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PrecariEtà - Quattro racconti sul lavoro precario - Michele Vargiu

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<strong>Michele</strong> <strong>Vargiu</strong><br />

<strong>PrecariEtà</strong><br />

<strong>Quattro</strong> stagioni di vita precaria


Anna. Racconto d’autunno.<br />

Tutte le mattine io metto giù i miei piedi dal letto, e so già che si poggeranno su un<br />

filo. Non è facile, camminare <strong>sul</strong> filo; i movimenti devono essere lenti, meditati e mai<br />

precipitosi; tutto deve avvenire con la massima leggerezza ed economia di<br />

movimento, altrimenti il filo si eclisserà rapido da sotto i miei piedi, l’equilibrio mi<br />

abbandonerà e io farò la conoscenza del vuoto; e non ci sarà nulla, a riportarmi lassù,<br />

con i piedi <strong>sul</strong> filo.<br />

Io cammino <strong>sul</strong> filo ogni giorno. Cammino <strong>sul</strong> filo quando sono per strada, quando<br />

giro per casa, quando mangio, quando studio, quando <strong>lavoro</strong>. Perfino quando faccio<br />

l’amore, io cammino <strong>sul</strong> filo. In questo momento ad esempio io sto camminando <strong>sul</strong><br />

filo per andare dalla mia camera da letto fino alla cucina; è quasi ora di colazione, se<br />

non mi sbrigo rischierò di arrivare tardi. Neanche faccio in tempo a muovere i primi<br />

passi che subito il mio frigorifero mi si para davanti, mi guarda e mi parla. Pochi<br />

possono vantare di avere un frigo che parla; figuriamoci un frigo che ti parla quando<br />

sei in equilibrio su un filo.<br />

Il mio frigorifero mi parla mostrandomi la sua facciata ricoperta di post-it a loro volta<br />

ricoperti di appunti, orari, scadenze, liste della spesa; sbattendomi in faccia la sua<br />

fauna di coccinelle, elefantini, farfalle e altri animali magnetici che reggono bollette,<br />

avvisi, preventivi di spesa, lettere dell’amministratore di condominio. Il condominio<br />

dei funamboli, dove per i suoi corridoi, <strong>sul</strong>le scale, nei suoi cortili e nell’ascensore, si<br />

cammina tutti <strong>sul</strong> filo.<br />

Quando l’orologio segna le otto io sono già pronta; scendo per le scale e prendo la<br />

bici per andare in facoltà, come tutte le mattine; l’autunno ha il cielo grigio e l’aria<br />

umida e fredda, gli alberi scheletrici e le strade ricoperte di foglie, messe<br />

diligentemente a coprire l’asfalto di un unico colore; giallo, giallo, giallo, giallo,<br />

giallo.<br />

La strada la so a memoria; la faccio tutte le mattine da anni; corro veloce nonostante il<br />

freddo che mi graffia il viso, nonostante i semafori ancora lampeggianti e le macchine<br />

che se ne fottono dei ciclisti.<br />

Arrivo in facoltà e percorro gli stessi corridoi, le stesse scale, attraverso gli stessi<br />

androni. Arrivo dai miei colleghi e lui è già li.<br />

Ed è bellissimo. Nicola è sempre bellissimo.<br />

Oggi ha messo la camicia rossa. Quella che gli cade larga sui fianchi e lo ingrassa. Ma<br />

non importa. Nicola è bellissimo. Nicola è sempre bellissimo.<br />

Nicola studia da anni le proprietà delle cellule staminali. Lo fa in un laboratorio non a<br />

norma di legge, utilizzando un computer dai riflessi arrugginiti e dal cervello<br />

elettronico malato. Si porta il camice, i guanti e la mascherina da casa.<br />

Accanto a lui invece c’è Silvia, che fa le stesse cose che facciamo Nicola ed io.<br />

E poi ci sono io.<br />

Io mi chiamo Anna. E sono una ricercatrice precaria.


Sono una di quei tanti cervelli che hanno rinunciato alla fuga. Una degli oltre<br />

duecentomila ricercatori precari di questo Paese che lavorano senza mezzi, senza<br />

sicurezza, senza un soldo; sono una di quelle che il cervello non potrebbero mandarlo<br />

in fuga nemmeno nascondendolo dentro un treno merci clandestino, nemmeno su uno<br />

di quei barconi della speranza che attraversano il mediterraneo.<br />

Io resto qui, insieme a tanti altri, a raggranellare i cocci della ricerca, a lottare con i<br />

computer senza memoria, ad attraversare i laboratori in punta di piedi nella speranza<br />

di non farmi male, muovendomi piano. Come se camminassi <strong>sul</strong> filo.<br />

