Intervista a Massimo Follis sul suo percorso intellettuale
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Settembre 2006, Anno 3, Numero 5<br />
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sociologia.newsletter@unito.it<br />
<strong>Intervista</strong> a <strong>Massimo</strong> <strong>Follis</strong><br />
di Marco Pozzan<br />
3<br />
R ic e rca S ocia le<br />
R i c e r c a S o c i a l e<br />
Quarant'anni di professione. Come anticipato proponendole<br />
l’intervista, inizierei chiedendole di parlarci<br />
della sua tesi.<br />
Mi chiede della tesi, la mia storia però comincia prima. Mentre<br />
l’attendevo ho ripensato al mio rapporto con la disciplina e mi<br />
sono reso conto che non si tratta di una storia continua, ma<br />
piuttosto caratterizzata da diverse svolte e ricominciamenti.<br />
Alcuni colleghi mi dicono che in fondo è riconoscibile nel mio<br />
lavoro un filo rosso. Io però non lo vedo chiaramente.<br />
Percepisco piuttosto le discontinuità. La mia carriera è atipica<br />
rispetto a quanto comunemente avviene. Sono stato infatti<br />
cooptato precocemente dall’allora neonata Facoltà di Scienze<br />
politiche alla ricerca di risorse e avendo sciolto a quel tempo<br />
ogni dubbio <strong>sul</strong>la mia vocazione professionale, accettai subito.<br />
Ho poi sostato a lungo prima nella posizione di Professore<br />
incaricato, quindi associato, percorrendo diverse piste di<br />
ricerca, cui successiva-mente non ho dato seguito. Questo<br />
denota una certa dispersione nella mia carriera, una metrica<br />
non ordinata. Credo sia significativo dirlo. Un assestamento è<br />
avvenuto nella seconda metà degli anni ottanta.<br />
Volendo individuare un punto d’inizio, io nasco alla sociologia<br />
grazie al Professor Marletti, che negli anni sessanta aveva<br />
creato presso il corso di laurea in Scienze politiche (all’insegna<br />
della cattedra di Socio-logia del Professor Barbano) i Gruppi di<br />
ricerca di sociologia. Cominciai assistendo ai seminari<br />
promossi da Barbano e da Bobbio presso l'Istituto Gioele<br />
Solari. Si trattava per lo più d'incontri con intellettuali non<br />
accademici, spesso provenienti dal mondo della politica,<br />
qualificati a confrontarsi con la sociologia (d’altra parte gli<br />
accademici della nostra disciplina erano allora pochissimi).<br />
Ricordo una splendida lezione di Vittorio Foa! Inoltre anche noi<br />
eravamo sollecitati ad attivare dei seminari. Fu nel complesso<br />
un’iniziativa davvero appassionante. Poi, poco alla volta,<br />
spinto da una forte passione <strong>intellettuale</strong>, entrai a fare parte di<br />
questa piccola comunità. Non siamo in molti ad essere<br />
sopravvissuti a quell’esperienza. Nel gruppo originario, con<br />
maggiore o minore coinvolgimento, erano presenti alcuni miei<br />
coetanei, tra i quali il Professor Pichierri (ora a Scienze della<br />
formazione), il Professor Almondo e il Professor Fischer.<br />
Proprio il Professor Fischer ha ricordato questa esperienza<br />
durante l’intervista a noi rilasciata e pubblicata<br />
nel numero precedente. Svolgevate dunque attività di<br />
ricerca.<br />
Newsletter di Sociologia<br />
L’intervista al professor <strong>Massimo</strong> <strong>Follis</strong> si inserisce nello spazio ormai consueto dedicato alle storie<br />
intellettuali dei e delle docenti dell’Ateneo torinese. <strong>Massimo</strong> <strong>Follis</strong> è afferente ai corsi di studio in<br />
Scienze dell’Amministrazione e Con<strong>sul</strong>enza del Lavoro (laurea di 1° livello), e in Analisi e valutazione dei<br />
