La calibrazione delle immagini digitali del ... - Danielegasparri
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<strong>La</strong> <strong>calibrazione</strong> <strong><strong>del</strong>le</strong> <strong>immagini</strong> <strong>digitali</strong> <strong>del</strong> profondo cielo<br />
di Daniele Gasparri<br />
In questo articolo propongo una breve panoramica su come attenuare le principali fonti di<br />
rumore <strong><strong>del</strong>le</strong> camere CCD utilizzate per le riprese degli oggetti <strong>del</strong> profondo cielo. Il discorso<br />
è generico e vale sia per le CCD astronomiche che per le normali reflex <strong>digitali</strong>.<br />
Il rumore <strong><strong>del</strong>le</strong> <strong>immagini</strong> <strong>digitali</strong><br />
Le <strong>immagini</strong> <strong>del</strong> cielo profondo vanno trattate in modo molto diverso rispetto a quelle <strong>del</strong> sistema<br />
solare per tre semplici motivi, che prescindono dal diverso tipo di strumentazione utilizzata:<br />
1) Le esposizioni sono molto più lunghe di quelle planetarie, almeno di un minuto, spesso di<br />
alcune decine di minuti; questo introduce <strong>del</strong> rumore a causa <strong>del</strong>l’architettura di tutti i<br />
sensori <strong>digitali</strong><br />
2) Nonostante le lunghe esposizioni e la somma di diverse pose per aumentare ulteriormente il<br />
rapporto segnale/rumore, abbiamo in ogni caso molto meno segnale rispetto a qualsiasi<br />
immagine grezza planetaria, poiché gli oggetti <strong>del</strong> cielo profondo (ad esclusione <strong><strong>del</strong>le</strong> stelle<br />
doppie, che vanno trattate in modo simile ai pianeti), sono intrinsecamente estremamente<br />
deboli. Questo significa che non potremmo applicare filtri di contrasto così intensi come<br />
siamo stati abituati con i pianeti.<br />
3) <strong>La</strong> forma e soprattutto la distribuzione <strong>del</strong>la luce degli oggetti diffusi, ad esclusione di<br />
qualche piccola nebulosa planetaria, è varia, molto estesa e soprattutto con gradienti di<br />
luminosità spesso elevatissimi, superiori anche alla dinamica dei migliori sensori <strong>digitali</strong>;<br />
per non sacrificare alcun dettaglio occorrerà prendere degli accorgimenti particolari sia in<br />
fase di ripresa, che, più spesso, in fase di elaborazione.<br />
Questi 3 punti fondamentali ci danno ancora meglio la consapevolezza <strong>del</strong>la grande differenza tra<br />
un’immagine planetaria ed una di un oggetto <strong>del</strong>lo spazio profondo, come una galassia.<br />
<strong>La</strong> fase di elaborazione, intesa come l’applicazione di filtri di contrasto ed accorgimenti che<br />
enfatizzano tutti i dettagli catturati, è ancora valida, ma prima deve essere preceduta da una fase di<br />
<strong>calibrazione</strong>, che lavora sulle singole <strong>immagini</strong> prima <strong>del</strong>la loro somma.<br />
Ogni sensore digitale possiede un rumore, che possiamo scomporre in tre diversi tipi:<br />
rumore termico (dark current): detto anche corrente di buio, propria di tutti i sensori <strong>digitali</strong>,<br />
insito al loro funzionamento. Sappiamo infatti che quando un fotone colpisce la superficie di un<br />
pixel esso rilascia un elettrone, il quale, dopo essere immagazzinato e conteggiato, andrà a<br />
comporre il segnale <strong>del</strong>l’immagine. Tuttavia, uno o più elettroni possono essere rilasciati e quindi<br />
raccolti dai pixel anche quando nessun fotone colpisce la sua superficie. Questa produzione<br />
elettronica è causata dalla temperatura alla quale si trova il pixel. A livello microscopico possiamo<br />
immaginare infatti la temperatura come il livello di agitazione <strong><strong>del</strong>le</strong> molecole di un qualsiasi<br />
reticolo solido; quando l’agitazione è elevata, qualche elettrone debolmente legato al proprio atomo<br />
può acquisire abbastanza energia da scappare ed essere catturato dalla differenza di potenziale<br />
applicata agli estremi <strong>del</strong> pixel. Questo elettrone viene conteggiato come se fosse stato prodotto da<br />
un fotone, ma così non è.