Noi stiamo qui. I nostri cervelli non fuggono. I nostri corpi restano in bilico, come<br />

foglie ingiallite attaccate al loro ramo. In equilibrio <strong>precario</strong>, con la sensazione di<br />

crollare senza avere mai la certezza del quando.<br />

Poi una mattina d’autunno mi svegliai come al solito, e come al solito poggiai i miei<br />

piedi <strong>sul</strong> filo; come al solito il mio frigorifero aveva qualcosa da dirmi, come al solito<br />

le strade erano dipinte di giallo, come al solito la mia facoltà non si era mossa da li.<br />

Solo che in quella mattina d’autunno dal tetto dell’edificio spuntava un grande<br />

striscione: “università occupata, contro I tagli alla ricerca”.<br />

Percorro i corridoi, bianchi come il cielo che sta fuori; era autunno ma a me pareva di<br />

sentire caldo; e nonostante, come già sapete, io cammini <strong>sul</strong> filo, andavo cosi’ veloce<br />

da rischiare di perdere l’equilibrio; I laboratori erano vuoti, cosi’ come tutto il resto<br />

delle aule; percorrevo le scale senza nemmeno vederle, fino ad arrivare <strong>sul</strong> tetto,<br />

l’unico posto della mia università in cui non ero mai stata.<br />

Nicola era li. E insieme a lui Silvia. E Antonio, Andrea, Marta, e tutto il gruppo di<br />

ricercatori che lavorano con me. Avevano attrezzato il tetto come fosse un piccolo<br />

campo base, formato da tende da campeggio portate da casa, sacchi a pelo, piccole<br />

stufette a gas, un fornellino per il caffè.<br />

C’erano stati gli ennesimi tagli del ministero dell’istruzione alla scuola e alla ricerca;<br />

una mossa come un’ altra per giustificare la situazione di crisi economica di un paese<br />

che pretende di andare avanti distruggendo la ricerca, tenendo i suoi cervelli alla fame<br />

e spronandoli a fare sempre di più con mezzi assenti.<br />

Col tempo avevamo imparato a conoscerli tutti, i signori del Governo; li avevamo<br />

etichettati come i personaggi di una favola oscura: la ministra dell’ignoranza Maria<br />

Strega, il Ministro della Pubblica Amministrazione ReNano Brunetta, fino ad arrivare<br />

a sua bassezza, il premier del paese dell’intelligenza stuprata e dei cervelli in fuga .<br />

Per la prima volta, su quel tetto, ci sentivamo tutti parte di una famiglia unita dalla<br />

disgrazia dell’instabilità; precari, insicuri, senza futuro. Come morti che camminano.<br />

Come piccole foglie ingiallite attaccate ad un ramo per un tempo limitato ma che<br />

nessuno conosce. Ci sentivamo deboli ma forti, intelligenti, meritevoli, compatti. La<br />

nostra permanenza <strong>sul</strong> tetto andò avanti per giorni;<br />

dopo qualche tempo vennero a trovarci anche gli eroi della favola oscura; politici<br />

dell’opposizione, uomini di cultura, altri precari come noi, studenti, tecnici, docenti.<br />

Qualcuno invece si ostinava a dire che fossimo la parte peggiore del paese, di quel<br />

paese che sa solo lamentarsi senza rimboccarsi le maniche. Noi da lassù li vedevamo


tutti, i nostri oppositori; e ci sembravano piccoli, insignificanti come formiche che si<br />

muovono mosse dalla legge del caos.<br />

Sapevamo di essere i custodi del progresso del paese. Sapevamo benissimo che senza<br />

ricerca, conoscenza, cultura, un paese non risparmia, ma diventa spaventosamente più<br />

povero. Sapevamo di avere ragione. Lo sappiamo ancora.<br />

Le nostre idee non sono morte. I nostri cervelli non fuggono. Restano qui, ad aspettare<br />

il freddo dell’inverno, i primi profumi della primavera, I venti secchi dell’estate.<br />

Restiamo qui senza muoverci, come foglie ingiallite che prima di staccarsi dal proprio<br />

ramo vorrebbero vedere nascere nuovi germogli.<br />

Io mi guardo intorno, e vedo tutti I colori del mondo su di un tetto in catrame, sbattere<br />

<strong>sul</strong> bianco lattiginoso del cielo. Vedo Nicola che è sempre bellissimo.<br />

E sogno un giorno di potergli dare la mano. Sogno un giorno che ci si possa togliere il<br />

filo da sotto i piedi senza cadere.<br />

E che si possa andare.<br />

Non importa dove, ma andare.<br />

Insieme.<br />

E senza muoverci da qui.