Sistemi Complessi (specialistica). È titolare degli insegnamenti di Introduzione all’analisi dei reticoli<br />
sociali e Sociologia del lavoro, nonché neo-coordinatore del Dottorato di ricerca in Ricerca Sociale<br />
Comparata, presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino.<br />
Sì, iniziai a fare ricerca prima di laurearmi. Eravamo "<strong>sul</strong><br />
mercato" per così dire. Si trattava per lo più di piccole<br />
ricerche, ma talvolta anche pagate. Ricordo in particolare due<br />
survey con questionario strutturato per il Piano regionale della<br />
Valle d’Aosta. Certo, io ero un pulcino e il mio compito<br />
prevalente era quello di effettuare le interviste. Ma già subito<br />
dopo la laurea mi fu offerta l'opportunità di condurre insieme<br />
al Professor Taglioli (quasi un tandem, il nostro, all’interno del<br />
più vasto gruppo) una survey sugli operai contadini,<br />
nell'ambito di un progetto diretto dal prof. Barbano. Era un<br />
tema che avevamo scelto noi (Barbano era davvero molto<br />
disponibile). C'interessava studiare il fenomeno dal punto di<br />
vista dell’alternanza d'attività. Un tema curioso, se vuole; una<br />
sorta di fiore all’occhiello, che pur rientrando nella tematica<br />
più vasta del cambiamento sociale, era ai margini della<br />
sociologia di allora, in cui dominavano gli studi <strong>sul</strong>la seconda<br />
fase dell'industrializzazione che aveva assunto una dimensione<br />
di massa, e richiamava l’attenzione sui problemi dall’immigrazione.<br />
Tuttavia, vi riconosco un rilievo analitico. Infatti, nel<br />
paper che poi scrissi con Taglioli, confrontandomi con le analisi<br />
dei processi di modernizzazione che parlavano di una progressiva<br />
specializzazione dei ruoli e trovandomi di fronte ad un<br />
fenomeno che andava apparentemente contro tali considerazioni,<br />
mi domandavo se alla sua origine ci fossero unicamente<br />
motivi di convenienza economica e non anche l'aspirazione ad<br />
un lavoro autonomo, di cui il parallelo lavoro in fabbrica<br />
riduceva l'incertezza di reddito. Mi ponevo, cioè, già delle<br />
domande che nascevano all’interno della disciplina. Ci credevo<br />
molto....tanto che quando, in quel periodo, mi fu offerta la<br />
possibilità d’intraprendere la carriera diplomatica (a seguito di<br />
uno stage molto selezionato presso tutte le sedi italiane a<br />
Parigi, durante il quale mi occupai pure a fondo della mia tesi<br />
di laurea), rifiutai piacendomi e riconoscendomi più nel mondo<br />
della ricerca sociale.<br />
Questo avvenne durante il periodo universitario?<br />
Sì, nell’ultimo anno. Fu un impegno di circa tre mesi. Ricordo<br />
che mi mantenevo malamente, si richiedevano infatti vestiti<br />
inappuntabili e avevo qualche problema in questo. Ma,<br />
insomma, mi fu comunque fatto intendere che avrebbero<br />
avuto un occhio di favore nei miei confronti durante il<br />
successivo concorso, avendo io soddisfatto le aspettative di chi<br />
mi monitorava.<br />
Compiuta la scelta per la sociologia mi rilassai. Fino a quel<br />
momento non ero stato così convinto del mio <strong>percorso</strong>. Avevo<br />
addirittura intrapreso il corso di Laurea in Scienze politiche
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perché era quello che vincolava di meno. Fu in sostanza una<br />
scelta per esclusione piuttosto che in positivo.<br />
Il rapporto con le scienze sociali è dunque certamente<br />
maturato in me grazie alla frequentazione dei Gruppi di<br />
sociologia: un ambiente anche umano molto importante, fatto<br />
