Il pulque delle popolazioni messicane - Giorgio Samorini Network
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<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />
Dalle origini ai periodi coloniali<br />
<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong><br />
Triana Ediciones
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />
Dalle origini ai periodi coloniali<br />
<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong><br />
Triana Ediciones<br />
Sevilla<br />
1
Immagine di copertina:<br />
rafgurazione della pianta di Agave (maguey) chiamata<br />
quámetl (da Francisco Hernández,1571-6, Historia<br />
Natural de Nueva España, Libro VIII, Capitolo LXXXII)<br />
2012<br />
Triana Ediciones<br />
Plaza Don Salesiano Ubaldo 9, 2B<br />
41010 Sevilla (España)<br />
2
Indice<br />
<strong>Il</strong> maguey e il <strong>pulque</strong> .......................................................................... 4<br />
La preparazione del <strong>pulque</strong> ..................................................... 6<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi pre-ispanici ..................................................... 12<br />
Associazioni simboliche .......................................................... 13<br />
Modalità d'uso .......................................................................... 17<br />
Aspetti mitologici ed etnostorici ............................................ 21<br />
Usi rituali .................................................................................. 24<br />
<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong> ........................................................................ 32<br />
<strong>Il</strong> problema degli additivi del <strong>pulque</strong> ............................................... 35<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi coloniali ........................................................... 46<br />
Appendici<br />
I - Mito d'origine del maguey ................................................. 53<br />
II - La leggenda di Xóchitl ....................................................... 55<br />
III - L'ubriachezza di Quetzalcoátl ......................................... 59<br />
IV - La classifcazione dei maguey di Hernández ................. 65<br />
Note ...................................................................................................... 72<br />
Bibliografa …...................................................................................... 77<br />
3<br />
p.
<strong>Il</strong> maguey e il <strong>pulque</strong><br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> è un prodotto della fermentazione della linfa di alcune specie di piante<br />
succulente del genere Agave della famiglia <strong>delle</strong> Agavaceae, 1 estesamente coltivate in<br />
diverse regioni del Messico. <strong>Il</strong> nome generico azteco dell'agave era metl, quello della linfa<br />
necutli, mentre quello del <strong>pulque</strong> era octli. Difusi nomi messicani sono maguey per<br />
l'agave e aguamiel per la linfa.<br />
Le numerose specie di agave sono state una fonte<br />
inesauribile di acqua, miele, bevande alcoliche, aceto,<br />
nonché di prodotti manifatturieri e medicinali, al punto<br />
che il gesuita José de Acosta nel 1590 (Libro IV, Cap.<br />
XXIII) descrisse il maguey come el árbol de las<br />
maravillas (“l'albero <strong>delle</strong> meraviglie”). E' anche vero,<br />
come scrisse Alejandro de Humboldt (1822, IV, IX), che<br />
“la maggior parte dei popoli civilizzati ha ricavato le sue<br />
bevande dalle medesime piante che costituiscono la<br />
base della sua alimentazione, le cui radici o semi<br />
contengono il principio zuccherino unito alla sostanza<br />
amilacea”, e tale è stato anche il caso <strong>delle</strong> piante di<br />
agave nel Messico precolombiano.<br />
Le piante di maguey sono state usate sin dalla remota<br />
antichità come fonte di acqua, in particolare nelle estese<br />
aree aride del Messico, e fn verso la fne del 1800 in<br />
specie di Agave<br />
famiglia <strong>delle</strong> Agavaceae<br />
alcune regioni sono state l'unica fonte idrica. Durante il<br />
secolo XVIII alcuni villaggi messicani, fra cui Tlayaca-<br />
4
pan, Malinalco, San Pedro Ostotepec, si sottrassero alle tasse del maguey e del <strong>pulque</strong><br />
imposte dal governo coloniale, dando come concreta motivazione il fatto che le piante del<br />
maguey erano ancora utilizzate in quei luoghi come unica fonte di acqua e non per la<br />
produzione di <strong>pulque</strong> (Hernández Palomo, 1979: 4-5).<br />
Un altro utilizzo d'importanza storica del maguey fu come fonte saccarina, in quanto<br />
dalla sua linfa, fatta evaporare, si ricavava una sostanza dolciastra, di color scuro,<br />
chiamata miele di maguey, ampiamente usata nei tempi pre-cortesiani, accanto ai prodotti<br />
zuccherini già noti a quei tempi ricavati dalle api e dalla canna da zucchero. La<br />
concentrazione di zuccheri in alcune specie di maguey raggiunge quella della canna da<br />
zucchero, ma nei tempi coloniali e in quelli successivi la loro estrazione non raggiunse<br />
mai il valore economico della canna da zucchero, per via dell'esteso utilizzo del maguey<br />
per la preparazione della bevanda inebriante del <strong>pulque</strong>.<br />
I Nahua utilizzavano tutte le parti della pianta per diversi scopi manifatturieri: dalle<br />
foglie si ricavava carta e un tessuto per vestiti, oltre ad essere impiegate come buon<br />
combustibile; dalle sue fbre rigide si otteneva un flo – noto in Europa col nome di pita –<br />
con cui si costruivano funi, corde e stofe; con le spine si facevano aghi, spilli e chiodi; la<br />
radice cucinata era un alimento nutriente; dalla linfa si ricavavano, oltre al <strong>pulque</strong> e al<br />
miele, un aceto e certi pani di zucchero (cfr. ad es. Motolinía, Historia, III, 19, 439-448;<br />
Hernández, Historia, VIII, LXXI).<br />
Per quanto riguarda le proprietà medicinali, sia le parti della pianta che la linfa e il<br />
<strong>pulque</strong> sono stati impiegati per il trattamento di un cospicuo numero di infermità, un<br />
fatto riportato già dai primi cronisti europei. Sahagún (XI, VII, 74) segnalava l'esistenza<br />
di una specie di maguey chiamata teómetl (“maguey divino”), caratterizzata dall'aver gli<br />
orli <strong>delle</strong> foglie di color giallo, il cui succo <strong>delle</strong> foglie cotte era usato nella preparazione di<br />
una medicina utile per coloro che sofrivano di ricadute da malanni. In un passo<br />
successivo (XI, VII, 155) riportava che il succo della foglia arrostita del maguey giovane<br />
riposta sulle piaghe le cura, così come la foglia del maguey seccata e macinata, mescolata<br />
con resina di pino e collocata sulle parti del corpo doloranti allieva la soferenza. Anche<br />
Hernández (Libro VIII, Cap. LXXI) aveva riportato che le foglie cucinate e in<br />
applicazione topica favoriscono la chiusura <strong>delle</strong> ferite, curano le convulsioni e calmano i<br />
dolori fsici, mentre la linfa “favorisce le regole, calma il ventre, provoca l'urina, pulisce i<br />
reni e la vescica, rompe i calcoli e lava le vie urinarie”. Motolinía (III, 19, 444) riportava<br />
che la foglia<br />
“è molto salubre per una coltellata o per una piaga fresca, presa una foglia e<br />
gettata nelle braci ed estratto il succo così caldo è ottimo per il morso di vipera;<br />
5
devono prendere da questi maguey piccoli della dimensione di un palmo e la radice<br />
che è tenera e bianca ed estrarvi il succo, e mescolato col succo di assenzi di questa<br />
terra, e lavare la morsicatura, poi guarisce; questo io l'ho visto sperimentare ed<br />
essere vera medicina; ciò si intende quando la morsicatura è fresca”.<br />
L'uso medicinale della linfa di maguey più difuso fra le varie <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />
era nel trattamento <strong>delle</strong> afezioni gastriche e renali (Hernández Palomo, 1979: 12).<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> veniva ampiamente impiegato come liquido madre dove farvi disciogliervi i<br />
vari prodotti medicinali. Sahagún (XI, VII, 155) riportava che “il maguey di questa terra,<br />
specialmente quello chiamato tlacámetl, 2 è molto medicinale in ragione della linfa che se<br />
ne estrae, il cui <strong>pulque</strong> viene mescolato con molte medicine da assumere per bocca”.<br />
Motolinía (Trat. III, 19, 440) scriveva che “tutte le medicine che si devono bere sono date<br />
ai malati con questo vino; posto nella sua tazza o coppa vi gettano sopra la medicina che<br />
applicano per la cura e salute del malato”. Martín de la Cruz (1552, F55r e F60r) riportava<br />
che nel <strong>pulque</strong> venivano versati i vari medicinali utili per il trattamento dei pidocchi e<br />
come lattogoghi, mentre per facilitare il parto dava la seguente ricetta: la partoriente “può<br />
bere un preparato nel <strong>pulque</strong> di sterco macinato di falco e di anatra e un poco di coda<br />
dell'animale chiamato tlacuatzin [piccolo marsupiale]. <strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> deve essere dolce” (ibid.,<br />
F57v). Ancora oggigiorno il <strong>pulque</strong> viene usato tradizionalmente per scopi curativi.<br />
Guerrero (1985: 72) ha riportato che “in uno dei quartieri di Itzmiquilpan, nello stato<br />
messicano di Hidalgo, vidi come a una persona punta da un ragno diedero da bere <strong>pulque</strong><br />
con disciolto dell'escremento umano, un fatto che provocò un grande vomito,<br />
assicurando i familiari che con quello gettava via il veleno del ragno.”<br />
La preparazione del <strong>pulque</strong><br />
Le specie di maguey (Agave) sono numerose e non tutte sono utili per ricavarne il<br />
<strong>pulque</strong>. 1 Francisco Hernández (1571-6) ne riportò 18 specie. L'areale di coltivazione del<br />
maguey <strong>pulque</strong>ro si estende su tutti gli altipiani centrali del Messico, dove il terreno è per<br />
lo più argilloso, duro e poco umido. Anche nei luoghi umidi il maguey da <strong>pulque</strong> cresce<br />
rigoglioso e vi viene coltivato, ma la bevanda che se ne ricava è di qualità inferiore ed è<br />
chiamata in questo caso tlachique.<br />
La pianta del maguey deve avere un'età di almeno 6-10 anni (a seconda della specie<br />
coltivata e <strong>delle</strong> modalità di coltivazione) afnché produca sufcienti quantità di linfa e<br />
6
una concentrazione di zuccheri del 10%. Quando raggiunge la maturità fsiologica, la<br />
pianta produce la parte sessuale: dal suo centro si erge un lungo fusto che può raggiungere<br />
l’altezza di 6-8 metri con in cima il fore; questo fusto forifero è chiamato bohordo o<br />
quiote.<br />
Pianta di Agave con il lungo fusto forifero (quiote)<br />
Quando la pianta sta per forire le grandi foglie radicali, che sino a quel momento erano<br />
inclinate verso il terreno, si alzano e si avvicinano fra loro, mentre la parte centrale della<br />
pianta assume un colore verde chiaro e si gonfa. E' questo il momento tanto atteso per<br />
“castrare” (capar) la pianta con lo scopo di estrarre la linfa con la quale produrre il<br />
<strong>pulque</strong>. L'operazione viene eseguita da una persona esperta, la quale taglia le spine laterali<br />
<strong>delle</strong> foglie vicine al “cuore” (mexollotl), che viene quindi asportato con un cucchiaio<br />
aflato (íztetl, “unghia”). La parte tagliata via è chiamata “uovo” ed è usata come cibo,<br />
cotto o stufato in diversi modi; ha un sapore gradevole e leggermente amaro. Una volta<br />
“castrato” il maguey, si possono iniziare a raspare le pareti del foro praticato al centro per<br />
ottenere l’aguamiel, che viene succhiato con l’acocote, una specie di zucca. Quando la linfa<br />
è stata estratta, si raspa il fondo del tronco con un raschietto di metallo, ottenendo così<br />
del materiale fbroso (carnaza) che serve da foraggio per i maiali (Guerrero, 1985: 70).<br />
I cicli lunari erano e sono tutt'ora importanti per la raccolta dell'aguamiel. La pianta<br />
viene “castrata” quando la luna è crescente e il fusso di fuoriuscita del liquido varia a<br />
seconda <strong>delle</strong> fasi lunari.<br />
7
E' stato erroneamente ipotizzato che il raccoglitore di aguamiel (chiamato tlachiquero,<br />
voce nahua che proviene da tlaxiki , “raschiare il maguey”), nel succhiarlo con l'acocote,<br />
contamini con la sua saliva la linfa appena succhiata, inducendo in tal modo una<br />
fermentazione di tipo insalivata; tuttavia, ad una più attenta osservazione dell'operazione<br />
di suggere la linfa, la zucca (acocote) dalla parte del succhiatore ha una forma leggermente<br />
rigonfa che impedisce alla linfa di raggiungere le sue labbra. La zucca usata per la suzione<br />
viene fatta seccare e vengono praticati due fori alle sue due estremità; la parte estrema più<br />
larga è appoggiata alle labbra del tlachiquero, mentre a quella più esile viene applicato un<br />
corno di toro perforato ed è in tal modo inserita nel foro praticato nella pianta pieno di<br />
linfa.<br />
<strong>Il</strong> naturalista Francisco Hernández (Libro I, Cap. XXV)<br />
descrisse la pianta dell'ococotli, in alcune regioni del<br />
Messico chiamata anche xalacotli, ofrendone un disegno<br />
e riportando che “con i suoi internodi gli indios estraggono<br />
il vino di metl dalle cavità praticate nel tronco e<br />
nelle quali distilla”.<br />
Una volta estratto l'aguamiel, il tlachiquero tappa con<br />
una pietra o con <strong>delle</strong> foglie della medesima pianta il<br />
foro praticato nel suo centro – foro chiamato picazón –<br />
onde evitare che qualche animale vi si introduca per<br />
berne la linfa. La pianta continua a produrre linfa per<br />
molto tempo (sino a sei mesi), producendone giornalmente<br />
3-4 litri, una quantità che è periodicamente<br />
raccolta dal tlachiquero (Guerrero, 1985: 70-1). In<br />
La pianta dell'acocotli<br />
(da Hernández, I, XXV)<br />
pratica, nella cavità praticata si accumula la quantità di<br />
linfa che la pianta aveva preparato per far crescere<br />
l'enorme fusto forifero.<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> che inizia a fermentare, spumeggiante, è chiamato itzli. A fermentazione<br />
maturata la bevanda è chiamata <strong>pulque</strong> bianco, in nahua tiçauctli. La raccolta<br />
dell'aguamiel è eseguita mediamente due volte al giorno, una alla mattina e una alla sera;<br />
in alcuni casi si efettuano tre raccolte diarie, come riportava Humboldt (IV, IX):<br />
“comunemente ogni pianta produce tutti i giorni quattro decimetri cubici di linfa, che<br />
equivalgono a 8 cuartillos, 3 tre all'alba, due a mezzogiorno e tre al tramonto”. Doveva<br />
apparire davvero un evento straordinario (una maravilla) alle antiche <strong>popolazioni</strong><br />
<strong>messicane</strong> questa abbondanza di liquido prodotto da una pianta che cresce in ambienti<br />
aridissimi e più volte rocciosi, dove l'acqua era introvabile.<br />
8
Sinistra: Un tlachiquero (raccoglitore di maguey) estrae la linfa (aguamiel) dalla pianta<br />
del maguey succhiandola mediante una zucca allungata perforata (acocote) (da Guerrero,<br />
1985). Destra: disegno di estrazione dell'aguamiel dal maguey, di Claudio Linati,<br />
1828, Trajes civiles, militares y religiosos en México, lamina 38, riportato in Hernández<br />
Palomo, 1979, fg. 2.<br />
La linfa viene trasportata nei luoghi di fermentazione del <strong>pulque</strong> chiamati tinacal, dove<br />
è depositata in olle di argilla, tini di legno o in caratteristici recipienti di cuoio di bue<br />
montati su un supporto di legno, chiamati toros (“tori”). In questi contenitori viene<br />
lasciata una piccola quantità di <strong>pulque</strong> vecchio, chiamato “piede” o “madre” del <strong>pulque</strong>, in<br />
nahua xinaxtli, che facilita l'innesco della fermentazione alcolica. In breve tempo si viene<br />
a formare un “<strong>pulque</strong> soave”, dolciastro; con l’aumentare della fermentazione la bevanda<br />
acquista una maggiore gradazione alcolica, diventando un “<strong>pulque</strong> forte”.<br />
La pianta del maguey “castrata” per la raccolta della linfa è destinata a morire e le sue<br />
parti seccate vengono usate per lo più come carburante per il fuoco. Prima di morire,<br />
attraverso le sue radici la pianta fa germinare attorno a se numerose plantule (chiamate<br />
mecuate o mesontet), che vengono raccolte dai coltivatori e ripiantate in luoghi e a<br />
distanze adatte per far crescere nuove piante per le future raccolte di linfa.<br />
Ruiz de Alarcón (1629, III, I) riportò una maniera “superstiziosa” (seguendo<br />
l'interpretatio cattolica) per il trapianto <strong>delle</strong> plantule di maguey dalle aree non coltivate ai<br />
campi coltivati. I nativi si premunivano di tabacco, che usavano in qualunque occasione<br />
rituale e a cui “afdavano” il compito che stavano per svolgere; quindi raccoglievano un<br />
bastone aguzzo con il quale aferravano i piccoli maguey e nel mentre rivolgevano al<br />
9
astone la seguente orazione:<br />
“Forza, che è già tempo, spiritato, la cui felicità sta nelle acque, andiamo che<br />
dobbiamo aferrare ed estrarre la stimabile donna, quella ordinata in otto, che devo<br />
andare a piantarla, voglio metterla in un luogo molto adatto e molto fertile che le ho<br />
pulito, lì devo riporla dove le piacerà stare e alla quale ofro la miglioria del nuovo<br />
luogo”.<br />
La pianta del maguey era chiamata la “stimabile donna” in riferimento a Mayáhuel, la<br />
dea del maguey da cui questa pianta originò, come riportato più avanti negli aspetti<br />
mitologici; Alarcón considerava l'ordinamento in otto come una maniera di disporre il<br />
campo coltivato in flari di otto piante, ma quest'interpretazione è discutibile. 4<br />
Con la venuta degli Spagnoli e le loro<br />
tecniche di distillazione in Messico, dal<br />
<strong>pulque</strong> si iniziò a distillare un liquore<br />
chiamato mezcal o aguardiente di maguey.<br />
In realtà, per la produzione di mezcal si<br />
utilizzano specie di agave diferenti da<br />
quelle usate per la produzione di <strong>pulque</strong>. La<br />
combinazione di mezcal con aguamiel si<br />
chiama chinguirito o chínguere. Si beve<br />
molto nella regione del Mezquital, fra<br />
Durango e Zacatecas.<br />
Nelle piante del maguey vivono diversi<br />
animali inferiori, fra cui larve e vermi. In<br />
particolare, vivono due vermi, l'uno di color<br />
rosso (chiamato attualmente chinicuil) e<br />
Tina di <strong>pulque</strong> con in evidenza la spuma<br />
bianca prodotta dalla fermentazione<br />
(da Hernádez Palomo, 1979, fg. 5)<br />
l'altro di colore bianco o dorato (chiamato<br />
anticamente meocuili), che sono utilizzati<br />
come additivi, più che altro folkloristici, del<br />
mezcal, specie nello stato messicano di<br />
Hoaxaca, principale centro produttivo del mezcal. Nei tempi moderni a questi vermi sono<br />
attribuite proprietà afrodisiache, non confermate tuttavia scientifcamente. Questi<br />
animaletti sono noti sin dai tempi pre-ispanici, come confermano le note a loro riguardo<br />
riportate da Sahagún (Historia, XI, V, 81-82) e da Motolinía (Historia, III, 19, 447). Già a<br />
quei tempi era costume tostarli, aggiungervi sale e mangiarli. Ancora oggigiorno nello<br />
10
stato di Hoaxaca sono tostati e macinati con sale, ricavandone una miscela chiamata sal<br />
de gusano, usato come condimento. In un rapporto del 1791, il naturalista Antonio<br />
Pineda riferiva dell'uso di vermi del maguey chiamati tecolio, di color carneo, che<br />
venivano a quei tempi tostati, ridotti in polvere e mescolati nel <strong>pulque</strong>; tuttavia, nel<br />
rapporto non è stato specifcato né il motivo né l'area geografca di presenza di tale<br />
pratica (Wilson, 1963: 508).<br />
11
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi pre-ispanici<br />
In lingua nahua le piante di agave erano chiamate col nome generico metl. <strong>Il</strong> vocabolo<br />
maguey sembra essere originario <strong>delle</strong> Antille; una considerazione già presente nelle<br />
cronache del periodo della Conquista. Ad esempio, Motolinía (III, XIX, 440) riportava<br />
che “Metlh è un albero o cardo che nella lingua <strong>delle</strong> isole si chiama maguey”. Hermán<br />
Cortés, il conquistatore degli Aztechi, riferiva che nel mercato di Temixtitan (Tenochtitlan)<br />
aveva visto vendere “miele ricavato da certe piante che chiamano nelle altre isole<br />
maguey”. 5 Probabilmente maguey deriva direttamente dai termini taino meguey e<br />
magheih che designano le piante di agave. 6<br />
Per quanto riguarda l'etimologia della parola <strong>pulque</strong>, essa è stata oggetto di controversie<br />
per via di un errore di inversione cronologica da parte di alcuni scrittori del passato,<br />
chiarito in seguito da Cecilio Robelo (1948: 451-4) e ridiscusso da Gonçalves da Lima<br />
(1986: 13-4). Clavijero (1807: 435) aveva notato come il termine <strong>pulque</strong> fosse presente<br />
anche nella lingua araucana del Cile, dove designa una bevanda fermentata ricavata dalle<br />
mele, e la ritenne quindi originaria del sud America, pur non riuscendo a spiegare come<br />
fosse giunta presso le <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong> di lingua nahua. In realtà furono gli<br />
Spagnoli a portare dal Messico questo termine in sud America. La parola <strong>pulque</strong> è molto<br />
probabilmente un barbarismo dei medesimi Spagnoli, derivante dal termine azteco<br />
poliuhqui, che designava la bevanda nel suo stato avariato. La bevanda del <strong>pulque</strong>,<br />
chiamata dagli Aztechi octli o iztacoctli (“vino bianco”), si conserva per poco tempo e<br />
inizia ad avariarsi dopo 24-36 ore, diventando poliuhqui; i primi Spagnoli, all'udire<br />
frequentemente quest'ultimo termine, lo avranno verosimilmente considerato in maniera<br />
erronea come la parola azteca per la bevanda, trasformandolo quindi nel barbarismo<br />
<strong>pulque</strong>.<br />
12
Associazioni simboliche<br />
Per quanto riguarda l'uso rituale e religioso del <strong>pulque</strong>, la principale fonte di informazioni<br />
è l'opera di Bernardino de Sahagún, Historia General de las Cosas de Nueva España,<br />
compilata nel trentennio 1547-1577, di cui qui è utilizzata principalmente la versione<br />
curata da Ángel María K. Garibay.<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era utilizzato in diverse feste religiose, nei riti battesimali, nelle feste del<br />
raccolto, così come nei numerosi sacrifci umani che si svolgevano nel corso di tutto il<br />
calendario religioso azteca. Ma non a tutti era concesso bere <strong>pulque</strong>, così come appare<br />
chiaro, pur dai dati confusi dei primi cronisti, che v'era una rigida diferenziazione<br />
d'utilizzo di diversi tipi di <strong>pulque</strong> – e conseguenti diferenti efetti inebrianti: dai <strong>pulque</strong><br />
riserbati alla casta prelatizia, a quello specifco per le vittime umane destinate ai sacrifci,<br />
ai <strong>pulque</strong> permessi al popolo in determinati momenti collettivi. I primi cronisti spagnoli<br />
riportarono scene di ubriachezza collettive che spesso sfociavano in stati di delirio, di<br />
furore e di prostrazione, probabilmente dovuti, più che all’efetto alcolico del <strong>pulque</strong> (che<br />
di per se non supera i 4 gradi), all’aggiunta alla bevanda di particolari vegetali che ne<br />
raforzavano e ne modifcavano gli efetti.<br />
Nella preparazione della bevanda erano impiegate diverse specie di maguey,<br />
riconosciute dai Nahua come “maguey bianco”, “maguey grande”, “maguey divino”,<br />
