Lfì PLEBE O LO STRfìNIERO INTERIORE Fulvio, Carnevale fig.14
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Lfì PLEBE O LO STRfìNIERO INTERIORE Fulvio, Carnevale fig.14
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<strong>Lfì</strong> <strong>PLEBE</strong> O <strong>LO</strong> <strong>STRfìNIERO</strong> <strong>INTERIORE</strong><br />
<strong>Fulvio</strong>, <strong>Carnevale</strong><br />
<strong>fig.14</strong><br />
"Non è una raccolta di ritratti quella che si leggerà: sono delle trappole, delle<br />
armi, delle grida, dei gestì, degli atteggiamenti e delle astuzie, degli intrighi di cui<br />
le parole sono state lo strumento2". È così che Foucault descrive l'antologia delle<br />
Lettres de cachet, estratte dagli Archivi della Bastiglia da Ariette Farge e da mimanipolo<br />
di assidui ricercatori e ricercatrici, pubblicate con il titolo Le désordre<br />
desfamilles. Nella celebre prefazione di Foucault, La vita degli uomini infamìj&Llano<br />
"questi ciabattini, questi soldati disertori, questi ambulanti, questi scribacchini,<br />
questi monaci vagabondi, tutti arrabbiati, scandalosi, o miserabili3"; costoro<br />
ci appaiono fugacemente illuminati da una luce che viene d'altrove. Le loro<br />
vociferazioni, la loro rivolta, non le riceviamo se non trasmesse dalla grande retorica<br />
degli scrittori pubblici, creata per abbigliare dei fatti da poco.<br />
1 Questo testo ricalca La plèbe ou l'étranger intérieur, intervento del 16 dicembre 2004 durante il<br />
"Colloque Autour de Michel Foucault" organizzato dalTUniversité de Paris Vili Saint Denis -<br />
Vincennes.<br />
2 M. Foucault, La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault 2.1971-1977, Feltrinelli, Milano<br />
1997, p. 248.<br />
'Ibidem.<br />
135
sgr<br />
4 ! j Un ventrilòquio politico mette la sua voce di giudice nei corpi senza storia e la<br />
presenza fisica di questi corpi polarizza la nostra attenzione, quel che resta da<br />
dire poi non è altro che l'accanimento ordinario del potere a far parlar i muti.<br />
In un'intervista dello stesso anno, Foucault constatava che "i vinti [...] sono<br />
coloro ai quali per definizione è stata tolta la parola!". E se nonostante ciò parlano,<br />
parlano una lingua straniera che è stata imposta loro. Non sono muti. Non<br />
parlano neppure "una lingua che non avrebbero mai sentito e che ora si sentirebbero<br />
obbligati ad ascoltare. In quanto dominati, gli sono stati imposti una lingua<br />
e dei concetti" che sono alla fine diventati cicatrici della loro oppressione. "Delle<br />
cicatrici, delle tracce che hanno impregnato il loro pensiero [...] e che impregnano<br />
fino agli atteggiamenti del loro corpo. La lingua dei vinti è mai esistita?4".<br />
Alla stessa domanda Spivak rispondeva negativamente nel suo testo Con thè<br />
Subalterri Speak?. I subalterni, vittime dunque d'una discriminazione molteplice,<br />
legata alla loro posizione ;in seno alla distribuzione geopolitica globale del lavoro<br />
cosicome alla loro particolare situazione sociale, non possono parlare.<br />
L'archeologia del loro silenzio è il nostro compito e gli sfregi che la storia coloniale<br />
ha inferto loro non fanno che confermare e aggravare la diagnosi fòucaultiana.<br />
Spivak cita, a questo proposito, l'esempio estremo di quelle vedove indiane<br />
che usavano immolarsi sulle pire funerarie dei loro mariti, aggiungendo alla<br />
loro scomparsa verbale, culturale e politica, la propria scomparsa fisica.<br />
Che fare allora di questa assenza? Accontentarsi di esumarne le tracce,<br />
oppure impegnarsi a rappresentare questo luogo senza luogo, questo spazio<br />
altro, che è il continente degli esclusi da ogni scacchiera politica?<br />
La questione della rappresentanza ritorna con forza nel seguito del testo in cui<br />
Spivak accusa la leggerezza di cui Deleuze e Foucault danno prova nella loro<br />
