Psychomed-2012 - CRP

Psychomed
Periodico quadrimestrale
Rivista telematica di psicoterapia, medicina psicosociale,
psicologia della salute e preventiva
STORIE CLINICHE
La psicoterapia dall'interno
Numeri 1-2-3 Anno VII dicembre 2012
ISSN: 1828-1516
AUTORIZZAZIONE DEL TRIBUNALE DI ROMA N.243 DEL 12.6.2008
www.crpitalia.eu/psychomed.html

Direttore responsabile: Stefania Borgo
mail: borgo.stefania@uniroma1.it
Condirettore: Lucio Sibilia
mail: lucio.sibilia@uniroma1.it
Comitato Scientifico: Mario Becciu, Paola Borgo, Stefania Borgo, Mauro Ceccanti, Silvana Cilia,
Anna Rita Colasanti, Federico Colombo, Adele de Pascale, Carlo Di Berardino, Gian Franco
Goldwurm, Caterina Lombardo, Spiridione Masaraki, Roberto Picozzi, Carla Rafanelli,
Giuseppe Sacco, Ezio Sanavio, Tullio Scrimali, Lucio Sibilia, Claudio Sica
Comitato Redazionale: Dimitra Kakaraki, Francesca Di Lauro, Cristian Pagliariccio
mail: psychomed@crpitalia.eu

Indice
................................................................................................................................................................
Editoriale.............................................................................................................................................5
LE STORIE CLINICHE....................................................................................................................9
Problemi alimentari
1. LA PROSSIMA VOLTA LE FACCIO TROVARE ANCHE IL TÈ E I PASTICCINI
di Paola Gambetta ...................................................................................................................9
2. NON ME LE METTI PIÙ LE MANI ADDOSSO!
di Nadia Maggiacomo ...........................................................................................................14
Difficoltà relazionali
3. NON FIDARSI…È MEGLIO. IL CASO DI ALESSIA
di Adriana Saba .....................................................................................................................24
4. QUANDO NON SI PUÒ AVERE CIÒ CHE SI AMA, BISOGNA AMARE QUELLO CHE
SI HA
di Stefania Schiesaro .............................................................................................................32
5. IL CASO DI G.
di Ilaria Muscella ..................................................................................................................38
6. ALLA RICERCA DEL MIO SOLE
di Marisa Micucci ..................................................................................................................45
7. MIA MOGLIE DICE CHE NON MI RICONOSCE PIÙ
di Raffaele Riccardis ..............................................................................................................52
8. MI PIACI, MA
di Sabina Lauretti …..............................................................................................................60
Disturbi distimici
9. MI PREOCCUPO, DUNQUE SONO: UN CASO DI ANSIA GENERALIZZATA
di Anna Tomasello .................................................................................................................67
10. TUTTE LE COSE PASSANO: IL TEMPO PASSA E PASSA TUTTO
di Dimitra Kakaraki ..............................................................................................................73
11. REAGIRE AL TRAUMA: DAL "POVERO ME" ALLA SCOPERTA DEI PROPRI POTERI
di Federica Dominici .............................................................................................................82
12. IL CASO DI PIETRO. OVVERO, L'INCREMENTO DELL'AUTOEFFICACIA
di Monica Vanzella ................................................................................................................90
13. UNA LENTE CHE METTE A FUOCO LE EMOZIONI
di Magda Cesi ........................................................................................................................98
14. LA TERAPIA CHE ACCAREZZA LA PANCIA
di Marisa Micucci ................................................................................................................104
15. LA FELICITÀ... UNA COSA CHE NON AVEVO MAI PROVATO PRIMA
di Francesca Di Lauro .........................................................................................................111
Disturbi dell'età evolutiva
16. ACCRESCERE LA TOLLERANZA ALLA FRUSTRAZIONE: LUCA E LA SUA
FAMIGLIA
di Adriana Saba ...................................................................................................................119
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17. SPERIAMO... CHE GLI PRENDA UN COLPO!