“maguey azzurro”, ecc., ciascuna <strong>delle</strong> quali produceva un tipo distinto di <strong>pulque</strong> e questa<br />
diferenziazione era destinata ad aumentare con l’aggiunta, come detto, dei diversi<br />
additivi e rinforzanti. Una sifatta variabilità nella qualità del <strong>pulque</strong> e nelle relative<br />
proprietà psicoattive, si rispecchia nella moltitudine di divinità associate a questa<br />
bevanda. Esse corrispondono alla famiglia dei centzontotochtlin, i “quattrocento conigli”,<br />
“i numerosi dei del <strong>pulque</strong>”, che possono tutti essere individualmente denominati “dueconiglio”<br />
(ome tochtli); questo era il nome generico degli dei del <strong>pulque</strong>. Nella cultura<br />
nahua il numero quattrocento era impiegato come forma aggettivale indicante “molti” o<br />
“moltitudine”.<br />
<strong>Il</strong> coniglio era strettamente associato alla luna e all'ebbrezza. Come presso altre<br />
<strong>popolazioni</strong> americane, i nahua ritenevano che le macchie scure che si vedono sulla faccia<br />
della luna piena rafgurassero un coniglio. Nei Codici la luna è rafgurata simbolicamente<br />
come un vaso riempito di un qualche liquido e al suo interno è disegnato il più<br />
<strong>delle</strong> volte un coniglio o, più raramente, una piccola conchiglia o una pietra focale.<br />
Secondo la cosmogonia nahua, il coniglio fu scaraventato sulla faccia della luna da<br />
Papátzac, una <strong>delle</strong> divinità del <strong>pulque</strong> (González Torres, 1972).<br />
13
Rafgurazione della luna nel<br />
Codice Vaticano B, p. 29<br />
L'associazione fra il maguey e la luna fu osservata dai<br />
tlachiqueros, i raccoglitori di aguamiel, che avevano<br />
notato una sua maggiore afuenza nei periodi di luna<br />
crescente, e quest'associazione è ben evidenziata nei<br />
Codici in alcune rafgurazioni della pianta del maguey.<br />
Nel Codice Vaticano B (originario di una regione di<br />
Puebla o Tlaxcala), all'interno di un maguey è disegnato<br />
un recipiente rovesciato – rafgurante la luna – ornato di<br />
gioielli e pieno di un liquido dove si vede un pesce che<br />
beve sul fondo del recipiente. <strong>Il</strong> liquido rappresentato è<br />
quasi certamente l'aguamiel. Anche in una famosa ed<br />
enigmatica rafgurazione nel Codice Borgia della dea del<br />
maguey, Mayáhuel, è rafgurato un pesce che succhia dal suo seno.<br />
Gonçalves da Lima (1986: 134) ha interpretato la presenza di questi pesci in associazione<br />
col maguey considerando che “nella peregrinazione nahua il maguey fu una fonte di<br />
sopravvivenza fondamentale come portatrice di linfa, assunta sia come bevanda che come<br />
alimento.” Ma quest'interpretazione sembra essere inadeguata e la relazione fra pesce e<br />
maguey è probabilmente più profonda, sebbene resti inspiegata. Guerrero (1985: 79) ofre<br />
una considerazione che può risultare utile per la<br />
comprensione di questa associazione simbolica.<br />
Ancora oggigiorno “i conoscitori del <strong>pulque</strong>,<br />
quando la bevanda è di ottima qualità, dicono<br />
che 'è latte della vergine' o che 'è come il latte<br />
della vergine', senza che queste espressioni siano<br />
considerate blasfeme. Si tratta di un’espressione<br />
folclorica, popolare, vernacolare e anonima,<br />
appresa per trasmissione orale e trasmessa di<br />
generazione in generazione dall’epoca preispanica<br />
e relativa, con tutta sicurezza, alla<br />
rappresentazione della dea Mayáhuel in forma di<br />
maguey divinizzata e umanizzata, e la cui secrezione,<br />
l’aguamiel, fu chiamata 'latte di Mayahuel'<br />
per allattare un pesce, come è possibile vedere<br />
nel Codice Borgia”. Le piante di maguey erano viste come rappresentazioni della fgura<br />
femminile di Mayáhuel.<br />
Come osservato da Ruiz de Alarcón (1629, III, I), i contadini dediti alla coltivazione del<br />
14<br />
Rafgurazione di Mayáhuel che allatta<br />
un pesce, Codice Borgia, 16
maguey e alla raccolta del <strong>pulque</strong> seguivano diverse “superstizioni” durante le varie<br />
operazioni agricole. Dopo aver praticato la “castrazione” per la raccolta dell'aguamiel,<br />
rivolgevano la seguente orazione al cucchiaio di rame che serviva per raschiare la cavità<br />
appena ricavata al centro della pianta:<br />
“Forza, che è già tempo, fai il tuo lavoro, chichimeco vermiglio. Forza, ora raschia<br />
e pulisci la tua opera, devi entrare nel luogo del cuore della donna una di otto in<br />
flare, fai in modo che abbia la carnagione molto pulita e lascia che pianga, che<br />
diventi melanconica e faccia molte lacrime e suda in maniera che esca un ruscello<br />
dalla femmina una di otto in flare”.<br />
L'aguamiel che fuoriesce dalla cavità è considerato il pianto della donna-pianta, di<br />
Mayáhuel, per via della sua “uccisione” causata dall'asportazione del suo “cuore”. Secondo<br />
Alarcón “una di otto in flare” si riferisce alla maniera di disporre il campo di coltivazione<br />
in flari di otto piante. Tuttavia Johansson (1996: 82) analizza un canto nahua dedicato al<br />
dio del <strong>pulque</strong> Tezcatzoncátl in cui questa divinità viene aggettivata come “flare di venti”;<br />
“una di otto in flare” e “flare di venti” hanno entrambi la radice nahua tecpantli, che è un<br />
aggettivo neutro per contare le persone (o le divinità) di venti in venti sino ad arrivare a<br />
quattrocento, un numero che riporta direttamente alle 400 divinità del <strong>pulque</strong>. Quindi,<br />
queste forme aggettivali numeriche, lungi dal rappresentare disposizioni <strong>delle</strong> piante del<br />
<strong>pulque</strong> nei campi, sarebbero associate a modalità di enumerazione <strong>delle</strong> divinità del<br />
<strong>pulque</strong> che ci risultano comunque criptiche.<br />
Come già anticipato, il coniglio era strettamente associato anche con l'ebbrezza indotta<br />
dalle piante e dalle bevande psicoattive e, di conseguenza, con il <strong>pulque</strong>. Nello stato<br />
messicano di Hidalgo odiernamente si tramanda la credenza popolare che il primo<br />
ubriaco fu un coniglio che si avvicinò a una pianta di maguey, “saziò la sua sete, si sedette<br />
sul suo corpo raccolto, si dondolò e rimase disteso, scena che da quel giorno anche molti<br />
uomini rappresentarono, rappresentano e continueranno a rappresentare” nel bere il<br />
<strong>pulque</strong> (Guerrero, 1985: 33). Fra i Totonachi vi sono riferimenti a un uso rituale di <strong>pulque</strong><br />
miscelato con sangue di coniglio (ibid., :58). Presso gli Aztechi v'era la maniera di dire<br />
“quel tale si inconigliò”, per riferire di una persona che aveva subito un grave incidente,<br />
come cadere da un dirupo o addirittura uccidersi a causa della sua ubriachezza. V'era<br />
anche il modo di dire che “quell'ubriacatura è il suo coniglio”, per intendere che a quel tale<br />
la bevanda inebriante fa in quello specifco modo (Sahagún, IV, IV, 8).<br />
Sahagún (in buona parte in I, XXII, 3) riporta diversi nomi di dei del <strong>pulque</strong>: Tezcatzóncatl,<br />
Izquitécatl, Yiauhtécatl, Acolhoa, Tlilhoa, Pantécatl, Yzquitécatl, Toltécatl, Papáz-<br />
15
tac, Tlaltecaiooa, Ometochtli, Tepoztécatl, Chilmalpanécatl, Colhoatzíncatl. Nell'iconografa<br />
queste divinità si riconoscono per l'insieme congiunto dei seguenti caratteri:<br />
tengono in mano un'ascia di ossidiana, sul naso portano un monile a forma di mezza luna<br />
crescente e sul capo un pennacchio di piume di airone e di quetzal, hanno orecchie<br />
rettangolari, portano un ventaglio sulla schiena, <strong>delle</strong> campanelle nei piedi e indossano<br />
sandali di gomma. Ognuno di questi caratteri rappresentato isolatamente non è indicativo<br />
degli dei del <strong>pulque</strong> (Maher, 1997).<br />
Sinistra: Tepoztecatl, divinità del <strong>pulque</strong>. Codice<br />
Magliabecchiano, foglio 49r (in Bankmann, 1984, fg.<br />
11, p. 318). Sopra: Tezcatzoncatl, una <strong>delle</strong> divinità<br />
del <strong>pulque</strong>. Codice Fiorentino, libro I, appendice, cap.<br />
16, fol. 40 recto<br />
<strong>Il</strong> monile indossato al naso di queste divinità rappresenta un grafema chiamato<br />
yacametztli (Naso-Luna); è un glifo dalle origini arcaiche e comuni per le culture azteca e<br />
maya ed è indicativo della luna crescente. Nelle sue varie evoluzioni grafche lo si ritrova<br />
anche nell'iconografa maya per indicare la bevanda del balché. Lo yacametztli era<br />
originalmente associato all'idromele, sia presso i Maya che presso gli Aztechi, un fatto che<br />
dimostra una connessione concettuale fra la primissima bevanda alcolica ricavata dal<br />
miele d'api e le bevande alcoliche maggiormente elaborate del balché e del <strong>pulque</strong>, dove<br />
venivano aggiunti ingredienti rinforzanti l'efetto psicoattivo: per il balché la corteccia di<br />
un Lonchocarpus e per il <strong>pulque</strong> le radici di ocpatli e altri ingredienti tutt'ora indeterminati<br />
dal punto di vista botanico. Gonçalves da Lima (1986: 39) ha inferito che “prima<br />
della scoperta dell'ocpatli il <strong>pulque</strong> era una bevanda che quasi non si distingueva molto<br />
16
Modalità d'uso<br />
dal vecchio idromele, ottenuto dalla diluizione del miele<br />
di api, e ci fu una fase in cui le due bevande si confusero<br />
molto probabilmente in una medesima designazione,<br />
quella molto antica di quauhnecutli, miele d'albero, il<br />
miele fuido <strong>delle</strong> api.”<br />
Yacametzli, geroglifco del <strong>pulque</strong>. Dal<br />
Codice Magliabecchi, XII, 3, 4 verso<br />
La preparazione del <strong>pulque</strong> da parte di personale specializzato, che Sahagún per lo più<br />
riunisce sotto il generico nome di “osti”, doveva rispettare un insieme di precetti e tabù.<br />
Ad esempio:<br />
“gli osti si cimentavano nel fare un buon vino, e per questo si astenevano dalle<br />
donne per quattro giorni, poiché ritenevano che se si fossero avvicinati a una donna<br />
in quei giorni il vino si sarebbe acetato e danneggiato; si astenevano anche durante<br />
quei quattro giorni dal bere pulcre, incluso il miele da cui si fa, nemmeno bagnando<br />
il dito in esso portandolo alla bocca, sino a che non si fosse dato inizio il quarto<br />
giorno alla cerimonia detta sopra.<br />
Avevano come auspicio che, se qualcuno beveva il vino, anche solo poco, prima<br />
che si eseguisse la cerimonia di apertura degli orci come sopra detto, che gli si<br />
sarebbe storta la bocca da un lato, per colpa del suo peccato.” (Sahagún, I, XXI, 21-<br />
22).<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era bevuto in un bicchiere caratteristico, chiamato ometochtecomatl (Vaso-<br />
Due-Coniglio) o più semplicemente octecómatl, fabbricato per lo più in pietra o, più raramente,<br />
in argilla. <strong>Il</strong> recipiente, che aveva una forma grezzamente rotondeggiante, si innestava<br />
sopra tre piedi ed era dotato di due manici opposti con una caratteristica forma di<br />
ali di farfalla.<br />
L'immagine di questo recipiente è presente in numerosi contesti iconografci; sugli<br />
scudi dei guerrieri così come nello stemma degli dei del <strong>pulque</strong> – l'ometochtlauiztli – al<br />
cui centro è ben riconoscibile anche il simbolo della mezza luna crescente, lo yacametztli.<br />
17
Sinistra: Octecómatl, bicchiere per il <strong>pulque</strong>. Conservato presso il Museum für Völkerkunde di Basilea<br />
(catalogo IV b 707) (in Bankmann, 1984, fg. 1, p. 314). Destra: Octecómatl, bicchiere per il <strong>pulque</strong>.<br />
Conservato presso il Museum für Völkerkunde di Berlino (catalogo IV Ca 3364) (in Bankmann, 1984,<br />
fg. 3, p. 315)<br />
<strong>Il</strong> medesimo vaso octecómatl è pure presente in un<br />
tipo di mantello indossato dai principi e dai gerarchi<br />
guerrieri, come disegnato nei Codici e descritto con<br />
minuzia di particolari nel presente passo di Sahagún<br />
(VIII, VIII, 5):<br />
“Usavano anche alcuni mantelli che si<br />
chiamavano ome tochtecomayo tilmatli; erano<br />
decorati con alcune chicchere molto elaborate<br />
e molto belle, che avevano tre piedi e due ali<br />
come di farfalla; il bicchiere era rotondo,<br />
colorato e nero, le ali verdi, bordate di giallo,<br />
con tre sferule gialle in ciascuna; il collo di<br />
questa chicchera era fatto come una marquesota<br />
di camicia [collo alto di tela bianca che<br />
usavano gli uomini come indumento<br />
Lo stemma (divisa) degli dei del ornamentale], con quattro canne che uscivano<br />
Pulque. Da Sahagún, Manoscritto<br />
da sopra, lavorate di penna azzurra e rossa; e<br />
della Biblioteca de la Academia de la<br />
Historia, Madrid, Folio 74r.<br />
queste chicchere erano disseminate in un<br />
campo bianco. Avevano nei due orli anteriori<br />
due strisce rosse, con alcune strisce trasversali bianche, di due in due.”<br />
In un diferente passo (II, XXXVIII, 8) il medesimo autore riporta l'utilizzo di un<br />
18
Mantelli con disegno di bicchiere per il <strong>pulque</strong>. Dettaglio del Foglio<br />
46r del Codice Mendoza (in Backmann, 1984, fg. 9, p. 318)<br />
bicchiere per il <strong>pulque</strong> simile al precedente, chiamato tzicuiltecómatl, anch'esso di pietra,<br />
che aveva quattro lati e tre piedi.<br />
Ogni volta che veniva preparato il <strong>pulque</strong>, la prima<br />
produzione, chiamata uitztli, era oferta come primizia<br />
a Huitzilpopochtli ed era versato negli octecómatl, da<br />
dove i vecchi a cui era permesso bevevano con <strong>delle</strong><br />
canne (Sahagún, IV, XXI, 5). Gonçalves da Lima (1986:<br />
39-40) ha fatto notare come in una fase arcaica dell'uso<br />
del <strong>pulque</strong> non esisteva ancora l'octecómatl, bensì erano<br />
usati contenitori per il miele d'api, un fatto che conferma<br />
l'associazione precedentemente indicata fra il <strong>pulque</strong><br />
primitivo e il più antico idromele.<br />
Sempre Sahagún (I, XXI, 13), nel descrivere le<br />
immagini fabbricate per le divinità, riporta lo strano<br />
uso di contenitori per il <strong>pulque</strong> fatti con certe zucche e<br />
che erano poi ritualmente considerati di pietra:<br />
Tiçocyahuacatl, capo guerriero,<br />
Codice Mendoza, dettaglio foglio 65r<br />
(in Bankmann, 1984, fg. 12, p. 318)<br />
“Ofrivano anche a queste immagini del vino,<br />
o octli o pulcre, che è il vino della terra; e i vasi<br />
in cui lo ofrivano erano fatti in questa maniera:<br />
ci sono alcune zucche lisce, rotonde, lentigginose,<br />
fra il verde e il bianco o maculate, che si<br />
chiamano tzilacayotli, che sono della grandezza<br />
19
di un grande melone; ciascuna di queste veniva tagliata a metà e vi estraevano ciò<br />
che v'era dentro e ne risultava una specie di tazza, e vi versavano il suddetto vino e la<br />
mettevano davanti a quella immagine o a quelle immagini, e dicevano che quelle<br />
erano vasi di pietre preziose che chiamano chalchíhuitl.”<br />
In diversi casi il <strong>pulque</strong> non veniva bevuto direttamente dai bicchieri, bensì mediante<br />
una cannuccia (piaztli). Ad esempio, durante la festa dedicata agli dei del <strong>pulque</strong>, in<br />
particolare a Izquitécatl, che avveniva nel segno ce mázatl nella seconda casa ome tochtli<br />
(Due Coniglio), nel patio del templo veniva collocato un grosso orcio che era mantenuto<br />
sempre pieno di <strong>pulque</strong> e chiunque, durante questa festa, poteva berne mediante <strong>delle</strong><br />
cannucce (Sahagún, II, XIX, 4). E' anche il caso dei prigionieri che erano costretti a bere<br />
un particolare tipo di <strong>pulque</strong>, il teoctli, con <strong>delle</strong> cannucce poco prima di essere sacrifcati.<br />
La motivazione dell'uso <strong>delle</strong> cannucce non è compresa, ma è possibile avanzare un'ipotesi<br />
in base ai numerosi dati aneddotici moderni per i quali l'assunzione di bevande<br />
alcoliche mediante cannucce induce un'ebbrezza più veloce e più potente di quella indotta<br />
bevendo direttamente dal bicchiere. 7 E' quindi possibile che nel mondo azteco ai prigionieri<br />
in procinto di essere sacrifcati venisse dato da bere con le cannucce per velocizzare<br />
il sopraggiungere dell'efetto inebriante, che è come dire il sopraggiungere della possessione<br />
divina, e ciò vale anche nel caso degli altri bevitori di <strong>pulque</strong> appartenenti al prelato o<br />
al popolo.<br />
Sahagún ha descritto una cerimonia dei cantori dei templi, durante la quale venivano<br />
distribuite 203 cannucce, che erano tutte piene, ad eccezione di una sola che era internamente<br />
cava, quindi utilizzabile per succhiare un tipo di <strong>pulque</strong> specifco per questa occasione;<br />
il fortunato che aveva in mano la cannuccia cava era il solo a godere quel giorno<br />
degli efetti della bevanda:<br />
“Questo Ome tochtzin era come maestro di tutti i cantanti che avevano il compito<br />
di cantare nei cu [il tempio del dio]; badava che tutti venissero a fare il loro compito<br />
nei cu. Facevano una certa cerimonia con il vino che chiamano teooctli, nel tempo<br />
che dovevano fare il loro compito; questa cerimonia era guidata dal pachtécatl;<br />
questi faceva attenzione ai bicchieri in cui bevevano i cantanti, di portarli, darli e<br />
raccoglierli, e di riempirli di quel vino che chiamavano teooctli o macuiloctli, e<br />
metteva duecentotre cannucce <strong>delle</strong> quali solo una era perforata, e quando lo<br />
bevevano quello che azzeccava la canna perforata solo lui beveva e nessun altro;<br />
questo veniva fatto dopo aver cantato” (Sahagún, II, Apendice IV, 3).<br />
Esistono alcuni riferimenti alla pratica di introduzione del <strong>pulque</strong> nel corpo per via<br />
20
ettale mediante clistere. Tale pratica, apparentemente insolita, era difusa fra le<br />
<strong>popolazioni</strong> americane precolombiane ed era impiegata per l'assunzione di diversi<br />
inebrianti, non solo le pozioni alcoliche quali il <strong>pulque</strong> nahua e il balché maya bensì<br />
vegetali quali il tabacco, il peyote, le dature, l'ayahuasca, ecc. (si veda De Smet, 1985).<br />
Díaz del Castillo (1575, Cap. CCVIII), il principale storiografo e testimone della<br />
Conquista, riportò: “Riguardo agli ubriachi, non so che dire, tante sono le immondezze<br />
che fra loro [i nativi] accadevano; ne dico solamente una qui, che incontrammo nella<br />
provincia di Pánuco, che si riempivano il retto mediante alcune cannucce e si riempivano<br />
i ventri di vino di quello che si faceva presso di loro, nel medesimo modo in cui da noi si<br />
versa una medicina”. 8 La cittadina di Pánuco si trova nella regione degli Huastechi<br />
(nell'attuale stato messicano di Veracruz), una popolazione che era considerata<br />
particolarmente dedita all'ubriachezza – come scrisse Sahagún (X, XXIX, 125) – e alle<br />
pratiche di introduzione rettale <strong>delle</strong> droghe psicoattive (De Smet, 1985: 20). Anche un<br />
autore anonimo che scrisse attorno al 1530 (AA.VV., 1963: 326-7) riportò per la regione<br />
di Pánuco che “hanno le loro bevande per ubriacarsi: hanno una grande quantità di<br />
<strong>pulque</strong> ricavato dai maguey … usano il peccato nefando gli indios: quando sono nelle<br />
loro ubriachezze e feste, quello che non possono bere per bocca, se lo fanno versare dal<br />
basso con un imbuto”. 9 In questo passo viene quindi aggiunta l'informazione che<br />
l'assunzione rettale del <strong>pulque</strong> veniva eseguita quando i nativi non riuscivano più a berne<br />
oralmente. 10<br />
Aspetti mitologici ed etnostorici<br />
Volgiamo ora lo sguardo sugli aspetti mitologici ed etnostorici inerenti il maguey e il<br />
<strong>pulque</strong>. Nella maggior parte dei casi gli dei del <strong>pulque</strong> sono considerati degli esseri umani<br />
divinizzati, degli eroi, sebbene nel mito siano tutti considerati fgli di un’unica divinità<br />
femminile, Mayáhuel, la dea della pianta del maguey. Nell'aspetto etimologico questo<br />
nome sarebbe costituito da me e yaualli, “maguey perforato” (Lehman, 1938: 108, cit. in<br />
Gonçalves da Lima, 1986: 14), indicativo dell'attribuzione della scoperta della perforazione<br />
del maguey per la fuoriuscita dell'aguamiel a questa fgura femminile, anch'essa in<br />
seguito divinizzata. La sua storia si intreccia con quella della peregrinazione storica che il<br />
popolo dei Méxica intraprese, guidata da un sacerdote chiamato Mécitli, dalle terre<br />
settentrionali verso sud, sino a raggiungere la Valle del Messico. Qui i Méxica si stanziarono<br />
fondando Tenochtitlan, sulle cui rovine è sorta la moderna Città del Messico.<br />
21
Sinistra: Codice Frjévári-Mayer, 28 – Mayáhuel, in Gonçalves 1986: 133. Destra: Codice Laud,<br />
9 – Mayáhuel, in Gonçalves 1986: 149<br />
Codice Borbonico, 8, Mayáhuel, in<br />
Gonçalves 1986: 220<br />
Nel racconto della peregrinazione (ad es. Sahagún,<br />
X, XXIX, 12, 106) è riportato che, quando nacque<br />
colui che sarebbe divenuto il sacerdote-guida del<br />
popolo Méxica, fu chiamato citli (“coniglio”) e lo si<br />
depose sopra una foglia di maguey. In tal modo egli<br />
si irrobustì e gli fu attribuito il nome di Mécitli (da<br />
me, forma abbreviativa di metl, “maguey” e citli,<br />
“coniglio”). Quando divenne il condottiero del suo<br />
popolo, i suoi vassalli lo chiamarono Méxica (con<br />
sostituzione della c con la x), cioè “Maguey-Lepre”.<br />
La complessa relazione simbolico-mitologica che i<br />
Méxica intrecciarono fra maguey, <strong>pulque</strong> e coniglio è<br />
dunque presente già agli albori dell’etnostoria della<br />
civiltà azteca.<br />
Seguendo il racconto, ad un certo punto della<br />
peregrinazione, quando i Méxica raggiunsero il territorio<br />
dei Mixtechi, la donna di nome Mayáhuel<br />
scoprì il procedimento della perforazione del maguey con lo scopo di farne fuoriuscire la<br />
linfa; successivamente, un uomo di nome Patécatl scoprì i germogli e le radici <strong>delle</strong> piante<br />
che raforzano gli efetti del <strong>pulque</strong>, mentre l’elaborazione e il perfezionamento della<br />
22
evanda furono attribuiti ad altri quattro uomini: Teputzécatl, Quatlapanqui, Tliloa e<br />
Papaztactzocaca (Quatlapanqui è anche il nome di uno dei quattrocento dei del <strong>pulque</strong>).<br />
Questi elaborarono il primo <strong>pulque</strong> sul monte chiamato Chichinauhia, che da quel<br />
momento fu ridenominato Popozonaltépetl, che signifca “monte spumoso”, in riferimento<br />
all'abbondante spuma prodotta dal <strong>pulque</strong> (Sahagún, X, XXIX, 12, 120-1). Tutti<br />
questi personaggi furono in seguito divinizzati e Patécatl fu identifcato con lo sposo<br />
divino di Mayáhuel.<br />
Austin (1973: 73) ha evidenziato la contrapposizione simbolico-religiosa fra Mayáhuel,<br />
dea del <strong>pulque</strong> giovane pre-fermentato, in pratica dea dell'aguamiel, e Pathécatl, divinità<br />
del pantheon azteca responsabile del processo di fermentazione: sarebbe quindi quest'ultimo<br />
il vero dio dell'ebbrezza associata alla bevanda.<br />
Tornando al racconto nahua della peregrinazione del popolo Mexica, la scoperta del<br />
<strong>pulque</strong> sarebbe stata invenzione alquanto recente. Ma la leggenda di Xóchitl (cfr. Appendice<br />
II), d'origini tolteche, farebbe retrocedere questa scoperta ai tempi del regno di<br />
Tecpancaltzin, cioè fra il 990 e il 1042 d.C. In realtà il <strong>pulque</strong> sembra essere stato<br />
conosciuto dagli Otomi sin dalla più remota antichità e v'è da sospettare che siano stati<br />
questi i veri scopritori della bevanda. Fra gli Otomi della Valle del Mezquital la divinità<br />
del <strong>pulque</strong> era chiamata Yudó (Guerrero, 1985: 25). Presso gli attuali discendenti di<br />
