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Il pulque delle popolazioni messicane - Giorgio Samorini Network

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<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />

Dalle origini ai periodi coloniali<br />

<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong><br />

Triana Ediciones


<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />

Dalle origini ai periodi coloniali<br />

<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong><br />

Triana Ediciones<br />

Sevilla<br />

1


Immagine di copertina:<br />

rafgurazione della pianta di Agave (maguey) chiamata<br />

quámetl (da Francisco Hernández,1571-6, Historia<br />

Natural de Nueva España, Libro VIII, Capitolo LXXXII)<br />

2012<br />

Triana Ediciones<br />

Plaza Don Salesiano Ubaldo 9, 2B<br />

41010 Sevilla (España)<br />

2


Indice<br />

<strong>Il</strong> maguey e il <strong>pulque</strong> .......................................................................... 4<br />

La preparazione del <strong>pulque</strong> ..................................................... 6<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi pre-ispanici ..................................................... 12<br />

Associazioni simboliche .......................................................... 13<br />

Modalità d'uso .......................................................................... 17<br />

Aspetti mitologici ed etnostorici ............................................ 21<br />

Usi rituali .................................................................................. 24<br />

<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong> ........................................................................ 32<br />

<strong>Il</strong> problema degli additivi del <strong>pulque</strong> ............................................... 35<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi coloniali ........................................................... 46<br />

Appendici<br />

I - Mito d'origine del maguey ................................................. 53<br />

II - La leggenda di Xóchitl ....................................................... 55<br />

III - L'ubriachezza di Quetzalcoátl ......................................... 59<br />

IV - La classifcazione dei maguey di Hernández ................. 65<br />

Note ...................................................................................................... 72<br />

Bibliografa …...................................................................................... 77<br />

3<br />

p.


<strong>Il</strong> maguey e il <strong>pulque</strong><br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> è un prodotto della fermentazione della linfa di alcune specie di piante<br />

succulente del genere Agave della famiglia <strong>delle</strong> Agavaceae, 1 estesamente coltivate in<br />

diverse regioni del Messico. <strong>Il</strong> nome generico azteco dell'agave era metl, quello della linfa<br />

necutli, mentre quello del <strong>pulque</strong> era octli. Difusi nomi messicani sono maguey per<br />

l'agave e aguamiel per la linfa.<br />

Le numerose specie di agave sono state una fonte<br />

inesauribile di acqua, miele, bevande alcoliche, aceto,<br />

nonché di prodotti manifatturieri e medicinali, al punto<br />

che il gesuita José de Acosta nel 1590 (Libro IV, Cap.<br />

XXIII) descrisse il maguey come el árbol de las<br />

maravillas (“l'albero <strong>delle</strong> meraviglie”). E' anche vero,<br />

come scrisse Alejandro de Humboldt (1822, IV, IX), che<br />

“la maggior parte dei popoli civilizzati ha ricavato le sue<br />

bevande dalle medesime piante che costituiscono la<br />

base della sua alimentazione, le cui radici o semi<br />

contengono il principio zuccherino unito alla sostanza<br />

amilacea”, e tale è stato anche il caso <strong>delle</strong> piante di<br />

agave nel Messico precolombiano.<br />

Le piante di maguey sono state usate sin dalla remota<br />

antichità come fonte di acqua, in particolare nelle estese<br />

aree aride del Messico, e fn verso la fne del 1800 in<br />

specie di Agave<br />

famiglia <strong>delle</strong> Agavaceae<br />

alcune regioni sono state l'unica fonte idrica. Durante il<br />

secolo XVIII alcuni villaggi messicani, fra cui Tlayaca-<br />

4


pan, Malinalco, San Pedro Ostotepec, si sottrassero alle tasse del maguey e del <strong>pulque</strong><br />

imposte dal governo coloniale, dando come concreta motivazione il fatto che le piante del<br />

maguey erano ancora utilizzate in quei luoghi come unica fonte di acqua e non per la<br />

produzione di <strong>pulque</strong> (Hernández Palomo, 1979: 4-5).<br />

Un altro utilizzo d'importanza storica del maguey fu come fonte saccarina, in quanto<br />

dalla sua linfa, fatta evaporare, si ricavava una sostanza dolciastra, di color scuro,<br />

chiamata miele di maguey, ampiamente usata nei tempi pre-cortesiani, accanto ai prodotti<br />

zuccherini già noti a quei tempi ricavati dalle api e dalla canna da zucchero. La<br />

concentrazione di zuccheri in alcune specie di maguey raggiunge quella della canna da<br />

zucchero, ma nei tempi coloniali e in quelli successivi la loro estrazione non raggiunse<br />

mai il valore economico della canna da zucchero, per via dell'esteso utilizzo del maguey<br />

per la preparazione della bevanda inebriante del <strong>pulque</strong>.<br />

I Nahua utilizzavano tutte le parti della pianta per diversi scopi manifatturieri: dalle<br />

foglie si ricavava carta e un tessuto per vestiti, oltre ad essere impiegate come buon<br />

combustibile; dalle sue fbre rigide si otteneva un flo – noto in Europa col nome di pita –<br />

con cui si costruivano funi, corde e stofe; con le spine si facevano aghi, spilli e chiodi; la<br />

radice cucinata era un alimento nutriente; dalla linfa si ricavavano, oltre al <strong>pulque</strong> e al<br />

miele, un aceto e certi pani di zucchero (cfr. ad es. Motolinía, Historia, III, 19, 439-448;<br />

Hernández, Historia, VIII, LXXI).<br />

Per quanto riguarda le proprietà medicinali, sia le parti della pianta che la linfa e il<br />

<strong>pulque</strong> sono stati impiegati per il trattamento di un cospicuo numero di infermità, un<br />

fatto riportato già dai primi cronisti europei. Sahagún (XI, VII, 74) segnalava l'esistenza<br />

di una specie di maguey chiamata teómetl (“maguey divino”), caratterizzata dall'aver gli<br />

orli <strong>delle</strong> foglie di color giallo, il cui succo <strong>delle</strong> foglie cotte era usato nella preparazione di<br />

una medicina utile per coloro che sofrivano di ricadute da malanni. In un passo<br />

successivo (XI, VII, 155) riportava che il succo della foglia arrostita del maguey giovane<br />

riposta sulle piaghe le cura, così come la foglia del maguey seccata e macinata, mescolata<br />

con resina di pino e collocata sulle parti del corpo doloranti allieva la soferenza. Anche<br />

Hernández (Libro VIII, Cap. LXXI) aveva riportato che le foglie cucinate e in<br />

applicazione topica favoriscono la chiusura <strong>delle</strong> ferite, curano le convulsioni e calmano i<br />

dolori fsici, mentre la linfa “favorisce le regole, calma il ventre, provoca l'urina, pulisce i<br />

reni e la vescica, rompe i calcoli e lava le vie urinarie”. Motolinía (III, 19, 444) riportava<br />

che la foglia<br />

“è molto salubre per una coltellata o per una piaga fresca, presa una foglia e<br />

gettata nelle braci ed estratto il succo così caldo è ottimo per il morso di vipera;<br />

5


devono prendere da questi maguey piccoli della dimensione di un palmo e la radice<br />

che è tenera e bianca ed estrarvi il succo, e mescolato col succo di assenzi di questa<br />

terra, e lavare la morsicatura, poi guarisce; questo io l'ho visto sperimentare ed<br />

essere vera medicina; ciò si intende quando la morsicatura è fresca”.<br />

L'uso medicinale della linfa di maguey più difuso fra le varie <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong><br />

era nel trattamento <strong>delle</strong> afezioni gastriche e renali (Hernández Palomo, 1979: 12).<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> veniva ampiamente impiegato come liquido madre dove farvi disciogliervi i<br />

vari prodotti medicinali. Sahagún (XI, VII, 155) riportava che “il maguey di questa terra,<br />

specialmente quello chiamato tlacámetl, 2 è molto medicinale in ragione della linfa che se<br />

ne estrae, il cui <strong>pulque</strong> viene mescolato con molte medicine da assumere per bocca”.<br />

Motolinía (Trat. III, 19, 440) scriveva che “tutte le medicine che si devono bere sono date<br />

ai malati con questo vino; posto nella sua tazza o coppa vi gettano sopra la medicina che<br />

applicano per la cura e salute del malato”. Martín de la Cruz (1552, F55r e F60r) riportava<br />

che nel <strong>pulque</strong> venivano versati i vari medicinali utili per il trattamento dei pidocchi e<br />

come lattogoghi, mentre per facilitare il parto dava la seguente ricetta: la partoriente “può<br />

bere un preparato nel <strong>pulque</strong> di sterco macinato di falco e di anatra e un poco di coda<br />

dell'animale chiamato tlacuatzin [piccolo marsupiale]. <strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> deve essere dolce” (ibid.,<br />

F57v). Ancora oggigiorno il <strong>pulque</strong> viene usato tradizionalmente per scopi curativi.<br />

Guerrero (1985: 72) ha riportato che “in uno dei quartieri di Itzmiquilpan, nello stato<br />

messicano di Hidalgo, vidi come a una persona punta da un ragno diedero da bere <strong>pulque</strong><br />

con disciolto dell'escremento umano, un fatto che provocò un grande vomito,<br />

assicurando i familiari che con quello gettava via il veleno del ragno.”<br />

La preparazione del <strong>pulque</strong><br />

Le specie di maguey (Agave) sono numerose e non tutte sono utili per ricavarne il<br />

<strong>pulque</strong>. 1 Francisco Hernández (1571-6) ne riportò 18 specie. L'areale di coltivazione del<br />

maguey <strong>pulque</strong>ro si estende su tutti gli altipiani centrali del Messico, dove il terreno è per<br />

lo più argilloso, duro e poco umido. Anche nei luoghi umidi il maguey da <strong>pulque</strong> cresce<br />

rigoglioso e vi viene coltivato, ma la bevanda che se ne ricava è di qualità inferiore ed è<br />

chiamata in questo caso tlachique.<br />

La pianta del maguey deve avere un'età di almeno 6-10 anni (a seconda della specie<br />

coltivata e <strong>delle</strong> modalità di coltivazione) afnché produca sufcienti quantità di linfa e<br />

6


una concentrazione di zuccheri del 10%. Quando raggiunge la maturità fsiologica, la<br />

pianta produce la parte sessuale: dal suo centro si erge un lungo fusto che può raggiungere<br />

l’altezza di 6-8 metri con in cima il fore; questo fusto forifero è chiamato bohordo o<br />

quiote.<br />

Pianta di Agave con il lungo fusto forifero (quiote)<br />

Quando la pianta sta per forire le grandi foglie radicali, che sino a quel momento erano<br />

inclinate verso il terreno, si alzano e si avvicinano fra loro, mentre la parte centrale della<br />

pianta assume un colore verde chiaro e si gonfa. E' questo il momento tanto atteso per<br />

“castrare” (capar) la pianta con lo scopo di estrarre la linfa con la quale produrre il<br />

<strong>pulque</strong>. L'operazione viene eseguita da una persona esperta, la quale taglia le spine laterali<br />

<strong>delle</strong> foglie vicine al “cuore” (mexollotl), che viene quindi asportato con un cucchiaio<br />

aflato (íztetl, “unghia”). La parte tagliata via è chiamata “uovo” ed è usata come cibo,<br />

cotto o stufato in diversi modi; ha un sapore gradevole e leggermente amaro. Una volta<br />

“castrato” il maguey, si possono iniziare a raspare le pareti del foro praticato al centro per<br />

ottenere l’aguamiel, che viene succhiato con l’acocote, una specie di zucca. Quando la linfa<br />

è stata estratta, si raspa il fondo del tronco con un raschietto di metallo, ottenendo così<br />

del materiale fbroso (carnaza) che serve da foraggio per i maiali (Guerrero, 1985: 70).<br />

I cicli lunari erano e sono tutt'ora importanti per la raccolta dell'aguamiel. La pianta<br />

viene “castrata” quando la luna è crescente e il fusso di fuoriuscita del liquido varia a<br />

seconda <strong>delle</strong> fasi lunari.<br />

7


E' stato erroneamente ipotizzato che il raccoglitore di aguamiel (chiamato tlachiquero,<br />

voce nahua che proviene da tlaxiki , “raschiare il maguey”), nel succhiarlo con l'acocote,<br />

contamini con la sua saliva la linfa appena succhiata, inducendo in tal modo una<br />

fermentazione di tipo insalivata; tuttavia, ad una più attenta osservazione dell'operazione<br />

di suggere la linfa, la zucca (acocote) dalla parte del succhiatore ha una forma leggermente<br />

rigonfa che impedisce alla linfa di raggiungere le sue labbra. La zucca usata per la suzione<br />

viene fatta seccare e vengono praticati due fori alle sue due estremità; la parte estrema più<br />

larga è appoggiata alle labbra del tlachiquero, mentre a quella più esile viene applicato un<br />

corno di toro perforato ed è in tal modo inserita nel foro praticato nella pianta pieno di<br />

linfa.<br />

<strong>Il</strong> naturalista Francisco Hernández (Libro I, Cap. XXV)<br />

descrisse la pianta dell'ococotli, in alcune regioni del<br />

Messico chiamata anche xalacotli, ofrendone un disegno<br />

e riportando che “con i suoi internodi gli indios estraggono<br />

il vino di metl dalle cavità praticate nel tronco e<br />

nelle quali distilla”.<br />

Una volta estratto l'aguamiel, il tlachiquero tappa con<br />

una pietra o con <strong>delle</strong> foglie della medesima pianta il<br />

foro praticato nel suo centro – foro chiamato picazón –<br />

onde evitare che qualche animale vi si introduca per<br />

berne la linfa. La pianta continua a produrre linfa per<br />

molto tempo (sino a sei mesi), producendone giornalmente<br />

3-4 litri, una quantità che è periodicamente<br />

raccolta dal tlachiquero (Guerrero, 1985: 70-1). In<br />

La pianta dell'acocotli<br />

(da Hernández, I, XXV)<br />

pratica, nella cavità praticata si accumula la quantità di<br />

linfa che la pianta aveva preparato per far crescere<br />

l'enorme fusto forifero.<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> che inizia a fermentare, spumeggiante, è chiamato itzli. A fermentazione<br />

maturata la bevanda è chiamata <strong>pulque</strong> bianco, in nahua tiçauctli. La raccolta<br />

dell'aguamiel è eseguita mediamente due volte al giorno, una alla mattina e una alla sera;<br />

in alcuni casi si efettuano tre raccolte diarie, come riportava Humboldt (IV, IX):<br />

“comunemente ogni pianta produce tutti i giorni quattro decimetri cubici di linfa, che<br />

equivalgono a 8 cuartillos, 3 tre all'alba, due a mezzogiorno e tre al tramonto”. Doveva<br />

apparire davvero un evento straordinario (una maravilla) alle antiche <strong>popolazioni</strong><br />

<strong>messicane</strong> questa abbondanza di liquido prodotto da una pianta che cresce in ambienti<br />

aridissimi e più volte rocciosi, dove l'acqua era introvabile.<br />

8


Sinistra: Un tlachiquero (raccoglitore di maguey) estrae la linfa (aguamiel) dalla pianta<br />

del maguey succhiandola mediante una zucca allungata perforata (acocote) (da Guerrero,<br />

1985). Destra: disegno di estrazione dell'aguamiel dal maguey, di Claudio Linati,<br />

1828, Trajes civiles, militares y religiosos en México, lamina 38, riportato in Hernández<br />

Palomo, 1979, fg. 2.<br />

La linfa viene trasportata nei luoghi di fermentazione del <strong>pulque</strong> chiamati tinacal, dove<br />

è depositata in olle di argilla, tini di legno o in caratteristici recipienti di cuoio di bue<br />

montati su un supporto di legno, chiamati toros (“tori”). In questi contenitori viene<br />

lasciata una piccola quantità di <strong>pulque</strong> vecchio, chiamato “piede” o “madre” del <strong>pulque</strong>, in<br />

nahua xinaxtli, che facilita l'innesco della fermentazione alcolica. In breve tempo si viene<br />

a formare un “<strong>pulque</strong> soave”, dolciastro; con l’aumentare della fermentazione la bevanda<br />

acquista una maggiore gradazione alcolica, diventando un “<strong>pulque</strong> forte”.<br />

La pianta del maguey “castrata” per la raccolta della linfa è destinata a morire e le sue<br />

parti seccate vengono usate per lo più come carburante per il fuoco. Prima di morire,<br />

attraverso le sue radici la pianta fa germinare attorno a se numerose plantule (chiamate<br />

mecuate o mesontet), che vengono raccolte dai coltivatori e ripiantate in luoghi e a<br />

distanze adatte per far crescere nuove piante per le future raccolte di linfa.<br />

Ruiz de Alarcón (1629, III, I) riportò una maniera “superstiziosa” (seguendo<br />

l'interpretatio cattolica) per il trapianto <strong>delle</strong> plantule di maguey dalle aree non coltivate ai<br />

campi coltivati. I nativi si premunivano di tabacco, che usavano in qualunque occasione<br />

rituale e a cui “afdavano” il compito che stavano per svolgere; quindi raccoglievano un<br />

bastone aguzzo con il quale aferravano i piccoli maguey e nel mentre rivolgevano al<br />

9


astone la seguente orazione:<br />

“Forza, che è già tempo, spiritato, la cui felicità sta nelle acque, andiamo che<br />

dobbiamo aferrare ed estrarre la stimabile donna, quella ordinata in otto, che devo<br />

andare a piantarla, voglio metterla in un luogo molto adatto e molto fertile che le ho<br />

pulito, lì devo riporla dove le piacerà stare e alla quale ofro la miglioria del nuovo<br />

luogo”.<br />

La pianta del maguey era chiamata la “stimabile donna” in riferimento a Mayáhuel, la<br />

dea del maguey da cui questa pianta originò, come riportato più avanti negli aspetti<br />

mitologici; Alarcón considerava l'ordinamento in otto come una maniera di disporre il<br />

campo coltivato in flari di otto piante, ma quest'interpretazione è discutibile. 4<br />

Con la venuta degli Spagnoli e le loro<br />

tecniche di distillazione in Messico, dal<br />

<strong>pulque</strong> si iniziò a distillare un liquore<br />

chiamato mezcal o aguardiente di maguey.<br />

In realtà, per la produzione di mezcal si<br />

utilizzano specie di agave diferenti da<br />

quelle usate per la produzione di <strong>pulque</strong>. La<br />

combinazione di mezcal con aguamiel si<br />

chiama chinguirito o chínguere. Si beve<br />

molto nella regione del Mezquital, fra<br />

Durango e Zacatecas.<br />

Nelle piante del maguey vivono diversi<br />

animali inferiori, fra cui larve e vermi. In<br />

particolare, vivono due vermi, l'uno di color<br />

rosso (chiamato attualmente chinicuil) e<br />

Tina di <strong>pulque</strong> con in evidenza la spuma<br />

bianca prodotta dalla fermentazione<br />

(da Hernádez Palomo, 1979, fg. 5)<br />

l'altro di colore bianco o dorato (chiamato<br />

anticamente meocuili), che sono utilizzati<br />

come additivi, più che altro folkloristici, del<br />

mezcal, specie nello stato messicano di<br />

Hoaxaca, principale centro produttivo del mezcal. Nei tempi moderni a questi vermi sono<br />

attribuite proprietà afrodisiache, non confermate tuttavia scientifcamente. Questi<br />

animaletti sono noti sin dai tempi pre-ispanici, come confermano le note a loro riguardo<br />

riportate da Sahagún (Historia, XI, V, 81-82) e da Motolinía (Historia, III, 19, 447). Già a<br />

quei tempi era costume tostarli, aggiungervi sale e mangiarli. Ancora oggigiorno nello<br />

10


stato di Hoaxaca sono tostati e macinati con sale, ricavandone una miscela chiamata sal<br />

de gusano, usato come condimento. In un rapporto del 1791, il naturalista Antonio<br />

Pineda riferiva dell'uso di vermi del maguey chiamati tecolio, di color carneo, che<br />

venivano a quei tempi tostati, ridotti in polvere e mescolati nel <strong>pulque</strong>; tuttavia, nel<br />

rapporto non è stato specifcato né il motivo né l'area geografca di presenza di tale<br />

pratica (Wilson, 1963: 508).<br />

11


<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi pre-ispanici<br />

In lingua nahua le piante di agave erano chiamate col nome generico metl. <strong>Il</strong> vocabolo<br />

maguey sembra essere originario <strong>delle</strong> Antille; una considerazione già presente nelle<br />

cronache del periodo della Conquista. Ad esempio, Motolinía (III, XIX, 440) riportava<br />

che “Metlh è un albero o cardo che nella lingua <strong>delle</strong> isole si chiama maguey”. Hermán<br />

Cortés, il conquistatore degli Aztechi, riferiva che nel mercato di Temixtitan (Tenochtitlan)<br />

aveva visto vendere “miele ricavato da certe piante che chiamano nelle altre isole<br />

maguey”. 5 Probabilmente maguey deriva direttamente dai termini taino meguey e<br />

magheih che designano le piante di agave. 6<br />

Per quanto riguarda l'etimologia della parola <strong>pulque</strong>, essa è stata oggetto di controversie<br />

per via di un errore di inversione cronologica da parte di alcuni scrittori del passato,<br />

chiarito in seguito da Cecilio Robelo (1948: 451-4) e ridiscusso da Gonçalves da Lima<br />

(1986: 13-4). Clavijero (1807: 435) aveva notato come il termine <strong>pulque</strong> fosse presente<br />

anche nella lingua araucana del Cile, dove designa una bevanda fermentata ricavata dalle<br />

mele, e la ritenne quindi originaria del sud America, pur non riuscendo a spiegare come<br />

fosse giunta presso le <strong>popolazioni</strong> <strong>messicane</strong> di lingua nahua. In realtà furono gli<br />

Spagnoli a portare dal Messico questo termine in sud America. La parola <strong>pulque</strong> è molto<br />

probabilmente un barbarismo dei medesimi Spagnoli, derivante dal termine azteco<br />

poliuhqui, che designava la bevanda nel suo stato avariato. La bevanda del <strong>pulque</strong>,<br />

chiamata dagli Aztechi octli o iztacoctli (“vino bianco”), si conserva per poco tempo e<br />

inizia ad avariarsi dopo 24-36 ore, diventando poliuhqui; i primi Spagnoli, all'udire<br />

frequentemente quest'ultimo termine, lo avranno verosimilmente considerato in maniera<br />

erronea come la parola azteca per la bevanda, trasformandolo quindi nel barbarismo<br />

<strong>pulque</strong>.<br />

12


Associazioni simboliche<br />

Per quanto riguarda l'uso rituale e religioso del <strong>pulque</strong>, la principale fonte di informazioni<br />

è l'opera di Bernardino de Sahagún, Historia General de las Cosas de Nueva España,<br />

compilata nel trentennio 1547-1577, di cui qui è utilizzata principalmente la versione<br />

curata da Ángel María K. Garibay.<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era utilizzato in diverse feste religiose, nei riti battesimali, nelle feste del<br />

raccolto, così come nei numerosi sacrifci umani che si svolgevano nel corso di tutto il<br />

calendario religioso azteca. Ma non a tutti era concesso bere <strong>pulque</strong>, così come appare<br />

chiaro, pur dai dati confusi dei primi cronisti, che v'era una rigida diferenziazione<br />

d'utilizzo di diversi tipi di <strong>pulque</strong> – e conseguenti diferenti efetti inebrianti: dai <strong>pulque</strong><br />

riserbati alla casta prelatizia, a quello specifco per le vittime umane destinate ai sacrifci,<br />

ai <strong>pulque</strong> permessi al popolo in determinati momenti collettivi. I primi cronisti spagnoli<br />

riportarono scene di ubriachezza collettive che spesso sfociavano in stati di delirio, di<br />

furore e di prostrazione, probabilmente dovuti, più che all’efetto alcolico del <strong>pulque</strong> (che<br />

di per se non supera i 4 gradi), all’aggiunta alla bevanda di particolari vegetali che ne<br />

raforzavano e ne modifcavano gli efetti.<br />

Nella preparazione della bevanda erano impiegate diverse specie di maguey,<br />

riconosciute dai Nahua come “maguey bianco”, “maguey grande”, “maguey divino”,<br />

“maguey azzurro”, ecc., ciascuna <strong>delle</strong> quali produceva un tipo distinto di <strong>pulque</strong> e questa<br />

diferenziazione era destinata ad aumentare con l’aggiunta, come detto, dei diversi<br />

additivi e rinforzanti. Una sifatta variabilità nella qualità del <strong>pulque</strong> e nelle relative<br />

proprietà psicoattive, si rispecchia nella moltitudine di divinità associate a questa<br />

bevanda. Esse corrispondono alla famiglia dei centzontotochtlin, i “quattrocento conigli”,<br />

“i numerosi dei del <strong>pulque</strong>”, che possono tutti essere individualmente denominati “dueconiglio”<br />

(ome tochtli); questo era il nome generico degli dei del <strong>pulque</strong>. Nella cultura<br />

nahua il numero quattrocento era impiegato come forma aggettivale indicante “molti” o<br />

“moltitudine”.<br />

<strong>Il</strong> coniglio era strettamente associato alla luna e all'ebbrezza. Come presso altre<br />

<strong>popolazioni</strong> americane, i nahua ritenevano che le macchie scure che si vedono sulla faccia<br />

della luna piena rafgurassero un coniglio. Nei Codici la luna è rafgurata simbolicamente<br />

come un vaso riempito di un qualche liquido e al suo interno è disegnato il più<br />

<strong>delle</strong> volte un coniglio o, più raramente, una piccola conchiglia o una pietra focale.<br />

Secondo la cosmogonia nahua, il coniglio fu scaraventato sulla faccia della luna da<br />