di relazioni profonde. Fu un periodo bellissimo. Erano gli anni<br />
sessanta, un periodo entusiasmante per chi, orientato come<br />
noi a sinistra, credeva in un cambiamento della società in<br />
meglio. Ricordo che eravamo stakanovisti, lavoravamo anche<br />
a Natale. Lavoravo sempre! Lavoro regalato....era una forma<br />
d'apprendistato. Avevamo una visione militante della ricerca,<br />
la passione politica era indubbiamente un nostro elemento<br />
qualificante. Insieme a Marletti mi spinsi a proporre al gruppo<br />
dirigente della Federazione di Torino del Partito Comunista, al<br />
quale ero allora iscritto, di fare una riflessione sociologica <strong>sul</strong>la<br />
sua democrazia interna. Ci fu permesso e fu quindi organizzato<br />
un seminario, durante il quale raccontammo loro, con caute<br />
e garbate argomentazioni e avanzando proposte, che il calo di<br />
iscritti e di partecipazione alla vita del Partito era dovuto al<br />
muro di gomma esistente tra la base e i vertici - di cui per<br />
altro erano perfettamente consapevoli. Non intendevamo<br />
fornire linee d’azione, né essere consiglieri del principe;<br />
piuttosto cercavamo spazi, desideravamo dimostrare l’utilità<br />
dei nostri lavori. Una posizione che ancora condivido. Mi<br />
caratterizzava, cioè, una visione dal basso, unita all’interesse<br />
per la democrazia diretta - aspetti poi ricorrenti, a partire dalla<br />
mia tesi di laurea.<br />
Tuttavia, la scelta della tesi, anch’essa importante, costituisce<br />
un capitolo a parte.<br />
Me ne parli.<br />
Impiegai tre anni per preparare la tesi di laurea. È un episodio<br />
a sé, una dimensione che suscita ancora ambiguità e<br />
sofferenza nel mio ricordo personale, perché sono convinto<br />
che avrei potuto trarne una monografia se fossi stato più<br />
imprenditivo, a fronte del mancato sostegno del mio relatore e<br />
della votazione di 108 che ottenni, invece del massimo dei<br />
voti, come mi aspettavo. Tuttavia, ho sempre avuto un debito<br />
di gratitudine per Bobbio, che come correlatore e in modo<br />
inusuale (dimostrando anche profonda sensibilità umana) fece<br />
un intervento per mia fortuna molto favorevole. In seguito, mi<br />
propose anche di scrivere due voci (Consigli operai e Autogestione,<br />
che ora si possono considerare come archeologia<br />
politica) per il Dizionario di politica da lui curato, così che misi<br />
in parte a frutto il lavoro della tesi.<br />
Però fu nel complesso un evento spiacevole, che mi ha reso<br />
molto attento a questi passaggi nelle carriere dei giovani. Uno<br />
squilibrio fra investimento e ricompensa può provocare delle<br />
cicatrici che restano. In particolare, non avere un riconoscimento<br />
in un contesto così incerto come quello dell’attività<br />
creativa può portare a pensare che ciò che si è prodotto non<br />
ha valore, con conseguenze negative sia <strong>sul</strong> piano psicologico,<br />
sia su quello pratico (se non si pubblica, non si è conosciuti).<br />
Quale argomento affrontò nella sua tesi di laurea?<br />
Dopo un’incertezza iniziale, discutendone con Barbano, decisi<br />
Newsletter di Sociologia<br />
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per il tema dell’autogestione. All’epoca, la Repubblica<br />
Jugoslava, che comprendeva tutto ciò che fu successivamente<br />
smembrato, avendo rotto negli anni Cinquanta con il blocco<br />
sovietico e pur mantenendo un regime a partito unico<br />
d'ispirazione socialista, tentava di battere in ambito economico<br />
una terza via, alternativa a quella capitalista e a quella a<br />