di Cinzia Dell'Imperio .........................................................................................................128
18. ANSIA DA VALUTAZIONE IN AMBITO SCOLASTICO E FATTORI DI CRITICITÀ: IL
CASO DI ALICE
di Monica Vanzella . ............................................................................................................133
19. ORA RIESCO A VEDERE I FILM DELL'HORROR
di Sabina Lauretti ................................................................................................................140
Dipendenze
20. IL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO: STORIA DI UNA DIPENDENZA
di Augusta D'Ottavio ...........................................................................................................147
21. IL CASO DI PAOLO. DISTURBO DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI SESSUALI
di Elisa Scian .......................................................................................................................154
Interventi transculturali
22. GLI SPIRITI DELLA PROPRIA TERRA
di Francesco Battista ...........................................................................................................162
23. UNA VITA DI VIAGGI E DI DOLORE
di Francesco Battista ..........................................................................................................166
Problemi oncologici
24. L'ORA DELLA MORTE
di Elisa Scian .......................................................................................................................171
25. TUTTE A ME, È NORMALE, NO?
di Martina Fornari ..............................................................................................................179
Terza età
26. UN FANTASMA CHE RITORNA
di Francesca Di Lauro .........................................................................................................184
27. TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DI UN DISTURBO ANSIOSO-
DEPRESSIVO ASSOCIATO A SOSPETTA DEMENZA FRONTO-TEMPORALE
Di Silvia Capezzuto .............................................................................................................192
Altri disturbi gravi
28. I MIEI OCCHI SONO PIÙ CHIARI DEI TUOI
di Anna Tomasello ...............................................................................................................199
29. IL DISTURBO PSICOTICO E LE SUE COMPLESSITÀ: UN INTERVENTO
COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
di Augusta D'Ottavio ...........................................................................................................205
PROPOSTE EDITORIALI...........................................................................................................212
CONGRESSI INTERNAZIONALI..............................................................................................215
CONTRIBUIRE A PSYCHOMED..................................................................................................218
4 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

EDITORIALE
In questo numero monotematico di Psychomed sono raccolte in un solo volume 29 storie di casi
clinici trattati da psicoterapeuti in formazione cognitivo-comportamentale (CC). La scelta di
presentare casi clinici non è nuova per la nostra rivista, avendo già pubblicato in annate precedenti
altri casi clinici; si trattava, però, di casi redatti in forma di brevi sintesi cliniche, sottoposte da
psicoterapeuti esperti, che li avevano avuti in trattamento CC, a terapeuti di orientamenti diversi.
Queste sintesi avevano consentito di illustrare, in appositi convegni, le proprie tipiche procedure di
valutazione, interpretazione e trattamento, evidenziando così somiglianze e differenze tra i diversi
orientamenti.
Stavolta, invece, la scelta è stata quella di riproporre per intero le “relazioni sul caso clinico”
presentate dagli allievi in formazione; sono le relazioni richieste per affrontare l'esame finale presso
la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-comportamentale ed Intervento Psicosociale
del Centro per la Ricerca in Psicoterapia (CRP). Queste relazioni conclusive, parte essenziale
dell'iter formativo, contengono una sorta di “storia clinica”, che include non solo quella del paziente
ma soprattutto quella del suo cambiamento in psicoterapia CC, cioè la storia del percorso
terapeutico. Queste narrazioni contengono, infatti, oltre agli elementi necessari per la diagnosi del
caso, cioè la sua valutazione sia trasversale che longitudinale ovviamente di impostazione CC,
soprattutto le modalità dell'azione psicoterapica, le sue vicende ed i suoi esiti, compresi talvolta
anche quelli a distanza dal termine della terapia. Aspetto importante, contengono osservazioni circa
la relazione terapeutica, ivi inclusa la soggettività del terapeuta.
Questa scelta nasce da varie esigenze. Anzitutto, quella di far conoscere il modus operandi della
terapia cognitivo-comportamentale (TCC); una forma di psicoterapia la cui efficacia, pur dimostrata
da tempo in numerose forme di psicopatologia, ancora oggi è spesso misconosciuta o sottovalutata
nel nostro Paese non solo dal grande pubblico, ma anche da molti “esperti”, in molti settori sia della
psicologia clinica accademica che dei servizi territoriali. C'è inoltre l'esigenza di sfatare molti
luoghi comuni che circondano la TCC e l'orientamento su cui essa si basa. Quali, ad esempio, che il
terapeuta utilizzi (o abbia) una concezione “meccanicistica” dell'uomo o della mente umana, oppure
che i cambiamenti ottenuti siano soltanto superficiali ed ininfluenti, o che riguardino soltanto i
“sintomi” e non i problemi ritenuti “di fondo” o “profondi”, come se i sintomi fossero del tutto
estranei alla sofferenza e all'adattamento generale del paziente.
Ma soprattutto, ci sembra che i casi clinici degli allievi possano - meglio di qualsiasi altro
materiale usato tutt'oggi - evidenziare almeno alcune di quelle competenze terapeutiche la cui
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corretta valutazione si ritiene centrale per lo sviluppo di buoni programmi formativi in psicoterapia.
