1 L'APPROCCIO DI GOFFMAN ALL'INTERAZIONE ... - Sociologia
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L’APPROCCIO <strong>DI</strong> <strong>GOFFMAN</strong><br />
ALL’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA<br />
Adam Kendon<br />
Traduzione italiana di Maria Graziano<br />
Original title: “Erving Goffman's approach to the study of face-to-face<br />
interaction.” In A. Wootton and P. Drew (a cura di), Erving Goffman:<br />
Exploring the Interaction Order. Cambridge: Polity Press, 1988, pp. 14-40.<br />
L’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA COME CAMPO <strong>DI</strong> STU<strong>DI</strong>O AUTONOMO<br />
In questo articolo passerò in rassegna alcuni concetti che Goffman ha<br />
sviluppato per lo studio dell’interazione faccia a faccia. Il mio intento è<br />
quello di mostrare che questi concetti forniscono un’intelaiatura molto<br />
generale in base a cui può essere condotto uno studio completamente<br />
integrato dell’interazione.<br />
Come affermerò alla fine dell’articolo, una maggiore sfida teorica<br />
che gli studiosi dell’interazione affrontano è quella di mostrare come le<br />
componenti del comportamento umano, che hanno un ruolo<br />
nell’interazione e che sono così apparentemente differenti, siano invece<br />
articolate l’una in relazione all’altra. Specialmente nei suoi ultimi scritti,<br />
Goffman si è dato da fare per ricordarci che l’interazione faccia a faccia in<br />
generale, e la conversazione in particolare, è lungi dall’essere una questione<br />
di sole parole. Così facendo, egli ha indicato la strada da seguire per<br />
arrivare ad una comprensione veramente integrata del comportamento<br />
comunicativo umano. Io credo che un ulteriore sviluppo dell’intelaiatura<br />
che è implicita nel lavoro di Goffman su questo argomento sia il modo<br />
migliore per arrivare ad una teoria dell’interazione faccia a faccia che<br />
consentirà di avere una visione integrata dell’interazione.<br />
Comincerò ad esaminare l’affermazione di Goffman secondo cui lo<br />
studio dell’interazione faccia a faccia dovrebbe essere considerata una<br />
branca della sociologia a se stante. Lo studioso ha suggerito l’esistenza di<br />
ciò che lui ha chiamato “ordine dell’interazione” (Goffman, 1983; trad. it.<br />
Goffman 1998) che può essere considerato come un campo di studio a sé.<br />
Questa convinzione è espressa in alcuni dei suoi primi scritti. La si può<br />
1
trovare nella sua tesi di dottorato (Goffman 1953) e costituisce la premessa<br />
principale di alcuni suoi primi articoli, come “On face work” (1955; trad. it.<br />
“Giochi di faccia” in Goffman 1971a) e “Alienation from interaction”<br />
(1957; trad. it. “Alienazione dall’interazione” in Goffman 1971a); ed è<br />
esplicita nella prefazione di “Encounters” (1961; trad. it. Espressione e<br />
identità 2003). Egli sostiene ripetutamente la stessa idea nei lavori<br />
successivi, come nelle pagine introduttive di Behavior in Public Places<br />
(1963; trad. it. Il comportamento in pubblico, 1971b), nella prefazione di<br />
Interaction ritual (1967; trad. it. 1971a) e nelle prefazioni di Strategic<br />
Interaction (1969; trad. it. Interazione strategica 1988) e Relations in<br />
Public (1971c; trad. it. Relazioni in pubblico 1981). Il modo in cui<br />
presenta e difende quest’idea cambia un po’ da un lavoro all’altro. Un<br />
confronto tra loro è istruttivo, perché suggerisce come il contesto teorico, in<br />
cui Goffman si aspetta che i suoi lavori siano inclusi, cambia da una<br />
pubblicazione all’altra.<br />
In Encounters (Espressione e identità), scritto nel 1961, quando lo<br />
studio dei “piccoli gruppi” era molto popolare in sociologia e nella<br />
psicologia sociale, l’interesse di Goffman è di mostrare che lo studio<br />
dell’interazione, così come lui lo concepiva, è diverso dallo studio dei<br />
“piccoli gruppi”. Egli afferma che le unità di organizzazione, come i<br />
raggruppamenti focalizzati o gli incontri, non sono la stessa cosa dei<br />
“piccoli gruppi”, come le bande, la famiglia, i plotoni militari o i gruppi<br />
delle psicoterapie. Sebbene ci siano delle similitudini – per esempio i<br />
gruppi, come i raggruppamenti, hanno delle regole di reclutamento e norme<br />
di comportamento a cui i membri devono aderire se vogliono continuare a<br />
parteciparvi – nello studio dell’interazione in quanto tale bisogna occuparsi<br />
di molte questioni che sembrano irrilevanti per lo studio dei gruppi. Queste<br />
comprendono la questione della gestione delle attività, come il problema<br />
della regolazione del perdere o assumere il ruolo di parlante o la<br />
distribuzione dei partecipanti nello spazio.<br />
In Behavior in Public Places (Il comportamento in pubblico)<br />
troviamo un’enfasi diversa, c’è il tentativo evidente di giustificare lo studio<br />
dell’interazione come una branca della sociologia indipendente. Goffman<br />
qui propone una nozione di “ordine pubblico” con cui intende l’ordine che<br />
regola il comportamento delle persone quando si trovano nell’immediata<br />
presenza l’una dell’altra. L’ “ordine pubblico” è proposto come una specie<br />
di “ordine sociale” e quest’ultimo è definito come “l’effetto di qualsiasi<br />
insieme di norme morali che regoli il modo in cui le persone perseguono i<br />
loro obiettivi” (Goffman 1963: 8; trad. it., 1971, p. 10). E continua:<br />
“L’insieme di norme non specifica gli obiettivi che devono essere<br />
perseguiti, né lo schema formato da e per mezzo della coordinazione o<br />
2
integrazione di questi fini, ma semplicemente i mezzi per perseguirli”. Il<br />
regolamento stradale ed il conseguente ordine del traffico ne sono un chiaro<br />
esempio. Il campo dell’interazione faccia a faccia, quindi, deve occuparsi<br />
delle “regole del traffico” dell’interazione e non del perché le persone<br />
interagiscono o cosa ottengono quando lo fanno. L’ “ordine pubblico”,<br />
visto come una specie di “ordine sociale” si può paragonare all’ “ordine<br />
giuridico” o all’ “ordine economico” di una società. In quanto tale ha lo<br />
stesso diritto dell’ordine giuridico o dell’ordine economico di essere uno<br />
studio indipendente. Nel proporre un campo di studio in questi termini,<br />
credo che possiamo scoprire il primo tentativo più o meno chiaro di<br />
Goffman di proporre, pubblicamente, lo studio dell’interazione come una<br />
branca della sociologia indipendente e di conseguenza il tentativo di<br />
sostenere l’importanza dell’area di fronte ai colleghi sociologi (Goffman<br />
aveva già sostenuto questa idea nella sua tesi, come è stato messo in rilievo<br />
da Leeds-Hurwitz, 1986).<br />
Nella prefazione di Interaction Ritual (Il rituale dell’interazione),<br />
scritto nel 1967, il suo interesse è dimostrare che ciò che sta propugnando<br />
non deve essere confuso con la psicologia. In questa prefazione egli attira<br />
l’attenzione sull’allora recente comparsa di interesse per ciò che talvolta è<br />
chiamato “comportamento non-verbale” o “comunicazione non-verbale”<br />
(sebbene Goffman non usi questi termini). Questo interesse si sviluppò in<br />
gran parte grazie agli psicologi e qui Goffman afferma che nel campo dello<br />
studio dell’interazione, così come lui lo intendeva, la psicologia<br />
dell’individuo non è l’interesse primario. In questo studio dobbiamo<br />
occuparci, certo, di “sguardi, gesti, atteggiamenti e affermazioni verbali”<br />
(Goffman, 1967: 1; trad. it., 1988, p. 3), che i partecipanti all’interazione<br />
producono continuamente, perché questi sono “i segni esteriori<br />
dell’orientazione e della partecipazione”; tuttavia, ciò che interessa non è la<br />
psicologia dell’orientazione e della partecipazione ma la loro<br />
organizzazione sociale. Continua dicendo: “Io parto dal presupposto che<br />
l’oggetto dello studio della interazione non debba essere l’individuo e la<br />
sua psicologia, ma piuttosto le relazioni sintattiche esistenti fra gli atti di<br />
persone che vengono a trovarsi a contatto diretto” (Goffman, 1967: 2; trad.<br />
it., 1988, p. 5).<br />
In Strategic Interaction (Interazione strategica) (1969) Goffman si<br />
interessa di stabilire lo studio dell’interazione in modo ancora più esplicito.<br />
Nella prefazione a questo libro afferma che il suo “scopo primario” è<br />
“sviluppare lo studio dell’interazione faccia a faccia come campo<br />
naturalmente delimitato, analiticamente coerente – una sotto area della<br />
sociologia” (p. ix). Continua poi sollevando la questione della<br />
“comunicazione” e, come era diventato un luogo comune in quel periodo,<br />
3
se fosse appropriato dire che ogni tipo di interazione è comunicazione.<br />
L’argomento di Goffman in Strategic Interaction è che ci sono dei limiti a<br />
ciò che possiamo chiamare “comunicazione” e che questi limiti non sono<br />
gli stessi di ciò che possiamo chiamare “interazione”.<br />
Quando arriviamo a Relations in Public (Relazioni in pubblico)<br />
(1971; trad. it., 1981) vediamo che Goffman si rende conto che era<br />
cominciato ad emergere qualcosa di ciò che stava chiedendo. Nota che<br />
alcuni studiosi, in particolare alcuni linguisti ed etologi, erano impegnati in<br />
un’impresa parallela alla sua. Suggerisce di chiamare quest’area “etologia<br />
dell’interazione” sebbene si affanni a mettere in evidenza che noi “ci<br />
sbarazziamo cortesemente” (Goffman, trad. it., 1981, p. 9) della visione<br />
darwiniana degli etologi, pur riconoscendo che i loro metodi corrispondono<br />
bene al tipo di domande che spera di sollevare e perseguire. In particolare,<br />
appoggia i metodi di questo tipo di ricercatori, mentre critica severamente i<br />
metodi della psicologia e della sociologia sperimentale, da cui sembra<br />
distanziarsi consapevolmente.<br />
Dieci anni dopo, in Forms of Talk (1981b; trad. it. Forme del parlare<br />
1987) non c’è più bisogno di descrivere e giustificare il campo in quanto<br />