Salvatore. Racconto d’inverno.<br />

Mi chiamo Salvatore.<br />

Da bambino mi dicevano sempre che vengo dal paese dei Santi, dei Poeti e dei<br />

Navigatori.<br />

Anche se in realtà i santi mi stanno bene solo inchiodati al muro, ognuno<br />

corrispondente ad un diverso giorno dell’anno, ognuno osservatore silenzioso del<br />

tempo che passa, dell’alternarsi delle fasi lunari, dei cambi di stagione.<br />

Le poesie mi annoiano.<br />

Pure alle elementari ti insegnano che una frase, per essere corretta, deve avere un<br />

soggetto, un verbo e un complemento. Altrimenti te la segnano in blu, e come minimo<br />

è un punto in meno <strong>sul</strong> voto finale.<br />

Navigare non mi è mai venuto facile. Credo che la colpa sia da attribuire al fatto che il<br />

mare l’ho sempre visto in cartolina e mai da troppo vicino.<br />

In compenso da qualche tempo navigo <strong>sul</strong>la rete, specialmente di notte. Vado a<br />

navigare sui siti zozzi. Quelli pieni di donne che fanno acrobazie zozze con uomini,<br />

altre donne, animali, piante e organismi geneticamente modificati, è cosi’ che li<br />

chiamano. Quelli pieni di finestrelle che si aprono, e dentro ogni finestrella c’è una<br />

donna seminuda che ammicca, ti guarda intensamente negli occhi e ti fa cenno di<br />

raggiungerla. Ti dice anche frasi provocanti in una lingua che non capisci, ma che<br />

interpreti come le frasi più zozze e bollenti che una donna ti abbia mai rivolto. Nei siti<br />

zozzi vedo un sacco di cose che nemmeno in sogno mi sarei potuto immaginare; cose<br />

degne della fantasia del primo Spielberg, ingarbugliamenti e incastonamenti umani<br />

inimmaginabili che formano un immenso patchwork fatto di carne; spuntano<br />

convulsamente braccia, gambe, labbra, clitoridi e prepuzi di varie forme, etnie e<br />

religioni.<br />

Un po’ mi vergogno a guardare tutto questo, a violare la privacy di quelle persone<br />

appiccicate tra di loro che un privato, da qualche parte, dovranno pur avercelo; ma per<br />

me è come vedere un documentario. Mi sento come uno di quegli studiosi rinchiusi<br />

nei laboratori di ricerca, che per anni spiano degli animali ignari da dietro un vetro.<br />

Mi sento come se partecipassi ad una lunga conferenza, dove i relatori sono nudi e<br />

disinvoltamente appiccicati fra di loro, e tengono i loro discorsi dimenandosi e<br />

gemendo. Questo almeno è quello che mi viene in mente di notte.<br />

Durante il giorno mi piace andare nei posti affollati; nei centri commerciali, nei<br />

supermercati, nei grandi outlet dell’abbigliamento o nei capannoni dei cinesi in fondo<br />

alla periferia, pieni di persone entusiaste che comprano il nulla a prezzi imbattibili.<br />

Ma la cosa che mi piace fare più di tutte è stare davanti alle casse del supermercato, a<br />

guardare la merce degli altri scorrere <strong>sul</strong> tapis-roulant per poi essere scansionata,<br />

imbustata, scontrinata.<br />

-Ha la tessera? Vuole un sacchetto? Non si scordi i bollini.


Si capiscono tante cose, guardando i prodotti che compra la gente. Ad esempio il<br />

signore che ho di fronte in questo momento ha comprato un’insalata già lavata,<br />

tagliata ed imbustata, delle fette di prosciutto sottovuoto, del pane già affettato e della<br />

pasta surgelata, quella che con cinque minuti di padella diventa buona come la pasta<br />

surgelata del ristorante.<br />

Io capisco subito che dev’essere un uomo solo, che non ha una famiglia, una moglie a<br />

casa che l’aspetta; è uno di quegli uomini che mangiano l’insalata in busta senza<br />

nemmeno condirla, direttamente dal sacchetto come se si trattasse di un pacchetto di<br />

patatine, magari davanti alla televisione che trasmette qualche amichevole di calcio.<br />

La signora dietro di lui invece ha un carrello pieno di cibo, e cassette incellophanate<br />

d’acqua in bottiglia, assorbenti interni ed esterni, lattine di birra, shampoo e<br />

bagnoschiuma in dosi da caserma, sughi pronti, frutta, verdura e olio biologico in<br />

taniche di latta. Capisco subito che è una madre di famiglia, una che quando tornerà a<br />

casa avrà ad aspettarla un marito e dei figli stronzi che nemmeno le daranno una mano<br />

a scaricare la spesa.<br />

Come cambiano, le persone. Come sono diverse fra loro. Pure quando sono al<br />

supermercato, mi sento un po’ come quando sto dietro al monitor che trasmette i film<br />

zozzi. Mi sento un osservatore della natura, del comportamento umano.<br />

La mia vita però a pensarci bene non è stata un solo osservare. Ho lavorato per tanti<br />

anni io, ma ora, non <strong>lavoro</strong> più.<br />

Lavoravo in una azienda che produceva motori elettrici. Stavo alla catena di<br />

montaggio; ero l’operaio più veloce, quello più abile con le mani; “la mano del<br />

chirurgo”, mi chiamavano, perché non sbagliavo mai ad assemblare un pezzo,<br />

nemmeno quando il caporeparto aumentava il ritmo di produzione, facendoci scorrere<br />

i pezzi sotto gli occhi a velocità sempre maggiore.<br />

All’interno della fabbrica mi ero circondato di amici ma anche di invidie, malelingue,<br />

frasi dette sottovoce, quando magari sei girato di spalle, ma in fondo che me ne<br />

importava. Io il mio <strong>lavoro</strong> lo facevo bene. Per trent’anni, l’ho fatto bene.<br />