Papátzac, una <strong>delle</strong> divinità del <strong>pulque</strong> (González Torres, 1972).<br />

13


Rafgurazione della luna nel<br />

Codice Vaticano B, p. 29<br />

L'associazione fra il maguey e la luna fu osservata dai<br />

tlachiqueros, i raccoglitori di aguamiel, che avevano<br />

notato una sua maggiore afuenza nei periodi di luna<br />

crescente, e quest'associazione è ben evidenziata nei<br />

Codici in alcune rafgurazioni della pianta del maguey.<br />

Nel Codice Vaticano B (originario di una regione di<br />

Puebla o Tlaxcala), all'interno di un maguey è disegnato<br />

un recipiente rovesciato – rafgurante la luna – ornato di<br />

gioielli e pieno di un liquido dove si vede un pesce che<br />

beve sul fondo del recipiente. <strong>Il</strong> liquido rappresentato è<br />

quasi certamente l'aguamiel. Anche in una famosa ed<br />

enigmatica rafgurazione nel Codice Borgia della dea del<br />

maguey, Mayáhuel, è rafgurato un pesce che succhia dal suo seno.<br />

Gonçalves da Lima (1986: 134) ha interpretato la presenza di questi pesci in associazione<br />

col maguey considerando che “nella peregrinazione nahua il maguey fu una fonte di<br />

sopravvivenza fondamentale come portatrice di linfa, assunta sia come bevanda che come<br />

alimento.” Ma quest'interpretazione sembra essere inadeguata e la relazione fra pesce e<br />

maguey è probabilmente più profonda, sebbene resti inspiegata. Guerrero (1985: 79) ofre<br />

una considerazione che può risultare utile per la<br />

comprensione di questa associazione simbolica.<br />

Ancora oggigiorno “i conoscitori del <strong>pulque</strong>,<br />

quando la bevanda è di ottima qualità, dicono<br />

che 'è latte della vergine' o che 'è come il latte<br />

della vergine', senza che queste espressioni siano<br />

considerate blasfeme. Si tratta di un’espressione<br />

folclorica, popolare, vernacolare e anonima,<br />

appresa per trasmissione orale e trasmessa di<br />

generazione in generazione dall’epoca preispanica<br />

e relativa, con tutta sicurezza, alla<br />

rappresentazione della dea Mayáhuel in forma di<br />

maguey divinizzata e umanizzata, e la cui secrezione,<br />

l’aguamiel, fu chiamata 'latte di Mayahuel'<br />

per allattare un pesce, come è possibile vedere<br />

nel Codice Borgia”. Le piante di maguey erano viste come rappresentazioni della fgura<br />

femminile di Mayáhuel.<br />

Come osservato da Ruiz de Alarcón (1629, III, I), i contadini dediti alla coltivazione del<br />

14<br />

Rafgurazione di Mayáhuel che allatta<br />

un pesce, Codice Borgia, 16


maguey e alla raccolta del <strong>pulque</strong> seguivano diverse “superstizioni” durante le varie<br />

operazioni agricole. Dopo aver praticato la “castrazione” per la raccolta dell'aguamiel,<br />

rivolgevano la seguente orazione al cucchiaio di rame che serviva per raschiare la cavità<br />

appena ricavata al centro della pianta:<br />

“Forza, che è già tempo, fai il tuo lavoro, chichimeco vermiglio. Forza, ora raschia<br />

e pulisci la tua opera, devi entrare nel luogo del cuore della donna una di otto in<br />

flare, fai in modo che abbia la carnagione molto pulita e lascia che pianga, che<br />

diventi melanconica e faccia molte lacrime e suda in maniera che esca un ruscello<br />

dalla femmina una di otto in flare”.<br />

L'aguamiel che fuoriesce dalla cavità è considerato il pianto della donna-pianta, di<br />

Mayáhuel, per via della sua “uccisione” causata dall'asportazione del suo “cuore”. Secondo<br />

Alarcón “una di otto in flare” si riferisce alla maniera di disporre il campo di coltivazione<br />

in flari di otto piante. Tuttavia Johansson (1996: 82) analizza un canto nahua dedicato al<br />

dio del <strong>pulque</strong> Tezcatzoncátl in cui questa divinità viene aggettivata come “flare di venti”;<br />

“una di otto in flare” e “flare di venti” hanno entrambi la radice nahua tecpantli, che è un<br />

aggettivo neutro per contare le persone (o le divinità) di venti in venti sino ad arrivare a<br />

quattrocento, un numero che riporta direttamente alle 400 divinità del <strong>pulque</strong>. Quindi,<br />

queste forme aggettivali numeriche, lungi dal rappresentare disposizioni <strong>delle</strong> piante del<br />

<strong>pulque</strong> nei campi, sarebbero associate a modalità di enumerazione <strong>delle</strong> divinità del<br />

<strong>pulque</strong> che ci risultano comunque criptiche.<br />

Come già anticipato, il coniglio era strettamente associato anche con l'ebbrezza indotta<br />

dalle piante e dalle bevande psicoattive e, di conseguenza, con il <strong>pulque</strong>. Nello stato<br />

messicano di Hidalgo odiernamente si tramanda la credenza popolare che il primo<br />

ubriaco fu un coniglio che si avvicinò a una pianta di maguey, “saziò la sua sete, si sedette<br />

sul suo corpo raccolto, si dondolò e rimase disteso, scena che da quel giorno anche molti<br />

uomini rappresentarono, rappresentano e continueranno a rappresentare” nel bere il<br />

<strong>pulque</strong> (Guerrero, 1985: 33). Fra i Totonachi vi sono riferimenti a un uso rituale di <strong>pulque</strong><br />

miscelato con sangue di coniglio (ibid., :58). Presso gli Aztechi v'era la maniera di dire<br />

“quel tale si inconigliò”, per riferire di una persona che aveva subito un grave incidente,<br />

come cadere da un dirupo o addirittura uccidersi a causa della sua ubriachezza. V'era<br />

anche il modo di dire che “quell'ubriacatura è il suo coniglio”, per intendere che a quel tale<br />

la bevanda inebriante fa in quello specifco modo (Sahagún, IV, IV, 8).<br />

Sahagún (in buona parte in I, XXII, 3) riporta diversi nomi di dei del <strong>pulque</strong>: Tezcatzóncatl,<br />

Izquitécatl, Yiauhtécatl, Acolhoa, Tlilhoa, Pantécatl, Yzquitécatl, Toltécatl, Papáz-<br />

15


tac, Tlaltecaiooa, Ometochtli, Tepoztécatl, Chilmalpanécatl, Colhoatzíncatl. Nell'iconografa<br />

queste divinità si riconoscono per l'insieme congiunto dei seguenti caratteri:<br />

tengono in mano un'ascia di ossidiana, sul naso portano un monile a forma di mezza luna<br />

crescente e sul capo un pennacchio di piume di airone e di quetzal, hanno orecchie<br />

rettangolari, portano un ventaglio sulla schiena, <strong>delle</strong> campanelle nei piedi e indossano<br />

sandali di gomma. Ognuno di questi caratteri rappresentato isolatamente non è indicativo<br />

degli dei del <strong>pulque</strong> (Maher, 1997).<br />

Sinistra: Tepoztecatl, divinità del <strong>pulque</strong>. Codice<br />

Magliabecchiano, foglio 49r (in Bankmann, 1984, fg.<br />

11, p. 318). Sopra: Tezcatzoncatl, una <strong>delle</strong> divinità<br />

del <strong>pulque</strong>. Codice Fiorentino, libro I, appendice, cap.<br />

16, fol. 40 recto<br />

<strong>Il</strong> monile indossato al naso di queste divinità rappresenta un grafema chiamato<br />

yacametztli (Naso-Luna); è un glifo dalle origini arcaiche e comuni per le culture azteca e<br />

maya ed è indicativo della luna crescente. Nelle sue varie evoluzioni grafche lo si ritrova<br />

anche nell'iconografa maya per indicare la bevanda del balché. Lo yacametztli era<br />

originalmente associato all'idromele, sia presso i Maya che presso gli Aztechi, un fatto che<br />

dimostra una connessione concettuale fra la primissima bevanda alcolica ricavata dal<br />

miele d'api e le bevande alcoliche maggiormente elaborate del balché e del <strong>pulque</strong>, dove<br />

venivano aggiunti ingredienti rinforzanti l'efetto psicoattivo: per il balché la corteccia di<br />

un Lonchocarpus e per il <strong>pulque</strong> le radici di ocpatli e altri ingredienti tutt'ora indeterminati<br />

dal punto di vista botanico. Gonçalves da Lima (1986: 39) ha inferito che “prima<br />

della scoperta dell'ocpatli il <strong>pulque</strong> era una bevanda che quasi non si distingueva molto<br />

16


Modalità d'uso<br />

dal vecchio idromele, ottenuto dalla diluizione del miele<br />

di api, e ci fu una fase in cui le due bevande si confusero<br />

molto probabilmente in una medesima designazione,<br />

quella molto antica di quauhnecutli, miele d'albero, il<br />

miele fuido <strong>delle</strong> api.”<br />

Yacametzli, geroglifco del <strong>pulque</strong>. Dal<br />

Codice Magliabecchi, XII, 3, 4 verso<br />

La preparazione del <strong>pulque</strong> da parte di personale specializzato, che Sahagún per lo più<br />

riunisce sotto il generico nome di “osti”, doveva rispettare un insieme di precetti e tabù.<br />

Ad esempio:<br />

“gli osti si cimentavano nel fare un buon vino, e per questo si astenevano dalle<br />

donne per quattro giorni, poiché ritenevano che se si fossero avvicinati a una donna<br />

in quei giorni il vino si sarebbe acetato e danneggiato; si astenevano anche durante<br />

quei quattro giorni dal bere pulcre, incluso il miele da cui si fa, nemmeno bagnando<br />

il dito in esso portandolo alla bocca, sino a che non si fosse dato inizio il quarto<br />

giorno alla cerimonia detta sopra.<br />

Avevano come auspicio che, se qualcuno beveva il vino, anche solo poco, prima<br />

che si eseguisse la cerimonia di apertura degli orci come sopra detto, che gli si<br />

sarebbe storta la bocca da un lato, per colpa del suo peccato.” (Sahagún, I, XXI, 21-<br />

22).<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era bevuto in un bicchiere caratteristico, chiamato ometochtecomatl (Vaso-<br />

Due-Coniglio) o più semplicemente octecómatl, fabbricato per lo più in pietra o, più raramente,<br />

in argilla. <strong>Il</strong> recipiente, che aveva una forma grezzamente rotondeggiante, si innestava<br />

sopra tre piedi ed era dotato di due manici opposti con una caratteristica forma di<br />

ali di farfalla.<br />

L'immagine di questo recipiente è presente in numerosi contesti iconografci; sugli<br />

scudi dei guerrieri così come nello stemma degli dei del <strong>pulque</strong> – l'ometochtlauiztli – al<br />

cui centro è ben riconoscibile anche il simbolo della mezza luna crescente, lo yacametztli.<br />

17


Sinistra: Octecómatl, bicchiere per il <strong>pulque</strong>. Conservato presso il Museum für Völkerkunde di Basilea<br />

(catalogo IV b 707) (in Bankmann, 1984, fg. 1, p. 314). Destra: Octecómatl, bicchiere per il <strong>pulque</strong>.<br />

Conservato presso il Museum für Völkerkunde di Berlino (catalogo IV Ca 3364) (in Bankmann, 1984,<br />

fg. 3, p. 315)<br />

<strong>Il</strong> medesimo vaso octecómatl è pure presente in un<br />

tipo di mantello indossato dai principi e dai gerarchi<br />

guerrieri, come disegnato nei Codici e descritto con<br />

minuzia di particolari nel presente passo di Sahagún<br />

(VIII, VIII, 5):<br />

“Usavano anche alcuni mantelli che si<br />

chiamavano ome tochtecomayo tilmatli; erano<br />

decorati con alcune chicchere molto elaborate<br />

e molto belle, che avevano tre piedi e due ali<br />

come di farfalla; il bicchiere era rotondo,<br />

colorato e nero, le ali verdi, bordate di giallo,<br />

con tre sferule gialle in ciascuna; il collo di<br />

questa chicchera era fatto come una marquesota<br />

di camicia [collo alto di tela bianca che<br />

usavano gli uomini come indumento<br />

Lo stemma (divisa) degli dei del ornamentale], con quattro canne che uscivano<br />

Pulque. Da Sahagún, Manoscritto<br />

da sopra, lavorate di penna azzurra e rossa; e<br />

della Biblioteca de la Academia de la<br />

Historia, Madrid, Folio 74r.<br />

queste chicchere erano disseminate in un<br />

campo bianco. Avevano nei due orli anteriori<br />

due strisce rosse, con alcune strisce trasversali bianche, di due in due.”<br />

In un diferente passo (II, XXXVIII, 8) il medesimo autore riporta l'utilizzo di un<br />

18


Mantelli con disegno di bicchiere per il <strong>pulque</strong>. Dettaglio del Foglio<br />

46r del Codice Mendoza (in Backmann, 1984, fg. 9, p. 318)<br />

bicchiere per il <strong>pulque</strong> simile al precedente, chiamato tzicuiltecómatl, anch'esso di pietra,<br />

che aveva quattro lati e tre piedi.<br />

Ogni volta che veniva preparato il <strong>pulque</strong>, la prima<br />

produzione, chiamata uitztli, era oferta come primizia<br />

a Huitzilpopochtli ed era versato negli octecómatl, da<br />

dove i vecchi a cui era permesso bevevano con <strong>delle</strong><br />

canne (Sahagún, IV, XXI, 5). Gonçalves da Lima (1986:<br />

39-40) ha fatto notare come in una fase arcaica dell'uso<br />

del <strong>pulque</strong> non esisteva ancora l'octecómatl, bensì erano<br />

usati contenitori per il miele d'api, un fatto che conferma<br />

l'associazione precedentemente indicata fra il <strong>pulque</strong><br />

primitivo e il più antico idromele.<br />

Sempre Sahagún (I, XXI, 13), nel descrivere le<br />

immagini fabbricate per le divinità, riporta lo strano<br />

uso di contenitori per il <strong>pulque</strong> fatti con certe zucche e<br />

che erano poi ritualmente considerati di pietra:<br />

Tiçocyahuacatl, capo guerriero,<br />

Codice Mendoza, dettaglio foglio 65r<br />

(in Bankmann, 1984, fg. 12, p. 318)<br />

“Ofrivano anche a queste immagini del vino,<br />

o octli o pulcre, che è il vino della terra; e i vasi<br />

in cui lo ofrivano erano fatti in questa maniera:<br />

ci sono alcune zucche lisce, rotonde, lentigginose,<br />

fra il verde e il bianco o maculate, che si<br />

chiamano tzilacayotli, che sono della grandezza<br />

19


di un grande melone; ciascuna di queste veniva tagliata a metà e vi estraevano ciò<br />

che v'era dentro e ne risultava una specie di tazza, e vi versavano il suddetto vino e la<br />

mettevano davanti a quella immagine o a quelle immagini, e dicevano che quelle<br />

erano vasi di pietre preziose che chiamano chalchíhuitl.”<br />

In diversi casi il <strong>pulque</strong> non veniva bevuto direttamente dai bicchieri, bensì mediante<br />

una cannuccia (piaztli). Ad esempio, durante la festa dedicata agli dei del <strong>pulque</strong>, in<br />

particolare a Izquitécatl, che avveniva nel segno ce mázatl nella seconda casa ome tochtli<br />

(Due Coniglio), nel patio del templo veniva collocato un grosso orcio che era mantenuto<br />

sempre pieno di <strong>pulque</strong> e chiunque, durante questa festa, poteva berne mediante <strong>delle</strong><br />

cannucce (Sahagún, II, XIX, 4). E' anche il caso dei prigionieri che erano costretti a bere<br />

un particolare tipo di <strong>pulque</strong>, il teoctli, con <strong>delle</strong> cannucce poco prima di essere sacrifcati.<br />

La motivazione dell'uso <strong>delle</strong> cannucce non è compresa, ma è possibile avanzare un'ipotesi<br />

in base ai numerosi dati aneddotici moderni per i quali l'assunzione di bevande<br />

alcoliche mediante cannucce induce un'ebbrezza più veloce e più potente di quella indotta<br />

bevendo direttamente dal bicchiere. 7 E' quindi possibile che nel mondo azteco ai prigionieri<br />

in procinto di essere sacrifcati venisse dato da bere con le cannucce per velocizzare<br />

il sopraggiungere dell'efetto inebriante, che è come dire il sopraggiungere della possessione<br />

divina, e ciò vale anche nel caso degli altri bevitori di <strong>pulque</strong> appartenenti al prelato o<br />

al popolo.<br />

Sahagún ha descritto una cerimonia dei cantori dei templi, durante la quale venivano<br />

distribuite 203 cannucce, che erano tutte piene, ad eccezione di una sola che era internamente<br />

cava, quindi utilizzabile per succhiare un tipo di <strong>pulque</strong> specifco per questa occasione;<br />

il fortunato che aveva in mano la cannuccia cava era il solo a godere quel giorno<br />

degli efetti della bevanda:<br />

“Questo Ome tochtzin era come maestro di tutti i cantanti che avevano il compito<br />

di cantare nei cu [il tempio del dio]; badava che tutti venissero a fare il loro compito<br />

nei cu. Facevano una certa cerimonia con il vino che chiamano teooctli, nel tempo<br />

che dovevano fare il loro compito; questa cerimonia era guidata dal pachtécatl;<br />

questi faceva attenzione ai bicchieri in cui bevevano i cantanti, di portarli, darli e<br />

raccoglierli, e di riempirli di quel vino che chiamavano teooctli o macuiloctli, e<br />

metteva duecentotre cannucce <strong>delle</strong> quali solo una era perforata, e quando lo<br />

bevevano quello che azzeccava la canna perforata solo lui beveva e nessun altro;<br />

questo veniva fatto dopo aver cantato” (Sahagún, II, Apendice IV, 3).<br />

Esistono alcuni riferimenti alla pratica di introduzione del <strong>pulque</strong> nel corpo per via<br />

20


ettale mediante clistere. Tale pratica, apparentemente insolita, era difusa fra le<br />

<strong>popolazioni</strong> americane precolombiane ed era impiegata per l'assunzione di diversi<br />

inebrianti, non solo le pozioni alcoliche quali il <strong>pulque</strong> nahua e il balché maya bensì<br />

vegetali quali il tabacco, il peyote, le dature, l'ayahuasca, ecc. (si veda De Smet, 1985).<br />

Díaz del Castillo (1575, Cap. CCVIII), il principale storiografo e testimone della<br />

Conquista, riportò: “Riguardo agli ubriachi, non so che dire, tante sono le immondezze<br />

che fra loro [i nativi] accadevano; ne dico solamente una qui, che incontrammo nella<br />

provincia di Pánuco, che si riempivano il retto mediante alcune cannucce e si riempivano<br />

i ventri di vino di quello che si faceva presso di loro, nel medesimo modo in cui da noi si<br />

versa una medicina”. 8 La cittadina di Pánuco si trova nella regione degli Huastechi<br />

(nell'attuale stato messicano di Veracruz), una popolazione che era considerata<br />

particolarmente dedita all'ubriachezza – come scrisse Sahagún (X, XXIX, 125) – e alle<br />

pratiche di introduzione rettale <strong>delle</strong> droghe psicoattive (De Smet, 1985: 20). Anche un<br />

autore anonimo che scrisse attorno al 1530 (AA.VV., 1963: 326-7) riportò per la regione<br />

di Pánuco che “hanno le loro bevande per ubriacarsi: hanno una grande quantità di<br />

<strong>pulque</strong> ricavato dai maguey … usano il peccato nefando gli indios: quando sono nelle<br />

loro ubriachezze e feste, quello che non possono bere per bocca, se lo fanno versare dal<br />

basso con un imbuto”. 9 In questo passo viene quindi aggiunta l'informazione che<br />

l'assunzione rettale del <strong>pulque</strong> veniva eseguita quando i nativi non riuscivano più a berne<br />

oralmente. 10<br />

Aspetti mitologici ed etnostorici<br />

Volgiamo ora lo sguardo sugli aspetti mitologici ed etnostorici inerenti il maguey e il<br />

<strong>pulque</strong>. Nella maggior parte dei casi gli dei del <strong>pulque</strong> sono considerati degli esseri umani<br />

divinizzati, degli eroi, sebbene nel mito siano tutti considerati fgli di un’unica divinità<br />

femminile, Mayáhuel, la dea della pianta del maguey. Nell'aspetto etimologico questo<br />

nome sarebbe costituito da me e yaualli, “maguey perforato” (Lehman, 1938: 108, cit. in<br />

Gonçalves da Lima, 1986: 14), indicativo dell'attribuzione della scoperta della perforazione<br />

del maguey per la fuoriuscita dell'aguamiel a questa fgura femminile, anch'essa in<br />

seguito divinizzata. La sua storia si intreccia con quella della peregrinazione storica che il<br />

popolo dei Méxica intraprese, guidata da un sacerdote chiamato Mécitli, dalle terre<br />

settentrionali verso sud, sino a raggiungere la Valle del Messico. Qui i Méxica si stanziarono<br />

fondando Tenochtitlan, sulle cui rovine è sorta la moderna Città del Messico.<br />

21


Sinistra: Codice Frjévári-Mayer, 28 – Mayáhuel, in Gonçalves 1986: 133. Destra: Codice Laud,<br />

9 – Mayáhuel, in Gonçalves 1986: 149<br />

Codice Borbonico, 8, Mayáhuel, in<br />

Gonçalves 1986: 220<br />

Nel racconto della peregrinazione (ad es. Sahagún,<br />

X, XXIX, 12, 106) è riportato che, quando nacque<br />

colui che sarebbe divenuto il sacerdote-guida del<br />

popolo Méxica, fu chiamato citli (“coniglio”) e lo si<br />

depose sopra una foglia di maguey. In tal modo egli<br />

si irrobustì e gli fu attribuito il nome di Mécitli (da<br />

me, forma abbreviativa di metl, “maguey” e citli,<br />

“coniglio”). Quando divenne il condottiero del suo<br />

popolo, i suoi vassalli lo chiamarono Méxica (con<br />

sostituzione della c con la x), cioè “Maguey-Lepre”.<br />

La complessa relazione simbolico-mitologica che i<br />

Méxica intrecciarono fra maguey, <strong>pulque</strong> e coniglio è<br />

dunque presente già agli albori dell’etnostoria della<br />

civiltà azteca.<br />

Seguendo il racconto, ad un certo punto della<br />

peregrinazione, quando i Méxica raggiunsero il territorio<br />

dei Mixtechi, la donna di nome Mayáhuel<br />

scoprì il procedimento della perforazione del maguey con lo scopo di farne fuoriuscire la<br />

linfa; successivamente, un uomo di nome Patécatl scoprì i germogli e le radici <strong>delle</strong> piante<br />

che raforzano gli efetti del <strong>pulque</strong>, mentre l’elaborazione e il perfezionamento della<br />

22


evanda furono attribuiti ad altri quattro uomini: Teputzécatl, Quatlapanqui, Tliloa e<br />

Papaztactzocaca (Quatlapanqui è anche il nome di uno dei quattrocento dei del <strong>pulque</strong>).<br />

Questi elaborarono il primo <strong>pulque</strong> sul monte chiamato Chichinauhia, che da quel<br />

momento fu ridenominato Popozonaltépetl, che signifca “monte spumoso”, in riferimento<br />

all'abbondante spuma prodotta dal <strong>pulque</strong> (Sahagún, X, XXIX, 12, 120-1). Tutti<br />

questi personaggi furono in seguito divinizzati e Patécatl fu identifcato con lo sposo<br />

divino di Mayáhuel.<br />

Austin (1973: 73) ha evidenziato la contrapposizione simbolico-religiosa fra Mayáhuel,<br />

dea del <strong>pulque</strong> giovane pre-fermentato, in pratica dea dell'aguamiel, e Pathécatl, divinità<br />

del pantheon azteca responsabile del processo di fermentazione: sarebbe quindi quest'ultimo<br />

il vero dio dell'ebbrezza associata alla bevanda.<br />

Tornando al racconto nahua della peregrinazione del popolo Mexica, la scoperta del<br />

<strong>pulque</strong> sarebbe stata invenzione alquanto recente. Ma la leggenda di Xóchitl (cfr. Appendice<br />

II), d'origini tolteche, farebbe retrocedere questa scoperta ai tempi del regno di<br />

Tecpancaltzin, cioè fra il 990 e il 1042 d.C. In realtà il <strong>pulque</strong> sembra essere stato<br />

conosciuto dagli Otomi sin dalla più remota antichità e v'è da sospettare che siano stati<br />

questi i veri scopritori della bevanda. Fra gli Otomi della Valle del Mezquital la divinità<br />

del <strong>pulque</strong> era chiamata Yudó (Guerrero, 1985: 25). Presso gli attuali discendenti di<br />

questa antica popolazione dell'altopiano centrale del Messico si tramanda un racconto<br />

sulle origini del <strong>pulque</strong> in cui è descritto come fu un piccolo roditore, una tuza, a raspare<br />

il tronco di un maguey mediante la sua “proboscide” fungente da cucchiaio e a farne di<br />

conseguenza fuoriuscire l'aguamiel. La tuza tornava periodicamente alla pianta per berne<br />

la linfa così raccoltasi nella cavità raspata. Osservando il comportamento di questo<br />

animale gli Otomi scoprirono come produrre il <strong>pulque</strong> (Martín del Campo, 1938: 13). Un<br />

sifatto mito d'origine di un inebriante, in cui nella sua scoperta umana è coinvolto un<br />

animale, è credibilmente più antico dei racconti etnostorici nahua e toltechi, in cui nella<br />

scoperta sono coinvolti dei personaggi umani (cf. <strong>Samorini</strong>, 1995). Del resto, i ritrovamenti<br />

archeologici farebbero retrodatare la scoperta del <strong>pulque</strong> ad almeno il I secolo a.C.<br />