tale. Gli articoli di questa raccolta sono ora rivolti ad altri che, come lui,<br />
hanno intrapreso lo studio delle pratiche dell’interazione. Le questioni<br />
sollevate, riguardanti il ruolo del linguaggio nell’interazione, sono<br />
presentate come questioni importanti da discutere in quello che è<br />
considerato un campo ormai già affermato.<br />
Alla fine della sua carriera, nel discorso come presidente<br />
dell’Associazione Sociologica Americana – intitolato “The interaction<br />
order” (1983, trad. it. L’ordine dell’interazione (1998) – discute ancora il<br />
posto che lo studio dell’ordine dell’interazione occupa nella sociologia. In<br />
questo discorso tenta di spiegare esaurientemente i modi in cui lo studio<br />
dell’ordine dell’interazione è allo stesso tempo distinto dallo studio degli<br />
altri aspetti dell’ordine sociale ma anche collegato ad essi. Un problema<br />
centrale in quest’articolo è la questione di come l’oggetto della macrosociologia<br />
– status, potere, strutture sociali ecc. – si collega al micro-studio<br />
di particolari segmenti dell’interazione. Qui sembra interessato a mostrare<br />
che lo studio dell’ordine dell’interazione non solo è un interesse legittimo<br />
di per se stesso (in verità non c’è più bisogno di affermare questo perché il<br />
campo è oramai stabilito, almeno in modo informale), ma anche che può<br />
dare un utile contributo per gli altri sotto-campi che interessano la<br />
sociologia.<br />
Vediamo allora come, nelle prime prefazioni e introduzioni,<br />
Goffman rende esplicito il suo scopo di stabilire un sotto-campo della<br />
sociologia che deve occuparsi dell’interazione. Chiarisce l’oggetto di<br />
4
questo studio, ma si preoccupa di evidenziare che ciò che sta proponendo<br />
non fa parte dello studio dei “piccoli gruppi”, non fa parte dello studio della<br />
psicologia e non è lo studio della comunicazione. Scrivendo in questo<br />
modo, Goffman dà l’impressione di tentare di stabilire qualcosa di<br />
completamente nuovo. Afferma ripetutamente che si è prestata poca<br />
attenzione allo studio dell’interazione, malgrado che il lavoro fatto sui<br />
piccoli gruppi, sulla psicologia sociale e sulla comunicazione avrebbe<br />
dovuto suggerire il contrario.<br />
<strong>GOFFMAN</strong> E LO STU<strong>DI</strong>O DELL’INTERAZIONE NELLA SOCIOLOGIA<br />
AMERICANA<br />
A prima vista quest’enfasi sulla novità di questo campo sembra un po’<br />
strana. Lo studio della “interazione” come tradizione affermata nelle<br />
scienze sociali americane era apparso molto prima che Goffman iniziasse le<br />
sue ricerche. Ad esempio, negli anni venti, i lettori americani poterono<br />
leggere il lavoro di Georg Simmel (si veda Park e Burgess, 1924;<br />
Spykman, 1925). Il suo concetto di “sociologia formale” e il suo tentativo<br />
di descrivere le strutture della “pura socialità” che per lui si esemplificava<br />
nelle componenti del comportamento interpersonale è forse, nella<br />
sociologia americana, la prima esplicita presentazione dell’idea che<br />
l’interazione possa essere studiata come scienza a sé. Questo interesse si<br />
adattava bene alla linea di pensiero iniziata da William James (1890: vol. 2)<br />
e proseguita da George Herbert Mead (1934), nel cui lavoro l’ “io” non è<br />
visto come attore ma come prodotto dell’interazione. Quest’idea favorì<br />
l’interesse per lo studio delle componenti dell’interazione e costituì una<br />
parte importante dello sfondo che portò all’emergere dello studio empirico<br />
dell’interazione. Questo iniziò alla fine degli anni trenta, quando le prime<br />
ricerche furono condotte da studiosi come Eliot Chapple (1939, 1940),<br />
George Homans (1950), Robert Bales (1950; si veda anche Hare, Borgatta<br />
e Bales, 1955) e Kurt Lewin e colleghi (per le “dinamiche nei piccoli<br />
gruppi”) - il lavoro di Cartwright e Zander (1953) è il prodotto tipico di<br />
questa tradizione. A questi primi studi seguì un gran numero di ricerche<br />
basate sull’osservazione di occasioni naturali e su esperimenti fatti in<br />
laboratorio. Sebbene Goffman mostri di essere influenzato dai primi<br />
ricercatori, come Simmel e Mead, ad eccezione del lavoro basato<br />
sull’osservazione di situazioni naturali nella “ecologia psicologica” (ad<br />
esempio, Barker e Wright 1955), lo studioso cita raramente questo<br />
successivo lavoro empirico sull’interazione. Leggendo fra le righe abbiamo<br />
l’impressione che egli non debba molto a questa tradizione.<br />
5
Una più attenta riflessione mostra che Goffman aveva buone ragioni<br />
per non considerare questi lavori e per affermare che lo studio<br />
dell’interazione così come lui lo proponeva era qualcosa di nuovo.<br />
Vedremo che l’approccio di Goffman sollevava questioni completamente<br />
nuove. Nella tradizione a cui abbiamo appena fatto riferimento,<br />
l’interazione era studiata perché sembrava che potesse servire per risolvere<br />
altre questioni. Ad esempio, Chapple sviluppò l’ingegnoso metodo della<br />
“cronografia dell’interazione” come mezzo per “misurare le relazioni<br />
umane”. Come seguace dell’ “operazionalismo” di Percy Bridgman<br />
(Bridgman, 1936) non sopportava lo stile letterario degli antropologi sociali<br />
(era stato allievo di Lloyd Warner e aveva lavorato allo studio sulla<br />
“Yankee City”). Egli cercò di trovare un modo per osservare direttamente<br />
gli elementi di cui sono composti le relazioni umane; escogitò l’idea di<br />
misurare il tempo che le persone passano ad interagire e, più<br />
specificamente, di misurare come le loro azioni sono organizzate nel tempo<br />
l’una in relazione all’altra. Riuscì ad avere risultati molto interessanti; ma<br />
poiché usava lo studio dell’interazione come mezzo per arrivare ad uno<br />
scopo si limitò a misurare solo l’aspetto dell’interazione che gli serviva per<br />
raggiungere il risultato che più lo interessava. Similmente, Robert Bales, il<br />
cui metodo dell’ “analisi del processo dell’interazione”, scatenò un vero e<br />
proprio fiume di articoli, sviluppò un sistema di categorizzazione degli<br />
“atti” interazionali, non perché fosse interessato all’interazione in sé ma<br />
perché era interessato a comprendere aspetti come le dinamiche di<br />
leadership nei piccoli gruppi e come le persone in gruppo arrivassero a<br />
risolvere i problemi.<br />
Questi approcci si basavano sul concetto secondo cui i fenomeni di<br />
consueto interesse della sociologia e della psicologia sociale – leadership,<br />
stratificazione sociale, organizzazione dell’autorità e simili – dovevano<br />
trovare la loro ragion d’essere nell’adesione dei membri della società ad un<br />
modello di atti interazionali specifici. Tali atti dovevano costituire i dati su<br />
cui la ricerca si doveva basare. Tuttavia, gli atti interazionali stessi non<br />
erano studiati. Soltanto uno degli aspetti che li caratterizzava fu usato come<br />
mezzo attraverso cui studiare qualcos’altro. Goffman si rese conto di<br />
questo e chiarì che ciò che interessava a lui era qualcosa di diverso:<br />
sollevare, cioè, la questione di come si verificasse l’interazione. Goffman<br />
osservò, dunque giustamente, diverse volte nelle sue prefazioni, che<br />
l’interazione in quanto tale era stata poco considerata. Come scrive nella<br />
prefazione di Relations in Public: “le pratiche dell’interazione sono state<br />
utilizzare per chiarire altre cose, ma sono state trattate come se non ci fosse<br />
bisogno di definirle o valga la pena di farlo” (Goffman, 1971: ix; trad. it.,<br />
1981, p. 3). E per Goffman, ovviamente, il problema consiste proprio nelle<br />
6
“pratiche dell’interazione”. Studiosi come Chapple e Bales semplicemente<br />
davano per scontato che le persone potessero interagire. Non studiarono il<br />
modo in cui le persone riuscissero a farlo o cosa fossero queste pratiche. Il<br />
loro interesse si concentrava interamente sui risultati dell’interazione;<br />
quello di Goffman sul modo in cui essa si realizzava, anzi, su come si<br />
potesse verificare.<br />
Il tentativo di Goffman di stabilire lo studio delle pratiche<br />
dell’interazione come campo indipendente non fu un tentativo isolato,<br />
sebbene egli si fosse reso conto, più chiaramente di molti altri, che ciò si<br />
stava cercando di fare era diverso da quello che normalmente si<br />
considerava come importante nell’interazione.<br />
Il riconoscimento dell’importanza delle questioni di come<br />
l’interazione si potesse verificare, il problema di cosa occorresse alle<br />
persone per essere in grado di interagire, era cominciato ad emergere nel<br />
lavoro di diversi studiosi. Gregory Bateson era arrivato a formulare, nel<br />
1951, un approccio allo studio dell’interazione come sistema di<br />
comunicazione e il suo interesse principale fu l’organizzazione di questo<br />
sistema (Ruesch e Bateson, 1951). In questo fu molto influenzato dai<br />
contatti che ebbe con lo sviluppo della teoria dell’informazione e della<br />
cibernetica (fu influenzato soprattutto da Norbert Weiner e von Neumann –<br />
si veda Heims, 1977) e dalla collaborazione con lo psichiatra interpersonale<br />
Jurgen Ruesch, (si veda Ruesch, 1972). Per Ruesch il problema nella<br />
psicoterapia consisteva non tanto nelle dinamiche psicologiche interne del<br />
paziente, quanto nel processo dell’interazione tra paziente e psichiatra.<br />
Similmente, alcuni sviluppi nella linguistica strutturale avevano portato<br />
studiosi come Norman McQuown (1971) e Ray Birdwhistell (1952, 1970) a<br />
cominciare ad esaminare il “materiale comportamentale” dell’interazione<br />
con uno spirito completamente affine a quello che Goffman stesso avrebbe<br />
proposto in seguito.<br />
Molti studiosi di questa convinzione, sotto l’influsso della psichiatra<br />
interpersonale Frieda Fromm-Reichmann, si riunirono all’Institute for<br />
Advance Study a Stanford nel 1956 per intraprendere lo studio dettagliato<br />
del filmato di un’interazione in cui ogni aspetto di ciò che veniva osservato<br />
