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LA SCOPERTA DI AUSTRALOPITHECUS SEDIBA - Lee Berger

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<strong>LA</strong> <strong>SCOPERTA</strong> <strong>DI</strong><br />

<strong>AUSTRALOPITHECUS</strong> SE<strong>DI</strong>BA<br />

Il lavoro dei paleontropologi si fa sempre più entusiasmante.<br />

Ogni innovazione tecnologica consente scoperte di fossili<br />

sempre più completi e una precisione nella datazione<br />

prima impensabile. Ma ogni nuova acquisizione rischia<br />

di mandare all’aria tutte le classificazioni precedenti,<br />

come la scoperta di Australopithecus sediba, in Sudafrica.<br />

Che sia lui il nostro progenitore?<br />

LEE R. BERGER<br />

Il contributo del Sudafrica allo studio<br />

delle origini dell’umanità<br />

Il Sudafrica è la culla della paleoantropologia africana fin dalla<br />

scoperta nel 1924 del Bambino di Taung, che l’anno successivo<br />

fu descritto da Raymond Dart come appartenente a un nuovo<br />

genere e a una nuova specie. Da allora e grazie al contributo di<br />

moltissimi siti archeologici si è andata formando una delle documentazioni<br />

più complete delle origini dell’umanità nel continente.<br />

In particolare l’area dolomitica a nord e a ovest di Johannesburg,<br />

denominata la Culla dell’Umanità, è stata inserita<br />

dall’Unesco fra i patrimoni mondiali dell’umanità. I reperti rinvenuti<br />

in grande quantità in questa zona, relativi agli ultimi due<br />

milioni e mezzo di anni di evoluzione degli ominini, provengono<br />

in gran parte da grotte e da riempimenti carsici che contengono<br />

e preservano moltissimi fossili.<br />

Fin dalla prima scoperta negli anni Trenta di fossili di ominini<br />

nel sito di Sterkfontein, in questa regione – ormai riconosciuta<br />

come una fonte ricchissima di fossili faunistici e di antichi<br />

ominini – sono emersi alcuni tra i siti più ricchi di tutta<br />

l’Africa. Ne fanno parte siti come Sterkfontein stesso, Kromdraai,<br />

Swartkrans e Drimolen, dai quali è stata recuperata<br />

una significativa percentuale di tutta la documentazione fossile<br />

africana relativa agli ominini databili da circa 2,5 milioni<br />

di anni fa fino al presente. Queste località sono generalmente<br />

note per la loro capacità di conservare resti relativamente


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frammentari, preservati in una durissima matrice calcarea<br />

spesso detta «breccia». Nella maggior parte di questi siti si trovano<br />

ossa estremamente frammentate.Tale frammentazione è<br />

dovuta a diversi processi legati alla fossilizzazione: l’attività<br />

dei carnivori primari, degli animali necrofagi e di quelli che,<br />

come gli istrici, utilizzano le ossa, a cui si sommano i danni<br />

generici riportati durante i processi di seppellimento e di fossilizzazione.<br />

Si tratta di processi analoghi a quelli subiti dai<br />

fossili reperiti negli ambienti lacustri dell’Africa orientale e<br />

della Rift Valley: perciò la conservazione nelle due regioni è<br />

generalmente paragonabile. Ma nel sistema delle grotte dolomitiche<br />

si possono trovare anche livelli di conservazione molto<br />

superiori: o perché i seppellimenti sono avvenuti in tempi<br />

brevi, o perché gli esemplari sono stati preservati dalle acque<br />

ricche di carbonato di calcio, o infine perché ossa e carcasse<br />

sono state protette in un modo o nell’altro dalle azioni distruttive<br />

dei predatori primari o dei necrofagi secondari.<br />

Tutti i siti delle grotte dolomitiche presentano esempi di<br />

questi livelli superiori di conservazione, ma alcuni di essi, come<br />

Sterkfontein e Makapansgat, offrono con maggiore frequenza<br />

livelli di conservazione addirittura eccellenti. Ne sono<br />

un esempio l’occasionale scoperta di piste di impronte, lo<br />

straordinario stato di conservazione della superficie ossea, i<br />

rarissimi scheletri articolati o associati come quello di «Little<br />

Foot» rinvenuto a Sterkfontein. I resti articolati in particolare<br />

permettono di osservare associazioni tra ossa e una qualità<br />

di conservazione che sarebbe del tutto impensabile riscontrare<br />

in siti esposti in superficie agli agenti atmosferici.<br />

Grazie ai recenti progressi nella datazione assoluta dei siti<br />

sudafricani, è stato possibile cominciare ad affrontare il problema<br />

principale incontrato di norma nei siti delle grotte dolomitiche<br />

e iniziare a correggere quello che è probabilmente<br />

il maggiore ostacolo nell’uso estensivo dei reperti relativi ai<br />

primi ominini e di quelli faunistici provenienti dall’Africa<br />

meridionale (si veda per esempio Dirks et al., 2010 e Pickering<br />

et al., 2011). In particolare, il metodo di datazione basato<br />

su uranio-piombo o sul disequilibrio di uranio è stato combinato<br />

con segnali paleomagnetici ben preservati, consentendo<br />

di stabilire la datazione assoluta geocronologica di al-<br />

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cuni depositi nei sistemi di grotte dolomitiche. L’accuratezza<br />