In diversi giacimenti nella valle di Tulancingo sono stati ritrovati pezzi di ossidiana e di<br />

altri minerali che gli archeologi hanno riconosciuto come raschiatori utilizzati per scavare<br />

le piante di agave, insieme a cenere bianca di queste specie vegetali, frammiste a spine di<br />

queste medesime piante (Guerrero, 1985: 24-5). Ancora, in giacimenti antropici <strong>delle</strong><br />

grotte di Tehuacán, nello stato messicano di Puebla, sono stati rinvenuti frammenti di<br />

foglie di agave arrostite datate al 6000 a.C. (Wolters, 1996:28), che dimostrano, se non una<br />

sifatta antichità per la bevanda del <strong>pulque</strong>, un rapporto molto antico con la pianta<br />

“<strong>pulque</strong>ra”. Nei territori più settentrionali gli Indiani Apache sapevano ricavare una<br />

23


evanda fermentata da piante di agave, chiamata tizwin (Barrows, 1967: 75); questa scoperta<br />

poteva essere originata da interscambi culturali con <strong>popolazioni</strong> meridionali<br />

oppure essere frutto di inventiva autonoma.<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> non fu quindi prerogativa degli Aztechi e nemmeno fu scoperto da questa<br />

popolazione del Messico centrale. Era noto ad esempio anche ai Taraschi (Purepechi),<br />

come riportato nella Relación de Michoacán, opera anonima del XVI 11 secolo che tratta<br />

della storia di questo popolo e del loro regno coevo a quello azteco. Una <strong>delle</strong> divinità del<br />

panteon purepecha era Taras Upeme (Tarés Úpeme), dio dell'ebbrezza indotta dal<br />

<strong>pulque</strong>; egli era zoppo, poiché in un tempo mitologico gli altri dei, mentre erano ubriachi,<br />

lo gettarono giù sulla terra ed egli cadendo si azzoppò. Guerrero (1985: 53-4) lo relaziona<br />

con la divinità azteca Tezcatlipoca, per via del piede sacrifcato. Nella Relación de<br />

Michoacán (Anonimo, 1541, Libro II, Cap. XIX) sono riferiti due tipi di “vino” di maguey,<br />

uno rosso e l'altro bianco, evidenziando in tal modo una diferenziazione nella preparazione<br />

della bevanda anche presso i Purepechi.<br />

Sempre per quanto riguarda gli aspetti mitologici, ci è pervenuto un mito d'origine del<br />

maguey, di stampo tezcocoano, dove la pianta viene fatta originare dalle ossa interrate<br />

della dea vergine Mayáhuel, che era stata divorata dalle tzitzimine, spiriti tenebrosi<br />

dell'aria che scendevano sulla terra per terrorizzare gli uomini e per mangiarli. Le<br />

tzitzimine la divorarono poiché la vergine si era accoppiata con il dio dell'aria Ehécatl,<br />

dopo che entrambi si erano trasformati in due rami di un medesimo albero. Tutto ciò<br />

accadde ai tempi cosmogonici subito dopo la creazione dell'uomo da parte degli dei, ed<br />

Ehécatl programmò tutto ciò con lo specifco scopo di rallegrare l'uomo donandogli una<br />

bevanda inebriante, il <strong>pulque</strong> (si veda Appendice I).<br />

Usi rituali<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> non poteva essere bevuto all'infuori del ristretto ambito rituale o cerimoniale in<br />

cui era concesso, pena il castigo severo, che di frequente risultava nell'uccisione istantanea<br />

e pubblica di chi si era permesso di infrangere la regola. Sahagún (II, XXVII, 56) riportò<br />

che a coloro che venivano colti in fragrante nel bere <strong>pulque</strong> quando non era loro<br />

concesso, i giudici (petlacalco) sentenziavano la pena di morte, procedevano alla loro<br />

uccisione pubblica e ne tagliavano le mani, che portavano poi al mercato per esibirle in<br />

segno di monito. In un altro passo (III, VI, 1) viene specifcato che, nel corso dell'educazione<br />

dei giovani che avveniva nel telpochcalli (casa degli dei), questi:<br />

24


“avevano il compito di spazzare e pulire la casa; e nessuno beveva vino [<strong>pulque</strong>], a<br />

parte solamente coloro che erano già vecchi bevevano il vino molto segretamente e<br />

bevevano poco, non si ubriacavano; e se appariva un ragazzo ubriaco pubblicamente<br />

o se lo incontravano con il vino, o lo vedevano caduto nella strada o che andava<br />

cantando, o era accompagnato con altri ubriachi, questo, se era macegual [di origine<br />

povera] lo castigavano bastonandolo fno ad ucciderlo, o gli davano di garrotta<br />

davanti a tutti i ragazzi riuniti, perché prendessero esempio e paura di ubriacarsi; e<br />

se era nobile colui che si ubriacava gli davano di garrotta segretamente.”<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> poteva essere liberamente bevuto in ogni momento solo dalle persone anziane<br />

e nei contesti rituali dai sacerdoti e dai guerrieri. <strong>Il</strong> Codice Mendoza riporta l'età di 70<br />

anni per iniziare a bere senza restrizioni, mentre il francescano Juan de Torquemada<br />

riportava l'età di 50 anni (Corcuera de Mancera, 1991: 30). In alcune cerimonie il <strong>pulque</strong><br />

poteva essere bevuto anche da adulti già sposati e in alcune altre da tutta la comunità,<br />

compreso il caso dove veniva fatto assumere ai bambini. Nei contesti rituali l'ebbrezza<br />

indotta dal dosaggio socialmente accettabile di <strong>pulque</strong> (non più di quattro tazze; cfr. il<br />

paragrafo “<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong>”) era nota col termine specifco di tlauana (ibid.: 17). Oltre<br />

alle cerimonie pubbliche che si svolgevano nei templi, alcune cerimonie erano private e di<br />

natura più profana, dove una famiglia invitava nella sua casa un gruppo di amici per<br />

celebrare determinati eventi quali ad esempio un matrimonio. Durán (Libro II, Cap.<br />

XXII), che scriveva tuttavia circa 80 anni dopo la Conquista, riportò che durante i tempi<br />

precolombiani il <strong>pulque</strong> poteva essere bevuto dagli individui sposati e con fgli già grandi<br />

con lo scopo che i fgli, che non potevano assolutamente bere, avrebbero così potuto<br />

accompagnare a casa i genitori ubriachi. <strong>Il</strong> medesimo autore aggiunse un'ulteriore<br />

considerazione, di dubbio valore - come del resto la precedente - anche perché non si<br />

trova menzione di ciò in Sahagún e in altri attenti cronisti:<br />

“V'era anche un'altra legge, non di gente barbara bensì di gente politica,<br />

lungimirante e consapevole, che colui che non avesse avuto vino [<strong>pulque</strong>] del<br />

proprio raccolto non poteva ubriacarsi sino a cadere a terra, e a ciò davano due<br />

motivazioni: una era afnché tutti si dessero a coltivare e seminare maguey e l'altra<br />

era perché in caso non avessero avuto fgli che li potevano accudire quando<br />

bevevano in casa altrui, lo avrebbero dovuto berlo nella loro casa e questo avrebbe<br />

evitato gli inconvenienti del non trovare la via di ritorno a casa o di cadere nel<br />

cammino o di uccidersi o di litigare con qualcuno o di commettere un qualche<br />

delitto che bevendo nella propria casa non avrebbero commesso” (Durán, Libro II,<br />

Cap. XXII, p. 209).<br />

25


Sebbene l'ubriachezza da <strong>pulque</strong> fosse deplorata e il suo utilizzo all'infuori dei contesti<br />

istituzionalmente stabiliti venisse duramente perseguito, la fgura dell'ubriaco doveva in<br />

un qualche modo essere rispettata dagli altri, poiché considerata impossessata dalla<br />

divinità: “inoltre ritenevano che colui che parlava male di questo vino o mormorava<br />

contro di questo, gli sarebbe capitato qualche disgrazia; lo stesso di qualunque ubriaco,<br />

che se qualcuno mormorava contro di lui o gli faceva degli afronti, qualunque cosa folle<br />

questo dicesse o facesse, dicevano che doveva per questo essere castigato, poiché dicevano<br />

che quello non lo faceva lui, bensì il dio, o meglio il diavolo che era in lui, che era questo<br />

Tezcatzóncatl, o qualcuno degli altri (dei del vino)” (Sahagún, I, XXII, 2); e in un passo<br />

successivo (4): “Si deduce chiaramente che non avevano peccato coloro che erano ubriachi,<br />

quantunque fossero gravissimi peccati; e si congettura ancora con pieno fondamento<br />

che si ubriacavano per fare ciò che avevano nella loro volontà e che non gli venisse imputato<br />

a colpa e che ne venissero fuori senza castigo.”<br />

La società azteca non poteva del resto essere totalmente priva di ubriaconi, poiché si<br />

riteneva che le persone nate in determinati giorni considerati funesti, della casa ome<br />

tochtli del segno ce mazatl, fossero inevitabilmente dediti nella loro vita al bere; Sahagún<br />

(IV, IV, 1-8) ofre una particolareggiata descrizione della fgura dell'ubriacone “per<br />

natura”, condannata dalla sorte astrologica a fungere da mentore di quanto sia insana una<br />

vita dedita all'alcol. Si diceva che gli ubriaconi nascevano in questi giorni del 2-Coniglio<br />

ed è probabile che il condizionamento culturale di questa credenza guidasse il destino<br />

degli individui nati in queste date.<br />

Un'altra categoria che poteva, anzi era obbligata a bere il <strong>pulque</strong>, era rappresentata dalle<br />

vittime destinate ad essere immolate durante i riti religiosi. <strong>Il</strong> motivo di questo apparente<br />

“riguardo” nei confronti <strong>delle</strong> persone sacrifcate – spesso in maniera terribilmente<br />

dolorosa, con lo squarciamento del petto per estrarne il cuore ancora palpitante, o cotti<br />

sulle braci, o scorticati vivi, ecc. – era associato direttamente al concetto che l'ebbrezza<br />

indotta dal <strong>pulque</strong>, così come da qualsiasi altro inebriante, era interpretata come una<br />

possessione divina, cioè la divinità scendeva e si stabiliva nel corpo della persona ebbra.<br />

Verifcato che i sacrifci umani erano intesi come oferte alle divinità, era ritenuto<br />

opportuno che l'immolato fosse già posseduto dalla divinità nel momento della sua<br />

morte. E' stato evidenziato che uno dei motivi per cui si drogava la vittima umana<br />

destinata al sacrifcio era perché in tal modo avrebbe evitato di proferire lamenti nel<br />

momento del sacrifcio (Heyder, 1995), ma tale motivazione appare superfciale. Del<br />

resto, la relazione fra sacrifcio umano ed ebbrezza del sacrifcato, presente non solo fra<br />

gli Aztechi bensì difusa presso numerose culture di tutti i continenti, non sembra sia<br />

stata sinora oggetto di studi specifci.<br />

26


Nei riti che prevedevano il sacrifcio dei guerrieri catturati in battaglia, poco prima di<br />

essere immolati veniva loro dato da bere uno speciale tipo di <strong>pulque</strong>, il teoctli (“<strong>pulque</strong><br />

degli dei”, come riportato da Sahagún, IX, XIV, 1). Nelle feste in onore di Xipe Totec e di<br />

Uitzilopochtli celebrate nel secondo mese del calendario azteca:<br />

“arrivava uno di quelli che aveva prigionieri da uccidere e trascinava il suo<br />

prigioniero per i capelli sino alla pietra dove lo dovevano accoltellare; lì gli davano<br />

da bere il vino della terra o pulcre, e quando il prigioniero riceveva la chicchera di<br />

pulcre, la alzava in direzione dell'oriente e in direzione del settentrione, e in<br />

direzione dell'occidente e in direzione del mezzogiorno, come per ofrirla verso le<br />

quattro parti del mondo; dopodiché beveva, non con la chicchera, bensì con una<br />

canna cava, succhiando” (Sahagún, II, XXI, 20-21).<br />

In diverse occasioni i prigionieri, prima di essere sacrifcati, dovevano cimentarsi in<br />

una lotta con i guerrieri aztechi, sebbene si trattasse di lotte impari, più cerimoniali che<br />

reali, poiché i prigionieri venivano armati di scudo e di una mazza ornata di piume in<br />

luogo <strong>delle</strong> punte di ossidiana come nelle reali armi da guerra. Anche in queste occasioni<br />

ai prigionieri, prima della “lotta”, veniva dato da bere il teoctli. Nel caso in cui venivano<br />

sacrifcati gli schiavi, poco prima che il sole tramontasse questi venivano portati al tempio<br />

di Huitzilopochtli, dove era dato loro da bere il teoctli e “dopo averlo bevuto tornavano<br />

indietro: erano già molto ubriachi, come se avessero bevuto molto pulcre, e non li<br />

riportavano a casa bensì li portavano in una <strong>delle</strong> parrocchie che si chiamavano Pochtlan<br />

o Acxotlan; lì li facevano vegliare per tutta la notte cantando e ballando” prima di essere<br />

sacrifcati (Sahagún, IX, XIV, 1-2).<br />

Anche presso i Taraschi (Purepechi), che similmente praticavano il sacrifcio umano,<br />

parrebbe essere stato presente il costume di inebriare con il <strong>pulque</strong> le persone destinate al<br />

sacrifco. Lo si può dedurre da un passo della Relación de Michoacán (Anonimo, 1541).<br />

Nel capitolo XXXIII, Parte II, viene riportata la cattura di uno dei fgli del re (cazonci) da<br />

parte dei suoi nemici. Quando i nemici si rendono conto di aver catturato il fglio del re,<br />

di nome Tamapu-checa, si impauriscono e decidono di liberarlo. Ma questi si oppone,<br />

preferendo il destino di tutti i prigionieri, cioè quello di essere sacrifcato, poiché era<br />

credenza presso i Purepechi che una persona veniva fatta prigioniera perché era stata<br />

scelta dagli dei per il sacrifcio ed era quindi cosa inutile cercare di sfuggire al proprio<br />

destino. Nel cercare di convincere coloro che lo avevano catturato di non liberarlo,<br />

Tamapu-checa disse: “Gli dei del cielo sanno già come sono catturato e mi hanno già<br />

mangiato. Datemi del vino [<strong>pulque</strong>], che voglio ubriacarmi”; tale intenzione di “bere<br />

vino”, rientrando nell'esortazione a non liberarlo e a sacrifcarlo, troverebbe spiegazione<br />

27


nel costume di ubriacare col <strong>pulque</strong> i destinati al sacrifcio.<br />

Ogni quattro anni si svolgeva una festa particolare in onore del dio del fuoco, Xiuhtecutli<br />

o Ixcozauhqui; la festa era chiamata pillaoano o pillauano, che signifca “ubriachezza<br />

dei bambini”, dove veniva dato da bere <strong>pulque</strong> ai giovani ragazzi e anche ai puerperi; in<br />

questa occasione veniva praticato il rito della perforazione <strong>delle</strong> orecchie dei bambini e<br />

<strong>delle</strong> bambine:<br />

“In questo atto di ubriachezza tutti bevevano il pulcre, uomini e donne, bimbi e<br />

bimbe, vecchi e ragazzi, tutti si ubriacavano pubblicamente e tutti portavano pulcre<br />

con sé e gli uni davano da bere agli altri, e gli altri agli altri; scorreva il pulcre come<br />

acqua in abbondanza, e tutti portavano alcuni bicchieri che avevano tre piedi e<br />

quattro angoli, che chiamavano tzicuiltecómatl, con questi bevevano e davano da<br />

bere; tutti andavano molto con gli altri, e si prendevano a pugni e cadevano a terra<br />

ubriachi uno sull'altro e altri andavano abbracciati gli uni con gli altri verso casa; e<br />

questo lo consideravano buono perché la festa richiedeva ciò.” (Sahagún, II,<br />

XXXVIII, 8; riferimenti anche in I, XIII, 11).<br />

In un altro passo (II, XXXVII, 33-36) Sahagún ofre maggiori dettagli di questa festa: la<br />

bevuta del <strong>pulque</strong> avveniva dopo la perforazione <strong>delle</strong> orecchie, che veniva praticata ai<br />

bambini che erano nati durante gli anni precedente la festa che, come detto, si svolgeva<br />

ogni quattro anni. In occasione della perforazione <strong>delle</strong> orecchie i genitori sceglievano i<br />

padrini dei loro bambini (detti “zii”, tetla). Terminata l'operazione:<br />

“tornavano a casa e là i padrini e le madrine mangiavano, tutti insieme, e<br />

cantavano e ballavano, e a mezzogiorno i padrini e le madrine tornavano nuovamente<br />

al cu [il tempio del dio] e si portavano i loro fgliocci e fgliocce e portavano<br />

anche il pulcre nelle loro brocche. Poi cominciavano un areito [canto con danza] e<br />

ballando si portavano sulle spalle i loro fgliocci e fgliocce e davano loro da bere del<br />

pulcre che portavano con alcune piccole tazze e per questo chiamavano questa festa<br />

l'ubriachezza dei bimbi e <strong>delle</strong> bimbe; questo ballo durava sino alla sera. (37) Quindi<br />

tornavano alle loro case e nel patio <strong>delle</strong> loro case facevano nuovamente il medesimo<br />

areito e tutti quelli della casa e i vicini bevevano pulcre”.<br />

E' probabile che il <strong>pulque</strong> dato da bere ai bambini avesse qualità inebrianti blande; resta<br />

il fatto che presso le <strong>popolazioni</strong> tradizionali è un luogo comune di una certa frequenza<br />

fare assumere gli inebrianti ai bambini in certe occasioni ben controllate. Per quanto<br />

riguarda il <strong>pulque</strong>, Guerrero (1985: 71) ha osservato ancora oggigiorno il costume di dare<br />

da bere questa bevanda ai neonati per motivi di carenza di risorse idriche: “in alcuni<br />

28


villaggi della Valle del Mezquital, dove le piogge sono scarse, l’unica bevanda è il <strong>pulque</strong>.<br />

Così, molte donne dissetano i loro bambini con il <strong>pulque</strong>, mettendo in ammollo il dito<br />

mignolo nel <strong>pulque</strong> e dandolo poi da succhiare al bimbo”.<br />

Anche al bambino la madre fa assaggiare<br />

un poco di <strong>pulque</strong> bagnando il<br />

mignolo e mettendolo fra le sue labbra<br />

(da Guerrero, 1985, p. 117)<br />

In diverse occasioni, prima della bevuta del<br />

<strong>pulque</strong> da parte di chi in quelle occasioni era<br />

autorizzato a bere, veniva sparso un poco della<br />

bevanda come oferta alle divinità. Era il caso, ad<br />

esempio, della festa che si svolgeva ogni anno alla<br />

fne del mese diciottesimo, chiamato izcalli,<br />

dedicata al dio del fuoco Xiuhtecutli: gli anziani,<br />

prima di bere, versavano un poco di <strong>pulque</strong> nei<br />

quattro angoli della casa dove si svolgeva la festa,<br />

afnché il dio lo potesse bere e gustare (Sahagún, I,<br />

XIII, 10). Era rigore che nessuno bevesse <strong>pulque</strong><br />

prima di fare l'oferta alla divinità. Questa oferta<br />

era chiamata tlatoyaualiztli, che signifca libatio o<br />

gustamiento e consisteva, sia nelle case private che<br />

nei templi, nel versare nei quattro angoli del focolare<br />

un bicchiere di <strong>pulque</strong>. Anche Durán (Libro II,<br />

Cap. XXII) riporta il costume di ofrire il <strong>pulque</strong><br />

agli dei, in particolare al dio del fuoco: “a volte lo<br />

ofrivano in vasi posti davanti [al fuoco], altre volte<br />

spruzzandolo sul fuoco con una specie di isopo<br />

[utensile liturgico usato nelle chiese per spargere<br />

l'acqua benedetta] e altre volte spargendolo attorno<br />

al fuoco”.<br />

Una festa importante era quella che cadeva il giorno 2 tochtli (2-Coniglio), dedicata al<br />

dio Itzquitécatl ma in realtà a tutti gli dei del <strong>pulque</strong>. Seguiamo la traduzione letteraria,<br />

seppur confusa, di Zeler del testo di Sahagún (VII, Libro V, cap. 5 dell'edizione facsimile<br />

di Paso y Troncoso, rip. in Gonçalves da Lima, 1986: 199-200):<br />

“Ed essi dicono che quando giungeva nella serie il segno giornaliero di 2 tochtli,<br />

iniziava una festa al signore dei conigli, che si chiama Itzquitécatl. E sebbene si<br />

nomini solo questo, sono tuttavia inclusi tutti gli dei conigli del vino.<br />

Itzquitécatl era così molto venerato. Essi collocavano la sua immagine nel suo<br />

29


tempio, gli portavano le oferte, cantavano in suo onore e suonavano musica di<br />

fauto, così iniziavano. E di fronte alla sua immagine gli ponevano una olla di pietra<br />

chiamata ometochtecómatl [la-Olla-due-Coniglio]; è piena sino a che non si sparge, e<br />

risplende il <strong>pulque</strong>. In questa c’è un piaztli [canna per succhiare], una zucca<br />

perforata, un mamazço [canna di piuma vuota] con il quale bevono sempre coloro<br />

che entrano lì, per fare frequentemente una visita. Ma, i veri bevitori erano gli<br />

anziani, le anziane, gli avventurieri, gli audaci, quelli che mai cedono per timore,<br />

quelli che mettono in gioco le loro teste e i loro petti, cioè, che loro, arrivando alla<br />

guerra, potessero qualche volta essere condotti come prigionieri; o allora che, se<br />

fossero tornati in patria, potessero portare con loro prigionieri, che comprendessero<br />

che erano in errore, che dovevano morire. E il <strong>pulque</strong> ch’essi bevevano non fniva<br />

mai, non spariva mai: sempre lo versavano i sacerdoti del <strong>pulque</strong>, i Signori del<br />

Pulque, tutti i preparatori del <strong>pulque</strong> di tutte le parti apparivano lì dove si preparava<br />

il <strong>pulque</strong>, nel suo tempio. Dove allora si formava il <strong>pulque</strong> nuovo, uitztli, quando<br />

qualcuno aveva aperto nuovo [maguey], poi riempiva quello in primo luogo con il<br />

tlachique. “Spargere liquido” (tlatoyaua) si chiamava questo, si ofriva il tlatoyahua a<br />

Itzquitécatl, gli si spargeva il tlachique in suo onore. Ma non solo nel tempo di questa<br />

festa si sparpagliava il <strong>pulque</strong>, bensì continuamente, come un’oferta per lui nel<br />

tempio.”<br />

Tornando alle feste dedicate al dio del fuoco Xiuhtecutli nel mese di izcalli, al decimo<br />

giorno di questo mese si svolgeva una prima festa, dove veniva costruita una statua del<br />

dio alla quale venivano presentate diverse oferte, fra cui la cacciagione che i giovani<br />

avevano appena catturato, che veniva gettata nel fuoco presente davanti alla statua. In<br />

questa occasione gli anziani bevevano un tipo di <strong>pulque</strong> chiamato texcalceuia (Sahagún,<br />

II, XXXVII, 10). Al ventesimo giorno del medesimo mese si svolgeva una seconda festa<br />

dedicata al medesimo dio, dove veniva costruita un'altra statua, chiamata Milíntoc. Anche<br />

in questa occasione gli anziani bevevano il medesimo tipo di <strong>pulque</strong>:<br />

“Terminato di mangiare questi piccoli pani e l'altro cibo, i vecchi bevevano poi il<br />

pulcre; questa bevanda la chiamavano texcalceuilo e la bevevano lì, nel medesimo<br />

oratorio, dov'era la statua del Milíntoc, che chiamano calpulco [una specie di tempio<br />

di quartiere], e coloro che facevano vino di maguey che chiamavano tlachique o<br />

tecutlachique, avevano il compito di portare il pulcre da bere a loro volontà; lo portavano<br />

nelle giare o chicchere e lo versavano in un lebrillo [un contenitore per liquidi]<br />

che era lì, davanti alla statua. Coloro che bevevano questo pulcre non si ubriacavano”<br />

(ibid., II, XXXVII, 18).<br />

30


<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> tlachique era un <strong>pulque</strong> di bassa qualità ed è forse per ciò che gli anziani in<br />

questa occasione non si ubriacavano. <strong>Il</strong> nome texcalceuia o texcalceuilo era attribuito al<br />

<strong>pulque</strong> tlachique bevuto in occasione di queste feste del dio del fuoco. Da ciò si deduce<br />

una certa complessità non solo nei tipi di <strong>pulque</strong> bensì anche nella terminologia ad essi<br />

associata, che sembra si diferenziasse pure in base ai diversi momenti rituali in cui<br />

venivano bevuti. E' forse questo il caso anche della festa che si svolgeva durante le calende<br />

del settimo mese, chiamato tecuilhuitontli, e dedicata alla dea del sale Uixtocíhuatl.<br />

Terminati i sacrifci umani, alla mattina tutti tornavano a casa, mangiavano e si<br />

divertivano e “la gente che lavorava col sale beveva copiosamente il pulcre, sebbene non si<br />

ubriacasse” (ibid., II, XXVI, 19). <strong>Il</strong> fatto che non si ubriacassero poteva essere dovuto al<br />

tipo di <strong>pulque</strong> bevuto o forse badavano a berne in maniera da non ubriacarsi. Ma nel<br />

passo successivo Sahagún riferisce di alcuni che in realtà in quell'occasione si ubriacavano<br />

e diventavano litigiosi e infne si gettavano a terra a dormire dove capitava. Dopodiché:<br />