doveva essere minuziosamente annotato ed esaminato rispetto al posto che<br />
occupava nel processo comunicativo. Questo progetto, conosciuto col<br />
nome di “La storia naturale di un’intervista”, coinvolgeva tra gli altri,<br />
Gregory Bateson, Norman McQuown e Ray Birdwhistell, i quali sarebbero<br />
tutti stati strettamente collegati con il successivo sviluppo di un approccio<br />
che avrebbe tentato di esplicare davvero, in modo microscopico, le<br />
componenti della pratica dell’interazione (McQuown, 1971; Zabor, 1978;<br />
Leeds-Hurwitz, 1987).<br />
7
Goffman mantenne un vivo interesse per lo sviluppo di questo<br />
approccio e ne fu indubbiamente influenzato. Egli ha ammesso di essere<br />
stato influenzato da Gregory Bateson e fu allievo di Ray Birdwhistell<br />
quando era ancora studente all’Università di Toronto. Partecipò, insieme a<br />
Gregory Bateson, al secondo convegno della Josiah Macy Jr Foundation<br />
Group Processes Conference, tenutosi nel 1956; ebbe un ruolo importante<br />
nella discussione al Convegno sulla Paralinguistica e sulla Cinesica<br />
tenutosi alla Indiana University nel 1962 (Sebeok, Hayes e Bateson, 1964).<br />
Negli anni seguenti fu lui stesso ad organizzare convegni in cui l’interesse<br />
principale fosse lo studio dell’interazione secondo il cosiddetto approccio<br />
della storia naturale o della “analisi del contesto”.<br />
Tra i primi maggiori esponenti dell’approccio allo studio<br />
dell’interazione, che tenta di esaminare il processo in sé e il modo in cui si<br />
realizza, possiamo includere Gregory Bateson, Ray L. Birdwhistell e Albert<br />
Scheflen. Ciascuno a proprio modo ha tentato di sviluppare un’intelaiatura<br />
teorica in base a cui comprendere il processo o la pratica dell’interazione<br />
come sistema di comportamento. Un aspetto particolarmente importante di<br />
questo approccio è la visione integrata del processo dell’interazione: si<br />
presta attenzione tanto all’organizzazione dell’attività del corpo, e il ruolo<br />
che questo ha nel processo interattivo, quanto agli enunciati verbali. Inoltre,<br />
questi autori, coerentemente con tale idea, lottano per formulare una<br />
visione in cui l’interesse si concentri sul sistema di relazioni tra gli atti dei<br />
partecipanti piuttosto che sui partecipanti stessi. Potrebbe essere proprio<br />
questo che Goffman aveva in mente quando, nel già citato passaggio della<br />
prefazione a Interaction Ritual, ha scritto che il vero e proprio studio<br />
dell’interazione richiede lo studio delle “relazioni sintattiche tra gli atti<br />
delle varie persone reciprocamente presenti”. L’uso di Goffman del termine<br />
“sintattico” è significativo qui, perché indica che ha già cominciato ad<br />
impiegare l’analogia linguistica nell’analisi dell’interazione. I concetti della<br />
linguistica ebbero un ruolo importante nello sviluppo dell’approccio<br />
all’interazione per studiosi come Birdwhistell e Scheflen (Birdwhistell,<br />
1952, 1970; Scheflen, 1963, 1964, 1974; McQuown, 1971. Per una<br />
discussione su questo approccio si veda Kendon, 1972, 1979, 1982;<br />
McDermott e Wertz, 1976 e McDermott e Roth, 1978).<br />
8
L’INTELAIATURA <strong>DI</strong> <strong>GOFFMAN</strong> PER LO STU<strong>DI</strong>O DELL’INTERAZIONE<br />
FACCIA A FACCIA<br />
La co-presenza e i modi per fornire l’informazione<br />
In generale, Goffman assume il raggruppamento come unità di studio<br />
dell’interazione faccia a faccia, definendolo come tutte le occasioni in cui<br />
due o più persone sono, come lui dice, co-presenti l’una all’altra. Lo<br />
studioso definisce la co-presenza nel modo seguente: “Gli individui devono<br />
sentirsi abbastanza vicini agli altri tanto da essere percepiti qualsiasi cosa<br />
stiano facendo, incluso anche il loro esperire gli altri; e abbastanza vicini da<br />
“essere percepiti” in questa sensazione di essere percepiti” (Goffman,<br />
1963: 17; trad. it., 1971, p. 19). Continua dicendo che generalmente ci si<br />
aspetta che le condizioni della co-presenza si trovino soprattutto tra i<br />
confini di una stanza, ma nei posti non delimitati da muri i confini della copresenza<br />
non sempre possono essere tracciati chiaramente. In un parco, per<br />
esempio, se è relativamente affollato, le persone che si trovano a 50 metri<br />
di distanza possono non percepirsi allo stesso modo in cui possono farlo se<br />
si trovano a soli due metri.<br />
Quando le persone sono co-presenti, di regola, riescono a percepirsi<br />
con i sensi nudi. In tali circostanze ognuno può accorgersi di ciò che sta<br />
facendo l’altro, ma può anche vedere di essere visto nel momento in cui<br />
vede le azioni dell’altro; così si crea una speciale reciprocità. P può<br />
valutare le azioni di Q e adattare le proprie azioni di conseguenza, ma in<br />
situazioni di co-presenza Q può fare lo stesso, e sia P sia Q possono,<br />
quindi, adattare le proprie azioni per il fatto che l’altro le sta adattando<br />
rispetto a lui. In tali circostanze si crea un tipo di accordo secondo cui<br />
ciascuno prende sulla fiducia la linea d’azione dell’altro. Ciò significa che<br />
non è necessario che le persone controllino continuamente l’altro, perché<br />
quello che una persona fa è interpretato dall’altro come una linea d’azione e<br />
così può si presumere cosa farà in seguito; cioè, l’altro è visto come se<br />
fosse impegnato in un progetto, sul quale si può fare affidamento; di<br />
conseguenza colui che percepisce la linea d’azione dell’altro può costruire<br />
la sua linea d’azione in virtù di questo. Inoltre, ovviamente, può fare questo<br />
alla luce della sua stessa supposizione che l’altro supporrà che anche lui sia<br />
impegnato in un progetto.<br />
Stabilendo la nozione della co-presenza, Goffman ci fa rendere conto<br />
che in tutte le situazioni in cui le persone si trovano in condizione di<br />
9
percepirsi reciprocamente è destinata a crearsi una sorta di interdipendenza<br />
delle azioni. In questa maniera il concetto di “interazione” è<br />
immediatamente ampliato in modo radicale. Fino a quel momento gli<br />
studiosi dell’interazione si erano occupati solo degli esempi in cui due o<br />
più persone (ma generalmente due) parlavano effettivamente tra loro.<br />
Goffman mostrò che questa era una visione troppo ristretta.<br />
Nella sua discussione sulla co-presenza, inoltre, Goffman mise in<br />
rilievo un altro principio molto importante. E cioè che ogni volta che le<br />
persone sono co-presenti sono, allo stesso tempo ed inevitabilmente, una<br />
fonte d’informazione per l’altro. Questo era un punto che Gregory Bateson<br />
aveva evidenziato qualche anno prima (si veda Watzlawick, Beavin e<br />
Jackson, 1967: 51), ma Goffman gli diede nuova vita perché riuscì a<br />
mostrare in quali diversi modi le persone davano informazioni l’uno<br />
all’altro e di che tipo di informazione si trattasse.<br />
Mise in evidenza che in ogni raggruppamento i partecipanti<br />
suppongono che essi danno informazioni in due modi: fornendo<br />
informazioni ed emettendo informazioni. Quando una persona fornisce<br />
informazioni lo fa attraverso azioni che sono considerate volontarie, per cui<br />
è ritenuto responsabile di ciò che fornisce. Ciò significa che, di regola,<br />
l’informazione fornita è data attraverso l’uso di azioni simboliche – cioè,<br />
azioni che sono reciprocamente riconosciute come azioni che si riferiscono<br />
a qualcos’altro. In questo senso, quando parliamo, forniamo l’informazione<br />
attraverso il contesto di ciò che diciamo – sebbene, oltre al parlare, ci sono<br />
molti altri modi per fornire informazioni. Dall’altro lato, le informazione<br />
che sono emesse sono considerate come informazioni che vengono date che<br />
la persona lo voglia o meno; è un prodotto immancabile ed inevitabile della<br />
sua presenza e delle sue azioni. Posso indicarti la strada per arrivare alla<br />
cattedrale ma nel farlo trasmetto, attraverso la scelta delle parole, attraverso<br />
il mio accento e così via, informazioni aggiuntive. Queste informazioni<br />
aggiuntive sono trasmesse piuttosto che fornite.<br />
È importante ricordare che qui la questione non è se l’informazione<br />
sia fornita di fatto volontariamente o involontariamente, ma piuttosto se i<br />
co-partecipanti al raggruppamento la considerano come volontaria o meno.<br />
In tutte le situazioni di interazione, sembra che i partecipanti trattino solo<br />
alcuni aspetti del comportamento degli altri come deliberatamente<br />
intenzionali e destinati a trasmettere qualcosa. Nelle conversazione è quello<br />
che generalmente è chiamato “contenuto della conversazione” ad essere<br />
considerato in questo modo, non il modo di parlare, e certamente non la<br />
disposizione del corpo e le disposizioni ecologiche in cui la conversazione<br />
è condotta. Tuttavia, non è che questi altri aspetti della situazione non<br />
abbiano un ruolo nella strutturazione dell’interazione. Tutt’altro. Hanno un<br />
10
uolo decisivo nell’intera organizzazione dell’evento. Dobbiamo molto a<br />
Goffman per averci fatto scoprire questo.<br />
Goffman affronta questa fondamentale distinzione tra “fornire” e<br />
“emettere” l’informazione in svariati modi. Una delle sue più elaborate<br />
trattazioni dell’argomento si trova in Frame Analysis (1974). In questo<br />
libro lo studioso sviluppa la nozione di “piste di attenzione”. Suggerisce<br />
che in ogni incontro sociale c’è sempre un aspetto dell’attività che si sta<br />
svolgendo che è considerato come facente parte di una “pista principale” o<br />
di una “trama”. Un campo d’azione è delineato come rilevante allo scopo<br />
principale dell’incontro ed è orientato in quanto tale ed è trattato di<br />
conseguenza. L’azione trattata in questo modo è considerata come<br />
volontaria e l’informazione che data in questo caso è un’informazione<br />
fornita. Altri aspetti dell’attività che si sta svolgendo non sono trattati in<br />