dei risultati è tale da rivaleggiare, spesso superandola, con<br />

quella consentita dalla datazione radiometrica dei siti lacustri<br />

della Great Rift Valley (Pickering, 2011). Insieme alla<br />

nuova e significativa importanza riconosciuta ai processi di<br />

formazione delle grotte e ai progressi compiuti nella comprensione<br />

geologica degli eventi di deposizione che hanno<br />

prodotto i processi di seppellimento e di fossilizzazione nel<br />

contesto dell’Africa meridionale, le tecniche di datazione così<br />

perfezionate consentono per la prima volta di contestualizzare<br />

con precisione queste scoperte e di raffrontarle direttamente<br />

con i fossili provenienti dai depositi lacustri e fluviali<br />

della Rift Valley. Le grotte dolomitiche sudafricane, con la loro<br />

capacità di rappresentare gli ambienti antichi come in<br />

un’istantanea e di cogliere intervalli temporali brevissimi, ci<br />

aprono ora una nuova, straordinaria finestra per comprendere<br />

l’evoluzione umana e faunistica nel continente africano.<br />

In seguito alla scoperta di significativi depositi fossili di ominini<br />

al di fuori dei tradizionali siti di Etiopia, Kenia e Tanzania,<br />

sempre più spesso si ammette ora la possibilità che<br />

l’evoluzione degli ominini sia ben più complessa di una semplice<br />

«East Side Story», cioè di un’evoluzione umana avvenuta<br />

esclusivamente a est della Rift Valley. Potrebbero esserci<br />

stati numerosi altri luoghi e fattori di innovazione evolutiva –<br />

in altre regioni dell’Africa e addirittura in Europa e in Asia –<br />

capaci di influenzare i tempi e i modi dell’evoluzione degli<br />

ominini. Le ultime scoperte sono un’ulteriore conferma del<br />

fatto che, contrariamente all’opinione di alcuni, i grandi depositi<br />

fossili africani in cui reperire fossili di ominini possono<br />

trovarsi non soltanto nelle condizioni erosive tipiche della<br />

Rift Valley, ma anche in un’area assai più vasta e in situazioni<br />

geologiche diversissime.<br />

I siti studiati in questi contesti inediti esemplificano chiaramente<br />

nuove situazioni paleo-ecologiche: le scoperte fatte in<br />

tali aree spesso sfidano idee sull’evoluzione umana che hanno<br />

resistito nel tempo perché si basavano sulle conoscenze<br />

limitate offerte dai siti su cui è stata profusa la grande maggioranza<br />

delle risorse destinate alla ricerca. Uno di questi siti<br />

in particolare ci induce a mettere in discussione non solo


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la nostra comprensione, che si riteneva completa, delle modalità<br />