pianificazione centralizzata. L’ideologia era quella dell’autogestione,<br />
appunto. Questa prospettiva ha illuso molti. Vi furono<br />
tentativi nell’Algeria di Ben Bella, subito dopo l’indipendenza<br />
dalla Francia, ed è poi noto il ruolo della Jugoslavia e dell’India<br />
nel Movimento dei paesi non-allineati. Un pezzo di storia fallita<br />
ma importante, che intrigava molto. Ebbene, io affondai in<br />
questo. Volendo risalire alle origini di tale prospettiva,<br />
m'immersi in un mare di letture <strong>sul</strong> socialismo in generale e su<br />
quello utopista in particolare, che sfociarono in uno studio<br />
sistematico di quei filoni del movimento operaio, che negli anni<br />
della Rivoluzione d’ottobre, promossero sollevazioni in tutta<br />
Europa all’insegna dell’autogoverno operaio, l’altra faccia<br />
dell’autogestione.<br />
Ma il pezzo forte della tesi era la descrizione del meccanismo<br />
di funzionamento dell’autogestione. Un meccanismo complicatissimo,<br />
che aveva una base nell’economia (gli utili delle<br />
imprese, pur essendo queste di proprietà pubblica, potevano<br />
essere reinvestiti e gestiti direttamente dai lavoratori, che<br />
avevano anche qualche diritto <strong>sul</strong>la nomina dei direttori) ed<br />
una nella politica. Vi era cioè una continua tensione tra<br />
decisioni centralistiche di piano e quelle autonome: l’idea era<br />
di rilassare man mano le prime. Il problema della Jugoslavia,<br />
noto allora e analogo alla situazione italiana oggi, era la<br />
compresenza di regioni ricche al nord e molto povere al sud,<br />
che godevano delle redistribuzioni di risorse provenienti dalla<br />
tassazione, suscitando conflittualità. Non conoscendo il serbocroato,<br />
potei con<strong>sul</strong>tare la sola letteratura ufficiale in francese,<br />
che taceva dei conflitti nazionali ed etnici, di cui siamo venuti<br />
poi tutti a conoscenza. Compresi successivamente che il<br />
tentativo messo in atto era di sanare i dissidi interni per via<br />
economica, cioè riconoscendo le autonomie locali. Il mio fu per<br />
certi aspetti un lavoro cieco, privo di un vero bandolo critico.<br />
Si trattò quindi di un tentativo fallito.<br />
Certamente, a fronte poi delle conseguenze a tutti note.<br />
Tuttavia, era un argomento di forte interesse in Occidente,<br />
una terza via verso lo sviluppo. Riassumendo schematicamente,<br />
l’idea, originariamente in Lenin e da lui poi contraddetta,<br />
che i mezzi del cambiamento devono essere adatti al livello<br />
di sviluppo delle forze produttive, era coerente con l’allora<br />
diffusa predilezione per l’autogestione, e sembrava riconoscere<br />
uno spazio effettivo alla libertà individuale (la democrazia<br />
diretta). Quest'aspetto si saldava con un altro mio interesse<br />
sociologico, la possibilità di prendere decisioni come manifestazione<br />
attiva della libertà. Fu un periodo, infatti, in cui mi<br />
occupai anche di scienza politica, conseguendo appena<br />
laureato una borsa di studio presso il CoSPoS (Comitato per le<br />
Scienze Politiche e Sociali in Italia).<br />
La parte originale e che più mi appassionò della tesi era<br />
vedere se e come potesse funzionare un sistema di gestione
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basato su decisioni prive del presupposto del comando. Due<br />
erano gli aspetti rilevanti: da una parte la necessità di<br />
coniugare gli interessi particolari dei lavoratori coinvolti nella<br />
direzione dell’impresa, inclini a spartirsi gli utili, con quello<br />
