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STORIA DELLA MAFIA - Altervista

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<strong>STORIA</strong> <strong>DELLA</strong> <strong>MAFIA</strong><br />

di Roberto d’Amato<br />

INTRODUZIONE<br />

La prima espressione di mafia, se così si può dire, nella storia furono i Beati Paoli che<br />

amministravano la giustizia in modo sommario ma efficace, il presunto colpevole veniva<br />

interrogato con argomentazioni valide, egli poteva replicare e difendersi, e alla fine questo<br />

improvvisato tribunale di persone incappucciate emetteva il proprio giudizio inappellabile.<br />

Questo tribunale era composto da persone dei più disparati ceti sociali (nobili, borghesi,<br />

artigiani e contadini, ecc.). Molti definiscono la mafia “delinquenza organizzata” ma<br />

sbagliano, perché questa forma di dissenso violento permette alle classi sociali più basse di<br />

elevarsi, non dimentichiamo che nel mezzogiorno d’Italia la sperequazione della ricchezza<br />

risulta più accentuata rispetto all’Italia del nord. Molti politici per ragioni politico‐<br />

economico hanno spesso dovuto scendere a compromessi, ricordiamo Giolitti, Mussolini,<br />

Vittorio Emanuele Orlando e infine il grande gobbo, Andreotti, che è stato assolto, secondo<br />

alcuni per insufficienza di prove, per altri per prescrizione, io che sono ingenuo, ignorante e<br />

forse maldestro non l’ho ancora capito. La mafia è come un cancro, è penetrata in<br />

profondità, se non si trova una cura miracolosa è destinata a rimanere nel tessuto sociale per<br />

l’eternità. Purtroppo la cultura mafiosa si sta trasferendo al nord oltre che con forme<br />

subdole (riciclaggio di denaro sporco, prestanome, investimenti in attività produttive), con<br />

forme violente (sequestri di persona, mercato della droga, estorsioni a danno di facoltosi<br />

imprenditori e commercianti, ecc.). Diciamo che tutti noi o più precisamente la<br />

maggioranza delle persone ha preso qualcosa di mafioso (la raccomandazione, il<br />

compromesso, chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie, l’omertà e la scarsa solidarietà)<br />

l’umanità è diventata talmente cattiva che è meglio che alla lunga si estingua.<br />

CAPITOLO I<br />

Storia delle origini<br />

Un non molto noto scrittore del popolo, un certo Giuseppe Petrai, ha fatto risalire la nascita<br />

della mafia circa alla fine del 1700 e ne ha individuato il luogo, Mazara del Vallo, ed i cinque<br />

soci fondatori. Molti studiosi del fenomeno mafioso hanno affermato che questa forma di<br />

antistato è nata per generazione spontanea, alcuni la fanno risalire alla nascita del Regno<br />

d’Italia. Tale constatazione è fondamentalmente errata, perché la presenza della mafia in<br />

Sicilia l’abbiamo già nel 1400, ma all’inizio essa veniva impiegata per combattere le angherie<br />

della nobiltà spagnola, in seguito invece i baroni utilizzarono i loro “bravi” (mafiosi) per<br />

tenere sotto controllo i contadini, dato che nell’isola la servitù della gleba si concluse<br />

ufficialmente alla fine del 1800 anche se la sudditanza dei braccianti meridionali e siciliani<br />

rimase nei fatti in vigore fino agli anni ’60 cioè dopo la seconda guerra mondiale, così i vari<br />

mafiosi poterono corroborare il proprio potere. La mafia, secondo me e secondo alcuni<br />

siciliani, è una forma di elevazione sociale che permette alle persone di ceto popolare di<br />

elevarsi, la gestione del potere non è solo prerogativa dei cosiddetti ceti dominanti, ma<br />

permette a una parte minima del proletariato di raggiungere le alte vette della società. La<br />

mafia è talmente radicata che si può affermare che essa rappresenta un fenomeno sociale,<br />

legato alla politica in modo indissolubile, quindi il sistema di potere è caratterizzato<br />

tutt’oggi da questo dualismo fra criminalità organizzata e una parte della classe dirigente<br />

siciliana, purtroppo questo cancro attualmente si presenta inguaribile. Gli elementi<br />

fondamentali della mafia erano la sua struttura feudale che vedeva i popolani e i baroni


nettamente separati, per cui la plebe doveva subire le vessazioni oltre che della nobiltà<br />

anche dalla mafia. Le classi dirigenti siciliane si avvalsero di un organo di rappresentanza (il<br />

Parlamento) creato dal normanno Ruggero II, che creò un ceto politico locale. I siciliani<br />

vedevano nello stato rappresentato dai dominatori stranieri un nemico con cui convivere e<br />

dividere il potere politico ed economico dell’isola. L’intera vita storica dell’isola è stata<br />

caratterizzata da una contrattazione permanente tra dominatori stranieri e ceto politico<br />

locale per giungere a dei compromessi o “patti” informali per la cogestione del potere. Non<br />

sempre questo rapporto armonioso rese, sovente ci furono delle contrapposizioni molto forti<br />

che sfociarono in sanguinose rivolte, come quella dei Vespri del 1282, alla quale seguirono<br />

numerose altre rivolte, quindi possiamo affermare con assoluta certezza che in Sicilia si<br />

formò, e tutt’oggi questa struttura è ancora presente, una società senza stato, cioè più<br />

precisamente un assetto sociale di tipo feudale, geloso dei suoi privilegi, disponibile ad<br />

accettare il potere dello stato soltanto in misura dei vantaggi che i ceti elevati locali<br />

riuscivano di volta in volta ad ottenere. Lo stato in Sicilia era presente solo formalmente,<br />

perché per mantenere la propria legittimità i vari governanti spagnoli, Borboni, italiani,<br />

dovevano continuamente scendere ad accordi, a concessioni e a privilegi per le cosiddette<br />

classi dominanti siciliane. L’esempio più lampante l’abbiamo nel grossolano baronaggio<br />

siciliano, dove il signore sfruttava i suoi contadini tenendoli nell’ignoranza assoluta e<br />

facendo di loro ciò che voleva, mentre lo stato era latitante in questa espressione di esoso<br />

sfruttamento, perché il suo fine era di tenersi buona la nobiltà e l’alta borghesia, cioè quelli<br />

che rappresentavano l’ossatura politica ed economica della Sicilia. Sovente molte persone<br />

hanno una visione molto errata della mafia, pensano che queste persone provenienti dal<br />

popolo, cioè i borghesi arricchiti, rubassero ai potenti per dare ai poveri, ma così non era,<br />

questi personaggi volevano raggiungere le alte vette del potere e mantenere l’ordine e la<br />

stabilità cioè in pratica lo status quo (privilegi, benefici, immunità delle classi dominanti),<br />

limitando al massimo l’intrusione dello stato. La mafia poté attecchire sia in campagna che<br />

in città creando, con un’irregolare ma capillare rete organizzativa (articolata in “fratellanze”,<br />

“cosche” e “famiglie”), l’effettivo controllo del territorio, proclamandosi agli occhi del popolo<br />

siculo difensori della cultura popolare e dei costumi tradizionali. La mafia indirettamente<br />

riuscì a corroborare una legittimazione pseudopopolare del potere della nobiltà e dei<br />

cosiddetti borghesi arricchiti, la classe dirigente subiva e sopportava volentieri le<br />

imposizioni di questi scellerati manigoldi, l’importante era mantenere l’armonia sociale,<br />

quindi questi mafiosi agivano come un corpo paramilitare che aveva come funzione<br />

prioritaria di mantenere le prerogative di questi nobili parassiti e incapaci di gestire<br />

direttamente le loro funzioni di comando. Questi mafiosi, pur di limitare l’effettiva sovranità<br />

dello stato e il governo della Sicilia, a seconda delle circostanze provocavano rivolte e<br />

sollevazioni popolari, oppure le impedivano o le attenuavano. A fine settecento, tra il 1781 e<br />

il 1786, l’establishment siciliano fu investito dalla cosiddetta “rivoluzione dall’alto” di cui fu<br />

protagonista (per conto di Ferdinando I di Borbone, succeduto al padre Carlo III alla guida<br />

del nuovo regno delle Due Sicilie e nel clima del riformismo illuministico, promosso e<br />

attivato dal Tanucci) il viceré Domenico Caracciolo un aristocratico aperto ad una moderna<br />

visione dello stato (il cosiddetto spirito illuminista) e intellettuale amico di Voltaire. La<br />

nobiltà non si perse d’animo, mobilitando in modo esasperato tutto il popolo e le proprie<br />

energie alla fine la ebbe vinta, lo spregiudicato viceré fu indotto a desistere e a lasciare<br />

l’isola, fu sostituito dal principe di Caramanico, che fu tenace nel continuare l’opera del suo<br />

predecessore, ma morì avvelenato. Dopo un decennio, nel 1812, re Ferdinando fu costretto<br />

dall’invasione napoleonica a lasciare Napoli a Gioacchino Murat e cercò rifugio in Sicilia<br />

dove, per mantenersi la corona fu indotto a “trattare” con i siciliani. Il popolo della Sicilia gli


iconfermò la corona, ma a caro prezzo, con un’operazione di raffinato machiavellismo. In<br />

palese sintonia con gli inglesi che esercitavano una specie di protettorato sull’isola, i siciliani<br />

si convertirono rapidamente ad una sorta di “liberalismo baronale”, e da buoni liberali<br />

chiesero ed ottennero la riconvocazione dell’antico parlamento siciliano e indussero il re ad<br />

emanare una costituzione che sancì la nascita di uno stato siciliano retto sulle prerogative<br />

aristocratiche. I feudi retti dai baroni furono trasformati in latifondi anche se prima in<br />

pratica era già di proprietà dei signori. Caduto Napoleone, cacciato Murat e instaurato<br />

nuovamente il dominio dei Borbone nel Mezzogiorno d’Italia, fu abolita la costituzione<br />

concessa alla nobiltà siciliana e questo provocò una violenta rivolta. L’esercito fu fornito in<br />

massima parte dalla mafia (parte del popolo, corporazioni artigiane di Palermo). Questa<br />

specie di solidarietà fu possibile tra il popolo e la sua base mafiosa perché tutti si facevano<br />

portatori di una certa sicilianità, da valorizzare e difendere con orgoglio, infatti la mafia e le<br />

classi egemoni siciliane avrebbero trovato, fino ai nostri giorni, le loro affinità culturali nel<br />

sicilianismo.<br />

CAPITOLO II<br />

Il periodo garibaldino<br />

Le correnti libertarie e democratiche riuscirono in qualche maniera a sfuggire alla pressione<br />

baronaggio‐mafia. La salvezza di queste correnti progressiste fu dovuta al loro progetto<br />

dell’unità nazionale italiana (giacobini, liberali e mazziniani). Dopo il 1848, che aveva creato<br />

molte attese nel popolo, la fiammata rivoluzionaria s’interruppe nel 1860 con lo sbarco dei<br />