e dei tempi dell’evoluzione degli ominini, ma anche<br />

l’idea secondo cui sarebbe già stato scoperto il massimo di<br />

ciò che la documentazione fossile in materia può offrire. Mi<br />

riferisco al sito sudafricano di Malapa, a pochi chilometri<br />

dall’area urbana di Johannesburg.<br />

Il sito di Malapa e la scoperta<br />

di Australopithecus sediba<br />

Malapa fu individuato quando intrapresi un’esplorazione generale<br />

della regione nota come Culla dell’Umanità, alla ricerca<br />

di nuovi depositi ricchi di fossili. Grazie a nuove tecnologie<br />

come Google Earth e alla mappatura del territorio mediante<br />

esami fisici, scoprimmo nella prima metà del 2008 un<br />

importante numero di nuove grotte e di siti di fossili. Il 1°<br />

agosto 2008 scoprii il sito di Malapa, riconoscendolo come<br />

un significativo deposito fossile all’interno di una grotta scoperchiata<br />

di almeno 25x20 metri, in un’area non esplorata in<br />

precedenza dagli studiosi. Diversamente da tante altre grotte<br />

della regione, a Malapa non ci sono state molte attività minerarie<br />

e di scavo: le cave sono state sfruttate, con ogni probabilità,<br />

solo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, e quasi<br />

certamente tali attività si erano già concluse entro la metà<br />

degli anni Trenta del secolo scorso, quando Robert Broom<br />

iniziò a perlustrare la regione.<br />

Il 15 agosto 2008 organizzammo la prima spedizione sul sito.<br />

Fu mio figlio Matthew, che aveva allora nove anni, a trovare i<br />

primi reperti di ominini. Nelle settimane e nei mesi che seguirono<br />

la ricchezza del sito apparve in tutta la sua evidenza: furono<br />

avvistati e riportati in superficie numerosi fossili di ominini.<br />

Il 4 settembre 2008 scoprii un secondo scheletro parziale<br />

di adulto, molto ben conservato, e due denti superiori associati<br />

(MH2). La scoperta di questo esemplare fu particolarmente<br />

importante perché fu rinvenuto in situ nei sedimenti di<br />

detriti cementati e calcificati del pozzo di miniera, fornendo<br />

così una collocazione precisa dei resti e portando alla scoperta<br />

della posizione in sito esatta del reperto originale.<br />

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La rimozione del blocco contenente lo scheletro parziale avvenne<br />

alla fine del 2008 e la preparazione del reperto rivelò<br />

un arto superiore parzialmente articolato comprendente<br />

gran parte della scapola destra, la metà laterale della clavicola<br />

destra, parti del torace e alcuni elementi di un arto inferiore.<br />

Perlustrando il sito alla ricerca dei materiali dispersi dalla<br />

limitata attività mineraria del passato fu rinvenuto, in un<br />

blocco contenente anche la mascella, il resto della scapola e<br />

della clavicola destra dell’adulto. All’inizio del 2009 era ormai<br />

palese che Malapa conservava, affioranti in superficie, almeno<br />

due scheletri parziali e forse altri individui rappresentati<br />

da materiale frammentario. Questi scheletri mostravano<br />

danni minimi: una quantità moderata di fratture, imputabili<br />

soprattutto all’attività mineraria, e un piccolo ammontare di<br />

danni di fossilizzazione dovuti probabilmente a un importante<br />

movimento franoso verificatosi quando gli scheletri furono<br />

trasportati alla loro ultima dimora. Nel febbraio del<br />

2009 scoprii un blocco contenente la parte prossimale dell’omero<br />

di MH1. Nel corso della preparazione di questo reperto<br />

trovammo anche il cranio parziale e ben conservato, oltre<br />

a parti significative dello scheletro. Grazie a questa scoperta<br />

ci fu possibile assemblare gran parte della testa e del<br />

corpo di MH1, un esemplare giovane, mentre i lavori condotti<br />

successivamente sullo scheletro dell’adulto MH2 ci permisero<br />

di constatare come questo fosse praticamente intatto.<br />

Durante la perlustrazione in superficie del deposito di detriti<br />

minerari a Malapa scoprimmo anche, in situ, parte del retro<br />

del cranio di MH1: questo ci consentì di verificare con ragionevole<br />

sicurezza la posizione esatta in cui originariamente<br />

erano situati gli esemplari nel sito, e anche di associare a essi<br />

ulteriori elementi e addirittura altri individui.<br />

Nel corso degli ultimi tre anni e mezzo abbiamo condotto numerose<br />

analisi di questo materiale: nel 2009 siamo giunti alla<br />

conclusione che i resti fossili ominini rinvenuti a Malapa erano<br />

esemplari di una nuova specie di antico ominino mai prima<br />

d’ora riconosciuta o catalogata tra i fossili.Tale specie possedeva<br />

chiaramente molte caratteristiche, sia primitive sia derivate,<br />

che apparivano particolarmente sorprendenti rispetto<br />

ai reperti fossili di ominini recuperati fino a quel momento.


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Questo ci ha portato nel 2010 a descrivere una nuova specie<br />

di ominini primitivi: Australopithecus sediba (<strong>Berger</strong> et al.,<br />

2010). Di recente è stato descritto altro materiale, compresi alcuni<br />

resti di ominini primitivi che sono tra i più completi finora<br />

scoperti tra i fossili africani e sono tutti riconducibili alla<br />

nuova specie, e abbiamo affinato la datazione fino a individuare<br />

un arco di tempo considerevolmente ristretto: tra 1,977<br />

e 1,98 milioni di anni fa (Pickering et al., 2011).<br />

La sorprendente anatomia<br />

di Australopithecus sediba<br />

Con la recente pubblicazione di un numero significativo di<br />

nuovi elementi e con il procedere delle analisi dettagliate sui<br />

fossili è ormai chiaro che Australopithecus sediba offre un contributo<br />

inatteso e sorprendente alla documentazione sui primi<br />

ominini. La morfologia cranio-dentale di questa specie<br />

presenta un cervello piccolo ma con alcune novità, denti di ridotte<br />

dimensioni e naso sporgente: caratteristiche comuni sia<br />

alle australopitecine più primitive, sia a forme di Homo successive.<br />

Inoltre possiede sicuramente numerose combinazioni<br />

di tratti mai osservate in forme precedenti (<strong>Berger</strong> et al.,<br />

