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Il nuovo mantra della NATO - Meridiani Relazioni Internazionali

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La Nato è iN seCoNdo<br />

piaNo NeLLa strategia<br />

asia-paCifiCo di obama<br />

di Niccolò De Scalzi<br />

Durante uno dei passaggi di in un discorso tenuto all’Air<br />

Force University di Colorado Springs, e con il tono che<br />

solitamente si riserva agli annunci solenni, Obama ha<br />

annunciato: “stiamo fissando l’agenda nella regione che influirà<br />

più di ogni altra sulla nostra prosperità e sicurezza di lungo periodo,<br />

l’Asia”. Già, ma quale agenda?<br />

L’agenda americana per il pivot Asia-Pacifico non è certo secondaria<br />

alla luce di quanto deciso al recente vertice <strong>NATO</strong> di<br />

Chicago. Un vertice tutto sommato passato in sordina. Se tutto<br />

fosse ok andrebbe pure bene, ma considerati i problemi sul tavolo,<br />

la calma sembra più il sintomo di qualcosa non va.<br />

Certo c’è l’economia horror europea e i dati sulla disoccupazione<br />

americana che non migliorano. I problemi dell’Alleanza Atlantica<br />

riguardano però direttamente l’Europa, soprattutto nel<br />

momento in cui l’asse Washington-Bruxelles sembra non essere<br />

più il perno <strong>della</strong> storia, messo in crisi dall’ascesa per importanza<br />

<strong>della</strong> regione Asia-Pacifico.<br />

Non erano ancora finiti i festeggiamenti di Obama e del suo<br />

staff per l’accordo raggiunto a Chicago sull’endgame afgano, che<br />

già si diffondeva il contenuto di un’intervista rilasciata da Hu<br />

Jintao al People’s Daily. Hu chiedeva maggiore sforzo a Cina e<br />

Russia per la stabilizzazione di Kabul. Un appello diretto (per la<br />

verità per nulla inatteso) anche ai Paesi dello SCO, riuniti proprio<br />

in quei giorni in un summit dell’organizzazione.<br />

<strong>Il</strong> vuoto lasciato dalla <strong>NATO</strong> è il vuoto lasciato dall’America. Un<br />

vuoto che conferma la tradizione di dell’amministrazione Obama<br />

di disimpegno e di promozione <strong>della</strong> risoluzione di problemi<br />

globali in fori regionali. Hu Jintao non si è fatto trovare impreparato:<br />

“perseguiremo i nostri obiettivi regionali per evitare turbolenze<br />

e shock esterni alla regione, giocando un ruolo maggiore<br />

nel ristabilimento <strong>della</strong> pace e <strong>della</strong> sicurezza nell’area”.<br />

Per scoprire quali fossero gli obiettivi di Mosca e Pechino e del<br />

blocco di Paesi centro-asiatici più direttamente coinvolti (Kazakhstan,<br />

Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan), basta dare uno<br />

sguardo alla tragicommedia sul transito dei camion che riforniscono<br />

le ultime truppe del contingente ISAF. Per arrivare in<br />

Afghanistan, passando dal confinante Pakistan attraverso l’ormai<br />

noto Kyber Pass, i camion devono pagare un ‘pizzo’ (5000 dollari<br />

ad automezzo) ai combattenti che per 11 anni hanno martorizzato<br />

il Paese e la <strong>NATO</strong> a colpi di IEDs.<br />

Certo permangono numerosi problemi tra Cina e Russia. <strong>Il</strong> passaggio<br />

da Kabul delle principali pipeline in progetto e le preoccupazioni<br />

del Cremlino rispetto alla rapida ascesa economica<br />

cinese ne sono due esempi emblematici. L’unica cosa certa è che<br />

il futuro dello Stato afgano si deciderà più a Pechino, Mosca,<br />

Nuova Delhi e Islamabad che a Washington o in sede <strong>NATO</strong>,<br />

nonostante gli 11 anni di impegno delle truppe ISAF.<br />

Nel corso dei recenti Shangri-La Dialogue – forum annuale che<br />

l’International Institute for Strategic Studies promuove ogni<br />

anno a Singapore – la tonalità <strong>della</strong> cravatta di Leon Panetta<br />

era l’unica cosa chiara di un discorso che nelle aspettative <strong>della</strong><br />

vigilia avrebbe dovuto spiegare passo a passo l’agenda asiatica<br />

dell’amministrazione. I dettagli sin qui noti, l’invio di 2500 marines<br />

in Australia, la cooperazione con le Filippine per il contrasto<br />

al terrorismo, l’apertura diplomatica al Myanmar, l’accordo<br />

col Giappone per il ritiro delle truppe da Okinawa e il trasferimento<br />

delle stesse a Guam, sono un pò poco per autorizzare a<br />

pensare a <strong>nuovo</strong> secolo asiatico.<br />

L’attesa era tutta per le misteriose Air Sea Battle e A2/AD (Anti-Access/Area<br />

