (The Magdalene Gospel, 1995) di Mary Ellen<br />

Ashcroft, 114 una riscrittura in chiave femminile del Nuovo Testamento: la vita di Gesù narrata dalle donne che Lo<br />

conobbero e Gli furono vicine durante la Sua vicenda terrena, riunitesi nel Sabato Santo dopo la Sua morte. Una parte<br />

centrale ha la Maddalena, simbolo di ogni figura femminile, nello smarrimento e nella rinascita, nonché testimone<br />

privilegiata del Maestro risorto, che sceglie di apparire a lei per prima.<br />

115 Vd. Padre Livio Fanzaga – Andrea Tornielli, Attacco alla Chiesa, Gribaudi, Milano 2006, p.12. Vede nel romanzo di<br />

Brown, e in genere nei romanzi “fantareligiosi” e in tanti atti dissacranti che deprimono i sentimenti di fede, una delle<br />

forme che ha assunto la plurisecolare lotta contro la Chiesa di Cristo (paragonando il Codice da Vinci a infami opere di<br />

propaganda come i falsi Protocolli dei savi anziani di Sion), Rosa Alberoni nel saggio La cacciata di Cristo, Milano<br />

2006, p.204.<br />

116 È un tema frequente nella narrativa di Morris West, specializzatosi nell’ambientare in Vaticano intrighi e complotti<br />

di spie e porporati: ad esempio, in I giullari di Dio (The Clowns of God, 1980) trad. di Roberta Pollini Rambelli,<br />

Mondadori, Milano 1982, il papa Gregorio XVII, dopo aver avuto sconvolgenti visioni, scrive un’enciclica nella quale<br />

preannuncia all’umanità l’imminente apocalisse, ma deve abdicare al soglio pontificio, spinto dalle pressioni della Curia<br />

guidata dal cardinale Anton Drexel, il quale, referti medici alla mano, minaccia il pontefice di farlo dichiarare folle.<br />

Tuttavia, costretto a ritirarsi nell’abbazia di Montecassino, l’ex papa riesce a pubblicare la sua enciclica con l’aiuto di<br />

un teologo di Tubinga (già da lui sospeso a divinis), che pagherà con la vita l’amicizia per il papa deposto.<br />

117 Questo nuovo filone della “cristologia eterodossa” o “esoterica” annovera ormai una nutrita serie di saggi e romanzi,<br />

presentanti i primi ipotesi spesso fantasiose se non decisamente inammissibili, e comunque inaccettabili per il credente,<br />

i secondi costituenti prove narrative non sempre riuscite. Della saggistica citiamo, anzitutto, Il Santo Graal.Una catena<br />

di misteri lunga duemila anni, di Michael Baigent – Richard Leigh – Henry Lincoln (The Holy Blood and the Holy<br />

Graal, 1982), trad. di Roberta Rambelli, Fabbri Editori, Milano 2005, saggio che ha ispirato il romanzo di Dan Brown,<br />

per la tesi della discendenza segreta di Gesù dalla Maddalena, che si sarebbe perpetuata fino ai nostri giorni, attraverso i<br />

re Merovingi; analoga tesi è svolta in La linea di sangue del Santo Graal di Laurence Gardner (Bloodline of the Holy<br />

Graal, 1996), trad. di Maria Eugenia Morin, Newton & Compton, Roma 2005; vd., da ultimo, anche La dinastia di<br />

Gesù di James Tabor (The Jesus Dynasty.The Hidden History of Jesus, His Royal Family, and the Birth of Christianity,<br />

2006), trad. di Caterina Sveva Lenzi, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 2006, che trae spunto dalla scoperta a<br />

Gerusalemme della tomba di Giacomo, fratello di Gesù, il 14 giugno 2000 e, prima ancora, dalla scoperta di alcune<br />

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Ma nessuno di questi romanzi, senza tener conto ovviamente di quelli nei quali la figura<br />

di Cristo è oggetto delle più inverosimili fantasie, come appunto Il Codice da Vinci, sa<br />

realmente cogliere lo spirito della Chiesa (al di là della superficiale e stantia visione<br />

dell’esistenza di un presunto conflitto interno tra parte “modernista” e parte<br />

“tradizionalista” della gerarchia vaticana), nessuno ricorda le tante realtà delle<br />

comunità, dei movimenti e del volontariato che rinnovano lo spirito evangelico e<br />

rendono la Chiesa realtà vivente ogni giorno nel servizio umilmente compiuto per il<br />

fratello che soffre. E una inaspettata solidarietà ai cattolici è venuta da parte del mondo<br />

islamico, che si è ritenuto offeso nei suoi sentimenti religiosi dalla rappresentazione<br />

“eterodossa” di Cristo, compiuta nel libro e, con assai maggior effetto mediatico, nel<br />

urne-ossari a Talpiot nel 1980, per elucubrare la genealogia di Gesù e la sua discendenza, affermando che il Nazareno<br />