generale del loro reinvestimento; dall’altra, l’intento di<br />
realizzare processi gestionali condivisi, tali per cui ogni<br />
lavoratore si trovasse a perseguire obiettivi e rispettare regole<br />
che aveva contribuito a stabilire. Si tratta di un livello d'analisi<br />
micro, per il quale la sociologia del tempo non forniva quasi<br />
alcuno strumento (ricordo quanto cercai di spremere dalla<br />
distinzione tra potere e autorità!), ma che qualifica il mio<br />
rapporto con la disciplina. Da questo tentativo d'analisi sono<br />
iniziati i miei interessi per il lavoro e l'aspirazione a far<br />
coesistere l’impegno professionale nella disciplina con quello<br />
politico, un elemento senza tener conto del quale si comprende<br />
poco la mia generazione in Italia. L’idea era quella di<br />
condurre studi utili ad una parte politica affinché potesse<br />
correggere gli errori e realizzare al meglio i propri obbiettivi.<br />
Senza poi dimenticare che in famiglia ebbi esperienza diretta<br />
del mondo dell’industria, in quanto mio padre era stato un<br />
piccolo imprenditore.<br />
Quanto durò la sua collaborazione presso il CoSPoS?<br />
Poco, perché presto diventai assistente volontario in Sociologia<br />
(chiamato proprio dal Professor Barbano), poi assistente<br />
supplente (sostituendo il Professor Farneti che fu promosso di<br />
grado) e quindi nel 1969, nell’appena nata Facoltà di Scienze<br />
politiche, ebbi l’incarico in Sociologia del lavoro e da allora l’ho<br />
sempre mantenuto.<br />
Di cosa si è occupato da quel momento?<br />
L'assunzione dell'insegnamento di questa materia riorientò di<br />
necessità i miei interessi. Volendo dare qualche elemento di<br />
contiguità, posso citare alcuni miei input ispiratori.<br />
Un autore che influenzò diversi torinesi, orientandoli allo studio<br />
del lavoro, fu Alain Touraine. Quest’autore francese è<br />
diventato progressivamente una maitre-a-pensée, che ben<br />
rappresenta una visione della sociologia che mi è pochissimo<br />
congeniale. Ma la sua tesi di dottorato, una ricerca <strong>sul</strong>l’evoluzione<br />
del lavoro operaio nelle officine Renault, rappresentò<br />
una piccola Bibbia per diversi di noi, anche perché si<br />
interfacciava molto bene con le considerazioni che Marx aveva<br />
svolto nel Quarto capitolo del primo libro del “Capitale” (un<br />
capitolo di sociologia del lavoro e dell’organizzazione vera e<br />
propria). Allora questo si combinava, <strong>sul</strong> piano empirico, con il<br />
progetto <strong>intellettuale</strong>, non solo mio, di fare una sociologia<br />
marxista: di rendere seria e scientifica una sociologia basata<br />
<strong>sul</strong> marxismo. Progetto che <strong>sul</strong> piano analitico-teorico traeva<br />
alimento dalle argomentazioni di Althusser, in una prospettiva<br />
strutturalista. Probabilmente, per certi versi era un pasticcio.<br />
Si trattava di temi classici. Mi occupavo, cioè, di sociologia del<br />
lavoro nel senso dell’organizzazione, di work, non di labour,<br />
ovvero di mercato del lavoro. Di quest’ultimo, che ora è il mio<br />
tema, iniziai ad interessarmi molto tardi. Allora l’attenzione<br />
era rivolta ai modi di produzione ed alle loro transizioni (che io<br />
studiavo da un punto di vista micro-analitico, senza successo<br />
mancando gli strumenti nella sociologia di quel tempo), alla<br />
qualificazione del lavoro e soprattutto di quello operaio, agli<br />
Newsletter di Sociologia<br />
5<br />
effetti dell’automazione e dell’innovazione tecnologica, ai quali<br />
man mano negli anni settanta si è affiancato il tema<br />