“<strong>Il</strong> giorno dopo bevevano il pulcre che era rimasto; lo chiamavano cochioctli. E<br />

coloro che la notte precedente, essendo ubriachi, avevano litigato o si erano presi a<br />

pugni con gli altri, che lo riconoscevano stando già con la mente lucida e dopo aver<br />

dormito, invitavano a bere coloro che avevano maltrattato coi fatti o con le parole,<br />

afnché gli perdonassero ciò che avevano fatto e detto di male, e agli ofesi nel bere<br />

gli si svaniva la rabbia e perdonavano volentieri le loro ofese” (ibid., II, XXVI, 20).<br />

Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un diferente termine con cui veniva<br />

chiamato il <strong>pulque</strong>, quello non bevuto e rimasto il giorno dopo, il cochioctli. Altri tipi di<br />

<strong>pulque</strong> venivano usati in occasione dei riti battesimali, dove potevano bere la bevanda<br />

solamente le persone anziane. Sempre Sahagún ci fornisce dati eloquenti:<br />

“E di notte i vecchi e le vecchie si riunivano e bevevano pulcre e si ubriacavano.<br />

Per realizzare questa ubriacatura mettevano davanti a loro un cantaro di pulcre, e<br />

colui che serviva versava in un orcio e dava a ciascuno da bere, a suo ordine, sino a<br />

conclusione. Alle volte davano pulcre che si chiamava íztac octli, che signifca <strong>pulque</strong><br />

bianco, che è quello che zampilla dai maguey e altre volte davano pulcre stregato con<br />

acqua e miele e cucinato con la radice che chiamano ayoctli, che signifca pulcre di<br />

acqua, che era custodito e preparato dal signore del convitto già da alcuni giorni.<br />

(13) E il servitore, quando vedeva che non si ubriacavano, tornava a dare da bere in<br />

senso contrario alla mano sinistra, iniziando dagli ultimi.” (ibid., IV, XXXVI, 11-13).<br />

Ancora, nel corso <strong>delle</strong> feste e dei sacrifci che si svolgevano durante le calende del mese<br />

31


quindicesimo, che si chiamava panquetzaliztli, dopo il sacrifcio dei prigionieri e degli<br />

schiavi, oltre che agli anziani era concesso bere il <strong>pulque</strong> anche alle persone sposate e ai<br />

principi; ma in questa occasione si trattava di matlaloctli, “che signifca pulcre azzurro,<br />

perché aveva un colore azzurro” (ibid., II, XXXIV, 45).<br />

<strong>Il</strong> quinto <strong>pulque</strong><br />

Nel racconto in parte etnostorico e in parte mitologico della peregrinazione del popolo<br />

dei Mexica (gli Aztechi), dalle regioni nordiche del Messico al luogo dove fondarono<br />

Tenochtitlan, la futura capitale del loro impero sulle cui rovine si estende ora Città del<br />

Messico, è riportata l'invenzione della bevanda inebriante del <strong>pulque</strong>. Come sopra<br />

riportato, una donna di nome Mayáhuel scoprì il procedimento della perforazione della<br />

pianta del maguey (Agave sp.) per farne fuoriuscire la linfa (chiamata aguamiel), mentre<br />

un uomo di nome Patécatl scoprì il metodo di raforzare la bevanda mediante l'aggiunta<br />

di additivi vegetali. Queste fgure furono in seguito divinizzate ed entrarono a far parte<br />

del complesso pantheon degli dei aztechi.<br />

Bernardino de Sahagún (X, XXIX, 12, 121), uno dei cronisti spagnoli che descrissero la<br />

storia della peregrinazione dei Mexica, prosegue la narrazione riportando che, subito<br />

dopo l'elaborazione del primo <strong>pulque</strong> sul monte Popozonaltépetl, i suoi inventori vi<br />

organizzarono un banchetto a cui fu invitata tutta la popolazione. Ad ognuno dei convitati<br />

furono versate quattro tazze di <strong>pulque</strong>, evitando di mescere la quinta, onde evitare<br />

l'ubriachezza generale.<br />

In questo passo è presente un importante concetto della cultura nahua sui limiti<br />

dell'ebbrezza socialmente accettata; il numero quattro è direttamente associato alle<br />

quattro direzioni spaziali della cosmografa nahua e il superamento <strong>delle</strong> quattro tazze di<br />

<strong>pulque</strong>, rappresentato dal quinto <strong>pulque</strong>, il macuiloctli, era indice di un'ubriachezza<br />

insana. Più in generale, presso diverse <strong>popolazioni</strong> autoctone americane il numero cinque<br />

è simbolo dell'esagerazione e dell'eccesso.<br />

Sahagún (X, XXIX, 12, 122) riporta che, nel corso del medesimo banchetto, il principe<br />

dei Cuextechi volle bere il quinto <strong>pulque</strong> e per questo si ubriacò giungendo a denudarsi di<br />

fronte a tutti. Appena si rese conto di ciò, il principe fu soprafatto dalla vergogna e fuggì<br />

con il suo popolo.<br />

<strong>Il</strong> motivo della denudazione a seguito dell'ubriachezza alcolica è difuso presso diverse<br />

culture umane; basti qui ricordare il passo biblico in cui Noè, dopo essere sceso dall'arca<br />

che lo salvò insieme a tutti gli animali dal diluvio universale, si ubriacò col vino ottenuto<br />

32


dalla vigna che aveva piantato; in seguito alla sua ubriachezza si denudò e i suoi fgli lo<br />

coprirono con un mantello (Genesi, 9, 20-23).<br />

Tornando al macuiloctli, il quinto <strong>pulque</strong>, Sahagún (X, XXIX, 12, 125) riporta che la<br />

popolazione dei Cuextechi era nota per essere particolarmente dedita all'ubriachezza, per<br />

via di quell'atto originale del loro principe che sul monte Popozonaltépetl bevve il quinto<br />

<strong>pulque</strong>; ciò diede origine ai modi di dire “quel tale ha bevuto il quinto <strong>pulque</strong>” o “hai<br />

bevuto il quinto <strong>pulque</strong>?”, in riferimento a comportamenti umani bizzarri o deliranti.<br />

<strong>Il</strong> tema del quinto <strong>pulque</strong> è pure presente in un passo degli Annali di Cuauhtitlan, che<br />

fanno parte del cosiddetto Codice Chimalpopoca (Anonimo, 1558-1570), un documento<br />

post-cortesiano datato attorno al 1558-1570, noto anche come Historia de los Reynos de<br />

Colhuacan y de México. Questo documento tratta eventi etnostorici databili fra il 635 e il<br />

1519 d.C. <strong>Il</strong> passo in questione fa parte della storia di Quetzalcóatl, qui inteso come un<br />

uomo, un principe-sacerdote che governava sui Toltechi. Essendosi rifutato di fare<br />

sacrifci umani, come richiestogli da avversari religiosi, questi, rappresentati dalle fgure<br />

di “stregoni” di Tezcatlipoca (nelle vesti di Huitzilopochtli), Ihuimécatl e Toltécatl<br />

(quest’ultimo uno degli dei del <strong>pulque</strong>), decisero di insidiargli il trono, con lo scopo di<br />

promuovere la caduta di Tula. Si accordarono quindi per ubriacarlo con il <strong>pulque</strong>. Dopo<br />

essere riusciti ad entrare nel palazzo ove risiedeva Quetzalcóatl, lo convinsero a bere la<br />

spumosa bevanda in quantità sufciente per ubriacarsi, cioè raggiungendo la quantità di<br />

cinque tazze. I tre “stregoni” fecero quindi ubriacare anche tutti i cortigiani, compresa<br />

Quetzalpétatl, la sorella di Quetzalcóatl. In seguito a ciò, Quetzalcóatl fu preso dallo<br />

sgomento e dalla vergogna per ciò che aveva fatto e fuggì via, intraprendendo un viaggio<br />

che terminò raggiungendo il mare e bruciandosi in un rogo; dopo la sua morte si<br />

trasformò nella stella del mattino. 12 Questa storia è raccontata anche da Sahagún (III, IV),<br />

dove tuttavia non si precisa la quantità di <strong>pulque</strong> bevuta da Quetzalcóatl e non viene fatto<br />

riferimento al quinto <strong>pulque</strong> (si veda l'Appendice III).<br />

Come considerazione a latere del tema qui esposto, ritroviamo Tezcatlipoca coinvolto<br />

con il <strong>pulque</strong> in un altro racconto mitologico riportato nella Relación de Meztitlán del<br />

1579 di Gabriel de Chávez: il dio del <strong>pulque</strong> Ome Tochtli era preoccupato poiché la sua<br />

bevanda provocava la morte a coloro che la bevevano. Richiese quindi l'aiuto di<br />

Tezcatlipoca, il quale sacrifcò Ome Tochtli. Poco dopo il dio del <strong>pulque</strong> resuscitò e da<br />

allora gli uomini si possono ubriacare senza pericolo. Vediamo quindi Tezcatlipoca<br />

rendere il dio del <strong>pulque</strong> immortale, allo stesso modo in cui contribuì alla futura rinascita<br />

di Quetzalcóatl come stella del mattino ubriacandolo col medesimo <strong>pulque</strong> (Graulich &<br />

Olivier, 2004: 137-8).<br />

<strong>Il</strong> concetto <strong>delle</strong> quattro tazze di <strong>pulque</strong> come limite massimo per una bevuta “sana”<br />

33


Texcatlipoca ofre <strong>pulque</strong> a Quetzcalcoátl<br />

Codice Fiorentino, lib. 3, f. 12r<br />

della bevanda non sembra essere stata<br />

una prerogativa della cultura nahua. Vi<br />

sarebbero riferimenti a tal riguardo,<br />

sebbene non espliciti, nel testo basilare<br />

della cultura tarasca (purepecha), la<br />

Relación de Michoacán. Nel capitolo<br />

XVI, Parte II, che tratta della prima<br />

moglie di Taríacuri, cazonci (re-sacerdote)<br />

dei Purepechi, due uomini le<br />

diedero da bere sino ad ubriacarla, per<br />

poi approfttarne sessualmente. Nel<br />

testo è letteralmente riportato che “le<br />

diedero da bere ogni quattro volte”. In<br />

un altro passo (Capitolo XXVI, Parte<br />

II), è descritta la decisione di Taríacuri<br />

di far uccidere suo fglio Curátame<br />

poiché era diventato un ubriacone.<br />

Inviati a tale scopo dei sicari, questi avvicinarono Curátame con lo scopo di ubriacarlo e<br />

quindi di ucciderlo: “gli diedero da bere quattro tazze, e poi altre quattro, ed egli si<br />

ubriacò”. Pur non essendo esplicitato in forma aperta, in questi casi di “bere ogni quattro<br />

volte” o di mescere quattro più quattro tazze di <strong>pulque</strong> sembra rifettere il concetto di<br />

superamento del limite <strong>delle</strong> quattro tazze come prova dello stato di ubriachezza.<br />

Dalla documentazione riportata dagli autori del periodo della Conquista, pur in<br />

maniera confusa, si evincerebbe un secondo signifcato da ascrivere al macuiloctli, il<br />

“quinto <strong>pulque</strong>”: non come la quinta tazza della medesima bevanda, bevuta successivamente<br />

alla quarta e alle precedenti, bensì come un particolare tipo di <strong>pulque</strong>, dalla<br />

formula probabilmente mantenuta segreta, utilizzato dalla casta prelatizia in determinati<br />

cicli rituali.<br />

<strong>Il</strong> concetto di limite di quattro tazze di <strong>pulque</strong> oltre il quale v'è il bere smodato e<br />

socialmente inaccettabile ricorda quello simile presente presso la cultura greca del limite<br />

di tre crateri di vino miscelato. <strong>Il</strong> cratere era il recipiente dove il vino puro veniva miscelato<br />

con acqua secondo determinate proporzioni, 2:3, 3:2, 2:1 fra acqua e vino (Catoni,<br />

2010: 28). Nella catalogazione proposta da Eubulo e riportata da Ateneo (Deipnosofsti, II,<br />

36b, rip. in Lissargue, 1989: 56) si evince la profonda conoscenza che i Greci avevano nei<br />

confronti dei diversi gradi dell'ebbrezza alcolica:<br />

34


“Per gli uomini assennati io mescolo tre crateri:<br />

il primo che essi bevono è per la salute,<br />

il secondo per il piacere e il desiderio,<br />

il terzo per il sonno.<br />

Bevuto questo, i saggi convitati si accingono a tornare a casa.<br />

<strong>Il</strong> quarto cratere non appartiene più alla nostra infuenza, ma alla violenza,<br />

il quinto al frastuono,<br />

il sesto alla processione bacchica,<br />

il settimo agli occhi pesti,<br />

l'ottavo è per il testimone d'accusa,<br />

il nono per la collera,<br />

il decimo fa uscire di senno.”<br />

Presso i Greci il luogo del bere collettivo per eccellenza era il simposio, dove partecipavano<br />

solo uomini ed eventuali efebi o prostitute e suonatrici, ma non le altre donne della<br />

società. Bere vino puro, “bere come uno Scita”, era considerato immorale e in un qualche<br />

modo “selvaggio” (Lissargue, 1989).<br />

<strong>Il</strong> problema degli additivi del <strong>pulque</strong><br />

Durante la preparazione del <strong>pulque</strong> venivano aggiunti degli additivi, di natura per lo più<br />

vegetale, che avevano diferenti scopi e che possono essere ricondotti alle seguenti quattro<br />

categorie:<br />

1) additivi per prolungare i tempi di conservazione della bevanda;<br />

2) additivi per raforzare l'efetto inebriante della bevanda mediante incremento della sua<br />

concentrazione alcolica;<br />

3) additivi per modifcare l'efetto inebriante della bevanda mediante aggiunta di principi<br />

attivi diferenti dall'alcol;<br />

4) additivi aromatizzanti.<br />

Oggigiorno persiste una notevole confusione ed enigmaticità nei confronti di questi<br />

additivi, per ragioni ravvisabili principalmente, nella opinione di chi scrive, nei seguenti<br />

fattori: a) durante i tempi precolombiani alcuni di questi additivi, in particolare quelli<br />

appartenenti alla terza classe sopra defnita, erano mantenuti rigorosamente segreti dalla<br />

classe prelatizia ed erano utilizzati solamente dal prelato e/o dalla classe dominante della<br />

società azteca; b) i cronisti successivi alla Conquista confusero frequentemente gli scopi<br />

35


per i quali venivano aggiunti gli additivi, in particolare senza distinguere lo scopo di<br />

prolungare il periodo di conservazione della bevanda da quello di potenziarne gli efetti<br />

psicoattivi. Si deve tener conto che la maggior parte di questi primi cronisti apparteneva<br />

al prelato cattolico, già predisposto preconcettualmente e acculturato sull'esistenza di<br />

piante che procurano visioni “diaboliche” associate al fenomeno della “stregoneria”<br />

dell'Europa medievale, accanitamente perseguito dalle istituzioni inquisitoriali (si veda ad<br />

es. Warren, 1979).<br />

Questa confusione dei primi cronisti fu tramandata e reiterata nei secoli successivi e i<br />

saggi pur seri e approfonditi degli studiosi moderni della cultura nahua non fanno altro<br />

che riproporre lo stato confusionale precedente. Da notare che gli additivi di questa<br />

bevanda furono oggetto di ampie discussioni negli ambiti politici e amministrativi<br />

coloniali e infuenzarono signifcativamente la storia del proibizionismo e la produzione<br />

del <strong>pulque</strong>, in particolare durante il XVIII secolo (si veda oltre, “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi<br />

coloniali”). Nel presente studio chi scrive non aspira a una soluzione di tale problematica,<br />

mediante identifcazione di questi additivi, bensì si limita a focalizzare le cause e i<br />

percorsi di quel problema di carattere etnobotanico a tutt'oggi insoluto qui defnito come<br />

il “problema degli additivi del <strong>pulque</strong>”.<br />

Dalle fonti antiche è ricavabile una complessa terminologia associata alla bevanda del<br />

<strong>pulque</strong>, che viene elencata di seguito; v'è da tener conto che esiste una notevole confusione<br />

e contraddizione dell'interpretazione da dare a questi termini presso gli studiosi<br />

moderni, oltre che fra gli autori antichi. La principale fonte di informazione è l'opera di<br />

Sahagún:<br />

uitztli, indicava la linfa o aguamiel appena fuoriuscita dalla pianta;<br />

octli, il nome generico del <strong>pulque</strong>;<br />

iztacoctli, “<strong>pulque</strong> bianco”, privo di qualunque additivo;<br />

tiçaoctli, apparentemente una specie di <strong>pulque</strong> bianco o un suo sinonimo;<br />

tlachique, il <strong>pulque</strong> di bassa qualità, ma sempre privo di additivi, ricavato da piante di<br />

maguey che producevano una linfa scadente, o perché prodotta da specie botaniche di<br />

Agave diferenti dalle buone specie <strong>pulque</strong>ras, oppure perché prodotta da piante di<br />

maguey da <strong>pulque</strong> coltivate in terreni e ambienti sfavorevoli;<br />

tecutlachique, probabile sinonimo di tlachique, riportato in Sahagún (II, XXXVII, 18);<br />

poliuhqui, indica la bevanda nel suo stato avariato e da cui probabilmente i primi<br />

Spagnoli ricavarono per fraintendimento la parola <strong>pulque</strong>;<br />

teoctli, “<strong>pulque</strong> divino” o “<strong>pulque</strong> degli dei”, riservato, forse non unicamente, alle vittime<br />

umane destinate ai sacrifci;<br />

36


texcalceuia o texcalceuilo, citato in Sahagún, II, XXXVII, 10, usato nel corso <strong>delle</strong> feste<br />

dedicate al dio del fuoco Xiuhtecutli nel mese di izcalli; forse questi vocaboli erano<br />

attribuiti al <strong>pulque</strong> tlachique bevuto in occasione di queste feste del dio del fuoco;<br />

cochioctli, citato da Sahagún (II, XXVI, 20), probabilmente era l'octli non bevuto e<br />

rimasto il giorno dopo la festa che si svolgeva durante le calende del settimo mese,<br />

chiamata tecuilhuitontli, e dedicata alla dea del sale Uixtocíhuatl;<br />

ayoctli, “<strong>pulque</strong> di acqua”, riportato sempre da Sahagún (IV, XXXVI, 11-13), sarebbe un<br />

“pulcre stregato con acqua e miele e cucinato con la radice”;<br />

matlaloctli, “pulcre azzurro” per via del suo colore (Sahagún, II, XXXIV, 45);<br />

macuilloctli, “quinto <strong>pulque</strong>”, la quinta tazza di <strong>pulque</strong> intesa come superamento <strong>delle</strong><br />

quattro tazze socialmente accettate; ma può indicare anche un tipo specifco di <strong>pulque</strong>,<br />

dalla formula mantenuta segreta e riservata al prelato;<br />

tlachiualoctli, “<strong>pulque</strong> artifciale”.<br />

La diferenziazione dei tipi di <strong>pulque</strong> si evidenzia in numerosi passi degli autori antichi;<br />

valga come esempio un passo, già riportato, della descrizione di Sahagún (IV, XXXVI, 11-<br />

13) dei riti battesimali nahua:<br />

“Alle volte davano pulcre che si chiamava íztac octli, che signifca <strong>pulque</strong> bianco,<br />

che è quello che zampilla dai maguey e altre volte davano pulcre stregato con acqua e<br />

miele e cucinato con la radice che chiamano ayoctli, che signifca pulcre di acqua,<br />

che era custodito e preparato dal signore del convitto già da alcuni giorni. (13) E il<br />

servitore, quando vedeva che non si ubriacavano, tornava a dare da bere in senso<br />

contrario alla mano sinistra, iniziando dagli ultimi”.<br />

Un semplice metodo per rinforzare l'efetto inebriante della bevanda era quello di<br />

gettare nel <strong>pulque</strong> bianco puro una pietra ardente che era chiamata tezontle; tale metodo,<br />

che aveva la chiara funzione di attivare la fermentazione, veniva usato nei <strong>pulque</strong> di<br />

qualità inferiori – ad esempio quello ricavato da piante di maguey cresciute in luoghi<br />

umidi, caratterizzati da una povertà di zuccheri – e che erano chiamati <strong>pulque</strong> tlachique.<br />

<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> si mantiene per un periodo che non supera le 24-36 ore, dopodiché si<br />

decompone e non è più bevibile. <strong>Il</strong> problema della conservazione della bevanda fu quindi<br />

molto sentito sia nei tempi arcaici che in quelli coloniali. Per ritardare la sua cagliatura e<br />

decomposizione vi si gettavano <strong>delle</strong> erbe specifche, di cui una era il popotle, rimasta<br />

botanicamente indeterminata. In base a rapporti scritti di frati e medici della fne del<br />

1600 quest'erba era considerata “la peggiore e la più velenosa” di tutte quelle che si<br />

mettono nel <strong>pulque</strong>. Si teneva nei tini per 10 o 12 ore ed era usata esclusivamente in<br />

37


inverno “con lo scopo di non viziare e di non far prendere corpo al <strong>pulque</strong>”. La sua<br />

funzione era molto pratica per il trasporto in quanto bloccava la decomposizione. A<br />

questo scopo si usava anche la calce (Hernández Palomo, 1979: 27-8).<br />

Francisco Hernández (1571-6), nella sua monumentale opera sulle piante e animali<br />

della “Nueva España”, cita alcune altre piante che venivano mescolate nel <strong>pulque</strong>. Una di<br />

queste era l'itlanexillo (“piede di lepre”), una pianticella simile al capelvenere, le cui foglie<br />

erano impiegate per trattare la dissenteria e di cui si mescolavano col <strong>pulque</strong> le radici col<br />

preciso scopo di “dargli forza e maggiore efcacia per stravolgere la mente” (Libro III,<br />

Cap. XL); ci troveremmo quindi nel caso 3 della nostra classifcazione iniziale. 13 Un'altra<br />

pianta era l'arbusto del quauhchílzotl (“legno di peperone vecchio”), “la cui radice<br />

“mescolata con metl produce vino” (Libro III, Cap. CL). 14 In questo caso è probabile che<br />

l'aggiunta nella linfa della pianta del maguey (metl) avesse lo scopo di facilitare la sua<br />

fermentazione (caso 2).<br />

Sahagún è stranamente parco di dati circa gli additivi del <strong>pulque</strong> e sembra riferire di<br />

non meglio precisate radici aggiunte nella bevanda in un solo passo fra i numerosissimi<br />

che dedica al <strong>pulque</strong>, e precisamente dove descrive il lavoro di colui che prepara e vende il<br />

<strong>pulque</strong>: “il miele [aguamiel] cuocendolo o bollendolo prima di tutto, e riempe cantari o<br />

cuoi per custodirlo, e questo dopo che ha radici” (X, XX, 4).<br />

Ma la pianta maggiormente citata dagli autori antichi e la più enigmatica dal punto di<br />

vista della sua determinazione botanica e <strong>delle</strong> sue funzioni in relazione alla preparazione<br />

del <strong>pulque</strong> è l'ocpatli o quapatli. Motolinía (I, II, 55) riportava che “prima che il loro vino<br />

lo cuociano con alcune radici che vi gettano, è chiaro e dolce come idromele. Dopo cotto<br />

si fa spesso ed ha un cattivo odore, e coloro che con quello si ubriacano, molto peggio.” In<br />

un altro passo (III, XIX, 440) aggiunge che dall'aguamiel “cotto e bollito al fuoco, si ricava<br />

un vino dolciastro limpido, che bevono gli spagnoli e dicono che è molto buono,<br />

sostanzioso e salubre. Cotto questo liquore in orci come si cuoce il vino e gettandovi <strong>delle</strong><br />

radici che gli indios chiamano ocpatl, che signifca medicina o condimento del vino, si<br />

ricava un vino così forte che a coloro che ne bevono in quantità ubriaca fortemente”. Se<br />

ne dedurrebbe quindi che la funzione dell'ocaptl era di rinforzante gli efetti inebrianti del<br />

<strong>pulque</strong>.<br />

Nel Codice Telleriano Remense (fol. 15) viene riportato che “questo Patécatl è signore di<br />

questi tre giorni e di alcune radici ch’essi gettavano nel vino, poiché senza queste radici<br />

non si potevano ubriacare pur quanto ne bevessero”. Va ricordato che il nome Patécatl<br />

deriva dalla radice nahuatl pátli, che signifca “medicina”. Secondo Gonçalves da Lima<br />

(1986: 136) il signifcato etimologico di oc.patli è “medicina del <strong>pulque</strong>” e sarebbe questa<br />

la ragione per cui al nome di Patécatl fu attribuito il signifcato etimologico di “quello<br />

38


della terra della medicina”. Ciò apparirebbe come un'ulteriore conferma del fatto che<br />

Patécatl fu lo scopritore dell'efetto inebriante “completo” del <strong>pulque</strong>, dove le radici dell'ocpatli<br />

svolgevano un ruolo signifcativo se non addirittura imprenscindibile.<br />

Juan Bautista Pomar, nella sua Relación de Tezcoco del 1581 (cap. XXV, si veda Vázquez,<br />

1991: 95-6), riferisce sia di una radice chiamata cuauhpatli, sia della radice dell'ocpatli,<br />

che vengono messe nel succo di maguey prima di farlo bollire e ricavarne il “vino”.<br />

Pedro Sanchez de Aguilar (1639), in una Cedula contra el Pulque, riferiva: “Io sono<br />

informato che gli Indios nativi di questa Nueva España fanno un certo vino che si chiama<br />

Pulque, nel quale dicono che nei periodi che fanno le loro feste e per tutto il resto<br />

dell'anno vi gettano una radice, ch'essi seminano con lo scopo di gettarla nel suddetto<br />

vino, per fortifcarlo e fargli prendere maggior sapore, con il quale si ubriacano” (Vázquez,<br />