(il cui corpo sarebbe stato, secondo l’autore, trafugato dai familiari), invece di fondare una nuova religione, volle<br />

instaurare una dinastia reale col compito di regnare su Israele. Si è poi voluto rinvenire un messaggio composto<br />

personalmente da Gesù nella oscura formula del famoso “quadrato magico” del Sator, come ha fatto Roberto Pascolini<br />

in Il Vangelo di Pompei, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2006, per il quale Cristo avrebbe visitato negli anni<br />

giovanili numerosi paesi d’Oriente e d’Occidente, spingendosi fino in Britannia e anche a Roma (l’ipotesi della formula<br />

cristiana celata nell’oscuro messaggio del Sator era stata presentata già da Paolo Cortesi, Il mistero del Sator.Formula<br />

magica o simbolo paleocristiano?, in Manoscritti segreti, Newton & Compton, Roma 2005, pp.83-93). Anche la<br />

Sindone di Torino, la discussa reliquia della Passione di Cristo, è stata oggetto di azzardate ipotesi speculative. Stando a<br />

Christopher Knight – Robert Lomas, Il secondo Messia (The Second Messiah, 1997), trad. di Daniela Ferrari,<br />

Mondadori, Milano 1998, il personaggio individuabile nell’immagine sindonica sarebbe l’ultimo Gran Maestro dei<br />

Templari, Jacques de Molay, catturato e mandato al rogo dal re Filippo il Bello nel 1307 (ma, al di là di una certa<br />

rassomiglianza fra il ritratto di de Molay e il volto dell’Uomo della Sindone, gli autori non presentano alcuna prova<br />

sostanziale per fondare la loro teoria,a parte l’idea bizzarra che l’Inquisizione avrebbe scelto la crocifissione, come atto<br />

di “giustizia poetica”, per condannare a morte un colpevole di eresia, vd. a p.263). Secondo Vittoria Haziel, La<br />

Passione secondo Leonardo, Sperling & Kupfer, Milano 2005², sull’antico lino Leonardo avrebbe raffigurato il Messia,<br />

dandogli le proprie sembianze. Ciò sarebbe provato, secondo la Haziel, oltre che dalla somiglianza tra l’autoritratto di<br />

Leonardo e il volto impresso sul telo sindonico, anche da misteriosi segni tracciati sul lenzuolo che l’autrice avrebbe<br />

decifrato come simboliche “firme” di Leonardo stesso (il quale, riprendendo la tesi di Dan Brown, sarebbe stato Gran<br />

Maestro del Priorato di Sion). Tra i romanzi ricordiamo: Il gesuita di Richard Ben Sapir (The Body, 1983), trad. di<br />

Mercedes Giardini Ozzola, Sonzogno editore, Milano 2001, che tratta delle indagini che svolgono a Gerusalemme<br />

un’archeologa ebrea, Sharon Golban, e un giovane gesuita inviato dal Vaticano, James Folan, sullo scheletro di un<br />

uomo crocifisso rinvenuto entro un antico sepolcro della Città Vecchia, assieme a un’epigrafe in aramaico, Melek<br />

Yehudayai (re dei Giudei), e una moneta di Ponzio Pilato; Il manoscritto del Santo Sepolcro di Jacques Neyrinck (Le<br />

Manuscrit du Saint-Sépulcre, 1994), trad. di Ilaria Gozzini Giocosa, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1997, in cui il<br />

protagonista, Théo de Fully, un fisico svizzero, scopre a Gerusalemme una tomba contenente i resti di un uomo<br />

crocifisso, identificato con il fratello di Gesù, Giacomo (i cui resti permettono al fisico, mediante il confronto del DNA,<br />

di accertare l’autenticità della Sindone) e una giara con antichi manoscritti in aramaico, che si rivelano essere<br />

l’autentica fonte dei Vangeli; Il cerchio si chiude di Tom Engeland (Sirkelens ende, 2001), trad. di Margherita Podestà<br />

Heir, Bompiani, Milano 2005, che pone al centro della trama la ricerca del famoso manoscritto Q (sigla di Quelle, in<br />

ted. “fonte”), che sarebbe stato la fonte dei quattro evangelisti e che si rivela, nel romanzo, come un manoscritto di<br />

Gesù stesso; L’inviato di Stephen Dando-Collins (The inquest, 2005), trad. di Barbara Murgia, Edizioni Piemme, Casale<br />

Monferrato 2006, in cui la morte e la resurrezione di Gesù, come scopre l’inviato del titolo, il questore romano Lucio<br />

Terenzio Varro (inviato dall’imperatore Vespasiano in Palestina nel 71 d.C. per fare luce sui fatti relativi al Nazareno),<br />

sarebbero il risultato di un complotto ordito da Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, in accordo col centurione Longino,<br />

per rovesciare il potere dei Sadducei all’interno del Sinedrio di Gerusalemme; Cristo, Nerone e il segreto di Maddalena<br />

di Francesco Arcucci e Katia Ferri (Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2006²), ove Myriam di Bethania, detta la<br />