Denial, in sostanza la capacità di impedire ad un<br />

avversario di operare in uno spazio fisico): due concetti operativi<br />

che coinvolgono giocoforza anche la <strong>NATO</strong> e che, dalla scorsa<br />

estate quando sono stati enunciati da Panetta, rimangono ancora<br />

un enigma. <strong>Il</strong> linguaggio incomprensibile degli ufficiali del<br />

Pentagono parla di “lenti focalizzanti su una maggiore interoperabilità<br />

delle forze” (il riferimento è alla Air Sea Battle). Un pò<br />

vago per elettori e alleati che dovrebbero sostenere e finanziare<br />

tale progetto.<br />

<strong>Il</strong> concetto trova in realtà una raison d’être nella iniziativa smart<br />

defense, il vero <strong>mantra</strong> uscito dal vertice di Chicago. Si sa che<br />

sulla gestione economica Obama si gioca la rielezione. <strong>Il</strong> messaggio<br />

che deve filtrare (e che è filtrato) dal vertice di Chicago è<br />

che il presidente “spende saggiamente i soldi dei contribuenti”.<br />

Anche per questo il Congresso ha cancellato il progetto di scudo<br />

missilistico che avrebbe dovuto proteggere la costa orientale.<br />

L’Asia evidentemente non costituisce una minaccia tale da giustificare<br />

uno scudo missilistico (forse basta quello europeo). I<br />

tagli al Pentagono ammontano a 467 miliardi di dollari e la<br />

strategia per l’Asia-Pacifico di Obama è stata così riassunta da<br />

Panetta: creare uno spazio di libero commercio, un ordine internazionale<br />

più giusto e un miglioramento delle relazioni diplomatiche<br />

e, nel frattempo, aggiudicarsi più commesse possibili<br />

per le major americane degli armamenti.<br />

In un passaggio diretto per lo più agli addetti ai lavori, Panetta<br />

ha anche sottolineato la volontà statunitense di volere aprire i<br />

domini comuni (aria, mare, spazio e cyberspazio). Una novità<br />

forse sfuggita a molti, ma non per questo irrilevante, dato che<br />

un tempo nei documenti strategici americani la ‘saturazione’ dei<br />

‘global commons’ era più di un imperativo.<br />

Alla luce di questo cambiamento verso la regione dell’’Asia-Pacifico,<br />

il messaggio che arriva all’Europa è chiaro. <strong>Il</strong> Vecchio<br />

Continente dovrà far da sé per la sicurezza europea. Se vuole<br />

salvare la <strong>NATO</strong>, dovrà trovarle una nuova ragion d’essere. Dieci<br />

anni fa i paesi <strong>NATO</strong> fornivano metà delle risorse economiche<br />

per la difesa collettiva, oggi lo fanno per un valore pari a meno<br />

di 1/3 e le possibilità di invertire il trend appaiono lontane. La<br />

risposta del summit di Chicago al clima di austerità diffusa – la<br />

smart defense – sembra in teoria ottima, anche se in realtà è<br />

vecchia e già operativa da anni (come il vecchio programma per<br />

implementare le forze terrestri).<br />

La mancanza di una direzione politica collettiva <strong>della</strong> <strong>NATO</strong><br />

espone l’alleanza ai mutamenti di strategia di Washington. Non<br />

vi è alcune visione unitaria delle minacce globali. Nel momento<br />

in cui l’America ri-seleziona le proprie priorità in un’area del<br />

mondo diversa dall’Europa, l’Alleanza perde di significato, rendendo<br />

meno saldi gli interessi dei vari attori alla cooperazione.<br />

I rischi di un comportamento da ‘free rider’ aumentano proporzionalmente,<br />

e citare il caso <strong>della</strong> Libia potrebbe apparire persino<br />

inutile.<br />

Appare difficile, se non impossibile, gestire crisi esterne e contemporaneamente<br />