intervista del 1972, pubblicata sotto il titolo Gli intellettuali e il potere. A detta, di<br />
Spivak i continui riferimenti alle lotte dei lavoratori hanno l'aria d'esser riverenze<br />
di circostanza piuttosto che il frutto d'interrogazioni sulla distribuzione geopolitica<br />
del lavoro. E come se non bastasse sono accompagnati da una teoria<br />
della rappresentazione secondo la quale Tintellettuale teorico — come scrive<br />
Deleuze - ha smesso d'essere un soggetto, una coscienza rappresentante e rappresentativa.<br />
Quelli che agiscono e lottano hanno smesso d'essere rappresentati,<br />
foss'anche da un partito o un sindacato che si arrogassero a loro volta il diritto di<br />
essere la loro coscienza [...]. Siamo tutti dei gruppuscoli. Non c'è più rappresentazione,<br />
non c'è che l'azione, l'azione della teoria e quella della pratica in rapporti<br />
di collegamento o di scambio5". Travolti da un ottimismo un po' affrettato,<br />
Deleuze e Foucault finiscono per trascurare il posto che occupano nelTingra-<br />
136<br />
4 M. Foucault, La torture e est la raison, in Dits et ecrits, tome m, Gallimard, Paris 1994, p. 391.<br />
5 M. Foucault, Gli intellettuali e il f etere. Conversazione tra Michel Foucault e Gilles Deleuze,<br />
in II discorso, la storia, la -verità, Einaudi, Torino 2001, p. 121.
-- .' . -"";: '<br />
A naggio che vorrebbero denunciare. La rinuncia alla funzione rappresentativa<br />
dell'intellettuale, anche se animata dalle migliori intenzioni e dalla fiducia<br />
i assoluta nel processo di emancipazione in corso all'epoca (penso tra l'altro al<br />
i loro impegno nel Gruppo Informazione sulle Prigioni), aveva per conseguenza<br />
la violenza epistemica che comporta l'oblio di quelli e quelle che, subalterni,<br />
colonizzati, esclusi quindi da ogni dialettica con il potere, non avevano<br />
L nemmeno accesso alla lotta.<br />
: Ne II diciotto brumaio di Luigi Bonaparte troviamo una precisazione cara a<br />
\k sulle due accezioni che il termine "rappresentare" ha in tedesco:<br />
; Vertretung significa parlare al posto di qualcun altro mentre Darstellung è un<br />
[ termine impiegato per la descrizione, la presentazione, in generale per un uso<br />
artistico. Dovremmo quindi, secondo Spivak, imparare a rappresentare noi<br />
I stessi, nel senso di Vertreten, di fronte ai contadini che vivono di sussistenza,<br />
ai lavoratori della terra inorganici, alle tribù e alle comunità degli "zero wor-<br />
;; kers" nelle strade delle città e delle campagne e a rappresentarli solamente nel<br />
senso di Darstellen, portandone solo la voce.<br />
I Ma il problema rimane irrisolto: appena si cerca di rappresentarli, non si fa<br />
\o che descrivere le componenti molteplici e disparate di questa folla<br />
\. Anche quando è in gioco soltanto un procedimento antropologico<br />
i o letterario, non si sfugge mai ai rischi della rappresentazione, e la stessa<br />
I Spivak si ritrova spesso a stilare la lista dei soggetti subalterni. NeEo stesso<br />
! Marx, capo mastro dei più suggestivi pittori di affreschi di vita popolare e<br />
I cospiratrice, si può leggere, sempre nel celeberrimo Diciatto brumaio, la<br />
I descrizione degH affiliati alla Società del 10 dicembre: "Accanto a roués in dis-<br />
| sesto, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti,<br />
| feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati<br />
\i dal bagno, galeotti,evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurma-<br />
| tori, bari, ruffiani, tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulan-<br />
I ti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa<br />
| confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème6".<br />
"Bohème" è infatti un altro nome che si da a questa folla pittoresca.<br />
Benjamin, nello scritto del 1938 che porta appunto il titolo La Bohème, non<br />