1991: 37). In un'altra Cedula dell'anno 1545 in cui si vieta il vino agli Indios, il<br />

medesimo autore riferiva del “vino della terra con radici” (ibid., p. 38). Da notare che<br />

questo autore riferiva che la pianta che dava queste radici veniva coltivata dai nativi.<br />

Durán (Libro II, Cap. XXII) ofre ulteriori dati interessanti: in un primo passo riferisce<br />

dei tavernieri che nel momento in cui:<br />

“gettavano la radice” nel <strong>pulque</strong> e questo iniziava a bollire mettevano incenso nei<br />

bracieri e ofrivano cibo alla divinità. In un passo successivo fa notare come “quello<br />

che chiamano <strong>pulque</strong> che fanno gli Spagnoli di miele nero e acqua con la radice,<br />

quelli [gli Aztechi] mai l'ebbero né seppero fare sino a che i negri e gli Spagnoli lo<br />

inventarono e così questo vocabolo <strong>pulque</strong> non è vocabolo messicano bensì <strong>delle</strong><br />

isole, come mais e nagua e altri vocaboli che portarono da Española. <strong>Il</strong> vero vino di<br />

questi [gli Aztechi] era di aguamiel del maguey dove vi gettano dentro la radice e<br />

che usavano non solo per le loro feste e ubriachezze ma anche per le loro medicine,<br />

come usano oggigiorno poiché realmente medicinale”.<br />

Nonostante Durán non sia sempre attendibile, in quanto contamina frequentemente i<br />

dati ricevuti dai suoi informatori con sue deduzioni personali, la possibilità espressa in<br />

questo suo passo, cioè che si siano presentate variazioni di tecniche di preparazione e di<br />

nuovi additivi dopo la Conquista, magari importate dalle Antille, non è da scartare a<br />

priori. Durán fa notare la diferenza fra “<strong>pulque</strong> bianco con radice”, di schietta origine<br />

azteca o comunque tradizionale, e <strong>pulque</strong> di “miele nero con radice”, che sarebbe stato<br />

inventato altrove e importato in seguito ai fussi migratori inter-mesoamericani conseguenti<br />

all'arrivo degli Europei. Egli prosegue afermando che “<strong>Il</strong> suo [del <strong>pulque</strong> azteco]<br />

nome era iztac-octli, che signifca vino bianco e comprendo che gli hanno aggiunto il<br />

bianco per diferenziarlo da quello che si fa da miele nero perché è indemoniato e puzzo-<br />

39


lente e nero forte e aspro, senza gusto né sapore, come essi medesimi confessano, e con<br />

tutto questo come lo bevono più frequentemente e li rende più irragionevoli e furiosi per<br />

via della forza che ha rispetto al loro proprio essendo il loro più leggero e medicinale”. E'<br />

evidente l'apporto dell'interpretatio cattolica nell'associare il colore nero del “miele” non<br />

tradizionale (cioè non azteco) al demonio, quel medesimo “demonio” che lo steso Durán<br />

non esita in altri numerosi passi del suo trattato ad associare a divinità e pratiche religiose<br />

azteche.<br />

Un riferimento a <strong>delle</strong> radici aggiunte al <strong>pulque</strong> lo troviamo in un mito d'origine del<br />

maguey, di stampo tezcocoano, che ci è pervenuto attraverso la Histoire du Mechique,<br />

opera di un anonimo autore del XVI secolo (si veda l'Appendice I). Nella parte fnale del<br />

racconto è riportato: “Da questo [il maguey] gli indios fanno il vino che bevono e con il<br />

quale si ubriacano, sebbene non è a causa del vino, bensì per via di alcune radici che<br />

chiamano ucpatli ch'essi mescolano con quello”.<br />

Un'attenzione particolare deve essere data al lavoro di Francisco Hernández, il botanico<br />

e proto-medico che negli anni '70 del 1500 per volontà del re di Spagna Filippo II diresse<br />

una spedizione scientifca nei nuovi territori americani conquistati dagli Spagnoli e che fu<br />

autore di un'importante opera di classifcazione <strong>delle</strong> piante e degli animali della Nueva<br />

España. Questo autore (Libro XVI, Cap. LII) identifca l'ocpatli (“condimento del vino”)<br />

con il quapatli (“medicina del monte”) o tlapatli (“medicina piccola”) e riporta che questa<br />

pianta mescolata con il “vino di metl” ne aumenta la forza inebriante. Tuttavia, a<br />

diferenza degli altri autori, riferisce che la parte utilizzata era la sua corteccia e non la<br />

radice. Inoltre, riporta che anche quando viene aggiunta ad altre bevande liquorose ne<br />

aumenta gli efetti inebrianti. Da notare che nella descrizione Hernández riferisce che<br />

questa pianta ha dei baccelli, un fatto che fa sospettare che appartenga alla famiglia <strong>delle</strong><br />

Leguminosae. 15 Un'ulteriore notizia utile per l'identifcazione dell'ocpatli/quapatli<br />

Hernández la ofre nel trattare un suo sinonimo, lo tzotzocolxóchitl e una pianta afne,<br />

“anch'essa appartenente alle specie di acacia” (Libro XXIV, Cap. X):<br />

“Lo tzotzocolxóchitl è un arbusto che i messicani chiamano quapatli, nome sotto<br />

cui lo abbiamo descritto in altro luogo. Dicono i panucenses che è utile in maniera<br />

ammirevole contro la tosse. Nasce nella sua terra un'altra specie chiamata tziquáhuitl,<br />

quasi del medesimo aspetto, di temperamento freddo, astringente e secco,<br />

anch'esso appartenente alle specie di acacia e il cui decotto dice la medesima gente<br />

che cura le ulcere della bocca, pulisce e consolida i denti, e sana le ulcere putride<br />

dovuta alla consumazione di carne corrotta”.<br />

Questi dati fanno quindi ipotizzare che il quapatli od ocpatli fosse una leguminosa,<br />

40


nella cui famiglia rientrano numerose piante dalle accertate proprietà psicoattive, presenti<br />

anche nelle Americhe. In efetti, in diverse Relazioni Geografche nel centro del Messico e<br />

in Oaxaca l'ocpatl o quapatle è identifcato con la corteccia di Acacia angustissima (Mill.)<br />

Kuntze (Corcuera de Mancera, 1991: 122).<br />

In un altro passo della sua opera (Libro XVI, Cap. LIII), Hernández cita un'altra pianta<br />

dal medesimo nome quapatli, caratterizzata dall'essere un'erba piccola con foglie simili a<br />

quelle del susino ma più grandi e il cui decotto applicato sulla testa calma i dolori alle<br />

orecchie. Ma si tratta evidentemente di una pianta diferente da quella precedente, nonostante<br />

sia chiamata con lo stesso nome di “medicina del monte”.<br />

Ricapitolando, Hernández considerava quapatli, ocpatli, tlapatli e tzotzocolxóchitl<br />

sinonimi di una medesima pianta utilizzata come additivo del <strong>pulque</strong>; altri autori invece<br />

consideravano come due distinte piante il quapatli e l'ocpatli. <strong>Il</strong> quapatli (o cuapatle) fu<br />

oggetto di diverse controverse nel corso del XVIII secolo, considerato demoniaco o<br />

ingrediente positivo e necessario per la preparazione del <strong>pulque</strong> a seconda dell'ignoranza,<br />

del pregiudizio o della convenienza – anche economica – del vescovo, dell'alcade o<br />

dell'asentista di turno.<br />

Clavijero (1780-1: Libro VII, p. 435), che può essere considerato l'ultimo in ordine<br />

cronologico fra gli autori antichi, riportò che l'ocpatli o “rimedio del vino” serviva “per<br />

facilitare la fermentazione e dar più forza alla bevanda”. In questa frase sembra essere<br />

assorbito uno stereotipo interpretativo <strong>delle</strong> funzioni dell'ocpatli elaborato nel corso del<br />

XVIII secolo e dovuto alla probabile confusione fra diversi ingredienti vegetali, confusione<br />

forse addirittura indotta intenzionalmente per nascondere proprietà inebrianti di un<br />

determinato additivo, un tempo ritenute segrete.<br />

La complessità degli additivi del <strong>pulque</strong> aumenta considerando il cosiddetto “quinto<br />

<strong>pulque</strong>”, il macuiloctli. Come esposto più sopra, il macuiloctli era considerata la dose di<br />

<strong>pulque</strong> che eccedeva le quattro tazze socialmente accettate; dalla quinta tazza in poi<br />

regnava la violenza e la follia. Tuttavia, vi sono riferimenti a un macuiloctli come un tipo<br />

specifco di <strong>pulque</strong>. In un passo della sua opera (II, Appendice IV, 3) Sahagún sembra<br />

considerarlo un sinonimo del teoctli (“festa del macuilloctli, '<strong>Il</strong> Quinto Pulque', ch'essi<br />

chiamavano di teucotli, 'Pulque-degli-Dei'”). <strong>Il</strong> teoctli – da teo, “dio” e octli, “<strong>pulque</strong>”,<br />

quindi “<strong>pulque</strong> degli dei” – era uno speciale tipo di <strong>pulque</strong> che veniva dato da bere ai<br />

prigionieri in procinto di essere sacrifcati. Anche al successivo paragrafo 17 di Sahagún<br />

v'è una chiara identifcazione fra macuiloctli e teoctli; la traduzione di Garibay fornisce:<br />

“Questo Ometochtli pantécatl [un tipo di sacerdote] aveva il compito di procurare il vino<br />

che si chiamava macuiloctli, o teooctli, che era usato nella festa di panquetzaliztli”. Tuttavia,<br />

Gonçalves da Lima (1986: 116-7) traduce questo passo in un modo signifcativamente<br />

41


diferente: “<strong>Il</strong> sacerdote di Ometochtli Patécatl preparava il macuilloctli e lo passava al<br />

sacerdote degli dei del <strong>pulque</strong> Toltécatl. Questo lo doveva fare [trasformare nel] teucotli, il<br />

vino degli dei; il macuilloctli si consumava nella festa di Panquetzaliztli”. Da ciò si<br />

inferisce che macuiloctli e teoctli non sono nomi della medesima bevanda, come<br />

apparirebbe dalla versione di questo passo data da Garibay e dal primo passo citato di<br />

Sahagún, bensì “erano <strong>pulque</strong> preparati specifcatamente per i sacerdoti, essendo il teoctli<br />

un macuilloctli modifcato” (ibid. :117). Al paragrafo 33 della medesima Appendice IV del<br />

testo di Sahagún è descritta la funzione del sacerdote Yzquitlan, che aveva il compito di<br />

curare il vestiario dell'ofciante e anche “il <strong>pulque</strong> degli dei, teuoctli, e riceveva la linfa<br />

dolce del maguey, necutil, che terminava di uscire [dal maguey] e che ancora non era<br />

piccante” (seguendo la traduzione di Gonçalves da Lima, 1986: 117); questo studioso ne<br />

deduce che l'aguamiel ottenuta dallo Yzquitlan serviva per l’elaborazione del teoctli,<br />

impiegando forse un ingrediente vegetale specifco, “un ocpatli personale dei dirigenti<br />

religiosi”.<br />

Per Rätsch (2005: 28 e 46) l'ocpatli è probabilmente identifcabile con Acacia<br />

angustifolia (Mill.) Kuntze. <strong>Il</strong> vocabolo ocpatl signifcherebbe “droga del <strong>pulque</strong>” e nello<br />

spagnolo messicano contemporaneo il nome vernacolare di questa acacia sarebbe palo de<br />

<strong>pulque</strong> (“albero del <strong>pulque</strong>”). Un'altra specie, Acacia albicans Kunth sarebbe stata usata<br />

come additivo del <strong>pulque</strong>.<br />

Resta il fatto che durante i periodi coloniali si difuse un insistente proibizionismo nei<br />

confronti degli additivi del <strong>pulque</strong>, poiché fra di questi v'erano ingredienti che ne<br />

potenziavano gli efetti in maniera signifcativa e che furono prontamente classifcati<br />

come prodotti demoniaci da parte del clero, in quanto riconosciuti da questi afni alle<br />

piante “stregoniche” europee. Ma essendosi difusa anche la confusione fra additivi<br />

rinforzanti l'efetto inebriante e additivi necessari per la fermentazione del <strong>pulque</strong> o per la<br />

sua conservazione, si giunse in diversi casi a proibire tutti gli additivi di natura vegetale,<br />

creando ciò non pochi problemi nella sua produzione. In diversi casi si giunse a decreti<br />

contraddittori fra le diverse istituzioni coloniali e mentre il cuapatle veniva venduto sotto<br />

licenza nei mercati <strong>delle</strong> principali città, compresa Città del Messico, governanti di aree<br />

agricole ne proibivano il commercio e l'utilizzo come ingrediente del <strong>pulque</strong>. Nel 1720,<br />

nella giurisdizione di Huejotzingo il viceré marchese di Valero dovette imporsi con un<br />

decreto specifco in favore del libero utilizzo del cuapatle e contro la decisione ritenuta<br />

arbitraria dell'asentista locale (Hernández Palomo, 1979: 29).<br />

Secondo Hernández Palomo (1979: 29) la funzione principale del cuapatle era di<br />

preservare ed evitare la corruzione del <strong>pulque</strong>, ma questo studioso, nel suo pur brillante<br />

studio sul proibizionismo del <strong>pulque</strong> durante i periodi coloniali, non ha valutato la<br />

42


possibilità che le fonti antiche di cui si è avvalso recassero già confusioni di determinazione<br />

per ciò che intendevano come cuapatle.<br />

Al <strong>pulque</strong> venivano aggiunti diversi altri ingredienti, molti dei quali con lo scopo di<br />

aromatizzarlo. Nel 1791 il naturalista Antonio Pineda estese un rapporto sulle diverse<br />

bevande in uso in Messico, di cui numerose a base di <strong>pulque</strong>, dove venivano aggiunti<br />

anice, arance, ananas, mandorle, ecc. La maggior parte di queste bevande furono elaborate<br />

nei tempi coloniali e infuenzate dalla cultura spagnola. Interessanti le bevande<br />

copalotile 16 e tolonze, preparate con l'aggiunta nel <strong>pulque</strong> di semi e frutti dell'albero del<br />

Perù, cioè Schinus molle L., della famiglia <strong>delle</strong> Anacardiaceae, originario del Sud<br />

America e che gli Spagnoli difusero in Messico (Wilson, 1963). Presso le <strong>popolazioni</strong><br />

andine il frutto di questo albero è tradizionalmente usato come ingrediente nella<br />

preparazione della chicha (bevanda fermentata a base di mais), per facilitare la sua<br />

fermentazione (Rätsch, 2005: 740). I Messicani l'adottarono con il probabile scopo di<br />

facilitare la fermentazione in quei <strong>pulque</strong>, come il tlachique, ricavati da linfa di maguey<br />

povera in contenuti zuccherini. Ancora, dentro ai tini di fermentazione del <strong>pulque</strong><br />

venivano inseriti i più disparati oggetti, con probabili scopi magici. Ad esempio, nel 1692<br />

un inquisitore scoprì in un tino un cannello chiuso con una lucertola viva (Hernández<br />

Palomo, 1979: 30).<br />

Un'ulteriore associazione di natura etnobotanica della sfera simbolica del <strong>pulque</strong> è il<br />

malinalli, al contempo pianta e simbolo ad essa associato. La pianta è per lo più<br />

riconosciuta fra gli autori come una piccola graminacea, alquanto efmera, che nasce<br />

improvvisamente subito dopo le piogge estive dopodiché avvizzisce velocemente. Fra gli<br />

Aztechi era il simbolo dell'efmero, del transitorio, del superfuo, della vanità e anche<br />

della fugace allegria causata dal <strong>pulque</strong> e dallo stato di ubriachezza. <strong>Il</strong> grafema del<br />

malinalli era costituito da un teschio ornato (Corcuera de Mancera, 1991: 23). Kuehne<br />

Heyder (1995) ha avanzato dei dubbi circa l'identifcazione generalmente accettata del<br />

malinalli come una specie di Muhlenbergia, della famiglia <strong>delle</strong> graminacee, chiamata<br />

popolarmente in spagnolo zacate del carbonero, e ha proposto di identifcare invece il<br />

malinalli con l'ocpatli; inoltre, vede per il malinalli una certa relazione con una specie di<br />

Datura. <strong>Il</strong> simbolo del teschio non si addice a una erbetta così efmera e poco importante<br />

quale il zacate del carbonero e sono riferite al malinalli proprietà medicinali che non si<br />

addicono a questa graminacea. In particolare, De La Cruz (1552), pur rafgurando il<br />

malinalli come una evidente graminacea, indica proprietà medicinali nelle afezioni<br />

oculari (F. 12 v), nelle femme gastriche (F 20 r) e nel parto (F 58 v).<br />

Considerando il complesso degli additivi del <strong>pulque</strong> nel suo insieme, si evidenzia<br />

l'utilizzo di speciali ingredienti vegetali di natura psicoattiva, di cui alcuni probabilmente<br />

43


allucinogeni, per la preparazione di bevande in cui il <strong>pulque</strong> svolgeva il ruolo di liquido<br />

madre. Siamo cioè qui in presenza di un “Complesso Psicofarmacologico del Pulque”,<br />

similmente ad altri conglomerati di conoscenze psicoattive quali il Complesso Dionisiaco,<br />

dove il vino aveva valenze di liquido madre per miscelarvi le più disparate erbe psicoattive,<br />

o il Complesso Psicofarmacologico dell'Ayahuasca, dove alla bevanda “maestro”,<br />

l'ayahuasca, vengono aggiunte le più disparate piante psicoattive, tale da aver dato adito<br />

all'elaborazione tribale di un complesso sistema gerarchico di efetti allucinogeni. In<br />

diversi casi questi Complessi Psicofarmacologici sono imperniati su una bevanda<br />

inebriante di natura alcolica, in quanto le bevande alcoliche sono ottimi liquidi estrattori<br />

dei principi attivi <strong>delle</strong> varie fonti vegetali: essendo questi principi attivi estraibili in acqua<br />

(idrosolubili) o estraibili in alcol, le bevande alcoliche, per loro natura idro-alcoliche, cioè<br />

contenenti sia alcol che acqua, risultano degli ottimi liquidi in cui indurre, con<br />

riscaldamento o meno, il passaggio dei principi attivi da foglie, radici, cortecce al liquido<br />

in seguito da bere. Ecco quindi che l'articolata soluzione al problema degli additivi del<br />

<strong>pulque</strong> è da ricercare internamente al Complesso Psicofarmacologico strutturatosi attorno<br />

a questa bevanda.<br />

Un caso simile si verifcò con la chicha andina, prodotta mediante il processo di<br />

insalivazione dei chicchi di mais, per la quale si può similmente parlare di un “Complesso<br />

psicofarmacologico”. A questa comune bevanda sudamericana (che ha un corrispettivo<br />

amazzonico chiamato cauim e con numerosi altri nomi) venivano aggiunte numerose<br />

piante, diverse <strong>delle</strong> quali avevano lo scopo di raforzare o modifcare l'efetto inebriante.<br />

Citiamo qui come unico esempio una fonte letteraria della fne del XVI secolo, opera del<br />

Gesuita Anonimo; in un passo che tratta della preparazione della chicha, leggiamo: “Altri,<br />

più golosi … vi gettavano nel momento di berla nel bicchiere il succo di una certa erba<br />

medicinale, e diventava così forte, che li inebriava più velocemente. Chiamano questo<br />

vino viñapu [dal verbo quechua huiñani, “iniziare a crescere”] e altri sora, e dicono coloro<br />

che lo hanno provato che è pestifero e causa molte malattie. La causa che dà non è di<br />

malattie, poiché non vediamo alcun indio in tutto il regno che sia attaccato dal male di<br />

fegato o di calcoli, bensì il peccato dell'ubriachezza, della lussuria e dell'idolatria, che sono<br />

maggiori e peggiori malattie.” (Barba, 1968: 177).<br />

Molto probabilmente esistevano diferenti tipi di <strong>pulque</strong>, da quelli permessi al popolo a<br />

quelli permessi solo alla casta prelatizia o ai guerrieri, prodotti con formule quasi certamente<br />

mantenute segrete. Ed è nei <strong>pulque</strong> “prelatizi” che dobbiamo principalmente<br />

rivolgere lo sguardo nella ricerca <strong>delle</strong> fonti puramente enteogene, quali gli additivi di<br />

natura allucinogena. <strong>Il</strong> contatto più profondo con le divinità era mantenuto riserbato a<br />

principi e sacerdoti, gli unici che avevano accesso alla spettro completo di conoscenze per<br />

44


modifcare lo stato della coscienza umana, come ha fatto notare in un interessante studio<br />

sul <strong>pulque</strong> Corcuera de Mancera (1991: 17):<br />

“Fra gli antichi messicani era proibito un rapporto popolare, non controllato<br />

dall'autorità religiosa, dell'uomo con la divinità. <strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> era depositario<br />

dell'insieme degli dei coniglio, e nell'ingerirlo la persona si abbandonava in modo<br />

volontario a una possessione divina. Per questo i sacerdoti, gelosi del loro ruolo di<br />

mediatori e desiderosi di conservare l'autorità e il potere che questo dava loro,<br />

vedevano come un pericolo che l'uomo comune uscisse dal loro controllo per<br />

ingerire una sostanza che era corpo divino”.<br />

45


<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi coloniali<br />

Con l'arrivo degli Spagnoli il <strong>pulque</strong> perdette la sua posizione di bevanda inebriante ad<br />

uso cerimoniale e religioso e fu velocemente relegato alla posizione di bevanda profana.<br />

Dopo neanche un secolo dalla prima visita di Cortés i danni della profanazione dell'uso<br />

di questa bevanda si fecero pesantemente sentire nei territori messicani e in ciò che<br />

rimaneva della sua popolazione autoctona. <strong>Il</strong> frate dominicano Diego Durán (Libro II,<br />

Cap. XXII), che scrisse nella seconda metà del XVII secolo, studiando le “idolatrie” degli<br />

indios e il sistema religioso dei vinti, si accorse e a suo modo si rammaricava della<br />

mancanza del rigido sistema di controllo sull'uso del <strong>pulque</strong> che avevano adottato gli<br />

Aztechi, che “non era gente barbara, bensì gente politica, esperta e avveduta”. Fatto sta che<br />

l'alcolismo da <strong>pulque</strong> dilagò fra i restanti nativi, già decimati dalla brutalità dei<br />

Conquistadores e dalle nuove malattie da questi portate nella Nueva España.<br />

Poco dopo l'arrivo degli Spagnoli in terra messicana l'uso degli inebrianti di natura<br />

allucinogena – peyote, funghi psilocibinici, semi di Rivea corymbosa (ololihqui), ecc. -<br />

furono proibiti su tutto il territorio della Nueva España, poiché interpretati come prodotti<br />

“diabolici” e fortemente in antitesi alle idee e allo spirito religioso cristiano, seguendo in<br />

tal modo un cliché comune che dovettero subire tutte le <strong>popolazioni</strong> del mondo<br />

colonizzate dagli Europei. Un fatto curioso: per un certo periodo di tempo fu vietato il<br />

vino europeo agli indios, come dimostrano le Cedole Ecclesiastiche degli anni 1539 e<br />

1545 (Corcuera de Mancera, 1991: 123), un divieto quasi ironico, verifcato che gli indios<br />

non avrebbero potuto permettersi il lusso di comprare vino europeo.<br />

Le bevande autoctone di natura alcolica non subirono generalmente questo ferreo<br />

divieto; una <strong>delle</strong> eccezioni fu del <strong>pulque</strong>, per via degli additivi vegetali che vi venivano<br />

aggiunti, alcuni dei quali erano quasi certamente di natura allucinogena o comunque<br />

46


aforzavano signifcativamente, per gli Spagnoli eccessivamente, le sue proprietà inebrianti.<br />

Tuttavia, come ha fatto notare nel suo attento studio Hernández Palomo (1979), le<br />

reiterate proibizioni attraverso le Cedole Reali, in particolare degli anni 1529, 1545, 1594,<br />

1607, 1637 e 1640, vertevano sulla proibizione dei vari ingredienti vegetali che venivano<br />

aggiunti al “<strong>pulque</strong> bianco”, cioè il semplice <strong>pulque</strong> ottenuto mediante fermentazione<br />

della linfa fatta fuoriuscire dalla pianta del maguey, linfa nota nei periodi post-cortesiani<br />

con il nome spagnolo di aguamiel. Restava quindi implicito il permesso di elaborare e<br />

commercializzare il <strong>pulque</strong> bianco, che era nulla di più che una blanda bevanda alcolica,<br />

con una gradazione del 2-4 % di alcol.<br />

Nel 1608 un'ordinanza del Viceré Luis de Velasco impose una prima normativa in fatto<br />

di commercializzazione del <strong>pulque</strong> bianco, che prevedeva l'esclusione da tale commercio<br />

di individui estranei alla pura etnia degli “indios” – spagnoli, mestizi, mulatti o negri che<br />

fossero – ed erano previste pene severe per chi non avesse rispettato questa condizione,<br />

che evidentemente era rivolta alla protezione del sistema di produzione indigeno del<br />

<strong>pulque</strong>. Questa ordinanza prevedeva che per ogni 100 indios venisse nominata una<br />

donna, una india, che doveva avere le caratteristiche di essere anziana, stimata e<br />

d'estrazione molto povera, che si sarebbe dovuta fare carico della vendita del <strong>pulque</strong> fra i<br />

nativi, con la condizione aggiuntiva che in questo commercio non poteva far coinvolgere<br />

spagnoli o indigeni appartenenti all'amministrazione locale. La vendita del <strong>pulque</strong> era<br />

comunque proibita nei giorni di domenica e in tutti i giorni festivi, compresi i giorni della<br />