fornire garanzie di difesa collettiva nel momento<br />

in cui ognuno persegue una propria strategia.<br />

Vi sono poi due grandi equivoci che hanno investito l’amministrazione<br />

durante il summit di Chicago. <strong>Il</strong> primo coinvolge direttamente<br />

il delicato bilanciamento a tre America-Europa-Asia. <strong>Il</strong><br />

sistema anti-missilistico europeo opera in chiave anti-iraniana,<br />

secondo alcuni anti-russa, secondo altri anti-cinese. <strong>Il</strong> delicato<br />

accordo sulla sua installazione prevede che anche il sistema radar<br />

americano in Turchia passi sotto il comando <strong>NATO</strong>. <strong>Il</strong> sistema<br />

anti-missile, come noto, non piace alla Russia, che nell’eterno<br />

balletto con Washington si troverà ora a manovrare più leve:<br />

l’Iran, la Siria e, dopo Chicago, anche l’Afghanistan – con un<br />

alleato in più, quella Cina a lungo corteggiata da Obama.<br />

<strong>Il</strong> secondo grande equivoco ha riguardato il tema <strong>della</strong> ri-affermazione<br />

dell’obiettivo condiviso di un mondo senza potenze<br />

nucleari. Se è facile immaginare da parte americana lo smantellamento<br />

di missili intercontinentali o ad ampio raggio in favore<br />

di armamenti d’aria o sottomarini a corto-medio raggio, è più<br />

difficile credere che Washington sia più a suo agio in uno scenario<br />

globale dove potrà disporre di un arsenale nucleare ridotto.<br />

Tutto considerato sul piatto <strong>della</strong> bilancia, l’obiettivo di un ritiro<br />

congiunto dall’Afghanistan è stato tradito poche ore dopo l’annuncio<br />

dalla Francia di Hollande, che in fondo non ha fatto altro<br />

che rendere chiaro quello che tutti sapevano: più che di ritiro si<br />

trattava di una fuga. Se l’Afghanistan tornerà nelle mani dei talebani<br />

nessuno potrà più definire la <strong>NATO</strong> “l’Alleanza militare<br />

di maggior successo <strong>della</strong> storia”. <strong>Il</strong> ritiro è un delicato puzzle di<br />

accordi per la transizione in sicurezza, un obiettivo clamorosamente<br />

mancato a Chicago.<br />

Data la situazione economica attuale, la <strong>NATO</strong> non è riuscita ad<br />

ottenere i 4,1 miliardi necessari per addestrare le forze afgane. E<br />

senza quei soldi è difficile essere ottimisti.<br />

All’ombra di questo fallimento, anche gli altri successi parziali<br />

del vertice di Chicago rischiano di essere oscurati. Cercare di<br />

fare di più (migliorare l’alleanza) con meno risorse (per effetto<br />

dei tagli e <strong>della</strong> crisi) rischia di rendere l’iniziativa smart defense<br />

niente più che un wishful thinking. L’attenzione di Obama per<br />

l’Asia, giusta o sbagliata che sia, è un campanello d’allarme per<br />

la <strong>NATO</strong>. L’avranno sentito le cancellerie <strong>della</strong> Vecchia Europa?<br />

16 17<br />

OP/ED La <strong>NATO</strong> ha un meraviglioso avvenire alle spalle<br />

La storia <strong>della</strong> <strong>NATO</strong> è una storia di successi, o almeno lo è stata.<br />

Grazie alla <strong>NATO</strong> gli Stati Uniti hanno sconfitto l’Unione Sovietica<br />

senza ‘colpo ferire’. Hanno dato vita ad un’alleanza basata<br />

sulla logica <strong>della</strong> deterrenza che nel momento di massima tensione<br />

verso l’esterno ha dato grande prova di coesione esterna. Poi, tutto è<br />

cambiato<br />

Dopo la caduta del muro, la domanda inconfessabile che dovremmo<br />

porci, soprattutto in Europa, è: a cosa serve un’alleanza senza orientamento<br />

strategico? Venute meno la minaccia comune cessano le<br />

ragioni dello ‘stare assieme’.<br />

Esiste un interesse condiviso oggi tra Europa e Stati Uniti? <strong>Il</strong><br />