Ogni sensore ha un certo rumore termico, detto<br />
anche corrente di buio, poiché è un flusso di<br />
elettroni (corrente) che è sempre presente, anche<br />
quando il CCD non è esposto alla luce (in inglese<br />
dark current). Naturalmente la sua entità dipende<br />
sia dalla qualità <strong>del</strong> sensore, sia soprattutto dalla<br />
temperatura alla quale si trova. Per questo motivo<br />
tutti i sensori progettati per gli usi astronomici<br />
possiedono un sistema di raffreddamento, che<br />
riduce di molto questo indesiderato effetto,<br />
sicuramente la fonte di rumore maggiore.<br />
Fissata una temperatura di lavoro, la sua entità<br />
dipende naturalmente dal tempo di esposizione.<br />
Un tipico sensore amatoriale di buona qualità,<br />
come il KAF-0402 che equipaggia ad esempio le<br />
SBIG ST-7, possiede una corrente di buio pari ad<br />
1 elettrone per ogni pixel per ogni secondo, alla<br />
temperatura di 0°. Non tutti i pixel <strong>del</strong> sensore<br />
rispondono allo stesso modo alla temperatura<br />
ambientale; ce ne sono alcuni più sensibili degli<br />
altri che quindi tendono ad essere più brillanti, per<br />
questo definiti Hot pixel. Viceversa, esistono<br />
anche i cold pixel, cioè pixel freddi che appaiono<br />
più scuri <strong>del</strong>la media.<br />
Fortunatamente la corrente di buio è facile da<br />
correggere perché generalmente essa, a<br />
temperatura fissata, è la stessa. Questo non deve<br />
stupire poiché è come se il nostro sensore fosse<br />
esposto ad una sorgente luminosa costante,<br />
<strong>La</strong> corrente di buio generalmente si dimezza ogni circa<br />
7°C.<br />
producendo quindi intensità costanti se lo sono la temperatura ed il tempo di esposizione.<br />
Poiché si tratta di una sorgente di rumore non casuale, con pattern ben definiti, costante per certi<br />
valori di esposizione e temperatura, essa può essere corretta facilmente in ogni immagine, attraverso<br />
la <strong>calibrazione</strong> con un dark frame.<br />
Cosa significa tutto questo? Quando eseguiamo una posa su un soggetto <strong>del</strong> cielo profondo con<br />
pose che eccedono il minuto, il contributo <strong>del</strong>la corrente di buio all’immagine non può essere<br />
trascurato e deve essere corretto. Se all’immagine di luce sottraiamo un’immagine ottenuta con il<br />
sensore completamente al buio con lo stesso tempo di esposizione e stessa temperatura, riusciamo<br />
ad eliminare completamente il rumore causato dalla corrente di buio. Questa procedura si chiama<br />
correzione con un dark frame, dove il dark frame è l’esposizione al buio totale che mette in luce<br />
solo la corrente di buio. Ogni singola immagine di luce deve essere corretta con una immagine di<br />
dark che possiede lo stesso tempo di esposizione e la stessa temperatura. Se uno dei due requisiti<br />
non fosse soddisfatto, la correzione non sarà totale (sottocorretta) oppure troppo intensa<br />
(sovracorretta). L’immagine di dark può essere anche la media o la mediana (ma non la somma!) di<br />
n singole <strong>immagini</strong>, ognuna <strong><strong>del</strong>le</strong> quali deve avere la stessa esposizione e temperatura<br />
<strong>del</strong>l’immagine da correggere. Per lavori <strong>del</strong>icati e correzioni il più possibile accurate (come ad<br />
esempio in fotometria) si ottiene un master dark frame, cioè un’immagine di dark frutto <strong>del</strong>la<br />
mediana di almeno 5-6 singoli frame. Questo consente di eliminare il contributo causato dai raggi<br />
cosmici, particelle energetiche che possono colpire il sensore anche quando è al buio completo.<br />
Rumore di lettura: Quando il sensore CCD viene letto dall’elettronica <strong>del</strong>la camera viene<br />
introdotto <strong>del</strong> rumore, chiamato rumore di lettura (readout noise); esso non può essere mai<br />
eliminato ma solamente ridotto al minimo utilizzando dei sistemi di lettura adeguati. I sensori
amatoriali hanno tipicamente un readout noise elevato; per il solito KAF-0402 si hanno 15<br />
elettroni. Il valore è fisso e non dipende da altri parametri poiché è un dato che dipende<br />
dall’elettronica <strong>del</strong> sensore. Fortunatamente può essere corretto efficacemente attraverso quelli che<br />
