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Bruno Fornara, Leonardo Gandini - Spazi, confini, limiti, frontiere

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<strong>Spazi</strong>, <strong>confini</strong>, <strong>limiti</strong>, <strong>frontiere</strong><br />

<strong>Bruno</strong> <strong>Fornara</strong>, <strong>Leonardo</strong> <strong>Gandini</strong><br />

Passaggi di confine<br />

Il confine è una linea chiusa o un varco aperto? Divide o unisce? È fisso o mobile? Impenetrabile o facilmente<br />

aggirabile? Sentite: «È mattina presto. Arriva un tir ceco. Si ferma a cinquanta metri dal confine ceco. Lo aspetta una<br />

ventina di persone con borse o buste di plastica. Si scaricano bottiglie di alcol (in Polonia costano molto di più che nei<br />

negozi cechi). Ognuno prende quattro bottiglie, la quota individuale massima, e passa normalmente la frontiera.<br />

Dall’altra parte aspetta un tir polacco. L’autista riceve e sistema le bottiglie. Quelle venti persone faranno su e giù tante<br />

volte quanto sarà necessario per scaricare un camion e caricare l’altro. Prima di sera avranno finito. Lo chiamano “il<br />

commercio delle formiche”. È una forma perfettamente legale di raggiro della frontiera». 1<br />

Ogni confine divide e unisce. Anche quando sembra chiuso, lo si può aggirare: di più, raggirare. Portando poche<br />

bottiglie alla volta e riempiendo pian piano il tir senza disobbedire alle regole del passaggio di confine. Perché i <strong>confini</strong>,<br />

per definizione, si passano. Passare il confine significa andare per il mondo perché sono i <strong>confini</strong> e le <strong>frontiere</strong> a<br />

disegnare la terra: e questo perché un mondo che abbia dei <strong>limiti</strong> ci fa sentire, in qualche modo, a casa. Dentro i nostri<br />

<strong>confini</strong>, nel nostro paese, a casa nostra. Il confine disegna e designa il nostro spazio. Dice che questo è lo spazio del<br />

“noi”.<br />

Ma la frontiera e i <strong>confini</strong>, proprio nel loro voler limitare e circoscrivere, ci dicono che oltre il limite c’è la terra, il<br />

mare, lo spazio (anche quello celeste), di un altro. Dell’altro. E l’altro, se è davvero tale, non è come noi. Il confine<br />

cerca di tenere l’altro al di là del nostro spazio. Così, il confine non è soltanto la linea di confine. Il confine è uno<br />

spazio, è una regione: fuori di noi, nella geografia, il confine indica lo spazio che arriva fino a dove vale il “noi”, fino a<br />

dove vale la nostra appartenenza a una terra e a una comunità; dentro di noi, nella nostra mente, lo spazio del confine ci<br />

accompagna, ci dice quali <strong>limiti</strong> ci diamo, qual è la nostra idea del “noi” e verso quali regioni vogliamo tendere, anche<br />

verso l’altro, speranzosamente o illusoriamente.<br />

Il confine, per dare sicurezza, dovrebbe mostrarsi rigido e invalicabile. Ogni confine che voglia davvero dirsi tale cerca<br />

di mostrarsi solido e fisso. In realtà i <strong>confini</strong> sono sempre mobili, nascono e muoiono, scompaiono là dove sono stati per<br />

molto tempo e ricompaiono in altri luoghi. Seguono il potere e la storia. Indicano gli spazi dell’abitare. Gli uomini<br />

hanno bisogno di vivere entro uno spazio. Diceva Fernand Braudel che «essere alloggiati significa cominciare a<br />

essere». 2 Il confine assegna una dimora, fa essere qualcuno o qualcosa. E i <strong>confini</strong> si incontrano non soltanto sul<br />

terreno, là dove uno stato finisce e un altro comincia. Linee di confine attraversano tutti gli spazi. Un confine limita il<br />

nostro mondo interiore, ne segna le fratture. Un confine si alza tra opposti schieramenti politici. E le battaglie<br />

economiche si combattono su versanti opposti, divisi da <strong>confini</strong>. Ci sono <strong>confini</strong> dappertutto, politici, geografici, morali,<br />

economici, linguistici, culturali.<br />

Viviamo tra <strong>confini</strong>, ne abbiamo bisogno, fosse anche solo per superarli. Ma dove sono oggi le linee di confine, quando<br />

si parla di globalizzazione, di mondo aperto, di uno spazio dove il limite tende a scomparire e a non avere più il senso di<br />

un tempo? Limite, oggi, non è più assimilabile a invalicabile: limite è qualcosa che va spostato più in là. Il limite della<br />

scienza è per definizione mobile, le <strong>frontiere</strong> della ricerca sono ogni giorno spinte in avanti. Il mondo sembra oggi<br />