Tali competenze ancora oggi sono oggetto di studi e dibattiti. Uno dei modelli più noti nella ricerca
in questo campo, quindi con maggiore solidità empirica, è quello cognitivo di J. Bennett-Levy 1 , che
identifica tre diversi livelli di competenze dello psicoterapeuta: competenze dichiarative,
competenze procedurali e competenze riflessive (modello DPR).
Ci rendiamo conto che questi resoconti di casi clinici evidenziano solo una parte delle competenze
rilevanti per la professione dello psicoterapeuta. Infatti, il “sapere” acquisito dall'allievo durante
l'apprendistato (le sue “competenze dichiarative”) si riflette solo parzialmente nel resoconto, per
vari motivi. Ad esempio, il caso clinico può attivare nell'allievo certamente conoscenze relative agli
specifici disturbi di cui il paziente è portatore, ma lascia in ombra quelle relative a disturbi e
problemi di altra natura. In secondo luogo, non è una specifica richiesta della Scuola di provenienza
quella di utilizzare il caso clinico per esibire le proprie conoscenze teoriche; piuttosto, come si
vedrà, c'è un incoraggiamento ad utilizzare un linguaggio possibilmente scevro di termini teorici. In
ogni caso, è utile ricordare che nella prospettiva CC i termini teorici acquistano significato dai
vincoli con i loro riferimenti operazionali e osservativi.
Il “saper fare” dell'allievo (le sue “competenze procedurali”), invece, dovrebbe essere meglio
rappresentato in queste storie cliniche. È soprattutto questo aspetto che fa scegliere il resoconto del
caso come base della prova di esame. Tuttavia, non bisogna dimenticare che il saper fare emerge da
questi resoconti solo come auto-descrizione delle proprie operazioni terapeutiche. Quindi, come
conoscenza esplicita, laddove la conoscenza tacita ne viene esclusa. Si tratta di una limitazione da
tener presente, in quanto spesso la conoscenza procedurale tipicamente si “automatizza” con
l'esperienza pratica e quindi tende a scivolare fuori del campo di coscienza. In ogni caso, le
autodescrizioni per ovvi motivi non possono avere il livello di dettaglio ed il contenuto informativo
delle osservazioni dirette del comportamento terapeutico, quali sarebbero, ad esempio, quelle
ricavabili da videoregistrazioni. In un approccio come quello CC, che privilegia l'osservazione
diretta, si tratta senz'altro di un limite.
Possiamo tuttavia lecitamente supporre che la conoscenza di tipo tacito, in carenza di una lunga
esperienza professionale, sia ancora limitata nell'allievo: si potrà notare infatti che gli allievi hanno
un alto livello di vigilanza circa la validità del proprio operare, vigilanza che si esprime spesso con
dubbi ed interrogativi, talvolta anche “ansiosi”. Un comportamento, questo, che a nostro avviso dice
poco su di una presumibile insicurezza nella personalità di base, come vorrebbe una certa “cultura
del sospetto” di stampo psicodinamico. Piuttosto, a nostro avviso, testimonia la consapevolezza
1 Bennett-Levy J. Therapist Skills: A Cognitive Model of their Acquisition and Refinement. Behavioural and Cognitive
Psychotherapy, 2006, 34, 57–78.
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dell'alta probabilità di fare errori, in un campo ancora così lacunoso di conoscenze come quello
della psicoterapia. Dubbi ed interrogativi, infatti, che la Scuola incoraggia ad esprimere, proprio per
l'alto valore formativo attribuito alla consapevolezza dell'errore e alla necessità di contemplare
alternative per correggerlo 2 .
Infine, il “saper capire” dell'allievo psicoterapeuta (le sue “competenze riflessive”) si possono
considerare le più difficili da acquisire, ma anche da valutare. Nell'approccio CC, tali competenze si
possono considerare attinenti alle abilità metacognitive. In questo ambito rientrano ad esempio le
auto-valutazioni dell'allievo. Recenti ricerche in questo campo 3 ci dicono da una parte che la
percezione delle proprie competenze terapeutiche in generale aumenta con il progredire nell'iter
formativo, e dall'altra che le competenze auto-valutate dall'allievo si correlano abbastanza bene con
le valutazioni dei docenti e dei supervisori. Inoltre, le auto-valutazioni, per quanto al termine del
percorso formativo tendono ad essere più elevate che non all'inizio, tendono ad essere stimate per
difetto, forse in rapporto agli aspetti di ipervigilanza prima evidenziati.
Senza dimenticare, tuttavia, che ciò che più conta, dal punto di vista CC, è il “saper capire” la
problematica del paziente. Ciò deriva dai presupposti stessi della TCC. Si suppone infatti che tale
sapere sia basilare per selezionare obiettivi terapeutici e quindi metodi ed interventi, una
caratteristica di conseguenzialità logica, forse poco evidenziata ma prominente in questo approccio.