si chiamano bias frame, cioè esposizioni con tempo di integrazione pari a 0 (o il minimo possibile<br />
ammesso dalla camera digitale). In effetti si tratta di esposizioni di buio con tempo nullo.<br />
Rumore casuale: in ogni immagine digitale c’è una componente casuale di rumore. Nel caso <strong><strong>del</strong>le</strong><br />
riprese <strong>del</strong> sistema solare, con sensori di qualità mediocre come le webcam, esso è la componente<br />
principale <strong>del</strong> rumore totale; in effetti, grazie anche alle brevissime pose, la componente non<br />
casuale (correlata) è trascurabile, così come in generale lo è quella di lettura.<br />
Il rumore casuale, come la stessa definizione suggerisce, non può essere predetto, quindi non può<br />
essere corretto con specifiche <strong>immagini</strong>, poiché esso varia in modo imprevedibile da una posa<br />
all’altra. L’unico modo per attenuarlo (ma non eliminarlo), consiste nell’applicare, anche in questo<br />
caso, la tecnica <strong>del</strong>la media <strong><strong>del</strong>le</strong> <strong>immagini</strong>. Esso, infatti, segue la statistica di Poisson (per questo è<br />
detto anche Poisson noise): essa afferma che l’incertezza misurata per un segnale con intensità S è<br />
N = S , dove N = rumore (noise in inglese). L’unico modo per attenuare il rumore di Poisson<br />
(cioè casuale) è aumentare il segnale, aumentando il tempo di esposizione o sommando (o<br />
mediando) più <strong>immagini</strong>.<br />
Il rumore casuale è dovuto al modo con cui i fotoni giungono sul sensore e, in piccola parte,<br />
all’errore con cui il contatore analogico-digitale trasforma il segnale analogico (il numero di<br />
elettroni) in digitale (valore ADU). Senza andare a scomodare concetti di meccanica quantistica,<br />
consideriamo uno sfondo uniformemente illuminato che colpisce tutto il sensore CCD. Il<br />
comportamento dei fotoni fa si che il numero che colpisce i pixel non sia esattamente lo stesso sia<br />
nello spazio che nel tempo; in effetti sono i fotoni stessi a seguire la statistica di Poisson, che<br />
identifica tutta una serie di eventi che si manifestano in modo casuale.<br />
Nella pratica cosa succede?<br />
Se riprendiamo un’immagine con poco segnale, cioè<br />
con pochi fotoni raccolti (in questi casi si trascura il<br />
fatto che non tutti i fotoni vengono raccolti, a causa<br />
<strong>del</strong>l’efficienza quantica di ogni sensore, che però non<br />
influisce in questo caso) avrò un’incertezza maggiore<br />
rispetto a quando ne raccolgo molti. Ad esempio, dato il<br />
comportamento casuale <strong>del</strong>la luce, se un pixel raccoglie<br />
un fotone, può benissimo succedere che un altro ne<br />
raccolga 2, un altro ancora nessuno. <strong>La</strong> media raccolta<br />
su questi tre pixel è 1,5 ma la dispersione dei dati è 2,<br />
cioè la differenza tra i singoli valori di ogni pixel (2-<br />
0=2). Se facciamo questo per ogni pixel <strong>del</strong> sensore e<br />
poi riportiamo in un grafico tutti i valori, troviamo una<br />
curva che tende ad assomigliare ad una gaussiana, con<br />
un picco centrale, che corrisponde al valore medio, e <strong><strong>del</strong>le</strong> zone periferiche. <strong>La</strong> deviazione standard,<br />
cioè la dispersione dei dati attorno alla media, avrà un certo valore, che però non è nullo.<br />
Questo cosa significa? Che, sebbene il sensore sia esposto ad una sorgente uniforme, la risposta che<br />
ne deriva non è uniforme: ogni pixel registrerà un valore leggermente diverso e l’aspetto globale è<br />
quello di un’immagine granulosa, rumorosa, che varia senza alcuna possibilità di previsione da un<br />
pixel all’altro e in funzione <strong>del</strong> tempo (trascuriamo la diversa sensibilità dei pixel).<br />
Tutto questo dipende unicamente dal comportamento duale onda-particella <strong>del</strong>la luce ed impedisce<br />
di dare un conteggio esatto <strong>del</strong> numero di fotoni che colpiscono una determinata superficie in un<br />
certo intervallo di tempo. Qualsiasi sia il fenomeno, il numero di fotoni che giungono in un<br />
intervallo di tempo (o di spazio) segue la statistica di Poisson, poiché essi sono eventi indipendenti<br />
l’uno dall’altro (condizione necessaria affinché la distribuzione sia descritta dalla statistica di<br />
Poisson).