Maddalena, giunta segretamente a Roma alla ricerca di suo figlio Jusuf (di cui non è chiarito chi sia il padre) e<br />

praticante ivi l’attività di medicus, incontra Caio Petronio, suo antico amante, e nel carcere Mamertino l’apostolo Pietro,<br />

con cui ha un aspro colloquio, ed è coinvolta nel complotto architettato dal nobile Calpurnio Pisone, nel 64 d.C., per<br />

uccidere Nerone. Invece il romanzo di César Vidal, Il testamento del pescatore (El testamento del pescador, 2004),<br />

trad. di Gianpaolo Fiorentini, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza 2006, presenta le memorie di Marco Iunio Vitalis,<br />

centurione veterano delle guerre d’Oriente, incaricato da Nerone di assistere all’interrogatorio condotto dall’imperatore<br />

stesso su di un vecchio pescatore ebreo, Petrós, il capo dei seguaci di un oscuro predicatore nazareno morto crocifisso.<br />

Al termine dell’interrogatorio il romano si converte e il lettore viene a scoprire che il Vangelo di Marco sarebbe opera<br />

di un testimone oculare, in quanto ricavato dalla narrazione stessa dell’Apostolo Pietro. È un romanzo di buona fattura,<br />

basato su una documentazione storica reale, il cui autore fortunatamente non cede alla facile e ormai troppo corriva<br />

moda di presentare la figura del Cristo in chiave esoterica o “eterodossa”.<br />

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film da esso ispirato. Paesi come l’Egitto, il Libano e la Giordania hanno vietato il film di<br />

Ron Howard, in India il clero e i gruppi musulmani di Mumbai ne hanno chiesto il divieto,<br />

così come il governo dello stato di Goa, in solidarietà con i cristiani (Maulana Mansoor Ali<br />

Khan, il segretario generale di All India Sunni Jamat-Ul-Ulema, un’organizzazione di<br />

clerici islamici, ha dichiarato che è intollerabile ogni insulto a Cristo, profeta dell’Islam<br />

secondo il Corano, e perciò Il Codice da Vinci, che sostiene che Gesù era sposato, è<br />

blasfemo): ma il divieto, secondo alcuni, nasce anche dalla preoccupazione che il testo<br />

possa in qualche modo rimettere in discussione, per il ruolo determinante che nelle<br />

origini del cristianesimo giocherebbe la Maddalena, lo status delle donne nella società<br />

musulmana, fondamentalmente maschilista. 118 Va aggiunto che in favore della Chiesa<br />

sono scesi in campo anche alcuni esponenti del pensiero laico. È intervenuto a difendere<br />

la Chiesa dalle accuse di Dan Brown anche il filosofo, di origine ebrea, Bernard-Henry<br />

Lévy. 119 Un maestro dell’intellettualità laica come Umberto Eco (il quale, peraltro, ne Il<br />

pendolo di Foucault, apparso nel 1989, aveva svelato l’inanità logica e sostanziale che<br />

regna dietro tante dottrine esoteriche che si accompagnano all’ossessione del<br />

“complotto universale”) ha attribuito il successo del “Codice fasullo” al clima da New<br />

Age che circonda la società e al crollo delle ideologie e delle utopie secolari, che ha<br />

fatto prevalere sull’interesse alla verità la bramosia di mistero. 120 Il prof. Gian Enrico<br />

Rusconi, pur stigmatizzando la ricostruzione avventurosa e calunniosa del Codice da<br />

Vinci, ha invitato la Chiesa a svolgere un’azione comunicativa, mediatica e culturale,<br />

«ricca di informazioni critiche, schiettamente consapevole di questioni storiche e<br />

dottrinali non risolte o poco chiare», riaprendo il dibattito sulle origini della Chiesa e,<br />

soprattutto, trattando i fedeli da adulti. 121<br />

10. Dicevamo che la reazione della Chiesa e dei cattolici si è limitata alla condanna del<br />

romanzo, 122 con invito ai fedeli di evitarne la lettura e la visione del film omonimo tratto<br />

dal libro (per la regia di Ron Howard), 123 mentre l’Opus Dei si è difesa dalle accuse di<br />

Brown con dichiarazioni ufficiali, improntate a pacatezza e ironia. 124 Il teologo spagnolo<br />

Ullate Fabo ha confutato tutte le affermazioni di Dan Brown (alcune delle quali<br />

costituiscono certamente forzature iperboliche, come quella che l’Inquisizione avrebbe<br />

provocato milioni di vittime), sfidandolo sul piano della documentazione storica, in un<br />

suo ponderoso saggio, Contro il Codice da Vinci (La verdad sobre el Codigo da Vinci,<br />

2005), trad. di Federica Niola, Sperling & Kupfer, Milano 2006⁴: le credenze esoteriche,<br />

una forma di panteismo gnostico che nega l’esistenza di un Dio trascendente, un’etica<br />

118 Vd. Daniele Castellani Perelli, Egitto, Libano e Giordania. Dove il Codice da Vinci fa paura, 19 settembre 2006,<br />

testo leggibile sul sito Reset – Dialogues on Civilizations, all’indirizzo www.resetdoc.org/IT<br />