Poi è successa la disgrazia. E quando in fabbrica ti capita una disgrazia, quando cioè<br />

la macchina, la pressa, il rullo, la sega circolare decidono di farti un dispetto, il tuo<br />

cammino all’interno della fabbrica si arresta di colpo. Diventi all’improvviso come<br />

uno zoppo in mezzo ad un branco di centometristi. Non riesci più a stare al passo. E la<br />

fabbrica, da brava mamma selettiva coi suoi cuccioli, ti butta via. Lascia sopravvivere<br />

gli altri. La mia disgrazia è stata quella di farmi schiacciare quattro dita della mano<br />

destra, la mia “mano da chirurgo”, sotto il peso di una pressa. Forse è stato per il<br />

sonno, forse per la distrazione. <strong>Quattro</strong> dita adesso non le ho più, e non avevo nessuna<br />

assicurazione che pagasse i danni. Perché io, nella fabbrica, avevo sempre lavorato in<br />

nero. Per trent’anni. E quando c’è stato da chiedere i danni, quando sarebbe dovuto<br />

arrivare il momento di sollevare un polverone, io non ho fatto niente. Che il dottor<br />

Angelucci, il padrone della fabbrica, è un sant’uomo. E’ uno che pur di farmi lavorare<br />

ha rischiato di perdere la faccia ,per trent’anni. Che battaglie avrei potuto fare,<br />

arrivato a cinquant’anni; per me questo è l’inverno. Se non è la fine, poco ci manca.<br />

La cosa brutta del ritrovarsi a cinquant’anni con il peso della disgrazia <strong>sul</strong>le spalle e<br />

quattro dita in meno di una mano che fino al giorno prima funzionava bene, è la


consapevolezza di non servire più. Di non poter più sentirsi utili. Della mia “mano da<br />

chirurgo” era rimasto solo un pollice. Bello, il pollice. Il dito più forte. Quello piu’<br />

tozzo e più resistente.<br />

Il dottor Angelucci, una volta che mi allontano’ dalla fabbrica, mi diede una piccola<br />

liquidazione, un malloppetto stropicciato di soldi estratti direttamente dalla tasca sua.<br />

E quando quei soldi finirono cominciai a cercare un nuovo <strong>lavoro</strong>, un’occupazione<br />

anche piccola che potesse fare a meno della mia mano disgraziata. Un posto da<br />

operaio potevo scordarmelo; tutti i lavori che trovavo erano posti da venditore<br />

telefonico, con un contratto che nemmeno capivo; era una specie di <strong>lavoro</strong> a cottimo,<br />

dove piu’ telefoni e piu’ centesimi guadagni, e vai avanti cosi’, per otto, anche dodici<br />

ore al giorno, di centesimo in centesimo, davanti a uno schermo senza piu’ film zozzi,<br />

ma pieno di numeri dei “gentili clienti”, suddivisi in caste in base a quanti soldi<br />

l’azienda prevedeva di potergli spillare dal portafogli.<br />

Avro’ fatto trenta colloqui. E in tutti la risposta era la stessa: troppo vecchio, anche<br />

solo per parlare al telefono. Ci vogliono voci giovani, brillanti, che invoglino la gente<br />

a fidarsi. “Mi dispiace signore, ma è la politica dell’azienda”.<br />

Largo ai giovani. Largo ai giovani precari, magari laureati, confinati nello spazio fra<br />

uno schermo e un auricolare. Largo ai giovani. E per coloro che non sono più giovani<br />

restino solo briciole, guai e merda, un’intera vita di merda aspettando che arrivi<br />

l’inverno, quello definitivo.<br />

Ogni tanto faccio qualche piccolo lavoretto. Piccole riparazioni per le signore del mio<br />

palazzo, fatte con la mano sinistra e quel che resta di quella destra. A volte ci<br />

guadagno un buon pranzo, di quelli fatti ancora come Cristo comanda, senza pasta<br />

surgelata e insalata in sacchetto. Altre volte qualcuna mi paga con soldi veri. Io<br />

saluto, vado verso la porta, e prima di richiudere ringrazio e saluto ancora. E vado<br />

verso il supermercato.<br />

-Ha la tessera? Vuole un sacchetto? Non si scordi i bollini.<br />

Fuori comincia a nevicare. E’ finalmente arrivato l’inverno. Io passo i miei prodotti<br />