Quaresima. 17 E' interessante notare come anche nei periodi successivi “nella vendita del<br />

<strong>pulque</strong> non fu fatta mai allusione agli uomini, bensì si parlò sempre di venditrici, di<br />

indias. Questa presenza della donna è una caratteristica rimasta in gran parte sino ai<br />

nostri giorni” (Hernández Palomo, 1979: 36).<br />

Ma l'ordinanza di Velasco del 1608 rimase efettiva solamente per alcune decine di anni;<br />

gli interessi economici nei confronti di un commercio lucroso fecero si che vi si<br />

infltrassero gradualmente spagnoli e mestizi, in particolare nella gestione <strong>delle</strong><br />

<strong>pulque</strong>rias, le locande dove si vendeva e consumava la bevanda; inoltre, il dilagare<br />

dell'alcolismo presso la popolazione indigena, congiuntamente al mancato rispetto,<br />

alquanto difuso, del divieto dell'uso di additivi fortifcanti la medesima bevanda, portò le<br />

amministrazioni locali e centrali a riconsiderare la normativa sul <strong>pulque</strong>; già nel 1648 si<br />

hanno notizie della nomina di un “Giudice del Pulque”, che doveva sovrintendere alle<br />

controversie e ai crimini legati al consumo della bevanda, oltre a un irrigidimento nei<br />

confronti del suo uso indigeno.<br />

L'ordinanza di Velasco, pur redigendo una normativa del mercato del <strong>pulque</strong>, non<br />

47


prevedeva l'istituzione di una tassa sulla bevanda, nel rispetto della più generale regola<br />

fssata dal re di Spagna di non tassare i prodotti indigeni utilizzati dalla popolazione<br />

nativa. Tuttavia, verso la seconda metà del XVII secolo gli amministratori locali, in<br />

particolare quelli dei paesi dei dintorni di Città del Messico, principali luoghi di<br />

produzione del <strong>pulque</strong>, iniziarono illegalmente a richiedere un impuesto per tutto il<br />

<strong>pulque</strong> che veniva trasportato verso la capitale. L'illegalità di questa tassa era evidente e fu<br />

oggetto di denuncia da parte di diversi amministratori coscienziosi. Si verifcarono anche<br />

situazioni di lucro “indiretto”, cioè non mediante una vera e propria tassa, bensì attraverso<br />

l'ingerenza nel commercio da parte di amministratori locali; fu il caso ad esempio del<br />

corregidor di Cuautepec, che nel 1633 obbligò gli indios della sua giurisdizione a<br />

vendergli il <strong>pulque</strong> ch'egli rivendeva in seguito a un prezzo raddoppiato. Verifcato che<br />

nel commercio della bevanda rientravano sempre più individui non appartenenti alla<br />

razza nativa, le tasse e le attività lucrative venivano giustifcate dal fatto che tale<br />

commercio esulava dai commerci puramente nativi, che per legge erano esenti da tasse.<br />

Tutto ciò portò alla decisione reale di stabilire un primo asiento del <strong>pulque</strong> nel 1668,<br />

cioè una regolarizzazione della produzione della bevanda con tanto di tassa<br />

amministrativa, di cui la maggior parte era destinata alle casse reali spagnole. A parte gli<br />

indios, che avevano ben poca voce in capitolo, solo il conte di Alba de Liste e il duca di<br />

Albuquerque cercarono di opporsi a questo progetto, considerandolo una violazione del<br />

principio di esentasse dei prodotti indigeni; ma quando i proftti economici associati al<br />

<strong>pulque</strong> furono intuiti dalla Corona, le etiche rispettose nei confronti dei nativi furono da<br />

questa accantonate senza alcuna remora.<br />

Vi fu solo una brusca interruzione di sei anni, dal 1692 al 1697, che ebbe origine da una<br />

rivolta popolare che si verifcò l'8 giugno del 1692 a Città del Messico, repressa il giorno<br />

successivo dalle forze spagnole del Conte di Santiago, Juan de Velasco. La causa di questa<br />

rivolta ricadde sul <strong>pulque</strong>, quale fonte di ubriachezza, verifcato che si udirono dalla parte<br />

dei rivoltosi urla del tipo “viva il <strong>pulque</strong>!” Si deve terne conto che, dal momento in cui,<br />

nel 1668, il commercio del <strong>pulque</strong> fu regolarizzato e tassato, il suo uso conobbe un<br />

notevole incremento nella capitale e, nonostante fossero permesse solamente la<br />

produzione e lo spaccio del <strong>pulque</strong> bianco, era di fatto quello adulterato dagli additivi<br />

rinforzanti, quindi maggiormente inebriante, che veniva consumato e che arricchiva di<br />

fatto l'erario reale.<br />

Una <strong>delle</strong> conseguenze della repressione della rivolta fu il divieto della produzione, del<br />

consumo e quindi anche del commercio del <strong>pulque</strong> in tutto il territorio della Nueva<br />

España. Ma a una più attenta analisi le cause principali della rivolta non erano da<br />

ascrivere all'ubriachezza da <strong>pulque</strong> bensì a fattori di natura sociale, in primis le<br />

48


condizioni di estrema povertà in cui riversava la popolazione della capitale, dovuta anche<br />

alla carestia di grano e mais dell'anno precedente causata da cattive condizioni climatiche.<br />

<strong>Il</strong> difuso alcolismo era semmai una conseguenza <strong>delle</strong> dure condizioni di vita dei nativi.<br />

Un altro motivo più concreto della proibizione del <strong>pulque</strong> si basò sulla constatazione che<br />

le <strong>pulque</strong>rias erano luoghi di associazione della popolazione, dove indios, mestizo, mulatti<br />

e negri potevano incontrarsi e produrre quelle “adunate sediziose” che in tutti i tempi<br />

furono e continuano ad essere perseguite nei contesti repressivi.<br />

La proibizione del <strong>pulque</strong> del 1692 sembra essere stata efettiva solamente nella capitale,<br />

mentre la bevanda continuava ad essere prodotta e consumata nel resto del paese. Ma<br />

essendo stato ufcialmente vietato, anche il reddito della sua tassazione venne meno; ciò<br />

portò dopo alcuni anni all'eliminazione del divieto, con tanto di reinserimento della<br />

relativa tassa (Hernández Palomo, 1979: 31-84). Fu tuttavia mantenuta l'obbligata<br />

diferenziazione fra <strong>pulque</strong>rias per soli uomini e <strong>pulque</strong>rias per sole donne.<br />

A parte il <strong>pulque</strong> bianco, il <strong>pulque</strong> “con radici”, cioè con additivi rinforzanti l'efetto<br />

inebriante, rimase proibito congiuntamente a numerose altre bevande alcoliche native.<br />

Ad esempio, nell'Ordinanza del Conte di Revillagigedo del 1755 vengono vietate “aguardiente<br />

di maguey, di canna, di miele, cantincota, ololinque, mistelas contrafatte, vini di<br />

cocco, sangue di coniglio, vinguies, mescali, tepache, cruacapo, vingarrote, e molte altre<br />

sebbene non siano specifcate in questa ordinanza, e che si fabbricano e usano qualunque<br />

sia il loro nome, con seme dell'albero del Perù, ananas, <strong>pulque</strong> marcio o corrotto o di<br />

frutta di tutte le specie, e ingredienti velenosi con l'unico scopo di ubriacare”. 18 Tale<br />

divieto perdurò fno a tutto il XVIII secolo e, nonostante venisse motivato per il dilagante<br />

alcolismo, il motivo concreto risiedeva nella concorrenza che queste bevande facevano<br />

nei confronti <strong>delle</strong> bevande alcoliche d'importazione spagnola, in particolare vini e<br />

distillati. <strong>Il</strong> problema di questa concorrenza non era un fatto nascosto e fu esplicitato da<br />

diversi autori a partire dal secolo XVII; Humboldt (1822, Libro IV, Cap. IX), nei confronti<br />

in questo caso del mezcal, ancora ai suoi tempi riferiva che “il governo spagnolo, in<br />

particolare la Real Hacienda, da molto tempo persegue con rigore il mezcal, che è<br />

severamente proibito, poiché il suo uso pregiudica il commercio <strong>delle</strong> acquaviti della<br />

Spagna.” Ai governanti coloniali non interessava la salute psichica e fsica dei nativi, che<br />

veniva sbandierata solamente in occasione dei suddetti divieti. Per i medesimi motivi era<br />

proibita nella Nueva España la coltivazione di piante del Vecchio Mondo, fra cui olivi, vite<br />

e gelso, per non intralciare il lucroso commercio intercontinentale di questi prodotti<br />

“esotici” europei.<br />

Un'altra questione che fu reiteratamente discussa durante i secoli da parte dei<br />

simpatizzanti e dei detrattori del <strong>pulque</strong>, riguardava lo stato di salute fra la popolazione<br />

49


indigena con o senza <strong>pulque</strong>, in particolare nel tema della loro riproduttività. Durante il<br />

XVIII secolo un certo frate Diego González dell'Ordine dei Mercedari riportava che “lo<br />

spopolamento degli indios degli inizi del secolo XVIII era dovuto all’abuso più che all’uso<br />

del <strong>pulque</strong>, assicurando che coloro che non lo bevevano si mantenevano in eccellenti<br />

condizioni di salute, e che gli indios del Messico potrebbero vivere così bene senza<br />

provare il <strong>pulque</strong>” (Guerrero, 1985: 84). Ancora ai giorni nostri Ángel María K. Garibay, il<br />

curatore dell'opera di Sahagún, riportava la seguente considerazione di valore opposto a<br />

quello del frate mercedario:<br />

“Se vogliamo conservare la razza indigena è necessario che conserviamo questo<br />

liquore che la natura ha loro fornito con efcacia. Migliaia di osservazioni<br />

accreditano che nei villaggi dove il <strong>pulque</strong> non viene bevuto le febbri distruggono le<br />

<strong>popolazioni</strong>, mentre queste si conservano dove abbondano i maguey e dove viene<br />

estratto questo liquore molto necessario per nutrire l'indio, rinvigorirlo e preservarlo<br />

dalla febbre putrida alla quale vive esposto per le continue insolazioni di cui<br />

sofre e per i vili alimenti di cui si nutre. Experto crede magistro: credere<br />

all'esperienza” (Garibáy, in Sahagún, 1985: 981).<br />

Come già detto, con l'avvento degli Spagnoli quell'insieme di rigide regole e di<br />

settorialità specifche nell'uso del <strong>pulque</strong> adottate dagli Aztechi di colpo vennero meno.<br />

L'uso rituale e religioso si dileguò velocemente, sino ad essere dimenticato. Tuttavia, come<br />

accadde ad altre fonti vegetali psicoattive, in particolare allucinogene, quali l'ololihqui, i<br />

teonanacatl, il peyote, non mancarono casi dove l'uso rituale del <strong>pulque</strong> persistette in<br />

clandestinità, fuori dagli sguardi dell'inquisizione. A riprova di ciò, Jacinto De la Serna<br />

(1661) riportò diversi casi di “idolatrie” dei nativi messicani perseguiti da lui medesimo o<br />

da altri inquisitori spagnoli. Nel paesino di Tenango l'inquisitore venne a sapere di un<br />

curandero che aveva tenuto in una casa privata un incontro svolto in occasione di una<br />

festa a un santo, dov'egli aveva somministrato ai partecipanti dei funghi allucinogeni<br />

(quautlan nanacatl). La statua del santo era collocata sull'altare domestico, davanti al<br />

quale v'era un fuoco. Stando a quanto riferito da De la Serna (Cap. I, 3) in quell'occasione<br />

oltre ai funghi fu assunto dai presenti anche una buona quantità di <strong>pulque</strong>. <strong>Il</strong> curandero<br />

riuscì a fuggire prima di cadere nelle mani del braccio secolare inquisitoriale.<br />

In un altro passo (Cap. XV, 2) il medesimo autore riferisce del costume di spargere un<br />

poco di <strong>pulque</strong> come oferta alle divinità prima di iniziare la bevuta collettiva. Lo<br />

spargimento del <strong>pulque</strong> viene chiamato da De la Serna col nome nahua tlatotoiahua, che<br />

ricorda lo tlatoyaualiztli riferito da Sahagún (I, XIII, 10) e più sopra menzionato. L'assunzione<br />

di <strong>pulque</strong> si svolgeva solitamente in maniera segreta all'interno di case private e di<br />

50


fronte all'altare domestico, in occasione di feste religiose che ricalcavano quelle antiche<br />

azteche. Si riporta qui per esteso il passo di De la Serna, in quanto è un'importante testimonianza<br />

di sopravvivenza di una celebrazione con il <strong>pulque</strong> che si era conservata<br />

durante la prima fase del periodo coloniale:<br />

“Hanno anche le loro idolatrie con dei semi, e uno di questi è l'Huatli, che è un<br />

seme molto precoce a loro disposizione; poiché si semina prima del mais e quando<br />

inizia a spigare da questo seme fanno una bevanda a mo' di poleada [bevanda a base<br />

di latte e farina] e alcune tortilla che chiamano Tzoally; questo seme è ciò che è<br />

richiesto dal Demonio, che gliela ofrono come primizia e di cui fa menzione Padre<br />

Fray Martin di León nel mese tredicesimo del suo Calendario quando facevano festa<br />

ai monti più alti, che si chiama Tepeilhuitl e corrispondente ai primi di ottobre; e<br />

nell'altro Calendario è questo il mese dodicesimo, che si chiamava Quecholli,<br />

corrispondente al mese di novembre, dal cinque al ventiquattro del detto mese.<br />

L'idolatria e l'abuso di questo seme consiste nel fatto che nell'azione di grazia che si<br />

sia maturato, del primo che raccolgono ben macinato e impastato, fanno alcuni<br />

piccoli idoli con del fango, dall'aspetto umano e della dimensione più o meno di un<br />

palmo e li ricoprono con quell'impasto [di semi], e per il giorno che li preparano<br />

hanno preparato molto del loro vino, che è il <strong>pulque</strong>, ed essendo gli idoli preparati, e<br />

conosciuti [sic, conocidos, in realtà cocidos, cotti] li mettono nei loro oratori [altari],<br />

come se collocassero qualche immagine e vi pongono candele, incensi e profumi e<br />

ofrono fra i loro mazzolini [di fori] del vino preparato per la dedica nei bicchieri e<br />

nei piccoli tecomate [specie di vaso semisferico a bocca larga, di argilla o ricavato da<br />

una zucca] e che hanno per queste azioni superstiziose, come riportai più sopra<br />

(cap. III, 5) e che custodiscono con gran cura, e se no in altri scelti per questo scopo<br />

riunendosi tutti quelli di quella faziosità e convitati per questa azione di grazie al<br />

Demonio, si siedono tutti in cerchio: posti i tecomate e mazzolini di fronte agli idoli,<br />

con grande plauso inizia in suo onore e lode, e il Demonio, che tutto è uno, il canto,<br />

o musica del Teponaztli, accompagnando questa musica col canto degli anziani<br />

secondo il costume, e in seguito arrivano i padroni dell'oferta e i capi della festa in<br />

segnale di sacrifcio spargono di quel vino, che avevano preso dai tecomate, o tutto o<br />

parte di quello davanti agli idoli di Huatli: chiamano quest'azione Tlatotoiahua, che<br />

è azione di spargimento, e poi iniziano a bere tutto ciò che è rimasto nei tecomate,<br />

come prima cosa, e poi bevono dalle pentole di <strong>pulque</strong> sino a terminarle e da ciò<br />

seguono tutte le cose che sono solite accadere nelle ubriachezze; e i proprietari dei<br />

piccoli idoli li custodivano con attenzione sino al giorno seguente afnché tutti i<br />

partecipanti alla festa se li mangino a pezzetti come fossero <strong>delle</strong> reliquie” (De la<br />

Serna, 1661, Cap. XV, 2).<br />

51


Non sono mancate durante i tempi coloniali, così come in quelli moderni, forme<br />

sincretiche fra le antiche credenze e i culti cristiani nei riguardi <strong>delle</strong> pratiche, della mitologia<br />

e della flosofa associata all'uso del <strong>pulque</strong>. Durante la preparazione del <strong>pulque</strong><br />

ancora al giorno d'oggi sono praticati alcuni riti, ora cristianizzati: prima di iniziare il<br />

lavoro i partecipanti si fanno il segno della croce davanti all’altare del tinacal e la persona<br />

che dirige i lavori esclama a voce alta “Ave Maria Purissima!”, mentre gli altri rispondono<br />

“Senza peccato concepita!”. Vi sono casi i cui queste esclamazioni sono fatte con una certa<br />

modulazione della voce, a mo' di canto (Guerrero, 1985: 59). Fra i Totonachi dei tempi<br />

coloniali e moderni ha un culto importante San Giovanni Battista, chiamato familiarmente<br />

San Juanito; egli è considerato un grande bevitore di <strong>pulque</strong>, e anche Gesù è<br />

considerato un gran bevitore di questa bevanda (ibid., :52). Presso gli Otomi attuali il<br />

<strong>pulque</strong> è chiamato juaseí, da jua, “dio” e sei, “vino”, da cui “bevanda divina”, oppure è<br />

chiamato semplicemente seí, mentre le <strong>pulque</strong>rie sono chiamate seingú, da sei, “vino”, ngu,<br />

“casa” (ibid., :25).<br />

Oggigiorno le grande aziende magueyere e <strong>pulque</strong>re sono concentrate per lo più negli<br />

stati del México, Tlaxcala e Hidalgo e il <strong>pulque</strong> è considerata una bevanda volgare, usata<br />

dal popolino. Ma fno al secolo XIX fu bevanda gustata anche dalle classi abbienti e dagli<br />

spagnoli. Si ha notizia che l'imperatore Massimiliano, quando ancora sul trono del<br />

pericolante Regno del Messico, partecipò a un banchetto che gli fu oferto e dove il<br />

<strong>pulque</strong> era la bevanda principale (Guerrero, 1985: 110).<br />

52


APPENDICE I<br />

Mito d’origine del maguey<br />

<strong>Il</strong> seguente mito d’origine della pianta del maguey, di stampo tezcocoano, è riportato in<br />

forma poetica nell’Histoire du Mechique, opera di un anonimo autore del XVI secolo,<br />

trascritta in francese nel 1543 da Andrés Tevet (manoscritto n. 19031 della BibliotecaNazionale<br />

di Parigi). Secondo Garibay (1985: 16) l'opera originaria fu probabilmente<br />

scritta da fray Andrés de Olmos. Una versione approssimata del mito dell'origine del<br />

maguey è stata riportata da Castellon (1987: 154-5).<br />

<strong>Il</strong> racconto è inscritto in un mito cosmogonico nahua, ambientato ai primordi<br />

dell’esistenza umana e si estende fra i passi 129 e 143 dell'Histoire du Mechique. Meyahuel<br />

è Mayáhuel, dea azteca del maguey e ancor prima personaggio femminile protagonista<br />

nell'etnostoria e nella mitologia mexica della scoperta della perforazione della pianta del<br />

maguey, processo basilare per la preparazione del <strong>pulque</strong> (si veda “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi<br />

preispanici”).<br />

129. Fatto tutto questo [la creazione dell'uomo] ed avendolo gradito gli dei,<br />

questi dissero fra di loro:<br />

130. “Ma qui l'uomo sarà triste, se non gli facciamo noi qualcosa per<br />

rallegrarlo e afnché prenda gusto nel vivere sulla terra e che ci lodi e canti e<br />

danzi”.<br />

131. Udito ciò da Ehécatl, il dio dell'aria, questi nel suo cuore pensava dove<br />

avrebbe potuto trovare un liquore da dare all'uomo per renderlo allegro.<br />

132. Nel pensare a ciò, gli venne in mente una dea vergine chiamata<br />

Meyahuel e si recò quindi dov'ella risiedeva insieme ad altre dee, che in quel<br />

momento stavano dormendo.<br />

136. E svegliò la vergine e le disse:<br />

136. Che era sorvegliata da una dea, sua nonna, che si chiamava Cicimitl: 19<br />

“Vengo a cercarti per portarti sulla terra”.<br />

137. Essa acconsentì e così scesero entrambi ed egli nella discesa se la caricò<br />

sulle spalle.<br />

53


138. E come giunsero sulla terra si trasformarono entrambi in un albero che<br />

aveva due rami, di cui uno si chiama Quetzalhuexotl, 20 che era quello di<br />

Ehécatl, e l'altro Xochicuahuitl, 21 che era quello della vergine.<br />

139. Nel frattempo, sua nonna dormiva. Quando si svegliò e non trovò sua<br />

nipote, chiamò le altre dee che si chiamano Cicime. 22<br />

140. E scesero tutte sulla terra a cercare Ehécatl e per questo motivo i rami si<br />

disgiunsero l'uno dall'altro. 23<br />

141. E quello della vergine fu riconosciuto dalla vecchia dea, che lo prese e,<br />

rompendolo, ne diede un pezzo a ciascuna <strong>delle</strong> altre dee, che lo<br />

mangiarono.<br />

142. Ma il ramo di Ehécatl non lo ruppero, bensì lo lasciarono lì dov'era.<br />

Dopo che le dee furono tornate in cielo, Ehécatl riprese la sua forma<br />

originaria, riunì le ossa della vergine, le interrò e da lì sorse un albero che<br />

chiamano metl.<br />

143. Da questo gli indios fanno il vino che bevono e con il quale si<br />

ubriacano, sebbene non è a causa del vino, bensì per via di alcune radici che<br />

chiamano ucpatli 24 ch'essi mescolano con quello (Garibay, 1985: 106-107).<br />

54


APPENDICE II<br />

La leggenda di Xóchitl<br />

Questa leggenda è di origine tolteca e viene ancora tramandata nello stato messicano di<br />

Hidalgo. E' ambientata nelle ultime fasi del regno di Tula. Nella versione di Manuel Rivera<br />

Cambas il fglio della bella Xóchitl è chiamato Meconetzin, che in lingua nahuatl signifca<br />

“fglio del maguey”, o meglio “signor ragazzo del maguey”; 25 è chiamato anche Ce Acatl<br />

Topiltzin Quetzacóatl (“Uno Canna, Nostro Signor Quetzacóatl”), e fu l'ultimo sovrano<br />

del regno di Tula. Tecpancaltzin fu il penultimo re, che governò nel periodo 990-1042<br />

d.C. All'interno di questa leggenda è possibile intravedere un mito <strong>delle</strong> origini del<br />

<strong>pulque</strong>, contestualizzato in un racconto etno-storico della fase fnale del regno di Tula.<br />

Versione di Mariano D. Veytia (1718-1780?)<br />

(riportata da Ángel María K. Garibay, in Sahagún, 1985, pp. 980-981)<br />

Tecpantcaltzin, ottavo re dei Toltechi, un giorno ricevette un regalo da<br />

parte di Papantzin, che era uno dei principali cavalieri della sua corte,<br />

consistente in una giara di <strong>pulque</strong>, la cui elaborazione con aguamiel aveva<br />

appena terminato di inventare una sua fglia chiamata Xóchitl; questa era la<br />

portatrice dell'ossequio ed era una giovane di straordinaria bellezza.<br />

Al re piacque molto la bevanda, ma piacque molto di più la ragazza che la<br />

portava e alla quale diede l'incarico di ripetere l'ossequio appena avesse<br />

potuto.<br />

Fatto questo, in una <strong>delle</strong> occasioni in cui gli si presentò, avvalendosi della<br />

sua autorità il re sedusse la ragazza, la fece rinchiudere nel suo palazzo<br />

trattandola segretamente con gran riguardo, ed ebbe da ella un fglio che fu<br />

chiamato Topiltzin.<br />

Dopo la morte della regina legittima, il re si sposò con Xóchitl e ne<br />

legittimò la prole; ma il popolo non volle riconoscere Topiltzin come vero<br />

55


successore al trono, e a ciò si oppose Huehuetzin, parente immediato del re<br />

colluso con i signori di Xalisco; questi dichiararono al re una guerra così<br />

crudele che durò tre anni e due mesi e vi perirono da una parte e dall'altra<br />

cinque milioni e duecento mila persone; con questa guerra terminò la<br />

monarchia tolteca, dopo essere esistita 397 anni e alla quale seguì quella di<br />

Aculhua, di cui fu fondatore il grande padre Xolotl.<br />

Xóchitl morì con gloria sul campo battendosi con i suoi nemici a capo di<br />

un corpo di signore che la accompagnavano; suo marito si nascose nella<br />

grotta di Xico, nei dintorni di Amecamecan, per salvare la sua vita.<br />

Versione di Manuel Rivera Cambas (1976)<br />

(riportato in forma riassunta da Raúl Guerrero, 1985, pp. 111-3)<br />

Un nobile chiamato Papantzin, dedito alla coltivazione del maguey, riuscì<br />

ad ottenere miele con il succo di questa pianta. Volle ossequiare con questa<br />

scoperta il re Tecpancaltzin ed essendosi recato a Tula accompagnato dalla<br />

sua sposa e da sua fglia unica chiamata Xóchitl, fu accolto benevolmente. <strong>Il</strong><br />

re elogiò il nobile e gli ofrì come ricompensa la signoria di alcuni villaggi,<br />

incaricandolo di inviargli nuovi regali per il tramite di Xóchitl.<br />

Soddisfatto e pieno di vanità, Papantzin tornò alle sue terre, deciso a<br />

perfezionare quella nuova industria, senza sospettare che l’entusiasmo del re<br />

per la scoperta non era stato sincero; infatti era la bellezza di Xóchitl ad aver<br />

causato al monarca una profonda impressione e, nel percepire ciò, la giovane<br />

era arrossita, aumentando in tal modo il suo fascino agli occhi del re.<br />

<strong>Il</strong> monarca lottava dentro di se fra i suoi doveri di sovrano e le inclinazioni<br />

di una passione così repentina quanto violenta; una passione che gli fece<br />

dimenticare il decoro del trono, la purezza dei costumi, la pace e anche<br />

l’esistenza medesima del regno.<br />

Papantzin continuava ad elaborare nuove paste dolci e giunse infne ad<br />

inventare il <strong>pulque</strong>. La bella Xóchitl portò un recipiente pieno di questo<br />

liquore bianco a Tula, accompagnata dai suoi domestici e dalla sua nutrice<br />

Tepenénetl; la giovane arringò il re, con accento turbato, nel presentargli il<br />

regalo ed ella medesima versò il liquore che gustò tutta la corte. <strong>Il</strong> re elogiò<br />

la ricchezza del <strong>pulque</strong>, l’intelligenza dell’in-ventore e la bellezza della<br />

giovane ambasciatrice. Allontanò la nutrice e i domestici, facendoli portatori<br />