119 Bernard-Henry Lévy, Ebreo e agnostico, difendo la Chiesa dal Codice, in «Corriere della Sera», 24 maggio 2006.<br />

120 Umberto Eco, Lo svelamento svelato, in «l’Espresso», n.20, 25 maggio 2006, p.234.<br />

121 Gian Enrico Rusconi, Maddalena dello scandalo, in «La Stampa», 30 aprile 2006.<br />

122 Emblematica la stroncatura della «Civiltà Cattolica», che parla di mistificazione della storia, di mancanza di rispetto<br />

per la fede cristiana e di sfruttamento del bisogno diffuso e pernicioso di evasione esoterica, vd. Gerald O’Collins S.I.,<br />

Il fenomeno «Codice da Vinci», in «La Civiltà Cattolica», n.3743, 3 giugno 2006, pp.473-479; vd. anche Giuseppe<br />

Savagnone, Il Codice delle corbellerie, in «Avvenire», 17 maggio 2006. Se in questa occasione doverosamente vibrate<br />

sono state le reazioni della Chiesa e degli intellettuali cattolici, in altre occasioni forse ciò non è stato. Lamenta, perciò,<br />

la timidezza dei cattolici e in generale la loro debole presenza nel mondo della cultura e della comunicazione il<br />

commento di Ernesto Galli della Loggia, Una società senza cattolici, in «Corriere della Sera», 20 dicembre 2006.<br />

123 Vd. Alessandro Zaccuri, Facciamoci un regalo boicottiamo il film, in «Avvenire», 29 aprile 2006; Francesco<br />

Ognibene, La libertà di sottrarsi alla gigantesca impostura, in «Avvenire», 4 maggio 2006.<br />

124 Enric Gonzalez, Opus Dei. Dan Brown ha sfidato l’Opera e l’Opera ha accettato la sfida, in «La Repubblica», 7<br />

marzo 2006; si vedano anche le interviste a mons. Javier Echevarrìa, Prelato dell’Opus Dei, a cura di Vittorio Messori,<br />

L’Opus Dei: «Il Codice da Vinci? Ci rende più forti», in «Corriere della Sera», 11 maggio 2006, e quella a cura di<br />

Véronique Grousset, Il codice di Javier, in «Specchio», n.518, suppl. a «La Stampa», 20 maggio 2006, pp.38-42.<br />

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libertina che inneggia alla libera sensualità sono i fondamenti del romanzo secondo il<br />

teologo spagnolo. 125<br />

Non osiamo, però, pensare cosa sarebbe accaduto se fosse apparsa una versione del<br />

Codice da Vinci adattata e trasposta nelle terre dell’Islam (è la domanda che si pone il<br />

teologo Ullate Fabo, sicuro che nessuno avrebbe osato scrivere un libro del genere, per<br />

timore delle violente reazioni degli islamici). 126 Al riguardo osserviamo che né la<br />

religione musulmana né le sue istituzioni, per quanto sappiamo, sono mai state toccate<br />

dalla dissacrazione o dalla satira letteraria, se si eccettua il romanzo dello scrittore<br />

anglo-indiano Salman Rushdie I versi satanici (The Satanic Verses, 1988), 127 che valse al<br />

suo autore nel 1989 una fatwa di condanna a morte, per apostasia e blasfemia, emessa<br />

da parte del padre spirituale della comunità musulmana sciita, l’ayatollah Khomeynī,<br />

leader dell’Iran nel periodo successivo alla cacciata dello scià. 128 A causa di quella<br />

condanna a morte (con le conseguenti manifestazioni di islamici contro lo scrittore,<br />

compresi i roghi dei suoi libri), Rushdie vive tuttora in una clandestinità protetta tra<br />

Bombay, New York e Londra, non cessando però di pronunciarsi a favore dei diritti di<br />

libertà, in senso nettamente laicista. 129 Ma il suo romanzo è stato condannato anche dai<br />

gesuiti della «Civiltà Cattolica», che lo hanno giudicato un “arruffio onirico mnemonico<br />

fantastico”, dai contenuti dissacratori e offensivi: 130 in effetti l’autore dei Versi satanici<br />

innesta in una complessa trama (che, sospesa continuamente tra realtà e delirio onirico<br />

e ricchissima di riecheggiamenti e citazioni colte, narra le vicende di due uomini,<br />

Saladin Chamcha e Gibreel Farishta, i quali, precipitando da un aereo jumbo esploso in<br />

volo, “atterrano” sul territorio inglese trasformati il primo in un essere caprino il<br />

secondo nell’Arcangelo Gabriele) una serie di riflessioni iconoclaste su Dio, la rivelazione<br />

divina contenuta nel Corano e il Profeta Maometto. 131 La sostanziale inesistenza di Allah<br />

e della rivelazione divina, la falsità del Corano, l’illusorietà di ogni fede, l’imbroglio a<br />

cui si sarebbe prestato, inconsapevolmente, lo stesso Profeta: questi gli assunti di<br />

Rushdie, che probabilmente intendeva dare una sua visione “eterodossa” della nascita<br />

dell’Islam, ma si è spinto troppo oltre nelle sue fantasie iconoclaste e derisorie,<br />

assolutamente inaccettabili, perché blasfeme, per un credente. 132 Ma, in modo<br />