Mille a Marsala. Il popolo siciliano sperò che il latifondo fosse abolito e finalmente<br />

l’agognata terra fosse distribuita ai contadini, ma così non avvenne. Nino Bixio massacrò a<br />

Bronte molti proletari che volevano acquisire le terre dei baroni, diciamolo chiaramente che<br />

Garibaldi senza l’appoggio dei borghesi, dell’aristocrazia e dei mafiosi non sarebbe riuscito a<br />

proseguire la sua marcia trionfale alla conquista della Sicilia. Molti picciotti e delinquenti<br />

aderirono all’esercito garibaldino, l’eroe dei due mondi aveva un disperato bisogno di<br />

uomini per continuare la sua guerra e non andò molto per il sottile per arruolare persone,<br />

pure se di dubbia moralità. Il baronaggio politico o meglio la classe aristocratica iniziò una<br />

guerra senza quartiere nei confronti dei Borbone (che avevano eliminato il feudalesimo e<br />

volevano attuare una riforma agraria) quindi appoggiò prima Garibaldi, poi il re piemontese,<br />

convinti, sia i nobili che i mafiosi, che il nuovo re non avrebbe messo a repentaglio gli<br />

interessi della nobiltà e della mafia, i siciliani volevano infatti una parvenza di stato che non<br />

avrebbe interferito sui loro interessi. L’unità d’Italia che arrivò in Sicilia fu solo uno<br />

strumento dell’aristocrazia e dei mafiosi per eliminare lo stato dei Borbone troppo<br />

invadente: in pratica la venuta del nuovo stato fu una strategia politica di tipo mafioso. La<br />

classe aristocratica siciliana fu delusa dall’esperienza garibaldina, perché si rese subito conto<br />

che con i piemontesi non si riusciva a raggiungere un accordo per l’unificazione con l’Italia. I<br />

cosiddetti notabili si volevano accorpare al nuovo stato italiano, ma volevano mantenere<br />

gelosamente una forte autonomia dallo stato centrale. I vincitori parvero ingrati e arroganti<br />

e imposero senza pietà la nuova legislazione sabauda, creando un’ostilità subdola, riottosa,<br />

anche se in apparenza amichevole nei confronti dei piemontesi. L’unica cosa che riuscirono<br />

a realizzare il re Vittorio Emanuele II e Garibaldi fu quella di evitare che la rivoluzione<br />

politica non degenerasse in rivoluzione sociale. Il baronaggio politico si servì in parte della<br />

mafia per isolare il nuovo stato che si era instaurato in Sicilia, e a rendere più complicata<br />

l’accettazione da parte del popolo del nuovo ordinamento fu il sistema instaurato nell’isola,<br />

le cosiddette modernizzazioni liberali. La pressione fiscale aumentò notevolmente, furono<br />

imposte le tasse di bollo e di registro, quelle scolastiche, le tasse fondiarie, fu aumentata la


tassa del macinato, fu imposto l’obbligo scolastico per i bambini ed il servizio militare<br />

obbligatorio per i giovani, ci fu la sostituzione dagli uffici pubblici del personale meridionale<br />

con quello settentrionale, ed infine furono eliminati molti ordini religiosi caritativi che<br />

avevano la funzione di aiutare i poveri. In pratica tutti questi provvedimenti non fecero che<br />

alimentare un feroce odio verso il nuovo stato piemontese da parte di tutti gli strati sociali<br />

della popolazione. Di fronte ad una situazione di forte ingovernabilità il governo piemontese<br />

rispose con un’offensiva poliziesca e militare che non aveva precedenti in Sicilia, ormai la<br />

forte repressione del re Vittorio Emanuele II caratterizzava l’operato del nuovo stato<br />

unitario, sordo a qualsiasi rivendicazione di carattere autonomistico. La Sicilia era un<br />

fermento di repubblicani mazziniani e democratici liberali, di filo borbonici, clericali e<br />

soprattutto c’era questo rapporto particolare fra i baroni e la mafia, questo miscuglio di idee<br />

e di realtà si manifestò con la rivolta del sette e mezzo a Palermo del 1866. Questa<br />

sollevazione durò sette giorni, e fu repressa nel sangue da un corpo di spedizione guidato<br />

dal generale Raffaele Cadorna. Giovanni Carrao, generale garibaldino ex operaio, assieme al<br />

suo braccio destro Badia raccolse molti picciotti e costituì un’armata che assieme ai<br />

garibaldini doveva conquistare Roma, ma il corpo di spedizione guidato dall’eroe dei due<br />

mondi fu fermato sull’Aspromonte dalle truppe del colonnello Pallavicini. Lo spirito<br />

libertario di Corrao era inviso molto alla mafia, perché lui aveva molto seguito tra il popolo,<br />

ma sia i baroni che la criminalità organizzata non potevano accettare questo fatto e quindi<br />

lo fecero uccidere da alcuni sicari travestiti da carabinieri. Possiamo dire che questo fu il<br />

primo delitto di mafia eccellente.<br />

CAPITOLO III<br />

La mafia borghese conquista il potere<br />

La mafia in poco tempo acquistò potenza, già nel 1866 intere zone della Sicilia erano sotto il<br />

suo controllo, addirittura controllava giudici e gestiva il brigantaggio. I vari baroni<br />

protestavano vivacemente e ufficialmente contro gli apparati centrali del nuovo<br />

ordinamento che non erano in grado di difendersi, mentre di nascosto assicuravano<br />

protezione ai vari briganti e mafiosi. In certe zone carabinieri e poliziotti neanche si<br />

facevano vedere, i ricercati erano liberi di vivere tranquillamente nelle loro case senza<br />

correre nessun pericolo. La situazione dell’ordine pubblico in Sicilia era talmente grave che<br />

il governo Minghetti del centro destra nel settembre del 1874 cercò di approntare dei<br />

provvedimenti eccezionali per la Sicilia, ma la sua iniziativa venne bloccata dai deputati<br />

della sinistra e della destra nell’isola, i quali, invocando una pseudo‐sicilianità, sostennero<br />

che il brigantaggio non era così grave come si pensava e che bisognava tenere conto in parte<br />

delle ragioni dei proprietari terrieri, e che la mafia era un’invenzione degli antipatici<br />

nordisti, prevenuti nei confronti di quelli del sud. Alla fine la destra storica dovette<br />

soccombere in Sicilia, mentre la sinistra trovò una specie di accordo con i cosiddetti<br />

progressisti‐repubblicani, strizzando l’occhio alla mafia, che assunse un potere enorme<br />

nell’isola. Essi avevano in Francesco Crispi il loro referente politico‐massone, difensore della<br />

sicilianità. Questo strano connubio fra mafia borghese e aristocrazia siciliana fu il frutto<br />

becero fatto da questa organizzazione criminale con i cosiddetti notabili dell’isola che<br />

amministravano entrambi le ricchezze dell’isola in funzione antistatalista, perché<br />

consideravano questo nuovo ordinamento anacronistico, ridicolo e soprattutto invadente.<br />

CAPITOLO IV<br />

L’inserimento della mafia nella società civile e l’eliminazione del brigantaggio


Il nuovo rapporto instauratosi fra potentati mafiosi e il governo nazionale non fu, come<br />

molti pensano, una forma di accettazione del nuovo stato, semplicemente si abbandonò la<br />

forma del boicottaggio e si cercò di sfruttare in tutti i modi i benefici e vantaggi economici<br />

che l’ordinamento nazionale offriva. L’accentuata presenza di una borghesia parassitaria<br />

stava sostituendo la vecchia aristocrazia feudale, ormai priva di quel potere che poteva<br />

vantare ai tempi dei Borbone. Il costume mafioso che era tutto improntato sull’intero assetto<br />

gerarchico della società attingeva i suoi comuni valori del sicilianismo dei ceti alti, dagli<br />

intellettuali e dal popolo, quindi assistiamo dall’alto e dal basso ad una vera ideologia della<br />

mafia, la quale imponeva omertà assoluta sui delitti e sull’illegalità, infatti le cosche mafiose<br />

vigilavano sul sistema marcio dell’isola consigliando, ammonendo e punendo. Questa<br />

situazione di perenne instabilità politica, dovuta in sostanza alla totale assenza dello stato,<br />

fece sì che la mafia fosse un formidabile strumento di reazione contro ogni istanza libertaria<br />

ed emancipazione delle masse. In seguito fu stipulato una specie di “patto” informale tra lo<br />

stato e la Sicilia mafiosa, il documento storico di tale patto può essere riferito al testo<br />

approntato nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, creata con legge del<br />

3 luglio 1875 guidata dall’onorevole Borsani. La Commissione eletta sotto il governo di destra<br />

del Minghetti terminò i propri studi e si ispirò ad un testo preparato dall’onorevole<br />

Bonfadini, che ottenne l’approvazione del 1876 del governo di sinistra del Depretis. Questa<br />

relazione venne preparata in poco tempo vedendo e studiando la situazione siciliana,<br />

ascoltando inoltre i pareri dei baroni e dei notabili, venne a una conclusione drammatica<br />

della forte presenza mafiosa nell’isola. Molti politici siciliani e italiani di fronte a tale gravità,<br />

invece di approntare misure straordinarie, si affrettarono a fare da pompieri spegnendo il<br />

fuoco, dicendo che i ceti dominanti (aristocrazia, borghesia eroica) non erano così vessati<br />

dalla mafia come poteva apparire e che la presenza della criminalità era una reminiscenza<br />

storica dei Borbone, aggiungendo che la presenza mafiosa era dovuta più che altro al<br />

folklore locale e allo spirito caldo delle popolazioni meridionali, in pratica vennero<br />

ridicolizzate le apprensioni verso la criminalità nell’isola. A suffragare questo pensiero<br />

politico fu l’inchiesta condotta da Leopoldo Fianchetti e Sidney Sonnino che diedero un<br />

giudizio leggermente ottimista, meno catastrofico di quello dell’onorevole Bonfadini. Il<br />

fenomeno del brigantaggio nell’isola continuò a persistere, quindi dopo un puntiglioso<br />

studio compiuto dal Ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, il quale inviò a Palermo nel<br />