questa antica popolazione dell'altopiano centrale del Messico si tramanda un racconto<br />
sulle origini del <strong>pulque</strong> in cui è descritto come fu un piccolo roditore, una tuza, a raspare<br />
il tronco di un maguey mediante la sua “proboscide” fungente da cucchiaio e a farne di<br />
conseguenza fuoriuscire l'aguamiel. La tuza tornava periodicamente alla pianta per berne<br />
la linfa così raccoltasi nella cavità raspata. Osservando il comportamento di questo<br />
animale gli Otomi scoprirono come produrre il <strong>pulque</strong> (Martín del Campo, 1938: 13). Un<br />
sifatto mito d'origine di un inebriante, in cui nella sua scoperta umana è coinvolto un<br />
animale, è credibilmente più antico dei racconti etnostorici nahua e toltechi, in cui nella<br />
scoperta sono coinvolti dei personaggi umani (cf. <strong>Samorini</strong>, 1995). Del resto, i ritrovamenti<br />
archeologici farebbero retrodatare la scoperta del <strong>pulque</strong> ad almeno il I secolo a.C.<br />
In diversi giacimenti nella valle di Tulancingo sono stati ritrovati pezzi di ossidiana e di<br />
altri minerali che gli archeologi hanno riconosciuto come raschiatori utilizzati per scavare<br />
le piante di agave, insieme a cenere bianca di queste specie vegetali, frammiste a spine di<br />
queste medesime piante (Guerrero, 1985: 24-5). Ancora, in giacimenti antropici <strong>delle</strong><br />
grotte di Tehuacán, nello stato messicano di Puebla, sono stati rinvenuti frammenti di<br />
foglie di agave arrostite datate al 6000 a.C. (Wolters, 1996:28), che dimostrano, se non una<br />
sifatta antichità per la bevanda del <strong>pulque</strong>, un rapporto molto antico con la pianta<br />
“<strong>pulque</strong>ra”. Nei territori più settentrionali gli Indiani Apache sapevano ricavare una<br />
23
evanda fermentata da piante di agave, chiamata tizwin (Barrows, 1967: 75); questa scoperta<br />
poteva essere originata da interscambi culturali con <strong>popolazioni</strong> meridionali<br />
oppure essere frutto di inventiva autonoma.<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> non fu quindi prerogativa degli Aztechi e nemmeno fu scoperto da questa<br />
popolazione del Messico centrale. Era noto ad esempio anche ai Taraschi (Purepechi),<br />
come riportato nella Relación de Michoacán, opera anonima del XVI 11 secolo che tratta<br />
della storia di questo popolo e del loro regno coevo a quello azteco. Una <strong>delle</strong> divinità del<br />
panteon purepecha era Taras Upeme (Tarés Úpeme), dio dell'ebbrezza indotta dal<br />
<strong>pulque</strong>; egli era zoppo, poiché in un tempo mitologico gli altri dei, mentre erano ubriachi,<br />
lo gettarono giù sulla terra ed egli cadendo si azzoppò. Guerrero (1985: 53-4) lo relaziona<br />
con la divinità azteca Tezcatlipoca, per via del piede sacrifcato. Nella Relación de<br />
Michoacán (Anonimo, 1541, Libro II, Cap. XIX) sono riferiti due tipi di “vino” di maguey,<br />
uno rosso e l'altro bianco, evidenziando in tal modo una diferenziazione nella preparazione<br />
della bevanda anche presso i Purepechi.<br />
Sempre per quanto riguarda gli aspetti mitologici, ci è pervenuto un mito d'origine del<br />
maguey, di stampo tezcocoano, dove la pianta viene fatta originare dalle ossa interrate<br />
della dea vergine Mayáhuel, che era stata divorata dalle tzitzimine, spiriti tenebrosi<br />
dell'aria che scendevano sulla terra per terrorizzare gli uomini e per mangiarli. Le<br />
tzitzimine la divorarono poiché la vergine si era accoppiata con il dio dell'aria Ehécatl,<br />
dopo che entrambi si erano trasformati in due rami di un medesimo albero. Tutto ciò<br />
accadde ai tempi cosmogonici subito dopo la creazione dell'uomo da parte degli dei, ed<br />
Ehécatl programmò tutto ciò con lo specifco scopo di rallegrare l'uomo donandogli una<br />
bevanda inebriante, il <strong>pulque</strong> (si veda Appendice I).<br />
Usi rituali<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> non poteva essere bevuto all'infuori del ristretto ambito rituale o cerimoniale in<br />
cui era concesso, pena il castigo severo, che di frequente risultava nell'uccisione istantanea<br />
e pubblica di chi si era permesso di infrangere la regola. Sahagún (II, XXVII, 56) riportò<br />
che a coloro che venivano colti in fragrante nel bere <strong>pulque</strong> quando non era loro<br />
concesso, i giudici (petlacalco) sentenziavano la pena di morte, procedevano alla loro<br />
uccisione pubblica e ne tagliavano le mani, che portavano poi al mercato per esibirle in<br />
segno di monito. In un altro passo (III, VI, 1) viene specifcato che, nel corso dell'educazione<br />
dei giovani che avveniva nel telpochcalli (casa degli dei), questi:<br />
24
“avevano il compito di spazzare e pulire la casa; e nessuno beveva vino [<strong>pulque</strong>], a<br />
parte solamente coloro che erano già vecchi bevevano il vino molto segretamente e<br />
bevevano poco, non si ubriacavano; e se appariva un ragazzo ubriaco pubblicamente<br />
o se lo incontravano con il vino, o lo vedevano caduto nella strada o che andava<br />
cantando, o era accompagnato con altri ubriachi, questo, se era macegual [di origine<br />
povera] lo castigavano bastonandolo fno ad ucciderlo, o gli davano di garrotta<br />
davanti a tutti i ragazzi riuniti, perché prendessero esempio e paura di ubriacarsi; e<br />
se era nobile colui che si ubriacava gli davano di garrotta segretamente.”<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> poteva essere liberamente bevuto in ogni momento solo dalle persone anziane<br />
e nei contesti rituali dai sacerdoti e dai guerrieri. <strong>Il</strong> Codice Mendoza riporta l'età di 70<br />
anni per iniziare a bere senza restrizioni, mentre il francescano Juan de Torquemada<br />
riportava l'età di 50 anni (Corcuera de Mancera, 1991: 30). In alcune cerimonie il <strong>pulque</strong><br />
poteva essere bevuto anche da adulti già sposati e in alcune altre da tutta la comunità,<br />
compreso il caso dove veniva fatto assumere ai bambini. Nei contesti rituali l'ebbrezza<br />
indotta dal dosaggio socialmente accettabile di <strong>pulque</strong> (non più di quattro tazze; cfr. il<br />
paragrafo “<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong>”) era nota col termine specifco di tlauana (ibid.: 17). Oltre<br />
alle cerimonie pubbliche che si svolgevano nei templi, alcune cerimonie erano private e di<br />
natura più profana, dove una famiglia invitava nella sua casa un gruppo di amici per<br />
celebrare determinati eventi quali ad esempio un matrimonio. Durán (Libro II, Cap.<br />
XXII), che scriveva tuttavia circa 80 anni dopo la Conquista, riportò che durante i tempi<br />
precolombiani il <strong>pulque</strong> poteva essere bevuto dagli individui sposati e con fgli già grandi<br />
con lo scopo che i fgli, che non potevano assolutamente bere, avrebbero così potuto<br />
accompagnare a casa i genitori ubriachi. <strong>Il</strong> medesimo autore aggiunse un'ulteriore<br />
considerazione, di dubbio valore - come del resto la precedente - anche perché non si<br />
trova menzione di ciò in Sahagún e in altri attenti cronisti:<br />
“V'era anche un'altra legge, non di gente barbara bensì di gente politica,<br />
lungimirante e consapevole, che colui che non avesse avuto vino [<strong>pulque</strong>] del<br />
proprio raccolto non poteva ubriacarsi sino a cadere a terra, e a ciò davano due<br />
motivazioni: una era afnché tutti si dessero a coltivare e seminare maguey e l'altra<br />
era perché in caso non avessero avuto fgli che li potevano accudire quando<br />
bevevano in casa altrui, lo avrebbero dovuto berlo nella loro casa e questo avrebbe<br />
evitato gli inconvenienti del non trovare la via di ritorno a casa o di cadere nel<br />
cammino o di uccidersi o di litigare con qualcuno o di commettere un qualche<br />
delitto che bevendo nella propria casa non avrebbero commesso” (Durán, Libro II,<br />
Cap. XXII, p. 209).<br />
25
Sebbene l'ubriachezza da <strong>pulque</strong> fosse deplorata e il suo utilizzo all'infuori dei contesti<br />
istituzionalmente stabiliti venisse duramente perseguito, la fgura dell'ubriaco doveva in<br />
un qualche modo essere rispettata dagli altri, poiché considerata impossessata dalla<br />
divinità: “inoltre ritenevano che colui che parlava male di questo vino o mormorava<br />
contro di questo, gli sarebbe capitato qualche disgrazia; lo stesso di qualunque ubriaco,<br />
che se qualcuno mormorava contro di lui o gli faceva degli afronti, qualunque cosa folle<br />
questo dicesse o facesse, dicevano che doveva per questo essere castigato, poiché dicevano<br />
che quello non lo faceva lui, bensì il dio, o meglio il diavolo che era in lui, che era questo<br />
Tezcatzóncatl, o qualcuno degli altri (dei del vino)” (Sahagún, I, XXII, 2); e in un passo<br />
successivo (4): “Si deduce chiaramente che non avevano peccato coloro che erano ubriachi,<br />
quantunque fossero gravissimi peccati; e si congettura ancora con pieno fondamento<br />
che si ubriacavano per fare ciò che avevano nella loro volontà e che non gli venisse imputato<br />
a colpa e che ne venissero fuori senza castigo.”<br />
La società azteca non poteva del resto essere totalmente priva di ubriaconi, poiché si<br />
riteneva che le persone nate in determinati giorni considerati funesti, della casa ome<br />
tochtli del segno ce mazatl, fossero inevitabilmente dediti nella loro vita al bere; Sahagún<br />
(IV, IV, 1-8) ofre una particolareggiata descrizione della fgura dell'ubriacone “per<br />
natura”, condannata dalla sorte astrologica a fungere da mentore di quanto sia insana una<br />
vita dedita all'alcol. Si diceva che gli ubriaconi nascevano in questi giorni del 2-Coniglio<br />
ed è probabile che il condizionamento culturale di questa credenza guidasse il destino<br />
degli individui nati in queste date.<br />
Un'altra categoria che poteva, anzi era obbligata a bere il <strong>pulque</strong>, era rappresentata dalle<br />
vittime destinate ad essere immolate durante i riti religiosi. <strong>Il</strong> motivo di questo apparente<br />
“riguardo” nei confronti <strong>delle</strong> persone sacrifcate – spesso in maniera terribilmente<br />
dolorosa, con lo squarciamento del petto per estrarne il cuore ancora palpitante, o cotti<br />
sulle braci, o scorticati vivi, ecc. – era associato direttamente al concetto che l'ebbrezza<br />
indotta dal <strong>pulque</strong>, così come da qualsiasi altro inebriante, era interpretata come una<br />
possessione divina, cioè la divinità scendeva e si stabiliva nel corpo della persona ebbra.<br />
Verifcato che i sacrifci umani erano intesi come oferte alle divinità, era ritenuto<br />
opportuno che l'immolato fosse già posseduto dalla divinità nel momento della sua<br />
morte. E' stato evidenziato che uno dei motivi per cui si drogava la vittima umana<br />
destinata al sacrifcio era perché in tal modo avrebbe evitato di proferire lamenti nel<br />
momento del sacrifcio (Heyder, 1995), ma tale motivazione appare superfciale. Del<br />
resto, la relazione fra sacrifcio umano ed ebbrezza del sacrifcato, presente non solo fra<br />
gli Aztechi bensì difusa presso numerose culture di tutti i continenti, non sembra sia<br />
stata sinora oggetto di studi specifci.<br />
26
Nei riti che prevedevano il sacrifcio dei guerrieri catturati in battaglia, poco prima di<br />
essere immolati veniva loro dato da bere uno speciale tipo di <strong>pulque</strong>, il teoctli (“<strong>pulque</strong><br />
degli dei”, come riportato da Sahagún, IX, XIV, 1). Nelle feste in onore di Xipe Totec e di<br />
Uitzilopochtli celebrate nel secondo mese del calendario azteca:<br />
“arrivava uno di quelli che aveva prigionieri da uccidere e trascinava il suo<br />
prigioniero per i capelli sino alla pietra dove lo dovevano accoltellare; lì gli davano<br />
da bere il vino della terra o pulcre, e quando il prigioniero riceveva la chicchera di<br />
pulcre, la alzava in direzione dell'oriente e in direzione del settentrione, e in<br />
direzione dell'occidente e in direzione del mezzogiorno, come per ofrirla verso le<br />
quattro parti del mondo; dopodiché beveva, non con la chicchera, bensì con una<br />
canna cava, succhiando” (Sahagún, II, XXI, 20-21).<br />
In diverse occasioni i prigionieri, prima di essere sacrifcati, dovevano cimentarsi in<br />
una lotta con i guerrieri aztechi, sebbene si trattasse di lotte impari, più cerimoniali che<br />
reali, poiché i prigionieri venivano armati di scudo e di una mazza ornata di piume in<br />
luogo <strong>delle</strong> punte di ossidiana come nelle reali armi da guerra. Anche in queste occasioni<br />
ai prigionieri, prima della “lotta”, veniva dato da bere il teoctli. Nel caso in cui venivano<br />
sacrifcati gli schiavi, poco prima che il sole tramontasse questi venivano portati al tempio<br />
di Huitzilopochtli, dove era dato loro da bere il teoctli e “dopo averlo bevuto tornavano<br />
indietro: erano già molto ubriachi, come se avessero bevuto molto pulcre, e non li<br />
riportavano a casa bensì li portavano in una <strong>delle</strong> parrocchie che si chiamavano Pochtlan<br />
o Acxotlan; lì li facevano vegliare per tutta la notte cantando e ballando” prima di essere<br />
sacrifcati (Sahagún, IX, XIV, 1-2).<br />
Anche presso i Taraschi (Purepechi), che similmente praticavano il sacrifcio umano,<br />
parrebbe essere stato presente il costume di inebriare con il <strong>pulque</strong> le persone destinate al<br />
sacrifco. Lo si può dedurre da un passo della Relación de Michoacán (Anonimo, 1541).<br />
Nel capitolo XXXIII, Parte II, viene riportata la cattura di uno dei fgli del re (cazonci) da<br />
parte dei suoi nemici. Quando i nemici si rendono conto di aver catturato il fglio del re,<br />
di nome Tamapu-checa, si impauriscono e decidono di liberarlo. Ma questi si oppone,<br />
preferendo il destino di tutti i prigionieri, cioè quello di essere sacrifcato, poiché era<br />
credenza presso i Purepechi che una persona veniva fatta prigioniera perché era stata<br />
scelta dagli dei per il sacrifcio ed era quindi cosa inutile cercare di sfuggire al proprio<br />
destino. Nel cercare di convincere coloro che lo avevano catturato di non liberarlo,<br />
Tamapu-checa disse: “Gli dei del cielo sanno già come sono catturato e mi hanno già<br />
mangiato. Datemi del vino [<strong>pulque</strong>], che voglio ubriacarmi”; tale intenzione di “bere<br />
vino”, rientrando nell'esortazione a non liberarlo e a sacrifcarlo, troverebbe spiegazione<br />
27
nel costume di ubriacare col <strong>pulque</strong> i destinati al sacrifcio.<br />
Ogni quattro anni si svolgeva una festa particolare in onore del dio del fuoco, Xiuhtecutli<br />
o Ixcozauhqui; la festa era chiamata pillaoano o pillauano, che signifca “ubriachezza<br />
dei bambini”, dove veniva dato da bere <strong>pulque</strong> ai giovani ragazzi e anche ai puerperi; in<br />
questa occasione veniva praticato il rito della perforazione <strong>delle</strong> orecchie dei bambini e<br />
<strong>delle</strong> bambine:<br />
“In questo atto di ubriachezza tutti bevevano il pulcre, uomini e donne, bimbi e<br />
bimbe, vecchi e ragazzi, tutti si ubriacavano pubblicamente e tutti portavano pulcre<br />
con sé e gli uni davano da bere agli altri, e gli altri agli altri; scorreva il pulcre come<br />
acqua in abbondanza, e tutti portavano alcuni bicchieri che avevano tre piedi e<br />
quattro angoli, che chiamavano tzicuiltecómatl, con questi bevevano e davano da<br />
bere; tutti andavano molto con gli altri, e si prendevano a pugni e cadevano a terra<br />
ubriachi uno sull'altro e altri andavano abbracciati gli uni con gli altri verso casa; e<br />
questo lo consideravano buono perché la festa richiedeva ciò.” (Sahagún, II,<br />
XXXVIII, 8; riferimenti anche in I, XIII, 11).<br />
In un altro passo (II, XXXVII, 33-36) Sahagún ofre maggiori dettagli di questa festa: la<br />
bevuta del <strong>pulque</strong> avveniva dopo la perforazione <strong>delle</strong> orecchie, che veniva praticata ai<br />
bambini che erano nati durante gli anni precedente la festa che, come detto, si svolgeva<br />
ogni quattro anni. In occasione della perforazione <strong>delle</strong> orecchie i genitori sceglievano i<br />
padrini dei loro bambini (detti “zii”, tetla). Terminata l'operazione:<br />
“tornavano a casa e là i padrini e le madrine mangiavano, tutti insieme, e<br />
cantavano e ballavano, e a mezzogiorno i padrini e le madrine tornavano nuovamente<br />
al cu [il tempio del dio] e si portavano i loro fgliocci e fgliocce e portavano<br />
anche il pulcre nelle loro brocche. Poi cominciavano un areito [canto con danza] e<br />
ballando si portavano sulle spalle i loro fgliocci e fgliocce e davano loro da bere del<br />
pulcre che portavano con alcune piccole tazze e per questo chiamavano questa festa<br />
l'ubriachezza dei bimbi e <strong>delle</strong> bimbe; questo ballo durava sino alla sera. (37) Quindi<br />
tornavano alle loro case e nel patio <strong>delle</strong> loro case facevano nuovamente il medesimo<br />
areito e tutti quelli della casa e i vicini bevevano pulcre”.<br />
E' probabile che il <strong>pulque</strong> dato da bere ai bambini avesse qualità inebrianti blande; resta<br />
il fatto che presso le <strong>popolazioni</strong> tradizionali è un luogo comune di una certa frequenza<br />
fare assumere gli inebrianti ai bambini in certe occasioni ben controllate. Per quanto<br />
riguarda il <strong>pulque</strong>, Guerrero (1985: 71) ha osservato ancora oggigiorno il costume di dare<br />
da bere questa bevanda ai neonati per motivi di carenza di risorse idriche: “in alcuni<br />
28
villaggi della Valle del Mezquital, dove le piogge sono scarse, l’unica bevanda è il <strong>pulque</strong>.<br />
Così, molte donne dissetano i loro bambini con il <strong>pulque</strong>, mettendo in ammollo il dito<br />
mignolo nel <strong>pulque</strong> e dandolo poi da succhiare al bimbo”.<br />
Anche al bambino la madre fa assaggiare<br />
un poco di <strong>pulque</strong> bagnando il<br />
mignolo e mettendolo fra le sue labbra<br />
(da Guerrero, 1985, p. 117)<br />
In diverse occasioni, prima della bevuta del<br />
<strong>pulque</strong> da parte di chi in quelle occasioni era<br />
autorizzato a bere, veniva sparso un poco della<br />
bevanda come oferta alle divinità. Era il caso, ad<br />
esempio, della festa che si svolgeva ogni anno alla<br />
fne del mese diciottesimo, chiamato izcalli,<br />
dedicata al dio del fuoco Xiuhtecutli: gli anziani,<br />
prima di bere, versavano un poco di <strong>pulque</strong> nei<br />
quattro angoli della casa dove si svolgeva la festa,<br />
afnché il dio lo potesse bere e gustare (Sahagún, I,<br />
XIII, 10). Era rigore che nessuno bevesse <strong>pulque</strong><br />
prima di fare l'oferta alla divinità. Questa oferta<br />
era chiamata tlatoyaualiztli, che signifca libatio o<br />
gustamiento e consisteva, sia nelle case private che<br />
nei templi, nel versare nei quattro angoli del focolare<br />
un bicchiere di <strong>pulque</strong>. Anche Durán (Libro II,<br />
Cap. XXII) riporta il costume di ofrire il <strong>pulque</strong><br />
agli dei, in particolare al dio del fuoco: “a volte lo<br />
ofrivano in vasi posti davanti [al fuoco], altre volte<br />
spruzzandolo sul fuoco con una specie di isopo<br />
[utensile liturgico usato nelle chiese per spargere<br />
l'acqua benedetta] e altre volte spargendolo attorno<br />
al fuoco”.<br />
Una festa importante era quella che cadeva il giorno 2 tochtli (2-Coniglio), dedicata al<br />
dio Itzquitécatl ma in realtà a tutti gli dei del <strong>pulque</strong>. Seguiamo la traduzione letteraria,<br />
seppur confusa, di Zeler del testo di Sahagún (VII, Libro V, cap. 5 dell'edizione facsimile<br />
di Paso y Troncoso, rip. in Gonçalves da Lima, 1986: 199-200):<br />
“Ed essi dicono che quando giungeva nella serie il segno giornaliero di 2 tochtli,<br />
iniziava una festa al signore dei conigli, che si chiama Itzquitécatl. E sebbene si<br />
nomini solo questo, sono tuttavia inclusi tutti gli dei conigli del vino.<br />
Itzquitécatl era così molto venerato. Essi collocavano la sua immagine nel suo<br />
29
tempio, gli portavano le oferte, cantavano in suo onore e suonavano musica di<br />
fauto, così iniziavano. E di fronte alla sua immagine gli ponevano una olla di pietra<br />
chiamata ometochtecómatl [la-Olla-due-Coniglio]; è piena sino a che non si sparge, e<br />
risplende il <strong>pulque</strong>. In questa c’è un piaztli [canna per succhiare], una zucca<br />
perforata, un mamazço [canna di piuma vuota] con il quale bevono sempre coloro<br />
che entrano lì, per fare frequentemente una visita. Ma, i veri bevitori erano gli<br />
anziani, le anziane, gli avventurieri, gli audaci, quelli che mai cedono per timore,<br />
quelli che mettono in gioco le loro teste e i loro petti, cioè, che loro, arrivando alla<br />
guerra, potessero qualche volta essere condotti come prigionieri; o allora che, se<br />
fossero tornati in patria, potessero portare con loro prigionieri, che comprendessero<br />
che erano in errore, che dovevano morire. E il <strong>pulque</strong> ch’essi bevevano non fniva<br />
mai, non spariva mai: sempre lo versavano i sacerdoti del <strong>pulque</strong>, i Signori del<br />
Pulque, tutti i preparatori del <strong>pulque</strong> di tutte le parti apparivano lì dove si preparava<br />
il <strong>pulque</strong>, nel suo tempio. Dove allora si formava il <strong>pulque</strong> nuovo, uitztli, quando<br />
qualcuno aveva aperto nuovo [maguey], poi riempiva quello in primo luogo con il<br />
tlachique. “Spargere liquido” (tlatoyaua) si chiamava questo, si ofriva il tlatoyahua a<br />
Itzquitécatl, gli si spargeva il tlachique in suo onore. Ma non solo nel tempo di questa<br />
festa si sparpagliava il <strong>pulque</strong>, bensì continuamente, come un’oferta per lui nel<br />
tempio.”<br />
Tornando alle feste dedicate al dio del fuoco Xiuhtecutli nel mese di izcalli, al decimo<br />
giorno di questo mese si svolgeva una prima festa, dove veniva costruita una statua del<br />
dio alla quale venivano presentate diverse oferte, fra cui la cacciagione che i giovani<br />
avevano appena catturato, che veniva gettata nel fuoco presente davanti alla statua. In<br />
questa occasione gli anziani bevevano un tipo di <strong>pulque</strong> chiamato texcalceuia (Sahagún,<br />
II, XXXVII, 10). Al ventesimo giorno del medesimo mese si svolgeva una seconda festa<br />
dedicata al medesimo dio, dove veniva costruita un'altra statua, chiamata Milíntoc. Anche<br />
in questa occasione gli anziani bevevano il medesimo tipo di <strong>pulque</strong>:<br />
“Terminato di mangiare questi piccoli pani e l'altro cibo, i vecchi bevevano poi il<br />
pulcre; questa bevanda la chiamavano texcalceuilo e la bevevano lì, nel medesimo<br />
oratorio, dov'era la statua del Milíntoc, che chiamano calpulco [una specie di tempio<br />
di quartiere], e coloro che facevano vino di maguey che chiamavano tlachique o<br />
tecutlachique, avevano il compito di portare il pulcre da bere a loro volontà; lo portavano<br />
nelle giare o chicchere e lo versavano in un lebrillo [un contenitore per liquidi]<br />
che era lì, davanti alla statua. Coloro che bevevano questo pulcre non si ubriacavano”<br />
(ibid., II, XXXVII, 18).<br />
30
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> tlachique era un <strong>pulque</strong> di bassa qualità ed è forse per ciò che gli anziani in<br />
questa occasione non si ubriacavano. <strong>Il</strong> nome texcalceuia o texcalceuilo era attribuito al<br />
<strong>pulque</strong> tlachique bevuto in occasione di queste feste del dio del fuoco. Da ciò si deduce<br />
una certa complessità non solo nei tipi di <strong>pulque</strong> bensì anche nella terminologia ad essi<br />