125 Vd. Mino Vignolo, «Il Codice è satanico»: così parlò Ullate, l’anti Dan Brown, in «Corriere della Sera», 28 gennaio<br />

2005; un altro saggio a difesa della tradizione cristiana contro la versione “esoterica” di Brown è quello di Andrea<br />

Tornielli, Processo al Codice da Vinci, Società Europea di Edizioni, Milano 2006.<br />

126 Mino Vignolo, «Il Codice è satanico»: così parlò Ullate, l’anti Dan Brown, in «Corriere della Sera», 28 gennaio<br />

2005.<br />

127 Salman Rushdie, I versi satanici, trad. di Ettore Capriolo, Mondadori, Milano 2006, rist.<br />

128 Il testo della fatwa contro Salman Rushdie, è riportato in Carlo Panella, Il «complotto ebraico», cit., che illustra le<br />

vicende di quella condanna a morte, tuttora in vigore (pp.99-101). Da ricordare le prese di posizione di Salman Rushdie<br />

per la promozione dei diritti di libertà, ribadite nella firma, assieme a Talima Nasreen e a Bernard Henry-Levy, di un<br />

manifesto contro il nuovo talitarismo, l’integralismo islamico, vd. Giampiero Martinetti, Parigi, Rushdie firma il<br />

manifesto contro l’integralismo islamico, in «La Repubblica», 1 marzo 2006.<br />

129 Libertà di fare affermazioni antireligiose: vd. Salman Rushdie, Religioni, il diritto alla libertà di parola, in «La<br />

Repubblica», 14 febbraio 2006; libertà di portare il velo e libertà di affermare tesi negazioniste, come ha fatto lo storico<br />

David Irving, pagando però con il carcere le sue tesi: vd. il colloquio con Rushdie di Isabella Bossi Fedrigotti, Velo,<br />

armeni, Irving: la libertà non si tocca, in «Corriere della Sera», 24 ottobre 2006.<br />

130 Vd. Ferdinando Castelli S.I., I «Versi satanici» di Salman Rushdie, in «La Civiltà Cattolica», n.3335, 3 giugno 1989,<br />

pp.423-437.<br />

131 Rushdie rappresenta nel romanzo il fondatore dell’Islam come un uomo opportunista, vizioso e vaneggiante (ne muta<br />

perfino il nome in Mahound, con un trasparente e assai volgare gioco di parole, in inglese), che riceve il Corano non<br />

dall’Arcangelo Gabriele ma dall’umano che ne ha preso le sembianze, Gibreel Farishta. Questi gli ispira i versi coranici<br />

(i “versetti satanici”, poi espunti dallo stesso Maometto) che prescrivono l’adorazione delle tre divine figlie di Allah,<br />

Lat, Uzza e Manat, in palese e irridente contraddizione con il monoteismo.<br />

132 Si può perciò comprendere la reazione irata degli islamici di fronte allo sbeffeggiamento del Profeta Maometto,<br />

come fa il sociologo Francesco Alberoni, riflettendo sul Codice da Vinci nel suo commento Va di moda contaminare<br />

romanzo e religione , cit. alla nota 77.<br />

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simmetrico, la sua condanna a morte risulta del pari assolutamente inaccettabile alla<br />

coscienza di noi occidentali, educati ai valori della libertà, della tolleranza e della<br />

democrazia.<br />

11. Tolleranza della Chiesa e tolleranza dell’Islam: dal confronto si evince una volta di<br />

più che quella cattolica è una religione di libertà, mentre quella islamica non lo è, o<br />

meglio non lo è ancora. 133 Ma i limiti della tolleranza tendono a farsi sempre più ristretti<br />

di fronte ai nemici che assalgono le religioni, dall’interno e dall’esterno, costringendo le<br />

coscienze dei credenti a sentirsi come in cittadelle assediate.<br />

Per quanto riguarda il cristianesimo, al “nemico venuto alle spalle” 134 si sono aggiunti il<br />

relativismo e il laicismo, nelle sue varietà dello scientismo e del nichilismo, e quella<br />

forma di panteismo religioso che ha preso il nome di New Age, la Chiesa dei fedeli senza<br />

Dio.<br />

Il laicismo scientista e illuminista, dall’esterno, e il fondamentalismo, dall’interno,<br />

minano parallelamente l’Islam, rendendo difficili i rapporti sia con la civiltà occidentale<br />

sia con la Chiesa cattolica, sovente confusa dallo sguardo miope degli islamici con<br />

l’Occidente edonista e scristianizzato. Ciò che soprattutto spaventa i musulmani<br />

dell’Asia e dell’Africa, come ha affermato Papa Benedetto XVI a Monaco di Baviera l’11<br />

settembre 2006 (in coincidenza con l’anniversario del famoso attentato alle Twin<br />

