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PAOLO GENTA TERNAVASIO
Electa

Traduzioni / Translations
Studio Queens, Milano
L’editore ringrazia Paolo Genta Ternavasio
per avere cortesemente fornito testi
e immagini per questo volume,
autorizzandone la pubblicazione. /
The publisher wishes to thank
Paolo Genta Ternavasio for having
kindly furnished the texts and the images
for this book, authorizing their publication.
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CESARE CUNACCIA INTERVISTA
PAOLO GENTA TERNAVASIO
Paolo, ci vuoi dire quali sono stati i tuoi inizi,
l’origine di una storia inizialmente solo di lavoro
che è diventata quella della tua vita?
Potrei raccontarti che sono stato un bambino circondato
da scatole di Lego, ma non è così, perché in
fondo le costruzioni non mi interessavano poi tanto.
Ripensandoci, tutto è nato all’inizio dagli oggetti
di antiquariato, sì, a causa delle porcellane. La
storia è iniziata perché mio fratello prendeva lezioni
di piano, con successo relativo, ma le prendeva.
A me venne richiesta la stessa cosa, che però risultò
annoiarmi mortalmente. Non ero portato per
suonare, non sentivo l’attività musicale come un
qualcosa di veramente mio.
Mia madre, che era una donna un po’ calvinista e
che credeva che dovessimo comunque essere sempre
impegnati, dato che a me piaceva disegnare mi
mandò da una sua amica che dipingeva su ceramica.
Eureka. Mi sono subito molto appassionato e siccome
ero un bambino un po’ ossessivo, una specie di
piccolo nerd, mi misi alacremente a imparare tutti i
marchi delle principali manifatture europee.
Tutto questo avveniva verso i dieci anni, forse anche
prima. Avevo però già attraversato una fase precedente
in cui volevo sapere tutto sul mondo animale.
Il passo successivo è il collezionismo…
Infatti è avvenuto proprio così. Ho cominciato a
collezionare, a raccogliere oggetti in porcellana. Un
microcosmo in qualche modo legato all’idea del tesoro,
dell’isola del tesoro, un sogno che tutti i bambini
prima o poi coltivano e accarezzano dentro di
sé. Finalmente avevo anch’io un mio piccolo tesoro.
Di sicuro subivo già il fascino delle case, degli
ambienti. La casa della mia maestra di pittura, ad
esempio, mi impressionava molto. Sortiva un effetto
estraniante un po’ fiabesco, un po’ da castello in-
cantato, ed era immersa in un’atmosfera di sedimentazione
molto decadente. Una dimora dannunziana,
ancora dominata dal sussiego bourgeois della
mamma e delle zie di questa signora, ritratte in
grandi pastelli da Vittorio Cavalleri, che era un noto
pittore ritrattista piemontese della Belle Epoque.
E poi c’erano tende e tessuti che sicuramente avevano
conosciuto tempi migliori e che non erano stati
sostituiti da almeno trent’anni. Grandi abat-jour
con galloni dorati e seta rossa consumata, tagliuzzata
dal tempo: una luce molto d’atmosfera, densa,
davvero magica. Non so se mi sia sembrato divertente,
surreale o malinconico, ma la mia prima lezione
di disegno si tenne verso il mese di marzo,
mentre era ancora montato nel bel mezzo del salone
un enorme albero di Natale, o meglio, quanto ne
restava. Puoi immaginare in che stato fosse.
Le case per te diventano fin dall’infanzia un terreno
di suggestione, un luogo di appartenenza, di
immedesimazione, di gioco e di fantasia…
Avevo soprattutto esperienza di case abbastanza costruite,
di décor, perché mia madre ci teneva molto,
amava arredare, comporre e seguire fino al minimo
dettaglio il proprio paesaggio domestico. Spesso
coinvolgeva me e mio fratello, maggiore di sette anni,
nelle sue scelte, ci chiedeva di partecipare a questo
suo processo creativo. Un’altra casa che mi ha
attratto molto in gioventù, che mi ha segnato in
qualche modo, è stata quella delle zie di mia madre,
un classico palazzotto piemontese ottocentesco nella
via centrale di un paese, ritmato da una classica
successione en enfilade di stanze e di salotti: quello
rosso, quello giallo, quello verde. Anche lì vigeva
un clima di grande decadenza, di polveroso bric-abrac
gozzaniano. Luci e ombre che giocavano fra loro,
dorature e specchiere appannate, elaborate urne
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d’alabastro, candelieri e barbotines sui camini, pendole-cartel
Napoleone III dal suono sommesso sotto
campane di vetro. Un ambiente che aveva sicuramente
conosciuto tempi migliori, ma che manteneva
vivo un senso di fiaba e custodiva una valenza
perduta, onirica.
Finora hai rievocato soltanto case e ambienti del
passato, residenze suggestivamente abbandonate
allo scorrere del tempo. Ma gli anni settanta corrispondono
anche a un’epoca di cruciale cambiamento,
di rivoluzione…
Racconto queste cose che possono sembrare ridicolmente
proustiane anche perché in quegli anni, che
potevano appunto essere i primi settanta, ancora
non esisteva tutta quella profusione di oggetti e di
arredi a cui oggi siamo abituati, quasi assuefatti. Le
case in pratica erano degli appartamenti dove trovavi
del design italiano o magari nordico, che a un livello
inferiore erano popolate da tinelli finto tirolese
o finto barocchetto. Poi c’erano le residenze fatte
dai grandi antiquari, che erano sicuramente più sfarzose,
impostate, teatrali e si ispiravano ai fasti del
passato. Sostanzialmente queste erano le tipologie.
Si iniziavano però a intravedere i primi interni concepiti
dagli architetti in uno stile moderno, siglati da
una personalità e da una caratura di gusto precise.
A questo punto entrano in scena gli antiquari.
Uno, naturalmente torinese, in particolare. Una
figura che ormai appartiene alla leggenda. Come
sei entrato nell’orbita di Pietro Accorsi?
All’epoca dei miei studi liceali frequentavo molti
antiquari torinesi, la città era ricca di mercanti d’arte
e di antique dealers grazie al suo passato di capitale
sabauda e all’eredità decorativa in particolare di
un Settecento come quello locale, prodigo di gran-
de sofisticazione e bellezza creativa. Soprattutto mi
affascinava la celebre galleria Accorsi.
Pietro Accorsi allora era già un mito. La sua galleria
incredibile, piena di meraviglie, era un vasto appartamento
completamente arredato al civico 55 di via
Po, negli stessi locali nei quali oggi si trova la fondazione
che porta il suo nome. Ricordo che vi aleggiava
perennemente un fondo acre di pipì di gatto.
Chez Accorsi vi era un vorticoso avvicendarsi di oggetti,
di arredi e dipinti, al punto che la galleria era
irriconoscibile da una volta all’altra. Il paesaggio
cambiava radicalmente ogni settimana. Bureaux,
specchiere, arazzi, consolles, poltrone, scrittoi e boiseries,
era tanta la merce che arrivava e veniva velocemente
dispersa, venduta a clienti privati ma anche
ad antiquari, in Italia e sulla scena internazionale.
Mia madre era sua cliente. Quando ho conosciuto
Pietro Accorsi, poi scomparso nel 1982, era una persona
molto anziana. Veleggiava intorno agli ottant’anni
e praticamente l’ho frequentato fino alla morte.
Aveva fama di avere un carattere duro e terribile.
In realtà era un uomo straordinariamente intelligente,
assai spiritoso, con un formidabile humour venato
di un blando cinismo, di quel certo scetticismo
blasé tipico di chi ha molto vissuto ed è riuscito a
condurre un’esistenza fantastica.
Nato nel 1891 da una famiglia più che modesta in
una portineria, quella del medesimo stabile dove
visse fino alla fine dei suoi giorni, nel 1935, grazie al
suo commercio, Accorsi era già così ricco da poter
acquistare con l’appoggio dell’allora principe di Piemonte
Umberto di Savoia, la collezione Trivulzio a
Milano, la più grande raccolta pittorica italiana, rimasta
integra nei secoli, che comprendeva capolavori
come il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina,
dipinto quattrocentesco che in seguito donò al
Museo Civico di Palazzo Madama a Torino.

Era un personaggio fuori dal comune, che aveva conosciuto
tutti i grandi della sua epoca, da Ford e Patino
a Charlie de Beistegui, il proprietario del settecentesco
Palazzo Labia a Venezia e dello Chateau de
Groussay, non lontano da Parigi, committente di Le
Corbusier e di Emilio Terry. Accorsi aveva contribuito
all’arredo delle case Agnelli, quella di corso
Matteotti e Villar Perosa, e tra la sua esigentissima
clientela privata contava la splendida baronessa
Marie-Hélène de Rothschild, una delle più fulgide
socialite tra i gli anni cinquanta e i primi anni ottanta.