ce ne svela la genealogia: "Qui - si legge in una nota d'accompagnamento al<br />
manoscritto - manca un passaggio di circa sei pagine che abbozza una breve<br />
storia della bohème neEe generazioni. Definisce la bohème dorata di Gautier<br />
e di Nerval, la bohème della generazione di Baudelaire, Asselineau, Delvau,<br />
infine tutta l'ultima bohème, la bohème proletarizzata di cui Vallès fu il portavoce".<br />
Questa racconto, non c'è dubbio, sarebbe d'ordine filologico e ancora<br />
una volta descrittivo, poiché registrerebbe gli slittamenti del significato del<br />
K. Marx, II didotto brumaio di Luigi Eonaparte, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 129.<br />
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138<br />
termine e descriverebbe ogni sorta di umanità del margine che la società sempre<br />
secerne. E il margine qui descritto non occupa, se non raramente, il<br />
davanti della scena, crea certo uno spazio teatrale, vocifera, grida, gesticola,<br />
ma la sua posizione è fantomatica: non accede mai alla Storia e resta confinato<br />
nello spazio effimero dell'aneddoto. Non sono altro che corpi, i corpi anonimi,<br />
infami del popolo, quelli che contiene per esempio la Parigi notturna di<br />
Farge e di Foucault: "La canaglia - si legge nella prefazione firmata da<br />
entrambi all'edizione del 1982 di Le désordre desfamilles — che fa paura e affascina<br />
nello stesso tempo: quella che sembra sempre aggiungere la depravazione<br />
alle proprie cattive azioni, quella che non si può veramente .chiamare criminale^<br />
che conosce i mille e un rifugio deEa capitale dove nascondere complicità,<br />
bottini e progetti di avventure, quella che i borghesi credono si identifichi<br />
totalmente con il popolo7". Da sempre schermo delle proiezioni e delle<br />
inquietudini borghesi, questo mareggio di malandrini e sfortunati, quest'onda<br />
immensa che avanza e si dirama, che si gonfia e svanisce o si blocca per<br />
poi riapparire ancora, è il popolo minuto nella sua massa brulicante, nella sua<br />
solidarietà di quartiere, nel suo miscuglio inestricabile di classi industriose e<br />
pericolose che sarebbe necessario poter dividere una volta e per tutte, affinchè<br />
la borghesia possa dormire sonni tranquilli8.<br />
In un testo del 1995 intitolato Che cos'è un popolo? Giorgio Agamben<br />
s'interrogava sull'ambiguità intrinseca del termine "popolo", che si ritrova<br />
invariabilmente in tutte le lingue moderne europee. "Popolo" designa sempre<br />
gli esclusi, i poveri, i diseredati, ma è nello stesso tempo il nome del<br />
soggetto costitutivo della politica. E contemporaneamente l'insieme dei<br />
cittadini come corpo politico unitario e la molteplicità frammentaria di<br />
corpi bisognosi, "là un'inclusione che si pretende senza residui, qua<br />
un'esclusione .che si sa senza speranze; a un estremo, lo Stato totale dei cittadini<br />
integrati e sovrani, all'altro la riserva — corte dei miracoli o campo —<br />
dei miserabili, degli oppressi, dei vinti9".<br />
Agamben intravede nel concetto bipolare di "popolo" l'ombra d'una linea<br />
che struttura la frattura biopolitica, la traccia di una spartizione che assegna<br />
una vita alla sfera del bios, dell'esistenza che ha accesso al linguaggio, al senso<br />
e dunque alla politica, e un'altra a quella della zoé, oggetto di dominio, produttrice<br />
di un discorso inteso solo come rumore. Il seguito di queste riflessioni<br />
costituisce la trilogia di cui Homo sacer t il primo volume; questo lavoro si<br />
presenta né più né meno che come il proseguimento di un impensato di<br />
Foucault, di un percorso rimasto in sospeso perché bruscamente interrotto<br />
7 A. Farge, M. Foucault, Le désordre desfamilles, Gallimard, Paris 1982, pp. 13-14.<br />
3 Cfr. Ibidem.<br />
' G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 31.