56


di nuovi regali e onori, e questi furono incaricati di dire al padre della<br />

giovane ch’ella si era fermata nel palazzo per essere educata da signore<br />

illustri, come corrispondeva al suo rango e al suo merito e a compimento<br />

della promessa che aveva fatto a Papatzin nel primo incontro.<br />

Chi avrebbe potuto opporsi alla determinazione del re! Sommersi<br />

Papatzin e la sua sposa da terribili dubbi e da grandi remore, ricevevano<br />

messaggi del re dove venivano avvisati che Xóchitl si manteneva in buona<br />

salute e contenta; ogni messag-gio era accompagnato da preziosi regali di<br />

tela, gioielli e metalli lavorati ad arte.<br />

Chiamata la nutrice accanto alla bella giovane, entrambe furono trasferite<br />

in una notte oscura in un palazzo eretto in cima al monte vicino al paesino<br />

di Palpan; il re mise <strong>delle</strong> guardie afnché nessuno, ad eccezione di se<br />

medesimo, potesse entrare o uscire o avvicinarvisi. Dopo nove mesi nacque<br />

un bambino chiamato Meconetzin, “frutto del maguey”, fu dato alla luce da<br />

Xóchitl.<br />

Papantzin cercava nel frattempo di scoprire la dimora di sua fglia, poiché<br />

il re si limitava a comunicargli che era in salute e stava proseguendo la sua<br />

educazione; seppe casualmente che sua fglia viveva nel palazzo di Palpan e<br />

avvertito che a nessuno era permesso di entrare, si mascherò da contadino, si<br />

dipinse e si sfgurò il viso e fngendosi zoppo, fu a ofrire fori al villaggio<br />

vicino; fece quindi conoscenza con uno dei giardinieri reali e questo lo fece<br />

entrare. Lì vide sua fglia, vicino alla fonte, che teneva un bambino fra le<br />

braccia; si avvicinò, si scoprì ed ella riferì dell’oltraggio di cui era stata<br />

vittima.<br />

<strong>Il</strong> padre dissimulò; risolse che si sarebbe presentato di fronte al monarca e<br />

gli avrebbe parlato con franchezza. Così fece ed esigette che il re si sposasse<br />

con Xóchitl; insultato e svergognato, il monarca negò di sposarsi, ma<br />

promise che avrebbe dichiarato Meconetzin erede della corona.<br />

Tecpancaltzin (così si chiamava il monarca) aveva diverse fglie e una di<br />

queste si innamorò di un plebeo o macehual, che vendeva peperoni verdi in<br />

un mercato vicino al palazzo. Tobueyo 26 era il fortunato ragazzo, su cui aveva<br />

fssato la sua pas-sione la principessa, al punto di ammalarsi. Tecpancaltzin<br />

ordinò che gli condu-cessero davanti a lui l’ignaro ladro di quel cuore, e gli<br />

chiese:<br />

- Chi sei e da dove vieni?<br />

- Sono un contadino e vengo a vendere peperoni verdi. Che mi castighino<br />

57


gli dei e mi faccia morire sua Altezza. Non sono altro che un infelice che si<br />

procaccia da vivere vendendo povera mercanzia.<br />

Quel macehual si sposò con la principessa, con grande disgusto dei nobili,<br />

i quali esigettero che fosse messo a capo dell’esercito, sperando in tal modo<br />

ch'egli morisse in battaglia; ma egli se ne rese conto e nel primo<br />

combattimento si fnse abilmente morto.<br />

Meconetzin, il fglio bastardo, fu allora proclamato erede al trono di Tula<br />

con il nome di Topiltzin il Giustiziere. Egli agli inizi governò bene, ma poi si<br />

diede a una vita dissoluta, presagendo la vicina caduta del Regno di Tula.<br />

58


APPENDICE III<br />

L'ubriachezza di Quetzalcóatl<br />

<strong>Il</strong> motivo dell'ubriachezza di Quetzalcóatl con la bevanda inebriante del <strong>pulque</strong> è inserito<br />

all'interno del racconto etno-storico del regno di Tula, cuore della società tolteca. Fra la<br />

cinquantina di passi dei cronisti antichi che riferiscono di Quetzalcóatl di Tula, il tema<br />

dell'ubriachezza ci è giunto in forma estesa in due versioni: una nell'opera di Sahagún<br />

redatta nel periodo 1547-1577 e l'altra negli Annali di Cuauhtitlan, opera di un autore<br />

anonimo inserito all'interno del Codice Chimalpopoca, datato attorno al 1570. In questo<br />

racconto Quetzalcóatl è un principe sacerdote che governa sui Toltechi nella capitale<br />

Tula. 27 Figlio di Totepeuh e Chimalman, egli è chiamato anche Topiltzin o Ce Acatl<br />

Quetzalcóatl. Nel racconto etnostorico Quetzalcóatl si inimica una parte del prelato,<br />

rappresentato da tre “negromanti”, poich'egli non intende fare sacrifci umani. I tre<br />

personaggi, di cui uno si chiama Titlacahuan ed è una personifcazione di Tezcatlipoca,<br />

con uno stratagemma lo fanno ubriacare con del <strong>pulque</strong>, fno a ch'egli non perde le stafe<br />

e si abbandona all'allegrezza della sbornia, coinvolgendovi anche sua sorella, sacerdotessa<br />

di un tempio di Tula. Svergognato dal comportamento inappropriato ad un principesacerdote,<br />

Quetzalcóatl abbandona la città e si dirige verso la riva del mare, raggiunta la<br />

quale egli prende fuoco (si “auto-crema”) e si trasforma nella stella del mattino. <strong>Il</strong> mito<br />

termina con il presagio che un giorno egli sarebbe tornato dal mare. Nel primissimo<br />

impatto con gli Spagnoli <strong>delle</strong> <strong>popolazioni</strong> rivierasche del Messico orientale, queste<br />

interpretarono i nuovi venuti con sifatti vascelli come il ritorno di Quetzalcóatl.<br />

Versione di fray Bernardino Sahagún<br />

(riportata nella Historia General de las Cosas de Nueva España, Libro III, Capitolo IV, 1-9, versione<br />

a cura di Ángel María Garibay, 1985, pp. 196-197, qui tradotta dallo spagnolo)<br />

1. - Venne il tempo che terminò la fortuna di Quetzalcóatl e dei Toltechi. Gli<br />

si misero contro tre negromanti, chiamati Huitzilopochtli, Titlacauan e<br />

Tlacauepan, che fecero molti imbrogli a Tulla [Tula].<br />

59


2. - E Titlacauan iniziò per primo a fare un imbroglio, trasformandosi in un<br />

vecchio molto canuto e basso e recandosi a casa del suddetto Quetzalcóatl<br />

dicendo ai paggi del detto Quetzalcóatl: “Voglio vedere e parlare al re<br />

Quetzalcóatl”. E gli fu risposto: “Vattene vecchio, che non lo puoi vedere<br />

perché è malato e lo irriteresti e gli daresti pena”.<br />

3. - <strong>Il</strong> vecchio allora disse: “Io devo vederlo. E gli dissero i paggi del detto<br />

Quetzal-cóatl: “Attendi, che glielo andiamo a dire”. Così andarono a dire al<br />

detto Quetzalcóatl di come era venuto un vecchio a parlare loro, dicendo:<br />

“Signore, un vecchio è venuto qui domandando di vedervi e parlarvi, e<br />

avendolo cacciato via, egli non se ne è andato, dicendo che vi deve vedere<br />

per forza”. E disse il detto Quetzalcóatl: “Che entri e venga qui, che lo sto<br />

attendendo da molti giorni”.<br />

4. - E quindi chiamarono il vecchio, e questi entrò dove stava il detto<br />

Quetzalcóatl, ed entrando il vecchio disse: “Signor fglio, come state, ho qui<br />

una medicina perché la beviate”. E disse il detto Quetzalcóatl rispondendo al<br />

vecchio: “Vieni con felicità mia, vecchio, che è da molti giorni che ti<br />

aspettavo”.<br />

5. - E disse il vecchio al detto Quetzalcóatl: “Signore, come state di corpo e di<br />

salute?”. E rispose il detto Quetzalcóatl dicendo al vecchio: “Sono molto<br />

maldisposto e mi duole tutto il corpo e non posso muovere mani e piedi”. E<br />

il vecchio disse rispondendo al detto Quetzalcóatl: “Signore, vedete la<br />

medicina che vi porto; è molto buona e salutare, e ubriaca chi la beve; se la<br />

volete bere vi ubriacherà e vi sanerà e vi addolcirà il cuore e vi accorderà dei<br />

lavori e <strong>delle</strong> fatiche e della morte, o della vostra andata”.<br />

6. - E rispose il detto Quetzalcóatl dicendo: “Oh vecchio! Dove devo<br />

andare?”. E gli disse il detto vecchio: “Per forza dovete andare a<br />

Tullantlapan, 28 dove sta un altro vecchio che vi attende, egli e voi parlerete,<br />

fra di voi, e dopo il vostro ritorno sarete come giovane e tornerete<br />

nuovamente come ragazzo”.<br />

7. - E al detto Quetzalcóatl, udendo queste parole, si mosse il cuore; e<br />

continuò a dire il vecchio al detto Quetzalcóatl: “Signore, bevete questa<br />

medicina”. E gli rispose il detto Quetzalcóatl dicendo: “Oh vecchio, non<br />

voglio bere”. E gli rispose il vecchio dicendo: “Signore, bevetela, poiché se<br />

non la bevete dopo ve ne verrà voglia; per lo meno ponetevela sulla fronte, e<br />

bevetene solo un poco”.<br />

8. - E il detto Quetzalcóatl l'assaggiò e la provò, e dopo averla bevuta disse:<br />

60


“Cos'è questo? Sembra essere cosa molto buona e gustosa; già mi ha guarito<br />

e il malanno se ne è andato, già sono sano”. E una volta di più il vecchio<br />

disse: “Signore, bevetela un'altra volta perché è molto buona la medicina e<br />

starete più sano”.<br />

9. - E il detto Quetzalcóatl bevve un'altra volta, per cui si ubriacò e si mise a<br />

piangere tristemente e gli si mosse e raddolcì il cuore per doversene andare,<br />

e non smise di pensare a quello che aveva fatto per via dell'inganno e della<br />

burla che gli aveva fatto il detto vecchio negromante; e la medicina che<br />

bevette il detto Quetzalcóatl era vino bianco della terra, fatto con maguey<br />

che si chiamano teómetl.<br />

Nel corso della peregrinazione verso il luogo chiamato Tlapallan, accade<br />

nuovamen-te che Quetzalcóatl si ubriaca con il <strong>pulque</strong>:<br />

( Libro III, Capitolo XIII, 7-9)<br />

7. - E il detto Quetzalcóatl camminando giunse in un altro luogo che si<br />

chiama Cochtocan e arrivò un altro negromante che si imbatté con lui<br />

dicendo: “Dove anda-te?”. E il detto Quetzalcóatl disse: “Sto andando a<br />

Tlapallan”. E il detto negromante disse al detto Quetzalcóatl: “Andate con<br />

fortuna; bevete questo vino che porto”. E disse il detto Quetzalcóatl: “Non lo<br />

posso bere, nemmeno assaggiare un poco”.<br />

8. - E il negromante gli disse: “Lo dovete bere per forza, o assaggiare un<br />

poco, poiché a nessuno fra i vivi permetto di dare o far bere questo vino;<br />

ubriaco tutti. Dai, bevetelo dunque!”<br />

9. - E il detto Quetzalcóatl prese il vino e lo bevve con una cannuccia, e<br />

bevendolo si ubriacò e si addormentò sulla strada e si mise a russare, e<br />

quando si svegliò, guardando da un lato e dall'altro, scrollò (scosse) i capelli<br />

con la mano, e quindi il detto luogo fu chiamato Cochtocan.<br />

Versione degli Annali di Cuauhtitlan (Codice Chimalpopoca)<br />

(E' riportata nei fogli 6 e 7 di questo manoscritto redatto in lingua nahuatl attorno al 1570,<br />

conservato presso il Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico. Qui viene data una<br />

traduzione italiana ricavata dalle traduzioni in spagnolo di Garibay, 1974, pp. 29-32, e in inglese di<br />

Bierhorst, 1992, pp. 33-6)<br />

61


(6:13) Quindi [i maghi] andarono a Xonocapacoyan [luogo-dove-si-lavanole-cipolle],<br />

e si fecero ospitare a casa di un contadino di nome Maxtla<br />

[Maxtlaton]; era il guardiano di Toltecatepec [il monte dei Toltechi].<br />

Poi cucinarono legumi, pomodori, peperoncini, pannocchie tenere di mais e<br />

teneri baccelli di fagioli. Fu fatto questo per alcuni giorni.<br />

(6:16) E visto che li c'erano <strong>delle</strong> piante di maguey, le chiesero a Maxtla. In<br />

soli quattro giorni prepararono il liquore di maguey e lo rafnarono. Essi<br />

medesimi avevano scoperto alcune olle di miele silvestre e con questo<br />

mescolarono il liquore. 29<br />

(6:20) Quindi si recarono alla casa di Quetzalcóatl a Tula. Si portarono tutto<br />

ciò che avevano preparato: i legumi, il peperoncino e tutto il resto. Portarono<br />

anche il liquore. Quando giunsero, cercarono di parlare con il re, ma le<br />

guardie di Quetzal-cóatl non lo consentirono: non li fecero entrare. Per due<br />

e per tre volte li respinsero: non furono ammessi. Alla fne fu loro chiesto da<br />

dove venivano.<br />

(6:24) Essi risposero dicendo: “Veniamo dal monte dei sacerdoti, là dal<br />

monte dei Toltechi.”<br />

(6:25) Quetzalcóatl udì ciò e disse: “Fateli entrare.”<br />

(6:26) Entrarono, lo salutarono e gli ofrirono i legumi e il resto. Quando<br />

terminò di mangiarli gli pregarono e gli ofrirono il liquore di maguey.<br />

(6:28) Ma egli disse: “No di certo: questo non lo berrò. Sono un uomo<br />

astinente. Questo forse è inebriante. Questo forse è mortifero”<br />

(6:29) Essi dissero: “Provalo almeno con il dito. E' efcace, è recente.” 30<br />

(6:30) Quetzalcóatl lo provò col dito e gli piacque e disse: “Berrò, vecchio<br />

mio, ne berrò per tre volte.” E i maghi gli dissero: “Ne berrai anche quattro.”<br />

E glie ne diedero fno a cinque. Poi dissero al re: “E' la tua oferta verso gli<br />

dei.”<br />

(6:33) E quando egli ebbe bevuto, lo diedero da bere ai suoi vassalli: a<br />

ciascuno cinque misure.<br />

(6:35) E le bevvero e si ubriacarono totalmente. E poi i maghi dissero a<br />

Quetzalcóatl: “Principe, per favore canta! Qui c'è il canto che devi intonare.”<br />

E il mago Ihuimécatl [Nastro-di-Piuma] gli dettava il canto:<br />

(6:38) “Questa mia casa di piume, questa mia casa di piume di verde quetzal,<br />

questa casa di piume nere e gialle dorate di zacuan, questa casa di conchiglia<br />

rossa,<br />

io la devo lasciare, ai, ai, ai!”<br />

62


(6:39) E quando già era ben allegro, disse: “Andate a prendere Quetzalpétlat<br />

[Preziosa Stuoia], mia sorella, continueremo a bere insieme a lei fno<br />

all'ubriachezza!”<br />

(6:41) I servitori si recarono sul monte di Nonoalco [Vecchie Abitazioni],<br />

dove ella stava consacrata al culto dei suoi dei. Le dissero: “Principessa,<br />

nobile signora, Quetzalpétlat, Penitente, siamo venuti a prenderti: ti chiama<br />

il sacerdote Quetzal-cóatl. Devi stare accanto a lui”.<br />

(6:44) Ed ella disse: “Va bene, venerabile paggio, andiamo”. E quando giunse,<br />

si sedette accanto a Quetzalcóatl. Poi le servirono il liquore. Furono versati<br />

per lei quattro misure e in più la quinta. 5<br />

(6:47) Così Ihuimécatl e il Tolteca la ubriacarono. E così cantarono alla<br />

sorella di Quetzalcóatl:<br />

(6:49) “Sorella mia, dove vai tu, o Quetzalpétlat: beviamo, ai, ai, ai”.<br />

(6:50) E quando ebbero bevuto, non dissero più: siamo gente di astinenza.<br />

Non scesero più al bagno rituale nel fume; non si punsero più con le spine; 31<br />

e non fecero nulla quando spunta l'aurora.<br />

(6:53) E quando venne l'aurora del nuovo giorno, si sentirono pieni di<br />

tristezza, i loro cuori erano amareggiati. Disse allora Quetzalcóatl: “Ai,<br />

sventurato me!” E dominato dalla tristezza da dentro di se lasciò uscire<br />

questo canto:<br />

(7:1) “Già non importa la mia sorte nella mia mansione. Qui devo<br />

andarmene. E come qui? Qui, si e ancora io canto, sebbene il mio corpo<br />

terreno fu fatto. Afanno e dolore sono la mia eredità! Mai, già, mai<br />

recupererò la mia vita!” 32<br />

(7:3) E cantò anche quest'altro canto:<br />

(7:4) “Qui mi sosteneva mia madre, quella con la gonna di serpenti; 33 io ero<br />

suo fglio, ma ora non faccio altro che piangere”.<br />

(7:5) E quando terminò il suo canto, i suoi vassalli erano pieni di tristezza e<br />

si misero a piangere. E anch'essi si misero a cantare questo canto:<br />

(7:8) “Egli ci aveva arricchito nella dolce prosperità: era il nostro signore, il<br />

grande Quetzalcóatl, che risplendeva come una giada. Rotti sono i legni, la<br />

sua casa di penitenza. Potremmo vederlo. Lasciateci piangere”. 34<br />

(7:11) E quando terminarono i loro canti i vassalli Quetzalcóatl disse loro:<br />

“Vecchi e servi miei: lascio la città; intraprendo il mio cammino. Date ordine<br />

che mi preparino una cassa di pietra”.<br />

(7:14) E in tutta velocità essi fecero la cassa di pietra. Quando fu terminata,<br />

63


vi distesero Quetzalcóatl.<br />

(7:16) Ed egli stette quattro giorni in quel cofano di pietra. Recuperò la sua<br />

salute e si alzò il quarto giorno. 35<br />

Disse quindi: “Vecchi miei, miei servitori: andiamo. Chiudete tutto,<br />

nascondete tutto ciò che abbiamo scoperto: era ricchezza, era allegria, era<br />

tutto il nostro bene e i nostri beni!” Questo fecero i servi. Occultarono tutto<br />

dove era il bagno di Quetzalcóatl. Luogo che si chiama oggi Sponda<br />

dell'Acqua, luogo del muschio acquatico [Atecpan, Amoxco].<br />

64


APPENDICE IV<br />

La classifcazione dei maguey di Francisco Hernández<br />

Francisco Hernández fu il botanico e proto-medico che negli anni '70 del 1500, per<br />

volontà del re di Spagna Filippo II, diresse una spedizione scientifca nei nuovi territori<br />

americani conquistati dagli Spagnoli; fu autore di un'importante opera di classifcazione<br />

<strong>delle</strong> piante e degli animali della Nueva España. Di seguito viene fornita la traduzione<br />

italiana della parte che tratta <strong>delle</strong> piante di Agave o maguey, da diverse <strong>delle</strong> quali i<br />

messicani ricavano bevande inebrianti, in particolare il <strong>pulque</strong>. La seguente traduzione è<br />

stata svolta sull'edizione: Francisco Hernández, 1959 (1571-6), Historia natural de Nueva<br />

España, 2 voll., Universidad Nacional de México, México D.F. (vol. 1, pp. 348-354)<br />

Libro VIII, Capitolo LXXI<br />

Del METL o maguey<br />

Getta fuori il METL una radice grossa, corta e fbrosa,<br />

foglie come quelle dell'aloe ma molto più grandi e più<br />

grosse, in quanto a volte hanno la longitudine simile a<br />

quella di un albero medio, con spine da entrambi i loro<br />

lati e terminate in una punta dura e acuta; stelo tre volte<br />

più grande e alla sua estremità fori gialli, oblunghi,<br />

stellati nella loro parte superiore, e più tardi seme molto<br />

simile a quello dell'asfodelo. Sono quasi innumerevoli gli<br />

usi di questa pianta. Tutta intera serve come legna e per<br />

recintare i campi; i suoi steli sono utilizzati come legno;<br />

le sue foglie per coprire i tetti, come tegole, come piatti o<br />

vassoi, per fare papiro, per fare flo con cui si fabbrica<br />

65


calzatura, tele e tutti i tipi di vestiti che da noi si è soliti fare di lino, canapa, cotone o<br />

materiale simile. Dalle punte si fanno chiodi e spine, con le quali gli indios erano soliti<br />

perforarsi le orecchie per mortifcare il corpo quando rendevano culto ai demoni; fanno<br />

anche spilli, aghi, triboli da guerra e rastrelli per cardare la trama <strong>delle</strong> tele. Dal succo che<br />

fuoriesce e che distilla nella cavità centrale [ottenuta] tagliando i germogli interni o foglie<br />

più tenere con coltelli di iztli (e del quale a volte una sola pianta produce cinquanta<br />

anfore), producono vini, miele, aceto e zucchero; questo succo provoca le regole, calma il<br />

ventre, provoca l'urina, pulisce i reni e la vescica, rompe i calcoli e lava le vie urinarie.<br />

Anche dalla radice fabbricano corde molto resistenti e utili per molte cose. Le parti più<br />

grosse <strong>delle</strong> foglie così come il tronco, cucinate sotto terra (modo di cucinare che i<br />

chichimechi chiamano barbacoa), sono buone da mangiare e sanno di cedro condito con<br />

zucchero; chiudono inoltre in modo ammirevole le ferite recenti, poiché il suo succo,<br />

freddo e umido, diventa glutinoso quando viene arrostito. Le foglie arrostite e applicate<br />

curano la convulsione e calmano i dolori, anche quelli che provengono dalla peste<br />

indiana, soprattutto se si beve il medesimo succo caldo; diminuiscono la sensibilità e<br />

producono sopore. Mediante distillazione si fa più dolce il succo e mediante cottura più<br />

dolce e più denso, sino a che si condensa in zucchero. Si semina questa pianta mediante<br />

germogli, che spuntano attorno alla pianta madre, in qualunque suolo, ma<br />

principalmente in quello fertile e freddo. Questa pianta da sola potrebbe facilmente<br />

procurare tutto il necessario per una vita frugale e semplice, poiché non viene<br />

danneggiata dai temporali né dai rigori del clima, né la siccità l'appassisce. Non v'è cosa<br />

che dia maggior rendimento. Si fa vino dal medesimo succo diluito con acqua e<br />

aggiungendovi cortecce di cedro e di limone, quapatli e altre cose per ubriacare<br />

maggiormente, al quale questa gente è in particolar modo afezionata, come se fosse<br />

stanca della sua natura razionale e invidiasse la condizione <strong>delle</strong> bestie e dei quadrupedi.<br />

Dal medesimo succo senza porlo sul fuoco, gettandovi radici di quapatli esposte al sole<br />

per un certo periodo di tempo e schiacciate, e tirandole poi fuori, si fa il chiamato vino<br />

bianco, molto efcace per provocare la urina e pulire i suoi condotti. Dallo zucchero<br />

condensato [ricavato] dal medesimo succo si prepara aceto sciogliendolo in acqua che si<br />

mette al sole poi per nove giorni. Vi sono molte varietà di questa pianta, di cui parleremo<br />

in seguito. Dicono che il succo di metl in cui siano state cotte radici di piltzintecxóchitl e di<br />

matlalxóchitl cura i punti <strong>delle</strong> febbri.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXII<br />

Del MECOZTLI o maguey giallo<br />

E' una specie di metl, ma con i margini <strong>delle</strong> foglie gialle, spine piccole e nere, foglie<br />

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piccole rispetto a quelle del metl precedente, stelo alto due cubiti, largo un dito e di color<br />

rosso, con fore nell'estremità rosso e giallo, e radice ramifcata. <strong>Il</strong> succo di tre o quattro<br />

foglie al quale si aggiungono tre peperoni, evacua poco a poco gli umori freddi e crassi<br />

attraverso il condotto inferiore e l'urina; gli indios sono soliti amministrarlo alle donne<br />

alcuni giorni dopo il parto per rinforzarle. <strong>Il</strong> succo spremuto <strong>delle</strong> foglie rosolate dicono<br />

che allieva l'asma. E' di natura fredda e mucillaginosa. Alcuni lo chiamano coztícmetl e<br />

macoztícmetl, e altri hoéimetl, che signifca di grande utilità. Nasce in luoghi campestri del<br />

Messico in qualunque stagione, sebbene forisca solamente in estate. Si semina mediante<br />

germogli che spuntano vicino alla pianta madre.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXIII<br />