<strong>sul</strong> nastro scorrevole della cassa. C’è un signore di fronte a me che guarda la mia<br />

spesa, conta con gli occhi le cose che ho comprato e sta in silenzio. Chissà che idea si<br />

sarà fatto di me. Per un attimo ho la sensazione di sentirmi meno solo. Metto la mia<br />

spesa dentro il sacchetto ed esco dal supermercato, sotto questa prima neve d’inverno.<br />

Lancio al signore un’ultima occhiata che però cade nel vuoto; i suoi occhi stanno già<br />

studiando la spesa del signore che era dietro di me. “E’ giusto cosi’”, penso. E torno<br />

verso casa incrociando uomini, donne, e ragazzi di belle speranze. Tutti che si<br />

muovono in fila ed in silenzio. Ognuno con gli occhi bassi. Ognuno custode della<br />

propria disgrazia.


Marco. Racconto di primavera.<br />

Ci sono due mosche che ronzano davanti al monitor del computer.<br />

Io le guardo rincorrersi, avvicinarsi e allontanarsi di colpo; e fra me e me penso che se<br />

solo per un istante si potesse evidenziare la loro traiettoria nell’aria con un<br />

qualsivoglia colore, sarebbero uno spettacolo piu’ divertente delle frecce tricolori.<br />

Volano in cerchio, poi in ordine sparso, poi si fermano nuovamente <strong>sul</strong>la superficie<br />

dello schermo, una di fronte all’altra, esattamente come due pugili che si studiano<br />

durante un incontro.<br />

Certo che se potessi essere io una mosca, se potessi avere il dono di poter volare via<br />

quando mi pare e piace, mi cercherei un posto migliore dove stare.<br />

Ma d’altronde, penso, in fondo le mosche sono mosche.<br />

E chi le ha mai capite, le mosche.<br />

In un certo senso, a quelle due mosche sventurate sono riconoscente; con tutti i<br />

monitor che ci sono qui dentro, hanno scelto proprio il mio per esibirsi nelle loro<br />

acrobazie; e mi ritrovo li a guardarle, e nel mentre che le guardo non penso a<br />

nient’altro che a loro; cerco di farmi piccolo piccolo per poterle capire meglio, per<br />

sentirmi anch’io un pochino più mosca, per capire quanta fatica si faccia nel volare<br />

cosi’ in fretta, e quanta determinazione ci voglia, per faticare cosi’ tanto e potersi<br />

rifocillare solo mangiando cadaveri e merda.<br />

Ma proprio nel mentre che sono completamente calato nel ruolo della mosca, il<br />

monitor cambia improvvisamente colore; io perdo le mie ali immaginarie da mosca,<br />

cado sbattendo il culo per terra, e torno al mio <strong>lavoro</strong>.<br />

“Servizio clienti, sono Marco, mi dica”.<br />

Questo è il mio <strong>lavoro</strong>. Che poi io non mi chiamo neanche Marco. Ma dopo un po’<br />

ho capito che il nome Marco ai clienti piace, dà sicurezza e tutti se lo ricordano in<br />

fretta; se per esempio durante una telefonata cade la linea, il cliente può sempre<br />

richiamare e chiedere di Marco. Tutti i miei colleghi sanno che io qui dentro sono<br />

Marco. Mentre il vero Marco, che lavora a pochi metri da me, si fa chiamare<br />

Antonio. Abbiamo il nome d’arte. E tutti conosciamo il nome d’arte di tutti.<br />

Io con i clienti sono gentile. Mi piace parlare con la gente. “Pronto, servizio clienti,<br />

sono Marco, mi dica”. E tu, cliente, puoi dirmi tutto. Tant’è che la gente mi chiama<br />

per dirmi proprio di tutto. Mi chiamano gli studenti che fanno sega a scuola, le<br />

casalinghe frustrate, i mariti insoddisfatti in cerca di consigli. A volte gli amanti delle<br />

donne bollenti che pero’ le donne bollenti, nella vita reale, non se le possono<br />

permettere. Ogni tanto chiamano anche i clienti che hanno dei problemi tecnici. Non<br />

che io li sappia risolvere, i problemi tecnici. Io di telefonia non ci capisco niente. Ma<br />

d’altronde, non si può pretendere che una telefonata ti salvi la vita.<br />

Per ogni cliente che chiama il mio guadagno si aggira fra i 20 e i 50 centesimi, con<br />

punte massime di 80 centesimi, se la chiamata supera i 2 minuti. Ma se la chiamata<br />

dovesse durare, ad esempio, dieci, venti, trenta, cento minuti, il mio guadagno sarebbe<br />

sempre di 80 centesimi. Lordi.