2010; Carlson et al., 2011).Anche a livello del resto dello scheletro<br />

Australopithecus sediba mostra un sorprendente mosaico<br />

di caratteri anatomici: braccia più lunghe e scimmiesche, mani<br />

con pollice allungato e accorciamento delle altre dita (Kivell<br />

et al., 2011) e struttura pelvica più innovativa, analoga a<br />

quella di Homo (Kibii et al., 2011). Le gambe sembrano più allungate,<br />

nel piede e nella caviglia presenta elementi sorprendentemente<br />

primitivi insieme ad altri sorprendentemente<br />

nuovi, evidenziando sia caratteristiche comuni ad altri ominini,<br />

sia caratteri di strutture più primitive e scimmiesche, specie<br />

nel tallone (Zipfel et al., 2011). Infine, il livello di dimorfismo<br />

sessuale in Australopithecus sediba si direbbe piuttosto limitato.<br />

Entrambi gli individui hanno un’altezza stimata di 130<br />

centimetri; MH1 sembra essere un maschio e MH2 una femmina<br />

(<strong>Berger</strong> et al. 2010). Lo scheletro di MH1 appartiene a<br />

un esemplare non ancora adulto, ma la fusione delle lamine<br />

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di crescita nella parte distale dell’omero mostra che era prossimo<br />

alla maturità. La dentizione di MH1, inoltre, è di poco<br />

più grande di quella di MH2. In base a tali considerazioni si<br />

può ipotizzare che, se fosse diventato adulto, questo probabile<br />

maschio sarebbe cresciuto solo del 10-14 per cento (<strong>Berger</strong><br />

et al., 2010): ciò suggerisce un livello di dimorfismo sessuale<br />

adulto vicino, o solo di poco superiore, a quello osservato negli<br />

umani, e probabilmente inferiore a quello degli scimpanzé<br />

pigmei. Un livello, comunque, quasi certamente inferiore a<br />

quello osservato in tutti gli ominini attualmente attribuiti al<br />

genere Australopithecus.<br />

Questo sorprendente mosaico di caratteri colloca Australopithecus<br />

sediba al di fuori della gamma di variabilità osservata nel<br />

complesso dei reperti di Australopithecus africanus, benché<br />

provengano da quattro siti geograficamente diversissimi e<br />

lontani come Taung, Sterkfontein, Gladysvale (<strong>Berger</strong> et al.,<br />

1993) e Makapansgat. Per quanto sia chiaro che Australopithecus<br />

sediba è morfologicamente vicinissimo ad Australopithecus<br />

africanus, l’aspetto inedito di alcune caratteristiche scheletriche<br />

evidenziato sopra impedisce di inserire Australopithecus<br />

sediba nella specie Australopithecus africanus. L’osservazione<br />

che Australopithecus sediba supera la variazione di Australopithecus<br />

africanus in quasi tutti gli aspetti della morfologia ossea<br />

è di particolare importanza perché al complesso di reperti relativi<br />

ad Australopithecus africanus è già riconosciuto un altissimo<br />

livello di variabilità. Una variabilità talmente elevata da indurre<br />

alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi che i reperti in questione<br />

potrebbero addirittura essere riconducibili a più di una<br />

specie (Clarke, 2008; Lockwood e Tobias, 2002). Poiché Australopithecus<br />

sediba supera la diversità morfologica totale a oggi<br />

nota dell’insieme dei reperti di Australopithecus africanus, e<br />

poiché comunque, dal punto di vista temporale e geografico, è<br />

più vicino a quello di Sterkfontein da cui proviene il campione<br />

più grande e diversificato di Australopithecus africanus, io e<br />

i miei colleghi consideriamo tutto questo una convincente<br />

prova della sua condizione di specie unica e a sé stante.<br />

Di conseguenza allo stato attuale la nostra interpretazione è<br />

che, per quanto tra Australopithecus africanus e Australopithecus<br />

sediba vi siano elementi comuni, le differenze sono non-


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dimeno più che sufficienti per giustificare che li si distingua,<br />