associata, che sembra si diferenziasse pure in base ai diversi momenti rituali in cui<br />
venivano bevuti. E' forse questo il caso anche della festa che si svolgeva durante le calende<br />
del settimo mese, chiamato tecuilhuitontli, e dedicata alla dea del sale Uixtocíhuatl.<br />
Terminati i sacrifci umani, alla mattina tutti tornavano a casa, mangiavano e si<br />
divertivano e “la gente che lavorava col sale beveva copiosamente il pulcre, sebbene non si<br />
ubriacasse” (ibid., II, XXVI, 19). <strong>Il</strong> fatto che non si ubriacassero poteva essere dovuto al<br />
tipo di <strong>pulque</strong> bevuto o forse badavano a berne in maniera da non ubriacarsi. Ma nel<br />
passo successivo Sahagún riferisce di alcuni che in realtà in quell'occasione si ubriacavano<br />
e diventavano litigiosi e infne si gettavano a terra a dormire dove capitava. Dopodiché:<br />
“<strong>Il</strong> giorno dopo bevevano il pulcre che era rimasto; lo chiamavano cochioctli. E<br />
coloro che la notte precedente, essendo ubriachi, avevano litigato o si erano presi a<br />
pugni con gli altri, che lo riconoscevano stando già con la mente lucida e dopo aver<br />
dormito, invitavano a bere coloro che avevano maltrattato coi fatti o con le parole,<br />
afnché gli perdonassero ciò che avevano fatto e detto di male, e agli ofesi nel bere<br />
gli si svaniva la rabbia e perdonavano volentieri le loro ofese” (ibid., II, XXVI, 20).<br />
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un diferente termine con cui veniva<br />
chiamato il <strong>pulque</strong>, quello non bevuto e rimasto il giorno dopo, il cochioctli. Altri tipi di<br />
<strong>pulque</strong> venivano usati in occasione dei riti battesimali, dove potevano bere la bevanda<br />
solamente le persone anziane. Sempre Sahagún ci fornisce dati eloquenti:<br />
“E di notte i vecchi e le vecchie si riunivano e bevevano pulcre e si ubriacavano.<br />
Per realizzare questa ubriacatura mettevano davanti a loro un cantaro di pulcre, e<br />
colui che serviva versava in un orcio e dava a ciascuno da bere, a suo ordine, sino a<br />
conclusione. Alle volte davano pulcre che si chiamava íztac octli, che signifca <strong>pulque</strong><br />
bianco, che è quello che zampilla dai maguey e altre volte davano pulcre stregato con<br />
acqua e miele e cucinato con la radice che chiamano ayoctli, che signifca pulcre di<br />
acqua, che era custodito e preparato dal signore del convitto già da alcuni giorni.<br />
(13) E il servitore, quando vedeva che non si ubriacavano, tornava a dare da bere in<br />
senso contrario alla mano sinistra, iniziando dagli ultimi.” (ibid., IV, XXXVI, 11-13).<br />
Ancora, nel corso <strong>delle</strong> feste e dei sacrifci che si svolgevano durante le calende del mese<br />
31
quindicesimo, che si chiamava panquetzaliztli, dopo il sacrifcio dei prigionieri e degli<br />
schiavi, oltre che agli anziani era concesso bere il <strong>pulque</strong> anche alle persone sposate e ai<br />
principi; ma in questa occasione si trattava di matlaloctli, “che signifca pulcre azzurro,<br />
perché aveva un colore azzurro” (ibid., II, XXXIV, 45).<br />
<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong><br />
Nel racconto in parte etnostorico e in parte mitologico della peregrinazione del popolo<br />
dei Mexica (gli Aztechi), dalle regioni nordiche del Messico al luogo dove fondarono<br />
Tenochtitlan, la futura capitale del loro impero sulle cui rovine si estende ora Città del<br />
Messico, è riportata l'invenzione della bevanda inebriante del <strong>pulque</strong>. Come sopra<br />
riportato, una donna di nome Mayáhuel scoprì il procedimento della perforazione della<br />
pianta del maguey (Agave sp.) per farne fuoriuscire la linfa (chiamata aguamiel), mentre<br />
un uomo di nome Patécatl scoprì il metodo di raforzare la bevanda mediante l'aggiunta<br />
di additivi vegetali. Queste fgure furono in seguito divinizzate ed entrarono a far parte<br />
del complesso pantheon degli dei aztechi.<br />
Bernardino de Sahagún (X, XXIX, 12, 121), uno dei cronisti spagnoli che descrissero la<br />
storia della peregrinazione dei Mexica, prosegue la narrazione riportando che, subito<br />
dopo l'elaborazione del primo <strong>pulque</strong> sul monte Popozonaltépetl, i suoi inventori vi<br />
organizzarono un banchetto a cui fu invitata tutta la popolazione. Ad ognuno dei convitati<br />
furono versate quattro tazze di <strong>pulque</strong>, evitando di mescere la quinta, onde evitare<br />
l'ubriachezza generale.<br />
In questo passo è presente un importante concetto della cultura nahua sui limiti<br />
dell'ebbrezza socialmente accettata; il numero quattro è direttamente associato alle<br />
quattro direzioni spaziali della cosmografa nahua e il superamento <strong>delle</strong> quattro tazze di<br />
<strong>pulque</strong>, rappresentato dal quinto <strong>pulque</strong>, il macuiloctli, era indice di un'ubriachezza<br />
insana. Più in generale, presso diverse <strong>popolazioni</strong> autoctone americane il numero cinque<br />
è simbolo dell'esagerazione e dell'eccesso.<br />
Sahagún (X, XXIX, 12, 122) riporta che, nel corso del medesimo banchetto, il principe<br />
dei Cuextechi volle bere il quinto <strong>pulque</strong> e per questo si ubriacò giungendo a denudarsi di<br />
fronte a tutti. Appena si rese conto di ciò, il principe fu soprafatto dalla vergogna e fuggì<br />
con il suo popolo.<br />
<strong>Il</strong> motivo della denudazione a seguito dell'ubriachezza alcolica è difuso presso diverse<br />
culture umane; basti qui ricordare il passo biblico in cui Noè, dopo essere sceso dall'arca<br />
che lo salvò insieme a tutti gli animali dal diluvio universale, si ubriacò col vino ottenuto<br />
32
dalla vigna che aveva piantato; in seguito alla sua ubriachezza si denudò e i suoi fgli lo<br />
coprirono con un mantello (Genesi, 9, 20-23).<br />
Tornando al macuiloctli, il quinto <strong>pulque</strong>, Sahagún (X, XXIX, 12, 125) riporta che la<br />
popolazione dei Cuextechi era nota per essere particolarmente dedita all'ubriachezza, per<br />
via di quell'atto originale del loro principe che sul monte Popozonaltépetl bevve il quinto<br />
<strong>pulque</strong>; ciò diede origine ai modi di dire “quel tale ha bevuto il quinto <strong>pulque</strong>” o “hai<br />
bevuto il quinto <strong>pulque</strong>?”, in riferimento a comportamenti umani bizzarri o deliranti.<br />
<strong>Il</strong> tema del quinto <strong>pulque</strong> è pure presente in un passo degli Annali di Cuauhtitlan, che<br />
fanno parte del cosiddetto Codice Chimalpopoca (Anonimo, 1558-1570), un documento<br />
post-cortesiano datato attorno al 1558-1570, noto anche come Historia de los Reynos de<br />
Colhuacan y de México. Questo documento tratta eventi etnostorici databili fra il 635 e il<br />
1519 d.C. <strong>Il</strong> passo in questione fa parte della storia di Quetzalcóatl, qui inteso come un<br />
uomo, un principe-sacerdote che governava sui Toltechi. Essendosi rifutato di fare<br />
sacrifci umani, come richiestogli da avversari religiosi, questi, rappresentati dalle fgure<br />
di “stregoni” di Tezcatlipoca (nelle vesti di Huitzilopochtli), Ihuimécatl e Toltécatl<br />
(quest’ultimo uno degli dei del <strong>pulque</strong>), decisero di insidiargli il trono, con lo scopo di<br />
promuovere la caduta di Tula. Si accordarono quindi per ubriacarlo con il <strong>pulque</strong>. Dopo<br />
essere riusciti ad entrare nel palazzo ove risiedeva Quetzalcóatl, lo convinsero a bere la<br />
spumosa bevanda in quantità sufciente per ubriacarsi, cioè raggiungendo la quantità di<br />
cinque tazze. I tre “stregoni” fecero quindi ubriacare anche tutti i cortigiani, compresa<br />
Quetzalpétatl, la sorella di Quetzalcóatl. In seguito a ciò, Quetzalcóatl fu preso dallo<br />
sgomento e dalla vergogna per ciò che aveva fatto e fuggì via, intraprendendo un viaggio<br />
che terminò raggiungendo il mare e bruciandosi in un rogo; dopo la sua morte si<br />
trasformò nella stella del mattino. 12 Questa storia è raccontata anche da Sahagún (III, IV),<br />
dove tuttavia non si precisa la quantità di <strong>pulque</strong> bevuta da Quetzalcóatl e non viene fatto<br />
riferimento al quinto <strong>pulque</strong> (si veda l'Appendice III).<br />
Come considerazione a latere del tema qui esposto, ritroviamo Tezcatlipoca coinvolto<br />
con il <strong>pulque</strong> in un altro racconto mitologico riportato nella Relación de Meztitlán del<br />
1579 di Gabriel de Chávez: il dio del <strong>pulque</strong> Ome Tochtli era preoccupato poiché la sua<br />
bevanda provocava la morte a coloro che la bevevano. Richiese quindi l'aiuto di<br />
Tezcatlipoca, il quale sacrifcò Ome Tochtli. Poco dopo il dio del <strong>pulque</strong> resuscitò e da<br />
allora gli uomini si possono ubriacare senza pericolo. Vediamo quindi Tezcatlipoca<br />
rendere il dio del <strong>pulque</strong> immortale, allo stesso modo in cui contribuì alla futura rinascita<br />
di Quetzalcóatl come stella del mattino ubriacandolo col medesimo <strong>pulque</strong> (Graulich &<br />
Olivier, 2004: 137-8).<br />
<strong>Il</strong> concetto <strong>delle</strong> quattro tazze di <strong>pulque</strong> come limite massimo per una bevuta “sana”<br />
33
Texcatlipoca ofre <strong>pulque</strong> a Quetzcalcoátl<br />
Codice Fiorentino, lib. 3, f. 12r<br />
della bevanda non sembra essere stata<br />
una prerogativa della cultura nahua. Vi<br />
sarebbero riferimenti a tal riguardo,<br />
sebbene non espliciti, nel testo basilare<br />
della cultura tarasca (purepecha), la<br />
Relación de Michoacán. Nel capitolo<br />
XVI, Parte II, che tratta della prima<br />
moglie di Taríacuri, cazonci (re-sacerdote)<br />
dei Purepechi, due uomini le<br />
diedero da bere sino ad ubriacarla, per<br />
poi approfttarne sessualmente. Nel<br />
testo è letteralmente riportato che “le<br />
diedero da bere ogni quattro volte”. In<br />
un altro passo (Capitolo XXVI, Parte<br />
II), è descritta la decisione di Taríacuri<br />
di far uccidere suo fglio Curátame<br />
poiché era diventato un ubriacone.<br />
Inviati a tale scopo dei sicari, questi avvicinarono Curátame con lo scopo di ubriacarlo e<br />
quindi di ucciderlo: “gli diedero da bere quattro tazze, e poi altre quattro, ed egli si<br />
ubriacò”. Pur non essendo esplicitato in forma aperta, in questi casi di “bere ogni quattro<br />
volte” o di mescere quattro più quattro tazze di <strong>pulque</strong> sembra rifettere il concetto di<br />
superamento del limite <strong>delle</strong> quattro tazze come prova dello stato di ubriachezza.<br />
Dalla documentazione riportata dagli autori del periodo della Conquista, pur in<br />
maniera confusa, si evincerebbe un secondo signifcato da ascrivere al macuiloctli, il<br />
“quinto <strong>pulque</strong>”: non come la quinta tazza della medesima bevanda, bevuta successivamente<br />
alla quarta e alle precedenti, bensì come un particolare tipo di <strong>pulque</strong>, dalla<br />
formula probabilmente mantenuta segreta, utilizzato dalla casta prelatizia in determinati<br />
cicli rituali.<br />
<strong>Il</strong> concetto di limite di quattro tazze di <strong>pulque</strong> oltre il quale v'è il bere smodato e<br />
socialmente inaccettabile ricorda quello simile presente presso la cultura greca del limite<br />
di tre crateri di vino miscelato. <strong>Il</strong> cratere era il recipiente dove il vino puro veniva miscelato<br />
con acqua secondo determinate proporzioni, 2:3, 3:2, 2:1 fra acqua e vino (Catoni,<br />
2010: 28). Nella catalogazione proposta da Eubulo e riportata da Ateneo (Deipnosofsti, II,<br />
36b, rip. in Lissargue, 1989: 56) si evince la profonda conoscenza che i Greci avevano nei<br />
confronti dei diversi gradi dell'ebbrezza alcolica:<br />
34
“Per gli uomini assennati io mescolo tre crateri:<br />
il primo che essi bevono è per la salute,<br />
il secondo per il piacere e il desiderio,<br />
il terzo per il sonno.<br />
Bevuto questo, i saggi convitati si accingono a tornare a casa.<br />
<strong>Il</strong> quarto cratere non appartiene più alla nostra infuenza, ma alla violenza,<br />
il quinto al frastuono,<br />
il sesto alla processione bacchica,<br />
il settimo agli occhi pesti,<br />
l'ottavo è per il testimone d'accusa,<br />
il nono per la collera,<br />
il decimo fa uscire di senno.”<br />
Presso i Greci il luogo del bere collettivo per eccellenza era il simposio, dove partecipavano<br />
solo uomini ed eventuali efebi o prostitute e suonatrici, ma non le altre donne della<br />
società. Bere vino puro, “bere come uno Scita”, era considerato immorale e in un qualche<br />
modo “selvaggio” (Lissargue, 1989).<br />
<strong>Il</strong> problema degli additivi del <strong>pulque</strong><br />
Durante la preparazione del <strong>pulque</strong> venivano aggiunti degli additivi, di natura per lo più<br />
vegetale, che avevano diferenti scopi e che possono essere ricondotti alle seguenti quattro<br />
categorie:<br />
1) additivi per prolungare i tempi di conservazione della bevanda;<br />
2) additivi per raforzare l'efetto inebriante della bevanda mediante incremento della sua<br />
concentrazione alcolica;<br />
3) additivi per modifcare l'efetto inebriante della bevanda mediante aggiunta di principi<br />
attivi diferenti dall'alcol;<br />
4) additivi aromatizzanti.<br />
Oggigiorno persiste una notevole confusione ed enigmaticità nei confronti di questi<br />
additivi, per ragioni ravvisabili principalmente, nella opinione di chi scrive, nei seguenti<br />
fattori: a) durante i tempi precolombiani alcuni di questi additivi, in particolare quelli<br />
appartenenti alla terza classe sopra defnita, erano mantenuti rigorosamente segreti dalla<br />
classe prelatizia ed erano utilizzati solamente dal prelato e/o dalla classe dominante della<br />
società azteca; b) i cronisti successivi alla Conquista confusero frequentemente gli scopi<br />
35
per i quali venivano aggiunti gli additivi, in particolare senza distinguere lo scopo di<br />
prolungare il periodo di conservazione della bevanda da quello di potenziarne gli efetti<br />
psicoattivi. Si deve tener conto che la maggior parte di questi primi cronisti apparteneva<br />
al prelato cattolico, già predisposto preconcettualmente e acculturato sull'esistenza di<br />
piante che procurano visioni “diaboliche” associate al fenomeno della “stregoneria”<br />
dell'Europa medievale, accanitamente perseguito dalle istituzioni inquisitoriali (si veda ad<br />
es. Warren, 1979).<br />
Questa confusione dei primi cronisti fu tramandata e reiterata nei secoli successivi e i<br />
saggi pur seri e approfonditi degli studiosi moderni della cultura nahua non fanno altro<br />
che riproporre lo stato confusionale precedente. Da notare che gli additivi di questa<br />
bevanda furono oggetto di ampie discussioni negli ambiti politici e amministrativi<br />
coloniali e infuenzarono signifcativamente la storia del proibizionismo e la produzione<br />
del <strong>pulque</strong>, in particolare durante il XVIII secolo (si veda oltre, “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi<br />
coloniali”). Nel presente studio chi scrive non aspira a una soluzione di tale problematica,<br />
mediante identifcazione di questi additivi, bensì si limita a focalizzare le cause e i<br />
percorsi di quel problema di carattere etnobotanico a tutt'oggi insoluto qui defnito come<br />
il “problema degli additivi del <strong>pulque</strong>”.<br />
Dalle fonti antiche è ricavabile una complessa terminologia associata alla bevanda del<br />
<strong>pulque</strong>, che viene elencata di seguito; v'è da tener conto che esiste una notevole confusione<br />
e contraddizione dell'interpretazione da dare a questi termini presso gli studiosi<br />
moderni, oltre che fra gli autori antichi. La principale fonte di informazione è l'opera di<br />
Sahagún:<br />
uitztli, indicava la linfa o aguamiel appena fuoriuscita dalla pianta;<br />
octli, il nome generico del <strong>pulque</strong>;<br />
iztacoctli, “<strong>pulque</strong> bianco”, privo di qualunque additivo;<br />
tiçaoctli, apparentemente una specie di <strong>pulque</strong> bianco o un suo sinonimo;<br />
tlachique, il <strong>pulque</strong> di bassa qualità, ma sempre privo di additivi, ricavato da piante di<br />
maguey che producevano una linfa scadente, o perché prodotta da specie botaniche di<br />
Agave diferenti dalle buone specie <strong>pulque</strong>ras, oppure perché prodotta da piante di<br />
maguey da <strong>pulque</strong> coltivate in terreni e ambienti sfavorevoli;<br />
tecutlachique, probabile sinonimo di tlachique, riportato in Sahagún (II, XXXVII, 18);<br />
poliuhqui, indica la bevanda nel suo stato avariato e da cui probabilmente i primi<br />
Spagnoli ricavarono per fraintendimento la parola <strong>pulque</strong>;<br />
teoctli, “<strong>pulque</strong> divino” o “<strong>pulque</strong> degli dei”, riservato, forse non unicamente, alle vittime<br />
umane destinate ai sacrifci;<br />
36
texcalceuia o texcalceuilo, citato in Sahagún, II, XXXVII, 10, usato nel corso <strong>delle</strong> feste<br />
dedicate al dio del fuoco Xiuhtecutli nel mese di izcalli; forse questi vocaboli erano<br />
attribuiti al <strong>pulque</strong> tlachique bevuto in occasione di queste feste del dio del fuoco;<br />
cochioctli, citato da Sahagún (II, XXVI, 20), probabilmente era l'octli non bevuto e<br />
rimasto il giorno dopo la festa che si svolgeva durante le calende del settimo mese,<br />
chiamata tecuilhuitontli, e dedicata alla dea del sale Uixtocíhuatl;<br />
ayoctli, “<strong>pulque</strong> di acqua”, riportato sempre da Sahagún (IV, XXXVI, 11-13), sarebbe un<br />
“pulcre stregato con acqua e miele e cucinato con la radice”;<br />
matlaloctli, “pulcre azzurro” per via del suo colore (Sahagún, II, XXXIV, 45);<br />
macuilloctli, “quinto <strong>pulque</strong>”, la quinta tazza di <strong>pulque</strong> intesa come superamento <strong>delle</strong><br />
quattro tazze socialmente accettate; ma può indicare anche un tipo specifco di <strong>pulque</strong>,<br />
dalla formula mantenuta segreta e riservata al prelato;<br />
tlachiualoctli, “<strong>pulque</strong> artifciale”.<br />
La diferenziazione dei tipi di <strong>pulque</strong> si evidenzia in numerosi passi degli autori antichi;<br />
valga come esempio un passo, già riportato, della descrizione di Sahagún (IV, XXXVI, 11-<br />
13) dei riti battesimali nahua:<br />
“Alle volte davano pulcre che si chiamava íztac octli, che signifca <strong>pulque</strong> bianco,<br />
che è quello che zampilla dai maguey e altre volte davano pulcre stregato con acqua e<br />
miele e cucinato con la radice che chiamano ayoctli, che signifca pulcre di acqua,<br />
che era custodito e preparato dal signore del convitto già da alcuni giorni. (13) E il<br />
servitore, quando vedeva che non si ubriacavano, tornava a dare da bere in senso<br />
contrario alla mano sinistra, iniziando dagli ultimi”.<br />
Un semplice metodo per rinforzare l'efetto inebriante della bevanda era quello di<br />
gettare nel <strong>pulque</strong> bianco puro una pietra ardente che era chiamata tezontle; tale metodo,<br />
che aveva la chiara funzione di attivare la fermentazione, veniva usato nei <strong>pulque</strong> di<br />
qualità inferiori – ad esempio quello ricavato da piante di maguey cresciute in luoghi<br />
umidi, caratterizzati da una povertà di zuccheri – e che erano chiamati <strong>pulque</strong> tlachique.<br />
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> si mantiene per un periodo che non supera le 24-36 ore, dopodiché si<br />
decompone e non è più bevibile. <strong>Il</strong> problema della conservazione della bevanda fu quindi<br />
molto sentito sia nei tempi arcaici che in quelli coloniali. Per ritardare la sua cagliatura e<br />
decomposizione vi si gettavano <strong>delle</strong> erbe specifche, di cui una era il popotle, rimasta<br />
botanicamente indeterminata. In base a rapporti scritti di frati e medici della fne del<br />
1600 quest'erba era considerata “la peggiore e la più velenosa” di tutte quelle che si<br />
mettono nel <strong>pulque</strong>. Si teneva nei tini per 10 o 12 ore ed era usata esclusivamente in<br />
37
inverno “con lo scopo di non viziare e di non far prendere corpo al <strong>pulque</strong>”. La sua<br />
funzione era molto pratica per il trasporto in quanto bloccava la decomposizione. A<br />
questo scopo si usava anche la calce (Hernández Palomo, 1979: 27-8).<br />
Francisco Hernández (1571-6), nella sua monumentale opera sulle piante e animali<br />
della “Nueva España”, cita alcune altre piante che venivano mescolate nel <strong>pulque</strong>. Una di<br />
queste era l'itlanexillo (“piede di lepre”), una pianticella simile al capelvenere, le cui foglie<br />
erano impiegate per trattare la dissenteria e di cui si mescolavano col <strong>pulque</strong> le radici col<br />
preciso scopo di “dargli forza e maggiore efcacia per stravolgere la mente” (Libro III,<br />
Cap. XL); ci troveremmo quindi nel caso 3 della nostra classifcazione iniziale. 13 Un'altra<br />
pianta era l'arbusto del quauhchílzotl (“legno di peperone vecchio”), “la cui radice<br />
“mescolata con metl produce vino” (Libro III, Cap. CL). 14 In questo caso è probabile che<br />
l'aggiunta nella linfa della pianta del maguey (metl) avesse lo scopo di facilitare la sua<br />
fermentazione (caso 2).<br />
Sahagún è stranamente parco di dati circa gli additivi del <strong>pulque</strong> e sembra riferire di<br />
non meglio precisate radici aggiunte nella bevanda in un solo passo fra i numerosissimi<br />
che dedica al <strong>pulque</strong>, e precisamente dove descrive il lavoro di colui che prepara e vende il<br />
<strong>pulque</strong>: “il miele [aguamiel] cuocendolo o bollendolo prima di tutto, e riempe cantari o<br />
cuoi per custodirlo, e questo dopo che ha radici” (X, XX, 4).<br />
Ma la pianta maggiormente citata dagli autori antichi e la più enigmatica dal punto di<br />
vista della sua determinazione botanica e <strong>delle</strong> sue funzioni in relazione alla preparazione<br />
del <strong>pulque</strong> è l'ocpatli o quapatli. Motolinía (I, II, 55) riportava che “prima che il loro vino<br />
lo cuociano con alcune radici che vi gettano, è chiaro e dolce come idromele. Dopo cotto<br />
si fa spesso ed ha un cattivo odore, e coloro che con quello si ubriacano, molto peggio.” In<br />
un altro passo (III, XIX, 440) aggiunge che dall'aguamiel “cotto e bollito al fuoco, si ricava<br />
un vino dolciastro limpido, che bevono gli spagnoli e dicono che è molto buono,<br />
sostanzioso e salubre. Cotto questo liquore in orci come si cuoce il vino e gettandovi <strong>delle</strong><br />
radici che gli indios chiamano ocpatl, che signifca medicina o condimento del vino, si<br />
ricava un vino così forte che a coloro che ne bevono in quantità ubriaca fortemente”. Se<br />
ne dedurrebbe quindi che la funzione dell'ocaptl era di rinforzante gli efetti inebrianti del<br />
<strong>pulque</strong>.<br />
Nel Codice Telleriano Remense (fol. 15) viene riportato che “questo Patécatl è signore di<br />
questi tre giorni e di alcune radici ch’essi gettavano nel vino, poiché senza queste radici<br />
non si potevano ubriacare pur quanto ne bevessero”. Va ricordato che il nome Patécatl<br />
deriva dalla radice nahuatl pátli, che signifca “medicina”. Secondo Gonçalves da Lima<br />
(1986: 136) il signifcato etimologico di oc.patli è “medicina del <strong>pulque</strong>” e sarebbe questa<br />
la ragione per cui al nome di Patécatl fu attribuito il signifcato etimologico di “quello<br />
38
della terra della medicina”. Ciò apparirebbe come un'ulteriore conferma del fatto che<br />
Patécatl fu lo scopritore dell'efetto inebriante “completo” del <strong>pulque</strong>, dove le radici dell'ocpatli<br />