I nostri clienti sono tutti schedati e catalogati. Quando un cliente mi chiama, <strong>sul</strong><br />

monitor del computer io vedo già se è un tipo “gold”, “silver” o “copper”. Un cliente<br />

“gold” è un cliente d’oro, che fa guadagnare soldi all’azienda, da trattare in guanti<br />

bianchi; un cliente silver è un cliente d’argento; un po’ meno nobile del precedente,<br />

ma ugualmente degno di rispetto. Mentre il “copper” è un cliente di rame. Il peggior<br />

cliente che si possa trovare; è il cliente micragnoso, che non spende mai una lira e che<br />

chiama per ogni fesseria. Per ogni tipologia di cliente c’è un trattamento diverso; guai<br />

a chi concede troppo tempo ai clienti copper, o a chi cazzeggia troppo <strong>sul</strong>la<br />

postazione; ci pensano gli AST a ristabilire l’ordine. Gli AST sono gli Assistenti di<br />

Sala. Gente che sta un gradino sopra noi altri. Generalmente si tratta di ex telefonisti<br />

come me, che leccando i culi giusti sono riusciti a guadagnarsi una posizione che gli<br />

consente di girare in abito, scarpe lucide e cravatta ogni giorno di un colore diverso.<br />

Gli AST fanno unicamente gli interessi dell’azienda, spronando il personale a<br />

lavorare di più in ogni situazione. Io, quando passano gli AST, faccio sempre di si con<br />

la testa, mentre mentalmente li mando affanculo.<br />

Dopo otto ore stacco il turno e torno a casa dai miei. A tren’anni vorrei potermene<br />

andare a stare per conto mio, magari con Irma, la mia fidanzata. Ma come si fa a farsi<br />

una vita con quattrocentocinquanta euro al mese, quando una casa in affitto non ne<br />

costa meno di seicento.<br />

Ogni volta che apro la porta di casa e mio padre incappa nei miei occhi spenti mi<br />

guarda e cerca di farmi coraggio, ripetendomi sempre la stessa frase. Dice che io sono<br />

uno fortunato; fortunato ad avere i miei cinquecento euro al mese, che lui quando era<br />

giovane era talmente povero da non avere nemmeno gli occhi per piangere.<br />

Io gli occhi per piangere li avrei. Ma a me, da piangere, non viene mai.<br />

Dopo otto o dodici ore di “pronto sono Marco mi dica” e di luce del monitor sugli<br />

occhi, non ho più voglia di fare niente. A casa evito persino di rispondere al telefono.<br />

Anche perché risponderei dicendo “servizio clienti, sono Marco, mi dica”. Ormai il<br />

corpo va in automatico.<br />

Mangio qualcosa davanti al telegiornale. Mio padre commenta ogni notizia ad alta<br />

voce, si gira verso di me in attesa di un segnale, di un gesto, un rantolo di<br />

approvazione o disaccordo. Ma io non dico mai niente. Sto con gli occhi bassi e do<br />

per l’ennesima volta a mio padre l’opportunità di formulare le sue teorie sui suoi<br />

tempi, <strong>sul</strong>la mia fortuna, e sui miei occhi per piangere.<br />

Vado nella mia stanza e mi sdraio <strong>sul</strong> letto. Guardo la mia laurea in lettere,<br />

incorniciata e appesa <strong>sul</strong> muro di fronte, complemento d’arredo utile come i souvenir<br />

dei viaggi, le foto di famiglia, le chincaglierie dei cinesi in plastica che sembra<br />

ceramica. Tutti oggetti che occupano uno spazio, che arredano, e dei quali non ci<br />

accorgiamo più.<br />

Mi addormento.<br />

In questi giorni faccio spesso sogni ribelli, incazzati e strani. Sarà colpa della<br />

primavera in arrivo, penso. In questi sogni mi capita di sognare il mio call center in<br />

cui gli AST girano per chiederti come stai, offrirti un caffè, una sigaretta, o invitarti a<br />

una partita di calcetto; altre volte sogno il direttore in persona che mi porge un<br />

contratto a tempo indeterminato, che mi stacca quell’auricolare dalle orecchie e


comincia a farmi esprimere liberamente, senza dovermi presentare dicendo “sono<br />

Marco, mi dica”.<br />

Altre volte invece sogno delle rivolte sindacali, in cui con tutti i miei colleghi ci<br />

alziamo e smettiamo di lavorare, usciamo nel cortile dell’azienda, strozziamo gli AST<br />

con le loro cravatte e urliamo “Vaffanculo” al direttore, prendiamo possesso<br />

dell’edificio e rileviamo l’azienda con un golpe autorganizzato. E poi sogno un <strong>lavoro</strong><br />

giusto per tutti noi che ammuffiamo li dentro come topi da laboratorio, sogno di<br />

potermi presentare a casa di Irma con il mazzo di rose più grande che lei abbia mai<br />

pensato di ricevere, sogno di baciarla <strong>sul</strong>la porta di casa e di urlare a tutti che voglio<br />

passare la mia vita con lei; sogno di potermi dimenticare gli occhi per piangere e di<br />

avere solo occhi per ridere. Sogno un futuro migliore.<br />

E so, una volta sveglio, che dovrò lottare per averlo.<br />

Nel frattempo, contate pure su di me.<br />

In fin dei conti, noi ci conosciamo già.<br />

Sono Marco.<br />

Servizio clienti.<br />

Pronto.<br />

Mi dica.