dell’organizzazione a livello d’officina. Per alcuni aspetti (penso<br />
cioè a Balibar, un collaboratore di Althusser), l’approccio strutturalista<br />
offriva delle risposte: per esempio con la distinzione<br />
formale tra modo di produzione artigianale ed industriale. Oggi<br />
non ne parlo più; sono temi ed autori che hanno fatto il loro<br />
tempo non lasciando alcuna traccia, salvo la prospettiva<br />
strutturalista che ritengo un mio filo rosso.<br />
Devo tuttavia riconoscere che gli anni settanta sono stati un<br />
periodo orribile per me, anche perché vivevo con sofferenza e<br />
come una continua interferenza le richieste di prese di posizione<br />
politica da parte degli studenti. Mi sentii usato. Avrei<br />
dovuto dimostrare maggiore autonomia, dire dei no più spesso,<br />
anche a quanti su un altro fronte mi richiedevano un voto<br />
politico.<br />
Come è uscito da questa impasse?<br />
A parte piccole ricerche, ne sono uscito abbracciando due<br />
prospettive. Un autore che verso la fine degli anni settanta mi<br />
ha reintrodotto alla sociologia in modo vantaggioso e positivo<br />
è stato Raymond Boudon (che considero uno dei miei maestri,<br />
accanto a Sorensen e Goldthorpe). Per me un salvatore, gli<br />
devo infatti grande riconoscenza. Della sua prospettiva<br />
analitica strutturale, in particolare, recepii con forza (dando<br />
una svolta importante al mio pensiero), l’individualismo<br />
metodologico. Utile, congeniale e chiarificatore per i miei studi.<br />
Mi dedicai ad una lettura approfondita del libro di Boudon<br />
L'inégalité des chances. Fu il primo testo a presentare un<br />
modello di simulazione e lo utilizzai anche per alcuni miei corsi<br />
con il favore degli studenti. Lo ricordo con piacere.<br />
L’altra gamba fu il rapporto con colleghi studiosi di economia<br />
industriale. Con loro ho condotto alcune ricerche, che mi<br />
hanno permesso di acquisire una buona reputazione. Precorrendo<br />
i tempi, avemmo infatti l’intuizione di studiare il settore<br />
della componentistica per autoveicoli, allora chiamato<br />
“indotto” (questo ha inoltre rappresentato un’estensione dei<br />
miei interessi dal lavoro all’impresa), riconoscendone<br />
l’importanza e prevedendo un rovesciamento del rapporto tra<br />
produzione finale e componentistica, poi avveratosi. Ebbi<br />
dunque delle soddisfazioni in quest’attività di ricerca. Ricordo<br />
anche che un primo accenno di interesse per il labour risale al<br />
1976, quando svolsi una ricerca empirica <strong>sul</strong> turn-over su un<br />
campione di piccole imprese.<br />
Per altro, a mio parere, le migliori intuizioni che ho avuto dal<br />
punto di vista metodologico e tecnico non mi sono mai state<br />
riconosciute. Nel 1980, ad esempio, con il Professor Enrietti<br />
feci una rilevazione <strong>sul</strong>le imprese che producevano componenti.<br />
Avevamo degli explananda riguardanti il fatturato e, a<br />
parte la piccola scoperta della rilevanza del mercato del<br />
ricambio, ebbi l’intuizione di utilizzare le informazioni <strong>sul</strong>la<br />
tecnologia dei prodotti per costruire delle proxy, ovvero variabili<br />
che diventavano dei vincoli tecnologici e di progettazione.<br />
Feci anche ricorso ad un testimone privilegiato in Fiat,<br />
l’ingegner Lanza, con cui ebbi uno scambio <strong>intellettuale</strong> entusiasmante.<br />
Alla definizione delle proxy seguirono poi delle<br />
significative elaborazioni statistiche, che furono molto apprezzate<br />
dagli economisti, ma ignorate dai sociologi.
