Calendario 2006 - scuola media "I. Nievo" di Belluno

Le pagine di questo calendario sono
una raccolta di testimonianze di
un passato per lo più scomparso, ma
ancora presente in coloro che, bambini
durante il fascismo oppure nel periodo
bellico o immediatamente successivo,
ne hanno un ricordo ancora vivo e
presente.
Fanno parte dei ricordi del passato
l’esistenza di grandi famiglie patriarcali
che vedevano vivere in un unico nucleo
abitativo nonni, fi gli e nipoti, con una
divisione dei ruoli e delle attività svolte
all’interno di esso; ne fanno anche parte
il lavoro dei minori e la loro limitata
scolarizzazione; la frugalità del cibo,
che solo in occasione di alcune festività
si arricchiva con la preparazione di
pietanze tradizionali; le rare occasioni
di svago e divertimento, proprio
per questo vissute con intensità; la
soggezione della donna sottoposta
all’autorità maschile; il duro lavoro
quotidiano e la necessità di provvedere
al sostentamento di una prole spesso
numerosa.
Alcune esperienze di vita, come
la guerra, per fortuna non sono state
GENNAIO 2006
Foto di Giuditta e Ferdinando
De Battista, nonno di Alberto
Meneghel.
vissute dai nostri ragazzi, ma delle
ricorrenze del passato sono ancora
d’attualità: l’attesa dei bambini della
notte di S. Nicolò è magica oggi come
allora, ma quanto contrastanti sono i
doni ricevuti un tempo rispetto a quelli
d’oggi!
Perciò i ragazzi che hanno raccolto
e trascritto testimonianze di quelle
che nel presente sono persone per
lo più anziane, hanno avuto modo di
scoprire non solo le radici del loro
recente passato, ma anche di acquisire
la consapevolezza di come la storia
delle nostre genti sia profondamente
cambiata in pochi decenni, con una
velocità di mutamento dei costumi
e degli stili di vita impensabili nelle
epoche precedenti.
Ciò che in questo calendario viene
trascritto, per motivi di spazio è solo
una selezione di quanto raccolto: sono
delle microstorie nelle quali molti
potranno comunque riconoscere
momenti personalmente vissuti o, in
quanto simili, sentiti narrare anche da
chi non è più tra noi.
“I bambini di un tempo”
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Maria Madre di Dio
s. Basilio
s. Genoveffa
s. Fausta
s. Nazario
Epifania di N.S.
s. Raimondo
ss. 40 Martiri
Battesimo del Signore
s. Aldo
s. Igino
s. Probo
s. Ilario
s. Macrina
s. Mauro
s. Marcello
s. Antonio Abate
s. Prisca
s. Mario
s. Sebastiano
s. Agnese
s. Vincenzo
Sposalizio di Maria Vergine
s. Francesco di Sales
Conversione s. Paolo
ss. Tito e Timoteo
s. Angela Merici
s. Tommaso d’Aquino
s. Aquilino
s. Martina
s. Giovanni Bosco

Narra il signor Giovanni De Min (1937) nonno di Monica Azzalini:
“Anni fa, quando ero piccolo, il rapporto
con i nostri genitori era molto diverso da
quello del giorno d’oggi.
Innanzi tutto c’era molto più rispetto
e talvolta anche un pizzico di soggezione
nei loro confronti: eravamo più timidi e di
certo non ci permettevamo di controbattere
la parola degli adulti o di rispondere loro
male.
Nonna Gina viveva in una famiglia
patriarcale composta da ottantaquattro
persone: era la più numerosa di Belluno.
Negli anni ’40 i proprietari della casa
volevano che il nucleo rimanesse unito
fi no ad arrivare a cento persone perché, in
questo modo, avrebbero preso un premio
in denaro, ma la famiglia si divise e non
arrivò mai al numero sperato.
Mia nonna diede del voi a sua madre
fi no a quando compì quindici anni e solo da
quel momento ebbe il permesso di darle del
tu.
Con lei aveva un ottimo rapporto e le
raccontava tutto, tranne quando faceva
cadere dal passeggino il fratello più piccolo
perché aveva paura di prendersi le sgridate,
se glielo avesse detto.
Tra fratelli non giocavano molto:
l’unico passatempo, quando c’era la neve,
era andare giù per una discesa con la slitta
che serviva per trasportare la legna; la loro
FEBBRAIO 2006
Ricordo anche che non c’era molta
confi denza in famiglia e quindi crescevamo
in balia degli eventi, non avendo coraggio
di chiedere consiglio.”
...e così racconta Andrea Fagherazzi di sua nonna, signora Gina De Bona (1937)
istruzione non andò mai al di là di qualche
anno di scuola elementare.
I familiari si riunivano a cena per
mangiare polenta e minestrone; soltanto
durante le feste più importanti si
concedevano della carne e bevevano il vino
delle loro vigne.
In estate gli uomini passavano tutto il
giorno nei campi che lavoravano con aratri
trainati da buoi, mentre le donne lavavano,
stiravano e facevano da mangiare.
In inverno, invece, gli uomini
costruivano rastrelli e zoccoli di legno,
riparavano gli attrezzi, ammazzavano le
bestie per venderne la carne e facevano
i salami, mentre le donne nelle stalle
fi lavano la lana e la canapa.