svolgevano un ruolo signifcativo se non addirittura imprenscindibile.<br />
Juan Bautista Pomar, nella sua Relación de Tezcoco del 1581 (cap. XXV, si veda Vázquez,<br />
1991: 95-6), riferisce sia di una radice chiamata cuauhpatli, sia della radice dell'ocpatli,<br />
che vengono messe nel succo di maguey prima di farlo bollire e ricavarne il “vino”.<br />
Pedro Sanchez de Aguilar (1639), in una Cedula contra el Pulque, riferiva: “Io sono<br />
informato che gli Indios nativi di questa Nueva España fanno un certo vino che si chiama<br />
Pulque, nel quale dicono che nei periodi che fanno le loro feste e per tutto il resto<br />
dell'anno vi gettano una radice, ch'essi seminano con lo scopo di gettarla nel suddetto<br />
vino, per fortifcarlo e fargli prendere maggior sapore, con il quale si ubriacano” (Vázquez,<br />
1991: 37). In un'altra Cedula dell'anno 1545 in cui si vieta il vino agli Indios, il<br />
medesimo autore riferiva del “vino della terra con radici” (ibid., p. 38). Da notare che<br />
questo autore riferiva che la pianta che dava queste radici veniva coltivata dai nativi.<br />
Durán (Libro II, Cap. XXII) ofre ulteriori dati interessanti: in un primo passo riferisce<br />
dei tavernieri che nel momento in cui:<br />
“gettavano la radice” nel <strong>pulque</strong> e questo iniziava a bollire mettevano incenso nei<br />
bracieri e ofrivano cibo alla divinità. In un passo successivo fa notare come “quello<br />
che chiamano <strong>pulque</strong> che fanno gli Spagnoli di miele nero e acqua con la radice,<br />
quelli [gli Aztechi] mai l'ebbero né seppero fare sino a che i negri e gli Spagnoli lo<br />
inventarono e così questo vocabolo <strong>pulque</strong> non è vocabolo messicano bensì <strong>delle</strong><br />
isole, come mais e nagua e altri vocaboli che portarono da Española. <strong>Il</strong> vero vino di<br />
questi [gli Aztechi] era di aguamiel del maguey dove vi gettano dentro la radice e<br />
che usavano non solo per le loro feste e ubriachezze ma anche per le loro medicine,<br />
come usano oggigiorno poiché realmente medicinale”.<br />
Nonostante Durán non sia sempre attendibile, in quanto contamina frequentemente i<br />
dati ricevuti dai suoi informatori con sue deduzioni personali, la possibilità espressa in<br />
questo suo passo, cioè che si siano presentate variazioni di tecniche di preparazione e di<br />
nuovi additivi dopo la Conquista, magari importate dalle Antille, non è da scartare a<br />
priori. Durán fa notare la diferenza fra “<strong>pulque</strong> bianco con radice”, di schietta origine<br />
azteca o comunque tradizionale, e <strong>pulque</strong> di “miele nero con radice”, che sarebbe stato<br />
inventato altrove e importato in seguito ai fussi migratori inter-mesoamericani conseguenti<br />
all'arrivo degli Europei. Egli prosegue afermando che “<strong>Il</strong> suo [del <strong>pulque</strong> azteco]<br />
nome era iztac-octli, che signifca vino bianco e comprendo che gli hanno aggiunto il<br />
bianco per diferenziarlo da quello che si fa da miele nero perché è indemoniato e puzzo-<br />
39
lente e nero forte e aspro, senza gusto né sapore, come essi medesimi confessano, e con<br />
tutto questo come lo bevono più frequentemente e li rende più irragionevoli e furiosi per<br />
via della forza che ha rispetto al loro proprio essendo il loro più leggero e medicinale”. E'<br />
evidente l'apporto dell'interpretatio cattolica nell'associare il colore nero del “miele” non<br />
tradizionale (cioè non azteco) al demonio, quel medesimo “demonio” che lo steso Durán<br />
non esita in altri numerosi passi del suo trattato ad associare a divinità e pratiche religiose<br />
azteche.<br />
Un riferimento a <strong>delle</strong> radici aggiunte al <strong>pulque</strong> lo troviamo in un mito d'origine del<br />
maguey, di stampo tezcocoano, che ci è pervenuto attraverso la Histoire du Mechique,<br />
opera di un anonimo autore del XVI secolo (si veda l'Appendice I). Nella parte fnale del<br />
racconto è riportato: “Da questo [il maguey] gli indios fanno il vino che bevono e con il<br />
quale si ubriacano, sebbene non è a causa del vino, bensì per via di alcune radici che<br />
chiamano ucpatli ch'essi mescolano con quello”.<br />
Un'attenzione particolare deve essere data al lavoro di Francisco Hernández, il botanico<br />
e proto-medico che negli anni '70 del 1500 per volontà del re di Spagna Filippo II diresse<br />
una spedizione scientifca nei nuovi territori americani conquistati dagli Spagnoli e che fu<br />
autore di un'importante opera di classifcazione <strong>delle</strong> piante e degli animali della Nueva<br />
España. Questo autore (Libro XVI, Cap. LII) identifca l'ocpatli (“condimento del vino”)<br />
con il quapatli (“medicina del monte”) o tlapatli (“medicina piccola”) e riporta che questa<br />
pianta mescolata con il “vino di metl” ne aumenta la forza inebriante. Tuttavia, a<br />
diferenza degli altri autori, riferisce che la parte utilizzata era la sua corteccia e non la<br />
radice. Inoltre, riporta che anche quando viene aggiunta ad altre bevande liquorose ne<br />
aumenta gli efetti inebrianti. Da notare che nella descrizione Hernández riferisce che<br />
questa pianta ha dei baccelli, un fatto che fa sospettare che appartenga alla famiglia <strong>delle</strong><br />
Leguminosae. 15 Un'ulteriore notizia utile per l'identifcazione dell'ocpatli/quapatli<br />
Hernández la ofre nel trattare un suo sinonimo, lo tzotzocolxóchitl e una pianta afne,<br />
“anch'essa appartenente alle specie di acacia” (Libro XXIV, Cap. X):<br />
“Lo tzotzocolxóchitl è un arbusto che i messicani chiamano quapatli, nome sotto<br />
cui lo abbiamo descritto in altro luogo. Dicono i panucenses che è utile in maniera<br />
ammirevole contro la tosse. Nasce nella sua terra un'altra specie chiamata tziquáhuitl,<br />
quasi del medesimo aspetto, di temperamento freddo, astringente e secco,<br />
anch'esso appartenente alle specie di acacia e il cui decotto dice la medesima gente<br />
che cura le ulcere della bocca, pulisce e consolida i denti, e sana le ulcere putride<br />
dovuta alla consumazione di carne corrotta”.<br />
Questi dati fanno quindi ipotizzare che il quapatli od ocpatli fosse una leguminosa,<br />
40
nella cui famiglia rientrano numerose piante dalle accertate proprietà psicoattive, presenti<br />
anche nelle Americhe. In efetti, in diverse Relazioni Geografche nel centro del Messico e<br />
in Oaxaca l'ocpatl o quapatle è identifcato con la corteccia di Acacia angustissima (Mill.)<br />
Kuntze (Corcuera de Mancera, 1991: 122).<br />
In un altro passo della sua opera (Libro XVI, Cap. LIII), Hernández cita un'altra pianta<br />
dal medesimo nome quapatli, caratterizzata dall'essere un'erba piccola con foglie simili a<br />
quelle del susino ma più grandi e il cui decotto applicato sulla testa calma i dolori alle<br />
orecchie. Ma si tratta evidentemente di una pianta diferente da quella precedente, nonostante<br />
sia chiamata con lo stesso nome di “medicina del monte”.<br />
Ricapitolando, Hernández considerava quapatli, ocpatli, tlapatli e tzotzocolxóchitl<br />
sinonimi di una medesima pianta utilizzata come additivo del <strong>pulque</strong>; altri autori invece<br />
consideravano come due distinte piante il quapatli e l'ocpatli. <strong>Il</strong> quapatli (o cuapatle) fu<br />
oggetto di diverse controverse nel corso del XVIII secolo, considerato demoniaco o<br />
ingrediente positivo e necessario per la preparazione del <strong>pulque</strong> a seconda dell'ignoranza,<br />
del pregiudizio o della convenienza – anche economica – del vescovo, dell'alcade o<br />
dell'asentista di turno.<br />
Clavijero (1780-1: Libro VII, p. 435), che può essere considerato l'ultimo in ordine<br />
cronologico fra gli autori antichi, riportò che l'ocpatli o “rimedio del vino” serviva “per<br />
facilitare la fermentazione e dar più forza alla bevanda”. In questa frase sembra essere<br />
assorbito uno stereotipo interpretativo <strong>delle</strong> funzioni dell'ocpatli elaborato nel corso del<br />
XVIII secolo e dovuto alla probabile confusione fra diversi ingredienti vegetali, confusione<br />
forse addirittura indotta intenzionalmente per nascondere proprietà inebrianti di un<br />
determinato additivo, un tempo ritenute segrete.<br />
La complessità degli additivi del <strong>pulque</strong> aumenta considerando il cosiddetto “quinto<br />
<strong>pulque</strong>”, il macuiloctli. Come esposto più sopra, il macuiloctli era considerata la dose di<br />
<strong>pulque</strong> che eccedeva le quattro tazze socialmente accettate; dalla quinta tazza in poi<br />
regnava la violenza e la follia. Tuttavia, vi sono riferimenti a un macuiloctli come un tipo<br />
specifco di <strong>pulque</strong>. In un passo della sua opera (II, Appendice IV, 3) Sahagún sembra<br />
considerarlo un sinonimo del teoctli (“festa del macuilloctli, '<strong>Il</strong> Quinto Pulque', ch'essi<br />
chiamavano di teucotli, 'Pulque-degli-Dei'”). <strong>Il</strong> teoctli – da teo, “dio” e octli, “<strong>pulque</strong>”,<br />
quindi “<strong>pulque</strong> degli dei” – era uno speciale tipo di <strong>pulque</strong> che veniva dato da bere ai<br />
prigionieri in procinto di essere sacrifcati. Anche al successivo paragrafo 17 di Sahagún<br />
v'è una chiara identifcazione fra macuiloctli e teoctli; la traduzione di Garibay fornisce:<br />
“Questo Ometochtli pantécatl [un tipo di sacerdote] aveva il compito di procurare il vino<br />
che si chiamava macuiloctli, o teooctli, che era usato nella festa di panquetzaliztli”. Tuttavia,<br />
Gonçalves da Lima (1986: 116-7) traduce questo passo in un modo signifcativamente<br />
41
diferente: “<strong>Il</strong> sacerdote di Ometochtli Patécatl preparava il macuilloctli e lo passava al<br />
sacerdote degli dei del <strong>pulque</strong> Toltécatl. Questo lo doveva fare [trasformare nel] teucotli, il<br />
vino degli dei; il macuilloctli si consumava nella festa di Panquetzaliztli”. Da ciò si<br />
inferisce che macuiloctli e teoctli non sono nomi della medesima bevanda, come<br />
apparirebbe dalla versione di questo passo data da Garibay e dal primo passo citato di<br />
Sahagún, bensì “erano <strong>pulque</strong> preparati specifcatamente per i sacerdoti, essendo il teoctli<br />
un macuilloctli modifcato” (ibid. :117). Al paragrafo 33 della medesima Appendice IV del<br />
testo di Sahagún è descritta la funzione del sacerdote Yzquitlan, che aveva il compito di<br />
curare il vestiario dell'ofciante e anche “il <strong>pulque</strong> degli dei, teuoctli, e riceveva la linfa<br />
dolce del maguey, necutil, che terminava di uscire [dal maguey] e che ancora non era<br />
piccante” (seguendo la traduzione di Gonçalves da Lima, 1986: 117); questo studioso ne<br />
deduce che l'aguamiel ottenuta dallo Yzquitlan serviva per l’elaborazione del teoctli,<br />
impiegando forse un ingrediente vegetale specifco, “un ocpatli personale dei dirigenti<br />
religiosi”.<br />
Per Rätsch (2005: 28 e 46) l'ocpatli è probabilmente identifcabile con Acacia<br />
angustifolia (Mill.) Kuntze. <strong>Il</strong> vocabolo ocpatl signifcherebbe “droga del <strong>pulque</strong>” e nello<br />
spagnolo messicano contemporaneo il nome vernacolare di questa acacia sarebbe palo de<br />
<strong>pulque</strong> (“albero del <strong>pulque</strong>”). Un'altra specie, Acacia albicans Kunth sarebbe stata usata<br />
come additivo del <strong>pulque</strong>.<br />
Resta il fatto che durante i periodi coloniali si difuse un insistente proibizionismo nei<br />
confronti degli additivi del <strong>pulque</strong>, poiché fra di questi v'erano ingredienti che ne<br />
potenziavano gli efetti in maniera signifcativa e che furono prontamente classifcati<br />
come prodotti demoniaci da parte del clero, in quanto riconosciuti da questi afni alle<br />
piante “stregoniche” europee. Ma essendosi difusa anche la confusione fra additivi<br />
rinforzanti l'efetto inebriante e additivi necessari per la fermentazione del <strong>pulque</strong> o per la<br />
sua conservazione, si giunse in diversi casi a proibire tutti gli additivi di natura vegetale,<br />
creando ciò non pochi problemi nella sua produzione. In diversi casi si giunse a decreti<br />
contraddittori fra le diverse istituzioni coloniali e mentre il cuapatle veniva venduto sotto<br />
licenza nei mercati <strong>delle</strong> principali città, compresa Città del Messico, governanti di aree<br />
agricole ne proibivano il commercio e l'utilizzo come ingrediente del <strong>pulque</strong>. Nel 1720,<br />
nella giurisdizione di Huejotzingo il viceré marchese di Valero dovette imporsi con un<br />
decreto specifco in favore del libero utilizzo del cuapatle e contro la decisione ritenuta<br />
arbitraria dell'asentista locale (Hernández Palomo, 1979: 29).<br />
Secondo Hernández Palomo (1979: 29) la funzione principale del cuapatle era di<br />
preservare ed evitare la corruzione del <strong>pulque</strong>, ma questo studioso, nel suo pur brillante<br />
studio sul proibizionismo del <strong>pulque</strong> durante i periodi coloniali, non ha valutato la<br />
42
possibilità che le fonti antiche di cui si è avvalso recassero già confusioni di determinazione<br />
per ciò che intendevano come cuapatle.<br />
Al <strong>pulque</strong> venivano aggiunti diversi altri ingredienti, molti dei quali con lo scopo di<br />
aromatizzarlo. Nel 1791 il naturalista Antonio Pineda estese un rapporto sulle diverse<br />
bevande in uso in Messico, di cui numerose a base di <strong>pulque</strong>, dove venivano aggiunti<br />
anice, arance, ananas, mandorle, ecc. La maggior parte di queste bevande furono elaborate<br />
nei tempi coloniali e infuenzate dalla cultura spagnola. Interessanti le bevande<br />
copalotile 16 e tolonze, preparate con l'aggiunta nel <strong>pulque</strong> di semi e frutti dell'albero del<br />
Perù, cioè Schinus molle L., della famiglia <strong>delle</strong> Anacardiaceae, originario del Sud<br />
America e che gli Spagnoli difusero in Messico (Wilson, 1963). Presso le <strong>popolazioni</strong><br />
andine il frutto di questo albero è tradizionalmente usato come ingrediente nella<br />
preparazione della chicha (bevanda fermentata a base di mais), per facilitare la sua<br />
fermentazione (Rätsch, 2005: 740). I Messicani l'adottarono con il probabile scopo di<br />
facilitare la fermentazione in quei <strong>pulque</strong>, come il tlachique, ricavati da linfa di maguey<br />
povera in contenuti zuccherini. Ancora, dentro ai tini di fermentazione del <strong>pulque</strong><br />
venivano inseriti i più disparati oggetti, con probabili scopi magici. Ad esempio, nel 1692<br />
un inquisitore scoprì in un tino un cannello chiuso con una lucertola viva (Hernández<br />
Palomo, 1979: 30).<br />
Un'ulteriore associazione di natura etnobotanica della sfera simbolica del <strong>pulque</strong> è il<br />
malinalli, al contempo pianta e simbolo ad essa associato. La pianta è per lo più<br />
riconosciuta fra gli autori come una piccola graminacea, alquanto efmera, che nasce<br />
improvvisamente subito dopo le piogge estive dopodiché avvizzisce velocemente. Fra gli<br />
Aztechi era il simbolo dell'efmero, del transitorio, del superfuo, della vanità e anche<br />
della fugace allegria causata dal <strong>pulque</strong> e dallo stato di ubriachezza. <strong>Il</strong> grafema del<br />
malinalli era costituito da un teschio ornato (Corcuera de Mancera, 1991: 23). Kuehne<br />
Heyder (1995) ha avanzato dei dubbi circa l'identifcazione generalmente accettata del<br />
malinalli come una specie di Muhlenbergia, della famiglia <strong>delle</strong> graminacee, chiamata<br />
popolarmente in spagnolo zacate del carbonero, e ha proposto di identifcare invece il<br />
malinalli con l'ocpatli; inoltre, vede per il malinalli una certa relazione con una specie di<br />
Datura. <strong>Il</strong> simbolo del teschio non si addice a una erbetta così efmera e poco importante<br />
quale il zacate del carbonero e sono riferite al malinalli proprietà medicinali che non si<br />
addicono a questa graminacea. In particolare, De La Cruz (1552), pur rafgurando il<br />
malinalli come una evidente graminacea, indica proprietà medicinali nelle afezioni<br />
oculari (F. 12 v), nelle femme gastriche (F 20 r) e nel parto (F 58 v).<br />
Considerando il complesso degli additivi del <strong>pulque</strong> nel suo insieme, si evidenzia<br />
l'utilizzo di speciali ingredienti vegetali di natura psicoattiva, di cui alcuni probabilmente<br />
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allucinogeni, per la preparazione di bevande in cui il <strong>pulque</strong> svolgeva il ruolo di liquido<br />
madre. Siamo cioè qui in presenza di un “Complesso Psicofarmacologico del Pulque”,<br />
similmente ad altri conglomerati di conoscenze psicoattive quali il Complesso Dionisiaco,<br />
dove il vino aveva valenze di liquido madre per miscelarvi le più disparate erbe psicoattive,<br />
o il Complesso Psicofarmacologico dell'Ayahuasca, dove alla bevanda “maestro”,<br />
l'ayahuasca, vengono aggiunte le più disparate piante psicoattive, tale da aver dato adito<br />
all'elaborazione tribale di un complesso sistema gerarchico di efetti allucinogeni. In<br />
diversi casi questi Complessi Psicofarmacologici sono imperniati su una bevanda<br />
inebriante di natura alcolica, in quanto le bevande alcoliche sono ottimi liquidi estrattori<br />
dei principi attivi <strong>delle</strong> varie fonti vegetali: essendo questi principi attivi estraibili in acqua<br />
(idrosolubili) o estraibili in alcol, le bevande alcoliche, per loro natura idro-alcoliche, cioè<br />
contenenti sia alcol che acqua, risultano degli ottimi liquidi in cui indurre, con<br />
riscaldamento o meno, il passaggio dei principi attivi da foglie, radici, cortecce al liquido<br />
in seguito da bere. Ecco quindi che l'articolata soluzione al problema degli additivi del<br />
<strong>pulque</strong> è da ricercare internamente al Complesso Psicofarmacologico strutturatosi attorno<br />
a questa bevanda.<br />
Un caso simile si verifcò con la chicha andina, prodotta mediante il processo di<br />
insalivazione dei chicchi di mais, per la quale si può similmente parlare di un “Complesso<br />
psicofarmacologico”. A questa comune bevanda sudamericana (che ha un corrispettivo<br />
amazzonico chiamato cauim e con numerosi altri nomi) venivano aggiunte numerose<br />
piante, diverse <strong>delle</strong> quali avevano lo scopo di raforzare o modifcare l'efetto inebriante.<br />
Citiamo qui come unico esempio una fonte letteraria della fne del XVI secolo, opera del<br />
Gesuita Anonimo; in un passo che tratta della preparazione della chicha, leggiamo: “Altri,<br />
più golosi … vi gettavano nel momento di berla nel bicchiere il succo di una certa erba<br />
medicinale, e diventava così forte, che li inebriava più velocemente. Chiamano questo<br />
vino viñapu [dal verbo quechua huiñani, “iniziare a crescere”] e altri sora, e dicono coloro<br />
che lo hanno provato che è pestifero e causa molte malattie. La causa che dà non è di<br />
malattie, poiché non vediamo alcun indio in tutto il regno che sia attaccato dal male di<br />
fegato o di calcoli, bensì il peccato dell'ubriachezza, della lussuria e dell'idolatria, che sono<br />
maggiori e peggiori malattie.” (Barba, 1968: 177).<br />
Molto probabilmente esistevano diferenti tipi di <strong>pulque</strong>, da quelli permessi al popolo a<br />
quelli permessi solo alla casta prelatizia o ai guerrieri, prodotti con formule quasi certamente<br />
mantenute segrete. Ed è nei <strong>pulque</strong> “prelatizi” che dobbiamo principalmente<br />
rivolgere lo sguardo nella ricerca <strong>delle</strong> fonti puramente enteogene, quali gli additivi di<br />
natura allucinogena. <strong>Il</strong> contatto più profondo con le divinità era mantenuto riserbato a<br />
principi e sacerdoti, gli unici che avevano accesso alla spettro completo di conoscenze per<br />
44
modifcare lo stato della coscienza umana, come ha fatto notare in un interessante studio<br />
sul <strong>pulque</strong> Corcuera de Mancera (1991: 17):<br />
“Fra gli antichi messicani era proibito un rapporto popolare, non controllato<br />
dall'autorità religiosa, dell'uomo con la divinità. <strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era depositario<br />
dell'insieme degli dei coniglio, e nell'ingerirlo la persona si abbandonava in modo<br />
volontario a una possessione divina. Per questo i sacerdoti, gelosi del loro ruolo di<br />
mediatori e desiderosi di conservare l'autorità e il potere che questo dava loro,<br />
vedevano come un pericolo che l'uomo comune uscisse dal loro controllo per<br />
ingerire una sostanza che era corpo divino”.<br />
45
<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi coloniali<br />
Con l'arrivo degli Spagnoli il <strong>pulque</strong> perdette la sua posizione di bevanda inebriante ad<br />
uso cerimoniale e religioso e fu velocemente relegato alla posizione di bevanda profana.<br />
Dopo neanche un secolo dalla prima visita di Cortés i danni della profanazione dell'uso<br />
di questa bevanda si fecero pesantemente sentire nei territori messicani e in ciò che<br />
rimaneva della sua popolazione autoctona. <strong>Il</strong> frate dominicano Diego Durán (Libro II,<br />
Cap. XXII), che scrisse nella seconda metà del XVII secolo, studiando le “idolatrie” degli<br />
indios e il sistema religioso dei vinti, si accorse e a suo modo si rammaricava della<br />
mancanza del rigido sistema di controllo sull'uso del <strong>pulque</strong> che avevano adottato gli<br />
Aztechi, che “non era gente barbara, bensì gente politica, esperta e avveduta”. Fatto sta che<br />
l'alcolismo da <strong>pulque</strong> dilagò fra i restanti nativi, già decimati dalla brutalità dei<br />
Conquistadores e dalle nuove malattie da questi portate nella Nueva España.<br />
Poco dopo l'arrivo degli Spagnoli in terra messicana l'uso degli inebrianti di natura<br />
allucinogena – peyote, funghi psilocibinici, semi di Rivea corymbosa (ololihqui), ecc. -<br />
furono proibiti su tutto il territorio della Nueva España, poiché interpretati come prodotti<br />
“diabolici” e fortemente in antitesi alle idee e allo spirito religioso cristiano, seguendo in<br />
tal modo un cliché comune che dovettero subire tutte le <strong>popolazioni</strong> del mondo<br />
colonizzate dagli Europei. Un fatto curioso: per un certo periodo di tempo fu vietato il<br />
vino europeo agli indios, come dimostrano le Cedole Ecclesiastiche degli anni 1539 e<br />
1545 (Corcuera de Mancera, 1991: 123), un divieto quasi ironico, verifcato che gli indios<br />
non avrebbero potuto permettersi il lusso di comprare vino europeo.<br />
Le bevande autoctone di natura alcolica non subirono generalmente questo ferreo<br />
divieto; una <strong>delle</strong> eccezioni fu del <strong>pulque</strong>, per via degli additivi vegetali che vi venivano<br />
aggiunti, alcuni dei quali erano quasi certamente di natura allucinogena o comunque<br />
46
aforzavano signifcativamente, per gli Spagnoli eccessivamente, le sue proprietà inebrianti.<br />
Tuttavia, come ha fatto notare nel suo attento studio Hernández Palomo (1979), le<br />
reiterate proibizioni attraverso le Cedole Reali, in particolare degli anni 1529, 1545, 1594,<br />
1607, 1637 e 1640, vertevano sulla proibizione dei vari ingredienti vegetali che venivano<br />
aggiunti al “<strong>pulque</strong> bianco”, cioè il semplice <strong>pulque</strong> ottenuto mediante fermentazione<br />
della linfa fatta fuoriuscire dalla pianta del maguey, linfa nota nei periodi post-cortesiani<br />
con il nome spagnolo di aguamiel. Restava quindi implicito il permesso di elaborare e<br />
commercializzare il <strong>pulque</strong> bianco, che era nulla di più che una blanda bevanda alcolica,<br />