1877, per corroborare la prefettura del capoluogo regionale, il commissario Antonio<br />

Malusardi di origine piemontese, dai metodi molto concreti e grazie all’ausilio dell’Ispettore<br />

di P.S. Lucchesi, nel giro di un anno il banditismo fu eliminato o reso innocuo, infatti i vari<br />

briganti subirono fortissime condanne, all’ergastolo e ai lavori forzati, così i delinquenti<br />

Leone, Passafiume, Torretta, Giglio, Plaja, ed altri furono assicurati alla giustizia. Si può<br />

dedurre che la mafia, con il tacito accordo dei poteri statali, aveva abbandonato al suo<br />

destino il proletariato del brigantaggio. Il prefetto Malusardi fu entusiasta della vittoria<br />

riportata contro il brigantaggio, ma fu una vittoria di Pirro, perché si rese conto che per<br />

estirpare il male oscuro che avvelenava la Sicilia, bisognava colpire la borghesia mafiosa<br />

(ricordiamo l’avvocato Torina, un notabile di Caccamo che era stato eletto al parlamento<br />

nazionale, poi la sua elezione venne annullata) e la nobiltà siciliana collusa con la mafia. Il<br />

prefetto Malusardi cominciò a colpire il potere mafioso, ma fu presto bloccato dal<br />

baronaggio politico che attraverso il marchese Spinola (amministratore dei beni della Real<br />

Casa a Palermo) ed i carabinieri attuarono una specie di ostruzionismo delle indagini. In<br />

seguito quando Crispi divenne Ministro degli Interni al posto di Nicotera, fu attuata una<br />

campagna di diffamazione palese e di delegittimazione che alla fine costrinsero il prefetto<br />

Malusardi, al fine di salvaguardare la propria onorabilità, a dimettersi. Ancora una volta la


mafia aveva usato gli apparati dello stato al proprio fine, perché aveva eliminato il<br />

brigantaggio che era diventato un forte peso e poi aveva capito che l’incorruttibile prefetto<br />

Malusardi creava dei problemi al potere mafioso e così lo indusse in modo subdolo ad<br />

abbandonare l’incarico di riportare la legalità in Sicilia.<br />

CAPITOLO V<br />

Nascita dei primi movimenti popolari contro la mafia e il potere aristocratico‐borghese<br />

Contro il potere mafioso‐borghese si formarono dei movimenti popolari che avevano come<br />

fine quello di ristabilire la legalità democratica‐costituzionale nell’isola in primis e poi come<br />

progetto ambizioso miravano ad assicurare al popolo siciliano condizioni di vita dignitose. I<br />

fasci dei lavoratori nel loro idealismo tentarono di raggiungere l’obiettivo democratico e del<br />

miglioramento delle condizioni economiche dei lavoratori, possiamo affermare che dopo la<br />

Comune di Parigi, questo fu il secondo movimento popolare che cercò di realizzare<br />

condizioni di vita migliori per la classe lavoratrice (1891‐1894), ma fu drammaticamente<br />

sconfitto dalla mafia, dalla borghesia eroica e dall’aristocrazia decaduta. I fasci dei lavoratori<br />

nacquero a Messina il 22 dicembre 1888 su iniziativa di diversi personaggi politici<br />

appartenenti ai liberali, ai cattolici ed ai socialisti, come il catanese De Felice Giuffrida, il<br />

palermitano Garibaldi Bosco, il medico populista di Piana dei Greci Nicola Barbato, il<br />

messinese Petrina ed il corleonese Bernardino Verro, questa espressione politico‐sindacale<br />

aveva un orientamento socialista. A sostenere questa prima forma di dissidenza politico‐<br />

sindacale della Sicilia furono le associazioni repubblicane, mazziniane, garibaldine e la<br />

Massoneria di sinistra (che s’ispirava molto all’anarchico Bakunin), l’appoggio cattolico era<br />

caratterizzato dalla presenza di intellettuali come Colajanni, Salvioli, La Loggia. A sostenere<br />

i fasci dei lavoratori oltre che gli operai c’erano i piccoli e i medi proprietari schiacciati dalla<br />

depressione economica che aveva colpito le categorie sociali, mentre i grossi industriali del<br />

nord si erano alleati con i latifondisti del sud per fronteggiare la crisi, a scapito dei ceti<br />

sociali più deboli. Nei fasci si costituì un’alleanza fra lavoratori e borghesia produttiva della<br />

Sicilia, costituendo un coacervo di forze sociali, pronte a scatenare la rivolta contro lo stato.<br />

I fasci dei lavoratori nati alla fine del primo governo Crispi (agosto 1887‐febbraio 1891), si<br />

svilupparono anche sotto il governo Giolitti, nel 1892, quando questo movimento divenne<br />

più forte, vide crescere il suo appoggio popolare, ottenne notevoli miglioramenti salariali e<br />

contrattuali per i lavoratori. L’influenza socialista aumentò notevolmente nei fasci dei<br />

lavoratori, questo provocò molta apprensione nei latifondisti (baronaggio, borghesia<br />

mafiosa), i quali chiesero a Crispi di eliminare il movimento, mettendolo fuori legge e<br />

proclamando lo stato d’assedio in Sicilia. Con questi provvedimenti repressivi migliaia di<br />

fasci dei lavoratori furono incarcerati e la classe intellettuale siciliana democratica e<br />

legalitaria fu talmente umiliata che non riuscì più a riprendersi. Nella zona di Corleone, nei<br />

fasci dei lavoratori vi erano persone collegate alla mafia se non addirittura mafiosi veri e<br />

propri, dato che sovente si arrivava ad una radicalizzazione dello scontro con la classe<br />

padronale (che aveva ai propri ordini moltissimi mafiosi) avere persone legate alla<br />

criminalità, poteva rivelarsi utile. A salvare i grossi proprietari terrieri dai fasci dei lavoratori<br />

come abbiamo già detto si adoperò Crispi, con misure repressive, però la borghesia mafiosa<br />

aveva subito dei danni economici non indifferenti. A complicare la vita di questa lercia<br />

borghesia mafiosa che per i propri affari si affidava molto al Banco di Sicilia, si attuò un<br />

omicidio esemplare: l’uccisione di Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Questo uomo<br />

era una persona rigorosa e onesta, di alta moralità, già sindaco di Parleremo, antigiolittiano<br />

e anticrispiniano amico del marchese di Rudinì, fu nominato direttore generale del Banco di


Sicilia, apparteneva politicamente alla destra storica ed era un ex garibaldino. In seguito fu<br />

sostituito alla guida del Banco di Sicilia, su pressione di Crispi e dei notabili della Sicilia che<br />

volevano privilegiare solo le aziende colluse con la mafia e il potere politico. Sembrava che il<br />

Notarbartolo si fosse ritirato a vita privata, invece appena si ebbe il sospetto che lui dovesse<br />

tornare alla guida del Banco di Sicilia fu assassinato in treno e il suo corpo, sfigurato dalle<br />

pugnalate, fu gettato dal treno. Di questo orrendo delitto furono accusati due ferrovieri<br />

amici della mafia, e per scoprire i mandanti lo stato dovette sudare sette camicie. Alla fine fu<br />

accusato l’onorevole Raffaele Palizzolo, deputato fedele al mafioso Crispi. Questo<br />

personaggio era talmente protetto che il figlio del Notarbartolo dovette combattere molti<br />

anni per vederlo giudicato in tribunale. Nel frattempo la politica nazionale aveva subito<br />

notevoli cambiamenti. Caduto Crispi nel 1896, travolto dal disastro coloniale di Adua, gli<br />

erano succeduti i ministeri del Rudint e del Pelloux e la Sicilia dovette subire il<br />

“commissariato civile”, una sorta di “commissariamento” di tutta la vita politica nell’isola,<br />

che aveva consentito al commissario Giovanni Codranchi la distruzione dei partigiani di<br />

Crispi. La situazione politica italiana diventò calda, infatti alla fine del diciannovesimo<br />

secolo il generale Bava Beccaris a Milano prese a cannonate la folla che manifestava perché<br />

non riusciva a mangiare. Il procedimento penale contro il deputato Palizzolo fu aperto a<br />

Milano, però la Corte d’Assise milanese rinviò il caso a Palermo per un supplemento<br />

d’indagini e in seguito il processo fu celebrato a Bologna e lì si concluse faticosamente con la<br />

condanna a trent’anni del Palizzolo. Dopo questa sentenza la Sicilia fu investita da<br />

pesantissime critiche da tutto il paese, era palese l’intreccio fra mafia e politica. Molti<br />

notabili della Sicilia, si sentirono offesi da questa condanna di Palizzolo, così organizzarono<br />

un comitato pro Sicilia e redissero una specie di manifesto sulla sicilianità. Ricordiamo tra<br />

essi il noto studioso Giuseppe Pitre, alcuni deputati tra cui l’onorevole Avallone, avvocati,<br />

notai e latifondisti di antica tradizione, il conte Monroy, il principe di Manforte, il principe<br />

di Resuttano, il conte Galletti, il marchese Bellarotto; tutti questi illustri personaggi<br />

minacciarono di secessione la Sicilia dall’Italia. Giolitti, pure se era un liberale progressista<br />

per quei tempi, capì in modo machiavellico che per il bene dell’unità nazionale era meglio<br />

lasciare la mafia e che se le classi elevate siciliane la volevano era inutile andare contro la<br />

concezione mafiosa, così alla fine in Cassazione Palizzolo fu assolto per insufficienza di<br />

prove, quindi la sentenza di condanna precedente fu annullata. Palizzolo fece ritorno in<br />