I bambini avevano il compito di dar
da mangiare agli animali e di portarli al
pascolo.
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La famiglia patriarcale
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s. Leonio
Presentazione del Signore
s. Biagio
s. Gilberto
s. Agata
s. Armando
s. Riccardo
s. Girolamo
s. Apollonia
s. Scolastica
N.S. di Lourdes
s. Eulalia
s. Benigno
s. Valentino
s. Faustino
s. Giuliana
ss. 7 Servi di Maria
s. Simeone
s. Corrado
s. Ulrico
s. Pier Damiani
s. Cattedra di s.Pietro
s. Policarpo
s. Edilberto
s. Costanza
s. Nestore
s. Onorina
s. Cereale

Anna Gaspari vestita da
Balilla, nonna di Claudio
Mella. La fotografi a è
del ‘36.
â
MARZO 2006
Gruppo di Balilla
con Carletto
Gaspari (il primo
a destra, in piedi),
nato nel 1929.
ä
Il bambino e il fascismo
Racconta Claudio Mella...
I miei nonni sono nati al tempo del Fascismo,
per cui ben presto divennero Balilla. Per i
bambini il Fascismo era una cosa positiva
perché non erano consapevoli degli aspetti
brutali della dittatura: infatti, essendo educati
con valori positivi come il rispetto della patria,
l’amore per l’Italia, l’affetto verso i familiari, non
conoscevano l’altra faccia della medaglia.
Per i bambini e i ragazzi in estate c’erano
le colonie e i campeggi, mentre normalmente
c’erano i raduni,ovvero le “adunate” dei Balilla e
dei Piccoli Italiani. Quando parlava il Duce alla
La signora Eliana,nonna di Marco Zago, narra quanto segue:
“In quegli anni di guerra si mangiava poco, il
cibo era tesserato e alle famiglie venivano dati
200 grammi di pane al giorno che, oltretutto,
era molto cattivo, ma poiché non c’era altro, ci si
doveva accontentare.
Tutte le settimane c’era il Sabato Fascista
durante il quale gli scolari si vestivano in divisa:
camicia bianca e gonna nera per le femmine,
camicia nera, calzoncini grigio-verdi
radio, tutti scendevano in piazza. Mio nonno,
che all’epoca aveva circa tredici anni, suonava la
tromba per il richiamo.
Sempre per i più piccoli c’era il Sabato
Fascista, cioè un giorno in cui i ragazzi si
trovavano per fare attività sportiva. Mio nonno
praticava l’arrampicata, il lancio del giavellotto
e l’atletica. Ai bambini veniva dato il “Decalogo
del Piccolo Italiano” che conteneva i valori e i
comportamenti a cui ciascuno avrebbe dovuto
attenersi. Quando arrivò la guerra, queste
attività vennero sospese.
e un copricapo chiamato ‘fez’ per i maschi; si
riunivano in palestra, marciando e cantando
canzoni fasciste.
Un’altra cosa che ricordo di quel periodo è
che il Duce aveva chiesto di donare alla patria
della lana per fare i calzini ai soldati al fronte.
Questa lana veniva tolta dai materassi; quelli
nostri, però, erano poco imbottiti sicché la lana
recuperata era veramente misera.”
Testimonianza della signora Roberta Roni, nonna di Athina Mansutti.
“Mia mamma, nonostante fossimo poveri,
voleva che tutti noi cinque fratelli andassimo a
scuola.
Della scuola ho tantissimi ricordi. Ogni
anno, per esempio, per la Befana o San Nicolò
venivano a trovarci in classe dei fascisti che
ci portavano dei doni che in qualche modo
riguardavano il fascio; in quell’occasione la
nostra maestra si vestiva di tutto punto e
sistemava anche tutti noi (colletti, calzini,...).
Dovevamo essere felici e riconoscenti!
Ricordo che un giorno, mentre io, mia
sorella e altri bambini andavamo a scuola,
dei tedeschi ci hanno bloccati sul ponte della
‘passerella’ e ci hanno perquisito le cartelle,
perché il giorno prima i partigiani avevano
ucciso un tedesco e pensavano che noi
portassimo dei messaggi ai resistenti.”
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Le Ceneri
s. Simplicio
s. Cunegonda
s. Casimiro
I di Quaresima
s. Marziano
ss. Perpetua e Felicita
s. Giovanni di Dio
s. Francesca Rom.
s. Emiliano
s. Costantino
II di Quaresima
s. Rodrigo
s. Matilde
s. Cesare
s. Eriberto
s. Patrizio
s. Cirillo di Ger.
III di Quaresima
s. Claudia
s. Filemone
s. Benvenuto
s. Turibio ves.
s. Gabriele
Annunciazione di M.V.
IV di Quaresima
s. Augusta
s. Sisto papa
s. Secondo
s. Amedeo
s. Beniamio

La nonna di Nisi Sebastiano racconta...
“La Pasqua era una festa molto sentita;
c’erano dei grandi preparativi da parte del
parroco, delle catechiste e dei bambini.