Carla. Racconto d’estate.<br />

La telecamera inquadra il volto teso della concorrente; i suoi occhi lucidi, le mani<br />

sudate che non riescono a stare ferme, la bocca che non riesce a chiudersi.<br />

Il conduttore suda vistosamente, tiene gli occhi sgranati e le mani giunte; cerca di<br />

rassicurare la concorrente parlandole della vita, del prezzo delle scelte, del coraggio<br />

delle responsabilità. Le parla come un amico, mentre un grande orologio alle sue<br />

spalle segna gli ultimi istanti di una agonia che sembrava potesse non finire mai.<br />

La concorrente decide. Il tempo scade. Ha scelto di cambiare il pacco.<br />

Vittoria.<br />

La concorrente piange. Abbraccia il conduttore, che piange pure lui. Tutti<br />

applaudono, e se potessero tutti abbraccerebbero tutti.<br />

Fine.<br />

Pubblicità.<br />

“Anche questa sera hanno guardato il solito programma scemo”, penso io.<br />

Anche questa sera l’hanno commentato ad alta voce, anche questa sera si sono fatti<br />

travolgere dall’entusiasmo e anche questa sera pure loro avrebbero abbracciato la<br />

concorrente, augurandole ogni bene per la sua partenza verso il nuovo, luccicante<br />

mondo dei ricchi, proprio come si faceva tempo fa per chi invece partiva povero verso<br />

il Nuovo Mondo dei poveri.<br />

Credo che i miei genitori, anche se tanto giovani, si annoino; e d’altronde non è facile<br />

riempire il tempo, quando intorno a te non accade mai niente.<br />

Non che qui da me le cose cambino molto; però, ogni tanto, io mi concedo il gusto<br />

della novità; oggi ad esempio ho scoperto di avere delle mani, e di poterle muovere<br />

come voglio.<br />

Credo che questa sia una scoperta degna di nota, no?<br />

Voglio dire, credo che con le mani si possano fare un sacco di cose; talmente tante<br />

che per riassumerle non basterebbe nemmeno un enorme libretto di istruzioni!<br />

Avrei voluto rendere partecipi tutti di questa scoperta sensazionale; ma qui non c’è<br />

mai anima viva.<br />

- C’è nessuno? – Mi chiedo ogni tanto.<br />

Ma ogni volta, mai nessuna riposta; qui è tutto liquido, tiepido e ovattato.<br />

Qui ci sono sempre e solo io. E insieme a me c’è mia sorella. Ma mia sorella dorme<br />

sempre. Non fa testo.<br />

Secondo il dottore che fruga dentro la mamma, io e mia sorella dovremmo nascere il<br />

ventisette di agosto. Ma in realtà io e mia sorella sappiamo benissimo che nasceremo<br />

il quattro settembre. Il quattro settembre del duemilaundici.


Io poi so anche che mi chiamerò Carla. E mia sorella sa benissimo che si chiamerà<br />

Barbara. Io e mia sorella siamo già entrate nell’ordine di idee che non appena verremo<br />

alla luce ci saranno un sacco di persone intorno a noi che non vedranno l’ora di<br />

prenderci in braccio, farci delle facce spaventose e cantarci una sfilza raccapricciante<br />

di filastrocche e canzoncine sceme. Fa tutto parte di un rischio calcolato; d’altronde,<br />

siamo noi che abbiamo scelto di nascere; sapevamo a cosa saremmo andate incontro.<br />

Una anticipazione spesso ce la da nostro padre, quando alla sera, al termine del<br />

programma scemo, si inginocchia davanti al pancione della mamma, lo accarezza, gli<br />

parla e e lo sfiora con l’orecchio, come se volesse origliare. Noi ce lo siamo già<br />

immaginato, il nostro grande papà. Con un po’ di pancetta, la camicia azzurra e una<br />

cravatta buffa, diversa ogni settimana; i capelli in ordine, un po’ di barba, e mani<br />

grandi e forti. La mamma invece ce la immaginiamo bellissima, con lunghi capelli, la<br />

pelle candida e lineamenti dolci come dune di sabbia.<br />

La nostra mamma lavorava in una ditta privata di spedizioni fin dai tempi in cui noi<br />

eravamo grandi quanto una ciliegia. Poi io e Barbara abbiamo incominciato a<br />

crescere, e con noi pure la pancia della mamma cresceva. E più questa cresceva, più il<br />