Dall’esempio visto qualche riga sopra, appare evidente che maggiore è il numero di fotoni che<br />
colpisce un sensore, minore è l’incertezza nel loro conteggio, come in effetti abbiamo già detto:<br />
N = S . Un segnale di 100 elettroni avrà un rumore di 10, uno con 10000 avrà un rumore di 100.<br />
Il valore assoluto <strong>del</strong> rumore aumenta, ma quello che a noi interessa è il rapporto tra il segnale e il<br />
rumore, che ci da direttamente informazioni su quanto quest’ultimo influenza la qualità<br />
<strong>del</strong>l’immagine.<br />
Questi concetti valgono in ogni campo di applicazione.<br />
Quando il rapporto segnale/rumore è elevato, l’immagine appare priva di granulosità (rumore) e ad<br />
essa possono essere applicati con successo filtri di contrasto, proprio come avviene nelle <strong>immagini</strong><br />
planetarie.<br />
Come possiamo intuire, e come avremo la conferma tra qualche pagina, il metodo migliore per<br />
aumentare il rapporto Segnale/rumore è quello di sommare o mediare molte pose. Sebbene<br />
l’aumento <strong>del</strong> tempo di esposizione porti ad un risultato identico, abbiamo il limite fisico <strong>del</strong><br />
sensore, che non può raccogliere più di una certa quantità di segnale in una singola posa (Full Well<br />
Capacity). <strong>La</strong> media o la somma di molte <strong>immagini</strong> con esposizioni adatte permette di aumentare<br />
teoricamente a piacere il segnale di ogni immagine astronomica.<br />
Fixed Pattern noise<br />
Con questo termine inglese si identifica<br />
quel rumore che dipende quasi<br />
esclusivamente dalla configurazione ottica<br />
utilizzata. Questa fonte di disturbo non<br />
dipende dall’architettura <strong>del</strong> sensore CCD o<br />
dalla sua temperatura, piuttosto dalle<br />
proprietà <strong>del</strong>l’intero sistema di ripresa. Il<br />
pattern noise è la comparsa di dettagli fittizi<br />
in ogni immagine astronomica,<br />
generalmente a grande scala. Esempi tipici<br />
sono gradienti luminosi lungo l’immagine e<br />
soprattutto la vignettatura, cioè la perdita di<br />
luce verso i bordi <strong>del</strong>l’immagine, ma anche<br />
granelli di polvere e sporco o eventuali difetti <strong>del</strong> sensore CCD stesso. A causa <strong>del</strong>l’elevata<br />
dinamica dei sensori CCD e <strong>del</strong>la qualità non certo professionale dei telescopi amatoriale, la<br />
vignettatura è un problema molto comune e spesso difficile da risolvere a posteriori che altera<br />
pesantemente l’estetica e l’utilità scientifica di ogni immagine. In effetti il pattern noise è<br />
sicuramente la fonte più fastidiosa sia dal punto estetico che scientifico, per questo occorre<br />
eliminarlo completamente attraverso quelle che si chiamano riprese di flat field.