I ragazzi del quartiere di Borgo Pra’,
di cui facevo parte, avevano il compito di
raccogliere la sabbia del Piave con i secchi
di rame, più o meno dieci giorni prima
della Pasqua: con questa dovevano costruire
il ‘rolo’.
Fra i quartieri c’era una gran
competizione per chi faceva il più bello.
Nel frattempo le mamme si
organizzavano per la preparazione di
focacce con al centro l’uovo sodo.
Il giorno di Pasqua tutti si recavano
alla Santa Messa che, per l’occasione,
sembrava più festosa: si vestivano con gli
abiti nuovi e alla fi ne della funzione... tutti
a casa a fare colazione con latte e focaccia!
Poi, in gran fretta, si andava nella
piazzetta con un uovo sodo in mano e
qualche lira in tasca per giocare al ‘rolo’.
La Pasqua
APRILE 2006
Il gioco del “rolo”.
Il ‘rolo’ era composto da una spianata
di sabbia di forma circolare e da un
‘lavador’ da cui si facevano rotolare le uova
cercando di colpire quelle degli avversari.
Quando il guscio si rompeva, si toglieva
l’albume e si continuava a giocare con il
solo tuorlo, la ‘patarizza’.
Il divertimento proseguiva fi no a
mezzogiorno, quando si tornava a casa per
mangiare assieme ai parenti.
Il pranzo consisteva in cose semplici
come coniglio, polenta, patate, radicchio...,
ma al termine ci aspettava la focaccia da
tutti molto gradita.
Nel pomeriggio i ragazzi si ritrovavano
nella piazzetta per proseguire le sfi de con il
‘rolo’.
La Pasqua era proprio una grande
festa!”
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s. Ugo
V di Quaresima
s. Riccardo
s. Isidoro
s. Vincenzo F.
s. Diogene
s. Giov. Batt. La Salle
s. Alberto
Le Palme e Passione
s. Ezechiele
s. Stanislao
s. Zenone
s. Martino I, papa
s. Lamberto
s. Annibale
Pasqua di Resurrezione
dell’Angelo
s. Galdino
s. Espedito
s. Sulpizio
s. Anselmo d’A.
s. Leonida
in Albis
s. Fedele da S.
s. Marco ev. - Anniv. Liberazione
s. Cleto
s. Zita
s. Pietro Chanel
s. Caterina da Siena
s. Pio V, papa

MAGGIO 2006
Foto ricordo di Anna Gaspari,
nonna di Claudio Mella.
La Prima Comunione
Ci narra la signora Maria Cappello, nata nel 1917:
“Il giorno 19 giugno del lontano 1924,
alle ore 8.00, nella chiesa di S. Stefano di
Belluno, feci la mia Prima Comunione.
Ricordo il mio bel vestito bianco lungo
fi no ai piedi, il colletto di pizzo grande
e arricciato, il velo che mi copriva tutta,
fermato sulle spalle con un nastrino di
seta; le calze bianche e le scarpette nere di
vernice, lucidissime.
Ricordo anche che, di nascosto, per
strada andando in chiesa, mi pulivo le
punte delle scarpe sfregandole sulle calze
per mantenerle pulite, con conseguenti
strattoni o scappellotti da parte di chi mi
accompagnava.
La chiesa, addobbata a festa, era piena
di luci e di ghirlande di fi ori appese alle
colonne.
I banchi, disposti in due fi le verticali
lungo la navata, erano coperti da tovaglie
bianche. Nella fi la di destra dell’altare
stavano le bambine e in quella di sinistra
i maschietti; fra questi c’era anche mio
fratello Bruno perché anche lui faceva la
Prima Comunione.
Mi sentivo importante e tutta presa
da quanto mi circondava; ero distratta
nonostante l’accurata preparazione alla
Comunione ricevuta per lunghi giorni da
Suor Pierina, all’Asilo S. Biagio. Quante
cialde ci ha fatto prendere e quanta acqua
io ho bevuto per mandarle giù!
Ricordo il parroco, don Antonio
De Cassan, sotto il baldacchino dorato,
con il calice in mano, che distribuiva la
particola alle mie compagne e sempre più
si avvicinava a me che, tutta agitata, ero in
attesa.
In ricordo il parroco ci ha donato
un’immagine sacra: un bel quadretto che
conservo ancora.
Dopo la Comunione siamo rincasati
per fare colazione e per prepararmi per la
Cresima, che si teneva in Vescovado alle
11.00; rivedo il Vescovo Catarossi, fi gura
severa che incuteva devozione e rispetto.
Al termine della cerimonia, fatta una
sosta alla pasticceria Serena, siamo tornati
a casa, dove la mamma aveva preparato un
pranzo con i fi occhi: c’era la tavola piena di
ogni ben di Dio.
Per regalo io ho ricevuto una cartella
per la scuola, di pelle verde, un astuccio
di legno e delle penne con pennini; mio
fratello Bruno, invece, una cartella in fi bra e
poi l’astuccio come me.
Io facevo le elementari e, come tutti i
bambini non ricchi, usavo per i libri una
borsa di tela grossa, grigia, fatta dalla
mamma; possedere perciò una vera cartella,
mi sembrava un sogno!