Towers, che ha fatto preconizzare a molti l’avvento di un prossimo scontro di civiltà, ma<br />

che le parole e i gesti del Papa intendono assolutamente scongiurare e che peraltro<br />

sarebbe inevitabile se il fondamentalismo, sulla scorta di quello americano, si<br />

estendesse anche in Europa), 135 è la visione di un Occidente ateo, privo del senso<br />

religioso, schiavo di una ragione, eretta a criterio assoluto di verità, che esclude<br />

completamente il sacro dalla vita dell’uomo e persino considera il dileggio del sacro un<br />

diritto di libertà. 136<br />

Il fondamentalismo religioso, nel caso dell’Islam, si esprime come negazione assoluta di<br />

quei valori di libertà (di coscienza e di manifestazione del pensiero) che sono il<br />

fondamento della nostra società civile, quale si è configurata nella storia<br />

dell’Occidente. Pronunce di condanna a morte (fatwe) e minacce di morte colpiscono<br />

ormai anche in Europa, in modo indifferenziato, sia chi si batte contro l’ingiustizia nella<br />

società islamica sia chi si avventura incautamente sul terreno della satira religiosa, fino<br />

a condizionare pesantemente, anzitutto, la libertà di espressione degli intellettuali,<br />

senza la quale è compromessa la crescita della società civile. Essendo dunque percepito<br />

dall’intellettualità laica il pericolo rappresentato dal “totalitarismo mistico” promosso<br />

dal fondamentalismo islamico, 137 intellettuali laici non si stancano di rinnovare le loro<br />

messe in guardia all’Occidente debole di fronte ai musulmani, affinché difenda il valore<br />

133<br />

E ci viene in mente la fondamentale distinzione che un grande laico, come Lucio Lombardo Radice, aveva saputo<br />

intuire tra religioni che rendono l’uomo libero e responsabile e religioni che sottomettono l’uomo (vd. Lucio Lombardo<br />

Radice, intr. a Vittorio Messori, Ipotesi su Gesù, cit., p.II).<br />

134<br />

È la celebre definizione contenuta in un saggio dello storico cattolico Pietro Scoppola, La «nuova cristianità<br />

perduta», Edizioni Studium, Roma 1985, nel quale individuava i nemici della Chiesa nello sviluppo economico e nel<br />

benessere, che avevano silenziosamente corroso, assai più delle ideologie avverse, come il marxismo e il laicismo, le<br />

basi stesse della presenza cattolica nel paese (vd. p.20).<br />

135<br />

Come ha preconizzato Ian Buruma, Se l’Europa segue l’America tra le braccia di Gesù, in «Corriere della Sera», 19<br />

gennaio 2006.<br />

136<br />

Vd. Luigi Accattoli, «L’Occidente sordo a Dio spaventa le altre religioni», in «Corriere della Sera», 11 settembre<br />

2006. Vd. anche l’editoriale della «Civiltà Cattolica», «Promuovere il dialogo per costruire la pace» Benedetto XVI e<br />

l’islàm, in «La Civiltà Cattolica», n.3751, 7 ottobre 2006, pp.3-10.<br />

137<br />

Così ha definito il fondamentalismo lo scrittore rumeno Norman Manea, giudicandolo peggiore del nazismo e del<br />

comunismo, perché la sua attività è globale e ultranazionale (vd. Alessandra Farkas, Totalitarismo mistico, in «Corriere<br />

della Sera», 23 novembre 2006).<br />

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essenziale della libertà di pensiero. 138 È ormai chiaro che episodi come la condanna a<br />

morte (mai abrogata) di Salman Rushdie, l’assassinio di Theo van Gogh, le minacce di<br />

morte ricevute dai disegnatori delle “vignette sataniche”, quelle ricevute da Ayaan Hirsi<br />

Ali, 139 quelle che hanno colpito, da ultimo, il filosofo Robert Redeker, docente di Tolosa<br />

autore di un articolo fortemente anti-islamico su Le Figaro e perciò costretto a vivere<br />

nascosto, 140 hanno messo in gioco una posta altissima, la libertà di espressione di tutti,<br />

né una soluzione praticabile può essere l’autocensura, ossia la rinuncia a esprimere le<br />

proprie idee, come ha affermato lo storico Sergio Luzzatto, commentando il caso<br />

Redeker. 141 Peraltro già se ne vedono i primi esempi, se è vero che la sovrintendenza<br />

della Deutsche Oper ha deciso, suscitando ampie proteste, di cancellare dal programma<br />

della stagione lirica invernale l’Idomeneo di Mozart, per timore di offendere la<br />

suscettibilità dei musulmani. 142<br />

Sicché, per reazione si afferma una corrente di pensiero che postula l’incompatibilità tra<br />

i credenti in un fede religiosa e le moderne democrazie occidentali: sulla via del<br />

laicismo si giunge così alla formale negazione di una presenza della religione nella<br />

società moderna, sull’assunto che nelle democrazie non possano esistere valori assoluti,<br />

mentre i credenti fondano i loro convincimenti etici e il conseguente agire sui dogmi<br />

della fede. 143<br />

12. Chiudiamo il nostro lavoro, una rassegna di fatti, ricordando ancora l’incontro di<br />

Assisi del gennaio 2002, che parve aprire una stagione di grande novità nel dialogo tra le<br />

religioni. Se forse molte attese sono state deluse, nel senso che le religioni non hanno<br />

potuto mediare tra i conflitti che insanguinano il nostro pianeta, è comunque quello<br />