Si tratta comunque di un sapere euristico di alto livello, che guida il terapeuta a selezionare le
conoscenze e le teorie di cui dispone, laddove la complessità del caso clinico non rende disponibili
precisi protocolli o linee-guida. Si noti che l'accento è sul comprendere la problematica e non la
personalità del paziente; ciò sia perché un cambiamento nella personalità del paziente non si è
dimostrato né possibile né necessario in psicoterapia, sia perché è noto lo scarso potere predittivo
delle variabili di personalità.
Bisogna anche aggiungere che tale sapere riflessivo, oltre ad essere il portato della formazione
ricevuta, è probabilmente radicato anche in doti personali di intuizione, che la Scuola tenta di non
cancellare. Si creerebbe altrimenti un indottrinamento, come purtroppo si è verificato in altri
approcci 4 . Si cerca di conservare così una individualità dell'allievo – sia pure all'interno
dell'approccio – nello stile di conduzione del trattamento, che crediamo sia evidente anche in questa
collezione di casi clinici, in cui molti allievi riportano due diversi casi. Si possono scorgere, infatti,
2 Sibilia L. Gli errori in psicoterapia come processo di problem solving. Idee in Psicoterapia, 2012 (in stampa).
3 Bennett-Levy J., Beedie A. The Ups and Downs of Cognitive Therapy Training: What Happens to Trainees’ Perception
of their Competence During a Cognitive Therapy Training Course? Behavioural and Cognitive Psychotherapy,
2007, 35, 61–75.
4 Sulloway, F.J. (2006) Freud, tra criptobiologia e pseudoscienza. In Il libro nero della psicoanalisi, a cura di C.
Meyer. Roma: Fazi Ed.
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le somiglianze tra i casi dello stesso allievo e le differenze rispetto ai casi degli altri.
Infine, bisogna dire che questo numero è unico in quanto corrisponde ai tre numeri dell'intera
annata 2012, per vari motivi. Anzitutto, per le sue dimensioni, sia in termini di numero di pagine
che di impegno. Questa raccolta infatti abbraccia una casistica abbastanza ampia, che va dalla
depressione all'ansia sociale, dalla bulimia agli attacchi di panico, dal gioco d'azzardo patologico ai
disturbi psicotici, dai disturbo post-traumatico ai problemi di fine vita, dai disturbi sessuali ai
conflitti coniugali, dai problemi dell'età evolutiva ai disturbi cognitivi dell'età involutiva.
L'approfondimento dei casi è notevole; talvolta sono stati usati trascritti di singole sedute.
Infine, l'uso dei tempi nella narrazione è risultato molto difforme: mentre tendeva a prevalere l'uso
del presente, sia nel resoconto del passato remoto che del presente prossimo, in alcuni casi si è
invece mantenuta una prospettiva temporale più differenziata. Quindi, come si può immaginare, vi
sono state notevoli difficoltà nel tentativo di rendere omogenei i formati dei vari casi. Una scelta
prevalente è stata quella di lasciare l'impronta data dall'allievo, limitandosi a correggere soltanto
evidenti errori grammaticali o sintattici, o al massimo parafrasare espressioni poco chiare.
Il risultato lo lasciamo al giudizio del lettore.
Lucio Sibilia
Stefania Borgo
Roma, dicembre 2012
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LA PROSSIMA VOLTA LE FACCIO TROVARE ANCHE IL TÈ E I PASTICCINI...
Di Paola Gambetta, medico – psicoterapeuta cognitivo comportamentale, mail: paola.gambetta@fastwebnet.it
Elena, una donna bella e curata di 40 anni, quando arriva in consultazione pesa 88 kg ed è alta 172
cm (con un indice BMI di 30): mi è stata inviata da un dietologo che l’ha in cura da 1 anno e non è
riuscito a farle seguire nessuna dieta.
E’ sposata da quattro anni con un uomo più grande di lei di 17 anni, al suo terzo matrimonio, e
hanno una bambina di 4 anni e un bambino di circa 2. Sono una famiglia benestante, tanto che lei
vorrebbe lasciare il lavoro per dedicarsi alla famiglia e ad una attività creativa.
La madre, da circa 25 anni invalida, non ha mai lavorato ma dipingeva e suonava il piano, mentre
il padre è un generale della finanza in pensione. Entrambi vengono descritti come persone poco
affettuose e formali, poco interessate alla sua vita familiare e ai nipoti.