Insomma era una figura fortemente internazionale,
fornitore di quello che un tempo veniva chiamato
monde, un circolo abbastanza ristretto di collezionisti,
esteti e amanti del grand décor che cercavano
di ricostruire nelle proprie case.
E quando fa irruzione nel tuo percorso formativo
il dato contemporaneo?
Oltre agli ambienti accorsiani che erano sicuramente
ben più di una mera ricostruzione e riproponevano
la fragranza viva di varie epoche passate, negli
anni settanta, quand’ero un ragazzino, mi attraevano
quegli scenari più contemporanei, che finalmente
si cominciavano a proporre. In Italia praticamente
non esistevano riviste di arredamento, se non
quelle straniere. Per casa girava “Grazia”, una delle
poche riviste femminili nazionali, che aveva una sezione
dedicata all’arredamento. Su “Grazia”, qualche
tempo prima, era stato pubblicato un repertorio
di case d’Italia, ne ricordo ancora il titolo, Le belle
case italiane, fotografato da Ludovica Doria, in cui
comparivano anche ambienti dal concept decisamente
moderno.
Poco tempo dopo fece furore Willy Rizzo, fotografo,
playboy, designer di talento, con la serie dei suoi innovativi
negozi. Il suo era arredo che si allontanava
dal design classico, che usava il legno chiaro, i metalli,
il vetro e il plexiglas, che cercava di comunicare
un senso moderno, quasi astratto del lusso.
Ambienti semplici e lineari, pareti di smalto, i famosi
tavoli bassi in acciaio e in ottone, divani ampi
e scamosciati. Un contesto nel quale venivano
posti e idealmente coinvolti, come in una forma di
contrasto o come un’eredità sublimata degli esotismi
sette-ottocenteschi in Europa, degli oggetti
d’arte orientale.
Ecco un ulteriore amore, quello per gli oggetti d’arte
orientale, forse semplicemente una naturale
conseguenza delle tappe precedenti di questo tuo
mosaico di sensazioni e approfondimenti. Tu che
ne dici?
Gli oggetti orientali per me erano veramente qualcosa
che arrivava da un mondo lontano. In qualche
modo mi ritrovavo a rivivere quell’emozione dell’esotico
che aveva totalmente affascinato il mercato
europeo nel Settecento. Non stiamo parlando di
secoli fa, eravamo soltanto nei seventies. Eppure ciò
può sembrare ridicolo, arcaico, soltanto pensando a
come oggi tutto risulti vicino e raggiungibile, perfettamente
assimilato. Il mondo si è davvero rimpicciolito,
si assomiglia a qualsiasi latitudine per effetto
della globalizzazione. L’esotismo è oggi in via
d’estinzione.
Il mio primo viaggio importante, con gli amici, fu
quindi gioco forza in direzione oriente. Alla fine però
rammento che ne rimasi un po’ deluso, come accadeva
nelle cronache dei viaggiatori di due secoli
prima, che lamentavano come i tetti delle case non
fossero tutti a punta e pittoreschi come quelli visti
sui paraventi Coromandel. La passione per l’Oriente
mi prese dopo essere entrato in contatto con ambiti
differenti per epoca e stile, dall’amore adole-
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scenziale per il Liberty a quello post-adolescenziale
per il déco anni trenta.
Ma avevo esperito pure la pittura a fondo oro e gli
arredi d’alta epoca. Un excursus di segni, di estetiche,
di sensibilità e contaminazioni le più differenti
e lontane.
Ritorniamo per un attimo a quei fatidici e contraddittori
anni settanta. Che cosa stava accadendo
nell’ambito del décor?
Come abbiamo già detto, in quegli anni l’offerta di
complementi per l’arredo era piuttosto limitata e
ben lontana da quella che è diventata attualmente.
Lo stesso valeva per i tessuti.
Le stoffe di un certo tipo erano genericamente chiamate
antiche, lampassi e damaschi in seta i cui patterns
il più delle volte erano stati riveduti e corretti
da disegnatori che ne avevano leggermente castigato
i colori e semplificato i motivi, rendendoli più
scialbi, dando una versione alterata, più essenziale e
adatta alla sensibilità moderna, di quello che era il
tessuto in origine. Solo alcune particolari realtà
produttive accostavano alle abituali proposte collezioni
imperniate su tessuti distinti da disegni e cromie
filologici.
I primi a dar vita a questo processo sono stati i francesi,
accanto alla veneziana ditta Rubelli in Italia.
Quando, terminato il liceo, si è trattato di scegliere
una facoltà, non ho potuto che decidermi per architettura,
anche se era un periodo in cui ero molto attratto
dalla conservazione dei beni artistici.
Mi coinvolgeva molto lo studio della storia dell’arte
– più che l’architettura stessa – intesa proprio come
possibilità di conservare e tramandare i beni artistici.
C’è una motivazione speciale, una ragione particolare
che ti ha portato a intraprendere gli studi in
architettura?
Senza alcun dubbio il creare. L’idea di creare è la
motivazione più forte che mi ha spinto verso lo studio
dell’architettura, perché comunque c’era in me
un grande desiderio di comporre, di cercare e quindi
trovare dei legami, di stabilire e identificare dei
rapporti, delle analogie e liaison geometriche fra gli
oggetti.
Lo studio dell’architettura è stato un passaggio importante,
a tratti anche difficile, specie quando si è
trattato di superare gli esami tecnici e matematici,
per i quali non ero assolutamente portato.
All’università alcuni professori parlavano di “visione
spaziale”. Parole che allora risultavano vagamente
misteriose, non si capiva mai fino in fondo che
cosa volessero significare.
A mio parere la visione spaziale è un qualcosa di assolutamente
importante, anzi di fondamentale. Una
capacità di approccio e lettura progettuale che si acquisisce
col tempo e che è basilare sia per la composizione
di un edificio sia per il disegno di un interno.
Rimane comunque un dato insostituibile nella mia
metodologia di lavoro. Io compongo infatti in una
maniera molto classica. Lo spazio è segnato da direttrici
che terminano in punti focali, gli eye catchers.
In questa griglia spaziale vengono posizionati i mobili
e gli oggetti che assumono valenza di volumi.
Abbiamo parlato di architettura. Ma che significa
per te la parola décor?
L’abbiamo detto in vari modi e sotto diverse forme:
sono stato sempre molto attratto dal décor. La decorazione,
il ruolo e l’importanza degli interior decorators,
di certo non possono essere considerati una
storia tipicamente italiana. Gli italiani sono e sono
stati soprattutto architetti e quindi una grande, poliforme
e rivoluzionaria generazione di designer.
Il décor è una vicenda che parla francese e inglese,
ed è in Francia e Inghilterra che ha avuto modo di
crescere e svilupparsi lungo, naturalmente, gli ultimi
sessant’anni del Secolo breve.
Quindi, lo posso ben dire, mi sono praticamente dovuto
inventare un mestiere, nel senso che questa
tradizione in Italia era assente. Anche all’università
tutto ciò non veniva né insegnato, né tantomeno vi
si accennava in alcun modo. Erano anni impegnati,
politicamente militanti, branchés, in cui al solo parlare
di colori, di luci, di tessuti, praticamente si rischiava
l’anatema. Allora si dava molta importanza
ad altre tematiche, più sociali, pubbliche. A nessuno
sembrava potesse interessare risolvere i problemi
di ambienti privati. La mia formazione è sostanzialmente
quella di un autodidatta. Me la sono conquistata
giorno per giorno, soprattutto guardando, cercando
di capire, di assorbire le tecniche da quegli
artigiani che erano sopravvissuti alla violenta ondata
di modernismo degli anni settanta. Un urto che
di colpo aveva spazzato via il passato.
Che rapporto avevi con gli artigiani?
Il rapporto con gli artigiani, che si sentivano gli ultimi
depositari, le vestali della tradizione, era piuttosto
problematico. Spesso si rivelavano come personaggi
pieni di contraddizioni, imbevuti di punti
di vista angusti e di preconcetti personali. Gli artigiani,
in quei ribollenti anni settanta, seguivano
ancora schemi molto rigidi, riflessi secolari e anacronistici
che facevano sì che non sempre fossero
così affidabili e credibili. Questa contraddittorietà,
questo arduo dualismo rispetto al tempo in cui si
erano trovati a vivere e operare, costituiva il loro
maggiore limite e insieme la loro vera peculiarità,
originalità e bellezza.

Si spalancano finalmente gli anni ottanta, quelli
dell’edonismo reaganiano, della letteratura minimalista
americana, l’epoca eroica della disco music
e del riflusso, di Bruce Chatwin e di Milan Kundera.