e anzi sono di fatto sufficienti per distinguere Australopithecus<br />

sediba da tutte le altre specie note di ominini primitivi.<br />

Il posto di Australopithecus sediba<br />

nell’evoluzione degli ominini<br />

I resti fossili di ominini dall’Africa orientale e meridionale<br />

sono in quantità sufficiente per permetterci di formulare<br />

ipotesi in merito alla posizione di Australopithecus sediba nell’albero<br />

dell’evoluzione umana. Come osservato in precedenza,<br />

in base alle evidenze attualmente a nostra disposizione<br />

sembra che Australopithecus sediba si sia evoluto da una specie<br />

molto simile ad Australopithecus africanus, o quanto meno<br />

da qualcosa che assomiglia da vicino agli esemplari più gracili<br />

di tale specie. A sua volta Australopithecus sediba sembra<br />

avere più tratti in comune con reperti ricondotti a fossili specifici<br />

attualmente associati ai primi rappresentanti del genere<br />

Homo, soprattutto con il primo Homo erectus, piuttosto che<br />

con altre candidate australopitecine ancestrali, compresi Australopithecus<br />

afarensis, Australopithecus garhi, o Australopithecus<br />

africanus. Annunciando la scoperta di Australopithecus sediba<br />

(<strong>Berger</strong> et al., 2010), io e i miei colleghi avanzammo<br />

quattro possibili ipotesi sulla sua collocazione evoluzionistica:<br />

1) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo habilis;<br />

2) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo rudolfensis;<br />

3) Australopithecus sediba è un progenitore di Homo<br />

erectus; infine, 4) Australopithecus sediba appartiene a un gruppo<br />

fratello dei progenitori di Homo.<br />

Mentre noi stiamo proseguendo le analisi sulla situazione filogenetica<br />

di Australopithecus sediba, si è acceso il dibattito<br />

sulla datazione di Australopithecus sediba intorno a 1,98 milioni<br />

di anni. Un’età così «giovane» sembrerebbe escludere, per<br />

motivi cronologici, di poterlo annoverare tra i possibili antenati<br />

dei primi membri del genere Homo: è un’australopitecina<br />

troppo giovane, vissuta quando già esistevano forme di<br />

Homo da diverso tempo. Molti studiosi del settore (Balter,<br />

2010; Cherry, 2010; Spoor, 2011) sono infatti fortemente per-<br />

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suasi che altri fossili, decisamente più antichi, sarebbero<br />

candidati migliori a questo onore. Se così fosse, almeno secondo<br />

una visione relativamente semplicistica di evoluzione<br />

unilineare e come sottolineato da alcuni commentatori (Spoor,<br />

2011), i fossili di Australopithecus sediba provenienti da<br />

Malapa non avrebbero potuto dare origine al genere Homo.<br />

Una simile visione della potenziale posizione filogenetica di<br />

Australopithecus sediba esclude, non senza una certa furbizia,<br />

la possibilità che i fossili di Malapa rappresentino una popolazione<br />

superstite tardiva della specie destinata a dare origine<br />

al genere Homo. Allo stesso tempo, a questi fossili di presunta<br />

datazione anteriore che rappresenterebbero membri<br />

del genere Homo si conferisce oggi un’importanza straordinaria,<br />

in quanto costituirebbero le più antiche origini del genere<br />

stesso: se dunque li si vuole contrapporre alle nuove testimonianze<br />

provenienti da Malapa, meritano di essere sottoposti<br />

a un’analisi scrupolosa dal punto di vista della morfologia<br />

e del contesto.<br />

Tre sono le candidature principali, presentate di solito come<br />

più antiche dei ritrovamenti di Malapa e che quindi si propongono<br />

come primi membri del genere Homo: Stw 53 da<br />

Sterkfontein (Hughes e Tobias, 1977), A.L. 666 dall’Etiopia<br />

(Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997) e U.R. 501 dal Malawi<br />

(Schrenk et al., 1993). Di ognuno di questi reperti si è detto,<br />

in varie occasioni, che risalirebbero a oltre 2 milioni di<br />

anni fa. In particolare gli ultimi due esemplari risalirebbero a<br />

un’epoca compresa tra 2,3 e 2,4 milioni di anni. Ma la pretesa<br />

di essere con certezza la più antica attestazione fossile del<br />

genere Homo è davvero straordinaria e della massima importanza.<br />

E quando si avanzano pretese straordinarie, occorre<br />

portare prove straordinarie. È quantomeno mia opinione che<br />

nessuno di questi fossili risponda a tali criteri straordinari di<br />

evidenza come primi rappresentanti del nostro genere.<br />

Nello specifico, Stw 53 è tradizionalmente ritenuto più antico<br />

di 2 milioni di anni: gli studi più recenti tuttavia ipotizzano<br />

una datazione più recente, tra 1,78 e 1,43 milioni (<strong>Berger</strong><br />

et al., 2002; Herries et al., 2009; Pickering e Kramers, 2010).<br />

Questo esemplare, un cranio frammentario, fu descritto a<br />

tutta prima come appartenente con ogni probabilità a un an-


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tichissimo Homo (Hughes e Tobias, 1977), diagnosi che fu ben<br />

presto largamente accettata (Cronin et al., 1981; Wood, 1987,<br />

1992, Curnoe e Tobias, 2006). Ma proprio uno di questi autori<br />

(Curnoe, 2010) è arrivato recentemente a descrivere Stw 53<br />

come esemplare tipo di una nuova specie, Homo gautengensis,<br />

benché non vi siano molte ragioni per considerarlo un’unità<br />

tassonomica valida (Pickering et al., 2011). Analogamente,<br />

l’attribuzione al genere Homo di Stw 53 è stata energicamente<br />

contestata in base a considerazioni stratigrafiche e anche<br />

anatomiche (<strong>Berger</strong> et al., 2010; Clarke, 2008; Kuman e Clarke,<br />