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sociologia.newsletter@unito.it<br />
Ecco, io credo che a qualificare il sociologo sia spesso un’intelligenza<br />
metodologica o tecnica.<br />
Siamo giunti ora agli ultimi vent’anni. Il periodo<br />
precedente è stato caratterizzato professionalmente da<br />
uno stretto rapporto con la politica e dallo studio, cosa<br />
è accaduto successivamente?<br />
Innanzitutto, ho abbandonato l’idea di combinare impegno<br />
politico e professionale, contemporaneamente anche alla<br />
parabola discendente del marxismo. È stato per me un<br />
sollievo. Inoltre, durante gli anni settanta ho, in effetti, molto<br />
studiato e poco prodotto. Cosa che non va, proprio nel periodo<br />
tra i trenta e i quarant'anni. Probabilmente sarebbe stato<br />
diverso se non fossi stato precocemente investito di un<br />
insegnamento ed in un momento tanto turbolento.<br />
Dalla seconda metà degli anni ottanta, impossessandomi<br />
nuovamente del tema lavoro, ho dato realmente senso al mio<br />
insegnamento, prima incentrato <strong>sul</strong>l’eguaglianza di chances e<br />
<strong>sul</strong>la mobilità sociale; temi non proprio pertinenti con la<br />
sociologia del lavoro. Questo mio rapporto più pieno con la<br />
disciplina è nato all’insegna di rinsaldare il mio impegno per<br />
una sua rivalutazione scientifica – la parola scienza è scritta a<br />
caratteri cubitali nella mia testa. È ciò in cui credo e per cui mi<br />
spendo, in mancanza di meglio anche abbracciando la versione<br />
più positivista esistente. Forse ho una visione pessimista, ma<br />
credo che l’aspetto postmoderno stia condannando<br />
all’irrilevanza ed alla chiacchiera la nostra disciplina.<br />
Un intento originariamente presente a proposito del<br />
progetto per una sociologia scientifica marxista, un<br />
elemento di continuità con il passato. Immagino però<br />
che siano cambiati i programmi dei <strong>suo</strong>i corsi...<br />
Sì, prima è intervenuta una dimensione labour attraverso la<br />
tematica della mobilità, mediata dalle riflessioni di Boudon. Ho<br />
così importato un’ampia letteratura nordamericana <strong>sul</strong>le<br />
carriere (dentro e fuori delle organizzazioni), che in quel paese<br />
ha avuto molti riconoscimenti, ma che in Italia è rimasta<br />
pressoché sconosciuta. Un altro contributo che ha alimentato<br />
la mia didattica (sempre più orientata al labour) proviene da<br />
testi di economia del lavoro, la cui frequentazione mi ha anche<br />
permesso di rivisitare il lato work, dell’organizzazione: sebbene<br />
oggi sia più vicino al modello neoclassico, ho pestato<br />
anch’io l’acqua nel mortaio dell’approccio istituzionalista!<br />
Attualmente, il mio corso di sociologia del lavoro ha un modulo<br />
incentrato <strong>sul</strong>la mobilità nel mercato del lavoro e l’altro <strong>sul</strong>la<br />
gestione del personale. Con coerenza ormai dagli anni novanta<br />
sono conciliato con il mio insegnamento, che credo di svolgere<br />
in modo utile, ma che tuttavia, ha pochissimi punti di contatto<br />
con quanto avviene nelle altre università italiane.<br />
Per quale motivo?<br />
Poiché la sociologia è una disciplina poco istituzionalizzata.<br />
Esistono molti paradigmi differenti, cosicché ognuno la<br />
interpreta come crede. Cosa che io appunto contrasto. Penso,<br />
al contrario, che dovrebbe essere più strutturata, rigorosa e<br />
scientifica, con argomentazioni che si prestino alla falsificazione,<br />
definendo, ad esempio, precise soglie di accesso. Come in<br />