La giornata si è conclusa al Teatro
Comunale dove, per farci divertire, siamo
stati portati alle ore 21.00 a vedere uno
spettacolo di Ridolini; sulle gradinate
di legno del loggione io e mio fratello,
mentre gli altri si divertivano, ci siamo
addormentati.
Ricordo che a casa sono ritornata,
addormentata, in braccio allo zio.”
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s. Giuseppe lav.
s. Atanasio
ss. Filippo e Giac.
s. Porfi rio
s. Teodoro
s. Giuditta
s. Augusto
s. Desiderato
s. Luminosa
s. Alfi o
s. Achille
s. Pancrazio
s. Emma
ss. Vittore e Corona
s. Torquato
s. Ubaldo
s. Pasquale
s. Venanzio
s. Ivo
s. Bernardino
s. Valente
s. Rita da Cascia
s. Desiderio
Maria Ss. Ausiliatrice
s. Beda prete
s. Filippo Neri
s. Oliviero
Ascensione di N.S.
s. Ademaro
s. Ferdinando
Fotografi a della Prima Comunione della
signora Eliana, nonna di Marco Zago:
“Qui mia nonna aveva otto anni, per cui è
l’anno 1941. A quei tempi c’era la guerra e
siccome la gente era povera, non si poteva
permettere di fare banchetti. Gli unici
regali che i bambini ricevevano erano dei
libricini di preghiere e dei rosari, quindi la
Comunione era solo una festa religiosa.”
Visitazione della B.V. Maria

Testimonianza della signora Roberta Roni (1931) nonna di Athina Mansutti.
“Ricordo bene quando a dodici anni
sono andata a lavorare in una famiglia di
Belluno.
Il mio compito era quello di tenere due
bambini (una femmina e un maschietto) e
di fare la domestica.
Ho lavorato in questa casa per cinque o
sei mesi, ma poi me ne sono andata.
Ricordo l’ultimo giorno d’ impiego: era
febbraio e non ero riuscita a spalare la neve
vicino al portoncino d’ingresso, perché i
Brombal Luca narra quanto segue...
Mia nonna mi racconta con commozione
e tristezza: “Finita la quinta elementare
sono andata a lavorare ‘soto paron’ in una
sartoria di paese, assieme ad altre quindici
giovani ragazze.
Io ero abbastanza fortunata perché,
per recarmi al lavoro, dovevo percorrere
solo due chilometri a piedi quattro volte
al giorno, mentre molte delle mie colleghe
dovevano camminare o pedalare per decine
di chilometri, anche in pieno inverno.
Solo nelle giornate più fredde e nevose
Racconta la signora Maria Boff, nonna di Andrea Marinello:
“Ho potuto stare poco con i miei fratelli
perché sono andata a lavorare a dodici anni
in una famiglia dove dovevo pulire la casa
e far da mangiare; guadagnavo 3000 lire al
mese e dovevo mandarne 2700 a mio padre,
perciò le rimanenti 300 lire le tenevo per
GIUGNO 2006
bambini non stavano bene e non facevano
che piangere.
Quando è arrivata, la padrona mi ha
sgridata tanto e ha chiesto al marito di
arrabbiarsi anche lui con me.
Così, dopo la seconda lavata di capo, ho
preso la porta e me ne sono tornata a casa.
Il giorno dopo tutta la loro arroganza
era scomparsa: la mattina il padrone è
venuto fi no a casa mia per pregarmi di
tornare da loro. Non ho voluto.”
ci fermavamo in sartoria, aspettando
‘l’on del pan’ che passava con la bicicletta
sommersa da sacchi di pane per venderne a
chi si fermava al lavoro.
Di stipendio non c’era neanche l’ombra:
lo si percepiva a partire dai sedici anni
e anzi, chi lavorava in sartoria, doveva
ritenersi privilegiato di poter imparare un
mestiere gratuitamente.
Durante la settimana lavoravamo
undici ore al giorno, con una breve pausa
per il pranzo.”
me per comperare dei francobolli e, di tanto
in tanto, un gelato.
A quattordici anni sono andata come
bambinaia a Varese, dove accudivo e
leggevo delle storie ai fi gli delle famiglie più
ricche.”
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Il lavoro minorile
Gruppo di sette fratelli. La fotografi a ci è stata data
da Alberto Meneghel.
s. Giustino
Fondazione della Repubblica
s. Clotilde
Pentecoste
s. Bonifacio
s. Norberto
s. Roberto
s. Vittorino
s. Primo
s. Diana
Ss. Trinità
s. Onofrio
s. Antonio di P.
s. Eliseo
s. Vito
s. Aureliano
s. Ranieri
Corpus Domini
s. Romualdo
s. Ettore
s. Luigi Gonzaga
s. Paolino di Nola
s. Lanfranco
natività di s. Giovanni Battista
s. Prospero
s. Vigilio di T.
s. Ladislao
s. Attilio
ss. Pietro e Paolo
ss. Protom. Romani

LUGLIO 2006
Da una pagina di diario di Antonio Da Gioz, nato nel 1887, bisnonno di Tommaso Pavan.
“Nato da una famiglia di contadini di
Cavarzano, la prima disgrazia che mi è
successa è stata quella che mi è mancata la
mamma a soli quindici mesi e poi sono stato
quasi abbandonato, perché papà era buono,
ma era sempre dal padrone a lavorare.