Sicilia da eroe e la vicenda del delitto Notarbartolo rappresentò l’apoteosi della mafia e della<br />

mafiosità. Con Giolitti la mafia, assieme ai poteri forti (massoneria deviata, vecchia<br />

aristocrazia, borghesia eroica), monopolizzò tutta la vita economica e politica dell’isola,<br />

infatti gli appalti ed i finanziamenti alle imprese industriali e agrarie erano pilotati, così<br />

come le elezioni politiche ed amministrative. Questo divario con il resto del paese, ed in<br />

particolar modo con il nord Italia creò una fortissima divisione di concezione, che allungò i<br />

tempi per una perfetta omogeneità politica, economica e culturale della penisola. Questa<br />

contrapposizione in Sicilia si accentuò fra la città e la campagna, così mentre nei centri<br />

urbani regnava una specie di pax imposta, nelle campagne, mancando un livello verticistico<br />

della mafia, la popolazione rurale fu esposta alle angherie dei vari mafiosi ed alle repressioni<br />

dell’esercito che reprimeva qualsiasi sommossa popolare. La città di Catania era molto attiva<br />

dal punto di vista imprenditoriale, e politicamente era schierata su posizioni progressiste.<br />

Palermo invece puntava ancora sul latifondo, e sotto i Florio raggiunse un certo splendore,<br />

infatti l’imperatore Guglielmo II veniva sovente a trovare il suo amico Florio; le masse<br />

popolari però vivevano in condizioni di estrema miseria. Il sistema agrario siciliano come<br />

abbiamo già detto era impostato in modo da sfruttare in modo esoso, c’era il feudatario che<br />

affittava le sue terre ai gabellati, i quali a loro volta subaffittavano ai contadini. Questi


gabellati erano dei veri mafiosi, perché oltre a vivere di rendita assieme ai propri baroni,<br />

spremevano come dei limoni i poveri agricoltori, i contadini che non rispettavano i patti e<br />

l’organizzazione sociale venivano intimiditi se non addirittura uccisi a colpi di lupara.<br />

Sovente nei piccoli centri i gabellati erano sindaci e condizionavano l’esito delle elezioni,<br />

non solo, ma i dipendenti comunali non facevano pagare le tasse ai gabellati mafiosi e ai loro<br />

baroni. Questa situazione di compromesso voluta dal liberal‐progressista Giolitti aveva dato<br />

i suoi frutti, la Sicilia era sprofondata in mano alla piovra mafiosa. Ricordiamo a titolo di<br />

cronaca il poliziotto italo‐americano Joe Petrosino, che venne a Palermo per capire il<br />

fenomeno mafioso, dato che ormai la mafia stava estendendo i suoi tentacoli anche negli<br />

Stati Uniti, e che finì ammazzato a Palermo la sera del 1909. La mafia, alleata della<br />

Massoneria (questa associazione all’inizio aveva degli ideali risorgimentali, in seguito si<br />

adeguò alla politica degli affari) non mollò mai il potere ed eliminò tutti coloro che<br />

minacciavano il loro monopolio mafioso del mercato fondiario e del credito usuraio. Allora<br />

sorsero nelle campagne delle cooperative cattoliche e socialiste che cercarono di insediare il<br />

potere dei gabellati ma quest’esperienza rimase circoscritta in alcune realtà, che erano<br />

sempre assediate dalla malavita. Molti capi socialisti delle campagne furono uccisi, come<br />

Lorenzo Panepinto e Bernardino Verro, invece nelle città i socialisti riformisti come Andrea<br />

Finocchiaro Aprile, che facevano a capo a Francesco Saverio Nitti si erano organizzati in<br />

gruppi clientelari, in cui la presenza della Massoneria la faceva da padrona. Dopo la Grande<br />

Guerra le rivendicazioni salariali e della terra si fecero più pressanti, tanto che la mafia<br />

temeva l’ondata rivoluzionaria guidata non solo dalle Leghe rosse e bianche, ma anche da<br />

quelle tricolori, nate dopo la prima guerra mondiale e formate da ex combattenti che<br />

avevano patito le pene dell’inferno al fronte ed ora non volevano più subire le angherie dei<br />

gabelloti. I capi della rivolta furono il socialista Nicola Aloni e Giovanni Orcel. La mafia fu<br />

costretta alla difensiva e con l’appoggio della cupola politica liberal‐massonica fu decisa<br />

l’eliminazione fisica di tutti i dirigenti sindacali come Giovanni Zangara e Giovanni Orcel.<br />

CAPITOLO VI<br />

Il rapporto tra fascismo e mafia<br />

In Sicilia, sull’onda dei movimenti rivoluzionari socialisti e comunisti, fu intensificata<br />

l’assegnazione delle terre appartenenti ai vari latifondi, e questo preoccupò molto i<br />

latifondisti e i gabelloti che vedevano minacciato il loro potere. Quindi alla mafia e al ceto<br />

dirigente non rimanevano che due strade: la secessione o l’adesione al fascismo. Il fascismo<br />

mandò il prefetto Mori per contrastare la mafia, questa persona in quattro anni inflisse<br />

durissimi colpi a questa organizzazione criminale, tanto che molti sostennero che se il<br />

fascismo fosse rimasto al potere per altri vent’anni forse quest’espressione illegale chiamata<br />

mafia sarebbe stata sconfitta del tutto. Altri studiosi di storia della Sicilia sostennero che<br />

questo prefetto colpì solo la mafia proletaria e non il sistema criminale guidato dai notabili e<br />

dai massoni che in pratica gestivano il potere economico in modo subdolo e clientelare<br />

(l’Italietta liberale di Giolitti si era adagiata sulla mafia in Sicilia, non intervenendo lasciando<br />

che le cose andassero per il loro verso). Il prefetto di ferro Mori intervenne in modo drastico<br />

usando a volte metodi decisi e altre volte con il dialogo, attraverso comizi, ascoltando i<br />

contadini per averli dalla sua parte, accattivandosi le simpatie di molti notabili, come il<br />

principe Lanza di Scalea, che cominciarono a collaborare con lo stato per estirpare il cancro<br />

mafioso. A Gangi, nella zona delle Madonie guadagnarono un’analoga posizione i baroni<br />

Sgadari e Li Destri, che si vantavano di avere amicizie con briganti e con mafiosi, così anche<br />

il marchese Ettore Pottino di Captano, il conte Alfonso Gaetani d’Oriseo, il barone Vincenzo<br />

Ferrara. Il prefetto di ferro ebbe ordine di non colpire la mafia dei ricchi, bensì quella


proletaria che era la meno integrabile; molti notabili aderirono oppure recalcitranti<br />

collaborarono, aspettando con ansia che questa dittatura cadesse. Mussolini, per avere dalla<br />

sua parte la maggioranza dei contadini, incominciò una politica contro il latifondo, della<br />

quale furono incaricati Giuseppe Tassinari e Nello Mazzocchi Alemanni (un tecnico<br />

impregnato di demagogia che si buttò nel compito con entusiasmo). I vari proprietari<br />

terrieri cercarono in tutti i modi di bloccare questo progetto cedendo le terre incolte di<br />

difficile coltura. Lo sbarco americano in Sicilia rappresentò una formidabile sinergia tra<br />

mafia siciliana e quella americana, in pratica la mafia fu l’artefice dello sbarco nell’isola degli<br />

alleati anglo‐americani, così molti mafiosi che erano stati allontanati dal prefetto Mori<br />

poterono fare ritorno e rifarsi una verginità, perché passarono per antifascisti.<br />

L’amministrazione provvisoria americana stava lavorando per la secessione della Sicilia<br />

dall’Italia, per unirla agli USA, grazie anche all’appoggio dei mafiosi italo‐americani, così il<br />

progetto del latifondo fu abbandonato dagli alleati anglo‐americani che avevano interesse ad<br />

accattivarsi la massoneria dell’isola e i notabili che avevano in mano il potere.<br />

CAPITOLO VII<br />

La mafia del dopoguerra<br />

Lo sbarco degli alleati e la caduta del fascismo non avevano soltanto “affrancato” e rafforzato<br />

la mafia, avevano anche inaugurato l’età della rinascita democratica, facendo nascere le<br />

condizioni per la ricostituzione e lo sviluppo dei partiti di massa e quindi un rilancio della<br />

nuova Sicilia, che attraversò vari processi passati attraverso la Resistenza, la lotta di<br />

liberazione, la guerra fredda, i governi di unità nazionale formati dai comunisti,<br />

democristiani, culminati con la fondazione della Repubblica, tra i vari esponenti<br />

democristiani notiamo gli Aldisio, gli Alessi, i Mattarella, senza dimenticare il comunista<br />

Girolamo Li Causi, grande trascinatore di popolo e fornito di grande oratoria. Nel 1944 il<br />

governo alleato dell’isola passò i poteri allo stato italiano, che subito bloccò lo slancio del<br />

movimento separatista, allora i partiti democratici cercarono di puntare sulla soluzione<br />

autonomistica, che era considerata anche dalla mafia l’unica soluzione. Venne creata la<br />

Federterra, che fu sponsorizzata da socialisti e comunisti, i quali constatarono che sotto il<br />

fascismo la terra era stata ridistribuita maggiormente che durante il periodo giolittiano. Nel<br />

1946 il comunista Gullo e il democristiano Segni avviarono la riforma agraria, assegnando<br />

immediatamente le terre ai contadini. Il movimento contadino, appoggiato dai partiti di<br />

sinistra, iniziò una lotta dura verso i latifondisti attraverso lo sciopero e l’occupazione della<br />

terra, molti agricoltori aderirono a questo movimento, ma tutto questo andava a svantaggio<br />

della Democrazia Cristiana e dei partiti moderati, che vedevano ridursi la forza elettorale,<br />

tanto meno che adesso cercavano di eliminare dal governo i socialcomunisti. La mafia<br />

agraria (costituita dai notabili liberali e monarchici) fece strage dei sindacalisti e dei<br />

capilega, che furono uccisi a colpi di lupara. La vera mattanza si verificò a Portella della<br />

Ginestra il primo maggio 1947, dove i contadini che assistevano ad una festa contadina<br />

furono massacrati dai separatisti del bandito Salvatore Giuliano. L’eccidio probabilmente fu<br />

una strage di stato, e l’iniziativa non spettò solo ai capi del separatismo. Nel processo che si<br />

svolse a Viterbo fu appurato che della strage di Portella della Ginestra non fu solo<br />

responsabile la banda separatista guidata da Pisciotta, braccio destro del bandito Salvatore<br />