Che cosa si muove dunque negli eighties sotto
lo specifico profilo dell’interior design?
Dopo l’onda modernista, il décor, che in Italia fino
a quel momento veniva visitato solo da Mongiardino
e da pochi altri, ha avuto un momento di grande
auge proprio verso la fine degli anni ottanta.
Uno sviluppo esponenziale che ha coinciso con un
nuovo interesse per l’arredo e ha segnato la nascita
di tante riviste di arredamento, come “AD”, versione
italiana dell’americana “Architectural Digest”.
Si avvertiva un forte interesse per la decorazione ma
anche per la libertà semantica che la stessa permetteva,
come reazione quindi anche ad un tipo di architettura
molto rigida e troppo controllata. Colori,
tessuti, elementi decorativi, tutto quello che era stato
censurato, veniva ora proposto in gran quantità.
Un’ivresse di consumismo, la felicità sperimentale e
ludica del décor.
Ma c’erano anche forme di “conservatorismo”: più
o meno ogni settimana venivamo visitati da fanciulle
di buona famiglia che avevano seguito degli
stage presso una celebre scuola di Bruxelles che insegnava
a dipingere il finto marmo e altre tecniche
ornamentali di antica ascendenza. Una vera iattura,
che andò avanti per oltre un decennio. Le jeunes
filles in questione erano perlopiù vittime della
loro stessa ingenuità. Nella maggioranza dei casi si
applicavano al lavoro con lo stesso approccio metodologico
con cui si sarebbe potuta impastare una
torta margherita. Una concezione superficiale e
totalmente decontestualizzata di ciò che veniva
prodotto. Poco importava se nel Cinquecento il
faux marbre fosse eseguito in un modo, nel Settecento
non volesse più imitare il vero e nel XIX secolo
esso cercasse degli effetti quasi iperrealisti.
L’importante era spalmare colore ovunque, ossessivamente,
e mettere insieme qualcosa che sapesse
di decorato.
Décor, decorazione… Abbiamo girato fin troppo
intorno a questo concetto. Paolo, come definiresti
la tua chiave interpretativa rispetto a questo tema,
che cosa caratterizza davvero il tuo gusto, la tua
personale ricerca stilistica?
Io ho sempre concepito la decorazione come qualcosa
che ruota intorno a un oggetto o a un mobile
antico. Un qualcosa che non vive di vita propria…
L’alternativa è decontestualizzare, liberare l’oggetto
dall’intorno, cercando nuove alleanze con materiali
e situazioni, identificando ulteriori sfide, altre
inattese possibilità narrative.
Si intavola un gioco anche intellettuale, nel voler
ricreare un fondale d’epoca. Per me quella forma di
décor fatto solo di tessuti e di troppi oggetti “di decorazione”
e quindi non autentici, non ha senso,
diventa un mero esercizio di stile, un puro divertissement,
sterile e piatto. A me serve sempre un elemento
cardine cui girare intorno, un perno ideale
attorno al quale si impagini, possa prendere vita la
griglia spaziale. Mi sembra più consono, per accompagnare
un oggetto importante, una scultura o un
bel quadro antico, optare per un tipo di decorazione
più semplice, a volte più popolare e perfino prosaica
dell’oggetto stesso. Questo conferisce all’insieme
un tono più italiano, più teatrale e insieme
décontracté, che non prevarica l’oggetto ma si adegua
felicemente a divenirne il fondale. Penso a questo
proposito al sarto di corte della regina Elisabetta
II d’Inghilterra, Sir Norman Hartnell, una vera
istituzione british per decenni al servizio della monarchia
inglese, che amava ripetere di non eseguire
vestiti ma di inventare fondali per i gioielli dell’augusta
dama…
Ti riferisci spesso al concetto di “naturalezza”.
Che cosa vuol dire per te naturalezza?
È molto importante per me il concetto di “naturalezza”.
Mi piace che le case risultino come se fossero
frutto di una lunga sedimentazione, che appaiano
usate, come se niente ne avesse intaccato la storia,
nessuna cesura fosse avvenuta. Soprattutto è bello
quando non si avverte troppo il passaggio e l’intervento
specifico, la mano di un architetto. Non dico
di arrivare agli eccessi estremisti di quella cliente di
David Mlinaric che, trovando troppo nuove le tende
che le avevano appena consegnato, le tagliuzzò
con una lametta da barba, con uno spirito lievemente
sadico di vera faded englishness, ma devo confessare
un’attrazione fatale per le cose fané, per le
patine e per i segni preziosi orditi dal quieto o tumultuoso
trascorrere del tempo.
Trovo che le case inglesi, con il loro charme sovrapposto
e multiforme, apparentemente casuale, siano
le più belle del mondo perché possiedono appieno
questo senso di naturalezza. Conservano oggetti e
quadri di grande importanza mischiati alla vita quotidiana,
a cose utili, divani morbidi e consunti, bergères
in vecchio cuoio borchiato, con un generale
avvolgente effetto cozy home. Nel Regno Unito raramente
si verifica quello che – come scriveva Harold
Acton – avviene sovente nelle case italiane,
specie in quelle importanti, il sembrare cioè fatte
“per gli altri”, stage set di rappresentazione sociale e
politica. Una hall, un atrio dalla pavimentazione a
damier bianco-nera, con un aulico ritratto di van
Dyck o di Peter Lely alla parete e in terra una teo-
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ria di stivali di gomma infangati, riesce immancabilmente
ad affascinarmi. Non prendermi per snob però.
No, non apprezzo molto il verbo “smitizzare”.
Credo fermamente che le case inglesi abbiano piuttosto
un senso complessivo, perseguano con sapiente
nonchalance un effetto totale, che contraddittorie,
seducenti e sornione come sono, riescano a definire
un bizzarro codice che incrocia spontaneità e regola
estrosa, dove tutto mantiene il proprio valore: il
van Dyck come gli stivali di gomma.
Paolo, poco fa ti sei definito praticamente autodidatta.
Lungo la tua strada professionale hai incontrato,
avuto, idealmente identificato qualche
maestro?
Mi chiedi chi siano i miei maestri. Parlerei piuttosto
di fonti di ispirazione, di cruciali punti di riferimento.
Sicuramente ci sono degli interior designers a
cui ho mi sono molto ispirato, che possono essere
Renzo Mongiardino, David Hicks, insuperabile nello
sciogliere l’oggetto dal contesto, o John Fowler,
che ha fatto un grande lavoro di repulisti nelle maggiori
residenze aristocratiche inglesi.
Mongiardino, così come Emilio Terry, è stato uno
straordinario maître della decorazione, un convettore
di sensazioni che parlava naturalmente tutti gli
idiomi del passato e, come un geniale illusionista, li
riconnetteva al presente. Mi piace Jacques Garcia,
la sua opulenza immaginifica, capace per certi
aspetti di reinventare il grand esprit francese, operazione
di metempsicosi d’un gusto unitario impossibile
da noi in Italia. Idem per Peter Marino, che
quando faceva il decorateur sapeva giocare alla pari
con tutte le epoche e gli ambiti stilistici. Apprezzo
David Mlinaric perché è molto trattenuto, astratto
e compito, certe volte forse esageratamente. Adoro
quello che ha saputo fare nelle proprie case il gran-
de couturier Hubert de Givenchy, che ha raggiunto
forse la massima espressione di questa idea che bilancia
la spinta all’essenzialità e un lusso colto, scelto,
intellettuale.
Ritieni che esista un rapporto tra moda e décor?
E se sì, quanto pesa in termini di influenza reciproca?
È naturale. Penso che esista e rivesta aspetti significativi,
il rapporto tra moda e interior design. Per un
certo verso talvolta mi sono sentito come un couturier
di altri tempi, allevato per poter soddisfare una
clientela con un determinato tipo di esigenza. Un
couturier che quando finalmente si è sentito pronto,
ha scoperto che nel frattempo i bisogni erano molto
cambiati e che molto ancora cambieranno.
Sono stato definito più volte come un sarto di case,
come qualcuno in grado di creare un abito su misura
per un cliente. In questo mi ha sorretto la mia visione
empiristica e non idealistica, un’ottica essenzialmente
pratica. Mi immedesimo in un sarto che
nel chiuso dell’atelier si può abbandonare a pensare
a un meraviglioso vestito creato per la fisicità astratta
di una mannequin, ma che è sicuramente capace
di adattarne il concept ardito alle proporzioni e ai
desideri ben più reali e limitanti di una cliente. Così
dicasi per le case.
Con il “preesistente”, con quanto esiste già nelle
case dove ti trovi a operare, come ti regoli di
solito?