spirito di Assisi che occorre recuperare, per realizzare la cultura del dialogo, nel rispetto<br />

e nella stima reciproca (si ricordino i punti del famoso decalogo sottoscritto dai capi<br />

religiosi e inviato da Papa Giovanni Paolo II ai grandi della Terra). 144<br />

Al mondo islamico si richiede qualcosa di più, perché il discorso religioso, a causa della<br />

natura stessa dell’Islam, è strettamente intrecciato con quello politico. Anzitutto<br />

occorre promuovere la separazione della sfera religiosa da quella politica, della teologia<br />

dal diritto, per realizzare il superamento del modello teocratico, istituzionalizzato ancor<br />

oggi in molti Stati. Numerose personalità sono emerse nel mondo islamico, anche ai<br />

livelli più alti, fautrici di una “modernizzazione” dell’Islam in senso liberale: 145 come<br />

138 Citiamo, tra gli ultimi appelli alla difesa della libertà di pensiero, l’intervista all’antropologa Ida Magli di Barbara<br />

Palombelli, «La mia fede è la libertà di pensiero.L’Occidente è debole di fronte ai musulmani», in «Corriere della<br />

Sera», 20 novembre 2006.<br />

139 A seguito delle quali la deputata di origine somala è stata costretta a lasciare l’Olanda. Sulle polemiche tra gli<br />

intellettuali (alcuni dei quali, come Buruma e Garton Ash condanno l’intransigente antiislamismo della Hirsi Ali) che<br />

l’episodio ha suscitato, vd. Stefano Montefiori, Quale integrazione, in «Corriere della Sera», 3 febbraio 2007.<br />

140 Sul caso Redeker vd. Angelo Panebianco, Le libertà censurate, in «Corriere della Sera», 15 ottobre 2006.<br />

141 Sergio Luzzatto, Minacce islamiche e libertà a rischio, in «Corriere della Sera», 5 ottobre 2006.<br />

142 L’allestimento prevedeva un finale con l’esposizione della testa mozzata di Maometto, cosa che, se fosse stata messa<br />

in scena, avrebbe comportato un rischio incalcolabile per la sicurezza dell’istituzione, a detta delle autorità di polizia:<br />

vd. Paolo Valentino, Berlino cancella Mozart «Temiamo l’Islam radicale», in «Corriere della Sera», 27 settembre 2006.<br />

143 Vd. in proposito Giandomenico Mucci S.I., C’è incompatibilità tra democrazia e credenti?, in «La Civiltà<br />

Cattolica», n.3758, 20 gennaio 2007, pp.151-156.<br />

144 Commenta, a proposito del decalogo di Assisi, l’eminente giurista Francesco Paolo Casavola, in Gli aspetti della<br />

società multiculturale e multireligiosa, cit. p.17, che «questa non è soltanto un’alleanza dettata dalle circostanze, dalle<br />

emergenze. È l’ingresso in un’epoca nuova della vita religiosa del mondo umano: l’unità del genere umano, nella<br />

risposta alla chiamata di Dio realizzata nel rispetto di tutte le risposte, nella persuasione che Dio si palesi e parli nelle<br />

lingue e ai cuori di chiunque Lo invochi, e con fede a Lui si abbandoni a qualunque razza e tradizione appartenga».<br />

145 Un’altissima personalità, fautrice di una visione moderna e liberale dell’Islam, appare certamente la regina Rania di<br />

Giordania, che si è espressa più volte per la condivisione di valori comuni tra Islam e Occidente: ad esempio,<br />

recentemente si è espressa contro l’obbligatorietà del velo nell’intervista ad Antonio Ferrari, Rania: «Il velo non sia un<br />

problema politico.Ma imporlo va contro i principi dell’Islam», in «Corriere della Sera», 9 febbraio 2007.<br />

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spiega lo studioso Renzo Guolo, si tratta di un filone culturale, politico e religioso, nel<br />

quale si rispecchiano sia coloro che vogliono introdurre nel mondo islamico le idee di<br />

democrazia liberale sia coloro che vogliono ripensare la tradizione (mettendo anche in<br />

discussione il principio di autorità che ha cristallizzato l’interpretazione dottrinale),<br />

cercando di farvi emergere quei principi di libertà, pluralismo e tolleranza che possano<br />

renderla accettabile anche all’Occidente. 146 Se appare improbabile, allo stato attuale,<br />

ma non impossibile la diffusione delle idee di libertà, democrazia e tolleranza nei paesi<br />

islamici con mezzi pacifici (dato che l’opzione militare ci sembra aver mostrato<br />

abbondantemente i suoi limiti), sarà però utile che l’Occidente cominci a porre<br />

seriamente il problema dei diritti umani, a partire dalle condizioni in cui versano le<br />

minoranze religiose, in particolare quelle cristiane, 147 per finire con i diritti delle donne,<br />

intesi come diritti inalienabili della persona. 148 L’emersione di un Islam “moderato”,<br />

educato ai valori della civiltà europea (ossia a quelli di una autentica laicità), potrà<br />

allora avere influssi positivi sulle generazioni future di musulmani, anche nei paesi<br />

d’Asia e d’Africa.<br />

Per quanto riguarda l’Europa, i criteri di distinzione delle associazioni che pretendono di<br />

rappresentare l’Islam “moderato”, controparte necessaria per instaurare il dialogo con<br />

le istituzioni dei paesi occidentali, sono già stati enunciati più volte e contemplano<br />

necessariamente l’accettazione, definitiva e senza condizioni, del diritto all’esistenza di<br />