Ricordo tante sere al buio, tardi, in cui
pieno di sonno mi trovavo a dormire sul
pavimento della cucina o nel fi enile, perché
c’erano poche camere. Per cena una fetta
di polenta e poco formaggio o ricotta, dati
sulle mani come a un mendicante.
D’inverno le bestie nella stalla stavano
meglio di noi ragazzi nel fi enile, che non
aveva né porte né fi nestre e allora, con uno
straccio di coperta, si stava dentro al fi eno
come i conigli. Questa era la vita di allora e
quasi tutti i contadini vivevano così!
In primavera ci si alzava presto per
andare ad arare i campi, ma avevo sonno
e così mi dicevano «Vai dritto!» e se non
ubbidivo mi davano una scudisciata sulle
gambe. Quante volte sono passato per arare
la terra sotto la bella chiesa di Cavarzano!
Eravamo schiavi del tutto. Soldi
neanche vederli e il vitto era poco e
misurato; bisognava ‘mettere’ la canapa
nei campi per la tela e allevare le pecore
per la lana per vestirci un po’ alla meglio
d’inverno.
Ai piedi sempre galosce, anche alla
festa. Chi aveva le scarpe erano i signori e
gli emigranti. Ricordo che venivo giù dalle
valli di Bolzano e di Valmorel con le galosce
tutte di legno che facevano un grande
strepito per Belluno “pin patapronp”.
Io, a dodici anni, ho preso la Prima
Comunione e sono andato in prestito delle
scarpe da un mio amico.
Avevo quattro anni quando mio padre
si è risposato. È stata la mia fortuna perché
ha trovato una donna brava e buona e
molto cattolica. Pregava sempre e ha avuto
due bambine, ma voleva più bene a me che
ero il suo fi gliastro.
Ricordo quante volte sono andato al
pascolo con le mucche e con le pecore, tutto
il giorno, con solo un pochino di polenta
secca o tre patate e un pezzo di formaggio.
Tante volte dovevo andare a scuola, ma
il padrone di casa -mio zio- mi proibiva
di andarci perché, altrimenti, imparavo
troppo e diceva: «Noi non abbiamo andar
avvocato, basta fare il proprio nome».”
Testimonianza del signor Giovanni De Min (1937), nonno di Monica Azzalini.
“Quando ero piccolo, io e i miei amici,
nati da famiglie contadine, fi n dall’età di
sei-sette anni, dopo la scuola andavamo
nei campi o al pascolo ad aiutare i nostri
genitori. Nelle giornate di pioggia, invece,
stavamo nelle stalle a sgranare i fagioli,
pulire le pannocchie o mungere le mucche,
mentre il nonno ci assisteva raccontandoci
tanti lontani ricordi.
Quando crescevamo, mentre i bambini
delle famiglie più ricche continuavano
ad andare a scuola, noi, fi nita la quinta
elementare, andavamo a lavorare nei
cantieri per portare soldi a casa.
Ciò pesava, ma era l’unico modo per
continuare a vivere in modo decente.”
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Il bambino
e il lavoro nei campi
Bambini e donne con attrezzi agricoli in mano. Nel gruppo
sono ritratte nonna e bisnonna di Elena Vincenzi.
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s. Ester
s. Ottone
s. Tommaso ap.
s. Elisabetta
s. Antonio M. Z.
s. Maria Goretti
s. Pompeo
s. Adriano
s. Fabrizio
s. Marziale
s. Benedetto ab.
s. Goffredo
s. Enrico
s. Camillo de L.
s. Bonaventura
B. V. del Carmine
s. Alessio
s. Federico
s. Arsenio
s. Vera
s. Lorenzo
s. Maria Maddalena
s. Brigida
s. Cristina
s. Giacomo ap.
ss. Anna e Gioacchino
s. Celestino
s. Celso
s. Marta
s. Pietro Crisologo
s. Ignazio di L.

Il bambino e la montagna
Andrea Dorotei ci racconta...
Mia nonna Ursula, sposata con Vincenzo,
aveva quattro fi gli. La famiglia abitava
in una piccola casa in campagna insieme
a moltissimi animali che mio padre
Soro, l’unico fi glio maschio, accudiva
personalmente.
Andava spesso nei boschi per tagliare
la legna, mentre le sorelle raccoglievano
funghi e castagne. Era un lavoro faticoso
che mio padre ricorda con sofferenza:
doveva infatti camminare per un’ora
reggendo sulle spalle una slitta di
dodici chili, caricarla della legna da lui
tagliata nel bosco con un’accetta e infi ne
ripercorrere il cammino a ritroso.
Questo lavoro, che a undici anni gli era
particolarmente gravoso, gli ha permesso da
adulto di perseverare nella resistenza alla
fatica e, diventato militare dell’aeronautica,
di praticare attività sportive che lo hanno
portato ad amare profondamente la
montagna.
AGOSTO 2006
Da adulto ha così partecipato
ad imprese faticose ma di grande
soddisfazione, scalando monti di altezza
superiore agli 8000 metri, quali il K2 e
alcune vette dell’Himalaya.