Il rapporto con il preesistente quando si affronta un
progetto è molto contraddittorio. Sicuramente bisogna
capire l’animo, la connotazione più profonda e
autentica della casa, riuscire a interpretare quello
che essa evoca e suggerisce, scoprire quanto in fondo
è già in nuce. D’altro canto bisogna anche avere

la forza di distruggere. Come afferma Vita Sackville-West,
per fare del buon giardinaggio la crudeltà è
una delle regole fondamentali, una conditio sine qua
non. Quando una cosa non piace, non serve, non
funziona nel contesto generale, bisogna avere il coraggio
di eliminarla. Direi che questo principio funziona
benissimo anche per le case.
Hai introdotto Vita Sackville-West, la scrittrice,
castellana e gardener di Sissinghurst, credo non a
caso. So che anche tu sei un grande appassionato
di giardinaggio e che possiedi un meraviglioso giardino
perennemente in fieri, che incastona addirittura
delle follies di ispirazione barocca e un labirinto,
nella tua antica casa di famiglia nella campagna
cuneese.
Il mio amore per il giardinaggio risale agli anni settanta.
Con amici di famiglia spesso si passavano
intere estati in Inghilterra, approdando su un pianeta
botanicamente sconosciuto, dopo aver lasciato
un’Italia di tageti e begoniette dai colori stridenti.
Per anni abbiamo compilato ordini a ditte
inglesi, anche improbabili, che ci inviavano vasetti
con piantine in condizioni miserabili a delle cifre
spaventose.
Questo ha fatto sì che io coltivassi molto un lato di
conoscenza botanica, sempre in virtù di quell’aspetto
un po’ ossessivo, di quel leggero fanatismo di cui
si parlava poc’anzi. Il grande boom che più di recente
ha avuto il giardinaggio nel nostro paese, ha sicuramente
reso tutto più facile. Mi interessa molto la
costruzione di un giardino, di nuovo legata a un
concetto di spazialità. Se, come si diceva prima,
non è cosa semplice individuare la spazialità in un
ambiente chiuso, doppiamente difficile è coglierla
all’aperto. Nel mio cammino di giardiniere appassionato,
molto mi sono serviti i libri di David Hicks,
dove egli disegnava un progetto direttamente sull’immagine
fotografica del luogo dove doveva intervenire.
Mi rendo pienamente conto di come nell’era
del rendering tutto ciò possa risultare quantomeno
arcaico, ma ritengo che a tutt’oggi questo sia
un sistema rapido ed estremamente efficace di immediata
visualizzazione. Il mio giardino, in gran parte,
oltre a degli inserti formali, è improntato essenzialmente
all’inglese, con muretti rustici, mixed border,
fitte siepi e rose antiche e rampicanti, oltre alla
presenza determinante dell’acqua e al disegno apparentemente
irregolare e pittoresco delle piantagioni
arboree. Mi viene in mente una frase del principe de
Ligne, pungente e ironico avversatore settecentesco
della nostra cultura sul tema, nel suo libro I Giardini
di Beloeil: “A parole sembra facile, ma sfido gli italiani
a fare dei giardini all’inglese. Il colore del suolo
e l’ardore del sole li privano di una piacevole varietà
di toni, di colore…”.
Generalmente come sono i tuoi rapporti con i clienti?
Di solito il rapporto col cliente è buono. Naturalmente
ci dev’essere una corrente di comunicazione
positiva fin dall’inizio. Come dice un mio amico
psichiatra, una diagnosi si fa in tre sedute. Io, che
sono ahimè piuttosto presuntuoso, pretendo di poterla
effettuare in una soltanto.
Generalmente, di primo acchito e in una sola volta,
si capisce se si potrà o meno costruire qualcosa insieme.
Io ho molto rispetto per il cliente, con cui bisogna
interagire, il che non vuol dire assecondarlo.
Rispettarlo vuol dire capire com’è, le sue esigenze, il
tipo di vita che conduce. Crudamente sostengo che
il cliente è come un cavallo: ci sono quelli che tirano
l’aratro e gli assi e i fuoriclasse, come i Ribot e i
Varenne, che vincono i gran premi. In sintesi si
tratta di capire fin dove ci si può spingere.
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Coco Chanel, adorabile cinica, sosteneva che ognuno
ha la faccia che si merita. Va da sé che ognuno ha
anche la casa che si merita.
Compreresti mai qualche oggetto o complemento
d’arredo in discount o grandi magazzini? All’Ikea,
per esempio?
Questa domanda è diventata ricorrente. Bizzarro,
me l’hanno chiesto spesso ultimamente se si possano
comprare degli oggetti, dei pezzi d’arredo in
qualche magazzino low cost. Quando domandarono
alla mitica Diana Vreeland, doyenne della moda internazionale,
leggendaria columnist ed editor di
“Harper’s Bazaar” e “Vogue America”, se una donna
poteva vestirsi nei grandi magazzini e dirsi elegante,
lei senza esitazioni rispose: “Sì, ma quanto ci è costato
perché possa farlo?”.
Qual è il massimo risultato, il segno del vero successo
conseguito da un tuo intervento progettuale
arrivato a completamento?
Bisogna consegnare un prodotto in cui il cliente
non si senta e non sia estraneo. Fra le cose più tragiche
che possano esistere vi è di sicuro una padrona
di casa che sembri un’ospite, completamente
scollata dal contesto in cui vive.
Il servizio più grande che si possa fornire a un cliente
è di creare un fondale rispetto al quale possa ritrovarsi,
di riuscire a dargli l’effetto che quello che
ha di nuovo è come se l’avesse sempre posseduto.
Questa è una grande vittoria.
Immagino che in corso d’opera un interior designer
debba forzatamente scendere a compromessi
rispetto al progetto iniziale… O no?
D’altro canto si tratta di un gioco di forze. Di me i
clienti quasi sempre dicono di non capacitarsi di come
io possa rimanere abbastanza morbido e malleabile
su certe cose, salvo poi irrigidirmi, chiudermi
inflessibile su altre, elementi che a mio parere conducono
in una direzione piuttosto che in un’altra.
Anche questo approccio si trasforma in un gioco di
concessioni. Molte volte l’interlocutore è una
donna, il rapporto è diretto con la padrona di casa.
Ciò vuol dire avere a che fare con alcuni atteggiamenti
divertenti e a volte contraddittori del
mondo femminile. Posso affermare che le donne si
convincono più facilmente e sono maggiormente
disposte a cedere, ma hanno anche la capacità di
cambiare opinione. In questo senso sono più desiderose
di evolvere, più pronte al cambiamento. È
sicuramente una loro forza. La clientela maschile è
certe volte esageratamente rigida. L’uomo che dice
subito no, resta generalmente sul no e questo spesso
non aiuta.
Ogni tanto mi faccio degli scrupoli, in virtù di
un’educazione ricevuta di tipo moderato piemontese,
su certe scelte. In fondo se fossi un pittore sceglierei
la palette di colori che più mi piace, ma in realtà
creo un prodotto che deve essere fruito da altri.
Credo comunque nel pieno rispetto del cliente. Ho
potuto vedere tante situazioni in cui gli architetti
praticamente violentavano la committenza, forse
anche in difesa delle proprie idee. Quella dell’architetto
è tradizionalmente una professione in cui tutti
credono di essere maestri. Oggi che la televisione
ha tolto ogni traccia di pudore, anche medici e avvocati
subiscono lo stesso trattamento.
Talvolta bisogna pure avere la forza, l’intelligenza e
la lungimiranza di lasciare sbagliare il cliente.
Ho letto una vecchia intervista di una cliente di
Russell Page, forse il maggiore garden designer del
Novecento, che a posteriori lo ringraziava perché,
pur avendo fatto lei di testa propria e avendo di
conseguenza sbagliato, Page non avesse mai sentenziato
“te l’avevo detto”. Puoi credermi: cerco di non
dire mai “te l’avevo detto”.
Una mia amica di lungo corso, Marina Giusti del
Giardino, dice sempre “Fai una casa con Paolo e
pensi anche di aver scelto qualcosa”.
Mi è sembrato davvero un gran complimento.
Ti è facile stabilire collaborazioni o condividere
un progetto con architetti, decoratori e altri professionisti?
A differenza di altri colleghi, mi intendo bene con
collaboratori che sono in genere persone che condividono
con me una parte di vita, che sono innanzitutto
degli amici. Questo non succede a tutti, però
per me è sempre stato così.
È accaduto con Silvia Sacchi, con cui ho aperto lo
studio, avviene sovente con Laura Marchesi, che è
stata anche mia compagna di università e con la
quale ho realizzato e realizzo molte case. Un’amica
da una vita.