dalla sua morte. Ci sarebbe stato, secondo Agamben, un collegamento possibile<br />
e mancato tra le analisi di Hannah Arendt ne La condizione umana, che<br />
denunciava l'arrivo às&homo laborans sulla scena della modernità come<br />
l'evento che metteva in primo piano la vita biologica in quanto tale, e i cantieri<br />
foucaultiani della biopolitica. Perché la questione principale, che si fa<br />
sempre più pressante oggigiorno, è quella che interroga il rapporto tra la nuda<br />
vita e la politica, o, se si vuole, il punto d'indistinzione tra il paradigma giuridico<br />
istituzionale del potere e il suo modello biopolitico.<br />
Aristotele distingue nella Politica la phoné, la voce che può esprimere il<br />
dolore e il piacere e che condividiamo con gli altri viventi, dal logos, appannaggio<br />
umano che struttura la polis poiché esprime il giusto, l'ingiusto, ciò che<br />
è presentabile e il suo contrario.<br />
Nella domanda "in che modo il vivente ha il linguaggio?" si nasconde quella<br />
che vuole sapere "in che modo la nuda vita abita lo spazio della polis, del<br />
politico, lei che ha una voce ma non la parola?".<br />
"Vi è politica - scrive Agamben — perché l'uomo è il vivente che, nel linguaggio,<br />
separa e oppone a sé la propria nuda vita e, insieme, si mantiene<br />
in rapporto con essa in un'esclusione inclusiva10".<br />
In queste righe si ritrova la problematica che Foucault e Rancière tracciano<br />
nell'intervista di "Les Révoltes Logiques" che data dello stesso inverno<br />
del 1977, anno in cui La vita degli uomini infami e l'appello sugli untorelli<br />
italiani avevano visto la luce. In questo testo, apparso con il titolo di<br />
Poteri e strategie, Foucault parla della plebe come del bersaglio costante e<br />
costantemente muto dei dispositivi di potere. La plebe non è, non è mai<br />
una designazione sociologica. E qualcosa che ha una natura distributiva:<br />
c'è della plebe in tutte le classi come un solvente da attivare per reazione<br />
chimica, una potenza ,che sonnecchia di un sonno agitato. Non va concepita<br />
come l'origine né come il soggetto d'ogni rivolta. Lungi dall'essere il<br />
risultato di una ipostasi è al contrario una definizione negativa che sfugge<br />
o che tenta continuamente di sfuggire al potere; movimento centrifugo,<br />
energia inversa, fuga nei corpi, nelle anime, limite, contraccolpo d'ogni<br />
avanzata puntuale del potere.<br />
La plebe entra nella cassetta degli attrezzi come l'esatto contrario di un<br />
soggetto da descrivere, essa struttura una "macchina di visione". Ciò che<br />
conta non sono i suoi diritti primari cantati dal neoliberismo né la sua<br />
sostanzializzazione promossa dai neopopulismo, ma è il punto di vista della<br />
plebe, perché questo punto di vista svela i dispositivi e permette la costruzione<br />
di strategie di resistenza.<br />
La rivista "Les Révoltes Logiques" nasce all'epoca delle grandi monografìe<br />
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 11.<br />
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dei tenitori paesani, delle biografìe dei fieri uomini del popolo, delle evocazioni<br />
dei carnevali popolari o delle barbarie plebee. "Al posto del severo proletario<br />
della scienza marxista — scrive Rancière — si delineava un popolo rumoroso<br />
e colorato [...] ma anche un popolo ben conforme alla sua essenza, ben<br />
radicato nel suo tempo e nel suo spazio, pronto a passare dalla leggenda del<br />
popolo dal basso alla positività delle maggioranze silenziose11". La reazione al<br />
mito del popolo rivoluzionario marxista, associato direttamente al crimine di<br />
massa del gulag, faceva sorgere quindi l'immagine di una plebe immacolata e<br />
spontaneamente insorta, in cui si coniugavano rimmediata positività del<br />
corpo popolare e la pura negatività della resistenza al potere.<br />
Nella triade problematica che riunisce lungo tutti gli anni Settanta '& proletariato,<br />
il popolo e la plebe, se quest'ultima ricopriva neEa diagnosi di<br />
Rancière la proiezione del nuovo soggetto rivoluzionario, nel pensiero di<br />
Foucault essa diventa l'esatto contrario di un soggetto, e designa un possibile<br />