con una gradazione del 2-4 % di alcol.<br />
Nel 1608 un'ordinanza del Viceré Luis de Velasco impose una prima normativa in fatto<br />
di commercializzazione del <strong>pulque</strong> bianco, che prevedeva l'esclusione da tale commercio<br />
di individui estranei alla pura etnia degli “indios” – spagnoli, mestizi, mulatti o negri che<br />
fossero – ed erano previste pene severe per chi non avesse rispettato questa condizione,<br />
che evidentemente era rivolta alla protezione del sistema di produzione indigeno del<br />
<strong>pulque</strong>. Questa ordinanza prevedeva che per ogni 100 indios venisse nominata una<br />
donna, una india, che doveva avere le caratteristiche di essere anziana, stimata e<br />
d'estrazione molto povera, che si sarebbe dovuta fare carico della vendita del <strong>pulque</strong> fra i<br />
nativi, con la condizione aggiuntiva che in questo commercio non poteva far coinvolgere<br />
spagnoli o indigeni appartenenti all'amministrazione locale. La vendita del <strong>pulque</strong> era<br />
comunque proibita nei giorni di domenica e in tutti i giorni festivi, compresi i giorni della<br />
Quaresima. 17 E' interessante notare come anche nei periodi successivi “nella vendita del<br />
<strong>pulque</strong> non fu fatta mai allusione agli uomini, bensì si parlò sempre di venditrici, di<br />
indias. Questa presenza della donna è una caratteristica rimasta in gran parte sino ai<br />
nostri giorni” (Hernández Palomo, 1979: 36).<br />
Ma l'ordinanza di Velasco del 1608 rimase efettiva solamente per alcune decine di anni;<br />
gli interessi economici nei confronti di un commercio lucroso fecero si che vi si<br />
infltrassero gradualmente spagnoli e mestizi, in particolare nella gestione <strong>delle</strong><br />
<strong>pulque</strong>rias, le locande dove si vendeva e consumava la bevanda; inoltre, il dilagare<br />
dell'alcolismo presso la popolazione indigena, congiuntamente al mancato rispetto,<br />
alquanto difuso, del divieto dell'uso di additivi fortifcanti la medesima bevanda, portò le<br />
amministrazioni locali e centrali a riconsiderare la normativa sul <strong>pulque</strong>; già nel 1648 si<br />
hanno notizie della nomina di un “Giudice del Pulque”, che doveva sovrintendere alle<br />
controversie e ai crimini legati al consumo della bevanda, oltre a un irrigidimento nei<br />
confronti del suo uso indigeno.<br />
L'ordinanza di Velasco, pur redigendo una normativa del mercato del <strong>pulque</strong>, non<br />
47
prevedeva l'istituzione di una tassa sulla bevanda, nel rispetto della più generale regola<br />
fssata dal re di Spagna di non tassare i prodotti indigeni utilizzati dalla popolazione<br />
nativa. Tuttavia, verso la seconda metà del XVII secolo gli amministratori locali, in<br />
particolare quelli dei paesi dei dintorni di Città del Messico, principali luoghi di<br />
produzione del <strong>pulque</strong>, iniziarono illegalmente a richiedere un impuesto per tutto il<br />
<strong>pulque</strong> che veniva trasportato verso la capitale. L'illegalità di questa tassa era evidente e fu<br />
oggetto di denuncia da parte di diversi amministratori coscienziosi. Si verifcarono anche<br />
situazioni di lucro “indiretto”, cioè non mediante una vera e propria tassa, bensì attraverso<br />
l'ingerenza nel commercio da parte di amministratori locali; fu il caso ad esempio del<br />
corregidor di Cuautepec, che nel 1633 obbligò gli indios della sua giurisdizione a<br />
vendergli il <strong>pulque</strong> ch'egli rivendeva in seguito a un prezzo raddoppiato. Verifcato che<br />
nel commercio della bevanda rientravano sempre più individui non appartenenti alla<br />
razza nativa, le tasse e le attività lucrative venivano giustifcate dal fatto che tale<br />
commercio esulava dai commerci puramente nativi, che per legge erano esenti da tasse.<br />
Tutto ciò portò alla decisione reale di stabilire un primo asiento del <strong>pulque</strong> nel 1668,<br />
cioè una regolarizzazione della produzione della bevanda con tanto di tassa<br />
amministrativa, di cui la maggior parte era destinata alle casse reali spagnole. A parte gli<br />
indios, che avevano ben poca voce in capitolo, solo il conte di Alba de Liste e il duca di<br />
Albuquerque cercarono di opporsi a questo progetto, considerandolo una violazione del<br />
principio di esentasse dei prodotti indigeni; ma quando i proftti economici associati al<br />
<strong>pulque</strong> furono intuiti dalla Corona, le etiche rispettose nei confronti dei nativi furono da<br />
questa accantonate senza alcuna remora.<br />
Vi fu solo una brusca interruzione di sei anni, dal 1692 al 1697, che ebbe origine da una<br />
rivolta popolare che si verifcò l'8 giugno del 1692 a Città del Messico, repressa il giorno<br />
successivo dalle forze spagnole del Conte di Santiago, Juan de Velasco. La causa di questa<br />
rivolta ricadde sul <strong>pulque</strong>, quale fonte di ubriachezza, verifcato che si udirono dalla parte<br />
dei rivoltosi urla del tipo “viva il <strong>pulque</strong>!” Si deve terne conto che, dal momento in cui,<br />
nel 1668, il commercio del <strong>pulque</strong> fu regolarizzato e tassato, il suo uso conobbe un<br />
notevole incremento nella capitale e, nonostante fossero permesse solamente la<br />
produzione e lo spaccio del <strong>pulque</strong> bianco, era di fatto quello adulterato dagli additivi<br />
rinforzanti, quindi maggiormente inebriante, che veniva consumato e che arricchiva di<br />
fatto l'erario reale.<br />
Una <strong>delle</strong> conseguenze della repressione della rivolta fu il divieto della produzione, del<br />
consumo e quindi anche del commercio del <strong>pulque</strong> in tutto il territorio della Nueva<br />
España. Ma a una più attenta analisi le cause principali della rivolta non erano da<br />
ascrivere all'ubriachezza da <strong>pulque</strong> bensì a fattori di natura sociale, in primis le<br />
48
condizioni di estrema povertà in cui riversava la popolazione della capitale, dovuta anche<br />
alla carestia di grano e mais dell'anno precedente causata da cattive condizioni climatiche.<br />
<strong>Il</strong> difuso alcolismo era semmai una conseguenza <strong>delle</strong> dure condizioni di vita dei nativi.<br />
Un altro motivo più concreto della proibizione del <strong>pulque</strong> si basò sulla constatazione che<br />
le <strong>pulque</strong>rias erano luoghi di associazione della popolazione, dove indios, mestizo, mulatti<br />
e negri potevano incontrarsi e produrre quelle “adunate sediziose” che in tutti i tempi<br />
furono e continuano ad essere perseguite nei contesti repressivi.<br />
La proibizione del <strong>pulque</strong> del 1692 sembra essere stata efettiva solamente nella capitale,<br />
mentre la bevanda continuava ad essere prodotta e consumata nel resto del paese. Ma<br />
essendo stato ufcialmente vietato, anche il reddito della sua tassazione venne meno; ciò<br />
portò dopo alcuni anni all'eliminazione del divieto, con tanto di reinserimento della<br />
relativa tassa (Hernández Palomo, 1979: 31-84). Fu tuttavia mantenuta l'obbligata<br />
diferenziazione fra <strong>pulque</strong>rias per soli uomini e <strong>pulque</strong>rias per sole donne.<br />
A parte il <strong>pulque</strong> bianco, il <strong>pulque</strong> “con radici”, cioè con additivi rinforzanti l'efetto<br />
inebriante, rimase proibito congiuntamente a numerose altre bevande alcoliche native.<br />
Ad esempio, nell'Ordinanza del Conte di Revillagigedo del 1755 vengono vietate “aguardiente<br />
di maguey, di canna, di miele, cantincota, ololinque, mistelas contrafatte, vini di<br />
cocco, sangue di coniglio, vinguies, mescali, tepache, cruacapo, vingarrote, e molte altre<br />
sebbene non siano specifcate in questa ordinanza, e che si fabbricano e usano qualunque<br />
sia il loro nome, con seme dell'albero del Perù, ananas, <strong>pulque</strong> marcio o corrotto o di<br />
frutta di tutte le specie, e ingredienti velenosi con l'unico scopo di ubriacare”. 18 Tale<br />
divieto perdurò fno a tutto il XVIII secolo e, nonostante venisse motivato per il dilagante<br />
alcolismo, il motivo concreto risiedeva nella concorrenza che queste bevande facevano<br />
nei confronti <strong>delle</strong> bevande alcoliche d'importazione spagnola, in particolare vini e<br />
distillati. <strong>Il</strong> problema di questa concorrenza non era un fatto nascosto e fu esplicitato da<br />
diversi autori a partire dal secolo XVII; Humboldt (1822, Libro IV, Cap. IX), nei confronti<br />
in questo caso del mezcal, ancora ai suoi tempi riferiva che “il governo spagnolo, in<br />
particolare la Real Hacienda, da molto tempo persegue con rigore il mezcal, che è<br />
severamente proibito, poiché il suo uso pregiudica il commercio <strong>delle</strong> acquaviti della<br />
Spagna.” Ai governanti coloniali non interessava la salute psichica e fsica dei nativi, che<br />
veniva sbandierata solamente in occasione dei suddetti divieti. Per i medesimi motivi era<br />
proibita nella Nueva España la coltivazione di piante del Vecchio Mondo, fra cui olivi, vite<br />
e gelso, per non intralciare il lucroso commercio intercontinentale di questi prodotti<br />
“esotici” europei.<br />
Un'altra questione che fu reiteratamente discussa durante i secoli da parte dei<br />
simpatizzanti e dei detrattori del <strong>pulque</strong>, riguardava lo stato di salute fra la popolazione<br />
49
indigena con o senza <strong>pulque</strong>, in particolare nel tema della loro riproduttività. Durante il<br />
XVIII secolo un certo frate Diego González dell'Ordine dei Mercedari riportava che “lo<br />
spopolamento degli indios degli inizi del secolo XVIII era dovuto all’abuso più che all’uso<br />
del <strong>pulque</strong>, assicurando che coloro che non lo bevevano si mantenevano in eccellenti<br />
condizioni di salute, e che gli indios del Messico potrebbero vivere così bene senza<br />
provare il <strong>pulque</strong>” (Guerrero, 1985: 84). Ancora ai giorni nostri Ángel María K. Garibay, il<br />
curatore dell'opera di Sahagún, riportava la seguente considerazione di valore opposto a<br />
quello del frate mercedario:<br />
“Se vogliamo conservare la razza indigena è necessario che conserviamo questo<br />
liquore che la natura ha loro fornito con efcacia. Migliaia di osservazioni<br />
accreditano che nei villaggi dove il <strong>pulque</strong> non viene bevuto le febbri distruggono le<br />
<strong>popolazioni</strong>, mentre queste si conservano dove abbondano i maguey e dove viene<br />
estratto questo liquore molto necessario per nutrire l'indio, rinvigorirlo e preservarlo<br />
dalla febbre putrida alla quale vive esposto per le continue insolazioni di cui<br />
sofre e per i vili alimenti di cui si nutre. Experto crede magistro: credere<br />
all'esperienza” (Garibáy, in Sahagún, 1985: 981).<br />
Come già detto, con l'avvento degli Spagnoli quell'insieme di rigide regole e di<br />
settorialità specifche nell'uso del <strong>pulque</strong> adottate dagli Aztechi di colpo vennero meno.<br />
L'uso rituale e religioso si dileguò velocemente, sino ad essere dimenticato. Tuttavia, come<br />
accadde ad altre fonti vegetali psicoattive, in particolare allucinogene, quali l'ololihqui, i<br />
teonanacatl, il peyote, non mancarono casi dove l'uso rituale del <strong>pulque</strong> persistette in<br />
clandestinità, fuori dagli sguardi dell'inquisizione. A riprova di ciò, Jacinto De la Serna<br />
(1661) riportò diversi casi di “idolatrie” dei nativi messicani perseguiti da lui medesimo o<br />
da altri inquisitori spagnoli. Nel paesino di Tenango l'inquisitore venne a sapere di un<br />
curandero che aveva tenuto in una casa privata un incontro svolto in occasione di una<br />
festa a un santo, dov'egli aveva somministrato ai partecipanti dei funghi allucinogeni<br />
(quautlan nanacatl). La statua del santo era collocata sull'altare domestico, davanti al<br />
quale v'era un fuoco. Stando a quanto riferito da De la Serna (Cap. I, 3) in quell'occasione<br />
oltre ai funghi fu assunto dai presenti anche una buona quantità di <strong>pulque</strong>. <strong>Il</strong> curandero<br />
riuscì a fuggire prima di cadere nelle mani del braccio secolare inquisitoriale.<br />
In un altro passo (Cap. XV, 2) il medesimo autore riferisce del costume di spargere un<br />
poco di <strong>pulque</strong> come oferta alle divinità prima di iniziare la bevuta collettiva. Lo<br />
spargimento del <strong>pulque</strong> viene chiamato da De la Serna col nome nahua tlatotoiahua, che<br />
ricorda lo tlatoyaualiztli riferito da Sahagún (I, XIII, 10) e più sopra menzionato. L'assunzione<br />
di <strong>pulque</strong> si svolgeva solitamente in maniera segreta all'interno di case private e di<br />
50
fronte all'altare domestico, in occasione di feste religiose che ricalcavano quelle antiche<br />
azteche. Si riporta qui per esteso il passo di De la Serna, in quanto è un'importante testimonianza<br />
di sopravvivenza di una celebrazione con il <strong>pulque</strong> che si era conservata<br />
durante la prima fase del periodo coloniale:<br />
“Hanno anche le loro idolatrie con dei semi, e uno di questi è l'Huatli, che è un<br />
seme molto precoce a loro disposizione; poiché si semina prima del mais e quando<br />
inizia a spigare da questo seme fanno una bevanda a mo' di poleada [bevanda a base<br />
di latte e farina] e alcune tortilla che chiamano Tzoally; questo seme è ciò che è<br />
richiesto dal Demonio, che gliela ofrono come primizia e di cui fa menzione Padre<br />
Fray Martin di León nel mese tredicesimo del suo Calendario quando facevano festa<br />
ai monti più alti, che si chiama Tepeilhuitl e corrispondente ai primi di ottobre; e<br />
nell'altro Calendario è questo il mese dodicesimo, che si chiamava Quecholli,<br />
corrispondente al mese di novembre, dal cinque al ventiquattro del detto mese.<br />
L'idolatria e l'abuso di questo seme consiste nel fatto che nell'azione di grazia che si<br />
sia maturato, del primo che raccolgono ben macinato e impastato, fanno alcuni<br />
piccoli idoli con del fango, dall'aspetto umano e della dimensione più o meno di un<br />
palmo e li ricoprono con quell'impasto [di semi], e per il giorno che li preparano<br />
hanno preparato molto del loro vino, che è il <strong>pulque</strong>, ed essendo gli idoli preparati, e<br />
conosciuti [sic, conocidos, in realtà cocidos, cotti] li mettono nei loro oratori [altari],<br />
come se collocassero qualche immagine e vi pongono candele, incensi e profumi e<br />
ofrono fra i loro mazzolini [di fori] del vino preparato per la dedica nei bicchieri e<br />
nei piccoli tecomate [specie di vaso semisferico a bocca larga, di argilla o ricavato da<br />
una zucca] e che hanno per queste azioni superstiziose, come riportai più sopra<br />
(cap. III, 5) e che custodiscono con gran cura, e se no in altri scelti per questo scopo<br />
riunendosi tutti quelli di quella faziosità e convitati per questa azione di grazie al<br />
Demonio, si siedono tutti in cerchio: posti i tecomate e mazzolini di fronte agli idoli,<br />
con grande plauso inizia in suo onore e lode, e il Demonio, che tutto è uno, il canto,<br />
o musica del Teponaztli, accompagnando questa musica col canto degli anziani<br />
secondo il costume, e in seguito arrivano i padroni dell'oferta e i capi della festa in<br />
segnale di sacrifcio spargono di quel vino, che avevano preso dai tecomate, o tutto o<br />
parte di quello davanti agli idoli di Huatli: chiamano quest'azione Tlatotoiahua, che<br />
è azione di spargimento, e poi iniziano a bere tutto ciò che è rimasto nei tecomate,<br />
come prima cosa, e poi bevono dalle pentole di <strong>pulque</strong> sino a terminarle e da ciò<br />
seguono tutte le cose che sono solite accadere nelle ubriachezze; e i proprietari dei<br />
piccoli idoli li custodivano con attenzione sino al giorno seguente afnché tutti i<br />
partecipanti alla festa se li mangino a pezzetti come fossero <strong>delle</strong> reliquie” (De la<br />
Serna, 1661, Cap. XV, 2).<br />
51
Non sono mancate durante i tempi coloniali, così come in quelli moderni, forme<br />
sincretiche fra le antiche credenze e i culti cristiani nei riguardi <strong>delle</strong> pratiche, della mitologia<br />
e della flosofa associata all'uso del <strong>pulque</strong>. Durante la preparazione del <strong>pulque</strong><br />
ancora al giorno d'oggi sono praticati alcuni riti, ora cristianizzati: prima di iniziare il<br />
lavoro i partecipanti si fanno il segno della croce davanti all’altare del tinacal e la persona<br />
che dirige i lavori esclama a voce alta “Ave Maria Purissima!”, mentre gli altri rispondono<br />
“Senza peccato concepita!”. Vi sono casi i cui queste esclamazioni sono fatte con una certa<br />
modulazione della voce, a mo' di canto (Guerrero, 1985: 59). Fra i Totonachi dei tempi<br />
coloniali e moderni ha un culto importante San Giovanni Battista, chiamato familiarmente<br />
San Juanito; egli è considerato un grande bevitore di <strong>pulque</strong>, e anche Gesù è<br />
considerato un gran bevitore di questa bevanda (ibid., :52). Presso gli Otomi attuali il<br />
<strong>pulque</strong> è chiamato juaseí, da jua, “dio” e sei, “vino”, da cui “bevanda divina”, oppure è<br />
chiamato semplicemente seí, mentre le <strong>pulque</strong>rie sono chiamate seingú, da sei, “vino”, ngu,<br />
“casa” (ibid., :25).<br />
Oggigiorno le grande aziende magueyere e <strong>pulque</strong>re sono concentrate per lo più negli<br />
stati del México, Tlaxcala e Hidalgo e il <strong>pulque</strong> è considerata una bevanda volgare, usata<br />
dal popolino. Ma fno al secolo XIX fu bevanda gustata anche dalle classi abbienti e dagli<br />
spagnoli. Si ha notizia che l'imperatore Massimiliano, quando ancora sul trono del<br />
pericolante Regno del Messico, partecipò a un banchetto che gli fu oferto e dove il<br />
<strong>pulque</strong> era la bevanda principale (Guerrero, 1985: 110).<br />
52
APPENDICE I<br />
Mito d’origine del maguey<br />
<strong>Il</strong> seguente mito d’origine della pianta del maguey, di stampo tezcocoano, è riportato in<br />
forma poetica nell’Histoire du Mechique, opera di un anonimo autore del XVI secolo,<br />
trascritta in francese nel 1543 da Andrés Tevet (manoscritto n. 19031 della BibliotecaNazionale<br />
di Parigi). Secondo Garibay (1985: 16) l'opera originaria fu probabilmente<br />
scritta da fray Andrés de Olmos. Una versione approssimata del mito dell'origine del<br />
maguey è stata riportata da Castellon (1987: 154-5).<br />
<strong>Il</strong> racconto è inscritto in un mito cosmogonico nahua, ambientato ai primordi<br />
dell’esistenza umana e si estende fra i passi 129 e 143 dell'Histoire du Mechique. Meyahuel<br />
è Mayáhuel, dea azteca del maguey e ancor prima personaggio femminile protagonista<br />
nell'etnostoria e nella mitologia mexica della scoperta della perforazione della pianta del<br />
maguey, processo basilare per la preparazione del <strong>pulque</strong> (si veda “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi<br />
preispanici”).<br />
129. Fatto tutto questo [la creazione dell'uomo] ed avendolo gradito gli dei,<br />
questi dissero fra di loro:<br />
130. “Ma qui l'uomo sarà triste, se non gli facciamo noi qualcosa per<br />
rallegrarlo e afnché prenda gusto nel vivere sulla terra e che ci lodi e canti e<br />
danzi”.<br />
131. Udito ciò da Ehécatl, il dio dell'aria, questi nel suo cuore pensava dove<br />
avrebbe potuto trovare un liquore da dare all'uomo per renderlo allegro.<br />
132. Nel pensare a ciò, gli venne in mente una dea vergine chiamata<br />
Meyahuel e si recò quindi dov'ella risiedeva insieme ad altre dee, che in quel<br />
momento stavano dormendo.<br />
136. E svegliò la vergine e le disse:<br />
136. Che era sorvegliata da una dea, sua nonna, che si chiamava Cicimitl: 19<br />
“Vengo a cercarti per portarti sulla terra”.<br />
137. Essa acconsentì e così scesero entrambi ed egli nella discesa se la caricò<br />
sulle spalle.<br />
53
138. E come giunsero sulla terra si trasformarono entrambi in un albero che<br />
aveva due rami, di cui uno si chiama Quetzalhuexotl, 20 che era quello di<br />
Ehécatl, e l'altro Xochicuahuitl, 21 che era quello della vergine.<br />
139. Nel frattempo, sua nonna dormiva. Quando si svegliò e non trovò sua<br />
nipote, chiamò le altre dee che si chiamano Cicime. 22<br />
140. E scesero tutte sulla terra a cercare Ehécatl e per questo motivo i rami si<br />
disgiunsero l'uno dall'altro. 23<br />
141. E quello della vergine fu riconosciuto dalla vecchia dea, che lo prese e,<br />
rompendolo, ne diede un pezzo a ciascuna <strong>delle</strong> altre dee, che lo<br />
mangiarono.<br />
142. Ma il ramo di Ehécatl non lo ruppero, bensì lo lasciarono lì dov'era.<br />
Dopo che le dee furono tornate in cielo, Ehécatl riprese la sua forma<br />
originaria, riunì le ossa della vergine, le interrò e da lì sorse un albero che<br />
chiamano metl.<br />
143. Da questo gli indios fanno il vino che bevono e con il quale si<br />
ubriacano, sebbene non è a causa del vino, bensì per via di alcune radici che<br />
chiamano ucpatli 24 ch'essi mescolano con quello (Garibay, 1985: 106-107).<br />
54
APPENDICE II<br />
La leggenda di Xóchitl<br />
Questa leggenda è di origine tolteca e viene ancora tramandata nello stato messicano di<br />
Hidalgo. E' ambientata nelle ultime fasi del regno di Tula. Nella versione di Manuel Rivera<br />
Cambas il fglio della bella Xóchitl è chiamato Meconetzin, che in lingua nahuatl signifca<br />
“fglio del maguey”, o meglio “signor ragazzo del maguey”; 25 è chiamato anche Ce Acatl<br />
Topiltzin Quetzacóatl (“Uno Canna, Nostro Signor Quetzacóatl”), e fu l'ultimo sovrano<br />
del regno di Tula. Tecpancaltzin fu il penultimo re, che governò nel periodo 990-1042<br />
d.C. All'interno di questa leggenda è possibile intravedere un mito <strong>delle</strong> origini del<br />
<strong>pulque</strong>, contestualizzato in un racconto etno-storico della fase fnale del regno di Tula.<br />
Versione di Mariano D. Veytia (1718-1780?)<br />
(riportata da Ángel María K. Garibay, in Sahagún, 1985, pp. 980-981)<br />
Tecpantcaltzin, ottavo re dei Toltechi, un giorno ricevette un regalo da<br />
parte di Papantzin, che era uno dei principali cavalieri della sua corte,<br />
consistente in una giara di <strong>pulque</strong>, la cui elaborazione con aguamiel aveva<br />
appena terminato di inventare una sua fglia chiamata Xóchitl; questa era la<br />
portatrice dell'ossequio ed era una giovane di straordinaria bellezza.<br />
Al re piacque molto la bevanda, ma piacque molto di più la ragazza che la<br />
portava e alla quale diede l'incarico di ripetere l'ossequio appena avesse<br />
potuto.<br />
Fatto questo, in una <strong>delle</strong> occasioni in cui gli si presentò, avvalendosi della<br />
sua autorità il re sedusse la ragazza, la fece rinchiudere nel suo palazzo<br />
trattandola segretamente con gran riguardo, ed ebbe da ella un fglio che fu<br />
chiamato Topiltzin.<br />
Dopo la morte della regina legittima, il re si sposò con Xóchitl e ne<br />
legittimò la prole; ma il popolo non volle riconoscere Topiltzin come vero<br />
55
successore al trono, e a ciò si oppose Huehuetzin, parente immediato del re<br />
colluso con i signori di Xalisco; questi dichiararono al re una guerra così<br />
crudele che durò tre anni e due mesi e vi perirono da una parte e dall'altra<br />
cinque milioni e duecento mila persone; con questa guerra terminò la<br />
monarchia tolteca, dopo essere esistita 397 anni e alla quale seguì quella di<br />
Aculhua, di cui fu fondatore il grande padre Xolotl.<br />
Xóchitl morì con gloria sul campo battendosi con i suoi nemici a capo di<br />
un corpo di signore che la accompagnavano; suo marito si nascose nella<br />