intendere il confine non più come qualcosa di statico, quanto come qualcosa che si muove, si sposta, può essere<br />

riposizionato di continuo. Il confine è diventato dinamico. E lo spazio della frontiera, come ai tempi della conquista<br />

dell’Ovest americano, è un territorio vasto e mobile, che viene via via conquistato e il cui limite viene spinto oltre, di<br />

ondata in ondata, fino all’altro oceano.<br />

I <strong>confini</strong>, dunque, si costruiscono. Siamo noi a porli. E li poniamo qui e non là, oppure li spostiamo da qua a lì. Il<br />

confine può anche essere affidato al divenire del tempo e delle culture. Il confine dell’Italia, già unita ma ancora da<br />

costruire, alla fine dell’Ottocento, passava tra la Torino dei Compagni di Monicelli e tutte le altre Italie, con altre lingue,<br />

usanze e pensieri, quelli degli italiani bergamaschi e degli italiani del Sud. E oggi, che il Mediterraneo è terra di acquea<br />

frontiera, attraversata da migranti che rimescolano i <strong>confini</strong>, in Tornando a casa, il pescatore tunisino e il pescatore<br />

napoletano, lontani nei loro mondi linguistici dell’arabo e del dialetto, trovano uno spazio linguistico condiviso nella<br />

lingua italiana, spazio di parole posto dentro un confine comune.<br />

I <strong>confini</strong> del cinema<br />

Il cinema incontra il suo primo confine nell’essere sguardo chiuso dentro una inquadratura. Il bordo sullo schermo è<br />

costitutivo dell’immagine: e il confine tra ciò che vediamo e ciò che sta nel fuoricampo, o nel controcampo,<br />

1 J. Jakubiec, riportato in P. Morawski, Da Stettino a Trieste: viaggio alla ricerca della cortina di ferro, in «Limes»,<br />

1996, n. 1, p. 137. Il brano viene citato in Piero Zanini, Significati del confine, Paravia <strong>Bruno</strong> Mondadori Editori,<br />

Milano 2000, p. 53.<br />

2 F. Braudel, L’identità della Francia. <strong>Spazi</strong>o e storia, il Saggiatore, Milano 1988, p. 301.


nell’inquadratura che ancora deve venire, questo confine regge tutto il cinema classico. Nel cinema, la messinscena si<br />

costruisce proprio sul rapporto tra ciò che sta al di qua e al di là del confine che divide (e unisce) ciò che sta in una<br />

inquadratura e ciò che ne sta fuori, ciò che sta in questa inquadratura e ciò che starà in quella seguente. E quando, nel<br />

moderno cinema del piano sequenza, non è più tanto in questione il confine del campo e il raccordo fra le inquadrature,<br />

appare subito un altro confine: tra ciò che la macchina da presa guarda con i suoi lunghi sguardi e ciò che si nasconde<br />

dentro la scena, dentro l’interiorità dei personaggi, anche dietro una sola parola. Qual è lo spazio indicato da una parola<br />

come Rosebud? Entro quali <strong>confini</strong> dobbiamo collocare l’identità di Charles Foster Kane e del suo bocciolo di rosa?<br />

Non c’è regista che non abbia lavorato sui <strong>confini</strong>: tanto che vien da dire che fare cinema è lavorare su un qualche<br />

confine. Fare cinema è lavoro di confine. Sui <strong>confini</strong> più elementari che stanno dentro le forme più correnti di<br />

narrazione: per esempio, il più elementare di tutti i <strong>confini</strong> narrativi, quello tra buoni e cattivi. Sui <strong>confini</strong> più sottili e<br />

sfuggenti, quello, per esempio, tra l’osservare e l’essere osservati: siamo noi che guardiamo il cinema o è il cinema che<br />

ci esamina con i suoi sguardi e i suoi interrogativi? Fino ai tanti altri <strong>confini</strong> tra le diverse maniere dell’osservare<br />

(realismo, documentarismo, fantastico, generi…), oppure ancora tra ciò che è una cosa quando non la osserviamo, ciò<br />

che diventa quando la facciamo oggetto di osservazione e ciò che la fa essere diversa quando la mettiamo in racconto e<br />

in scena. Come dice l’avvocato Freddy Riedenschneider (che conosce il principio di indeterminazione) in L’uomo che<br />

non c’era dei fratelli Coen, più si guarda un fatto, un delitto per esempio, e più i <strong>confini</strong> di quel fatto cambiano,<br />

svaniscono, si ridefiniscono di continuo.<br />

C’è chi, come Kubrick, ha fatto del confine tra i territori del “naturale” e quelli del “culturale” uno dei punti di appoggio<br />