<strong>La</strong> <strong>calibrazione</strong> <strong><strong>del</strong>le</strong> <strong>immagini</strong> <strong>digitali</strong><br />
Con il termine <strong>calibrazione</strong> si identificano tutti i passaggi necessari per ridurre le sorgenti di rumore<br />
non casuale, in particolare il readout noise, la dark current e il rumore fisso (fixed pattern). Questi<br />
errori, essendo di natura non casuale e quindi ripetibili, possono essere corretti.<br />
Una buona procedura di <strong>calibrazione</strong> <strong><strong>del</strong>le</strong> proprie <strong>immagini</strong> consente di raggiungere livelli di<br />
eccellenza dal punto di vista estetico ed altissime precisioni dal punto di vista fotometrico, rendendo<br />
i sensori CCD amatoriali utili anche per la scoperta e lo studio di pianeti extrasolari in transito.<br />
Tale procedura dovrebbe essere intrapresa anche quando si utilizzano sensori non proprio adatti per<br />
le applicazioni astronomiche, come le reflex <strong>digitali</strong> e le webcam. In realtà, se si applica la tecnica<br />
vista per i pianeti, quindi esposizioni estremamente brevi e somma di moltissimi frame, la<br />
procedura di <strong>calibrazione</strong> può essere trascurata in toto ma, ogni volta che aumentiamo il tempo di<br />
esposizione e dirigiamo la nostra attenzione verso oggetti molto deboli, occorre che essa sia<br />
applicata in modo rigoroso.<br />
<strong>La</strong> <strong>calibrazione</strong> si effettua su ogni singolo frame e non sull’eventuale immagine grezza frutto<br />
<strong>del</strong>la somma o media di singole esposizioni, prima <strong>del</strong>l’applicazione di qualsiasi filtro di<br />
contrasto o di modifica <strong>del</strong>l’istogramma, naturalmente sull’immagine fit o in formato raw a<br />
piena dinamica.<br />
Non vi sono particolari difficoltà poiché la procedura non necessita di scelte da parte <strong>del</strong>l’utente.<br />
<strong>La</strong> <strong>calibrazione</strong> è piuttosto semplice ma necessita di <strong>immagini</strong> che vanno riprese parallelamente<br />
all’acquisizione <strong><strong>del</strong>le</strong> riprese di luce, i cosiddetti frame di <strong>calibrazione</strong>. Le successive correzioni<br />
vengono applicate automaticamente da qualsiasi software astronomico come Maxim Dl, Astroart,<br />
CCDSoft, CCDops…<br />
Vediamo quali sono e come applicare le <strong>immagini</strong> di <strong>calibrazione</strong> che, dovrebbero essere il frutto<br />
<strong>del</strong>la media, o meglio, <strong>del</strong>la mediana, di almeno 5-6 <strong>immagini</strong>, naturalmente tutte identiche.<br />
Dark frame: <strong>La</strong> corrente di buio, per pose lunghe, è la componente che più crea fastidi nell’estetica<br />
di un’immagine. Un’immagine di dark frame deve essere effettuata con il sensore al buio (per quelli<br />
senza otturatore meccanico) ed alla stessa temperatura <strong>del</strong>l’immagine di luce, con lo stesso tempo di<br />
esposizione. Questa immagine conterrà la stessa corrente di buio <strong>del</strong>l’immagine da calibrare e con<br />
una semplice operazione di differenza il suo contributo verrà praticamente cancellato. Per<br />
esposizioni di dark superiori ai 5 minuti è preferibile costruire un master dark, cioè un’immagine<br />
composta dalla mediana di almeno 5 singole <strong>immagini</strong>, tutte naturalmente aventi la stessa durata e<br />
stessa temperatura. In ogni posa lunga, infatti, è molto elevata la probabilità che vi compaiano dei<br />
raggi cosmici, che possono essere considerati a tutti gli effetti <strong><strong>del</strong>le</strong> sorgenti di rumore casuale.<br />
Effettuando la mediana di almeno 5 <strong>immagini</strong> il programma di elaborazione costruisce il master<br />
dark trascurando le fonti di rumore casuale che non compaiono in tutte le <strong>immagini</strong>.<br />
Se la temperatura <strong>del</strong> vostro sensore CCD è regolabile, potrete costruire una libreria di dark frame<br />
con le temperature ed esposizioni che più utilizzate; in questo modo potrete correggere tutte le<br />
<strong>immagini</strong> future, purché ottenute con la stessa temperatura ed esposizione.<br />
In realtà, il normale deterioramento <strong>del</strong> sensore CCD limita l’utilità temporale dei dark frame a<br />
circa 1 anno.<br />
Se la vostra camera non consente di controllare la temperatura, occorre raccogliere un dark frame<br />
subito dopo l’acquisizione <strong>del</strong>l’immagine di luce, oppure in mezzo ad un set di esposizioni di luce.<br />
Una volta composto il vostro master dark è molto semplice correggere le <strong>immagini</strong>, attraverso i<br />
comandi specifici di ogni software astronomico. E’ bene che questa ed altre fasi vengano gestite da<br />
programmi appositamente progettati per gli usi astronomici.<br />
Alcune camere manifestano, dopo essere state esposte ad intensità relativamente elevate (tali da<br />
saturare o quasi il sensore) un effetto di immagine residua che si rende visibile specialmente nella<br />
successiva acquisizione di un dark frame. Per evitare questo effetto, di cui abbiamo parlato<br />
nell’articolo sui difetti dei sensori <strong>digitali</strong>, è bene far eseguire alla camera qualche breve<br />
esposizione buia per svuotare completamente i pixel dalla carica residua.