questo modo ma ciò non significa che essi non abbiamo un ruolo nel<br />
processo interattivo. Dunque Goffman propone di distinguere una “pista<br />
direzionale” in cui, come lui stesso dice, “si trova un flusso di segni che è<br />
esso stesso escluso dal contenuto dell’attività ma che serve come mezzo per<br />
regolarla, delimitando, articolando e qualificando le sue varie componenti e<br />
fasi” (Goffman, 1974: 210; trad. it., 2001, p. 143). Si può parlare anche di<br />
una “pista della disattenzione” (Goffman, 1974: 210) alla quale sono<br />
assegnati una varietà di azioni che sono considerate come se non avessero<br />
affatto un ruolo nell’interazione. Goffman ha fatto riferimento, in<br />
particolare, alla “liberazione di bisogni umani” – grattarsi, cambiare la<br />
posizione del corpo e così via – che sono, per così dire, deviazioni<br />
consentite della disciplina comportamentale che tutti i partecipanti in copresenza<br />
seguono come prezzo da pagare per essere considerati come esseri<br />
umani normali e predicibili e che passano inosservati.<br />
Come lo stesso Goffman chiarisce, e come si può comprendere con<br />
una breve riflessione, non è che i partecipanti non notino e non rispondano<br />
alle azioni incluse nella pista della disattenzione. Al contrario, si può<br />
mostrare che in molte situazioni esse svolgono un ruolo importante nel<br />
processo interattivo. È per mezzo delle azioni che sono trattate<br />
reciprocamente come appartenenti alla “pista della disattenzione”, per<br />
esempio, che i partecipanti ad un incontro conversazionale possono<br />
mettersi d’accordo su quando terminare l’incontro. Posso avvisarti che ho<br />
bisogno di spostarmi in qualche altro posto con un certo cambiamento nella<br />
direzione dello sguardo, con una certa irrequietezza nella postura, forse<br />
cambiando la velocità con cui svolgo un’attività collaterale, come bere o<br />
fumare. Questi cambiamenti non sono considerati in modo ufficiale, non<br />
sono nemmeno considerati come parte della mia espressione, eppure<br />
possono essere trattati, nondimeno, come elementi che trasmettono certe<br />
11
precise informazioni circa le mie intenzioni attuali e permettono all’altro di<br />
adattare la propria linea d’azione di conseguenza.<br />
Tipi di occasioni interazionali: interazione focalizzata e interazione non<br />
focalizzata<br />
Il raggruppamento, come abbiamo visto, è il termine che Goffman usa per<br />
definire un insieme di individui che sono co-presenti. I raggruppamenti<br />
possono essere organizzati in diversi modi. Goffman ha proposto<br />
un’importante generica distinzione tra ciò che ha chiamato raggruppamenti<br />
focalizzati e raggruppamenti non focalizzati. In un raggruppamento<br />
focalizzato i partecipanti sono organizzati in modo da mantenere un punto<br />
focale di attenzione in comune. In un raggruppamento non focalizzato un<br />
simile punto focale non può essere percepito e i vari partecipanti<br />
perseguono linee di interessi indipendenti. I raggruppamenti non focalizzati<br />
includono, ad esempio, i pedoni per strada, gli utenti di una sala di lettura,<br />
persone che aspettano in una sala d’attesa. Esempi di raggruppamenti<br />
focalizzati sono occasioni di qualsiasi tipo di conversazione, partite di<br />
tennis, coppie di ballerini, coppie di lavoratori che cooperano per portare a<br />
termine un compito che richiede un’attenzione mantenuta in comune,<br />
interviste, colloqui, sedute di psicoterapia e simili.<br />
Operando questa distinzione, e mostrando che una gran varietà di<br />
occasioni interazionali possono essere adattate in questo modo, Goffman ha<br />
suggerito che occasioni che a prima vista sembrano molto diverse hanno<br />
caratteristiche organizzative comuni. Attirando la nostra attenzione su<br />
queste caratteristiche ci ha mostrato aspetti delle situazioni interazionali<br />
che non erano mai stati presi in considerazione in modo sistematico prima.<br />
Inoltre, soprattutto attraverso la caratterizzazione degli aspetti del<br />
raggruppamento focalizzato, è riuscito a suggerire i modi in cui i vari<br />
aspetti del comportamento, finora non considerati nello studio<br />
dell’interazione, dovevano invece giocare un ruolo cruciale.<br />
Se cominciamo a lavorare tenendo conto di questa dicotomia e,<br />
pensando ai diversi tipi di raggruppamento cerchiamo di stabilire se siano<br />
focalizzati o non focalizzati, scopriremo molto presto che questa<br />
distinzione non può essere considerata molto più che una semplice<br />
approssimazione. Guardiamo alcuni esempi.<br />
Le persone che camminano per strada costituiscono un insieme di<br />
individui che, sebbene co-presenti, perseguono ciascuno una linea d’azione<br />
indipendente – sembrerebbe questo, un puro esempio di interazione non<br />
focalizzata. Tuttavia, come lo stesso Goffman ha mostrato nell’elegante<br />
12
discussione di questa situazione (in Behavior in Public Places, 1963: 83-8<br />
e poi in modo più elaborato in Relations in Public, 1971: 5-18), esiste una<br />
reciproca coordinazione tra le persone. Egli identifica un rituale interattivo<br />
minimo, che egli chiama “disattenzione civile”, in cui ciascun passante si<br />
comporta rispetto all’altro in modo da comunicare, allo stesso tempo, il<br />
riconoscimento del passaggio di un altro essere umano e il riconoscimento<br />
dell’altrui diritto di seguire una propria e indipendente linea d’azione. Già<br />
in questo minimo tipo di scambio, per esempio, lo sguardo che i passanti si<br />
lanciano accordandosi reciprocamente sul non far incontrare i propri occhi,<br />
facendo in questo modo capire agli altri di non essere spaventati, ostili o di<br />
non guardare l’altro come un automa, possiamo vedere che nella situazione<br />
del camminare per strada c’è molto più che il semplice guidare il proprio<br />
corpo per passare tra gli altri. In quella che è apparentemente la più non<br />
focalizzata delle situazioni, possiamo tuttavia scorgere una serie di accordi<br />
momentanei sul non mantenere un punto focale d’attenzione comune ed in<br />
questo, sembra, abbiamo un esempio di interazione che ha alcune delle<br />
proprietà degli scambi focalizzati. Si può osservare che in questi momenti<br />
di “disattenzione civile” due persone coordinano le loro azioni su un<br />
comune obiettivo, pur accordandosi in questo caso sul non unirsi in un<br />
punto focale d’attenzione comune.<br />
Consideriamo ora un altro tipo di raggruppamento, la coda. Si tratta<br />
di un esempio di raggruppamento focalizzato o non focalizzato? Una coda<br />
si forma laddove un certo numero di persone vogliono tutti fare qualcosa<br />
che può essere fatta da una sola persona (o piuttosto, per usare un utile<br />
concetto di Goffman, una “unità di partecipazione”) 1 per volta: comprare il<br />
biglietto per entrare nel cinema, ad esempio. A primo acchito, si potrebbe<br />
pensare che una coda sia un raggruppamento focalizzato perché ogni<br />
partecipante è in attesa per fare la stessa cosa: tutti focalizzano la propria<br />
attenzione sull’attività di comprare il biglietto. Ma ciò sarebbe sbagliato<br />
perché, ovviamente, l’acquisto del biglietto è una transazione individuale<br />
che coinvolge i membri della coda come partecipanti indipendenti. La<br />
1 Il concetto di “unità di partecipazione” è stato introdotto in Relations in Public (1971:<br />
pp. 19-27). Goffman mette in evidenza che gli individui possono partecipare alle<br />
occasioni interazionali come “singoli” e come membri di un “insieme”. Un buon<br />
esempio di un “insieme” è una “coppia” o un “gruppo familiare” composto da genitori e<br />
figli. In una coda al cinema, per esempio, i “posti” possono essere occupati da “coppie”<br />
o da “gruppi familiari”, e ad ogni individuo che costituisce una parte di queste unità è<br />
accordata la stessa priorità nella coda. Le unità che compongono una coda, quindi, se<br />
considerate dal punto di vista della sua organizzazione come occasione interazionale,<br />
non sono individui ma “unità di partecipazione”, alcune delle quali possono essere<br />
“singoli”, altre “insiemi”.<br />
13
transazione dell’acquistare il biglietto in sé è un’interazione focalizzata,<br />
ovviamente, ma i membri della coda non sono i partecipanti ad un<br />
raggruppamento che collaborano per mantenere l’attività del comprare il<br />
biglietto. In una coda, ciò che abbiamo è un insieme di unità di<br />
partecipazione, ciascuna focalizzata separatamente ed indipendentemente<br />
sulla stessa cosa. In un’interazione focalizzata il punto focale comune deve<br />
essere la comune responsabilità dei partecipanti.<br />
Ciò nonostante la coda possiede alcuni aspetti non dissimili da quelli<br />
che possiamo osservare in un raggruppamento completamente focalizzato,<br />
come le conversazioni. Per esempio, una coda ha una caratteristica e<br />
particolare organizzazione spaziale, ha dei confini e chi vuole essere<br />
membro della coda deve rispettare questi confini altrimenti non verrà<br />
considerato come un effettivo membro della coda e quindi non può tenere<br />
un “posto” in essa. Se una persona sta troppo a lato o troppo indietro alla<br />
persona vicina, possono sorgere dubbi circa il suo essere in coda. Per essere<br />
impegnati nello stare in coda, quindi, i partecipanti devono unirsi nel<br />
mantenere una certa disposizione spaziale (o “formazione” come l’ho<br />
chiamata altrove - Kendon, 1977) e questo deve essere fatto attraverso un<br />
tipo di interazione che si possa considerare a tutti gli effetti come governata<br />
da un punto focale d’attenzione mantenuto in comune. Questo punto focale<br />
è raramente formulato in quanto tale, non viene trattato come la “trama” di<br />
un’interazione. Tuttavia è qualcosa a cui tutti i membri della coda prestano<br />
attenzione ed è facile osservare come essi cooperano affinché esso venga<br />
mantenuto. Non sarebbe corretto dire che una coda è un raggruppamento<br />
