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Gianni Vattimo Abitare viene prima di costruire In Casabella, Rivista ...

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soltanto <strong>di</strong> quelli supremi. Con questo non si vuol <strong>di</strong>re che non sia più possibile<br />

un progettare, ma che non lo sia più nei termini <strong>di</strong> una tra<strong>di</strong>zione metafisica,<br />

peraltro <strong>di</strong>mentica del <strong>di</strong>scorso aristotelico sulle téchnai. Fa notare <strong>Vattimo</strong> che<br />

la stessa analogia <strong>di</strong> Wittgenstein tra linguaggio e città è un’eco aristotelica:<br />

«l’architettura, ogni architettura, non attinge ad archaí ultime, ma si muove in<br />

ambiti <strong>di</strong> archaí relative». Il progettare architettonico, al pari <strong>di</strong> un “gioco<br />

linguistico”, «è quel <strong>costruire</strong> che può essere tale in quanto già abita, e non<br />

viceversa», assume i tratti nichilistici del «crescere intorno a nuclei esistenti»<br />

come nel «“bricolage”, che rifà continuamente con ciò <strong>di</strong> cui già <strong>di</strong>spone e da cui è<br />

<strong>di</strong>sposto». L’oltrepassamento della metafisica –origine del domandare<br />

heideggeriano-­‐ è anche oltrepassamento del progettare come fondazione<br />

assoluta, perché Heidegger riconosce la con<strong>di</strong>zione che «caratterizza la nostra<br />

gettatezza storico-­‐finita in questa epoca», in cui non sono più <strong>di</strong>sponibili archaí<br />

né nella forma delle certezze metafisiche né nella forma del consenso sociale. Ed<br />

è proprio quest’ultimo che oggi, più che mai, risente <strong>di</strong> una “degradazione<br />

ontologica” perché ogni novità è «legata agli automatismi del sistema della<br />

<strong>di</strong>stribuzione (il necessario rinnovarsi delle mode) e della produzione<br />

(l’obsolescenza artificiale dei prodotti)». <strong>In</strong>combe dunque il rischio che il<br />

progettare abbia più i caratteri dell’ingegneria che dell’architettura, <strong>di</strong> una<br />

“sperimentale” ingegneria per <strong>di</strong>rla con Nietzsche. È questo il pericolo <strong>di</strong> un<br />

razionalismo <strong>di</strong>sincarnato da cui mette in guar<strong>di</strong>a anche Gehlen. Da qui la<br />

necessità <strong>di</strong> comprendere cosa ne può “venire” dalle nuove <strong>di</strong>sponibilità tecniche<br />

«e dalle mo<strong>di</strong>ficazioni che anche in connessione con esse avvengono nel <strong>di</strong>a-­‐<br />

logos sociale –che non <strong>di</strong> mettere queste nuove possibilità al servizio <strong>di</strong> un<br />

progetto assoluto», perché «progettare è stare in rapporto –abitare-­‐ con questi<br />

lògoi». Il progetto come pro-­‐iezione in senso heideggeriano recupera il concetto<br />

<strong>di</strong> An-denken –rammemorazione-­‐ abbandonando i caratteri del progettare<br />

assoluto e gettando sullo schermo, proprio come la proiezione del cinema, forme<br />

già scritte nella pellicola/tra<strong>di</strong>zione che attraverso la luce/interpretazione<br />

vengono comprese/viste: «Nella immagine <strong>di</strong> Wittgenstein, e in una prospettiva<br />

heideggeriana, l’architettura perde il suo carattere progettuale assoluto e si<br />

qualifica come attività ermeneutica».<br />

Giusy Randazzo

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