Ho lavorato con Guido Toschi, uomo di vero e sottile
humour, con cui mi sono anche molto divertito,
prima che si dedicasse completamente alle sue tende
da giardino e ad allestire eventi. Con Nikos Gallis
che è greco e archeologo. Oggi spesso porto
avanti progetti con Riccardo Priolisi che viene da
tutt’altro campo, dalla moda, ma che comunque è
un ottimo collaboratore nel gioco di squadra. Mi
trovo bene con Davide Salvatico, che è più giovane,
sicuramente dotato di una struttura e una mentalità
molto “da architetto”. Insieme abbiamo affrontato
interventi più minimali, con un approccio
serrato al dettaglio architettonico.
L’importante, nella condivisione di un lavoro, è
avere un controcanto che a seconda dei casi sia leg-

germente o completamente diverso dalla tua visione,
con l’obiettivo finale di mettere nettamente a
fuoco la situazione.
Paolo, rimani un inguaribile nostalgico dei fasti
del passato o segui da vicino anche la scena artistica
delle avanguardie contemporanee?
Per quanto possa sembrare un aspetto marginale
guardando le foto degli ambienti che creo, sono
molto attratto dall’arte moderna e contemporanea.
Soprattutto dall’ambito del contemporaneo, che
tenta di decifrare le mille contraddittorie pulsioni, i
rapidissimi cambiamenti e l’inquietudine del tempo
che stiamo vivendo. Oggi sicuramente non risulta
tanto semplice capire quale sarà il segno della nostra
epoca. Un dibattito che mi interessa molto, mentre
mi appassionano meno gli aspetti più glamour, il
presenzialismo, il conformismo acritico a volte anche
“di massa” che il fenomeno arte contemporanea
ha ormai assunto, sovente trasformandosi in una
sorta di kermesse modaiola. Gran parte della fascia
degli aficionados, il popolo degli iniziati veri o presunti,
affronta oggi esposizioni, events, performances
e rassegne di mercato, ammantandosi dello stesso atteggiamento
glamour che distingueva i partecipanti
alle mostre di antiquariato anni orsono.
Dunque ti è congeniale un qual certo eclettismo,
una libertà di scorrazzare per epoche e diversi, anche
lontani, milieux di produzione artistica?
Sono attratto da un approccio eclettico al progetto,
dal poter giocare con epoche e situazioni diverse. Un
senso di autonomia, di vera libertà che mi stimola
molto. Cerco di non farmi fuorviare da preconcetti,
mi sforzo di avere e di richiedere un buon livello delle
opere d’arte che verranno inserite negli ambienti
cui sono chiamato a dare vita. Sono per un approccio
immediato e veloce all’iter progettuale e credo
che la prima suggestione sia quasi sempre quella giusta.
Amo la rapidità del gesto. Penso allo spettatore
che osservava Pablo Picasso mentre era intento a disegnare
in pochi istanti le sue meravigliose colombe,
che commentava sbrigativo, “Ci ha messo trenta secondi”.
A un astante che si era permesso una simile
chiosa, un giorno, Picasso rispose tranchant: “Sì, ci
ho messo trent’anni e trenta secondi”.
Sono contrario, anche nell’arredo, ad adottare soluzioni
contorte, inutilmente manierate, pesanti, zelanti.
L’astuto e brillante Tayllerand invariabilmente
raccomandava: “Surtout pas trop de zèle”.
Come ti sembra l’Italia di oggi? In via di miglioramento
rispetto alla protezione dell’ambiente e del
patrimonio artistico, oppure la febbre rimane alta?
Mi indignano profondamente la noncuranza e la di-
struzione sistematica con cui l’Italia sta decimando
il proprio inimitabile e variatissimo paesaggio. Mi
scandalizzano quegli orrendi cartelloni pubblicitari
di cui una parte di intellettuali militante nella difesa
dell’ambiente si lamentava già oltre quarant’anni
fa. I capannoni industriali che di continuo spuntano
lungo le strade, presentati come delle cattedrali
gotiche e non collocati in una zona apposita. Con
una mano di colore mimetico e una doppia fila di
piante davanti diverrebbero senz’altro meno invasivi.
La Francia è un po’ il mio paese d’elezione, dal
quale sono perennemente affascinato, sedotto. Forse
anche perché ritengo che di là dalle Alpi si sia saputo
cogliere il meglio, l’essenza stessa della classicità
italiana, rendendola come più ordinata, tersa,
fruibile. Sono ammirato dal senso di continuità,
dalla forza di appartenenza e richiamo della tradizione
francese. Artigiani e sarti che sono e si sentono
un po’ tutti eredi spirituali della marchesa di Pompadour.
Talvolta si corre il rischio di cadere nello
stucchevole, nella maniera, nel troppo pensato e
apparecchiato. Ma la Francia è vero “lusso”… Come
certi antiquari parigini, irraggiungibili, favolosi.
Se ti chiedessero un consiglio, un’ispirazione nel
décor o in un altro settore, che cosa risponderesti?
Succede che ti venga chiesto un consiglio, un parere
nelle interviste, sui vari giornali di arredamento.
Per anni i miei collaboratori mi hanno preso in giro
perché invariabilmente, come se non avessi
nient’altro in mente, in maniera perfino automatica,
dicevo sempre “il varialuce”.
Ancora oggi trovo fantastico quest’accessorio molto
semplice, che però permette di variare, modulare, di
rendere più o meno intenso un elemento così importante,
basilare come la luce di un ambiente.
Seriamente consiglierei di non aver paura di sbagliare,
di avere sempre la forza di ricominciare. Il
giardinaggio, che è una tecnica quasi monastica,
una sorta di percorso iniziatico e meditativo, indirizza
alla tenacia, a resistere. Alla fine, solo se si è
veramente interessati si arriverà a creare un ambiente
soddisfacente.
Consiglierei a tutti di innamorarsi di un oggetto di
carattere, un manufatto che in sé riassuma un’epoca
intera, un mondo. Un qualcosa che possa essere
accolto bene anche in ambienti non necessariamente
aulici, nel quale ci si può perdere guardandolo
sotto una luce diversa, accostato a materiali e tessuti
più semplici.
Caro Paolo, il futuro come lo vedi, che cosa ritieni
possa avere in serbo per te?
Sicuramente il lavoro più bello e interessante, cioè
quello che devo ancora fare.
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CESARE CUNACCIA INTERVIEWS
PAOLO GENTA TERNAVASIO
Paolo, can you tell us how it all began and the story
behind a job that has become your life?
I could tell you that I surrounded myself with boxes
of Lego as a child but it wouldn’t be true. I wasn’t
really interested in buildings. Thinking back, it all
started with antiques, with porcelain. It all began
because my brother was taking piano lessons, without
much success I must say, but he did them. I was
asked to do the same but it bored me to death. I didn’t
have a talent for playing and I was not interested
in playing music.
My mother had a great work ethic and believed we
should be kept busy and, as I enjoyed drawing, she
sent me to a friend of hers who painted ceramics.
Eureka! I loved it. Being a slightly obsessive child, a
bit of an anorak, I set out to learn all the leading
European factory marks.
That was roughly at the age of ten, perhaps even
earlier, and I had already gone through a previous
phase in which I had to learn everything about the
animal world.
So, collecting was the next step…
That is exactly what happened. I started collecting
porcelain. My little world linked somehow to
the idea of treasure, a treasure island. It is a dream
all children develop and secretly cherish sooner or
later. At last, I had my own little treasure. I was already
fascinated by houses and rooms. My painting
teacher’s home left a lasting impression on me.
It had a strange fairytale atmosphere, like an enchanted
castle. An air of decadent accumulation
pervaded it, like somewhere D’Annunzio would
have lived, and it was still dominated by the bourgeois
hauteur of this lady’s mother and aunts, present
in large pastel pictures by Vittorio Cavalleri, a
well-known Piedmontese portrait painter of the
Belle Époque. The curtains and fabrics had seen
better days and were at least thirty years old. Large
table lamps had gold braiding and worn red silk,
rent by passing time. The light was very atmospheric,
intense and truly magical. I don’t know if
I found it amusing, surreal or melancholic but my
first drawing lesson was around the month of
March and a huge Christmas tree, or rather what
was left of it, was still standing in the middle of
the sitting room. You can imagine what state it
was in.
Houses have fascinated you since your childhood,
haven’t they? They gave you a sense of belonging;
you identified with them as places of play and
fantasy…
My experience was mainly one of fairly construed
homes and decor because my mother took a great
interest in it. She liked to furnish, compose and
control her domestic landscape, down to the tiniest
detail. She often drew my brother, seven years
older than me, and me into her choices, asking us
to participate in the creative process. Another
house that greatly appealed to me when I was
young, and made a certain impression on me, was
that of my mother’s aunt and uncle, a classical 19 th -
century Piedmontese palazzotto in the main street
of a village and featuring a classical enfilade of
rooms and sitting rooms: the red room, the yellow
room, the green room... It, too, exuded an air of
great decadence, dusty nostalgic bric-a-brac. Plays
of light and shade, misted mirrors, elaborate alabaster
urns, candelabra and barbotines on the fireplaces
and the subdued chimes of Napoleon III cartel
clocks with glass domes. The interiors had seen
better days but retained that fairytale and now-lost
oneiric air.