<strong>lavoro</strong> della mamma diminuiva. Fino a quando la mamma al <strong>lavoro</strong> non ci andò più.<br />

Restò a casa in maternità, ma con un diritto di maternità che non andava al di là della<br />

rotondità morbida della sua pancia; semplicemente la mandarono a casa, senza<br />

motivazioni, senza garanzie, senza niente. Da allora la nostra mamma lavora al suo<br />

romanzo: una sorta di storia complicata dove c’entrano gli antichi romani e tutti gli<br />

imperi che hanno conquistato negli anni. La mamma è sempre stata forte in storia.<br />

Non ha studiato che questo per tutta la vita.<br />

Papà invece è un insegnante; ma non un insegnante qualsiasi. Il nostro papà è un<br />

insegnante speciale. Il nostro papà aiuta a studiare tutti quei bambini che per loro<br />

sfortuna hanno un cervello che cammina fra le nuvole, più lento e distratto degli altri.<br />

Guai a chiamare “diversi” quei bambini di fronte a papà. Una volta, a pranzo, la<br />

nonna li chiamò in quel modo e lui si arrabbiò moltissimo. La puni’ offrendole doppia<br />

razione del suo budino al cioccolato. “Suo” in quanto comprato da lui nel discount<br />

sotto casa, aperto e servito come fosse una sua, geniale, creazione.<br />

Mamma e papà ogni tanto discutono, e parlano dell’affitto, delle bollette da pagare,<br />

delle spese che dovranno affrontare quando noi verremo al mondo; quando ci sono<br />

queste discussioni pure Barbara, che dorme in continuazione, si sveglia. Gira la testa<br />

lentamente, mi guarda, e con gli occhi mi sussurra : “Che c’è?”<br />

La mia sorellina ha due occhi grandi e bellissimi. E mi sento orgogliosa di poter<br />

essere ancora la sola a poterli vedere. Io la guardo e le sorrido, come per volerle dire<br />

di non preoccuparsi, che non c’è niente di cui aver paura. Lei sorride a sua volta, si<br />

raggomitola su se stessa, e torna a dormire.<br />

Mamma e papà invece continuano; continuano a parlare, a discutere, a preoccuparsi.<br />

Papà allenta il nodo della sua cravatta buffa. La mamma lo ascolta cercando di<br />

pensare ad altro: agli abitini del nostro corredo, ai commenti delle sue amiche, ai<br />

sistemi per riacquistare la linea dopo il parto, alle espressioni del conduttore del<br />

programma scemo; papà le dice che stanno eliminando tutti gli eroi dei bambini coi<br />

cervelli fra le nuvole, tutti gli insegnanti di sostegno come lui; dice che vogliono<br />

radunarli in una specie di ghetto per tenerli lontani dalla vita dei bambini normali.


Dice anche che rischierà di perdere il <strong>lavoro</strong>. Anche lui, proprio come la mamma.<br />

Dice anche che la situazione non è buona.<br />

Poi, smette improvvisamente di parlare.<br />

La mamma lo guarda.<br />

Lui guarda la mamma.<br />

E nel silenzio si prendono per mano, si baciano e si stringono cosi forte da stringere<br />

anche noi.<br />

Sussurrano insieme.<br />

“Ce la faremo”, dice la mamma.<br />

“Ce la faremo”, risponde papà.<br />

E si baciano ancora.<br />

Io rimango ad ascoltarli e sorrido perché so che nascerò fra due persone che si amano,<br />

nonostante le ingiustizie, le difficoltà, nonostante l’imbecillità, nonostante tutto.<br />

Guardo mia sorella dormire felice e mi chiedo a quanti minuti di distanza nasceremo<br />

l’una dall’altra; mi chiedo chi sarà la prima, mi chiedo quanta strada potremmo fare<br />

insieme, mi chiedo se davvero valga la pena venire al mondo.<br />

E continuo a rispondermi comunque di si, nonostante tutto.<br />

Poi penso che ogni cosa sia destinata a cambiare, a muoversi, ad animarsi di vita<br />

nuova, proprio come la mia mano che mi è apparsa solo questa mattina; e penso anche<br />

che con il tempo il mondo diventerà anche nostro, e più il tempo continuerà a passare<br />

e più potremo continuare ad appropriarcene. Penso ad un futuro che appartenga a noi<br />

e non alle regole che vorrete imporci. Penso che rispetto a tutto ciò che di marcio ci<br />

lascerete, noi saremo sempre infinitamente più libere e veloci.<br />

Talmente veloci, da non permettervi di prenderci mai.<br />

©<strong>Michele</strong> <strong>Vargiu</strong> 2011 – www.michelevargiu.com

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