Giuliano, ma fra i mandanti vi era il principe massone Gianfranco Alliata di Montereale e i<br />

monarchici Tomaso Leone Marchigiano e Cusumano Geloso, con la mai provata copertura<br />

del DC Bernardo Mattarella. Come disse Mr. Colby, agente CIA, se avessero vinto i<br />

comunisti gli americani avrebbero rioccupato la Sicilia, al fine di farla diventare una Vandea<br />

anticomunista. Poi tutto in Sicilia si normalizzò con le elezioni del 1948 che videro vincere la


Democrazia Cristiana. La transizione fra monarchia e repubblica avvenne senza grossi<br />

incidenti, l’adesione dell’Italia alla NATO, conseguenza della vittoria dei moderati, e in<br />

Sicilia si vide il formarsi di “Cosa Nostra” (composizione italo‐siculo‐americana), che creò un<br />

sistema di potere mafioso‐politico molto monolitico. Il grande contributo che diede Cosa<br />

Nostra fu nell’elezione del 1948 in Sicilia, dove i partiti filoamericani stravinsero (in primis la<br />

D.C., monarchici‐liberali, collegati alle varie massonerie siciliane‐mafiose). La mafia aveva<br />

assunto una collocazione ibrida, perché ondeggiava tra il separatismo e le massonerie<br />

liberali e monarchiche, in seguito venne a patti con la Democrazia Cristiana, perché<br />

l’autonomia concessa alla Sicilia era talmente vasta che l’idea del separatismo diventava<br />

un’idea superflua se non addirittura bizzarra (ricordo ai miei amici elettori che la Sicilia si<br />

trattiene il 100% delle imposte e tasse, il personale dei comuni, delle province e regione<br />

hanno la stessa paga, presumo, che in Sicilia, se non è cambiata la legge si vada ancora in<br />

pensione dopo 18 o 19 anni sotto lo stato, nell’isola ci sono sezione staccate della Corte dei<br />

Conti, da qui si deduce l’enorme autonomia che vige nell’isola). Il consumismo stava<br />

avanzando anche in Sicilia e quindi la mafia si stava trasformando, passando dal controllo<br />

della campagna agli affari lucrosi che offriva la città (ricostruzione, appalti, finanziamenti a<br />

pioggia da parte della Cassa del Mezzogiorno che era un pozzo di San Patrizio senza fine).<br />

La mafia però continuava a barcamenarsi fra la D.C. e la destra monarchica‐liberale,<br />

tenendosi ben stretta il fenomeno brigantaggio rappresentato dal bandito Salvatore<br />

Giuliano. Il Ministro dell’Interno Mario Scelba rafforzò il sistema di repressione per<br />

combattere efficacemente il sistema del brigantaggio, infatti mandò il colonnello Ugo Luca,<br />

che aveva come fine prioritario assicurare Salvatore Giuliano alla giustizia, ma nonostante il<br />

suo zelo quest’ufficiale da solo non riuscì nell’intento. In seguito la stessa mafia tolse<br />

l’ombrello protettivo al bandito Giuliano, infatti gli uomini d’onore della cosca di Monreale<br />

eseguirono la sentenza, e grazie al suo luogotenente e cugino Gaspare Pisciotta, Giuliano fu<br />

consegnato cadavere al colonnello Luca. Dopo questa grande operazione che eliminò in<br />

pratica il brigantaggio, fu varata la riforma agraria. L’ente regionale preposto alle relative<br />

operazioni, l’ERAS, fu un vero strumento in mano a personale mafioso o sensibile alle<br />

pretese della mafia. La stessa legge di riforma era stata concepita con varie norme fittizie che<br />

aprivano la strada a molteplici possibilità d’interpretazioni restrittive a vantaggio dei<br />

latifondisti. Gli espropri e le assegnazioni delle terre ai contadini procedevano con un ritmo<br />

estremamente lento ed umiliante, molti proprietari avevano già spezzettato il loro feudo in<br />

tante parti fino a raggiungere la quota a loro consentita (100‐150 ettari), alcuni mafiosi<br />

avevano costituito delle cooperative di comodo, inoltre ai contadini andarono le terre<br />

peggiori, che i proprietari terrieri cedevano volentieri. Fu creato l’Ente di Riforma, che<br />

doveva dare un indennizzo al latifondista, ma tutte le opere pubbliche connesse alle<br />

assegnazioni e quelle concernenti gli obblighi di bonifica aprirono un interessante campo di<br />

nuovi affari sul quale cominciarono a farsi strada personaggi dotati di speciali qualità come<br />

Vito Ciancimino e Luciano Ligio, entrambi di Corleone, mentre la direzione del Consorzio<br />

di bonifica fu affidato a Giuseppe Genco e Vanni Sacco. La riforma agraria fallì miseramente<br />

e molti contadini si trovarono a dover emigrare verso l’industriale nord. I meridionali<br />

qualcosa di positivo l’hanno fatto per il nord, infatti se negli anni ’50, ’60 e ’70 non avessero<br />

offerto le loro braccia per le fabbriche settentrionali, difficilmente il nord avrebbe avuto uno<br />

sviluppo così folgorante, e se al sud non avessero votato in massa per la D.C. a quest’ora<br />

forse noi italiani ci staremmo ancora leccando le ferite di cinquant’anni di disastri del<br />

comunismo.<br />

Lo spostamento degli interessi economici dalla campagna alla città mosse un’enorme massa<br />

di denaro liquido (proprietari terrieri e gabelloti, con la vendita di terreni, indennizzi) tra


l’altro, nel 1950, era nata la Cassa per il Mezzogiorno, che apriva ovunque lucrosi intrighi di<br />

speculazioni private con elargizioni di pubbliche risorse da parte dello stato. La città di<br />

Palermo, grazie al cosiddetto boom economico, in pochi anni aumentò notevolmente il<br />

numero degli abitanti e di conseguenza i bisogni ed i consumi, quindi la borghesia mafiosa<br />

si inserì senza problemi. Non tutti lasciarono la campagna, come Genco Russo, che rimase<br />

nella sua Mussomeli, succedendo alla mafia e don Calò, appoggiando continuamente il<br />

democristiano onorevole Calogero Volpe. In parole povere il sistema mafioso delle<br />

campagne continuò a funzionare, e quindi ci furono molti delitti di dirigenti sindacali e<br />

politici, come il socialista Salvatore Carnevale (nel 1955) e il comunista Carmine Battaglia<br />

(nel 1966).<br />

CAPITOLO VIII<br />

L’anticomunismo della mafia<br />

Si era in piena guerra fredda, il confronto fra l’Alleanza Atlantica e l’Unione Sovietica, quindi<br />

di mafia non bisognava assolutamente parlare, vigeva una specie di accordo infernale fra lo<br />

stato italiano e i gruppi di potere della Sicilia. Uno degli alfieri che non voleva che si parlasse<br />

di presenza mafiosa era l’arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffini, il più anticomunista tra i<br />

cardinali. Mentre si continuava a non vedere la mafia, questa organizzazione criminale si<br />

stava ormai articolando, infatti a Palermo nel 1957 si svolse un meeting internazionale, tra i<br />

vari mafiosi italo‐americani che si riunirono troviamo Joe Bonanno (Giuseppe Bonanno) e<br />

Fran Carrol (Francesco Garofano), Camillo Galante, Joseph Palermo della famiglia Lucchese,<br />

John Di Bella della famiglia Genovese e Lucky Luciano. Altri mafiosi si erano imposti sulla<br />

mafia agraria, infatti i Greco dominavano l’entroterra palermitano mentre Luciano Liggio di<br />

Corleone fece uccidere il vecchio capomafia Michele Navarra. C’erano anche altri personaggi<br />

come i La Barbera ed i Badalamenti (che in futuro assunsero un’importanza notevole nel<br />

panorama mafioso). I delinquenti siciliani fecero un’alleanza con i cugini americani di Cosa<br />

Nostra per sfruttare il traffico della droga. Il pentito Tommaso Buscetta fece una descrizione<br />

dettagliata dell’organizzazione mafiosa al giudice Falcone: in basso si trovava la famiglia<br />

(cellula primaria a base territoriale composta da uomini d’onore denominati anche “soldati”<br />

coordinati dai capidecina e governati da un rappresentante coadiuvato da consiglieri), a<br />

livello intermedio c’erano i “mandamenti” costituiti da tre o più famiglie territorialmente<br />

contigue, ed in alto la “commissione” o cupola, composta da capi di mandamento e diretta<br />

da un capo che rivestiva una certa notorietà. La Sicilia fu scelta dalla mafia italo‐americana<br />

perché a Cuba la caduta del dittatore Battista e l’avvento di Castro aveva reso inutilizzabile<br />

l’isola per la distribuzione e la raffinazione della droga, così la Sicilia un po’ per la posizione<br />

e un po’ per i legami di sangue fra immigrati siciliani e isolani, riuscirono a creare un efficace<br />

commercio di droga per l’Europa, gli stupefacenti provenivano dal Pakistan, Afghanistan,<br />

passavano per la Turchia e poi in Sicilia, e giungevano a destinazione. In Sicilia si creò quella<br />

perfetta sinergia fra mafia e poteri dello Stato in funzione anticomunista, quest’isola<br />

rappresentava un perfetto baluardo contro l’avanzata del comunismo in Italia, in cambio la<br />

mafia voleva mano libera o tenui controlli per le sue attività illecite. Negli anni ’50 sotto il<br />

governo regionale di Franco Restivo, la Democrazia Cristiana organizzò, anche in Sicilia, una<br />

grande articolazione di struttura del partito facendolo diventare una grande formazione<br />

politica di massa, questo fu voluto dal segretario nazionale Amintore Fanfani: un partito in<br />

grado di fronteggiare il partito comunista di Palmiro Togliatti. I personaggi emergenti della<br />

D.C. furono Gioia, Lima, Ciancimino e Raggio. Il segretario regionale Antonio Gullotti fu la<br />

mente ufficiale dell’operazione, il più bravo nel gestire le varie segreterie provinciali fu<br />