ogni scienza, non è cioè possibile che tutti periodicamente sco-<br />
Newsletter di Sociologia<br />
6<br />
prano un nuovo bandolo e la riscrivano interamente da capo. È<br />
lecito piuttosto che ognuno coltivi il <strong>suo</strong> orto, fornendo così,<br />
conseguentemente, un contributo relativamente limitato, <strong>sul</strong>la<br />
base, però, di opzioni condivise.<br />
In Italia, in particolare, il potenziale enorme che esisteva negli<br />
anni sessanta è stato bruciato in modo crudele dalla mancanza<br />
di un paradigma forte e dal narcisismo penoso di chi rilascia<br />
interviste su qualunque argomento, svilendo in questo modo la<br />
nostra professione e la disciplina. Tuttavia, di fronte alla complessità<br />
crescente della società contemporanea, il potenziale<br />
resta e lo spazio per una scienza sociale rigorosa ed intelligente,<br />
che si proponga di offrire un reale valore aggiunto alla sua<br />
conoscenza, non è certo diminuito. È necessario coltivarlo.<br />
D’altra parte l’audience dei sociologi è crollata ovunque, ne da<br />
una misura, ad esempio, il numero crescente di dipartimenti<br />
chiusi negli Stati Uniti, come riportato nell’Introduzione<br />
all’utilissimo testo di Goldthorpe, Sulla sociologia.<br />
La stessa oscillazione nell’appellare la sociologia tra i<br />
termini scienza e disciplina, sovente posti in contrapposizione,<br />
è una manifestazione di tale ambiguità.<br />
Certo, ha ragione.<br />
Quali sono i <strong>suo</strong>i interessi più recenti?<br />
Sì, a seguito delle ricerche <strong>sul</strong>la componentistica sono stato<br />
coinvolto in diversi progetti europei <strong>sul</strong>le politiche della<br />
formazione continua in quell’ambito specifico, riconosciuto<br />
come fondamentale per l’industria dell’auto e per la<br />
competitività. Progetti stimolanti, interessanti e ricchi, che mi<br />
hanno permesso di viaggiare molto e interagire con validi<br />
studiosi stranieri. Inoltre, mi hanno in qualche modo<br />
accreditato come esperto di formazione, da cui la mia<br />
partecipazione nel corso degli anni ’90 a diversi progetti<br />
finanziati dal Ministero del lavoro per la definizione di standard<br />
formativi, a livello nazionale, di figure dell’industria, con<br />
riferimento in particolare all’industria meccanica e al settore<br />
auto. Questo ruolo d’esperto si è successivamente scontrato<br />
con gli impegni conseguenti al mio più recente coinvolgimento<br />
diretto nella gestione della Facoltà e ora dell’Ateneo. Ormai ho<br />
un interesse puramente scientifico per la problematica della<br />
formazione continua.<br />
Come desidera concludere questa intervista?<br />
Consiglio di essere coraggiosi e tenaci. Credo che il campo<br />
della sociologia sia promettente e necessiti di essere vangato<br />
con molta fatica, avendo un occhio di riguardo a ciò che<br />
accade fuori dai nostri confini nazionali (al cui interno, come<br />
detto, permane un ritardo). Sono anche convinto che lo spazio<br />
per ricerche irrilevanti, ovvero i cui ri<strong>sul</strong>tati non aggiungono<br />
conoscenza chiara e usabile (e che tuttavia garantiscono ancora<br />
di ottenere riconoscimenti e fare carriere soddisfacenti), si<br />
ridurrà sempre più. Esiste un mercato e di fronte alla mano<br />
pubblica, che non può più permettersi di regalare denaro,<br />
dobbiamo dimostrare la nostra utilità. Vedo due ambiti da<br />
approfondire: quello della simulazione, un terreno d’elezione<br />
per i sociologi desiderosi di produrre spiegazioni (oggi molto<br />
praticato dagli economisti) e quello degli esperimenti.