2000; Pickering et al., 2011). Non ci sono dunque attualmente<br />

molte prove che consentano di considerare Stw 53 come<br />

candidato a essere il più antico reperto del genere Homo:<br />

Stw 53 non sembra anteriore ad Australopithecus sediba per<br />

età cronologica, e nemmeno appare morfologicamente compatibile<br />

con tale ipotesi. Se in realtà questo reperto fosse derubricato<br />

dal genere Homo e considerato semplicemente un<br />

tardo esemplare di australopitecina, una tale riclassificazione<br />

potrebbe ripercuotersi, con un effetto domino, su altri fossili<br />

assegnati al genere Homo: per esempio sullo scheletro parziale<br />

di OH-62, che potrebbe a quel punto trovarsi in posizione<br />

migliore come rappresentante del genere Australopithecus (si<br />

veda, per una trattazione più approfondita di questo argomento,<br />

<strong>Berger</strong> et al., 2010 e Pickering et al., 2011).<br />

Un analogo ragionamento riguarda A.L. 666, il fossile dell’età<br />

presunta di 2,3 milioni di anni attribuito al genere Homo e ritrovato<br />

in Etiopia. Molti scienziati e studiosi di paleoantropologia<br />

lo considerano il miglior esemplare in assoluto della<br />

presenza del genere in Africa prima di 2 milioni di anni fa<br />

(Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak, 1997; Kimbel, 2009; Spoor,<br />

2011). L’esemplare in questione è dato da una sola mascella<br />

frammentata su cui io stesso e miei colleghi abbiamo<br />

recentemente e ampiamente discusso (Pickering et al., 2011).<br />

Ma per ripetere quanto detto sopra, la pretesa di essere la<br />

prima e definitiva attestazione fossile del genere Homo è di<br />

tale straordinaria importanza che la mascella di A.L. 666<br />

semplicemente non risponde, a parere di chi scrive, a quei<br />

criteri di straordinaria evidenza. In sintesi, A.L. 666 è un reperto<br />

isolato di superficie (Kimbel et al., 1996; Kimbel e Rak,<br />

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1997) e, come molti fossili provenienti dagli ambienti lacustri<br />

dell’Africa orientale e dai sistemi della Rift Valley, i suoi<br />

frammenti furono ritrovati su una superficie di pendio e gli<br />

scavi non hanno prodotto altri fossili in situ. Questo è un<br />

punto cruciale in quanto gli stessi autori della descrizione riferiscono<br />

la presenza di sedimenti di età più recente, da cui<br />

avrebbe potuto provenire la mascella: questa ipotesi fu esclusa<br />

solo in base al recupero di pochi altri frammenti ossei, simili<br />

per colore e consistenza, appartenenti ad altri animali.<br />

Un contesto tanto povero rende come minimo discutibile<br />

l’età del reperto. Senza il recupero di fossili in situ direttamente<br />

associati alla mascella non è possibile accertarne con<br />

sicurezza l’età presunta. Infine, la mascella di A.L. 666 fu in<br />

seguito ricostruita a partire da questi numerosi frammenti –<br />

cosa che di per sé lascia aperta a numerose interpretazioni la<br />

morfologia così ricostruita. Dunque, anche se è stato collocato<br />

all’interno del contesto dell’orizzonte su cui poggiava, non<br />

si può in realtà stabilire con certezza assoluta che provenga<br />

davvero dall’orizzonte temporale di 2,3 milioni di anni fa. La<br />

stessa natura frammentaria di A.L. 666 indica chiaramente<br />

che il reperto ha subito diversi processi di fossilizzazione ed<br />

erosivi che lo hanno spostato dalla collocazione originaria.<br />

Si aggiunga che la completezza del materiale di Australopithecus<br />

sediba basta da sola a illustrare alcune importantissime<br />

lezioni sulle questioni da affrontare quando ci si affida a dettagli<br />

anatomici in reperti fossili di ominini isolati e frammentati,<br />

come può essere una singola mascella. Se in quasi tutte<br />

le zone anatomiche cruciali io e i miei colleghi avessimo cercato<br />

di utilizzare un singolo elemento o un complesso di caratteri<br />

per determinare il genere a cui appartiene Australopithecus<br />

sediba, avremmo potuto facilmente giungere a conclusioni<br />

molto diverse circa la condizione del genere o della<br />

specie di riferimento. In effetti, molti colleghi hanno avanzato<br />

interpretazioni differenti da quelle esposte nei nostri studi:<br />

un numero significativo di scienziati sostiene che Australopithecus<br />

sediba dovrebbe essere in realtà collocato all’interno<br />

del genere Homo (Balter, 2010). Senza voler rielaborare<br />

nel dettaglio le loro argomentazioni, resta il fatto che gli ominini<br />

di Malapa dimostrano come non si possano usare talune


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caratteristiche anatomiche isolate – come una mascella – per<br />