017

018
So far, you have only spoken of houses and interiors
from the past, homes charmingly abandoned
to the passing of time. But the 1970s were also a
period of crucial change and revolution…
I refer to those things, which may seem ridiculously
Proustian, partly because back then, and it may well
have been the early 1970s, we had not yet experienced
that abundance of objects and furnishings to
which we have become accustomed, almost inured,
now. Homes were basically apartments where you
could find Italian or perhaps northern European design,
and at the lower levels were filled with imitation
Tyrolean or baroque dinettes. There were also
homes furnished by great antiquarians, which were
certainly more lavish, designed and theatrical, inspired
by the magnificence of the past. These were
the basic types although the first modern designerinteriors,
stamped with specific personality and status
were beginning to appear.
Antiquarians appeared on the scene, at this stage,
one in particular from Turin, of course, a figure
that has become legendary. How did you come under
Pietro Accorsi’s influence?
I spent time with many of Turin’s antique dealers
while studying at high school. The city was filled
with art and antique dealers, thanks to its past as a
Savoy capital and the decorative legacy of local
18 th -century style, filled with sophistication and
creative beauty. The famous Accorsi gallery was the
one that fascinated me most.
Pietro Accorsi was already a legend by then. His
amazing gallery, filled with marvels, was a vast
apartment at 55, via Po, today the home of the
foundation bearing his name. I remember a pungent
smell of cat’s pee always hung in the air. Accorsi’s
place was a pandemonium of objects, furnishings
and paintings; the gallery was actually unrecognisable
from one visit to the next. The landscape
changed drastically every week. Bureaus, mirrors,
tapestries, console tables, armchairs, desks and boiseries,
a huge quantity of goods arrived and was then
quickly dispersed, sold to private clients and antique
dealers in Italy and abroad.
My mother was a sometime client of his. When I
met Pietro Accorsi, who died in 1982, the antique
dealer was an elderly man, about 80, and I associated
with him until he died. They said he had a harsh
and fearsome nature but, actually, he was a remarkably
intelligent man, extremely funny and with a
formidable, slightly cynical sense of humour, tinged
with that blasé scepticism typical of those who have
had a long and amazing life.
He was born into a modest family in 1891, in the
caretaker’s lodge of the building where he lived until
his death. By 1935, thanks to his dealings, Accorsi
was wealthy enough, with the backing of the
then Prince of Piedmont Umberto of Savoy, to purchase
the Trivulzio collection in Milan, the largest
painting collection in Italy. It had remained intact
over the centuries and comprised masterpieces such
as Antonello da Messina’s Portrait of a Man, a 15 th -
century painting that he later donated to the Museo
Civico of Palazzo Madama in Turin.
He was an out of the ordinary character who had
met all the greats of his times, from Ford and Patino
to Charlie de Beistegui, owner of 18 th -century
Palazzo Labia in Venice and Chateau de Groussay,
not far from Paris, and a client of Le Corbusier and
Emilio Terry. Accorsi helped furnish the Agnelli
homes in Corso Matteotti and Villar Perosa and his
hugely demanding private clientele included the
splendid Baroness Marie-Hélène de Rothschild, one
of the most dazzling socialites in the period of the

1950s-early 1980s. He was a very international figure,
supplying what used to be known as the monde,
a fairly small circle of collectors, aesthetes and
lovers of grand décor, which they wanted to recreate
in their own homes.
When did contemporary style make its foray into
your career?
As well as Accorsi’s interiors, which were more
than mere reconstructions and recreated the true
fragrance of several past epochs, when I was practically
still a boy, in the 1970s, I was drawn to the
more contemporary scenarios that were at last starting
to appear. There were hardly any interior decor
magazines in Italy, save for foreign ones. At home,
we had Grazia, one of the few Italian magazines for
women and it had a furnishing section. Some time
earlier, Grazia had published a repertoire of houses
in Italy. I can still remember the title, Le Belle Case
Italiane, with photographs by Ludovica Doria, and
there were some very modern interiors.
Shortly afterwards, Willy Rizzo, a photographer,
playboy and talented designer, launched the latest
rage with his innovative shops. His interiors moved
away from classical design and used light-coloured
wood, metals, glass and Plexiglas to convey a modern,
almost abstract air of luxury. Simple, linear
spaces, enamelled walls, his famous steel and brass
coffee tables and large suede sofas. Oriental objets
d’art were introduced into this context to add a
touch of contrast, a sublimated legacy of 18 th -19 th
century exoticism in Europe.
Oriental art objects are another love, perhaps a
natural next addition to your medley of sensations
and explorations. What would you say?
To my eyes, Oriental objects truly came from a dis-
tant world. In a certain sense, I found myself reliving
that thrill of the exotic that fascinated the European
market in the 18 th century. I am not talking
about centuries ago, it was only the Seventies although
it may seem ridiculous and archaic when
you think that everything is close at hand, accessible
and perfectly assimilated today. The world really
has shrunk and is the same at all latitudes as a result
of globalisation. Exoticism is on the path to extinction.
My first major trip with friends had, therefore, to
be to the Orient. I remember being slightly disappointed,
though, just as the travellers’ diaries written
two hundred years earlier complained that the
roofs were not all as pointed and picturesque as
those on the Coromandel screens. I developed a
passion for the Orient after coming into contact
with different epochs and styles, from my teenage
love for Art Nouveau to the post-teenage one for
1930s’ Art Deco.
I had, however, also gone through gold-background
painting and lofty age furnishings. A whole array of
different and distant signs, aesthetics, sensitivities
and influences.
Let us return briefly to the crucial and contradictory
1970s. What was happening in décor?
As I have said, the range of furnishings on the market
was fairly limited in those years and far removed
from what it has become today. The same applied to
textiles. Certain kinds of fabrics were generically
classed as antique – silk lampas and damasks in patterns
that had usually been revisited and corrected
by designers who had slightly toned down the
colours and simplified the motifs, making them
more lifeless and producing distorted, plainer versions
of the original fabrics, better suited to modern
019

020
tastes. Only certain productions flanked their standard
offer with collections based on fabrics featuring
philological designs and colours.
The French were the first to commence this process,
alongside the Venetian firm Rubelli in Italy.
When I finished high school and had to choose a
faculty, it could only be architecture although I was
greatly drawn to the conservation of the artistic
heritage at the time. I was more fascinated by the
history of art than architecture itself, in the sense of
the ability to conserve and pass down artistic assets.
Is there any special reason that steered you towards
architectural studies?
The act of creating, without a doubt. The concept
of creating was my strongest drive to study architecture
because I had a huge desire to compose, to try
and find links, establish and identify relationships,
analogies and geometric liaisons between objects.
Architecture was an important passage but sometimes
a difficult one, especially when I had to pass
the technical and maths exams, which I was not at
all good at.
Some of the university professors spoke of “spatial
vision”, words that held a certain mystery at the
time; you never really knew what they meant.
In my opinion, spatial vision is crucially important,
indeed it is essential. It is a skill in your design approach
and interpretation that you acquire over
time and it is key to both the composition of a
building and the design of an interior.
It remains invaluable to my work method and I
compose it very classically. The space is marked by
lines that terminate in focal points, eye catchers.
The furniture and objects that provide mass are positioned
within this spatial grid.
We have spoken of architecture but what does the
word décor mean to you?
I have said it in several ways and in various forms. I
have always been greatly attracted by décor. Decoration
and the role and importance of interior decorators
cannot be considered typically Italian. The
Italians are and have been principally architects, a
large, multifaceted and revolutionary generation of
designers.
Décor is something that speaks French and English.
It grew and developed over the last sixty years of
the short century in France and England.
I can happily say that I virtually had to invent a
trade for myself, in the sense that this tradition was
lacking in Italy. It was neither taught nor even mentioned
at university. Those were politically militant
years, branchées, you practically risked anathema by
merely talking about colours, lights and fabrics. Far
more importance was attributed to other more social
and public issues. No one seemed interested in resolving
the problems of private interiors. I am basically
self-taught. I conquered it one step at a time,
mainly by observing, trying to understand and absorbing
the work methods of craftsmen who had survived
the violent surge of Modernism in the 1970s,
an impact that had suddenly swept away the past.
What relationship did you have with the craftsmen?