Ha un fratello maggiore con il quale ha pochi rapporti e quando si incontrano spesso finiscono con
litigare, soprattutto a causa del differente tenore di vita rispetto alla sorella benestante. Entrambi i
genitori hanno sempre preso le parti di suo fratello, provocandole una intensa sofferenza.
L’unica persona della sua famiglia con cui Elena ha stabilito un legame affettivo è la zia, sorella di
sua madre, che però non vive in città.
Elena ha poche amiche con le quali mantiene rapporti formali; il marito ha invece molti amici, che
avevano anche frequentato le sue due ex mogli, per cui quando è in loro compagnia Elena si rende
conto di non essere molto disinvolta. Si sente “sempre” sotto giudizio e ha paura dei paragoni che
potrebbero fare con le ex.
Motivo della richiesta
La prima volta che sento la paziente per telefono mi chiede un appuntamento per un problema di
sovrappeso “è che ormai ho provato tutto e ora voglio provare pure questo”.
Elena mi riferisce che mangia continuamente, soprattutto dolci, anche se non ha fame. Il suo
nutrizionista si è “arreso” e le ha consigliato di intraprendere un percorso psicoterapico perché
capisca che cosa la spinge a quel comportamento.
All’inizio della terapia, Elena non sembrava motivata e forse non aveva capito in pieno l’impegno
che avrebbe dovuto mettere per questo cambiamento. Però, nel corso della terapia sono accaduti
molti eventi nella sua vita, come la malattia del marito, la morte del padre e una questione
sull’eredità, che hanno contribuito a modificare il suo atteggiamento e l’hanno resa molto più
disponibile verso il cambiamento.
Relazione terapeutica
Creare una adeguata relazione terapeutica è stato inizialmente la cosa più difficile.
Elena aveva assunto sin dall’inizio un atteggiamento manipolativo, senza che io me ne rendessi
conto; alla fine dei colloqui, quando se ne andava e rivedevo il lavoro fatto, mi rendevo conto che il
programma che mi ero posta prima della seduta era saltato e si finiva per fare sempre quello che
voleva lei.
L’emozione che io provavo nei suoi confronti era soprattutto di rifiuto e solo quando mi sono resa
conto di questo sono riuscita a provare empatia per lei.
Elena aveva avuto una esperienza psicoanalitica per circa tre anni e quindi pensava di venire e
parlare, senza alcun impegno fuori da quel contesto; infatti all’inizio gli homework (Baldini, 2004)
che le davo, come il diario alimentare, non venivano fatti e quando le facevo notare l’importanza di
svolgerli mi guardava e rideva. Era inoltre restia a seguire qualsiasi comportamento alimentare
alternativo. Ad un certo punto mi chiese pure se poteva darmi del tu. Devo dire che ho faticato molto
a trovare una risposta, ci ho pensato un po’ e poi le ho detto “se vuole la prossima volta le faccio
trovare anche il te e i pasticcini visto che lei mi paga per fare quello che vuole lei !! Non credo
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invece a questo punto che dovremo continuare a vederci perché come amiche non abbiamo niente
in comune e se lei viene qui per questo sbaglia. Se invece desidera raggiungere gli obiettivi che ci
siamo posti all’inizio, ho bisogno della sua collaborazione! Ci pensi questa settimana e se torna mi
porti il diario alimentare e una scheda sulle emozioni”.
La settimana dopo è tornata e da allora è stata molto collaborativa: si è impegnata molto ed è
cambiato anche il suo atteggiamento ed anche io ero più rilassata durante i nostri incontri.
Alla fine della terapia, quando mi ha ringraziato, mi ha anche detto che non sapeva che cosa ne
sarebbe stato di lei se in questo periodo non fosse venuta da me.
Sindrome osservata e storia di sviluppo
La paziente si può definire una spuntinatrice; secondo il DSM IV il suo problema rientra nei
disturbi dell’alimentazione non specificati.
Qualsiasi emozione provi Elena non riesce a decifrarla e la riversa nella soddisfazione alimentare:
i dolci le piacciono molto e attraverso la loro assunzione trova serenità, mentre nessuno dei suoi
problemi viene affrontato ed eventualmente risolto.
Questo atteggiamento le procura un senso di bassa autostima: sa di essere intelligente e brava
quando si pone degli obiettivi pratici, ma il fatto di non riuscire a controllare la sua alimentazione la
fa sentire inadeguata. Non riesce a capire perché lo fa: mi riferisce che si rende conto che ha
mangiato solo dopo averlo fatto.
Dalla ricostruzione storica appare che un padre molto severo e una madre che non l’ha mai
stimata e ha sempre preferito il fratello a lei l'abbiano messa nella condizione di dimostrare
continuamente che lei vale, nonostante il loro rifiuto.