focalizzato, eppure non possiamo negare che, almeno in termini di manovre<br />
spaziali ed orientazionali, ciò che avviene è un tipo di interazione<br />
focalizzata.<br />
Un altro esempio che possiamo considerare da questo punto di vista<br />
è un plotone militare in parata, o forse, gli allievi e l’insegnante durante<br />
un’escursione o in classe. Qui abbiamo un insieme di individui che<br />
seguono tutti un unico punto focale d’attenzione, l’ufficiale che dà gli<br />
ordini o l’insegnante. Ancora una volta, queste occasioni hanno<br />
un’organizzazione spaziale che è mantenuta grazie alla cooperazione dei<br />
membri e a cui bisogna partecipare per essere considerati partecipanti.<br />
Anche in questi casi ci sono delle cose che è giusto aspettarsi, altre che<br />
sono invece inadeguate – vi sono adeguati modelli di sguardo e di posture e<br />
ci sono delle disposizioni che governano l’organizzazione delle mosse e<br />
delle risposte come negli scambi verbali tra allievo ed insegnante o negli<br />
scambi enunciato-movimento tra l’ufficiale che dà l’ordine e gli uomini che<br />
lo eseguono. Vari sono, dunque, i modi in cui tutti i partecipanti devono<br />
cooperare per mantenere occasioni come le parate o le escursioni. Tuttavia,<br />
14
il punto focale “ufficiale”, le cose che sono trattate come appartenenti alla<br />
“trama” o alla “pista principale” non sorgono attraverso le azioni comuni<br />
dei partecipanti allo stesso modo in cui accade in una conversazione o in<br />
una partita di tennis. In una classe o in una parata vi è un unico punto<br />
focale d’attenzione che deve essere seguito da un insieme di individui<br />
singolarmente e questo punto focale non cambia per mezzo dell’azione<br />
cooperativa dei partecipanti. In una conversazione, tuttavia, l’argomento in<br />
corso è creato in comune ed è mantenuto in comune; e se uno dei<br />
partecipanti, al suo turno di parola, per qualche ragione non riesce a parlare<br />
(a causa di un attacco di tosse o forse perché non riesce a pensare a nulla da<br />
dire) la conversazione potrebbe dover essere sospesa. O se in una partita di<br />
tennis – un altro esempio di interazione focalizzata – una delle parti ha<br />
improvvisamente uno strappo muscolare e non può servire o rispondere al<br />
servizio, il gioco deve essere sospeso. Invece, un soldato che ha un collasso<br />
durante la parata o un allievo che resta indietro non determinano la<br />
sospensione dell’intera faccenda a meno che l’ufficiale o l’insegnante non<br />
lo ritengano opportuno. Ovviamente, gli allievi o i soldati possono<br />
ribellarsi, possono rifiutarsi di mantenere l’organizzazione in cui ciascuno<br />
singolarmente presta attenzione al punto focale in comune, nel cui caso la<br />
situazione cambia. Tuttavia, il punto è che il punto focale d’attenzione in sé<br />
non è qualcosa che è mantenuto insieme, come l’argomento di una<br />
conversazione o la partita di tennis. Si è tentati di distinguere da un lato il<br />
raggruppamento con un punto focale in comune, di cui il plotone militare in<br />
parata e l’escursione sono un esempio, e dall’altro il raggruppamento con<br />
un punto focale mantenuto congiuntamente, come le conversazioni o le<br />
partite di tennis.<br />
Goffman stesso ha suggerito che possiamo distinguere il<br />
raggruppamento plurifocalizzato da quello monofocalizzato. L’esempio<br />
standard di raggruppamento plurifocalizzato è un ricevimento pomeridiano<br />
(“cocktail party”) in cui ci sono più partecipanti, tutti all’interno di uno spazio<br />
delimitato, dove ci sono molti singoli raggruppamenti congiuntamente<br />
focalizzati – una molteplicità di “nodi” conversazionali o “riunioni”. Tali<br />
occasioni sono di particolare interesse perché mettono in evidenza molto<br />
chiaramente alcune importanti caratteristiche dei raggruppamenti<br />
congiuntamente focalizzati. Tra questi aspetti includiamo il modo in cui i<br />
partecipanti cooperano per mantenere l’integrità dell’occasione come unità di<br />
un’attività sostenuta in comune. Ciò che interessa in un raggruppamento<br />
plurifocalizzato è che si hanno una serie di queste occasioni delimitate nello<br />
spazio di un’attività mantenuta congiuntamente all’interno dello stesso spazio<br />
fisico. L’osservazione di simili ambienti dà l’opportunità di vedere come è<br />
mantenuta l’integrità di queste occasioni.<br />
15
Si può osservare, per esempio, che ogni incontro focalizzato si<br />
mantiene come gruppo spazialmente distinto. Le persone si muovono l’uno<br />
in relazione all’altro cosicché il piccolo mondo della conversazione che<br />
essi hanno stabilito sia mantenuto come un mondo indipendente; ciò che<br />
accade intorno è accuratamente considerato irrilevante. Possiamo<br />
osservare, inoltre, le procedure che le persone seguono quando entrano in<br />
queste unità delimitate nello spazio e quando ne escono. Goffman, in<br />
Behavior in Public Places (1963) introduce in modo succinto tali<br />
procedure, riferendosi in particolare al modo in cui gli impegni diretti<br />
devono essere aperti da una serie di mosse attraverso cui, prima dell’inizio<br />
dell’incontro, le eventuali parti devono far capire agli altri che sono aperti e<br />
disponibili per l’impegno. Questo avviene spesso attraverso un sottile<br />
scambio di sguardi che può essere seguito da manovre spaziali comuni che<br />
portano i partecipanti a trovarsi ad una distanza adatta. Normalmente, c’è<br />
uno scambio di parole e gesti – un “saluto”, cioè – che serve a stabilire che<br />
le parti sono apertamente entrate nell’interazione. Questi enunciati e questi<br />
gesti di saluto servono ad annunciare pubblicamente l’accordo di<br />
impegnarsi in un incontro focalizzato, rendendo pubblico l’accordo sia ai<br />
partecipanti stessi sia a coloro che stanno intorno. E questo è importante<br />
perché quelli che stanno intorno si comporteranno in modo molto diverso<br />
nei confronti dei due o più che sono impegnati in un incontro focalizzato,<br />
rispetto alle persone che non lo sono. L’integrità di un incontro<br />
congiuntamente focalizzato è, dunque, il prodotto sia della cooperazione<br />
mantenuta dei partecipanti che della cooperazione degli altri, che si trovano<br />
nello stesso ambiente ma non sono partecipanti. Così possiamo osservare,<br />
in situazioni come i ricevimenti pomeridiani, come i diversi esempi di<br />
interazione focalizzata cooperano per restare spazialmente distinti. Intorno<br />
ad ogni occasione di conversazione c’è una specie di “terra di nessuno”,<br />
una zona tampone. Le persone possono passare in questo spazio ma, di<br />
regola, nel farlo non prestano attenzione ai raggruppamenti che vi sono in<br />
esso. Se si fermano, d’altra parte, ammesso che si dispongano in un<br />
particolare tipo di orientazione rispetto all’incontro focalizzato che si sta<br />
svolgendo, è probabile che essi vengano fatti entrare o siano invitati ad<br />
unirsi. In tali occasioni, dunque, possiamo notare come un mero<br />
movimento e l’orientazione nello spazio possono costituire una mossa nello<br />
scambio interazionale.<br />
Goffman fornisce uno schema dettagliato dell’organizzazione di ciò<br />
che ho chiamato raggruppamento congiuntamente focalizzato – lui li<br />
chiama anche “impegni diretti”, “incontri” o “sistemi di attività situate”. Lo<br />
studioso dice: “Gli impegni diretti comprendono tutti i casi in cui due o più<br />
partecipanti ad una situazione risultano apertamente legati l’un l’altro allo<br />
16
scopo di mantenere un unico punto focale di attenzione conoscitiva e<br />
visiva, il che viene considerato come un’unica attività reciproca che<br />
comprende un diritto a un tipo di comunicazione preferenziale” (Goffman,<br />
1963: 89; trad. it., 1971, p. 90-91). Lo studioso mette in evidenza che<br />
questa organizzazione prevale non solo in quelle occasioni in cui il parlato<br />
è l’attività principale e il mezzo attraverso cui l’attività reciproca è portata<br />
avanti, ma anche nei casi in cui due o più individui si uniscono per<br />
mantenere un punto focale di comune interesse. Egli illustra come le<br />
persone che sono entrate in un’interazione focalizzata tendono a mantenere<br />
una diversa organizzazione spaziale – “una relazione ecologica di tipo<br />
occhi-negli-occhi, aumentando al massimo l’opportunità di captare le<br />
percezioni reciproche” (1963:95; trad. it., 1971, p. 97). Continua poi:<br />
Prevale una definizione partitiva della situazione, che consiste in un accordo su<br />
ciò che è rilevante o irrilevante percepire, e in un “consenso operativo” che implica un<br />
certo grado di reciproca considerazione e simpatia, nonché la messa a tacere delle<br />
divergenze. Spesso si sviluppa uno spirito di gruppo, che Bateson ha definito ethos.<br />
Contemporaneamente sembra anche aumentare il senso di responsabilità morale per i<br />
propri atti. Si manifesta una “logica comunitaria” (we-rationale), che consiste nella<br />
consapevolezza da parte dei partecipanti di star facendo apertamente tutti insieme, in<br />
quel momento, la stessa cosa. (1963: 96-8; trad. it., 1971, p. 97-98)<br />
La caratterizzazione di Goffman delle proprietà dell’incontro<br />
focalizzato – sviluppato in modo leggermente diverso in molti suoi lavori –<br />
servì a sollevare nuove questioni per gli studiosi dell’interazione e portò<br />
l’attenzione sull’importanza di analizzare tutti gli aspetti del<br />
comportamento che fino a quel momento erano stati ignorati.<br />
Così, enfatizzando la singolarità del mondo interazionale che si<br />
stabilisce in queste occasioni, Goffman ha attratto l’attenzione<br />
sull’importanza di studiare i mezzi attraverso cui ciò si compie. Cioè, ha<br />
messo in rilievo che considerare gli aspetti del comportamento<br />
nell’interazione che servono a mantenerne i confini è tanto importante, per<br />
capire come avviene l’interazione, quanto lo studio degli scambi effettivi<br />