Flat field: una <strong>calibrazione</strong> con un buon flat field è quanto di più difficile per gli amatori. Spesso<br />
questa fase viene vista anche con una certa superficialità, ma è invece importantissima, sia dal<br />
punto di vista scientifico che estetico. Qualsiasi telescopio non illumina uniformemente tutto il<br />
piano focale occupato dai sensori <strong>digitali</strong>; questo effetto è noto anche come vignettatura: in<br />
particolare le parti periferiche ricevono meno luce di quelle centrali. L’effetto, con sensori di<br />
modeste dimensioni o con telescopi di ottima qualità, è limitato, ma, data la grande sensibilità e<br />
range dinamico dei CCD, anche differenze di pochi elettroni possono essere messe in evidenza e<br />
creare effetti piuttosto spiacevoli, oltre che rovinare la precisione fotometrica <strong><strong>del</strong>le</strong> proprie<br />
<strong>immagini</strong>. Anche l’eventuale presenza di polvere sul sensore o su parti ottiche ad esso vicine<br />
contribuisce a rendere il campo non uniforme, non piatto. Questo, che spesso è considerato una vera<br />
e propria fonte di rumore (identificato nella categoria dei pattern regolari) è spesso il responsabile<br />
<strong>del</strong>l’aspetto poco piacevole <strong><strong>del</strong>le</strong> <strong>immagini</strong> <strong>digitali</strong>. Fortunatamente può essere efficacemente<br />
corretto: di quanto dipende dalla bravura <strong>del</strong>l’astrofilo nell’acquisire corrette <strong>immagini</strong> di campo<br />
piatto, o in inglese (visto che suona molto<br />
meglio!) flat field.<br />
Una buona immagine di flat field è<br />
un’esposizione con durata e temperatura<br />
indipendenti da quelle <strong>del</strong>l’immagine di<br />
luce da correggere, che registra solamente le<br />
disuniformità <strong>del</strong> campo. Dividendo<br />
l’immagine originale per quella di flat field,<br />
si ottiene una correzione completa.<br />
Poiché l’immagine di flat fiel è una ripresa<br />
CCD a tutti gli effetti, come tale contiene<br />
<strong>del</strong> rumore, che si aggiunge inevitabilmente<br />
all’immagine da correggere, per questo è<br />
opportuno che essa, oltre a registrare<br />
perfettamente la non uniformità <strong>del</strong> campo,<br />
abbia il minimo rumore possibile. Questo si<br />
ottiene mediando tra di loro almeno una<br />
decina di singole <strong>immagini</strong>, alle quali<br />
vengono sottratti i rispettivi dark frame: si<br />
trattano cioè le <strong>immagini</strong> di flat field alla<br />
stregua <strong><strong>del</strong>le</strong> normali riprese in luce.<br />
Un master flat field è un’immagine risultato<br />
<strong>del</strong>la media (non mediana e non somma!) di<br />
almeno 10-15 singole <strong>immagini</strong>, ognuna<br />
<strong><strong>del</strong>le</strong> quali ha ricevuto un’esposizione<br />
tale che il massimo valore di intensità (al<br />
netto dei pixel caldi!) si attesti intorno alla<br />
metà <strong>del</strong>la full well capacity <strong>del</strong> CCD (in<br />
alternativa si utilizzano anche i<br />
conteggi <strong>del</strong> contatore analogico-digitale).<br />
In altre parole, se un sensore ammette<br />
Ecco un’ottima immagine di flat field, media di 50 singole<br />
esposizioni effettuate con la tecnica <strong>del</strong> cielo al crepuscolo<br />
esposta nel testo. L’immagine di flat field corregge i difetti <strong>del</strong><br />
sistema ottico (vignettatura, polvere) e <strong>del</strong> sensore, come la<br />
diversa sensibilità dei pixel. Notate come il poisson noise si sia<br />
ridotto notevolmente con la media di molte <strong>immagini</strong>!<br />
luminosità fino a 65500 conteggi, un buon master flat può essere la media di 15 <strong>immagini</strong> ognuna<br />
<strong><strong>del</strong>le</strong> quali ha valori di luminosità massimi intorno ai 35000 conteggi. E’ estremamente importante<br />
che nessuna zona <strong>del</strong>l’immagine di flat field saturi, ed è molto importante, se si utilizzano<br />
esposizioni superiori ai 10 secondi, calibrare ogni immagine di flat per il relativo dark o media di N<br />
di essi.