Del TLACÁMETL o maguey grande<br />

E' una specie di metl quasi della medesima forma e proprietà degli altri e con i medesimi<br />

usi; ma specialmente da vigore e forza alle donne deboli o che sofrono troppo. Gli è stato<br />

dato questo nome per la sua dimensione.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXIV<br />

Del MEXCÁLMETL o maguey buono da mangiare arrosto<br />

E' una specie piccola di metl, molto spinosa e di un verde molto vivo, le cui foglie si<br />

mangiano arrosto e sono più saporite <strong>delle</strong> altre. L'ho incontrata nei monti tepoztlanenses.<br />

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Libro VIII, Capitolo LXXV<br />

Del MEXÓCOTL o maguey di prugne<br />

E' una pianta spinosa e che appartiene anch'essa ai generi di metl, ma con frutto dolce e<br />

acido, numeroso e simile a prugne, da dove viene il suo nome, e raggruppato in una sfera<br />

che assomiglia fno a un certo punto a una pigna <strong>delle</strong> Indie; è della dimensione che<br />

abbiamo disegnato e a volte più grande, ed è pieno di succo commestibile e di sapore<br />

gradevole. Le foglie sono come di metl, o meglio come di pigna <strong>delle</strong> Indie, spinose, fulve,<br />

e come appassite. La radice è fbrosa e spessa, il fusto corto, cilindrico e spesso; i frutti<br />

sono oblunghi, brillanti, simili a ghiande, bianchi con giallo e coperti di una membrana<br />

dentro alla quale è contenuta una polpa molto bianca e, come abbiamo detto, dolce e<br />

acida, di una sapore come di pigna <strong>delle</strong> Indie e piena di semi bianchi inizialmente e poi<br />

neri, rotondeggianti e un po' duri. <strong>Il</strong> suo temperamento è freddo e secco. <strong>Il</strong> frutto<br />

masticato e conservato in bocca cura le ulcere della stessa che originano dal calore. Nasce<br />

sulle rocce <strong>delle</strong> regioni calde di Tepecuacuilco.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXVI<br />

Del TEPEMEXCALLIN o maguey del monte<br />

Ha l'aspetto del metl, ma con spine esili. Schiacciato e mangiato o spalmato, cura le<br />

articolazioni private di movimento a causa <strong>delle</strong> convulsioni dei nervi. E' caratteristico dei<br />

luoghi montuosi e rocciosi di regioni calde, come è la tepoztlánica.<br />

68


Libro VIII, Capitolo LXXVII<br />

Del TEÓMETL o maguey divino<br />

E' una specie di maguey che si deve includere fra le altre che qui si descrivono, quasi del<br />

medesimo aspetto e proprietà, con radice lunga e fbrosa e spine esili; le foglie sono<br />

lunghe solo due palmi. <strong>Il</strong> suo succo bevuto o spalmato toglie la febbre. Nasce in luoghi<br />

freddi o caldi, alti o campestri.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXVIII<br />

Del XOLÓMETL o maguey del servo<br />

E' una specie di metl con radice formata come da tre sferette unite e con fbre rossicce, da<br />

dove spuntano foglie con spine scarlatte, rade e che appaiono a partire della parte media<br />

sino alla punta. <strong>Il</strong> succo spremuto <strong>delle</strong> foglie, preso in quantità di dieci once, risolve i<br />

dolori di tutto il corpo e principalmente <strong>delle</strong> articolazioni, e restituisce il movimento<br />

impedito. Ma durante il tempo in cui si beve, si deve coprire il corpo con molta<br />

attenzione. Nasce in Huexotzinco, lungo le sponde dei fumi.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXIX<br />

Del XOTLACTLI o limpidezza di roccia<br />

E' un albero con foglie simili a quelle del lirio ma più larghe, più spesse, molto aspre e<br />

fnemente seghettate, e fore simile a quello del metl, del quale forse è una specie sebbene<br />

raggiunga la dimensione di un albero; la radice è spessa e si assicura alla terra mediante<br />

69


fbre rosse. Adorna i giardini dei re e dei caudilli, ma non ha, ch'io sappia, alcun altro<br />

utilizzo.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXX<br />

Del PATI o metl dal quale si fanno fli molto fni<br />

Assomiglia al metl, ma con foglie più strette, minori, più<br />

esili, purpuree nella loro parte superiore, e radice fbrosa<br />

e spessa. E' una specie della detta pita; da essa si<br />

fabbricano fli molto fni molto apprezzati e adatti per<br />

tessere tele preziose.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXXI<br />

Del QUETZALICHTLI o maguey simile al quetzalli o alle<br />

piume del quetzaltótotl<br />

Lo QUETZALICHTLI, che altri chiamano metl de pita,<br />

sem-bra appartenere alle specie di metl. Raggiunge<br />

l'altezza di un albero, ha radice spessa, fbrosa e che si<br />

assottiglia gradualmente, e foglie spinose e simili a quelle<br />

del metl. Si fa da questo tutto ciò che si è soliti fare dal<br />

metl, ma con i suoi fli si fabbricano tele più delicate e tenute in maggior stima. Nasce in<br />

luoghi caldi di Quauhquechulla e Mecatlan.<br />

Libro VIII, Capitolo LXXXII<br />

Del NEQUÁMETL o bevitore di miele<br />

E' una specie di metl simile nelle proprietà alle sue congeneri. Lo stelo e il frutto hanno un<br />

aspetto singolare; lo stelo ha lo spessore di un braccio, e nella punta, coprendolo da tutte<br />

le parti, v'è il frutto, oblungo, con forma di piccole pere; le foglie sono spesse poco più di<br />

un dito, aspre nei lati e con punta molto acuta. Nasce in luoghi caldi, come sono i<br />

quauhnahuacenses.<br />

Vi sono molte altre specie di metl, alle cui immagini aggiungerò solo i nomi e i luoghi in<br />

cui nascono, per avere quasi tutte le medesime proprietà ed essendo poco diferenti<br />

nell'aspetto. La prima si chiama mexoxoctli cioè metl verde. La seconda néxmetl per il suo<br />

colore cenerino. La terza quámetl o maguey del monte, ed è scolorito, con radice fbrosa<br />

con aspetto di germoglio spesso e lungo. La quarta si chiama hoitzitzílmetl, ed ha spine<br />

lunghe di color porpora, così come le radici. La quinta è il tapayáxmetl o maguey tapayaxin,<br />

quasi uguale al precedente.<br />

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La sesta si chiama acámetl ossia maguey arundineo, le sue foglie sono più bianche vicino<br />

alla radice e le sue spine e radici rosse. La settima si chiama maguey negro per il suo<br />

colore scuro, sebbene le spine e le radici sono nere fulve. L'ottava è lo xilómetl o metl<br />

capelluto, con spine e radici rosse e un poco più rade che nelle specie precedenti.<br />

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Note<br />

1 In particolare Agave atrovirens Karwinsky ex Salm-Dick e Agave americana L. e le sue numerose<br />

varietà. In Messico sono difuse oltre 130 specie del genere Agave, di cui almeno 25 sono<br />

utilizzate per la preparazione di bevande inebrianti, sia fermentati che distillati (<strong>pulque</strong>, suguí,<br />

mezcal, tequila, pisto, ecc.); da alcune altre specie vengono ricavate fbre usate per la fabbricazione<br />

di tessuti, fra cui Agave sisalana Perrine e Agave fourcroydes Lem.<br />

2 <strong>Il</strong> tlacámetl è identifcabile con Agave atrovirens Karw.<br />

3 <strong>Il</strong> cuartillo è un'unità di misura per liquidi equivalente approssimativamente a 0,5 litri.<br />

4 Si veda oltre la discussione di Johansson riportata nel paragrafo “<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> nei periodi preispanici”.<br />

5 Nella II° Carta datata al 1520, cfr. Cortés, 2009, p. 138.<br />

6 Palmer, 1933: 101, cit. in Gonçalves da Lima, 1986, p. 14.<br />

7 Si veda ad esempio un articoletto della Domenica del Corriere, vol. 23 del 17 aprile 1921, p. 5<br />

titolato “La paglia che inebria”, così come le numerose discussioni in merito in diversi forum in<br />

Internet. L'articoletto della Domenica del Corriere riporta: “Quando ordinate una bevanda<br />

ghiacciata, il cameriere vi porta <strong>delle</strong> lunghe paglie per succhiarla. <strong>Il</strong> motivo è semplicissimo:<br />

succhiato in questo modo, il liquido può fltrare lentamente giù per la gola, in modo da<br />

raggiungere la temperatura del corpo prima di arrivare allo stomaco; in tal modo è di molto<br />

diminuito il pericolo di crampi prodotti dal freddo. Coi vini ghiacciati, invece, le paglie non<br />

sono mai adoperate. Se lo fossero sarebbero assai frequenti i casi di solenni ubriacature anche tra<br />

le persone per bene. Una bevanda alcolica, assorbita attraverso la paglia, provoca una rapida<br />

ebbrezza. Quando la birra o il vino sono bevuti col bicchiere, essi raggiungono rapidamente lo<br />

stomaco e, purché siano bevuti in quantitativi moderati ledono difcilmente il cervello. Se<br />

invece il bevitore si provasse a succhiarli colla paglia, il sottile flo d'alcol ha la possibilità<br />

massima di annebbiare il suo cervello e presto lo riduce in uno stato di completa sbornia. A un<br />

bevitore indurito fu dichiarato un giorno ch'egli non sarebbe riuscito a bere colla paglia<br />

nemmeno due litri di birra. Siccome tale misura era di molto inferiore al quantitativo che di<br />

solito tracannava, egli rise alla proposta e subito accettò la scommessa. La prima bottiglia fu<br />

portata ed egli la succhiò colla paglia com'era inteso. Poi disse: 'E una, portatemi l'altra'. Non<br />

aveva fnito di parlare che cadde a terra ubriaco fradicio”.<br />

72


Un medico a cui ho esposto la questione ha risposto come segue: “<strong>Il</strong> fenomeno può avere a che fare<br />

con la modalità di transito del liquido all'interno della cavità orale.Se si prova a suggere da una<br />

cannuccia un liquido qualunque ci si accorge che non vi e' modo di deglutirlo in maniera fuida<br />

cosi' come accade bevendolo da un bicchiere o a collo da una bottiglia, bensì giunge alle prime<br />

vie digestive in tre tempi, cioè aspirazione, immagazinamento all'interno della bocca e infne<br />

deglutizione. La soluzione del problema è durante il secondo tempo, cioè nell'immagazinamento<br />

all'interno della bocca: la mucosa della bocca e della lingua nonché il palato sono ricche di<br />

vascolarizzazione capillare per via della presenza <strong>delle</strong> papille gustative. Gia' a questo livello<br />

l'alcool viene assorbito in grande quantità per arrivare direttamente al cervello bypassando la<br />

digestione enzimatica gastroepatica, accorciando cosi' i tempi e raforzandone il potere inebriante”.<br />

8 <strong>Il</strong> passo si trova nel vol. 2, p. 370 dell'edizione del 2009 curata da León-Portilla: “Pues de<br />

borrachos, no lo sé decir, tantas suciedades que entre ellos pasaban; sólo una quiero aquí poner, que<br />

hallamos en la provincia de Pánuco, que se embudaban por el sieso con unos cañutos, y se<br />

henchían los vientres de vino de lo que entre ellos se hacía, como cuando entre nosotros se echa una<br />

medicina”. <strong>Il</strong> termine embudaban proviene da embudo, “imbuto”, ed evidenzia l'atto di introduzione<br />

di un liquido; il termine sieso indica in spagnolo l'ano insieme alla parte fnale dell'intestino<br />

e viene quindi qui tradotto con “retto”.<br />

9 Passo riportato nella “Relación de la Conquista que hizo Nuño Beltrán de Guzmán. Anonima<br />

Segunda”, datato attorno al 1530, pubblicata in AA.VV., 1963: 315-327.<br />

10 Questa notizia doveva risultare come una singolare curiosità, appetibile per quegli europei<br />

letterati che erano assetati di notizie sul nuovo mondo da poco scoperto dagli Spagnoli.<br />

Probabilmente per questo motivo fu riportata in diversi scritti fction che furono prodotti nel<br />

XVI secolo da autori che non erano mai stati nel nuovo mondo e che si basarono, oltre che sulla<br />

loro fantasia, sugli scritti di Cortés, Díaz del Castillo e altri veri testimoni della Conquista. Una<br />

certa fortuna ebbe la Relación de la Nueva España, scritta da un autore chiamato Conquistador<br />

Anónimo, che si fece passare per un uomo al seguito della spedizione di Cortés, e di cui ci è<br />

pervenuta una traduzione italiana (da un originale spagnolo, forse da Siviglia) datata al 1556,<br />

edita a Venezia dalla casa editrice Giunti, inserita all'interno della raccolta di viaggi Delle<br />

Navigatione et viaggi curata da Giovanni Battista Ramusio. <strong>Il</strong> Conquistador Anónimo riportò il<br />

tema dell'assunzione rettale del <strong>pulque</strong> presso le genti native di Pánuco, aggiungendo considerazioni<br />

di cui non sono chiare le origini, se puramente fantasiose o se basate su fonti orali ascoltate<br />

a quei tempi dall'autore: “particolarmente in quella di Panuco adorano il membro che portano<br />

gli huomini fra le gambe, & lo tengono nella meschita [moschea, maniera arabizzante per<br />

indicare il tempio], & posto similmente sopra la piazza insieme con le imagini de rilievo di tutti<br />

modi di piaceri che possono essere fra l'huomo & la donna, & gli hanno di ritratto con le gambe<br />

alzate di diversi modi. In questa provincia di Panuco sono gran sodomiti gli huomini et gran<br />

poltroni & imbriachi, in tanto che stanchi di non poter bere più vino per bocca, si colcano [si<br />

sdraiano a pancia in su] & alzando le gambe se lo fanno metter con una cannella per le parti di<br />

sotto fn tanto che il corpo ne puo tenere.” (Conquistador Anónimo, 1986, par. 27, pp. 128-130).<br />

73


11 In maniera alquanto convincente Baudot (1991: 345-380) ha attribuito il manoscritto a Martín<br />

de la Coruña, con una datazione al 1549.<br />

12 Nella versione data da Sahagún (III, IV, 6), prima di ubriacare Quetzalcóatl, Tezcatlipoca gli<br />

presagì che sarebbe tornato a Tula sotto l'aspetto di un bambino (si veda L'ubriachezza di<br />

Quetzalcóatl). Graulich & Oliver (2004: 137) hanno ipotizzato che il <strong>pulque</strong> fosse ritenuto<br />

ringiovanire o addirittura contribuire alla rinascita. Stresser-Péan (1971: 597) ha riportato che il<br />

dio huasteco della terra e del tuono era anche il dio dell'ubriachezza ed era capace quando<br />

ubriaco di tornare giovane.<br />

13 “<strong>Il</strong> itlanexillo, che altri chiamano teatlapalli o ala di pietra, ha radici assomiglianti a dei capelli da<br />

dove nascono steli purpurei, cilindrici e sottili, e in questi foglie piccole a forma di cuore; non ha<br />

né fore né frutto. Le foglie sono di natura fredda, secca e astringente, di sapore dolce e con<br />

proprietà per arrestare la dissenteria. Anche la radice è fredda, secca e dolce, ma non astringente;<br />

si mescola con l'octli o vino di maguey che chiamano <strong>pulque</strong> con lo scopo di dargli forza e<br />

maggiore efcacia per stravolgere la mente. Alcuni la classifcano fra le specie di capelvenere di<br />

pozzo. Nasce nella regione calda di Xicotépec” (Hernández, Libro III, Cap. XL).<br />

14 “E' lo quauhchílzotl un piccolo arbusto simile allo spino cervino, con foglie bianchicce come di<br />

leguminosa o di mumularia e fori gialli. La radice mescolata con metl produce vino. La<br />

corteccia, che è simile a quella dell'alcornoque cura le ulceri; tostata e macinata cura le<br />

bruciature. E' di natura fredda e umida, o un poco calda. E' dolce. Nasce in luoghi montuosi e<br />

caldi, come sono i quauhnahuacenses e i teucaltzincenses” (Hernández, Libro III, Cap. CL).<br />

15 “<strong>Il</strong> quapatli, che alcuni chiamano tlapatli ossia medicina piccola, e altri ocpatli ossia condimento<br />

del vino, è un arbusto che getta, da alcune radici ramifcate, steli fulvi pieni di foglie come di<br />

mízquitl, piccole ed esili, e baccelli di dimensione media. La corteccia è rossa, secca e astringente,<br />

con amaro un poco dolce, e la sua cottura cura le dissenterie, in particolare se gli si aggiunge<br />

chichicpatli. La medesima corteccia pulisce perfettamente i denti e li consolida, allevia la tosse, fa<br />

crescere la carne e mescolata al vino di metl o a qualche altro liquore provoca l'urina in maniera<br />

ammirevole, un fatto che è stato comprovato per esperienza quotidiana, aumentando inoltre la<br />

forza inebriante del vino” (Hernández, Libro XVI, Cap. LII).<br />

16 “Copalotile: è un liquore molto usato dagli Indios, molto caldo e dannoso. Si prepara con il seme<br />

dell'Albero del Peru, quando è colorato, fermentato con Pulque tlachique per uno o due giorni”<br />

(Wilson, 1963: 506).<br />

17 Ordinanza sul <strong>pulque</strong> di Luis de Velasco, datata al 16 agosto 1608, riprodotta integralmente in<br />

Hernández Palomo, 1979, pp. 433-5.<br />

18 Ordinanza del Conte di Revillagigedo, 1755, riportata per esteso in Hernández Palomo, 1979:<br />

438-446.<br />

19 Tzitzimitl, essere mostruoso femminile genitrice <strong>delle</strong> tzitzimine.<br />

20 Signifca “Quetzal salice”.<br />

21 Signifca “Albero fore”.<br />

22 Tzitzimine, spiriti tenebrosi dell'aria che scendevano sulla terra per terrorizzare gli uomini e per<br />

mangiarli.<br />

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23 L'unione dei due rami sottintende un rapporto copulativo fra Ehécatl e Mayahuel.<br />

24 La radice dell’upactli, o ocpatli (“rimedio del <strong>pulque</strong>”), è uno degli additivi rinforzanti che<br />

venivano normalmente aggiunti alla bevanda durante la fermentazione (si veda <strong>Il</strong> problema<br />

degli additivi del <strong>pulque</strong>).<br />

25 Da metl, “maguey”, cónetl, “ragazzo” e tzin, sufsso reverenziale o diminutivo.<br />

26 La parte del racconto che tratta della storia del ragazzo plebeo Tobueyo di cui si innamora la<br />

fglia del re, appartiene a un racconto nahua più noto come “storia di Tohuenyo”. Si tratta di un<br />

racconto dalle connotazioni sessuali, di cui una versione è data da Sahagún (III, V-VI) e un'altra<br />

è presente nel Codice Matritense (fogli 142-144), quest'ultima presentata e discussa da Léon-<br />

Portilla (1963). In diversi casi è stato trascritto erroneamente il nome di Tobueyo, mentre quello<br />

corretto è Tohueyo o Tohuenyo, la cui etimologia è “ciò che costituisce la nostra oferta”, ma il<br />

cui signifcato corrente presso i Nahua era quello di “forestiero” o “straniero”. Nel racconto<br />

originale la fglia del re si innamora del ragazzo dopo averlo visto al mercato e più<br />

specifcatamente dopo aver visto il suo pene. La ragazza in conseguenza di ciò sofre di mal<br />

d'amore e il re obbliga Tohuenyo a giacere con lei con lo scopo di guarire sua fglia. Tohuenyo<br />

diventa quindi lo sposo della principessa, ma ciò genera malumore fra i toltechi e il re decide<br />

quindi di inviare il suo nuovo genero in guerra, speranzoso che ne rimanga ucciso. Ma<br />

Tohuenyo ne esce vincitore e viene quindi accolto dal re e dalla popolazione come un grande<br />

guerriero, meritevole della sua posizione di genero reale. Nella versione data nel Codice<br />

Matritense viene specifcato che Tohuenyo è in realtà un travestimento di Titlacahuan-<br />

Tezcatlipoca, che altro non è che uno dei tre stregoni-dei che si cimenteranno nel cacciare<br />

Quetzalcoátl, principe-sacerdote regnante sui Toltechi, dalla sua città Tula. Quetzalcoátl viene<br />

fatto ubriacare con il <strong>pulque</strong> dai tre stregoni e per questo abbandonerà la città per raggiungere la<br />

riva del mare, dove si trasformerà nella stella del mattino (si veda L'ubriachezza di Quetzalcoátl).<br />

Esiste quindi un sottile legame semantico fra la leggenda di Xóchitl e il racconto mitologico ed<br />

etnostorico di Quetzalcoátl, uniti dal tema del <strong>pulque</strong>.<br />

27 Più precisamente, come riferito dal medesimo Sahagún, a Tula v'erano due Quetzalcóatl: il<br />

primo era la divinità creatrice dell'uomo, considerata a rango di “divinità doppia” e di Essere<br />

Supremo; il secondo Quetzalcóatl, Topiltzin Quetzalcóatl, era una specie di personalità religiosa,<br />

di principe-sacerdote supremo, in defnitiva una specie di “uomo-dio” (cfr. Carrasco, 1979). E' a<br />

questa seconda fgura di Quetzalcóatl che si riferisce il mitologhema della sua ubriachezza.<br />

28 Probabilmente si deve leggere Tlillan-Tlapallan, sebben i testi di Firenze e Madrid danno la<br />

lettura del castigliano (Ángel María Garibay).<br />

29 Bierhorst traduce con “Essi erano coloro che avevano scoperto i piccoli alveari del miele d'albero<br />

[cioè miele d'api] e fu con questi che decantarono il <strong>pulque</strong>”; ma questa traduzione è discutibile,<br />

in quanto non è concretamente possibile decantare il <strong>pulque</strong> dentro agli alveari <strong>delle</strong> api; inoltre,<br />

Gonçalves da Lima (1986: 39-40) ha fatto notare come in una fase arcaica dell'uso del <strong>pulque</strong><br />

venivano usati contenitori per il miele d'api.<br />

30 Bierhorst traduce con “è una spina”, indicando che probabilmente si tratta di un gioco di parole,<br />

in quanto “spina” (huitztli) è un sinonimo di <strong>pulque</strong>.<br />

75


31 Pratiche di autolesionismo religioso devozionale azteco, mediante perforazione della pelle con<br />

spine di maguey, sono state riportate da diversi autori antichi, fra cui Sahagún (III, III, 4) e gli<br />

stessi Annali di Cuauhtitlan (IV, 37-39).<br />

32 Bierhorst traduce in maniera alquanto diferente: “Mai una porzione [di <strong>pulque</strong>] era stata<br />

considerata nella mia casa. Sia pure qui, ah, sia pure qui, qui. Ahimè! Possa il regno sopravvivere.<br />

Ahimè! C'è solamente miseria e servitù. Non recupererò mai”.<br />

33 Bierhorst traduce: “Ah, ella era solita tenermi, ahimè, mia madre, ah, Coacueye, la dea, la nobile”.<br />

34 Garibay traduce: “<strong>Il</strong> legno rosso si ruppe: e qui stiamo piangendo”.<br />

35 Bierhorst traduce in maniera diferente, con un senso opposto a quello dato da Garibay:<br />

“Quando si sentì a disagio, disse ai suoi servitori”.<br />

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Riferimenti bibliografci<br />

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antiguas de los naturales del Pirú, è riportato in forma integrale alle pp. 151-189. Diversi<br />

studiosi hanno identifcato l'autore di questo scritto con Blas Valera, ma questa<br />

problematica identifcativa non può considerarsi risolta; si veda Barba alle pp. XLIV-LI].<br />

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80


Finito di editare nel febbraio 2012<br />

per conto di Triana Ediciones, Sevilla<br />

Utilizzato il sofware OpenOfce e il carattere open-source Minion Pro Med<br />

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<strong>Il</strong> <strong>pulque</strong> è una bevanda psicoattiva ottenuta mediante la fermentazione della linfa<br />

di diverse specie di Agave e l'aggiunta di svariati additivi vegetali, utilizzata sin dai<br />

tempi degli Aztechi e di altre <strong>popolazioni</strong> del Messico centrale. In questo saggio<br />

l'autore espone un approfondito studio sulla storia, le valenze simboliche, gli<br />

aspetti rituali e mitologici di questa bevanda, sofermandosi su aspetti poco<br />

studiati, quali la somministrazione di un particolare tipo di <strong>pulque</strong> ai prigionieri in<br />

procinto di essere sacrifcati, l'elaborazione di un complesso sistema di divieti e di<br />

permessi dell'utilizzo della bevanda nella società azteca, il problema degli additivi<br />

del <strong>pulque</strong>, il concetto del “quinto <strong>pulque</strong>”, inteso sia come supera-mento del<br />

dosaggio limite socialmente accettato, sia come bevanda esclusiva della casta<br />

prelatizia per il contatto con i “quattrocento conigli” – le divinità del <strong>pulque</strong> –, sino<br />

a giungere al divieto di questa bevanda tradizionale e alla successiva volgarizzazione<br />

del suo consumo nei tempi coloniali.<br />

<strong>Giorgio</strong> <strong>Samorini</strong>, nato a Bologna nel 1957, è un ricercatore specializzato negli aspetti<br />

fenomenologici <strong>delle</strong> droghe, in particolare nell'etnobotanica e antropologia <strong>delle</strong> fonti<br />

tradizionali psicoattive. Ha pubblicato un folto numero di articoli in riviste scientifche di<br />

diversi paesi. Fra i suoi libri più noti, Funghi allucinogeni. Studi etnomicologici, Animali che<br />

si drogano, Gli allucinogeni nel mito.

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