e di forza del suo lavoro. L’immagine di apertura di Arancia meccanica mostra il drugo Alex con un occhio bistrato e<br />

l’altro senza trucco, al naturale: e quell’immagine e quel confine parlano senza bisogno di parole. Lasciano che siamo<br />

noi spettatori a definire, a mettere un confine, mobilissimo, tra quei due termini, natura e cultura, così vasti (e così<br />

indefinibili?). E il finale di The Truman Show non arriva ai <strong>confini</strong> di ogni cinema e di ogni messinscena, quel confine<br />

che è un cielo dipinto e una porta sul mondo reale? E quando l’attore della Rosa purpurea del Cairo scende dallo<br />

schermo non è questa la messinscena fantastica dell’attraversamento di quel confine invalicabile che limita la finzione<br />

cinematografica?<br />

Se poi ci mettiamo dentro i <strong>confini</strong> della narrazione, quante volte il cinema ha raccontato proprio la linea di confine: le<br />

trincee dei film di guerra, e quelle che nella commedia vengono scavate tra uomo e donna, o tra una casa e l’altra; e,<br />

ancora, quelle dei western di conquista, dove la frontiera è territorio mobile, dove i soldati affrontano gli indiani, dove<br />

di qua e di là del confine definito dalla legge si scontrano lo sceriffo e i fuorilegge. Ogni genere ha i suoi <strong>confini</strong>: tra noi<br />

e gli alieni, tra la polizia e i gangster, tra il colpevole e l’innocente, tra il camminare e il danzare, il parlare e il cantare.<br />

E ci sono dei generi che fanno del superamento del confine la propria ragion d’essere. L’horror è genere di <strong>confini</strong>:<br />

quando il volenteroso Hutter di Murnau si avvia da solo verso il castello di Nosferatu, dopo che il cocchiere non ha più<br />

voluto proseguire, eccolo arrivare al ponticello che segna il confine tra il mondo degli uomini e quell’altro mondo. E<br />

quando Dreyer trasferisce l’orrore dalla Transilvania al piccolo paese di Courtempierre, un luogo qui vicino a noi<br />

(dentro o fuori dei nostri <strong>confini</strong>?), non è proprio grazie alla cancellazione del confine tra noi e il vampiro, non è proprio<br />

facendo del vampiro uno come noi, che riesce a rendere così palpabili l’angoscia e il vuoto? Dimostrazione chiara del<br />

fatto che l’eliminazione del confine fa crescere la nostra insicurezza. Non identificando il male in un personaggio così<br />

diverso da noi, come invece diverso era fin dal primo sguardo il Nosferatu di Murnau, crescono l’ambiguità e lo<br />

spaesamento. Se non c’è più nessun ponte da passare, se i <strong>confini</strong> non sono più segnati ed evidenti, la nostra paura si fa<br />

angoscia. E questo terrore, di non avere più un confine che faccia da linea di demarcazione, è lo stesso che leggiamo sul<br />

volto della bella Cleopatra e del suo amante, il forzuto Ercole, quando il nano Hans e gli altri freaks la accolgono fra di<br />

loro, ne fanno una di loro, «One of us, one of us, one of us…», in quello straordinario film che si spinge fino ai <strong>confini</strong><br />

dell’umano, fino ai <strong>confini</strong> fisici del “noi”, del nostro corpo di umani, che è Freaks di Tod Browning.<br />

Cinema e confine è una specie di endiadi. Dire cinema è anche dire confine. Quando un personaggio di un cartone di<br />

Tex Avery si mette a correre velocissimamente, può superare un confine senza accorgersene. Quando se ne rende conto,<br />

può fermarsi con una di quelle frenate da cartone animato, poi si guarda addosso, vede che non è più a colori, torna<br />

indietro piuttosto perplesso e trova un cartello di confine su cui c’è scritto: «Qui finisce il technicolor». Decisamente, i<br />

<strong>confini</strong> nel cinema e fuori dal cinema sono dappertutto. E non è sempre così facile superarli.


Il cinema dei <strong>confini</strong> – I <strong>confini</strong> del cinema<br />

1 - Due partenze, due <strong>confini</strong><br />

a - uno nel cinema d’autore<br />

Arancia meccanica, Stanley Kubrick, 1971, durata 1’ 30”<br />

i due occhi, uno al naturale, l’altro bistrato<br />

tema forte kubrickiano: natura-cultura<br />

il cinema, anche con una sola immagine, pone un confine, un rapporto, uno scontro<br />

b - un altro nel cinema popolare<br />

La lois… c’est la loi, La legge è legge, Christian-Jacque, 1958, durata 4’ 00”<br />

il confine come luogo della commedia popolare<br />

2 - I <strong>confini</strong> del mondo<br />

La frontiera rigida, la guerra, la trincea<br />

Orizzonti di gloria, Stanley Kubrick, 1957<br />

a – il potere nella trincea, durata 2’ 30”<br />

b – il buon ufficiale e il suo onore nella trincea, durata 7’ 22<br />

c – il canto che supera i <strong>confini</strong>, durata 12’ 20”<br />

il confine come linea di scontro, la trincea, la terra di nessuno, l’altra trincea<br />