Abbiamo appena visto le caratteristiche di un buon master flat field, ma nella pratica, come si<br />
realizza? Innanzitutto esso va ripreso esattamente con la stessa configurazione con la quale è stata<br />
catturata l’immagine da calibrare; per stessa si intende stessa orientazione <strong>del</strong>la camera, stessi<br />
eventuali filtri, stessa posizione <strong>del</strong>la messa a fuoco; gli unici parametri che possono variare sono,<br />
come già detto, l’esposizione e la temperatura <strong>del</strong> sensore, ma le condizioni geometriche devono<br />
essere identiche. Detto questo, l’immagine di flat field dovrebbe essere ripresa puntando il<br />
telescopio verso uno sfondo uniformemente illuminato. Questo è in effetti il punto più <strong>del</strong>icato,<br />
poiché avere uno sfondo realmente uniforme non è facile. Per fare ciò esistono diversi espedienti:<br />
1) si copre il telescopio con dei fogli da disegno al alta grammatura e si punta il cielo allo zenit,<br />
in prossimità <strong>del</strong> tramonto <strong>del</strong> Sole. Se il campo di ripresa non è molto più grande di mezzo<br />
grado, lo sfondo così creato è molto uniforme e costituisce la condizione migliore per<br />
ricavare un buon flat field. Naturalmente, una volta ottenuto, è assolutamente vietato<br />
cambiare l’orientazione <strong>del</strong>la camera, così come variare sensibilmente la messa a fuoco o<br />
addirittura estrarre il CCD dal barilotto <strong>del</strong>l’oculare. Ognuna di queste operazioni porta alla<br />
perdita <strong>del</strong>l’utilità <strong>del</strong> flat field ottenuto.<br />
2) In alternativa, se durante la nottata si è costretti a fare una <strong><strong>del</strong>le</strong> operazioni che invalidano<br />
l’efficienza <strong>del</strong> flat fied ripreso, occorre trovare un altro modo per riprenderne uno, di notte.<br />
Il modo di agire è simile al precedente: si copre il telescopio con un foglio di carta bianca,<br />
questa volta a bassa grammatura, e si punta uno sfondo illuminato uniformemente: esso può<br />
essere anche un lontano lampione (distanza maggiore di 50 metri) o un edificio monocolore<br />
uniformemente illuminato, o una lampada, meglio se a led, posta dall’astrofilo ad una<br />
distanza di almeno 10 metri. Chi dispone di un osservatorio con relativa cupola può trovare<br />
utile accendere le luci e puntare direttamente la cupola. L’importante è che lo sfondo sia<br />
uniformemente illuminato.<br />
Ogni programma astronomico permette la correzione per il flat field che, come con i dark frame,<br />
va applicata ad ogni singola immagine di luce e non limitatamente all’immagine frutto <strong>del</strong>la<br />
media si singole esposizioni.<br />
Il miglioramento in termini qualitativi, se il master flat a vostra disposizione è buono (quindi media<br />
di N <strong>immagini</strong> riprese su uno sfondo uniformemente illuminato, con dinamica compresa tra il 40 e<br />
il 70% di quella totale <strong>del</strong> sensore) è notevole, come testimoniano le <strong>immagini</strong> di seguito.<br />
A sinistra: singola esposizione corretta per il dark frame ma non per il flat field. A destra: correzione con un ottimo flat<br />
field; i gradienti artificiali di luce sono scomparsi <strong>del</strong> tutto.<br />
E’ bene sottolineare come il flat field elimini le imperfezioni <strong>del</strong> campo <strong>del</strong> CCD ed eventuali<br />
difetti estetici come la presenza di polvere o sottili righe e pattern regolari, cioè difetti di origine<br />
strumentale, mentre nulla può fare nell’eliminare i gradienti luminosi introdotti da un cielo<br />
inquinato o dalla presenza <strong>del</strong>la luna. In questi casi, anche l’applicazione di un flat field può non<br />
essere sufficiente a rendere completamente piatto il campo. Un motivo in più per operare solamente<br />
da cieli bui.