spazio di desoggettivazione.<br />
Nel contesto dell'interrogazione foucaultiana sulla critica come risposta alla<br />
governamentalizzazione, la plebe è l'artista anonimo dell'arte di non essere<br />
troppo governati, l'autore del reaày-made transtorico che è l'insieme delle<br />
strategie di resistenza al potere. La plebe sfugge alle statistiche e ai tracciati,<br />
presentandosi come il contrario della popolazione. Le sue modalità d'inclusione<br />
nello spazio politico sono sempre aporetiche, poiché la plebe si ritrova,<br />
grazie alla sua natura distributiva, al confine tra logos e phoné, tra linguaggio e<br />
rumore, la sua esistenza è ciò che contesta in atto, con l'opposizione del suo<br />
proprio corpo al potere nell'insurrezione, con la resistenza quotidiana alla<br />
governamentalità, lo spazio del politico come spazio di linguaggio.<br />
Il punto di vista della plebe è quello che ci mostra che i rapporti di potere<br />
passano attraverso i corpi, che lo spazio politico è oggi lo spazio muto della<br />
biopolitica, dove l'eccezione si distingue appena dalla regola.<br />
La maniera in cui il potere cerca d'orientare la frattura biopolitica che la<br />
plebe incarna, tramite il sistema carcerario e il dispositivo giuridico, era<br />
stata abbordata da Foucault nel dialogo sulla giustizia popolare del 1972,<br />
con Benny Lévy e Andre Glucksmann. Il tribunale con la sua specifica<br />
architettura, con il tavolo che divide i giudici dai giudicati, che è la rappresentazione<br />
spaziale della neutralità, anche nella sua forma popolare e rivoluzionaria<br />
non si presta e non si presterà mai a risolvere le contraddizioni<br />
tra proletari e borghesi, perché la sua funzione principale è conservatrice e<br />
antisediziosa. Questo tavolo con le sedie su entrambi i lati ha stòricamente<br />
prodotto la linea di separazione che spezza le insurrezioni, che divide la plebe<br />
dai proletari. Questo dispositivo ha sempre estratto dalla massa confusa del<br />
11J. Rancière , Les Scènes dupeuple: Les Révoltes Logiqttes 1975-1985, Horlieu, Paris 2003, p. 8.
popolo la teppaglia emarginata, pericolosa, minacciosa, inviandola in prigione,<br />
all'ospedale, nelle galere, nelle colonie. E non è affatto sorprendente che<br />
ci si accanisca a dipingere il ritratto immorale della plebe, dato che, nella<br />
distinzione aristotelica, la phoné delle sue vociferazioni, tale e quale al borbottio<br />
minaccioso di ogni spazio di reclusione, può esprimere la gioia o la pena .<br />
ma non attinge al giusto e all'ingiusto.<br />
Il 1977, l'anno in cui Foucault lavorava più intensamente a questi problemi,<br />
fu in Italia l'anno della plebe. Ci sono ragioni per credere che sia stato uno<br />
spettatore attento di questi avvenimenti, che non sia stato affatto soddisfatto<br />
della loro versione ufficiale, quella degli anni di piombo, del terrorismo di<br />
Stato, di una lotta puramente reattiva per ripristinare una democrazia minacciata<br />
dal passato fascista - non a caso lo si ritrova tra i firmatari dell'appello<br />
lanciato da Guattari contro la criminalizzazione del movimento.<br />
Il '77 in Italia fu l'anno che non si commemora perché è stato il momento<br />
in cui le separazioni che strutturano.la nostra vita presente sono state più<br />
duramente messe in discussione : quella tra tempo libero e tempo di lavoro,<br />
tra produzione e consumo, tra pace e guerra, tra pazzi e sani di mente, tra<br />
uomini e donne. Si racconta di un'onda di politicizzazione di massa che aveva<br />
intaccato persino le radici della società civile, questi pilastri della formazione<br />
dei giovani che erano la scuola eia famiglia. Il bisogno di comunismo, l'affermazione<br />
orgogliosa della propria estraneità, l'autonomia operaia concepita<br />
come rifiuto del lavoro alienato dentro e fuori dalla fabbrica hanno provocato<br />
la messa in crisi delle strutture militanti classiche e l'autodissoluzione della<br />
maggioranza dei gruppi. Già nel '73 il Gruppo Granisci scriveva nella<br />
Proposta per un modo differente di fare-politica: "Non è più possibile rivolgersi<br />
da avanguardie a avanguardie con un linguaggio parrocchiale da esperti della<br />