My relationship with the craftsmen, who thought
they were the last custodians, the repositories of tradition,
was quite problematical. They often proved
to be full of contradictions, riddled with narrow
points of view and personal preconceptions. In the
vibrant 1970s, the craftsmen were still adhering to
rigid patterns with age-old and anachronistic repetitions
that meant they were not always reliable and
credible. This contradiction, this testing dualism
compared with the times they found themselves living
and working in, was their greatest shortcoming
but, equally, what made them truly distinctive, original
and beautiful.
The 1980s burst upon us at last, those of Reaganite
hedonism, Minimalist American literature, the
heroic times of disco music and cultural reaction,
Bruce Chatwin and Milan Kundera. What was
happening in the Eighties, specifically in terms of
interior design?
After the Modernist surge, decor, which had only
previously been visited in Italy by Mongiardino and
few others, became extremely popular in the late
1980s. This seismic shift coincided with a new interest
in furnishing and brought the foundation of
many interior magazines, such as AD, the Italian
version of the American Architectural Digest. There
was great interest in decoration but also in the semantic
freedom it allowed, partly as a reaction to a
rigid and controlled type of architecture. Colours,
fabrics and decorative features – everything that
had previously been censored – were now on tap in
huge quantities. It was consumer euphoria, the experimental
and playful joy of decor.
There were also forms of “conservatism”. Nearly
every week we were visited by girls from good families
who had done courses in a famous school in
Brussels on how to paint imitation marble and other
old ornamental techniques. It was a real disaster and
lasted more than a decade. The jeunes filles in question
were mostly victims of their own naivety. In
most cases, they applied themselves to the task with
the same method required to make a sponge cake. A
superficial and totally decontextualised approach to

what was produced. Little did they care that faux
marbre was executed in one way in the 16 th century,
that they no longer wanted to imitate reality in the
18 th century and that they sought almost hyper-realistic
effects in the 19 th century. What mattered was
spreading colour obsessively everywhere and putting
together something that looked decorated.
Décor, decoration… we keep going around this
concept. Paolo, what is your key to this subject;
what sets your taste and your personal stylistic research
apart?
I have always conceived decoration as something
that revolves around an object or a piece of antique
furniture. Something that does not have a life of its
own… The alternative is decontextualisation, freeing
an object from its surroundings, seeking new
combinations with materials and situations and
identifying fresh challenges, different and unexpected
narrative potential.
When you set out to recreate a period backdrop you
start a game that is partly intellectual. The form of
decor consisting simply in fabrics and too many
“decorative” and therefore not authentic objects
makes no sense to me. It becomes a mere exercise in
style, pure divertissement, sterile and uninspired. I always
need cornerstone to work around, an ideal
linchpin around which the spatial grid can come to
life. I think it is more in keeping to opt for a simpler
decor to accompany a significant object, a sculpture
or a fine antique painting, a decor that may be more
down-market or more matter-of-fact than the object
itself. This gives the whole a more Italian, more theatrical
but décontracté, feel, not overwhelming the
object but successfully becoming its backdrop. I am
thinking of the Royal Dressmaker to Queen Elizabeth
II, Sir Norman Hartnell, a real British institution
who served the English monarchy for decades
and always said that he did not make clothes, he created
backdrops for the august lady’s jewellery…
You often use the word or concept of “naturalness”.
What does it mean for you?
The concept of naturalness is hugely important to
me. I like houses to look like the product of a long
process of accumulation, to look lived in and as if
nothing had encroached on their history and it had
been seamless. Above all, I am happy when you
don’t really notice the passage and actions of the architect,
his hand. I am not saying we should go to
the extremes of a David Mlinaric client, who found
her recently delivered curtains too new-looking so
she slashed them with a razorblade in the true and
slightly sadistic spirit of faded Englishness, but I
must admit to a fatal attraction for the fané, for pati-
nas and the precious signs engineered by the quiet
or tumultuous passing of time.
I find that seemingly casual English houses, with
their charming and multiform strata, are the loveliest
in the world because they are in full possession
of this naturalness. They mix hugely significant objects
and pictures with everyday life, practical
items, soft, worn sofas and old studded leather
bergères, producing an overall enveloping sense of a
cosy home. In the United Kingdom, you rarely see
what, as Harold Acton wrote, often appears in Italian
homes, especially ‘important’ ones that look as
if they were designed “for the others”, stage sets for
social and political relations. A hall, an atrium with
a black/white damier floor, an aulic portrait by van
Dyck or Peter Lely on the wall and muddy wellington
boots lined up on the floor will always fascinate
me. But don’t take me for a snob, I am not fond of
“debunking”. I firmly believe that English homes
have an overall meaning and pursue the total effect
with skilful nonchalance; contradictory, seductive
and knowing, they manage to define a bizarre code
that crosses spontaneity with creative rule, in
which everything retains its own value, be it a van
Dyck or the Wellington boots.
Paolo, you have just described yourself as practically
self-taught. Have you encountered, had or
identified a Master during your professional career?
You are asking me who my Masters are. I prefer to
speak of sources of inspiration or crucial points of
reference. Certainly, some interior designers have
greatly inspired me, perhaps Renzo Mongiardino,
David Hicks, unparalleled at detaching an object
from its context, and John Fowler, who did a great
job of cleaning up the great English aristocratic residences.
Mongiardino, as too Emilio Terry, was an extraordinary
master of decoration, a convector of feelings
with a natural command of all the idioms of the
past and who, like a brilliant conjurer, reconnected
them to the present. I like Jacques Garcia, his luscious
opulence, capable in some ways of reinventing
the French grand esprit, an operation of unitary
metempsychosis that is impossible in Italy. The
same applies to Peter Marino who, as a decorateur,
successfully played on a level field with all the
epochs and areas of style. I appreciate David Mlinaric
because he is contained, abstract and complete,
perhaps overly so sometimes. I adore what the
great couturier Hubert de Givenchy has achieved in
his houses, perhaps reaching the maximum expression
of the balance between a desire for essence and
educated, select and intellectual luxury.
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022
Do you believe in a relationship between fashion
and decor? If so, how important is it in terms of
mutual influence?
Of course I believe there is a relationship between
fashion and interior design and it is a significant
one. In one sense, I sometimes feel like an old-fashioned
couturier, trained to satisfy a clientele with
certain needs. Then, when he finally felt ready, he
discovered that the needs had greatly changed in the
interim and were destined to change much more.
I have often been described as a tailor of houses,
someone who can produce a tailor-made garment
for a client. I have been sustained in this by my empiricist
and non-idealistic vision, essentially a practical
approach. I identify with the tailor closed in
his atelier thinking up a splendid garment for the
abstract physique of a mannequin but who is also
capable of adapting the bold concept to his client’s
far more real and limiting proportions and desires.
The same applies to houses.
How do you normally act with regard to what is
already there in the houses you work in?
The relationship with what is already there is highly
contradictory when addressing a project. Certainly,
you have to understand the soul of the
house, its most profound and authentic connotations
and manage to interpret what it evokes and
suggests – discovering what really is already in its
embryo. On the other hand, you must also have the
strength to destroy. As Vita Sackville-West says,
cruelty is one of the basic rules of good gardening,
a conditio sine qua non. If you do not like something,
it serves no purpose or it doesn’t work in the overall
context, then you must have the courage to do
away with it. I would say this principle works well
with houses, too.
You have mentioned Vita Sackville-West, the
writer, lady of the manor and gardener of Sissinghurst,
not by chance I believe. I know that
you, too, are an enthusiastic gardener and possess
a splendid garden that is constantly being planned
and that even incorporates baroque-style follies
and a maze, at your old family home in the Cuneo
countryside.
My love of gardening dates from the 1970s. We often
spent summers in England with family friends,
arriving on a botanically unknown planet after
leaving an Italy filled with French marigolds and
begonias in glaring colours. For years, we filled out
orders to English firms, some not very credible, that
would send us little pots of plants in a sorry state
and at scary prices.
This meant I cultivated one aspect of botanical
knowledge, again going back to that slightly obsessive
trait, that mild fanaticism we were discussing
beforehand. The huge gardening boom recently experienced
in Italy has made it all easier. I take great
interest in garden construction, once again linked
to the spatial concept. As we were saying earlier, it
may not be easy to identify in a closed environment
but it is twice as hard to grasp in the open air. On
my journey as an enthusiastic gardener, I have made
great use of David Hicks’ book, in which he drew
designs directly on photographs of the project location.