dare risposte circa le attribuzioni dell’esemplare dato a un<br />

determinato genere (a meno che la caratteristica anatomica<br />

in esame non sia parte integrante della definizione del genere<br />

in questione). Alla luce di Australopithecus sediba, è ormai<br />

chiaro che occorre adottare un approccio anatomico più sistemico<br />

per rispondere a tali domande, oltre che un approccio<br />

contestuale che riconosca con chiarezza i punti di forza e<br />

di debolezza del contesto geologico di un reperto qualsiasi.<br />

Australopithecus sediba dimostra chiaramente che le dentizioni,<br />

altre parti strutturali associate alla masticazione e molte<br />

zone del resto dello scheletro non sono assolutamente adatte<br />

a porre interrogativi di tale natura – almeno nella linea evolutiva<br />

di Australopithecus sediba. Non è dunque irragionevole<br />

adottare un approccio altrettanto prudente nell’accostarsi a<br />

qualsiasi specie di primi ominini, finché non avremo fossili<br />

relativamente completi a dimostrare il contrario. Questo non<br />

significa certo che non esistano questioni significative a cui<br />

rispondere attraverso queste scoperte isolate e spesso frammentarie,<br />

ma solo che oggi riconosciamo come, in assenza di<br />

un contesto straordinario, alcuni interrogativi non possano<br />

trovare risposta in queste scoperte.<br />

Un altro fossile candidato a proporsi come più antico reperto<br />

attribuito al genere Homo è la mandibola isolata di UR<br />

501. Questo reperto soffre però di molte delle debolezze di<br />

A.L. 666 se applicato al problema delle origini del genere<br />

Homo. Anzi, per contesto e anatomia potrebbe essere considerato<br />

ancora più discutibile. Si tratta di una scoperta di superficie<br />

da un deposito lacustre e l’ipotesi di datazione, ottenuta<br />

solo per raffronto faunistico, parla di 2,4 milioni di anni<br />

(Schrenk et al., 1993). L’uso di una mandibola isolata per attribuire<br />

un esemplare a un genere è stato messo chiaramente<br />

in discussione dalla costellazione di morfologie riscontrate<br />

in Australopithecus sediba; la natura derivata della morfologia<br />

dentaria e mandibolare e la fauna associata a UR 501 non<br />

bastano ad attestare in modo indiscutibile una datazione tanto<br />

antica e potrebbero consentire di datare i fossili trovati<br />

nelle vicinanze dell’ominide al Pleistocene iniziale anziché al<br />

Pliocene terminale. Dunque neanche UR 501 risponde a<br />

6<br />

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6<br />

6<br />

quei criteri di evidenza straordinaria che occorre portare per<br />

suffragare la pretesa di essere il più antico rappresentante<br />

del genere Homo. Finché non saranno rinvenuti ominini fossili<br />

più completi e meglio contestualizzati, tali da consentire<br />

una datazione assoluta, anche questo importante reperto nei<br />

sedimenti del Malawi dovrebbe essere escluso dal dibattito.<br />

Conclusioni<br />

Di primo acchito Australopithecus sediba sembra complicare le<br />

nostre attuali conoscenze sulla comparsa dei primi esemplari<br />

di Homo, aggiungendo ancora un’altra specie, stavolta con un<br />

sorprendente mosaico di caratteri. Rimette in discussione ciò<br />

che credevamo di sapere sul passaggio evolutivo dalle ultime<br />

australopitecine ai primi riconoscibili membri del genere Homo<br />

intorno ai 2 milioni di anni fa. Ma se, dal dibattito sui candidati<br />

a proporsi come primi rappresentanti del genere Homo<br />

o come antenati dei suoi primissimi esponenti, escludiamo i<br />

fossili caratterizzati da dettagli anatomici isolati, ormai riconosciuti<br />

di insufficiente valore tassonomico, e anche i fossili<br />

provenienti da situazioni scarsamente contestualizzate, non ci<br />

resta molto altro da prendere in considerazione prima di 1,9<br />

milioni di anni fa oltre ai fossili di Malapa.<br />

In tale situazione, Australopithecus sediba potrebbe essere considerato<br />

semplicemente un progenitore di quelle forme successive<br />

con un cervello più grande attualmente attribuite a<br />

due specie distinte ma scarsamente conosciute, Homo rudolfensis<br />

e Homo habilis. Ma è anche possibile che in questi due<br />

taxa siano stati mischiati reperti di australopitecine e di appartenenti<br />

al genere Homo, creando una sorta di specie raccogliticcia.<br />