Il rifiuto è stato alla base del suo comportamento: il rifiuto dei suoi genitori, il rifiuto della sua
insegnante e dei compagni alle elementari l’hanno convinta che lei deve sempre dimostrare di
valere più degli altri. Per dare dimostrazione del suo valore, per competere con il fratello che non
andava bene a scuola e suonava il violoncello, si è presa una laurea che non le è mai interessata.
Attualmente anche se sposata e va d’accordo con il marito, non ha una rete sociale che la
sostenga: con le amiche entra spesso in competizione e non lascia mai trapelare le sue emozioni e
per paura di essere rifiutata. Rifiuta lei per prima.
Fin dall’inizio sono stati chiari i suoi problemi con la famiglia di origine: un padre molto severo
che non le perdonava nulla e le preferiva il maschio primogenito, la madre, un’artista fallita che
riviveva le sue aspirazioni nel figlio maschio suonatore estroverso, e che, dal racconto di Elena
sembra avesse avuto disturbi di tipo psicotico, hanno ostacolato la formazione di un buon rapporto
con i genitori e in particolare con la mamma
Mostra un atteggiamento doppio: da un lato si mostra compiacente, dall’altra i suoi tentativi di
trasgressione che la portano a mangiare senza sosta.
Il sentirsi svalutata, qualunque cosa facesse, ha finito per farla sentire inadeguata, “capace di fare
cose solo le cose che fanno tutti”.
Piano piano, forse per non soffrire, ha soffocato le sue emozioni: ora non sa più neanche quando è
felice, triste ed arrabbiata. Indagando la consapevolezza emotiva è emerso come Elena era non fosse
in grado di identificare, negli episodi riportati, alcun tipo di emozione.
Non emergono particolari problemi nella infanzia fino al trasferimento di suo padre a Roma, a
circa 9 anni: il passaggio da una piccola ad una grande città, dove poteva muoversi solo se
accompagnata, e il fatto che non fosse riuscita a stringere amicizie la portava a trascorrere molto
tempo in casa, da sola. E' stato allora che ha iniziato a mangiare di continuo e ad ingrassare.
A seguito del trasferimento e dell’episodio probabilmente psicotico della madre, il nucleo
familiare si è sempre più chiuso in sé stesso, escludendo quasi totalmente il mondo esterno e le
relazioni affettive e amicali.
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La terapia
L’intervento terapeutico si è incentrato sul il riconoscimento delle emozioni e il rafforzamento
della autostima e della autoefficacia. Confutare le idee “irrazionali” in seguito non è stato difficile,
anzi molto spesso era lei stessa a confutarle e a riconoscere le convinzioni disfunzionali.
La richiesta iniziale di Elena era in effetti limitata alla modifica del comportamento alimentare ma
nel corso della terapia sono state individuate altre aree problematiche: trovare un lavoro più
soddisfacente, affrontare le dinamiche familiari, elaborare il lutto per la morte del padre e la
malattia del marito.
Strumenti e tecniche utilizzati: schede auto-osservative per i riconoscimento delle emozioni
(Borgo, 2011); l'analisi funzionale ABC (De Silvestri, 1981) degli episodi di iperalimentazione (per
individuare gli antecedente dei comportamenti disfunzionali e delle emozioni); la tecnica dei Primi
Ricordi; la immaginazione guidata (GAI) (Borgo et al., 2001); il problem Solving (che si è rivelato
molto importante nella decisione e nella scelta del nuovo lavoro) (Marks et al., 2010); l’Assertive
Training (Marks et al., 2010) attraverso il quale Elena si è riappropriata delle sue risorse; la
confutazione delle idee irrazionale secondo il metodo RET; il Role Playng (Marks et al., 2010),
tecnica attraverso la quale è riuscita ad aprirsi maggiormente con gli amici riuscendo a fidarsi di
loro.
Durante i primi colloqui Elena ha continuato a parlare della sua vita mancando, come è stato già
detto, di fare il diario alimentare e gli homework assegnatole: entrava in studio ridendo e adducendo
ogni volta delle scuse per non averli svolti. Solo al settimo colloquio, quando le ho proposto di
interrompere i nostri incontri perché non riscontravo alcuna collaborazione da parte sua, è avvenuto
un primo cambiamento: la seduta successiva è stata proprio lei a farmi notare che voleva finirla con
l’evitare gli impegni e che, stavolta, avrebbe collaborato. In questa occasione abbiamo anche
concordato un regime alimentare non troppo rigido ed eseguito un problem solving per elaborare la
possibilità di una attività lavorativa alternativa da svolgere. Nella settimana successiva si era
talmente impegnata che aveva trovato una corso professionale da artigiana ed era calata di 2 kg. Ha
portato anche il diario alimentare, le schede con il dialogo interno alternativo e ha cominciato ad
ammettere di essere triste. Per la prima volta ha pianto nel ricordare alcuni episodi tristi della sua
vita e alla fine mi ha detto di sentirsi “più leggera anche dentro”.