politica [...] e non riuscire a parlare concretamente di noi e delle nostre esperienze.<br />
Perché la coscienza e le spiegazioni devono diventare evidenti attraverso<br />
una esperienza delle proprie condizioni, problemi e bisogni e non solo<br />
attraverso teorie che descrivono meccanismi12". Il logos proposto dalla politica<br />
tradizionale appariva del tutto inadatto, i componenti dei gruppi si sentivano<br />
parlati, attraversati da una parola che non li trasformava e per questo contavano<br />
di disfarsene mettendo in disuso la loro soggettività militante, mescolandosi<br />
all'insurrezione generale. Un protagonista dei fatti racconta con degli<br />
accenti incontestabilmente foucaultiani la sua posizione di piccolo capo nella<br />
dinamica gruppuscolare e il suo malessere rispetto all'uso deEa lingua in que- \p contesto. "Il leaderino —<br />
stato un comunista, un vero rivoluzionario, e non si chiede che cosa sia la trasformazione<br />
concreta di se stesso e degli altri [...]. Il leaderino è quello che<br />
12 N. Balestrini, P. Moroni, L'orda (foro, Feltrinelli, Milano 1997, p. 508.<br />
P : : • :<br />
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142<br />
durante le assemblee che vanno male o perché si crea il silenzio o perché vengono<br />
espresse posizioni politiche diverse da quelle del proprio gruppo, si<br />
sente in dovere di intervenire per riempire il vuoto del silenzio o per affermare<br />
la giustezza della propria linea su quella degli altri13".<br />
Si attribuisce al movimento femminista degli anni Settanta un ruolo molto<br />
importante nella propagazione del desiderio di desoggettivazione e di ricerca<br />
di una parola differente così come di una presenza più anonima, meno gerarchicamente<br />
definita nelle relazioni. Il ramo più avanzato del movimento femminista<br />
- che aveva sicuramente una coscienza acuta della natura biopolitica<br />
del potere - esaltava per questo la delegificazione. Queste donne, nel bel<br />
mezzo delle lotte per la legalizzazione dell'aborto, la penalizzazione dello stupro,<br />
l'applicazione della politica delle quote, domandavano il silenzio della<br />
legge sui loro destini e sui loro corpi, che da sempre erano stati assegnati al<br />
dominio della phoné, della lingua immorale delle emozioni. Una delle loro<br />
parole d'ordine era "non credere di avere dei diritti", che vuoi dire: non credere<br />
di essere inclusa nel dispositivo che fino a ieri ti ha rigettato senza che la<br />
frattura biopolitica ti attraversi da parte a parte. Un opuscolo femminista italiano<br />
del 1976 pubblicava una lettera firmata Lia: "II ritorno del rimosso<br />
minaccia tutti i miei progetti di lavoro, di ricerca, di politica. Li minaccia o è<br />
la cosa realmente politica in me, a cui si dovrebbe dare sollievo, spazio? [...].<br />
Il mutismo — continua — metteva in scacco, negava quella parte di me che<br />
voleva fare politica, ma affermava qualcosa di nuovo. C'è stato un cambiamento,<br />
ho preso la parola, ma in questi giorni ho capito che la parte affermativa<br />
di me stava occupando di nuovo tutto lo spazio. Mi sono convinta che la<br />
donna muta è l'obiezione più feconda alla nostra politica. Il non-politico scava<br />
dei cunicoli che non dobbiamo riempire di terra". Quando si cerca di fare<br />
astrazione del corpo positivo delle donne fatto di apparenza, che sembra fatto<br />
per essere descritto, così come quello della bohème, del popolo della strada,<br />
per dare loro un corpo politico, il silenzio dei vinti lo mette in scacco o la lingua<br />
straniera che si impone loro riempie i tunnel delle vere contraddizioni.<br />
Nel 1976 una partecipante alla riunione di Pinarella riferisce un'esperienza<br />
meno frustrante: "Dopo la prima giornata e mezza mi è capitata una<br />
cosa strana: al di sotto delle teste che parlavano, ascoltavano, ridevano,<br />
c'era il mio corpo che trovava uno strano modo di farsi parola". Questa<br />
maniera di farsi parola del corpo è detta strana perché scombina le geometrie<br />
rassicuranti della soggettività, e non rappresenta nient'altro che l'equilibrio<br />
fragile dell'esclusività inclusiva della nuda vita, la parola momentaneamente<br />