Shoulder Arms, Charlot soldato, Charlie Chaplin, 1918, durata 8’ 00”<br />

la trincea, il nemico<br />

Il confine come linea mobile: la frontiera come territorio da conquistare<br />

The Big Trail, Il grande sentiero, Raoul Walsh, 1930, durata 7’ 20”<br />

La frontiera vicina<br />

Neighbors, Vicini, Buster Keaton, 1920, durata 6’ 20”<br />

la frontiera, come linea di scontro, si può alzare ovunque<br />

Un confine invisibile e invalicabile (surrealista)<br />

L’angelo sterminatore, Luis Buñuel, 1962, durata 5’ 00”<br />

3 - Noi e gli altri<br />

Arrivano gli altri: ci “invadono”<br />

La promesse, Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1996, durata 5’ 40<br />

La diversità culturale: il favo (o nido?)<br />

Senza passaporti: privati dell’identità<br />

Il Mediterraneo, un confine geografico e linguistico (paradossale)<br />

Tornando a casa, Vincenzo Marra, 2001, durata 4’ 00”<br />

parlare napoletano con i napoletani, parlare in italiano con il tunisino<br />

Il confine tra noi: ovvero quando eravamo diversi<br />

I compagni, Mario Monicelli, 1963, durata 7’ 30”<br />

L’Italia e gli italiani da fare: la scuola e l’assemblea<br />

Spostare la frontiera di classe<br />

Il confine del “corpo” degli umani<br />

Freaks, Tod Browning, 1932<br />

Fin dove siamo noi, umani?<br />

One of us! Essere assorbito dagli altri!<br />

Fuori e dentro: il confine tra interiorità e consapevolezza<br />

Secrets and Lies, Segreti e bugie, Mike Leigh, 1996, durata 11’ 00”


4 - I <strong>confini</strong> del cinema<br />

Dov’è il confine del cinema?<br />

The Truman Show, Peter Weir, 1998, durata 7’ 40”<br />

arrivare a toccare il confine del cinema, il limite della finzione<br />

Lo schermo come limite della finzione cinematografica<br />

The Purple Rose of Cairo, La rosa purpurea del Cairo, Woody Allen, 1985<br />

durata 4’ 50”<br />

l’attore scende in platea, gli attori “sanno” del nostro mondo<br />

I <strong>limiti</strong> dell’identità individuale e quelli del cinema come genere<br />

un film di finzione travestito da documentario<br />

Zelig, Woody Allen, 1983, durata 6’ 50”<br />

Campo e fuoricampo<br />

Il confine come elemento fondante dell’immagine cinematografica<br />

Vedere, non vedere, desiderare di vedere<br />

The Merry Widow, La vedova allegra, Ernst Lubitsch, 1934, durata 7’ 40”<br />

il re, il conte Danilo, la cintura stretta…<br />

M, M - Il mostro di Düsseldorf, Fritz Lang, 1931, durata 7’ 30”<br />

il vuoto, il tempo, l’attesa, il fuoricampo come luogo del male<br />

The Silence of the Lambs, Il silenzio degli innocenti, Jonathan Demme, 1991<br />

durata 3’ 00”<br />

dentro-fuori: l’inganno della messinscena, la trappola del confine cinematografico!<br />

5 - Altri <strong>confini</strong><br />

Il confine dell’immaginario: il nostro mondo e l’altro<br />

Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens, Nosferatu il vampiro<br />

Friedrich Wilhelm Murnau, 1922, durata 7’ 30”<br />

il confine non conosciuto: il ponte!<br />

Meta<strong>confini</strong><br />

Lucky Ducky, Tex Avery, 1948, durata 4’ 20”<br />

qui finisce il technicolor!<br />

Labilità dei <strong>confini</strong> cinematografici<br />

Reale – virtuale: eXistenZ, David Cronenberg, 1999, durata 6’ 00”<br />

Reale – immaginario – cinematografico: L’idolo delle donne, Jerry Lewis, 1961, durata 4’ 40”: la stanza della donna<br />

vampiro<br />

Principio dell’indeterminazione della messinscena: i <strong>limiti</strong> dell’essere in rapporto all’osservare (e al mettere in scena)<br />

The Man Who Wasn’t There, L’uomo che non c’era, Joel ed Ethan Coen, 2001, durata 6’ 20”

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