che occorrono in questi confini. Ha indicato anche cosa cercare – in<br />
particolare la disposizione spaziale adottata dalle persone impegnate<br />
nell’interazione ed anche il modo in cui i raggruppamenti focalizzati sono<br />
organizzati in relazione all’ambiente fisico in cui hanno luogo. Lo studio<br />
dei sistemi di formazione (Scheflen e Ashcraft, 1976; Kendon, 1977;<br />
Ciolek e Kendon, 1980) – cioè, lo studio di come gli interagenti iniziano e<br />
mantengono una disposizione spaziale ed orientazionale – è un prodotto<br />
diretto del lavoro di Goffman sull’interazione focalizzata. Goffman<br />
sostenne anche che per capire come è mantenuta l’integrità dei<br />
raggruppamenti è molto importante considerare anche l’ambiente fisico in<br />
17
cui questi hanno luogo; così ha prestato attenzione ai vari modi in cui<br />
l’ambiente è strutturato per l’interazione e ai diversi modi in cui, nei<br />
raggruppamenti, i partecipanti usano le caratteristiche dell’ambiente fisico<br />
a seconda di come l’interazione è organizzata.<br />
Goffman ha attirato l’attenzione anche sul problema delle persone<br />
che sono potenziali partecipanti ad un’interazione focalizzata. Come<br />
passano dallo stato dell’essere “non impegnati” a quello di essere<br />
“impegnati”? Dall’essere singoli partecipanti impegnati solo in<br />
un’interazione non focalizzata ad essere “collocati in stato di<br />
conversazione” l’un con l’altro? I piccoli rituali attraverso cui gli incontri<br />
focalizzati sono allestiti diventano, così, aspetti interessanti. Egli ha<br />
mostrato che prima che le persone possano iniziare uno scambio di<br />
enunciati o di gesti devono accordarsi sull’intenzione di avere questo<br />
scambio. E per capire come si raggiunge questo accordo precedente,<br />
bisogna guardare al di là degli effettivi enunciati e dei gesti che vengono<br />
scambiati e considerare le condizioni prestabilite in anticipo: quindi<br />
dobbiamo considerare gli sguardi, le manovre, la postura e l’orientazione,<br />
tutti elementi che portano allo scambio di esplicite mosse e risposte.<br />
Studiando questi aspetti possiamo avere una buona illustrazione del modo<br />
in cui gli aspetti del comportamento, non esplicitamente organizzati come<br />
mosse che forniscono informazioni agli altri – cioè gli “atti espliciti” come<br />
li chiamerò tra poco – sono nonostante ciò esaminati attentamente perché<br />
emettono informazioni sulle future intenzioni degli altri; e possiamo<br />
ottenere un’illustrazione anche di come le persone possono deliberatamente<br />
manipolare il comportamento che normalmente è trattato come parte della<br />
pista della disattenzione per fornire informazioni circa le loro intenzioni,<br />
cosicché gli altri possano organizzare le loro intenzioni e il loro<br />
comportamento di conseguenza (si veda anche Kendon e Ferber, 1973;<br />
Kendon, 1985).<br />
Analisi degli scambi espliciti<br />
In un’interazione focalizzata i partecipanti si impegnano in ciò che<br />
Goffman ha chiamato “scambi”. In uno “scambio” normalmente prima una<br />
persona fa qualcosa e poi un’altra fa qualcos’altro, ma queste azioni<br />
consecutive sono trattate dai partecipanti come se fossero in qualche modo<br />
collegate, spesso come se le azioni di B fossero una sorta di risposta alla<br />
precedente azione di A. Molti studiosi hanno tentato di caratterizzare i<br />
principi di governano il modo in cui le “azioni” in uno scambio sono<br />
18
collegate e come, di conseguenza, esse sono organizzate in un certo tipo di<br />
unità coerente, come una “conversazione”, un “discorso”, un “incontro” di<br />
combattimento, un “giro” di danza o una “partita” a carte.<br />
Implicito nell’azione dello scambio è il riconoscimento che i<br />
partecipanti all’interazione prestano attenzione al comportamento dell’altro<br />
in modo molto differenziato. Prima ho discusso di questo in rapporto con il<br />
generico punto del “fornire” e “emettere” informazioni e in rapporto alle<br />
osservazioni che Goffman fa circa le “piste di attenzione” nell’interazione.<br />
Sembra che le persone trattino alcuni aspetti del comportamento degli altri<br />
sempre come se fossero degli atti espliciti, mentre altre come se fossero o<br />
attività di “sfondo” o come se fossero irrilevanti. Nell’interazione i<br />
partecipanti trattano alcuni aspetti di ciò che gli altri fanno come azioni<br />
“volute”, azioni che sono preparate come se necessitassero una risposta<br />
esplicita, mentre altre azioni non sono affatto trattate allo stesso modo.<br />
Fondamentali per l’occorrenza degli scambi, come sono concepiti<br />
qui, allora, è l’abilità dei partecipanti di avviare il “consenso operativo”,<br />
circa ciò che è rilevante e ciò che non lo è in qualità di “atto esplicito”.<br />
L’accordarsi sulla cornice, quindi, deve essere visto come un processo<br />
precedente e fondamentale nell’organizzazione di qualsiasi scambio<br />
(Kendon, 1985).<br />
Dato l’accordo sulla cornice, possiamo dunque considerare come<br />
sono strutturati gli atti espliciti nell’interazione. Goffman suggerisce di<br />
prendere in considerazione due aspetti: i requisiti del sistema e i requisiti<br />
del rituale. I requisiti sistemici sono quei requisiti che un sistema<br />
interazionale deve avere, dato che i partecipanti hanno certe capacità<br />
anatomiche, fisiologiche e di elaborazione delle informazioni. I requisiti<br />
rituali si riferiscono alle regole che guidano l’interazione, dato che i<br />
partecipanti sono essere morali che sono guidati da norme di buona ed<br />
appropriata condotta che mantengono reciprocamente. Molto del lavoro di<br />
Goffman sugli scambi si è concentrato sulla spiegazione dei requisiti del<br />
rituale che guidano gli scambi. Tuttavia, in Forms of talk (Goffman, 1981b)<br />
egli delinea prima i requisiti sistemici e poi suggerisce come i requisiti<br />
rituali e quelli sistemici si rafforzano a vicenda. Lo schema dei requisiti del<br />
sistema che egli fornisce, racchiude insieme molti degli esiti del dettagliato<br />
lavoro svolto in anni recenti sull’interazione faccia a faccia. È un buon<br />
sommario di molto di quello che oggi si sa su questa organizzazione. Egli<br />
riesce anche a mostrare molto chiaramente perché il concetto dei requisiti<br />
del rituale è indispensabile per una completa comprensione<br />
dell’interazione.<br />
Lo schema di Goffman comprende otto requisiti sistemici che sono<br />
elencati sotto con alcuni commenti. Ho anche aggiunto alcuni riferimenti<br />
19
ad una selezione di lavori sull’interazione che stanno alla base delle<br />
sommarie affermazioni presentate qui.<br />
Primo, deve esserci una capacità nei due sensi di trasmettere e<br />
ricevere messaggi chiari ed adeguati. Goffman specifica che questi<br />
messaggi devono essere “adeguati da un punto di vista acustico” ma<br />
possiamo supporre che Goffman accetterebbe la formulazione più generica<br />
che ne abbiamo dato, in quanto i messaggi possono anche essere visivi – un<br />
punto a cui dà molta enfasi, in verità, come discuteremo sotto. Questa<br />
capacità di inviare e ricevere messaggi ovviamente dipende da adeguate<br />
condizioni ambientali e dalle circostanze che permettono ai partecipanti sia<br />
di regolare l’apparato “trasmittente”, sia di orientare l’apparato “ricevente”.<br />
In questo modo si può comprendere l’ecologia dei raggruppamenti<br />
conversazionali: le persone devono essere abbastanza vicine da potersi<br />
sentire e vedere, devono orientarsi in modo adeguato, ecc. (si veda Kendon,<br />
1977; Ciolek e Kendon, 1980).<br />
Secondo, è necessaria la presenza di segnali per informare<br />
l’emittente che la ricezione è in atto. Molti aspetti del comportamento degli<br />
ascoltatori possono avere questa funzione. Per esempio, alcune disposizioni<br />
posturali ed orientazionali, normalmente usate dagli ascoltatori, servono ad<br />
informare che si sta prestando attenzione al parlante – Scheflen (1964,<br />
1972) fornisce alcune osservazioni pionieristiche su questo aspetto. Alcuni<br />
modelli di direzione dello sguardo, i gesti della testa e del volto e i brevi<br />
enunciati vocali servono come feedback per il parlante per sapere come i<br />
suoi enunciati sono considerati e ricevuti (Yngve, 1970; Duncan e Fiske,<br />
1977; Goodwin, 1981).<br />
Terzo, ci devono essere segnali per annunciare la ricerca del canale<br />
di comunicazione, per annunciare che un canale è aperto ed anche segnali<br />
per chiudere un canale. Queste funzioni di apertura e chiusura forniscono,<br />
in parte, una spiegazione per la presenza degli scambi di saluto e di<br />
congedo (Kendon e Ferber, 1973, Schegloff e Sacks, 1973).<br />
Quarto, dato che P non può rispondere a Q finché non sa quale sarà<br />
l’azione pertinente di Q, vediamo che i partecipanti agli scambi espliciti<br />
tendono ad alternarsi o a fare a turno quando sono impegnati in azioni<br />
esplicite. Ciò implica che occorreranno una serie di segnali o marcatori<br />
attraverso cui indicare l’inizio e la fine di ogni turno e attraverso cui<br />
indicare quale dei partecipanti avrà il turno successivo.<br />
Bisognerebbe aggiungere che la questione del “turn-taking”<br />
nell’interazione e la sua spiegazione è molto più complessa di quanto<br />
questo paragrafo possa suggerire. Per esempio, P talvolta può iniziare il suo<br />
turno prima che il turno di Q sia terminato. Ciò può accadere non solo in<br />
quelle situazioni in cui P vuole interrompere Q, ma può capitare perché<br />
20
spesso P riesce a prevedere la natura dell’azione attinente di Q, che è in<br />
corso. Questa anticipazione può essere dovuta a diversi fattori, come il fatto<br />
che P può conoscere l’argomento di cui Q sta parlando, che P può avere la<br />
capacità di afferrare la struttura dell’intonazione dell’enunciato di Q o di<br />
afferrare la ridondanza nella struttura del discorso di Q. Questo, talvolta, fa<br />