Giovanni Gioia, il capo della corrente fanfaniana, che creò nell’isola una serie di notabili o


as (gli Audisio, gli Alessi, i Giglio, i Lo Giudice, i Mattarella, gli Scelba, i Volpe) al fine di<br />

spartire il denaro proveniente dalla Cassa del Mezzogiorno (risorse finanziarie sottratte al<br />

nord al fine di incentivare lo sviluppo industriale della Sicilia, infatti attraverso l’ENI si avviò<br />

lo sfruttamento del petrolio). Giovanni Gioia mise in pratica, con estrema abilità, la sua<br />

esperienza politica e diplomatica, riuscendo con degli artifici a far confluire forze e cosche<br />

mafiose liberali e monarchiche (cioè di destra), verso la Democrazia Cristiana, e questo<br />

potrebbe essere definito trasformismo mafioso. Quindi personaggi mafiosi delle varie zone<br />

di Palermo di estrazione reazionaria, come Paolino Bontà, Pietro Torretta, La Barbera, Greco<br />

e Gambino, aderirono in massa al partito di Amintore Fanfani. Lo stesso Gioia era<br />

contestualmente un politico e un uomo d’affari, e di quali business si apprese dalla scheda a<br />

suo nome redatta dall’Antimafia: insieme a Lima e a Raggio era socio di Francesco Vassallo,<br />

un ex carrettiere diventato “imprenditore edile” ed era legato al gruppo mafioso del noto Nik<br />

Mattarella. Tutti quanti coltivavano le migliori relazioni con Luciano Liggio “ottimo amico<br />

di Ciancimino”. La D.C. divenne essa stessa il comitato d’affari della mafia, quel comitato<br />

che permetteva di gestire il potere ai vari livelli, nel quale vi era una complementarietà tra<br />

mafiosi utilizzati dai politici e viceversa, dove tutto era pianificato, i voti dei quartieri<br />

popolari erano controllati, come pure il mercato dei porti e delle carriere<br />

nell’amministrazione ed i capitoli provenienti dall’attività illecita (contrabbando,<br />

narcotraffico, usura, estorsioni, prostituzione, gioco d’azzardo, ecc.). Giovanni Gioia<br />

provvedeva a collocare i suoi uomini nei posti fondamentali delle banche: per esempio, il<br />

dott. Ciro de Martino e il cavaliere Alico al Banco di Sicilia e il dott. Cusenza alla Cassa di<br />

Risparmio. Il comune di Palermo e gli assessorati regionali si riempirono in modo<br />

spropositato di funzionari e impiegati (erano persone destinate sovente a un non lavoro) che<br />

avevano avuto quel lavoro perché erano stati galoppini, piccoli faccendieri, o collettori di<br />

voti. Per quanto concerne il settore privato la mafia per riciclare il denaro sporco si rivolse al<br />

settore edilizio ed alla produzione industriale, senza trascurare il turismo, il commercio, con<br />

particolare interesse alla grande distribuzione. Queste attività poterono già svilupparsi<br />

grazie al diffondersi del consumismo. Il mafioso Pippo Calò riuscì a introdursi negli<br />

ambienti ministeriali e negli apparati istituzionali a Roma, invece a Catania, che era di solito<br />

un centro non colpito dalla mafia, tramite l’onorevole Nino Drago proconsole del<br />

palermitano Gioia, si formò un’organizzazione ad alta specializzazione criminale<br />

rappresentata dai clan di Nitto Santapaola e a quello del Pulvirenti. Si formarono degli<br />

pseudo‐imperi imprenditoriali perché l’infiltrazione mafiosa era molto forte (così nacquero i<br />

vari cavalieri del lavoro come Carmelo Costanzo, Gaetano Graci e Ugo Rendo). Di<br />

particolare interesse era l’attività dei figli e nipoti della famiglia Salvo (Nino e Ignazio), i<br />

quali, come rivelò Tommaso Buscetta, erano uomini d’onore provenienti dal trapanese, dove<br />

di concerto con la famiglia Corleo avevano conquistato anche il controllo politico di un<br />

territorio che era stato di Bernardo Mattarella. Essi agivano in stretta collaborazione di fini<br />

con i boss Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, finanziatori della Democrazia Cristiana.<br />

Alcuni mafiosi erano proprietari dell’Hotel Cagarella, nei pressi di Palermo, che aveva<br />

ospitato Giulio Andreotti, mentre i Lima e i Ciancimino, all’ombra di Gioia, dominavano il<br />

comitato d’affari del comune di Palermo. Lima fu a capo dell’amministrazione comunale per<br />

circa cinque anni 1958‐1963, mentre Ciancimino, che era stato il responsabile dell’assessorato<br />

dei Lavori pubblici, fu poi sindaco (dal 1970 al 1971). I cugini Salvo furono il nodo principale<br />

di una rete di corruzione e di interessi speculativo‐mafiosi, che dalla regione al comune si<br />

collegava con gli enti regionali, con le banche, con le attività apertamente criminali dei<br />

costruttori edili e con tutti i traffici legali e illegali che ne derivavano. Data la sua attività, la<br />

strategia di potere della D.C. era riuscita ad aggregare i socialdemocratici di Casimiro


Vizzini, il partito repubblicano di Aristide Gunnella e vari esponenti del P.S.I., precursori dei<br />

futuri craxiani. L’effetto che si produsse fu un enorme “sacco di Palermo”: il piano regolatore<br />

e il regolamento edilizio furono sistematicamente violati con “vari eventi” e concessioni<br />

varie concesse per “amicizia”, con il voto a maggioranza del consiglio comunale. Assessori di<br />

lavori pubblici come Ciancimino e Giovanni Motta attuarono la più bestiale speculazione<br />

edilizia, il centro storico e altre parti della città furono violentate dal cemento e dall’asfalto,<br />

mentre dilagava la filosofia delle mazzette nei posti dell’amministrazione pubblica<br />

(Comune, Provincia, Regione, Stato). Le banche finanziavano con superficiali “garanzie<br />

politiche” i Vassallo, i Cassina, i Costanzo, i Rando, gli Spatola, i Maniglia, i Moncada, i<br />

Seidita. Gli imprenditori non lesinavano il “dovuto” ai vari boss, sulla base della divisione del<br />

territorio pattuito tra le varie famiglie. Il Comune realizzava la ripartizione degli appalti con<br />

meticolosità al fine di non creare problemi al potente conte Arturo Cassina, gran maestro<br />

dei cavalieri del Santo Sepolcro, che per trentasei anni fu concessionario del servizio di<br />

manutenzione delle strade e fognature della città con contratti che venivano<br />

automaticamente rinnovati. Per la costruzione e l’assegnazione delle case popolari c’era<br />

l’influenza delle cosiddette “famiglie” e la Regione, solidale con il Comune, raramente<br />

assumeva una posizione in antitesi. Possiamo affermare con tutta tranquillità che vi era una<br />

perfetta simbiosi tra mafia vera e propria e borghesia mafiosa, vi era infatti uno stuolo di<br />

notai, avvocati, docenti universitari, rettori, presidi, medici, ingegneri, commercianti, registi<br />

teatrali e persino poeti (che dovrebbero in teoria rappresentare la parte pura della società)<br />

che scimmiottavano davanti alla sacra mafia, potrei perfino affermare che si comportavano<br />

come dei grandi lacchè. All’inizio degli anni ’60 a Palermo avvenne un feroce scontro tra la<br />

mafia cittadina rappresentata dai La Barbera e i cosiddetti contadini (Liggio, Bagarella, Riina<br />

e Provenzano). Il conflitto si focalizzò sul controllo dell’edilizia, perché i cosiddetti<br />

campagnoli non si volevano accontentare solo del contrabbando e del traffico di droga, ma<br />

desideravano insediarsi in città per avere il controllo sulle aree edificabili, le famiglie<br />

cittadine (La Barbera) non accettarono questa invasione di campo e la lotta per il controllo<br />

della costruzione delle abitazioni fu molto cruenta. Secondo le uniformi affermazioni dei<br />

pentiti, nonostante avesse subito delle perdite notevoli riuscì faticosamente a ricostituirsi<br />

nei primi anni del 1970. Sarebbe stato un errore madornale sottovalutare le capacità di<br />

organizzazione della criminalità, questa ricostituzione della mafia era dettata da molteplici<br />

ragioni, la borghesia mafiosa non era disposta a rinunciare al proprio potere. In seguito,<br />

eventi nazionali molto caldi misero a repentaglio il potere borghese‐massonico‐mafioso,<br />

come la grande contestazione giovanile rappresentata dal G8, l’autunno caldo del 1969, con<br />

le giuste rivendicazioni operaie che chiedevano a gran voce condizioni di lavoro più<br />

dignitose e salari più adeguati, l’avanzata elettorale del PCI, che si ebbe fino al 1978 (infatti<br />

fino a questa data, oltre un aumento dei voti si verificò l’aumentare degli iscritti al PCI), poi i<br />

socialisti con Francesco De Martino che chiedevano in modo veemente che anche il partito<br />

comunista si assumesse le proprie responsabilità nel governo nazionale. La NATO seguiva<br />

con trepidazione e apprensione l’evolversi schizofrenico della situazione italiana, questa<br />

perenne instabilità politica generò la strategia della tensione. La necessità impellente di<br />

anteporsi in modo netto all’avanzata del Partito Comunista, dato che Moro e una parte della<br />

D.C. sembrava disponibile ad aprirsi alla sinistra, provocò una forte attività dei servizi<br />

segreti e della loggia massonica di Licio Gelli, i quali, con l’ausilio della mafia, cercarono di<br />

convogliare la forza elettorale verso partiti apertamente anticomunisti. Verso la fine del<br />

1972, ponendo fine alla sanguinosa guerra, fu costituito un triumvirato costituito da Stefano<br />

Bontade, Salvatore Riina e Gaetano Badalamenti, che dovevano stabilire il futuro assetto<br />

della mafia siciliana, infatti gli esponenti della maggioranza Bontade e Badalamenti


appresentavano le cosiddette famiglie cittadine. Seguendo alcuni passaggi, sempre dalle<br />

fonti dei pentiti e dalle relazioni dell’antimafia, si comprende che il Bontade, con la<br />

collaborazione dei suoi fraterni amici Tommaso Buscetta e Giuseppe Di Cristina (autorevole<br />

boss di Riesi che aveva il controllo del nisseno), operava in stretto rapporto con i cugini<br />