Bias frame: il rumore di lettura o lo stesso disturbo provocato dall’amplificatore <strong>del</strong> sensore<br />
(visibile spesso come una macchia luminosa lungo i bordi <strong>del</strong>l’immagine, specie in sensori non<br />
tipicamente astronomici) possono essere ridotti con l’ausilio di un bias frame, cioè con<br />
un’immagine (o meglio, la media di n <strong>immagini</strong>, per minimizzare il rumore) che contenga solo<br />
questi difetti, che non dipendono ne dall’esposizione, ne dalla temperatura, ne dalla configurazione<br />
ottica utilizzata. Da ciò emerge che un bias frame è un’immagine scattata con tempo di esposizione<br />
nullo, l’unica strada per raccogliere solo queste fonti di rumore.<br />
Le camere commerciali economiche non prevedono un tempo di posa nullo e in questi casi si dovrà<br />
utilizzare l’esposizione minima possibile, eventualmente tappando il telescopio: si tratta a tutti gli<br />
effetti di un dark frame a tempo zero o comunque<br />
il più breve possibile.<br />
In realtà, l’utilità dei bias frame non è elevata; se<br />
ci si pensa bene, infatti, in un’immagine di dark<br />
frame dovrebbe essere contenuta, oltre alla<br />
corrente di buio, l’informazione sul rumore di<br />
lettura e <strong>del</strong>l’amplificatore. Un dark frame, se<br />
eseguito correttamente (cioè stesso tempo di posa<br />
e stessa temperatura <strong>del</strong>l’imamgine di luce)<br />
svolge perfettamente anche le funzioni di un bias<br />
frame.<br />
Allora, è davvero utile questa ulteriore<br />
correzione? In realtà no, ma non sempre.<br />
Se si ha un dark frame adeguato non si deve<br />
correggere con un bias frame, altrimenti si avrà il<br />
fenomeno <strong>del</strong>la sovracorrezione: l’immagine<br />
risulterà corretta più <strong>del</strong> necessario.<br />
Se, tuttavia, si disponesse di dark frame che<br />
hanno una durata diversa da quelli <strong>del</strong>l’immagine<br />
da calibrare (anche differenze di pochi secondi),<br />
allora occorre calibrare anche con il bias.<br />
Le <strong>immagini</strong> a destra testimoniano quanto detto.<br />
Le singole pose di 30 secondi sono state corrette<br />
con dark di 20; sebbene quasi tutta la corrente di<br />
buio sia stata eliminata, rimane un gradiente<br />
luminoso all’estrema sinistra <strong>del</strong> fotogramma<br />
(immagine in alto) prodotto dal metodo di lettura<br />
<strong>del</strong> sensore, eliminabile con un bias frame, o<br />
meglio un master bias come quello qui sotto<br />
Il bias frame si rende necessario solamente quando si<br />
dispone di dark frame non corretti per le <strong>immagini</strong> da<br />
calibrare<br />
Un ottima immagine di bias frame. E’ necessario<br />
che essa sia il risultato <strong>del</strong>la media di molti singoli<br />
frame, per minimizzare il rumore casuale,<br />
estremamente evidente in questi casi. Notate il<br />
rumore introdotto dall’amplificatore (aumento di<br />
luce a sinistra) e le imperfezioni <strong>del</strong> sensore CCD.