vuoto <strong>della</strong> minaccia comune sovietica è in realtà ben presto stato colmato<br />

dall’ascesa del terrorismo fondamentalista di matrice islamica.<br />

Su quella minaccia l’America ha ri-selezionato la propria agenda.<br />

Alla prima vera prova dei fatti (troppo facile dare prova di coesione<br />

nel 2001 con l’avvio dell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan),<br />

l’Alleanza è crollata.<br />

<strong>Il</strong> Vecchio Continente si è spaccato sull’Iraq. Alcune cancellerie<br />

facenti parte <strong>della</strong> <strong>NATO</strong> (Francia, Germania e Turchia) si sono<br />

mostrate riluttanti a prendere parte alla ‘colazione dei volenterosi’.<br />

Nessuno a Washington si aspettava riconoscenza, e l’unica cosa permanente<br />

nella politica internazionale si sa, sono gli interessi. La<br />

domanda che si devono essere fatti a Parigi e Berlino deve essere stata:<br />

“Perché risolvere un problema, quando c’è qualcun altro che lo risolve<br />

per noi?”.<br />

Già, peccato che quel qualcun altro (leggasi l’America) si è trovato<br />

da un giorno all’altro senza gli alleati cui aveva fornito garanzie ed<br />

aiuti. Certo nella fase <strong>della</strong> guerra fredda anche l’America aveva un<br />

interesse (economico) a tutelare la permanenza di un mondo ‘libero’,<br />

nessuno lo nega. Ma da quando avere degli interessi in politica internazionale<br />

è un reato?<br />

Gli Stati Uniti avrebbero potuto economicamente permettersi il<br />

ruolo di stabilizzatore del sistema internazionale se vi fosse stato<br />

sostegno politico degli alleati di un tempo. Mancando tale sostegno<br />

gli USA hanno preso un’altra strada e oggi è tutto fuorché un attore<br />

‘stabilizzante’. La <strong>NATO</strong> senza la garanzia del primato americano<br />

vacilla.<br />

L’Europa vacilla di riflesso, ma ha poco da dolersi e naviga a vista<br />

in acque che ha contribuito a movimentare. <strong>Il</strong> declino dell’Europa è<br />

coinciso con l’ascesa di altri attori (la Cina su tutti) che non a caso<br />

(assieme alla Russia) osservavano compiaciuti le piccole diatribe tra<br />

Washington e il Vecchio Continente che insabbiavano l’America in<br />

una guerra che da sola non avrebbe potuto vincere.<br />

E così oggi è stato eletto un presidente (americano) che ha fatto del<br />

multilateralismo e del ‘disengagement’ una bandiera. La <strong>NATO</strong> è<br />

passata al concetto operativo dell’’impronta leggera’, nella speranza<br />

che i fori regionali possano gestire i problemi <strong>della</strong> comunità internazionale<br />

che la ‘superpotenza solitaria’ non è più in grado di risolvere.<br />

Una soluzione che potrebbe pure essere ragionevole dal nostro punto<br />

di vista se solo in 2000 anni di storia fossimo mai riusciti a dare<br />

prova di comunità d’intenti nella gestione delle minacce esterne. Ma<br />

non è mai stato così.<br />

Se la <strong>NATO</strong> (e l’America) non guardano più all’Europa non c’è<br />

molto da stupirsi. Si prega di chiedere conto a Parigi e Berlino di<br />

quanto è accaduto. L’America guarda alla Cina nella speranza che<br />

un approccio non antipatizzante possa guidare l’ingresso del Regno<br />

Celeste nel sistema economico nel quale viviamo.<br />

L’Afghanistan è una partita persa dalla <strong>NATO</strong>. L’unica vera<br />

transizione è stata quella che ha visto il passaggio <strong>della</strong> sicurezza<br />

dalle truppe ISAF, che per 11 anni hanno combattuto a viso aperto<br />

i talebani, alla CIA, che combatte in nome dell’impronta leggera: la<br />

stessa strategia sposata dalla <strong>NATO</strong> a Chicago per mancanza di alternative.<br />

Seguiranno il Pakistan, lo Yemen, la Somalia, la Nigeria,<br />

il Mali, la Siria, sin quando qualcuno (da una parte e dall’altra<br />

dell’Oceano) non si renderà conto che le ragioni di un’Alleanza sono<br />

state spedite in soffitta troppo presto. La storia non è ancora finita.

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