Salvo e che questi erano politicamente uniti a Salvo Lima, pertanto non è complicato sapere<br />

chi fosse il burattinaio del triumvirato. Contestualmente, anche Ciancimino non era certo<br />

fuori gioco, essendo il “politico” di Liggio e di Riina. Ma Lima e Ciancimino erano nel<br />

frattempo diventati i pilastri della corrente di Giulio Andreotti con un lungo corteo di ex<br />

fanfaniani (tra i quali Antonino Raggio, Mario D’Acquisto e altri). Comunque si capisce, che<br />

Lima, Ciancimino, Badalamenti, Bontate, Buscetta, Di Cristina, con il Riina e i loro rispettivi<br />

seguaci facessero parte tutti insieme in modo formale o informale della corrente<br />

andreottiana. E’ cosa nota la storia di questa corrente della D.C., che ebbe il controllo<br />

elettorale assicuratole in Sicilia da boss tanto autorevoli, dalla particolare abilità politica del<br />

suo capo nazionale e dell’attitudine di stabilire più o meno stabili accordi e alleanze<br />

trasversali con esponenti di altre correnti, ed in particolare con gli “amici locali” di Donat<br />

Cattin o con notabili emergenti, tra i quali si sarebbe distinto il famoso Calogero Mannino,<br />

poi segretario regionale e più volte ministro. In parole povere, la corrente andreottiana<br />

sarebbe presto diventata l’asse politico di una nuova rete clientelare, foraggiata con denaro<br />

pubblico e capace allo stesso tempo di assicurare maggioranze “bulgare” alla D.C. nelle<br />

consultazioni elettorali in Sicilia. Avrebbe assunto il ruolo direzionale di un nuovo “comitato<br />

di affari”, molto diffuso, bene inserito con la massoneria, radicato e capillare in tutta la<br />

Sicilia, collegato in tutta Italia e dotato, come vedremo, di importanti amicizie internazionali<br />

(non per niente Salvo Lima, come affermano molti, era uno dei più assidui frequentatori del<br />

Consolato generale degli USA a Palermo, dove riceveva “posta diplomatica” d’oltreoceano).<br />

Il grande lavoro svolto dal cosiddetto triumvirato consistette nella ricerca di un accordo fra<br />

le varie famiglie con lo scopo di una riconciliazione e una suddivisione degli interessi tra le<br />

parti. Si creò la nuova Commissione di Cosa Nostra, capeggiata, nel 1975 da Gaetano<br />

Badalamenti, affiancato da Stefano Bontade, Rosario Di Maggio, Salvatore Scaglione,<br />

Giuseppe Calò, Rosario Riccobono, Filippo Giacalone, Nenè Geraci, più i nuovi arrivati<br />

Luciano Liggio, Salvatore Riina, con la collaborazione di Bernardo Provenzano. La<br />

distribuzione territoriale delle famiglie sarebbe stata valorizzata, senza contare le<br />

convivenze politiche che si sarebbero verificate fra i vari partiti (D.C. di Mannino, socialisti,<br />

fino ai riformisti del PCI), in particolare nella zona di Gela e Riesi. Le più grandi<br />

ramificazioni in Italia, secondo quanto riferito all’antimafia, avrebbe coinvolto le più grandi<br />

città d’Italia (Milano, Roma, Genova, Napoli), infatti il Badalamenti, ai tempi del suo confino<br />

a Macherio, avrebbe creato nel milanese un centro di rapporti e di attività “poco chiare”,<br />

collegate agli altri mafiosi, come Gaetano Fidanzati, Faro Randazzo, Gaspare Gambino,<br />

Calogero Messina, invece a Roma avrebbero operato in vari tempi Frank Coppola, Pietro<br />

Davì e lo stesso Liggio. Sempre a Roma avrebbe operato il cassiere della mafia, Pippo Calò,<br />

alleato delle banche della Magliana. Il centro economico degli affari mafiosi era<br />

rappresentato dal narcotraffico e dal traffico delle armi, questo sistema era assai fitto e<br />

talmente articolato che aveva bisogno di molte complicità e, data la sua enorme dimensione<br />

economica internazionale, non poteva non avvalersi del riciclaggio di denaro sporco e di<br />

altre attività similari, ovviamente con l’aiuto di strutture compiacenti. Questo grande<br />

scenario internazionale politico‐economico mafioso, che spaziava tra Italia e America, fu<br />

attuato da un personaggio come Michele Sindona. Questo individuo, come tutti sanno,<br />

simulò un rapimento in America per sfuggire alle autorità che lo avevano messo sotto<br />

pressione, ma soprattutto per poter andare in Sicilia a raccogliere ingenti somme da


estituire a mafiosi del livello di Calò Bontade, Inzerillo e Riina, che avevano subito forti<br />

perdite economiche a causa del fallimento delle attività finanziarie di Sindona. Questo<br />

personaggio fu successivamente ucciso in Italia, nella casa circondariale, come il bandito<br />

Pisciotta, da una fantomatica tazzina di caffè. Da questo si può evincere nel complesso la<br />

stretta interdipendenza fra la cupola internazionale della mafia, con gli alti poteri della<br />

politica italiana, dei servizi segreti e della massoneria (senza contare i subdoli avvenimenti<br />

del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi). Sindona, che dalla provincia siciliana era salito<br />

negli Stati Uniti d’America ai vertici della finanza internazionale, era un mafioso, e un forte<br />

esponente della loggia P2 di Licio Gelli. Questi grandi simpaticoni erano “amici” di<br />

Andreotti, il quale li definiva dei campioni della democrazia e l’intramontabile Giulio<br />

rendeva omaggio al grande Sindona per aver salvato la lira. La triplice alleanza politica‐<br />

massoneria‐mafia era precisa, le sue diramazioni arrivavano fino al popolo andreottiano e<br />

alla fine degli anni ’80 la base mafiosa si allargò al cosiddetto socialismo di Bettino Craxi. Gli<br />

esponenti della corrente andreottiana (come riferito dai pentiti Leonardo Messina e da<br />

Gaspare Mutolo), i vari picciotti o soldati di Cosa Nostra si rivolgevano a Lima, il quale<br />

attraverso i suoi amici potenti romani (i Ciarrapico, gli Evangelisti, i Vitalone) si<br />

adoperavano per salvare la manovalanza mafiosa, poi la ciliegina di salvataggio veniva messa<br />

dal giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. L’antimafia fece tutto uno studio sui<br />

rapporti fra Andreotti e la mafia e il famoso bacio tra lo statista democristiano e Totò u<br />

curto. Al di là delle eventuali responsabilità penali, Andreotti durante la sua intensa attività<br />

politica fu il politico più amato dal Vaticano, grazie al suo alto profilo internazionale ed alla<br />

sua posizione favorevole alla NATO.<br />

CAPITOLO IX<br />

L’avvento dei Corleonesi<br />

Sul finire degli anni ’70, il sistema mafioso siciliano subì dei radicali mutamenti. I corleonesi<br />

(eredi della mafia agraria) volevano eliminare tutti i capi della vecchia mafia cittadina,<br />

ritenuti ormai anacronistici, per far spazio alle nuove attività verso cui si era orientata la<br />

mafia ed in particolare il narcotraffico e il traffico delle armi. La guerra di mafia si manifestò<br />

in modo molto cruento tra i corleonesi e i loro nemici cosiddetti “cittadini”: Badalamenti,<br />

Bontate, Buscetta e Di Cristina. Nel frattempo, nel 1978, per cercare di arginare questa<br />

guerra, si era insediata una nuova commissione presieduta dal principale alleato di Riina,<br />

Michele Greco, che, anche grazie al voto dei corleonesi (Giuseppe Calò, Bernardo<br />

Provenzano, Bernardo Brusca, Francesco Madonna, Nenè Geraci, il famigerato Pino Greco,<br />

comunque la vecchia guardia di Stefano Boutade e Calogero Rizzato risultava minoritaria),<br />

decretarono che il Badalamenti fosse espulso da Cosa Nostra, e Giuseppe Di Cristina fu<br />

ucciso. I corleonesi al tatticismo anteponevano la loro autonomia conquistata dalla<br />

delinquenza nell’ambito dello stesso sistema politico‐mafioso e non escludevano a priori lo<br />

scontro con lo stato, in effetti loro non volevano trattare in posizione paritaria, ma volevano<br />

dettare le regole dell’apparato pubblico (controllo dell’economia privata, cioè le attività<br />

legali, vessate dal pizzo, gestire il mercato del lavoro, per quanto concerne le assunzioni nel<br />

pubblico e nel privato). Questo comportamento spregiudicato dei corleonesi, scandalizzava<br />

Buscetta e il Bontate, la colpa era stata anche della corrente democristiana che prima aveva<br />

incentivato l’autonomia politica dei vari gruppi mafiosi ora la situazione gli era sfuggita di<br />

mano. Altra cosa scandalosa era che alcuni elementi della cosiddetta sinistra democratica,<br />

cioè precisamente i cosiddetti miglioristi, facevano affari con persone poco affidabili,<br />

attraverso le cooperative, quindi questo la dice lunga in Sicilia, sul comportamento politico<br />

economico raggiunto fra destra e sinistra sulla spartizione degli affari. Le persone più


determinate per la lotta alla mafia furono progressivamente eliminate, infatti nel 1977 il<br />

tenente colonnello Giuseppe Russo venne ucciso. Il 9 marzo 1978 fu assassinato il coraggioso<br />

militante Peppino Impostato, il 26 gennaio 1979, fu la volta di un grande e indomito<br />

investigatore, il vice questore Boris Giuliano, il 21 luglio 1979 toccò al giudice, già deputato<br />

comunista, Cesare Terranova, il maresciallo Lenin Mancuso, subì analoga sorte il 25<br />

settembre. Anche il giornalista Giuseppe Fava fu eliminato dal clan dei Santapaola. Dopo<br />

questa serie di tragici avvenimenti sorse un movimento trasversale di netta opposizione alla<br />

mafia, ricordiamo Piersanti Mattarella, presidente alla regione Sicilia e Leoluca Orlando,<br />

sindaco di Palermo e promotore della nascita del partito‐movimento La Rete. I corleonesi<br />

lanciarono un’offensiva in grande stile eliminando tutti gli affiliati alla cosca Badalamenti e<br />

di Bontade, quest’ultimo fu ucciso il 23 maggio 1981. In seguito furono assassinati Giuseppe<br />