grotta di Xico, nei dintorni di Amecamecan, per salvare la sua vita.<br />
Versione di Manuel Rivera Cambas (1976)<br />
(riportato in forma riassunta da Raúl Guerrero, 1985, pp. 111-3)<br />
Un nobile chiamato Papantzin, dedito alla coltivazione del maguey, riuscì<br />
ad ottenere miele con il succo di questa pianta. Volle ossequiare con questa<br />
scoperta il re Tecpancaltzin ed essendosi recato a Tula accompagnato dalla<br />
sua sposa e da sua fglia unica chiamata Xóchitl, fu accolto benevolmente. <strong>Il</strong><br />
re elogiò il nobile e gli ofrì come ricompensa la signoria di alcuni villaggi,<br />
incaricandolo di inviargli nuovi regali per il tramite di Xóchitl.<br />
Soddisfatto e pieno di vanità, Papantzin tornò alle sue terre, deciso a<br />
perfezionare quella nuova industria, senza sospettare che l’entusiasmo del re<br />
per la scoperta non era stato sincero; infatti era la bellezza di Xóchitl ad aver<br />
causato al monarca una profonda impressione e, nel percepire ciò, la giovane<br />
era arrossita, aumentando in tal modo il suo fascino agli occhi del re.<br />
<strong>Il</strong> monarca lottava dentro di se fra i suoi doveri di sovrano e le inclinazioni<br />
di una passione così repentina quanto violenta; una passione che gli fece<br />
dimenticare il decoro del trono, la purezza dei costumi, la pace e anche<br />
l’esistenza medesima del regno.<br />
Papantzin continuava ad elaborare nuove paste dolci e giunse infne ad<br />
inventare il <strong>pulque</strong>. La bella Xóchitl portò un recipiente pieno di questo<br />
liquore bianco a Tula, accompagnata dai suoi domestici e dalla sua nutrice<br />
Tepenénetl; la giovane arringò il re, con accento turbato, nel presentargli il<br />
regalo ed ella medesima versò il liquore che gustò tutta la corte. <strong>Il</strong> re elogiò<br />
la ricchezza del <strong>pulque</strong>, l’intelligenza dell’in-ventore e la bellezza della<br />
giovane ambasciatrice. Allontanò la nutrice e i domestici, facendoli portatori<br />
56
di nuovi regali e onori, e questi furono incaricati di dire al padre della<br />
giovane ch’ella si era fermata nel palazzo per essere educata da signore<br />
illustri, come corrispondeva al suo rango e al suo merito e a compimento<br />
della promessa che aveva fatto a Papatzin nel primo incontro.<br />
Chi avrebbe potuto opporsi alla determinazione del re! Sommersi<br />
Papatzin e la sua sposa da terribili dubbi e da grandi remore, ricevevano<br />
messaggi del re dove venivano avvisati che Xóchitl si manteneva in buona<br />
salute e contenta; ogni messag-gio era accompagnato da preziosi regali di<br />
tela, gioielli e metalli lavorati ad arte.<br />
Chiamata la nutrice accanto alla bella giovane, entrambe furono trasferite<br />
in una notte oscura in un palazzo eretto in cima al monte vicino al paesino<br />
di Palpan; il re mise <strong>delle</strong> guardie afnché nessuno, ad eccezione di se<br />
medesimo, potesse entrare o uscire o avvicinarvisi. Dopo nove mesi nacque<br />
un bambino chiamato Meconetzin, “frutto del maguey”, fu dato alla luce da<br />
Xóchitl.<br />
Papantzin cercava nel frattempo di scoprire la dimora di sua fglia, poiché<br />
il re si limitava a comunicargli che era in salute e stava proseguendo la sua<br />
educazione; seppe casualmente che sua fglia viveva nel palazzo di Palpan e<br />
avvertito che a nessuno era permesso di entrare, si mascherò da contadino, si<br />
dipinse e si sfgurò il viso e fngendosi zoppo, fu a ofrire fori al villaggio<br />
vicino; fece quindi conoscenza con uno dei giardinieri reali e questo lo fece<br />
entrare. Lì vide sua fglia, vicino alla fonte, che teneva un bambino fra le<br />
braccia; si avvicinò, si scoprì ed ella riferì dell’oltraggio di cui era stata<br />
vittima.<br />
<strong>Il</strong> padre dissimulò; risolse che si sarebbe presentato di fronte al monarca e<br />
gli avrebbe parlato con franchezza. Così fece ed esigette che il re si sposasse<br />
con Xóchitl; insultato e svergognato, il monarca negò di sposarsi, ma<br />
promise che avrebbe dichiarato Meconetzin erede della corona.<br />
Tecpancaltzin (così si chiamava il monarca) aveva diverse fglie e una di<br />
queste si innamorò di un plebeo o macehual, che vendeva peperoni verdi in<br />
un mercato vicino al palazzo. Tobueyo 26 era il fortunato ragazzo, su cui aveva<br />
fssato la sua pas-sione la principessa, al punto di ammalarsi. Tecpancaltzin<br />
ordinò che gli condu-cessero davanti a lui l’ignaro ladro di quel cuore, e gli<br />
chiese:<br />
- Chi sei e da dove vieni?<br />
- Sono un contadino e vengo a vendere peperoni verdi. Che mi castighino<br />
57
gli dei e mi faccia morire sua Altezza. Non sono altro che un infelice che si<br />
procaccia da vivere vendendo povera mercanzia.<br />
Quel macehual si sposò con la principessa, con grande disgusto dei nobili,<br />
i quali esigettero che fosse messo a capo dell’esercito, sperando in tal modo<br />
ch'egli morisse in battaglia; ma egli se ne rese conto e nel primo<br />
combattimento si fnse abilmente morto.<br />
Meconetzin, il fglio bastardo, fu allora proclamato erede al trono di Tula<br />
con il nome di Topiltzin il Giustiziere. Egli agli inizi governò bene, ma poi si<br />
diede a una vita dissoluta, presagendo la vicina caduta del Regno di Tula.<br />
58
APPENDICE III<br />
L'ubriachezza di Quetzalcóatl<br />
<strong>Il</strong> motivo dell'ubriachezza di Quetzalcóatl con la bevanda inebriante del <strong>pulque</strong> è inserito<br />
all'interno del racconto etno-storico del regno di Tula, cuore della società tolteca. Fra la<br />
cinquantina di passi dei cronisti antichi che riferiscono di Quetzalcóatl di Tula, il tema<br />
dell'ubriachezza ci è giunto in forma estesa in due versioni: una nell'opera di Sahagún<br />
redatta nel periodo 1547-1577 e l'altra negli Annali di Cuauhtitlan, opera di un autore<br />
anonimo inserito all'interno del Codice Chimalpopoca, datato attorno al 1570. In questo<br />
racconto Quetzalcóatl è un principe sacerdote che governa sui Toltechi nella capitale<br />
Tula. 27 Figlio di Totepeuh e Chimalman, egli è chiamato anche Topiltzin o Ce Acatl<br />
Quetzalcóatl. Nel racconto etnostorico Quetzalcóatl si inimica una parte del prelato,<br />
rappresentato da tre “negromanti”, poich'egli non intende fare sacrifci umani. I tre<br />
personaggi, di cui uno si chiama Titlacahuan ed è una personifcazione di Tezcatlipoca,<br />
con uno stratagemma lo fanno ubriacare con del <strong>pulque</strong>, fno a ch'egli non perde le stafe<br />
e si abbandona all'allegrezza della sbornia, coinvolgendovi anche sua sorella, sacerdotessa<br />
di un tempio di Tula. Svergognato dal comportamento inappropriato ad un principesacerdote,<br />
Quetzalcóatl abbandona la città e si dirige verso la riva del mare, raggiunta la<br />
quale egli prende fuoco (si “auto-crema”) e si trasforma nella stella del mattino. <strong>Il</strong> mito<br />
termina con il presagio che un giorno egli sarebbe tornato dal mare. Nel primissimo<br />
impatto con gli Spagnoli <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> rivierasche del Messico orientale, queste<br />
interpretarono i nuovi venuti con sifatti vascelli come il ritorno di Quetzalcóatl.<br />
Versione di fray Bernardino Sahagún<br />
(riportata nella Historia General de las Cosas de Nueva España, Libro III, Capitolo IV, 1-9, versione<br />
a cura di Ángel María Garibay, 1985, pp. 196-197, qui tradotta dallo spagnolo)<br />
1. - Venne il tempo che terminò la fortuna di Quetzalcóatl e dei Toltechi. Gli<br />
si misero contro tre negromanti, chiamati Huitzilopochtli, Titlacauan e<br />
Tlacauepan, che fecero molti imbrogli a Tulla [Tula].<br />
59
2. - E Titlacauan iniziò per primo a fare un imbroglio, trasformandosi in un<br />
vecchio molto canuto e basso e recandosi a casa del suddetto Quetzalcóatl<br />
dicendo ai paggi del detto Quetzalcóatl: “Voglio vedere e parlare al re<br />
Quetzalcóatl”. E gli fu risposto: “Vattene vecchio, che non lo puoi vedere<br />
perché è malato e lo irriteresti e gli daresti pena”.<br />
3. - <strong>Il</strong> vecchio allora disse: “Io devo vederlo. E gli dissero i paggi del detto<br />
Quetzal-cóatl: “Attendi, che glielo andiamo a dire”. Così andarono a dire al<br />
detto Quetzalcóatl di come era venuto un vecchio a parlare loro, dicendo:<br />
“Signore, un vecchio è venuto qui domandando di vedervi e parlarvi, e<br />
avendolo cacciato via, egli non se ne è andato, dicendo che vi deve vedere<br />
per forza”. E disse il detto Quetzalcóatl: “Che entri e venga qui, che lo sto<br />
attendendo da molti giorni”.<br />
4. - E quindi chiamarono il vecchio, e questi entrò dove stava il detto<br />
Quetzalcóatl, ed entrando il vecchio disse: “Signor fglio, come state, ho qui<br />
una medicina perché la beviate”. E disse il detto Quetzalcóatl rispondendo al<br />
vecchio: “Vieni con felicità mia, vecchio, che è da molti giorni che ti<br />
aspettavo”.<br />
5. - E disse il vecchio al detto Quetzalcóatl: “Signore, come state di corpo e di<br />
salute?”. E rispose il detto Quetzalcóatl dicendo al vecchio: “Sono molto<br />
maldisposto e mi duole tutto il corpo e non posso muovere mani e piedi”. E<br />
il vecchio disse rispondendo al detto Quetzalcóatl: “Signore, vedete la<br />
medicina che vi porto; è molto buona e salutare, e ubriaca chi la beve; se la<br />
volete bere vi ubriacherà e vi sanerà e vi addolcirà il cuore e vi accorderà dei<br />
lavori e <strong>delle</strong> fatiche e della morte, o della vostra andata”.<br />
6. - E rispose il detto Quetzalcóatl dicendo: “Oh vecchio! Dove devo<br />
andare?”. E gli disse il detto vecchio: “Per forza dovete andare a<br />
Tullantlapan, 28 dove sta un altro vecchio che vi attende, egli e voi parlerete,<br />
fra di voi, e dopo il vostro ritorno sarete come giovane e tornerete<br />
nuovamente come ragazzo”.<br />
7. - E al detto Quetzalcóatl, udendo queste parole, si mosse il cuore; e<br />
continuò a dire il vecchio al detto Quetzalcóatl: “Signore, bevete questa<br />
medicina”. E gli rispose il detto Quetzalcóatl dicendo: “Oh vecchio, non<br />
voglio bere”. E gli rispose il vecchio dicendo: “Signore, bevetela, poiché se<br />
non la bevete dopo ve ne verrà voglia; per lo meno ponetevela sulla fronte, e<br />
bevetene solo un poco”.<br />
8. - E il detto Quetzalcóatl l'assaggiò e la provò, e dopo averla bevuta disse:<br />
60
“Cos'è questo? Sembra essere cosa molto buona e gustosa; già mi ha guarito<br />
e il malanno se ne è andato, già sono sano”. E una volta di più il vecchio<br />
disse: “Signore, bevetela un'altra volta perché è molto buona la medicina e<br />
starete più sano”.<br />
9. - E il detto Quetzalcóatl bevve un'altra volta, per cui si ubriacò e si mise a<br />
piangere tristemente e gli si mosse e raddolcì il cuore per doversene andare,<br />
e non smise di pensare a quello che aveva fatto per via dell'inganno e della<br />
burla che gli aveva fatto il detto vecchio negromante; e la medicina che<br />
bevette il detto Quetzalcóatl era vino bianco della terra, fatto con maguey<br />
che si chiamano teómetl.<br />
Nel corso della peregrinazione verso il luogo chiamato Tlapallan, accade<br />
nuovamen-te che Quetzalcóatl si ubriaca con il <strong>pulque</strong>:<br />
( Libro III, Capitolo XIII, 7-9)<br />
7. - E il detto Quetzalcóatl camminando giunse in un altro luogo che si<br />
chiama Cochtocan e arrivò un altro negromante che si imbatté con lui<br />
dicendo: “Dove anda-te?”. E il detto Quetzalcóatl disse: “Sto andando a<br />
Tlapallan”. E il detto negromante disse al detto Quetzalcóatl: “Andate con<br />
fortuna; bevete questo vino che porto”. E disse il detto Quetzalcóatl: “Non lo<br />
posso bere, nemmeno assaggiare un poco”.<br />
8. - E il negromante gli disse: “Lo dovete bere per forza, o assaggiare un<br />
poco, poiché a nessuno fra i vivi permetto di dare o far bere questo vino;<br />
ubriaco tutti. Dai, bevetelo dunque!”<br />
9. - E il detto Quetzalcóatl prese il vino e lo bevve con una cannuccia, e<br />
bevendolo si ubriacò e si addormentò sulla strada e si mise a russare, e<br />
quando si svegliò, guardando da un lato e dall'altro, scrollò (scosse) i capelli<br />
con la mano, e quindi il detto luogo fu chiamato Cochtocan.<br />
Versione degli Annali di Cuauhtitlan (Codice Chimalpopoca)<br />
(E' riportata nei fogli 6 e 7 di questo manoscritto redatto in lingua nahuatl attorno al 1570,<br />
conservato presso il Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Qui viene data una<br />
traduzione italiana ricavata dalle traduzioni in spagnolo di Garibay, 1974, pp. 29-32, e in inglese di<br />
Bierhorst, 1992, pp. 33-6)<br />
61
(6:13) Quindi [i maghi] andarono a Xonocapacoyan [luogo-dove-si-lavanole-cipolle],<br />
e si fecero ospitare a casa di un contadino di nome Maxtla<br />
[Maxtlaton]; era il guardiano di Toltecatepec [il monte dei Toltechi].<br />
Poi cucinarono legumi, pomodori, peperoncini, pannocchie tenere di mais e<br />
teneri baccelli di fagioli. Fu fatto questo per alcuni giorni.<br />
(6:16) E visto che li c'erano <strong>delle</strong> piante di maguey, le chiesero a Maxtla. In<br />
soli quattro giorni prepararono il liquore di maguey e lo rafnarono. Essi<br />
medesimi avevano scoperto alcune olle di miele silvestre e con questo<br />
mescolarono il liquore. 29<br />
(6:20) Quindi si recarono alla casa di Quetzalcóatl a Tula. Si portarono tutto<br />
ciò che avevano preparato: i legumi, il peperoncino e tutto il resto. Portarono<br />
anche il liquore. Quando giunsero, cercarono di parlare con il re, ma le<br />
guardie di Quetzal-cóatl non lo consentirono: non li fecero entrare. Per due<br />
e per tre volte li respinsero: non furono ammessi. Alla fne fu loro chiesto da<br />
dove venivano.<br />
(6:24) Essi risposero dicendo: “Veniamo dal monte dei sacerdoti, là dal<br />
monte dei Toltechi.”<br />
(6:25) Quetzalcóatl udì ciò e disse: “Fateli entrare.”<br />
(6:26) Entrarono, lo salutarono e gli ofrirono i legumi e il resto. Quando<br />
terminò di mangiarli gli pregarono e gli ofrirono il liquore di maguey.<br />
(6:28) Ma egli disse: “No di certo: questo non lo berrò. Sono un uomo<br />
astinente. Questo forse è inebriante. Questo forse è mortifero”<br />
(6:29) Essi dissero: “Provalo almeno con il dito. E' efcace, è recente.” 30<br />
(6:30) Quetzalcóatl lo provò col dito e gli piacque e disse: “Berrò, vecchio<br />
mio, ne berrò per tre volte.” E i maghi gli dissero: “Ne berrai anche quattro.”<br />
E glie ne diedero fno a cinque. Poi dissero al re: “E' la tua oferta verso gli<br />
dei.”<br />
(6:33) E quando egli ebbe bevuto, lo diedero da bere ai suoi vassalli: a<br />
ciascuno cinque misure.<br />
(6:35) E le bevvero e si ubriacarono totalmente. E poi i maghi dissero a<br />
Quetzalcóatl: “Principe, per favore canta! Qui c'è il canto che devi intonare.”<br />
E il mago Ihuimécatl [Nastro-di-Piuma] gli dettava il canto:<br />
(6:38) “Questa mia casa di piume, questa mia casa di piume di verde quetzal,<br />
questa casa di piume nere e gialle dorate di zacuan, questa casa di conchiglia<br />
rossa,<br />
io la devo lasciare, ai, ai, ai!”<br />
62
(6:39) E quando già era ben allegro, disse: “Andate a prendere Quetzalpétlat<br />
[Preziosa Stuoia], mia sorella, continueremo a bere insieme a lei fno<br />
all'ubriachezza!”<br />
(6:41) I servitori si recarono sul monte di Nonoalco [Vecchie Abitazioni],<br />
dove ella stava consacrata al culto dei suoi dei. Le dissero: “Principessa,<br />
nobile signora, Quetzalpétlat, Penitente, siamo venuti a prenderti: ti chiama<br />
il sacerdote Quetzal-cóatl. Devi stare accanto a lui”.<br />
(6:44) Ed ella disse: “Va bene, venerabile paggio, andiamo”. E quando giunse,<br />
si sedette accanto a Quetzalcóatl. Poi le servirono il liquore. Furono versati<br />
per lei quattro misure e in più la quinta. 5<br />
(6:47) Così Ihuimécatl e il Tolteca la ubriacarono. E così cantarono alla<br />
sorella di Quetzalcóatl:<br />
(6:49) “Sorella mia, dove vai tu, o Quetzalpétlat: beviamo, ai, ai, ai”.<br />
(6:50) E quando ebbero bevuto, non dissero più: siamo gente di astinenza.<br />
Non scesero più al bagno rituale nel fume; non si punsero più con le spine; 31<br />
e non fecero nulla quando spunta l'aurora.<br />
(6:53) E quando venne l'aurora del nuovo giorno, si sentirono pieni di<br />
tristezza, i loro cuori erano amareggiati. Disse allora Quetzalcóatl: “Ai,<br />
sventurato me!” E dominato dalla tristezza da dentro di se lasciò uscire<br />
questo canto:<br />
(7:1) “Già non importa la mia sorte nella mia mansione. Qui devo<br />
andarmene. E come qui? Qui, si e ancora io canto, sebbene il mio corpo<br />
terreno fu fatto. Afanno e dolore sono la mia eredità! Mai, già, mai<br />
recupererò la mia vita!” 32<br />
(7:3) E cantò anche quest'altro canto:<br />
(7:4) “Qui mi sosteneva mia madre, quella con la gonna di serpenti; 33 io ero<br />
suo fglio, ma ora non faccio altro che piangere”.<br />
(7:5) E quando terminò il suo canto, i suoi vassalli erano pieni di tristezza e<br />
si misero a piangere. E anch'essi si misero a cantare questo canto:<br />
(7:8) “Egli ci aveva arricchito nella dolce prosperità: era il nostro signore, il<br />
grande Quetzalcóatl, che risplendeva come una giada. Rotti sono i legni, la<br />
sua casa di penitenza. Potremmo vederlo. Lasciateci piangere”. 34<br />
(7:11) E quando terminarono i loro canti i vassalli Quetzalcóatl disse loro:<br />
“Vecchi e servi miei: lascio la città; intraprendo il mio cammino. Date ordine<br />
che mi preparino una cassa di pietra”.<br />
(7:14) E in tutta velocità essi fecero la cassa di pietra. Quando fu terminata,<br />
63
vi distesero Quetzalcóatl.<br />
(7:16) Ed egli stette quattro giorni in quel cofano di pietra. Recuperò la sua<br />
salute e si alzò il quarto giorno. 35<br />
Disse quindi: “Vecchi miei, miei servitori: andiamo. Chiudete tutto,<br />
nascondete tutto ciò che abbiamo scoperto: era ricchezza, era allegria, era<br />
tutto il nostro bene e i nostri beni!” Questo fecero i servi. Occultarono tutto<br />
dove era il bagno di Quetzalcóatl. Luogo che si chiama oggi Sponda<br />
dell'Acqua, luogo del muschio acquatico [Atecpan, Amoxco].<br />
64
APPENDICE IV<br />
La classifcazione dei maguey di Francisco Hernández<br />
Francisco Hernández fu il botanico e proto-medico che negli anni '70 del 1500, per<br />
volontà del re di Spagna Filippo II, diresse una spedizione scientifca nei nuovi territori<br />
americani conquistati dagli Spagnoli; fu autore di un'importante opera di classifcazione<br />
<strong>delle</strong> piante e degli animali della Nueva España. Di seguito viene fornita la traduzione<br />
italiana della parte che tratta <strong>delle</strong> piante di Agave o maguey, da diverse <strong>delle</strong> quali i<br />
messicani ricavano bevande inebrianti, in particolare il <strong>pulque</strong>. La seguente traduzione è<br />
stata svolta sull'edizione: Francisco Hernández, 1959 (1571-6), Historia natural de Nueva<br />
España, 2 voll., Universidad Nacional de México, México D.F. (vol. 1, pp. 348-354)<br />
Libro VIII, Capitolo LXXI<br />
Del METL o maguey<br />
Getta fuori il METL una radice grossa, corta e fbrosa,<br />
foglie come quelle dell'aloe ma molto più grandi e più<br />
grosse, in quanto a volte hanno la longitudine simile a<br />
quella di un albero medio, con spine da entrambi i loro<br />
lati e terminate in una punta dura e acuta; stelo tre volte<br />
più grande e alla sua estremità fori gialli, oblunghi,<br />
stellati nella loro parte superiore, e più tardi seme molto<br />
simile a quello dell'asfodelo. Sono quasi innumerevoli gli<br />
usi di questa pianta. Tutta intera serve come legna e per<br />
recintare i campi; i suoi steli sono utilizzati come legno;<br />
le sue foglie per coprire i tetti, come tegole, come piatti o<br />
vassoi, per fare papiro, per fare flo con cui si fabbrica<br />
65
calzatura, tele e tutti i tipi di vestiti che da noi si è soliti fare di lino, canapa, cotone o<br />
materiale simile. Dalle punte si fanno chiodi e spine, con le quali gli indios erano soliti<br />
perforarsi le orecchie per mortifcare il corpo quando rendevano culto ai demoni; fanno<br />
anche spilli, aghi, triboli da guerra e rastrelli per cardare la trama <strong>delle</strong> tele. Dal succo che<br />
fuoriesce e che distilla nella cavità centrale [ottenuta] tagliando i germogli interni o foglie<br />
più tenere con coltelli di iztli (e del quale a volte una sola pianta produce cinquanta<br />
anfore), producono vini, miele, aceto e zucchero; questo succo provoca le regole, calma il<br />
ventre, provoca l'urina, pulisce i reni e la vescica, rompe i calcoli e lava le vie urinarie.<br />
Anche dalla radice fabbricano corde molto resistenti e utili per molte cose. Le parti più<br />
grosse <strong>delle</strong> foglie così come il tronco, cucinate sotto terra (modo di cucinare che i<br />
chichimechi chiamano barbacoa), sono buone da mangiare e sanno di cedro condito con<br />
zucchero; chiudono inoltre in modo ammirevole le ferite recenti, poiché il suo succo,<br />
freddo e umido, diventa glutinoso quando viene arrostito. Le foglie arrostite e applicate<br />
curano la convulsione e calmano i dolori, anche quelli che provengono dalla peste<br />
indiana, soprattutto se si beve il medesimo succo caldo; diminuiscono la sensibilità e<br />
producono sopore. Mediante distillazione si fa più dolce il succo e mediante cottura più<br />
dolce e più denso, sino a che si condensa in zucchero. Si semina questa pianta mediante<br />
germogli, che spuntano attorno alla pianta madre, in qualunque suolo, ma<br />
principalmente in quello fertile e freddo. Questa pianta da sola potrebbe facilmente<br />
procurare tutto il necessario per una vita frugale e semplice, poiché non viene<br />
danneggiata dai temporali né dai rigori del clima, né la siccità l'appassisce. Non v'è cosa<br />
che dia maggior rendimento. Si fa vino dal medesimo succo diluito con acqua e<br />
aggiungendovi cortecce di cedro e di limone, quapatli e altre cose per ubriacare<br />
maggiormente, al quale questa gente è in particolar modo afezionata, come se fosse<br />
stanca della sua natura razionale e invidiasse la condizione <strong>delle</strong> bestie e dei quadrupedi.<br />
Dal medesimo succo senza porlo sul fuoco, gettandovi radici di quapatli esposte al sole<br />
per un certo periodo di tempo e schiacciate, e tirandole poi fuori, si fa il chiamato vino<br />
bianco, molto efcace per provocare la urina e pulire i suoi condotti. Dallo zucchero<br />
condensato [ricavato] dal medesimo succo si prepara aceto sciogliendolo in acqua che si<br />
mette al sole poi per nove giorni. Vi sono molte varietà di questa pianta, di cui parleremo<br />
in seguito. Dicono che il succo di metl in cui siano state cotte radici di piltzintecxóchitl e di<br />
matlalxóchitl cura i punti <strong>delle</strong> febbri.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXII<br />
Del MECOZTLI o maguey giallo<br />
E' una specie di metl, ma con i margini <strong>delle</strong> foglie gialle, spine piccole e nere, foglie<br />
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piccole rispetto a quelle del metl precedente, stelo alto due cubiti, largo un dito e di color<br />
rosso, con fore nell'estremità rosso e giallo, e radice ramifcata. <strong>Il</strong> succo di tre o quattro<br />
foglie al quale si aggiungono tre peperoni, evacua poco a poco gli umori freddi e crassi<br />
attraverso il condotto inferiore e l'urina; gli indios sono soliti amministrarlo alle donne<br />
alcuni giorni dopo il parto per rinforzarle. <strong>Il</strong> succo spremuto <strong>delle</strong> foglie rosolate dicono<br />
che allieva l'asma. E' di natura fredda e mucillaginosa. Alcuni lo chiamano coztícmetl e<br />
macoztícmetl, e altri hoéimetl, che signifca di grande utilità. Nasce in luoghi campestri del<br />
Messico in qualunque stagione, sebbene forisca solamente in estate. Si semina mediante<br />