Dopo la pausa estiva mi riferisce che nel mese di agosto suo padre è deceduto: è sconvolta perché
per questa perdita non prova alcun dolore, ma piuttosto si sente liberata da un peso. Mi dice che da
bambina amava molto il padre, ma dopo la malattia invalidante della madre era diventato un
despota e talvolta anche manesco. Questa morte ha scatenato un peggioramento nei rapporti tra lei,
la mamma e il fratello, dal momento che, nel testamento, il padre ha favorito, ancora una volta, il
fratello nel lascito dei beni. Decide quindi di scrivere una lettera ad entrambi chiedendo di dividere
l’eredità in parti uguali e minacciando di interrompere definitivamente i rapporti con loro se ciò non
fosse avvenuto. A questa lettera non darà risposta nessuno dei due, in nessun modo e tramite nessun
canale. Elena decide quindi di chiudere una volta per tutte i rapporti con la famiglia di origine.
Poco prima di concludere la seduta mi accenna ad un delicato intervento a cui a breve dovrà
sottoporsi il marito: decido quindi di farla rimanere a parlare di questo argomento e questo le fa
riconoscere che “con i miei problemi sto trascurando chi veramente ha bisogno di me”.
A seguito di questi eventi Elena ricomincia a mangiare di tutto in modo incontrollato, fino a
“raccogliere per terra un biscotto smangiucchiato di mio figlio e mangiarlo. Questo episodio mi ha
fatto tornare in mente quando raccoglievo i soldi per l’università che mio padre gettava per terra e
mi è sembrato che niente fosse cambiato e che avessi toccato il fondo”. Abbiamo cercato una frase
da ripetere come un mantra quando si trova in queste situazione; a lei è sembrata congeniale “mi
merito di meglio”. È andata via per la prima volta a testa alta e mi ha dato la mano ripetendo la
frase. Da allora ha ricominciato a seguire un regime alimentare adeguato e a dimagrire, a
frequentare la palestra, portando anche a termine il corso professionale che stava seguendo.
Mi riferisce che si ripete la frase molte volte durante la giornata e sente che “è finito il
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maremoto”. Ha allargato la sua rete sociale ed è riuscita a creare dei legami con gli amici del
marito, parlando loro della sua situazione familiare, fino a stabilire delle relazioni amicali
soddisfacenti.
Commenta l'accaduto dicendo:“ho messo a fuoco quella voglia di mangiare senza senso e ho
capito che merito di meglio”.
La chiave di volta della terapia, a mio parere, è stata quando Elena, nel rileggere la sua vita, si è
resa conto degli assunti irrazionali sui quali basava le sue interpretazioni: le idee dei genitori, che lei
tanto criticava, le aveva fatte sue, alla mancanza di valore, che la madre le attribuiva, lei aveva finito
per credere. Solo quando si è resa conto del suo valore (affermando “io valgo”), le è riuscito più
facile confrontarsi con gli altri e prendere decisioni fondamentali per la sua vita futura.
Scoprire le sue risorse penso sia stato fondamentale nell’acquisire la consapevolezza di meritare
di meglio, e questo probabilmente la ha anche aiutata a limitarsi nel mangiare, cessando di essere,
come si definiva, “la pattumiera di casa”.
Follow up
Ho rivisto Elena dopo sei mesi dalla fine del nostro percorso terapeutico.
Mi raccontato che ha cambiato casa, non ha più la donna di servizio a tempo pieno e perciò si
occupa della famiglia e dei figli. Lavora tuttavia saltuariamente in casa, producendo articoli
artigianali. E' arrivata al peso di 78 kg (di cui è soddisfatta) e mangia regolarmente, senza
ingrassare. Ha molti amici e, anche se non ha più visto né la madre né il fratello, oggi non le capita
quasi mai di sentirsi sola e isolata.
Breve nota del supervisore
Elena è giunta in terapia come ultima spiaggia: “ormai ho provato tutto e ora voglio provare pure
questo...”. Pur riconoscendo le difficoltà che in genere si incontrano per modificare le abitudini
alimentari, il problema si è rivelato più complesso già fin dall'inizio, per l'emergere di un
atteggiamento che di fatto ostacolava non solo gli interventi ma la valutazione stessa del problema.