Israele e il rifiuto, definitivo e senza condizioni, del terrorismo dei martiri-suicidi, in<br />

nome del rispetto della vita di tutti. 149 Ma sarà anche opportuno ridisegnare una<br />

strategia del dialogo che tenga conto delle riflessioni dell’economista Amartya Sen, a<br />

proposito del rischio insito nell’usare la categoria dell’identità in modo troppo rigido e<br />

predeterminato. Suddividere, come in un rigido contenitore, l’umanità a seconda<br />

dell’adesione a una fede, trascurando le specifiche differenze culturali, linguistiche,<br />

politiche, sociali, di cui ciascuno è portatore nel suo vissuto, per assoggettarle all’unico<br />

criterio omnicomprensivo dell’appartenenza confessionale, significa ridurre le molteplici<br />

sfaccettature degli individui a una soltanto, e ridurre al contempo le possibilità di<br />

dialogo tra aderenti a fedi che presumono di possedere, ciascuna in via esclusiva, un<br />

disegno di economia salvifica valido per tutti gli esseri umani. Ciò non significa<br />

necessariamente eludere il problema dell’appartenenza dell’individuo a una fede<br />

religiosa, piuttosto rappresenta un modo diverso di guardare all’altrui identità nella sua<br />

natura multidimensionale, comprensiva di più identità, superando l’angusto e<br />

pregiudizievole limite dell’altro percepito “unidimensionalmente” in opposizione a sé. È<br />

questo l’approccio con cui bisogna accostarsi al problema del rapporto tra religioni e<br />

convivenza civile, secondo il famoso economista indiano, se si vuole evitare ogni<br />

violenza in nome dell’identità e, soprattutto, se si vuole percorrere la via della<br />

146 Vd. Renzo Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Editori Laterza, Roma-Bari 2007, pp.113-114.<br />

147 Sulle oggettive, gravi difficoltà delle minoranze cristiane nei paesi islamici vd. Giuseppe De Rosa, I cristiani nei<br />

paesi islamici, in «La Civiltà Cattolica», n.3680, 2003, pp.160-173; sui cristiani evangelici di Orano (Algeria), che<br />

pagano la loro fedeltà alla Chiesa di Cristo con minacce, violenze e persecuzioni, vd. il reportage di Agostino<br />

Gramigna, Algeria.Com’è pericoloso oggi essere cristiani a Oran, in «Magazine», suppl. «Corriere della Sera», n.3, 18<br />

gennaio 2007, pp.50-56.<br />

148 Purtroppo non sembra andare in questa direzione il sermone pronunciato il 26 agosto 2005 da Wagdy Ghoneim,<br />

imam della moschea di Verone, che, citando il Corano, ha affermato la liceità della violenza fisica sulle donne<br />

(punizioni corporali), in quanto esseri senz’anima, create al solo fine della procreazione, del disbrigo delle faccende<br />

domestiche e dei piaceri del marito. La conseguenza è stata che il marocchino Moustapha Ben Har ha massacrato di<br />

botte la moglie Amal, che l’ha denunciato (Magdi Allam, Il sermone dell’imam «Giusto picchiare le donne, sono senza<br />

anima», in «Corriere della Sera», 27 gennaio 2007).<br />

149 Come hanno posto in chiaro Magdi Allam, Non si dialoga con chi non rispetta Israele, in «Corriere della Sera», 24<br />

febbraio 2007, e, prima ancora, Massimo Introvigne, Fondamentalismi, cit., pp.208-209.<br />

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convivenza e della pace in un mondo sempre più plurale e globalizzato, ove tutti<br />

agiscono e si influenzano in modo reciproco. 150<br />

150 Vd. Amartya Sen, Identità e violenza (Identity and Violence.The Illusion of Destiny, 2006), trad. di Fabio Galimberti,<br />

Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp.12-14. Vd. anche, in difesa della natura plurale e stratificata dell’uomo<br />

contemporaneo, le riflessioni di Sen in Gad Lerner, L’elogio del meticciato, in «La Repubblica», 9 settembre 2006;<br />

analoghe considerazioni, in prospettiva di un superamento del concetto deterministico di identità, svolge Andrea<br />

Riccardi, storico del cristianesimo e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nel suo contributo La civiltà del<br />

convivere, in Michel Camdessus – Jean Daniel – Umberto Eco – Andrea Riccardi, Islam e Occidente, Editori Laterza,<br />

Roma-Bari 2002, pp.19-52. Sulla necessità della diffusione di una cultura condivisa, pur al di là delle reciproche<br />

differenze individuali, vd. Andrea Riccardi, Convivere, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp.130-140.<br />

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