Ricorda che durante una di queste
spedizioni l’orgoglio di appartenere alla
nostra nazione (era l’unico italiano del
gruppo alpinistico) lo ha spinto a portare
a compimento la scalata e, anche grazie
all’educazione al sacrifi cio appresa fi n
dall’infanzia, a raggiungere la meta
prefi ssata!
Soro Dorotei con le
sorelle - 1960.
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Arrampicata
sportiva in Cáleda.
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s. Alfonso
s. Eusebio
s. Lidia
s. Giovanni M.V.
s. Madonna della Neve
Trasf. del Signore
s. Gaetano
s. Domenico
s. Fermo
s. Lorenzo m.
s. Chiara vergine
s. Euplio
ss. Ponziano e Ippolito
s. Alfredo
Assunzione della B.V.
s. Rocco
s. Settimo
s. Elena
s. Giovanni Eudes
s. Bernardo di C.
s. Pio X, papa
B. V. Maria Regina
s. Rosa da Lima
s. Bartolomeo
s. Lodovico
s. Alessandro
s. Monica
s. Agostino
Mart. di s. Giovanni Battista
s. Bonomio
s. Abbondio

Sara Casagrande ci narra...
Mio nonno Alvise racconta che,
adolescente al tempo della guerra, per ben
due volte temette per la propria vita.
Un giorno, mentre stava rastrellando il
fi eno con degli amici, fu raggiunto da alcuni
soldati tedeschi che, per rappresaglia (era
stato ucciso uno di loro), volevano catturare
cinque uomini.
Ebbe fortuna: non fu preso, ma gli fu
ordinato di andare subito a casa, da dove,
poco dopo, sentì gli spari della fucilazione
dei suoi amici.
Nel maggio del ’45, durante la ritirata
delle truppe d’occupazione, i partigiani
SETTEMBRE 2006
aprirono il fuoco contro il convoglio
tedesco e il nonno cercò una via di fuga
rifugiandosi in una stalla. Purtroppo i
tedeschi fecero irruzione anche lì: presero
mio nonno e altre persone che erano
con lui e li usarono come scudo umano
contro l’aviazione che cercava di colpire i
fuggiaschi dall’alto.
Furono momenti di grande confusione e
di grande rischio per tutti.
Il nonno ha preferito non raccontarmi
le sue esperienze nei dettagli, perché il loro
ricordo gli è tutt’oggi fonte di sofferenza.
Racconta la signora Ernesta D’Ambros, conoscente di Laura Scardino:
“Durante la seconda guerra mondiale si
soffriva la fame e, vivendo in un piccolo
paese di montagna, per andare a scuola
bisognava spostarsi nel paese principale.
A metà strada, però, c’erano dei posti di
blocco dei tedeschi per cui un giorno si
andava a scuola e tre no.
Nel 1943, durante un rastrellamento,
portarono via mio padre: l’hanno tenuto in
ostaggio per più di un mese ma alla fi ne,
per fortuna, l’hanno rilasciato.
Ricordo che una volta, per i
bombardamenti, siamo scappati in
montagna e per una settimana abbiamo
dormito in un fi enile, mangiando pasta
cruda dataci dagli americani.
Dopo il coprifuoco, appena faceva buio,
era obbligatorio l’oscuramento.
Tutti si chiudevano in casa e tenevano
le luci spente e, quando passavano gli aerei
nemici, suonavano le sirene dell’allarme.
La gente temeva Pippo che volava basso
e rumoroso sopra le case, pronto a colpire
qualsiasi bersaglio. I bambini, impauriti,
sapevano questa fi lastrocca:
Mi chiamo Pippo
mandato da Badoglio
faccio quel che voglio
se vedo un lumicino
getto un bocconcino.”
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Il bambino e la guerra
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s. Egidio
s. Elpidio
s. Gregorio M.
s. Rosalia
s. Giordano
s. Imperia
s. Regina
s. Natività di M. Vergine
s. Sergio
s. Nicola da T.
s. Proto
s. Giovenzio
s. Giov. Crisostomo
Esaltazione s. Croce
B. V. Addolorata
ss. Cornelio e Cipriano
s. Roberto Bellarm.
s. Giuseppe da C.
s. Gennaro
s. Candida
s. Matteo
s. Maurizio
s. Lino papa
s. Gerardo
s. Aurelia
s. Cosma e Damiano
s. Vincenzo de’ Paoli
s. Venceslao
ss. Michele, Gabriele, Raffaele Arcangeli
s. Girolamo

Testo di Lucia Garbellotto.
Mia nonna Anita da piccola andava alla
scuola elementare di Bolzano Bellunese; era la
più brava della classe e per “premio”, ogni
giorno, in orario scolastico, saliva nell’appartamento
della maestra e le faceva i lavori domestici:
puliva la casa, stirava e andava a comprarle
il pane dal fornaio, ricevendo in cambio un po’ di
soldini che pian piano metteva via.
Un giorno le capitò una cosa molto
divertente: stava imparando la divisione e
suo padre le disse che lui conosceva un modo
semplice per spiegargliela.
OTTOBRE 2006
Le fece questo disegno:
Il signor Luigi Fontanella (1923), nonno di Lorenzo, racconta...