Di Maggio e Salvatore Inzarillo, mentre Badalamenti e Buscetta trovarono riparo in America,<br />

ma la mattanza non finì, infatti fu ucciso anche il presidente della regione Sicilia Piersanti<br />

Mattarella, il 6 gennaio 1980 e nel 1988 l’ex sindaco Giuseppe Insalaco subì la medesima<br />

sorte (pagò la sua conversione alla legalità). Sotto i colpi dei corleonesi cadde anche il<br />

capitano dei carabinieri Mario Aleo, fino alla terrificante esplosione dell’autobomba che<br />

avrebbe massacrato il giudice Rocco Chinnici e la sua scorta. Questo attacco frontale alla<br />

magistratura e alle forze dell’ordine mise in difficoltà i governi di Spadolini, Craxi, Goria e<br />

De Mita, ma sempre con Andreotti in posizione strategica (Ministro degli Esteri, della Difesa<br />

e nel luglio 1989 di nuovo Primo Ministro). Lo stato assunse una funzione ambivalente fra la<br />

piazza che pretendeva un ripristino della legalità e l’annientamento della mafia ed i poteri<br />

occulti che cercavano di limare questa feroce ostilità dell’opinione pubblica verso questa<br />

organizzazione criminale che ormai aveva raggiunto livelli terrificanti nel colpire le<br />

istituzioni (nel frattempo il procuratore della Repubblica Gaetano Costa fu eliminato nel<br />

1980). Nel 1992 l’onorevole Pio La Torre, segretario regionale del PCI, fu ucciso dai colpi<br />

della mafia, perché questo uomo politico oltre a battersi contro i missili a Comiso, riuscì a<br />

fare emanare dal Parlamento la legge che decretava il reato di associazione mafiosa, che<br />

colpiva al cuore le strutture finanziarie e il patrimonio della mafia. La punta estrema di<br />

rinuncia dello stato in Sicilia si ebbe con il grande generale Alberto Dalla Chiesa, che fu<br />

mandato in Sicilia allo sbaraglio, perché Andreotti fece credere all’opinione pubblica di<br />

essere deciso a combattere la mafia, ma nei fatti abbandonò il generale a sé stesso, perché<br />

prima come prefetto gli avevano promesso poteri speciali, poi nei fatti queste prerogative<br />

caddero nell’oblio. Isolato dal Comune di Palermo (sindaco Martelucci), dalla Provincia (uno<br />

dei capi era un certo Di Fresco), e anche la Regione, capeggiata dai D’Acquisto, che fecero<br />

terra bruciata intorno al generale (pare che tutti questi personaggi facessero capo a Lima e a<br />

Ciancimino), Carlo Alberto Dalla Chiesa fu ucciso insieme alla sua giovane moglie Emanuela<br />

Setti Carraio ed all’agente Domenico Russo. Riina riuscì ad impedire che la magistratura,<br />

con l’appoggio di molte forze della società civile, desse il colpo decisivo per la lotta alla<br />

mafia, ma successivamente il pool dei magistrati di Palermo riuscì ad abbattere il muro<br />

dell’omertà mafiosa, grazie all’impegno profuso da Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone<br />

e Borsellino, ottimi giudici che produssero seri danni alla criminalità organizzata. Queste<br />

persone di legge seppero approfittare delle fortissime divergenze che c’erano tra corleonesi<br />

ed i cosiddetti “cittadini” capeggiati da Buscetta. Le fondamentali confessioni di Buscetta<br />

ottenute dal giudice Falcone, integrate dalle disposizioni rese da un grande numero di<br />

pentiti che rivelarono molti segreti della mafia, costituirono il presupposto per istituire<br />

nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo il processo che iniziò il 10 febbraio 1986. Furono<br />

sottoposti a processo cinquecento imputati e si concluse con una sentenza coraggiosa che<br />

comminò ventotto ergastoli e migliaia di anni di carcere. Si trattò di un grande successo del


pool e in particolare di Giovanni Falcone. Nonostante ciò Riina e i suoi picciotti<br />

continuavano a sperare nei possibili effetti liberatori delle manovre di aggiustamento, con<br />

l’appoggio indiretto di Andreotti, Lima, Ciancimino e il giudice ammazza sentenze<br />

Carnevale. Il clima nei confronti dei mafiosi stava cambiando in modo inarrestabile,<br />

nonostante che Craxi e il ministro Mannino perseguissero il voto di scambio. Il Ministro<br />

della Giustizia Claudio Martelli (socialista) si batté contro la mafia, tanto che a Palermo fu<br />

eletta la professoressa Elda Pucci, persona molto determinata a combattere la mafia. La<br />

caduta del comunismo, quindi la funzione contro il totalitarismo marxista, detenuto in<br />

Sicilia dalla mafia venne a cessare, non solo, ma l’avanzata al nord della Lega, contro lo<br />

sperpero romano e l’assistenzialismo a fondo perduto del sud, non fecero che accentuare<br />

l’odio verso la mafia, senza contare le varie inchieste, condotte dai giudici di mani pulite (Di<br />

Pietro, Dongo, Colombo, D’Ambrosio, Borelli, ecc.). A questo integerrimi giudici si<br />

aggiunsero le inchieste coraggiose condotte dai magistrati Casson, Cordova e Palermo con lo<br />

scopo di scardinare la corruzione ormai endemica. Il Comune di Palermo, vecchio feudo di<br />

Lima e Ciancimino, era guidato dal sindaco Leoluca Orlando, che fece costituire il municipio<br />

di Palermo parte civile del maxiprocesso alla mafia. La stessa Chiesa cattolica, che prima non<br />

prendeva posizione, ora aveva cambiato atteggiamento nei confronti della mafia e assunse<br />

una ferma condanna, tanto che padre Pino Pugliesi della rivista “Segno” fu ucciso dai<br />

corleonesi. Agli inizi degli anni ’90 furono eliminati l’agente Natale Mondo, il giudice<br />

Antonino Saetta, il rigido dirigente regionale Giovanni Monsignore e infine un glorioso<br />

imprenditore, Libero Grassi, fu ucciso perché non voleva cedere al racket. La Cassazione<br />

riconfermò la condanna conferendo in pratica il teorema Buscetta, la mafia dei corleonesi<br />

sentendosi abbandonata incominciò a colpire senza pietà, per primo il proconsole<br />

dell’onorevole e ministro Giulio Andreotti al fine di danneggiarlo se avesse aspirato alla<br />

presidenza della Repubblica. In seguito fu ucciso Salvo Lima, che fu freddato appena cercò<br />

di scappare a piedi, la stessa fine toccò a Ignazio Salvo, poi la strage dell’autostrada del 23<br />

maggio 1992, che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta, il 9 luglio analoga sorte<br />

toccò a Paolo Borsellino e ai poliziotti che lo accompagnavano. A rendere più acuta la<br />

situazione fu l’attentato agli Uffizi di Firenze, ormai si capiva chiaramente che la mafia si era<br />

posta in netta contrapposizione con lo Stato e non c’era più tempo di mediazioni con la<br />

borghesia eroica compromessa con la mafia. Le forze dell’ordine misero a segno dei colpi<br />

duri contro la mafia, nel gennaio 1993 fu arrestato Salvatore Riina, il quale, latitante da molti<br />

anni, poteva agire liberamente, anche il suo successore Bernardo Brusca subì la stessa sorte.<br />

CONCLUSIONI<br />

Se vogliamo analizzare il fenomeno mafioso, dobbiamo accettare il fatto che questa forma<br />

di criminalità più o meno subdola abbia sempre fatto compromessi con i notabili dell’isola e<br />

con i politici nazionali (Giolitti, Andreotti, Craxi, Berlusconi), tu dai una cosa a me, io poi do<br />

una cosa a te (appalti, voto di scambio, sentenze pilotate). In seguito, quando il clima<br />

politico internazionale cambiò con la caduta del Comunismo, la mafia non serviva più come<br />

funzione anticomunista e cambiò l’atteggiamento nei suoi confronti. Allora la pressione<br />

della società civile italiana fece di tutto per isolare il cancro della criminalità, i vari politici<br />

che si sono succeduti si dovettero adeguare al volere dell’opinione pubblica. Bisogna<br />

riconoscere che la mafia proletaria fu l’unica espressione che permettesse ai plebei di<br />

elevarsi, purtroppo usando la violenza, però non bisogna dimenticare la cosiddetta mafia dai<br />

colletti bianchi (massoneria), la quale, più subdola, colpisce in modo deciso e fa più danni<br />

alla povera gente che non a volte certe espressioni di criminalità che magari colpiscono nel<br />

breve periodo per la loro efferatezza.


TESTI CONSULTATI<br />

La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza. Mimesis<br />

Loverme Angelo – La Mafia, la Sicilia e Leonardo Sciascia, Ibiskos<br />

Pepino Livio – La Mafia, i processi. Analisi e materiali giudiziari. EGA Edizioni gruppo Adele<br />

Dickie John – Cosa Nostra della Mafia siciliana. Laterza<br />

Alfio Caruso – Da cosa nasce cosa. Storia della Mafia dal 1943 a oggi. Longanesi<br />

Dalla Mafia allo Stato. I pentiti analisi e storie. EGA Edizioni – gruppo Abele<br />

La Spina Antonio – Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno. Il Mulino<br />

Zingales Leone – Paolo Borsellino, una vita contro la Mafia – Limina edizioni<br />

Forgiane Francesco – Amici come prima. Storie di Mafia e politica nella Seconda Repubblica.<br />

Editori Riuniti<br />

Tranfaglia Nicola – Come nasce la Repubblica. La Mafia, il Vaticano e il neofascismo nei<br />

documenti americani e italiani 1943‐1947 – Bompiani<br />

Petacco Arrigo – Il prefetto di ferro. L’uomo di Mussolini che mise in ginocchio la Mafia –<br />

Mondatori<br />

Lupo Salvatore – Storia della Mafia, dalle origini ai nostri giorni – Donzelli<br />

Concezione politica italiana – Gorizia, settembre 2005 di Roberto d’Amato<br />

Concezione politica di Machiavelli di Roberto d’Amato, settembre 2005

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