germogli che spuntano vicino alla pianta madre.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXIII<br />
Del TLACÁMETL o maguey grande<br />
E' una specie di metl quasi della medesima forma e proprietà degli altri e con i medesimi<br />
usi; ma specialmente da vigore e forza alle donne deboli o che sofrono troppo. Gli è stato<br />
dato questo nome per la sua dimensione.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXIV<br />
Del MEXCÁLMETL o maguey buono da mangiare arrosto<br />
E' una specie piccola di metl, molto spinosa e di un verde molto vivo, le cui foglie si<br />
mangiano arrosto e sono più saporite <strong>delle</strong> altre. L'ho incontrata nei monti tepoztlanenses.<br />
67
Libro VIII, Capitolo LXXV<br />
Del MEXÓCOTL o maguey di prugne<br />
E' una pianta spinosa e che appartiene anch'essa ai generi di metl, ma con frutto dolce e<br />
acido, numeroso e simile a prugne, da dove viene il suo nome, e raggruppato in una sfera<br />
che assomiglia fno a un certo punto a una pigna <strong>delle</strong> Indie; è della dimensione che<br />
abbiamo disegnato e a volte più grande, ed è pieno di succo commestibile e di sapore<br />
gradevole. Le foglie sono come di metl, o meglio come di pigna <strong>delle</strong> Indie, spinose, fulve,<br />
e come appassite. La radice è fbrosa e spessa, il fusto corto, cilindrico e spesso; i frutti<br />
sono oblunghi, brillanti, simili a ghiande, bianchi con giallo e coperti di una membrana<br />
dentro alla quale è contenuta una polpa molto bianca e, come abbiamo detto, dolce e<br />
acida, di una sapore come di pigna <strong>delle</strong> Indie e piena di semi bianchi inizialmente e poi<br />
neri, rotondeggianti e un po' duri. <strong>Il</strong> suo temperamento è freddo e secco. <strong>Il</strong> frutto<br />
masticato e conservato in bocca cura le ulcere della stessa che originano dal calore. Nasce<br />
sulle rocce <strong>delle</strong> regioni calde di Tepecuacuilco.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXVI<br />
Del TEPEMEXCALLIN o maguey del monte<br />
Ha l'aspetto del metl, ma con spine esili. Schiacciato e mangiato o spalmato, cura le<br />
articolazioni private di movimento a causa <strong>delle</strong> convulsioni dei nervi. E' caratteristico dei<br />
luoghi montuosi e rocciosi di regioni calde, come è la tepoztlánica.<br />
68
Libro VIII, Capitolo LXXVII<br />
Del TEÓMETL o maguey divino<br />
E' una specie di maguey che si deve includere fra le altre che qui si descrivono, quasi del<br />
medesimo aspetto e proprietà, con radice lunga e fbrosa e spine esili; le foglie sono<br />
lunghe solo due palmi. <strong>Il</strong> suo succo bevuto o spalmato toglie la febbre. Nasce in luoghi<br />
freddi o caldi, alti o campestri.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXVIII<br />
Del XOLÓMETL o maguey del servo<br />
E' una specie di metl con radice formata come da tre sferette unite e con fbre rossicce, da<br />
dove spuntano foglie con spine scarlatte, rade e che appaiono a partire della parte media<br />
sino alla punta. <strong>Il</strong> succo spremuto <strong>delle</strong> foglie, preso in quantità di dieci once, risolve i<br />
dolori di tutto il corpo e principalmente <strong>delle</strong> articolazioni, e restituisce il movimento<br />
impedito. Ma durante il tempo in cui si beve, si deve coprire il corpo con molta<br />
attenzione. Nasce in Huexotzinco, lungo le sponde dei fumi.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXIX<br />
Del XOTLACTLI o limpidezza di roccia<br />
E' un albero con foglie simili a quelle del lirio ma più larghe, più spesse, molto aspre e<br />
fnemente seghettate, e fore simile a quello del metl, del quale forse è una specie sebbene<br />
raggiunga la dimensione di un albero; la radice è spessa e si assicura alla terra mediante<br />
69
fbre rosse. Adorna i giardini dei re e dei caudilli, ma non ha, ch'io sappia, alcun altro<br />
utilizzo.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXX<br />
Del PATI o metl dal quale si fanno fli molto fni<br />
Assomiglia al metl, ma con foglie più strette, minori, più<br />
esili, purpuree nella loro parte superiore, e radice fbrosa<br />
e spessa. E' una specie della detta pita; da essa si<br />
fabbricano fli molto fni molto apprezzati e adatti per<br />
tessere tele preziose.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXXI<br />
Del QUETZALICHTLI o maguey simile al quetzalli o alle<br />
piume del quetzaltótotl<br />
Lo QUETZALICHTLI, che altri chiamano metl de pita,<br />
sem-bra appartenere alle specie di metl. Raggiunge<br />
l'altezza di un albero, ha radice spessa, fbrosa e che si<br />
assottiglia gradualmente, e foglie spinose e simili a quelle<br />
del metl. Si fa da questo tutto ciò che si è soliti fare dal<br />
metl, ma con i suoi fli si fabbricano tele più delicate e tenute in maggior stima. Nasce in<br />
luoghi caldi di Quauhquechulla e Mecatlan.<br />
Libro VIII, Capitolo LXXXII<br />
Del NEQUÁMETL o bevitore di miele<br />
E' una specie di metl simile nelle proprietà alle sue congeneri. Lo stelo e il frutto hanno un<br />
aspetto singolare; lo stelo ha lo spessore di un braccio, e nella punta, coprendolo da tutte<br />
le parti, v'è il frutto, oblungo, con forma di piccole pere; le foglie sono spesse poco più di<br />
un dito, aspre nei lati e con punta molto acuta. Nasce in luoghi caldi, come sono i<br />
quauhnahuacenses.<br />
Vi sono molte altre specie di metl, alle cui immagini aggiungerò solo i nomi e i luoghi in<br />
cui nascono, per avere quasi tutte le medesime proprietà ed essendo poco diferenti<br />
nell'aspetto. La prima si chiama mexoxoctli cioè metl verde. La seconda néxmetl per il suo<br />
colore cenerino. La terza quámetl o maguey del monte, ed è scolorito, con radice fbrosa<br />
con aspetto di germoglio spesso e lungo. La quarta si chiama hoitzitzílmetl, ed ha spine<br />
lunghe di color porpora, così come le radici. La quinta è il tapayáxmetl o maguey tapayaxin,<br />
quasi uguale al precedente.<br />
70
La sesta si chiama acámetl ossia maguey arundineo, le sue foglie sono più bianche vicino<br />
alla radice e le sue spine e radici rosse. La settima si chiama maguey negro per il suo<br />
colore scuro, sebbene le spine e le radici sono nere fulve. L'ottava è lo xilómetl o metl<br />
capelluto, con spine e radici rosse e un poco più rade che nelle specie precedenti.<br />
71
Note<br />
1 In particolare Agave atrovirens Karwinsky ex Salm-Dick e Agave americana L. e le sue numerose<br />
varietà. In Messico sono difuse oltre 130 specie del genere Agave, di cui almeno 25 sono<br />
utilizzate per la preparazione di bevande inebrianti, sia fermentati che distillati (<strong>pulque</strong>, suguí,<br />
mezcal, tequila, pisto, ecc.); da alcune altre specie vengono ricavate fbre usate per la fabbricazione<br />
di tessuti, fra cui Agave sisalana Perrine e Agave fourcroydes Lem.<br />
2 <strong>Il</strong> tlacámetl è identifcabile con Agave atrovirens Karw.<br />
3 <strong>Il</strong> cuartillo è un'unità di misura per liquidi equivalente approssimativamente a 0,5 litri.<br />
4 Si veda oltre la discussione di Johansson riportata nel paragrafo “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi preispanici”.<br />
5 Nella II° Carta datata al 1520, cfr. Cortés, 2009, p. 138.<br />
6 Palmer, 1933: 101, cit. in Gonçalves da Lima, 1986, p. 14.<br />
7 Si veda ad esempio un articoletto della Domenica del Corriere, vol. 23 del 17 aprile 1921, p. 5<br />
titolato “La paglia che inebria”, così come le numerose discussioni in merito in diversi forum in<br />
Internet. L'articoletto della Domenica del Corriere riporta: “Quando ordinate una bevanda<br />
ghiacciata, il cameriere vi porta <strong>delle</strong> lunghe paglie per succhiarla. <strong>Il</strong> motivo è semplicissimo:<br />
succhiato in questo modo, il liquido può fltrare lentamente giù per la gola, in modo da<br />
raggiungere la temperatura del corpo prima di arrivare allo stomaco; in tal modo è di molto<br />
diminuito il pericolo di crampi prodotti dal freddo. Coi vini ghiacciati, invece, le paglie non<br />
sono mai adoperate. Se lo fossero sarebbero assai frequenti i casi di solenni ubriacature anche tra<br />
le persone per bene. Una bevanda alcolica, assorbita attraverso la paglia, provoca una rapida<br />
ebbrezza. Quando la birra o il vino sono bevuti col bicchiere, essi raggiungono rapidamente lo<br />
stomaco e, purché siano bevuti in quantitativi moderati ledono difcilmente il cervello. Se<br />
invece il bevitore si provasse a succhiarli colla paglia, il sottile flo d'alcol ha la possibilità<br />
massima di annebbiare il suo cervello e presto lo riduce in uno stato di completa sbornia. A un<br />
bevitore indurito fu dichiarato un giorno ch'egli non sarebbe riuscito a bere colla paglia<br />
nemmeno due litri di birra. Siccome tale misura era di molto inferiore al quantitativo che di<br />
solito tracannava, egli rise alla proposta e subito accettò la scommessa. La prima bottiglia fu<br />
portata ed egli la succhiò colla paglia com'era inteso. Poi disse: 'E una, portatemi l'altra'. Non<br />
aveva fnito di parlare che cadde a terra ubriaco fradicio”.<br />
72
Un medico a cui ho esposto la questione ha risposto come segue: “<strong>Il</strong> fenomeno può avere a che fare<br />
con la modalità di transito del liquido all'interno della cavità orale.Se si prova a suggere da una<br />
cannuccia un liquido qualunque ci si accorge che non vi e' modo di deglutirlo in maniera fuida<br />
cosi' come accade bevendolo da un bicchiere o a collo da una bottiglia, bensì giunge alle prime<br />
vie digestive in tre tempi, cioè aspirazione, immagazinamento all'interno della bocca e infne<br />
deglutizione. La soluzione del problema è durante il secondo tempo, cioè nell'immagazinamento<br />
all'interno della bocca: la mucosa della bocca e della lingua nonché il palato sono ricche di<br />
vascolarizzazione capillare per via della presenza <strong>delle</strong> papille gustative. Gia' a questo livello<br />
l'alcool viene assorbito in grande quantità per arrivare direttamente al cervello bypassando la<br />
digestione enzimatica gastroepatica, accorciando cosi' i tempi e raforzandone il potere inebriante”.<br />
8 <strong>Il</strong> passo si trova nel vol. 2, p. 370 dell'edizione del 2009 curata da León-Portilla: “Pues de<br />
borrachos, no lo sé decir, tantas suciedades que entre ellos pasaban; sólo una quiero aquí poner, que<br />
hallamos en la provincia de Pánuco, que se embudaban por el sieso con unos cañutos, y se<br />
henchían los vientres de vino de lo que entre ellos se hacía, como cuando entre nosotros se echa una<br />
medicina”. <strong>Il</strong> termine embudaban proviene da embudo, “imbuto”, ed evidenzia l'atto di introduzione<br />
di un liquido; il termine sieso indica in spagnolo l'ano insieme alla parte fnale dell'intestino<br />
e viene quindi qui tradotto con “retto”.<br />
9 Passo riportato nella “Relación de la Conquista que hizo Nuño Beltrán de Guzmán. Anonima<br />
Segunda”, datato attorno al 1530, pubblicata in AA.VV., 1963: 315-327.<br />
10 Questa notizia doveva risultare come una singolare curiosità, appetibile per quegli europei<br />
letterati che erano assetati di notizie sul nuovo mondo da poco scoperto dagli Spagnoli.<br />
Probabilmente per questo motivo fu riportata in diversi scritti fction che furono prodotti nel<br />
XVI secolo da autori che non erano mai stati nel nuovo mondo e che si basarono, oltre che sulla<br />
loro fantasia, sugli scritti di Cortés, Díaz del Castillo e altri veri testimoni della Conquista. Una<br />
certa fortuna ebbe la Relación de la Nueva España, scritta da un autore chiamato Conquistador<br />
Anónimo, che si fece passare per un uomo al seguito della spedizione di Cortés, e di cui ci è<br />
pervenuta una traduzione italiana (da un originale spagnolo, forse da Siviglia) datata al 1556,<br />
edita a Venezia dalla casa editrice Giunti, inserita all'interno della raccolta di viaggi Delle<br />
Navigatione et viaggi curata da Giovanni Battista Ramusio. <strong>Il</strong> Conquistador Anónimo riportò il<br />
tema dell'assunzione rettale del <strong>pulque</strong> presso le genti native di Pánuco, aggiungendo considerazioni<br />
di cui non sono chiare le origini, se puramente fantasiose o se basate su fonti orali ascoltate<br />
a quei tempi dall'autore: “particolarmente in quella di Panuco adorano il membro che portano<br />
gli huomini fra le gambe, & lo tengono nella meschita [moschea, maniera arabizzante per<br />
indicare il tempio], & posto similmente sopra la piazza insieme con le imagini de rilievo di tutti<br />
modi di piaceri che possono essere fra l'huomo & la donna, & gli hanno di ritratto con le gambe<br />
alzate di diversi modi. In questa provincia di Panuco sono gran sodomiti gli huomini et gran<br />
poltroni & imbriachi, in tanto che stanchi di non poter bere più vino per bocca, si colcano [si<br />
sdraiano a pancia in su] & alzando le gambe se lo fanno metter con una cannella per le parti di<br />
sotto fn tanto che il corpo ne puo tenere.” (Conquistador Anónimo, 1986, par. 27, pp. 128-130).<br />
73
11 In maniera alquanto convincente Baudot (1991: 345-380) ha attribuito il manoscritto a Martín<br />
de la Coruña, con una datazione al 1549.<br />
12 Nella versione data da Sahagún (III, IV, 6), prima di ubriacare Quetzalcóatl, Tezcatlipoca gli<br />
presagì che sarebbe tornato a Tula sotto l'aspetto di un bambino (si veda L'ubriachezza di<br />
Quetzalcóatl). Graulich & Oliver (2004: 137) hanno ipotizzato che il <strong>pulque</strong> fosse ritenuto<br />
ringiovanire o addirittura contribuire alla rinascita. Stresser-Péan (1971: 597) ha riportato che il<br />
dio huasteco della terra e del tuono era anche il dio dell'ubriachezza ed era capace quando<br />
ubriaco di tornare giovane.<br />
13 “<strong>Il</strong> itlanexillo, che altri chiamano teatlapalli o ala di pietra, ha radici assomiglianti a dei capelli da<br />
dove nascono steli purpurei, cilindrici e sottili, e in questi foglie piccole a forma di cuore; non ha<br />
né fore né frutto. Le foglie sono di natura fredda, secca e astringente, di sapore dolce e con<br />
proprietà per arrestare la dissenteria. Anche la radice è fredda, secca e dolce, ma non astringente;<br />
si mescola con l'octli o vino di maguey che chiamano <strong>pulque</strong> con lo scopo di dargli forza e<br />
maggiore efcacia per stravolgere la mente. Alcuni la classifcano fra le specie di capelvenere di<br />
pozzo. Nasce nella regione calda di Xicotépec” (Hernández, Libro III, Cap. XL).<br />
14 “E' lo quauhchílzotl un piccolo arbusto simile allo spino cervino, con foglie bianchicce come di<br />
leguminosa o di mumularia e fori gialli. La radice mescolata con metl produce vino. La<br />
corteccia, che è simile a quella dell'alcornoque cura le ulceri; tostata e macinata cura le<br />
bruciature. E' di natura fredda e umida, o un poco calda. E' dolce. Nasce in luoghi montuosi e<br />
caldi, come sono i quauhnahuacenses e i teucaltzincenses” (Hernández, Libro III, Cap. CL).<br />
15 “<strong>Il</strong> quapatli, che alcuni chiamano tlapatli ossia medicina piccola, e altri ocpatli ossia condimento<br />
del vino, è un arbusto che getta, da alcune radici ramifcate, steli fulvi pieni di foglie come di<br />
mízquitl, piccole ed esili, e baccelli di dimensione media. La corteccia è rossa, secca e astringente,<br />
con amaro un poco dolce, e la sua cottura cura le dissenterie, in particolare se gli si aggiunge<br />
chichicpatli. La medesima corteccia pulisce perfettamente i denti e li consolida, allevia la tosse, fa<br />
crescere la carne e mescolata al vino di metl o a qualche altro liquore provoca l'urina in maniera<br />
ammirevole, un fatto che è stato comprovato per esperienza quotidiana, aumentando inoltre la<br />
forza inebriante del vino” (Hernández, Libro XVI, Cap. LII).<br />
16 “Copalotile: è un liquore molto usato dagli Indios, molto caldo e dannoso. Si prepara con il seme<br />
dell'Albero del Peru, quando è colorato, fermentato con Pulque tlachique per uno o due giorni”<br />
(Wilson, 1963: 506).<br />
17 Ordinanza sul <strong>pulque</strong> di Luis de Velasco, datata al 16 agosto 1608, riprodotta integralmente in<br />
Hernández Palomo, 1979, pp. 433-5.<br />
18 Ordinanza del Conte di Revillagigedo, 1755, riportata per esteso in Hernández Palomo, 1979:<br />
438-446.<br />
19 Tzitzimitl, essere mostruoso femminile genitrice <strong>delle</strong> tzitzimine.<br />
20 Signifca “Quetzal salice”.<br />
21 Signifca “Albero fore”.<br />
22 Tzitzimine, spiriti tenebrosi dell'aria che scendevano sulla terra per terrorizzare gli uomini e per<br />
mangiarli.<br />
74
23 L'unione dei due rami sottintende un rapporto copulativo fra Ehécatl e Mayahuel.<br />
24 La radice dell’upactli, o ocpatli (“rimedio del <strong>pulque</strong>”), è uno degli additivi rinforzanti che<br />
venivano normalmente aggiunti alla bevanda durante la fermentazione (si veda <strong>Il</strong> problema<br />
degli additivi del <strong>pulque</strong>).<br />
25 Da metl, “maguey”, cónetl, “ragazzo” e tzin, sufsso reverenziale o diminutivo.<br />
26 La parte del racconto che tratta della storia del ragazzo plebeo Tobueyo di cui si innamora la<br />
fglia del re, appartiene a un racconto nahua più noto come “storia di Tohuenyo”. Si tratta di un<br />
racconto dalle connotazioni sessuali, di cui una versione è data da Sahagún (III, V-VI) e un'altra<br />
è presente nel Codice Matritense (fogli 142-144), quest'ultima presentata e discussa da Léon-<br />
Portilla (1963). In diversi casi è stato trascritto erroneamente il nome di Tobueyo, mentre quello<br />
corretto è Tohueyo o Tohuenyo, la cui etimologia è “ciò che costituisce la nostra oferta”, ma il<br />
cui signifcato corrente presso i Nahua era quello di “forestiero” o “straniero”. Nel racconto<br />
originale la fglia del re si innamora del ragazzo dopo averlo visto al mercato e più<br />
specifcatamente dopo aver visto il suo pene. La ragazza in conseguenza di ciò sofre di mal<br />
d'amore e il re obbliga Tohuenyo a giacere con lei con lo scopo di guarire sua fglia. Tohuenyo<br />
diventa quindi lo sposo della principessa, ma ciò genera malumore fra i toltechi e il re decide<br />
quindi di inviare il suo nuovo genero in guerra, speranzoso che ne rimanga ucciso. Ma<br />
Tohuenyo ne esce vincitore e viene quindi accolto dal re e dalla popolazione come un grande<br />
guerriero, meritevole della sua posizione di genero reale. Nella versione data nel Codice<br />
Matritense viene specifcato che Tohuenyo è in realtà un travestimento di Titlacahuan-<br />
Tezcatlipoca, che altro non è che uno dei tre stregoni-dei che si cimenteranno nel cacciare<br />
Quetzalcoátl, principe-sacerdote regnante sui Toltechi, dalla sua città Tula. Quetzalcoátl viene<br />
fatto ubriacare con il <strong>pulque</strong> dai tre stregoni e per questo abbandonerà la città per raggiungere la<br />
riva del mare, dove si trasformerà nella stella del mattino (si veda L'ubriachezza di Quetzalcoátl).<br />
Esiste quindi un sottile legame semantico fra la leggenda di Xóchitl e il racconto mitologico ed<br />
etnostorico di Quetzalcoátl, uniti dal tema del <strong>pulque</strong>.<br />
27 Più precisamente, come riferito dal medesimo Sahagún, a Tula v'erano due Quetzalcóatl: il<br />
primo era la divinità creatrice dell'uomo, considerata a rango di “divinità doppia” e di Essere<br />
Supremo; il secondo Quetzalcóatl, Topiltzin Quetzalcóatl, era una specie di personalità religiosa,<br />
di principe-sacerdote supremo, in defnitiva una specie di “uomo-dio” (cfr. Carrasco, 1979). E' a<br />
questa seconda fgura di Quetzalcóatl che si riferisce il mitologhema della sua ubriachezza.<br />
28 Probabilmente si deve leggere Tlillan-Tlapallan, sebben i testi di Firenze e Madrid danno la<br />
lettura del castigliano (Ángel María Garibay).<br />
29 Bierhorst traduce con “Essi erano coloro che avevano scoperto i piccoli alveari del miele d'albero<br />
[cioè miele d'api] e fu con questi che decantarono il <strong>pulque</strong>”; ma questa traduzione è discutibile,<br />
in quanto non è concretamente possibile decantare il <strong>pulque</strong> dentro agli alveari <strong>delle</strong> api; inoltre,<br />
Gonçalves da Lima (1986: 39-40) ha fatto notare come in una fase arcaica dell'uso del <strong>pulque</strong><br />
venivano usati contenitori per il miele d'api.<br />
30 Bierhorst traduce con “è una spina”, indicando che probabilmente si tratta di un gioco di parole,<br />
in quanto “spina” (huitztli) è un sinonimo di <strong>pulque</strong>.<br />
75
31 Pratiche di autolesionismo religioso devozionale azteco, mediante perforazione della pelle con<br />
spine di maguey, sono state riportate da diversi autori antichi, fra cui Sahagún (III, III, 4) e gli<br />
stessi Annali di Cuauhtitlan (IV, 37-39).<br />
32 Bierhorst traduce in maniera alquanto diferente: “Mai una porzione [di <strong>pulque</strong>] era stata<br />
considerata nella mia casa. Sia pure qui, ah, sia pure qui, qui. Ahimè! Possa il regno sopravvivere.<br />
Ahimè! C'è solamente miseria e servitù. Non recupererò mai”.<br />
33 Bierhorst traduce: “Ah, ella era solita tenermi, ahimè, mia madre, ah, Coacueye, la dea, la nobile”.<br />
34 Garibay traduce: “<strong>Il</strong> legno rosso si ruppe: e qui stiamo piangendo”.<br />
35 Bierhorst traduce in maniera diferente, con un senso opposto a quello dato da Garibay:<br />
“Quando si sentì a disagio, disse ai suoi servitori”.<br />
76
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antiguas de los naturales del Pirú, è riportato in forma integrale alle pp. 151-189. Diversi<br />
studiosi hanno identifcato l'autore di questo scritto con Blas Valera, ma questa<br />
problematica identifcativa non può considerarsi risolta; si veda Barba alle pp. XLIV-LI].<br />
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80
Finito di editare nel febbraio 2012<br />
per conto di Triana Ediciones, Sevilla<br />
Utilizzato il sofware OpenOfce e il carattere open-source Minion Pro Med<br />
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<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> è una bevanda psicoattiva ottenuta mediante la fermentazione della linfa<br />
di diverse specie di Agave e l'aggiunta di svariati additivi vegetali, utilizzata sin dai<br />
tempi degli Aztechi e di altre <strong>popolazioni</strong> del Messico centrale. In questo saggio<br />
l'autore espone un approfondito studio sulla storia, le valenze simboliche, gli<br />
aspetti rituali e mitologici di questa bevanda, sofermandosi su aspetti poco<br />
studiati, quali la somministrazione di un particolare tipo di <strong>pulque</strong> ai prigionieri in<br />
procinto di essere sacrifcati, l'elaborazione di un complesso sistema di divieti e di<br />
permessi dell'utilizzo della bevanda nella società azteca, il problema degli additivi<br />
del <strong>pulque</strong>, il concetto del “quinto <strong>pulque</strong>”, inteso sia come supera-mento del<br />
dosaggio limite socialmente accettato, sia come bevanda esclusiva della casta<br />
prelatizia per il contatto con i “quattrocento conigli” – le divinità del <strong>pulque</strong> –, sino<br />
a giungere al divieto di questa bevanda tradizionale e alla successiva volgarizzazione<br />
del suo consumo nei tempi coloniali.<br />
<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong>, nato a Bologna nel 1957, è un ricercatore specializzato negli aspetti<br />
fenomenologici <strong>delle</strong> droghe, in particolare nell'etnobotanica e antropologia <strong>delle</strong> fonti<br />
tradizionali psicoattive. Ha pubblicato un folto numero di articoli in riviste scientifche di<br />
diversi paesi. Fra i suoi libri più noti, Funghi allucinogeni. Studi etnomicologici, Animali che<br />
si drogano, Gli allucinogeni nel mito.