“Al tempo del Fascismo la scuola era
obbligatoria dalla prima alla quinta elementare,
ma la maggior parte dei bambini la frequentava
solo fi no alla terza.
Il materiale scolastico era molto ridotto: un
quaderno a quadri, uno a righe, un album da
disegno, un ‘canoto’ con pennino, una matita
e una gomma. La cartella era di cartone o una
sacca di stoffa, l’astuccio era di legno e la colla si
preparava con l’acqua e la farina bianca.
Le materie principali erano: calligrafi a,
italiano, storia, geografi a, matematica e religione
cattolica. La giornata scolastica andava dalle
nove alle dodici e dalle quattordici alle sedici; il
giovedì e la domenica era vacanza.
La giornata si apriva con la preghiera e
con il saluto alla romana che era un atto di
riconoscenza e di riverenza al Duce. Infatti la
maestra doveva ricordarne agli alunni, in ogni
momento, la grandezza e l’importanza. La scuola
aveva anche un ruolo di assistenza e prevenzione
delle malattie: i bambini versavano ogni
settimana venti centesimi per ottenere le cure
e disse: “Il RE nel RE ci sta 1 volta con il resto di
zero e poi ABBASSO IL DUCE”.
Anita, non sapendo chi era il Duce, non
aveva capito lo scherzo e la mattina successiva
chiese alla maestra se poteva scrivere alla
lavagna quello che le aveva insegnato suo padre.
Ottenuto il consenso e scritta la divisione,
subito la maestra le ordinò di cancellarla,
arrabbiandosi moltissimo.
necessarie in caso di tubercolosi, all’epoca molto
diffusa. Ai più poveri veniva somministrato l’olio
di merluzzo, ritenuto un ottimo ricostituente.
Gli alunni percepivano chiaramente
di frequentare una scuola di regime: ogni
compito scolastico veniva contrassegnato dalla
data dell’ascesa del fascismo; la disciplina
caratterizzava i diversi momenti della vita
scolastica; inoltre l’insegnamento e i testi erano
improntati sulle attività del partito e della
religione cristiana. L’insegnante era infl essibile e
puniva gli alunni mandandoli dietro la lavagna
o facendoli rimanere a lungo con le mani dietro
la schiena. I compiti domestici erano impegnativi
e le valutazioni severe, per cui era facile essere
bocciati.
La regolare frequenza era impedita da diversi
problemi quotidiani: le bambine abbandonavano
anticipatamente gli studi perché i genitori
pensavano che non valesse la pena spendere
tempo e denaro per l’istruzione di una donna,
mentre i maschi si assentavano per aiutare il
padre in campagna, nel bosco e nella stalla.”
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La scuola
La foto di Sara Casagrande ritrae una classe
di prima elementare del ’23, di cui faceva
parte nonno Angelo.
s. Teresa del B.G.
ss. Angeli Custodi
s. Esichio
s. Francesco d’Assisi
s. Placido
s. Bruno
B.V. del Rosario
s. Pelagia
s. Dionigi
s. Daniele
s. Firmino
s. Serafi no
s. Edoardo
s. Callisto
s. Teresa d’Avila
s. Edvige
s. Ignazio d’Ant.
s. Luca ev.
s. Isacco
s. Artemio
s. Orsola
s. Salomè
s. Giovanni da Cap.
s. Antonio M.C.
s. Crispino
s. Evaristo
s. Fiorenzo
ss. Simone e G. ap.
s. Ermelinda
s. Lucano
s. Quintino

NOVEMBRE 2006
Ricordi della Grande Guerra
La signora Marina Fasolo (1907) ha scritto alcuni ricordi dei lontani anni 1915-18.
“Dell’anno dell’invasione tedesca ricordo
fame, freddo e tanta paura.
A Belluno le persone che ne avevano
la possibilità lasciavano la loro casa ed
emigravano in altre città d’Italia, libere.
Le scuole erano chiuse; la gente era
spaventata e affamata.
Per potersi procurare qualcosa
da mangiare doveva scambiare con i
contadini le cose di casa: biancheria, piatti,
casseruole, oggetti d’oro e altro.
Con la mamma giravo per la campagna
e c’era lo scambio con fagioli, patate, frutta;
qualche volta un po’ di farina.
Io avevo solo otto anni e mi stancavo
molto a camminare.
Poiché io e la mia famiglia abitavamo
in una grande casa, abbiamo dovuto cedere
delle stanze a degli uffi ciali austriaci che,
per fortuna, erano brave persone.
In particolare ricordo ancora bene un
giovane distinto che era maestro di disegno
alla Casa Reale di Vienna; egli mi fece un
ritratto a pastello che conservo ancora e su
questo scrisse ‘Non saremo mai nemici’.
Belluno - Papazzo dei
Rettori.
Particolare del capitello
d’angolo rovinato da
una palla d’artiglieria.
Ricordo che, quando in casa non c’era
niente da mangiare, andavo nell’ora di
pranzo nelle mense degli uffi ciali tedeschi
a chiedere un po’ di pane; con me portavo
mia sorella Maria che aveva circa un anno
e mezzo e sapeva ancora camminare poco.