In un simile scenario, alcuni dei fossili attualmente<br />

assegnati a queste specie potrebbero inserirsi meglio nel genere<br />

Australopithecus, mentre altre potrebbero restare nei generi<br />

e nelle specie attribuite in origine. È anche evidentissimo<br />

che talune specie un tempo annoverate tra i potenziali antenati<br />

del genere Homo sono semplicemente di morfologia<br />

troppo avanzata per poter essere oggi considerate ancestrali<br />

della nostra linea evolutiva. In particolare per quanto riguar-


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da Australopithecus ghari, con la sua morfologia craniodentale<br />

così particolare e così simile a una tarda australopitecina iperrobusta,<br />

questa specie appare oggi un candidato assai improbabile<br />

come progenitore del genere Homo, o dello stesso Australopithecus<br />

sediba. È più plausibile che si tratti semplicemente<br />

di una variante delle australopitecine iper-robuste diffuse<br />

all’incirca nella stessa epoca in tutta la Rift Valley. A<br />

quanto pare, l’unica ragione per cui Australopithecus ghari fu<br />

inizialmente considerato un potenziale candidato sarebbe<br />

proprio la sua natura frammentaria e l’assenza, nella stessa<br />

regione geografica, di altri fossili morfologicamente adatti a<br />

essere considerati progenitori del genere Homo.<br />

Da tutto quanto detto finora consegue, come minimo, che,<br />

nella gara a rappresentare il più antico esemplare conosciuto<br />

del genere Homo, Australopithecus sediba dovrebbe essere considerato<br />

un candidato altrettanto probabile delle altre specie<br />

fossili – o dei singoli esemplari fossili – attualmente disponibili,<br />

e forse addirittura il miglior candidato in assoluto. E questo<br />

a prescindere dal fatto che Australopithecus sediba corrisponda<br />

o meno alle idee preconcette che abbiamo sull’aspetto<br />

che tale progenitore dovrebbe avere: tali preconcetti infatti<br />

si basano in larga parte sulle attestazioni fossili, estremamente<br />

frammentarie, di cui abbiamo parlato in precedenza e su<br />

un gran numero di fossili frammentati provenienti da contesti<br />

poveri dal punto di vista geologico e cronologico.<br />

Malgrado i limiti, ormai riconosciuti, imposti da Australopithecus<br />

sediba nell’uso di taluni particolari anatomici frammentari<br />

dei fossili di ominini quando si affrontano gli interrogativi<br />

sull’attribuzione a un genere, e forse anche a una<br />

specie, la paleoantropologia sta comunque vivendo una fase<br />

esaltante della sua storia. Non si era mai assistito prima, nella<br />

pratica, alla scoperta di resti così associati, in un contesto<br />

valido e in tempi così brevi. L’evoluzione dei metodi di datazione<br />

assoluta e delle tecniche di scavo ci permette di contestualizzare<br />

queste scoperte, soprattutto nella situazione sudafricana,<br />

come solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile.<br />

Alla ricchezza di queste scoperte più complete, tuttavia,<br />

deve far seguito il riconoscimento del fatto che oggi capiamo<br />

6<br />

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la grande complessità dell’anatomia dei primi ominini: occorre<br />

perciò particolare prudenza quando ci interroghiamo<br />

su alcuni aspetti di reperti spesso frammentari.<br />

Gli eccezionali scheletri di Australopithecus sediba ritrovati a<br />

Malapa dimostrano chiaramente che potremo continuare a<br />

trovare nei primi ominini un sorprendente e spesso imprevedibile<br />

mosaico anatomico: questo deve indurci alla massima<br />

cautela nelle nostre analisi e interpretazioni, le quali dovrebbero<br />

essere improntate a una sana prudenza, soprattutto<br />

quando si tratta di interpretare reperti più frammentari. La<br />

situazione è naturalmente destinata a migliorare poiché sempre<br />

più fossili – e sempre più completi – stanno venendo alla<br />

luce per ogni specie fra i primi ominini, fossili risalenti ad archi<br />

temporali diversi e in differenti aree geografiche del<br />

mondo. La situazione in cui ci troviamo oggi non è certo di<br />

disperazione, ma è anzi un invito forte e chiaro a proseguire<br />

nelle esplorazioni e negli scavi, verso la scoperta di fossili<br />

sempre migliori, in sempre migliori contesti.<br />

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