ritrovata della plebe.<br />
È bene ricordare che questo laboratorio straordinario di forme di vita fu<br />
13 Ivi, pp. 505-506.
chiuso di forza da un'incarcerazione di massa che vide quarantamila persone<br />
denunciate, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni<br />
di prigione, centinaia di morti e di feriti da ogni parte. Alcuni intellettuali<br />
S della sinistra istituzionale fornirono la teoria a questa operazione poliziesca.<br />
Alberto Asor Rosa, ex operaista, scrive nel 1977 Le due società, la cui tesi principale<br />
può essere riassunta in questo modo: la crisi determina la disoccupazione,<br />
i più coinvolti sono i giovani, la disoccupazione significa marginalità<br />
rispetto al sistema del lavoro produttivo che è quello effettuato in fabbrica, la<br />
marginalità produce poi l'isolamento e la disperazione che si traducono in<br />
. esplosioni di violenza irrazionali. Questi soggetti marginali - che dovrebbero<br />
essere operai ma non lo sono — sono la seconda società che è cresciuta a fianco<br />
della prima, forse a sue spese ma senza mai guadagnarci qualcosa e potersi<br />
radicare nell'ambiente operaio. La criminalizzazione generalizzata di una<br />
molteplicità enorme di esperienze, tutte soffocate nell'unico sacco della lotta<br />
armata, si prolunga ancora oggi nel commercio ignobile dei ministeri degli<br />
interni francese e italiano per rimpatriare gli esiliati protagonisti dei fatti di<br />
ormai trent'anni fa, accusati con procedure sommarie, mantenuti costantemente<br />
in stato d'eccezione in prigione come in esilio.<br />
Appena diventa impossibile parlare di moltitudini pittoresche e colorate<br />
che animano il grigiore dello spazio pubblico, la plebe prolunga la sua ombra<br />
silenziosa sui corpi, la separazione s'impone. I criteri che strutturano questa<br />
divisione sono molto vicini ai riflessi che animano ogni razzismo: l'incomprensione,<br />
la generalizzazione, il fatto di non capire la lingua di questa politica,<br />
di non capire una domanda che non si rivolge più all'apparecchio giuri-<br />
': dico che raccoglie le rivendicazioni e le dimentica, ma al volto biopolitico del<br />
potere che capisce solo l'idioma deEa presenza dei corpi.<br />
Nel 2001 a Genova un contro vertice aveva riunito qualche migliaio di<br />
persone venute da tutta Europa. Ciò che conta nella storia di questa piccola<br />
insurrezione è che la traccia che ne resta è un ricordo di violenza muta.<br />
Alcuni tra i partecipanti agli scontri, che sono stati chiamati black bloc<br />
perché portavano degli abiti scuri, avevano attraversato i quartieri accessibili<br />
di una città completamente blindata e distrutto qualche oggetto sul<br />
loro passaggio. Una divisione è stata stabilita in questa occasione tra manifestanti<br />
violenti e non violenti, ed è difficile credere che ci si sia soffermati<br />
sulla violenza di questo piccolo scasso mentre nello stesso momento la<br />
polizia e i carabinieri, in numero esorbitante, sparavano a più riprese nella<br />
città pallottole ad altezza d'uomo, uccidevano un manifestante, picchiavano<br />
migliaia di persone nelle strade e ne torturavano altrettante protetti dal<br />
segreto delle caserme. È strano anche sentire, nelle versioni fornite da<br />
molti partecipanti o dai media, che questi manifestanti violenti non erano<br />
degli italiani (essi provenivano, come ogni altro flagello, dalle frontiere che<br />
avrebbero dovuto essere più sorvegliate) oppure che erano dei poliziotti<br />
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infiltrati, il che spiegherebbe il loro volto coperto. Ai giorni nostri, che<br />
sono quelli della deleuziana "società del controllo", può darsi che la crescente<br />
angoscia verso l'anonimato spinga a voler ridurre, tradurre, smascherare<br />
la plebe addirittura associandola - nella confusione della paura -<br />
al volto senza volto dei guardiani dell'ordine pubblico.<br />
Nel terzo tomo di Homo sacer Agamben mostra che una delle caratteristiche<br />
dello stato d'eccezione è l'applicazione di misure di polizia all'interno<br />
del territorio d'uno Stato, che si utilizzano normalmente soltanto in<br />
paso d'invasione straniera.<br />
Ma questo oggetto della nostra paura, cui vorremmo tanto poter dare il<br />
volto .dell'altro, del barbaro, dello sconosciuto, non viene a noi da nessuna<br />
frontiera, da nessuna classe pericolosa.<br />
In ciascuno di noi la plebe sutura giorno dopo giorno la frattura biopolitica<br />
per trasformarla in cicatrice finalmente dicibile.<br />
Perché la plebe è il nostro straniero intcriore.<br />
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