Poiché io mi vergognavo, era Maria
che si avvicinava a loro e diceva tendendo
la manina: ‘Un cin popot’ (cioè ‘brot’) e
qualcuno, intenerito, le dava una fetta di
pane.
Lei avrebbe voluto mangiarla subito,
ma io gliela prendevo per portarla a casa e
dividerla con tutti.
Brutta cosa la fame!
Ho visto cadere a terra sfi niti il papà
e la mamma per mancanza di cibo, perché
quel poco che c’era lo davano a noi fi gli
sempre affamati.
Il papà, impiegato in municipio, era
tenuto come ostaggio dai tedeschi e noi
eravamo sempre in pena per lui.
Quanti ricordi paurosi in quel periodo
di tempo che durò circa tre anni! Tristi anni
di guerra italo-tedesca.”
Piazza Campitello durante la prima guerra mondiale, in occasione di una manifestazione.
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Tutti i Santi
Commem. dei Defunti
s. Martino de P.
s. Carlo
s. Magno
s. Leonardo
s. Ernesto
s. Goffredo
Dedic. Basiliche lat.
s. Leone Magno
s. Martino di Tours
s. Giosafat
s. Diego
s. Veneranda
s. Alberto M.
s. Edmondo
s. Elisabetta d’U.
Dedic. Basiliche ss. Pietro e Paolo
Avv. Ambrosiano
s. Ottavio
Presentazione B.V.M.
s. Cecilia
Clemente I, papa
s. Crisogono
s. Caterina
Cristo Re
s. Virgilio
s. Sostene
s. Saturnino
s. Andrea ap.

Racconta Alice D’Isep dei nonni Oliva Sommariva e Giovanni Sacchet ...
Quando ho chiesto a mia nonna di parlarmi di
San Nicolò, lei si è messa a ridere. Eh sì, a ridere.
Mi ha spiegato che a quei tempi San
Nicolò veniva visto come un lusso che solo le
famiglie più benestanti potevano permettersi, di
conseguenza era anche un momento di tristezza
e, a volte, di invidia.
Il papà di mia nonna era morto durante la
guerra e l’unica che lavorava era la mamma, la
quale non poteva permettersi neanche un piccolo
regalino per i suoi fi gli.
DICEMBRE 2006
Ancora oggi mia nonna ricorda con un po’
di invidia i bambini che, arrivando a scuola,
facevano vedere i regali che San Nicolò aveva
portato loro.
La famiglia di mio nonno, invece, anche se
era più numerosa rispetto a quella di mia nonna,
non faceva mai mancare ai loro sei fi gli un po’ di
frutta secca.
Non era un granché, ma rispetto a tutti gli
altri erano i più fortunati, dei privilegiati.
Una testimonianza della signora Maria De Pellegrin, nonna di Matteo Mussato.
“La tradizione di San Nicolò è nata moltissimi
anni fa e veniva festeggiata anche quando io ero
bambina, negli anni ’30.
C’era l’uso di mettere fuori dalla porta di
casa il fi eno per l’asinello e un bicchiere di vino
e un panino per il Santo, portatore di doni e di
gioia.
I regali che ricevevo erano caramelle,
frutta, noci, insomma cose povere e non i giochi
tecnologici e costosi di oggi.
Io ero sempre felice quando arrivava San
Racconta Marco Zago.
Una volta, per San Nicolò, a mia nonna fu
regalata una carrozzella per le bambole, che sua
mamma aveva comperato di seconda mano e
verniciato di azzurro per farla sembrare nuova.
Un giorno i ragazzi più grandi le dissero:
”San Nicolò benedet se to mama no ghen met,
Nicolò e, quando ho saputo che non era lui il
latore di tanti regali, mi sono sentita molto triste
e delusa: il sogno della sua esistenza era svanito!
Era bellissimo, nei giorni precedenti il suo
arrivo, sentire l’emozione dell’attesa di questo
uomo immaginario che amava i bambini e che
per ognuno di loro aveva un dono.
La sera precedente c’era grande trepidazione
quando si sentiva il suono dei campanelli per le
strade buie: era lui che avvertiva del suo arrivo e
io, dalla paura, mi nascondevo sotto il tavolo.”
al piato al resta net” e mia nonna, che voleva
vederci chiaro, andò a curiosare per la casa fi no
a che non scoprì in un armadio un paio di scarpe
nuove, le stesse che avrebbe ricevuto in regalo il
giorno di San Nicolò.
Così capì chi portava i doni.
Fotografi e di bambini di epoche diverse
con i loro giocattoli.
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San Nicolò
s. Eligio
s. Bibiana
I di Avvento
s. Barbara
s. Dalmazio
s. Nicola da Bari
s. Ambrogio
Immacolata Concezione
s. Sirio
II di Avvento
s. Damaso, papa
s. Giovanna Fr. di Ch.
s. Lucia
s. Giovanni della Croce
s. Massimino
s. Umberto
III di Avvento
s. Graziano
s. Dario
s. Ursicino
s. Pietro Canisio
s. Demetrio
s. Vittoria
IV di Avvento
Natività di N. Signore
s. Stefano
s. Giovanni ev.
ss. Innocenti
s. Tommaso B.
s. Eugenio
s. Silvestro