I am quite aware that all this may seem at the
very least archaic in our era of rendering but I believe
this is still a fast and extremely effective practice
of immediate visualisation. For the most part,
as well as some formal inserts, my garden is based on
the English style, with rustic walls, mixed borders,
thick hedges and old climbing roses, plus the crucial
presence of water and a seemingly irregular and picturesque
design of shrub plantings. The words ut-

tered on the subject by Prince de Ligne, pungent
and ironic 18 th -century adversary of our culture, in
his book Coup d’oeil at Beloeil springs to mind: “It
seems easy in words but I defy the Italians to create
an English garden. The colour of the soil and the
fierce heat of the sun deprives them of a delightful
array of hues, of colours…”.
What kind of relationship do you generally have
with your clients?
I usually have a good relationship with a client. Of
course, there must be a positive communication
flow from the outset. As a psychiatrist friend of
mine says, you can make a diagnosis in three sittings.
I am quite conceited I’m afraid and expect to
do it in just one.
Generally, the first time you meet, you know
straight away whether you can construct something
together. I have great respect for clients with whom
you must interact, but that does not mean indulging
them. Respecting them means understanding who
they are, their needs and the kind of lives they lead.
Bluntly, I would say that clients are like horses,
there are those that pull ploughs and then there are
the champions, like Ribot and Varenne, who win
grand prix. In short, it is a matter of understanding
how far they can be pushed.
Coco Chanel, that adorable cynic, argued that
everyone has the face they deserve. So, obviously,
everyone has the house they deserve.
Would you ever buy objects or furnishings in a
discount or large store? At Ikea, for instance?
This has become a regular question. Bizarrely, I
have often been asked recently whether you can
buy objects or furnishings in low-cost stores. When
the legendary Diana Vreeland, the international
doyenne of fashion, renowned columnist and editor
of Harper’s Bazaar and Vogue America, was asked
whether a woman could buy clothes in a department
store and call herself elegant, she immediately
replied: “Yes, but how much has making that possible
cost us?”
What is the greatest possible result, the indication
of a successfully completed design?
You have to deliver a product in which the client
doesn’t feel and isn’t a stranger. One of the most
tragic things ever is a lady of the house who looks
like a visitor, completely detached from the context
she lives in.
The greatest service you can provide a client is to
create a backdrop against which they can find
themselves and you manage to give the impression
that they had always owned what is actually new.
That really is a great victory.
I imagine that interior designers must necessarily
make compromises with regard to the initial design
during the work process… Is this true?
It is a question of forces at play. Clients nearly always
say they cannot understand why I remain fairly
cool and flexible about certain things and then
take a firm stance and refuse to shift on others that,
in my opinion, lead one way rather than another.
This also turns into a game of give and take. The
interlocutor is often a woman and my direct relationship
is with the lady of the house. This means
dealing with some amusing and, at times, contradictory
attitudes from the female world. I must say
that women are more easily convinced and more
inclined to give in but they also have an ability to
change their minds. In this sense, they are more
anxious to evolve and more willing to change. It is
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a female strength. Male clients can be overly unbending.
A man who says no straight away will
usually not change his mind and often this is not
helpful.
Now and again, given my unassuming Piedmontese
upbringing, I have qualms about certain choices.
After all, if I were a painter, I would choose the
colour palette I wanted but I am creating a product
to be used by others.
I do believe in total respect for clients. I have seen
so many situations in which architects were almost
coercing their clients, sometimes in defence of
their own ideas. That of the architect is traditionally
a profession in which they all think they are
masters. Now that television has removed all sense
of decency, doctors and lawyers are going the
same way.
Sometimes, you have to be strong and have the intelligence
and foresight to let clients make their
own mistakes.
I read an old interview with a client of Russell Page,
perhaps the leading garden designer of the 20 th century,
who thanked him after the event because, although
she had done what she wanted and made
mistakes as a result, Page never said “I told you so”.
Believe me, I try never to say “I told you so”.
An old friend of mine, Marina Giusti del Giardino,
always says “When you do a house with Paolo, you
think you have picked something.”
I consider that a great compliment.
Do you find it easy to work with others and share
projects with architects, decorators and other professionals?
Unlike other colleagues, I get on well with those I
work with, who are usually people who are a part of
my life, who are friends, first and foremost. This
does not happen to everyone but it has always been
so for me.
It applies to Silvia Sacchi, with whom I opened an office
and it has often applied to Laura Marchesi, who
was at university with me and with whom I have
worked on many houses. She is a lifelong friend.
I have worked with Guido Toschi, a man with a real
and subtle sense of humour. We had great fun
before he focused exclusively on his marquees and
organising events. With Nikos Gallis who is Greek
and archaeologist. Today, I often conduct projects
with Riccardo Priolisi who comes from a totally
different field, that of fashion, but who is an excellent
team player. I work well with Davide Salvatico,
who is younger and has very much “the architect’s”
structure and mentality. Together, we have
tackled more minimalist projects, with a strict focus
on architectural detail.
The important thing when sharing a job is to have
a contrasting view that is either slightly or totally
different from your own vision, depending on the
situation. This has the end aim of gaining a clear focus
of the whole.
Paolo, are you still incurably nostalgic about past
splendours or do you also keep a close eye on the
contemporary avant-garde art scene?
Although, looking at pictures of my interiors, it
may seem marginal, I am hugely attracted to modern
and contemporary art. The contemporary
sphere, in particular, which tries to decipher all the
contradictory impulses, the rapid changes and the
worries of the times we live in. Certainly, it is not
easy to understand what the sign of our times will
be. This debate fascinates me, while I am less passionate
about the more glamorous aspects, the
celebrity culture, non-critical conformity and sometimes
the “mass element” that the contemporary art
phenomenon has embraced, often turning into a
trendy kermis. Much of the aficionados, the real or
presumed initiated, today goes to exhibitions,
events, performances and fairs affecting the same
glamorous attitude that distinguished those participating
in antique exhibitions years ago.
So you like a bit of eclecticism and the freedom to
rove through different epochs and divers and
sometimes distant artistic productions?
I am drawn to the eclectic approach and being able
to play with different epochs and situations. The
sense of independence and real freedom stimulates
me hugely and I try not to be misled by preconceptions.
I make an effort to obtain and request a good
standard in the works of art that will feature in the
interiors I am asked to design. I like an immediate
and fast approach to the design process and I am
convinced that the first impression is always the
right one. I love rapid gestures. I am thinking of the
onlooker who watched Pablo Picasso draw his
splendid doves in just a few seconds and dared make
the comment, “It took him thirty seconds”. Picasso
replied acerbically: “Yes, it took me thirty years and
thirty seconds”.
I am contrary, also in furnishings, to the adoption of
convoluted, needlessly affected, heavy and overzealous
solutions. The astute and brilliant Talleyrand
invariably advised: “Above all, not too
much zeal”.
What do you think of today’s Italy? Are we making
improvements in terms of protecting the environment
and artistic heritage or is the patient
still ill?

I am absolutely outraged at the neglect and systematic
destruction with which Italy is decimating its
unique and hugely varied landscape. I am scandalised
by those horrendous advertising hoardings
that a number of militant environmentally friendly
intellectuals criticised more than forty years ago.
Industrial sheds are constantly springing up along
the roadsides, presented as Gothic cathedrals and
not allocated special places. A coat of camouflage
paint and some trees would make them less invasive.
France is, to some degree, my adopted country
and it always fascinates and seduces me. This may
be partly because I believe that, on the other side of
the Alps, they have been better able to grasp the
very best, the essence, of Italian classical style and
make it more orderly, terse and usable. I admire
their sense of continuity, the strong sense of belonging
and appeal of the French tradition. Craftsmen
and dressmakers all are and feel spiritual heirs of
Madame de Pompadour. Sometimes, there is a risk
of lapsing into the mawkish, into mannerism, the
over construed and dressed. But France is true luxury…
as are certain Parisian antiquarians, beyond
reach but fabulous.
If you were asked for advice or inspiration in décor
or some other sector, what would you reply?
Sometimes, you are asked for advice or an opinion in
interviews with an interior magazine. For years, those
working with me would laugh because, invariably, as
if that was all I had in mind and automatically, I
would say “light dimmers”. I still find this simple accessory
fantastic. It allows you to alter, modulate and
increase or decrease the intensity of that important
and basic feature that is ambient lighting.
Seriously though, I would say don’t be afraid to
make mistakes and always have the strength to start
again. Gardening is an almost monastic technique,
a sort of ritual and meditative path and it teaches
tenacity and resistance. In the end, you will only
succeed in creating a satisfying interior if you really
want to.
I would advise everyone to fall in love with an object
with character, a product that sums up an entire
epoch, a whole world. Something that will also
be well received in not necessarily lofty surroundings,
where you can abandon yourself to looking at
it in a different light or combined with simpler materials
and fabrics.
Dear Paolo, what do you think the future as you
see it has in store for you?
Certainly, my loveliest and most fascinating project,
the one I have yet to do.
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