sì che P completi l’enunciato di Q e che vi faccia delle aggiunte. In alcune<br />
circostanze, inoltre, sembra che gli individui siano in grado di ascoltare e<br />
di parlare allo stesso tempo. Nonostante ciò, l’alternanza degli atti<br />
comunicativi espliciti è una caratteristica preminente di molte interazioni e<br />
ciò probabilmente si può spiegare in gran parte tenendo conto delle<br />
limitazioni della capacità di elaborazione delle informazioni che hanno i<br />
partecipanti. Nelle misura in cui ciò è valido, possiamo aspettarci la<br />
presenza di quegli aspetti del comportamento che funzionano come segnali<br />
per la regolazione del turno, che probabilmente sono inclusi in tutte le<br />
interazioni umane.<br />
Quinto, ci devono essere tecniche per ripetere, ritardare o<br />
interrompere un messaggio.<br />
Sesto, ci devono essere modi attraverso cui i messaggi possono<br />
essere inquadrati in una certa cornice; cioè ci devono essere segnali<br />
metacomunicativi, per usare un termine di Gregory Bateson (si veda<br />
Bateson, 1956), che segnalano come leggere il messaggio inviato.<br />
Settimo, ci sono norme che regolano lo sviluppo del contenuto del<br />
messaggio in modo che sia attinente a ciò che è stato detto in precedenza.<br />
Infine, ci devono essere regole che guidano la relazione tra gli<br />
individui attivamente impegnati in uno scambio e coloro che, pur<br />
trovandosi a portata di ciò che è in atto, non sono partecipanti. Cioè, ci<br />
devono essere dei modi per distinguere gli effettivi emittenti-riceventi dai<br />
potenziali emittenti-riceventi. Ancora una volta troviamo un principio in<br />
base a cui considerare la condotta spaziale ed orientazionale degli individui<br />
co-presenti, dove alcuni dei essi sono impegnati in uno scambio mentre<br />
altri no o non nello stesso scambio. (Kendon, 1977; Ciolek e Kendon,<br />
1980).<br />
Questi requisiti sistemici possono contribuire in modo determinante a<br />
spiegare ciò che osserviamo dell’organizzazione del comportamento negli<br />
scambi espliciti. Tuttavia, essi ci sono utili se assumiamo che i partecipanti<br />
hanno già, come dice Goffman stesso, “concordemente deciso di operare<br />
(di fatto) soltanto come nodi di comunicazione e di rendersi del tutto<br />
disponibili a questo scopo” (Goffman, 1981b: 15; trad. it., 1987, p. 44).<br />
Se una persona deve impegnarsi ad operare come “nodo di<br />
comunicazione”, tuttavia, può farlo solo rispetto ad un unico sistema per<br />
volta (un altro “requisito del sistema”), e di conseguenza deve rinunciare a<br />
21
qualunque altra attività. Ricevere una richiesta di aprire un canale di<br />
comunicazione con un’altra persona, significa ricevere la richiesta di<br />
mettere da parte le altre richieste. Questa richiesta è una violazione della<br />
propria autonomia, quindi, il ricevente potrebbe sentirsi offeso. Allo stesso<br />
modo, trasmettere una richiesta per l’apertura di un canale di<br />
comunicazione ad un altro significa rischiare che l’altro la consideri<br />
un’offesa e ricevere un rifiuto, e significa rischiare che la propria<br />
rispettabilità, come persona individuale, venga negata. E ovviamente<br />
l’altro, nel rifiutare, è probabile che sia visto come una persona che nega il<br />
valore degli altri – buona ragione, questa, per non inviare, in futuro,<br />
richieste per aprire un canale di comunicazione a quella persona. Le<br />
richieste per aprire un canale di comunicazione sono rischiose per la stima<br />
di se stessi, quindi, ma rifiutare queste richieste equivale a mettere a rischio<br />
la rispettabilità che gli altri accorderanno a quella persona. Quindi il<br />
destinatario ha un certo obbligo di rispondere ma l’emittente ha l’obbligo di<br />
formulare il suo discorso in modo da consentire all’altro di rifiutare, se<br />
deve, con cortesia.<br />
Quindi possiamo vedere che gli scambi espliciti hanno delle<br />
caratteristiche che non possono essere spiegate semplicemente in termini di<br />
requisiti sistemici. Nel cercare di aprire una conversazione, per esempio, le<br />
persone rivolgono agli altri vari tipi di gesti e di enunciati che, pur avendo<br />
la funzione di aprire un canale, servono anche come mezzi per riconoscere<br />
la rispettabilità dei partecipanti. Per chiudere una conversazione, una<br />
persona non mette semplicemente fuori servizio i suoi organi di ricezione<br />
(cioè non si tappa le orecchie o chiude gli occhi), passa piuttosto attraverso<br />
un elaborato processo di avviso di chiusura. Si cerca prima un accordo sulla<br />
chiusura e poi si avvia questo accordo; e la cerimonia della chiusura stessa<br />
è vincolata da espressioni che rassicurino reciprocamente i partecipanti che<br />
l’interruzione dei canali di comunicazione che sta per avere luogo non<br />
implica che essi non saranno disposti a riaprirli, se le circostanze dovessero<br />
permetterlo. Dunque i processi di apertura e di chiusura di un canale di<br />
comunicazione sono elaborati attraverso rituali di saluto e di congedo.<br />
Possiamo cercare di spiegarli in termini di requisiti sistemici ma una<br />
comprensione della loro struttura richiede anche una comprensione dei<br />
requisiti rituali dell’interazione. La manovre pre-esplicite di saluto a cui<br />
abbiamo alluso prima, spesso composte dal comportamento considerato<br />
appartenente alla pista della disattenzione, richiedono l’aspetto rituale<br />
dell’interazione per essere comprese. Infatti, il modo stesso in cui le<br />
persone scelgono di differenziare le azioni in “esplicite” e non “esplicite”, è<br />
una funzione della struttura rituale dell’interazione. Certo, il modo selettivo<br />
con cui rispondiamo al comportamento degli altri è una conseguenza delle<br />
22
limitazioni delle capacità d’attenzione. La risposta differenziata, quindi, ha<br />
origine in un requisito del sistema. Ma ciò su cui le persone si accordano di<br />
prendere o non prendere in considerazione è parte dell’accordo generale<br />
che essi hanno di considerarsi reciprocamente come persone rispettabili.<br />
Anche l’accordo a cui si arriva, quindi, è regolato da requisiti rituali.<br />
Atti espliciti<br />
Ora, deve essere discussa un’ultima questione sollevata dall’analisi di<br />
Goffman sugli scambi espliciti: si tratta della questione della natura di<br />
questi atti espliciti, in virtù della quale sono organizzati. Ho cercato, per<br />
quanto possibile, di non specificare cosa siano gli “atti espliciti”. La<br />
maggior parte delle volte, naturalmente, sembra che assumiamo che ciò che<br />
si considera un “atto esplicito” sia un atto linguistico o almeno una<br />
vocalizzazione, e virtualmente tutti gli studi che hanno tentato di fare una<br />
precisa analisi dell’interazione si sono limitati alle occasioni in cui gli<br />
scambi di enunciati verbali costituiscono il principale coinvolgimento dei<br />
partecipanti; ciò vale anche per quegli studi il cui principale interesse erano<br />
gli aspetti non-verbali della comunicazione. Il numero di indagini<br />
sull’interazione dove il parlato non è compreso o dove gioca un ruolo<br />
minore sono davvero pochi, per quanto ne so.<br />
Goffman, tuttavia, si è dato sempre molto da fare per mettere in<br />
evidenza che gli atti espliciti, di cui sono composti gli scambi espliciti, non<br />
devono essere necessariamente né atti linguistici né gesti, ma possono<br />
essere qualsiasi cosa i partecipanti abbiano deciso di considerare come<br />
esplicito. Ad un atto verbale si può rispondere in modo appropriato con un<br />
gesto, come quando dico “Passami il sale” ed il sale viene passato; ad<br />
un’azione fisica si può rispondere adeguatamente con un atto verbale, come<br />
quando il cameriere muove il beccuccio della caffettiera ed io dico “Solo<br />
metà tazza, per favore”; e ad un’azione fisica si può rispondere<br />
appropriatamente con un’altra azione fisica, come quando A prende una<br />
sigaretta, ne offre una a B, B la prende e tira fuori il suo accendino e lo<br />
porge con la fiamma accesa ad A affinché possa accendere.<br />
O si consideri la transazione che ha luogo quando un cliente compra<br />
una tavoletta di cioccolato in un bar. Il cliente può avvicinarsi alla cassa e<br />
dire “Quanto costa?” e la cassiera può rispondere “50 centesimi”. Qui<br />
abbiamo una domanda verbale alla quale segue una risposta verbale.<br />
Tuttavia, il cliente può anche avvicinarsi alla cassa e mantenere la tavoletta<br />
di cioccolato tenendola in alto e in avanti in modo che sia bene in vista.<br />
23
Anche questa sarà presa come una mossa e la cassiera può dire ancora,<br />
semplicemente, “50 centesimi”. Qui un’azione fisica, combinata con il<br />
mantenere un oggetto, riceve una risposta verbale. Infine, se il cliente<br />
conosce già il prezzo della tavoletta di cioccolato può avvicinarsi alla cassa<br />
mantenendo sia la cioccolata che i soldi, a questo la cassiera può<br />
semplicemente stendere la mano, col palmo verso l’alto, il cliente vi può<br />
depositare il denaro e andarsene. Qui l’intera transazione è condotta senza<br />
dire una parola. Tuttavia, in tutti e tre i casi abbiamo un esempio di<br />
scambio esplicito, uno scambio che, in ogni caso, ha fondamentalmente la<br />
stessa struttura.<br />
Per le transazioni di questo tipo possiamo identificare una mossa di<br />
apertura, per mezzo della quale il cliente stabilisce il suo desiderio di essere<br />
un acquirente, mosse attraverso cui è identificata la merce di cui si ha<br />
bisogno ed è stabilito il prezzo ed una serie di mosse finali attraverso cui il<br />
denaro è offerto e ricevuto. Che queste mosse e risposte siano realizzate<br />
attraverso delle manovre spaziali e l’orientazione, attraverso i gesti facciali<br />
o manuali, attraverso la manipolazione e il passaggio degli oggetti,<br />
attraverso la parola o attraverso una combinazione di tutto ciò, il modello<br />
organizzativo della transazione resta lo stesso.<br />
Si può riconoscere, dunque, una struttura comune per queste transazioni di<br />
vendita. Si può mostrare come, in varie circostanze, le mosse stesse sono<br />
espresse in modi diversi: ora solamente come manovre spaziali e manipolazione<br />
degli oggetti, ora come atti linguistici e gesti. Un’analisi di questo tipo<br />
mostrerebbe come, “le sequenze interazionali stabiliscono una fessura, ed essa<br />
può essere riempita con qualsiasi cosa sia disponibile: se non si ha una frase, un<br />
borbottio può andare bene, se non si ha un borbottio, una contrazione muscolare<br />
farà lo stesso” (Goffman, 1971: 149, n. 38).<br />
Con esempi di questo tipo, Goffman riesce a concludere, come fa in<br />
“Replies and Responses” (Goffman, 1981b), che il parlato non è che un “esempio<br />
di quell’organizzazione in virtù della quale gli individui si riuniscono e<br />
sostengono una situazione che ha un centro di attenzione ratificato, reciproco e in<br />
continuo sviluppo, il che li colloca insieme in qualche sorta di mondo mentale<br />
intersoggettivo” (Goffman, 1981b: 70-1; trad. it., 1987, p. 111). Egli è d’accordo<br />
sul fatto che “le parole sono il più importante strumento per portare parlante e<br />
ascoltatore” nello stesso mondo mentale intersoggettivo, ma mette in evidenza<br />
che sebbene le parole possano essere il “mezzo migliore” per fare ciò, “non<br />
significa che siano l’unico e neppure che l’organizzazione sociale che ne risulta<br />
sia intrinsecamente verbale in natura”.<br />
L’organizzazione sociale che ne deriva è, come abbiamo visto, un<br />
prodotto dei processi sull’accordo sulla cornice, dei vincoli sistemici, e dei<br />
requisiti rituali.<br />
24
I processi sull’accordo della cornice permettono ai partecipanti di<br />
arrivare al “consenso operativo” dell’incontro, tramite il quale ci si accorda<br />
su quali aspetti del comportamento bisogna considerare come “mosse” e<br />
cosa sia pertinente al contenuto dell’incontro.<br />
I vincoli sistemici contribuiscono all’organizzazione ecologica<br />
dell’incontro e determinano anche il tipo di organizzazione basilare che<br />
avranno le sequenze delle mosse, che sono condizionate dalla natura del<br />
comportamento che è considerato come “azione esplicita”. Per esempio, se<br />
è coinvolto il parlato, possiamo aspettarci una struttura di “turn-taking”, se<br />
sono coinvolti i movimenti di una danza o azioni come le carezze o la lotta,<br />
è probabile che ci sia una struttura diversa.<br />
I requisiti rituali spiegano i modi in cui i partecipanti mostrano la<br />
loro volontà di partecipare all’incontro, i modi in cui mostrano livelli di<br />
attenzione appropriati e risposte appropriate e come negoziano ed arrivano<br />
ad un accordo per chiudere un incontro.<br />
I processi sull’accordo della cornice, la gestione dei vincoli sistemici<br />
e l’adempimento dei requisiti rituali includono una varietà di azioni che<br />
può includere il parlato, ma non sempre – ma che sempre include tipi di<br />
comportamento diversi dal parlato. Il parlato quindi non è fondamentale per<br />
la produzione degli scambi espliciti, non sempre è necessario.<br />
Ciononostante, conserva un posto centrale nella nostra esperienza, che<br />
nessuno potrebbe negare. Il problema resta determinare che posto occupa<br />
nell’interazione. La discussione di Goffman serve a sollevare questo<br />
problema. La sua soluzione è una questione lasciata ai lavori futuri.<br />
Conclusioni<br />
Come si può riassumere il contributo di Goffman allo studio<br />
dell’interazione faccia a faccia e quali compiti ci ha lasciato per il futuro?<br />
Primo, credo che egli abbia dato ampia dimostrazione della<br />
fondatezza della sua opinione di considerare le occasioni interazionali<br />
come sistema che merita uno studio a parte. Egli ha espresso in modo<br />
particolarmente chiaro il punto che i partecipanti possono impegnarsi in<br />
azioni in un’interazione nell’interesse del sistema in cui sono coinvolti, e<br />
non perché abbiano necessariamente qualcosa da esprimere. Ha mostrato<br />
l’importanza di un approccio il cui punto di partenza per l’analisi non sia<br />
l’individuo ma l’interazione tra gli atti. Ciò ha fornito, per molti di noi<br />
almeno, un’intelaiatura nuova, in base a cui interpretare le piccole<br />
componenti del comportamento interazionale, le quali finora erano state<br />
considerate in termini puramente psicologici.<br />
25
Secondo, credo che egli ci abbia aperto gli occhi e ci abbia fatto<br />
vedere che tutto ciò che le persone fanno quando sono in presenza degli<br />
altri meritano di essere studiate minuziosamente, che la regolarità del<br />
comportamento degli individui quando sono in co-presenza è meritevole di<br />
attenzione, e non solo quegli eventi che normalmente ci si aspetta che noi<br />
riportiamo. Ci ha mostrato sia la possibilità sia l’importanza di una storia<br />
naturale dell’interazione sociale e ha ampliato di molto il campo<br />
dell’osservazione.<br />
Infine, ci ha fornito una terminologia che ci permette di parlare della<br />
complessità dell’interazione. In particolare, ha proposto una serie di termini<br />
che servono a mostrare come le caratteristiche comuni dell’interazione<br />
quotidiana siano rappresentative di un’intera classe di fenomeni che, fino a<br />
Goffman, non erano mai stati trattati in questo modo. Per fare giusto un<br />
esempio, chiamando la conversazione “interazione focalizzata”, ha in tal<br />
modo assegnato la conversazione ad una più vasta classe di occasioni<br />
interazionali, di cui la conversazione non è che una specie. In questo modo<br />
ha gettato le basi per una teoria generale dell’interazione faccia a faccia.<br />
Per il futuro ci sono molte questioni, ma ce ne sono tre che mi<br />
sembrano di particolare importanza.<br />
Primo, c’è la questione della generalità culturale dello schema di<br />
Goffman. Fino a che punto l’analisi delle pratiche dell’interazione di<br />
Goffman è appropriata solo alla cultura in cui visse e scrisse, o in che<br />
misura può essere applicata più genericamente? La mia opinione è che<br />
l’analisi dell’interazione di Goffman può essere vista come il tentativo di<br />
una formulazione applicabile all’interazione umana in generale. I principali<br />
concetti che egli ha sviluppato, incluso quelli di “raggruppamento”, “unità<br />
di partecipazione”, il contrasto tra interazione “focalizzata” e “non<br />
focalizzata”, l’analisi del lavoro di definizione della cornice che gli<br />
interagenti devono fare per stabilire le occasioni di interazione focalizzata,<br />
gli scambi rituali che ha identificato, specialmente il “parentesizzare” o l’<br />
“accesso rituale” (Goffman, 1971: 73-80, trad. it., 1987, p. 50) tramite i<br />
quali le cornici interazionali vengono stabilite e alterate - possono essere<br />
considerate come proposte completamente generiche per le caratteristiche<br />
dell’interazione faccia a faccia. Tuttavia, le analisi comparative delle<br />
pratiche dell’interazione sembrano essere ancora troppo rare affinché<br />
queste affermazioni possano essere maggiormente elaborate.<br />
Per intraprendere uno studio comparativo più sofisticato, credo che i<br />
tentativi di creare una tassonomia dell’interazione sociale sarebbero di gran<br />
valore. C’è tutta una serie di termini che usiamo nella vita di tutti i giorni<br />
per riferirci a diversi tipi di occasioni sociali, diversi tipi di incontri; e<br />
Goffman stesso fa uso di alcuni di essi in modo quasi tecnico, suggerendo<br />
26
la possibilità di una sistematica delle occasioni interazionali, sebbene non<br />
presentandone una lui stesso. Così, ha distinto l’interazione in<br />
“focalizzata” e “non focalizzata” ma anche messo in evidenza come le<br />
occasioni si distinguono anche per la cornice di partecipazione – come la<br />
differenza tra eventi “podio” e occasioni in cui i diritti alla partecipazione<br />
sono più equamente distribuiti. Goffman fornisce un punto di partenza per<br />
una simile classificazione dei diversi tipi di occasioni interazionali. Sta ad<br />
altri sviluppare questo aspetto in futuri lavori.<br />
Infine, c’è la questione della natura delle unità di cui sono composti<br />
gli scambi espliciti. Ho fatto riferimento a questo, evidenziando come<br />
Goffman, soprattutto in “Replies and Responses” e in “On Footing”,<br />
afferma che “tutto può bruciare nel fuoco della conversazione”. Goffman<br />
ha chiaramente ragione qui; tuttavia, essere lasciati con il punto molto<br />
generico che la conversazione – con cui presumibilmente egli intende<br />
qualunque tipo di interazione focalizzata – è “un prolungato segmento di<br />
riferimenti, dove ciascun riferimento tende ad avere, ma spesso in maniera<br />
indiretta, una qualche connessione percepibile retrospettivamente con<br />
quello immediatamente precedente” (Goffman, 1981b: 72; trad. it, 1987, p.<br />
113), significa essere lasciati con una sfida, non una risposta. La sfida è<br />
decifrare i modi in cui sono elaborati i diversi tipi di azioni che possono<br />
essere utilizzate come riferimenti. Quali sono i contesti, le situazioni, in cui<br />
gli individui seguono le giuste limitazioni del modello conversazionale,<br />
quando invece non lo fanno? Come possiamo esplicare che posto occupa il<br />
parlato nell’interazione umana, dopo tutto?<br />
Nota<br />
Vorrei ringraziare Mathew Ciolek, Charles Goodwin, Allen Grimshaw, Wendy Leeds-<br />
Hurwitz, Stephen Mugford e Emanuel Schegloff per gli utili commenti e suggerimenti.<br />
Sono molto grato a Anthony Wootton e Paul Drew per avermi suggerito di scrivere<br />
questo articolo. Il supporto finanziario, istituzionale e tecnico per questo articolo<br />
provengono dall’Australian Institute for Aboriginal Studies, dal Dipartimento di<br />
Antropologia della Research School of Pacific Studies dell’Università Nazionale<br />
Australiana, Camberra e dal National Science Foundation di Washington, DC.<br />
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