Si potrebbero fare diverse ipotesi sulla origine di questo atteggiamento poco collaborativo: scarsa
motivazione, tendenza oppositiva, abitudine alla terapia psicoanalitica (Sibilia, 2007), deviazione
dell'attenzione dai problemi attuali e pregressi... Nessuno di questi aspetti è stato tuttavia
direttamente affrontato in quanto la presa di posizione del terapeuta, piuttosto dura anche se molto
immediata e sincera, ha di fatto sbloccato la situazione e modificato profondamente il rapporto,
aprendo la possibilità di applicazione delle usuali tecniche cognitivo-comportamentali.
Questi rapidi cambiamenti dopo un periodo critico, sulla base di una presa di coscienza che arriva
quando si tocca il fondo, sembrano una caratteristica di questo caso: possiamo collegarli a una
forma di resilienza (Elena in effetti ha superato nella sua vita notevoli difficoltà di percorso) ovvero
ad una modalità di conduzione della terapia, talvolta più di tipo medico (quale in effetti la terapeuta
è). Ma più probabilmente derivano dall'incontro di due stili interpersonali molto differenti che nella
alleanza terapeutica hanno trovato una complementarietà.
Bibliografia
Baldini F. (a cura di) (2004). Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche. Milano: Mc-
Graw-Hill.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Borgo S., Sibilia L., Della Giusta G. (2001). Dizionario di psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Milano: McGraw-Hill.
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Astrolabio.
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46-51 (http://www.crpitalia.eu/PSYMED1-3.pdf).
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 13

NON ME LE METTI PIÙ LE MANI ADDOSSO!
Di Nadia Maggiacomo, psicologo-psicoterapeuta cognitivo comportamentale, libero professionista, mail:
nadiamaggiacomo@yahoo.it
Giulia è stata la mia prima paziente ufficiale: è una donna di 29 anni, sposata da 9 anni con Marco
(31 anni), dopo cinque anni e mezzo di fidanzamento. Lei, casalinga, e lui, carpentiere, vivono con
le 3 figlie di 7, 5 e 2 anni in una casa di proprietà di Marco, che si trova in campagna.
Giulia è secondogenita di 4 figli: il padre ha 52 anni ed è muratore e la madre 48 anni ed è casalinga.
Vivono a qualche chilometro di distanza dall’abitazione di Giulia.
Giulia arriva da me tramite una mia conoscente e sua amica intima, la quale mi anticipa che la sua
amica “ha un grosso problema alimentare e si sta distruggendo”. Aggiunge anche il fatto che non
ha molte risorse economiche e non può raggiungere lo studio per via della bambina più piccola, e di
conseguenza dovrei essere io a recarmi a casa da lei.
Incontro per la prima volta la paziente a casa sua, per 9 appuntamenti, mentre i successivi avverranno
a studio.
Assessment: primo colloquio
Il mio primo appuntamento con Giulia è a casa sua alle 9 del mattino. Mi riceve in cucina e si fa
trovare in pigiama e vestaglia, capelli arruffati ed evidenti occhiaie che gli scavano occhi e viso.
Non era certo questo il contesto che immaginavo pensando al mio primo appuntamento con un paziente!
Dopo questo iniziale e personalissimo dialogo interno, comincio ad osservarla attentamente
(è impossibile non farlo!): dall’aspetto è visibilmente in sovrappeso e dimostra dieci anni più di
quelli che ha anagraficamente.
Intorno a lei c’è la figlia più piccola, 2 anni, che le si appende addosso, piagnucolando in modo
insistente ed ininterrotto, chiedendole di metterle dei cartoni alla TV e, rivolgendosi a me, continua
a ripetermi “mamma è mia”, con fare minaccioso.
Giulia, visibilmente triste e abbattuta, mi chiede scusa per l’accoglienza, per il suo aspetto, per la
bambina e il disordine. Mi accomodo dicendole che per me non è un problema che lei sia ancora in
pigiama e così sembra tranquillizzarsi.
Dopo questa fase caotica, Giulia sistema la bambina dinanzi la TV, si siede di fronte a me e con un
po’ di imbarazzo mi racconta che il motivo per cui ha deciso di rivolgersi ad uno psicologo è perché
si abbuffa e vomita in continuazione e fa fatica a controllare la pipì, “… non riesco più a
controllare il vomito e qualche volta esce anche sangue… c’ho paura!”. Inoltre dice che si è resa
conto di essere diventata molto scontrosa e irritata nei confronti delle figlie “... gli urlo e le
picchio... proprio come facevano mamma e papà con noi… io non voglio diventare come loro, le
figlie mie non devono passare quello che ho passato io…”.
Comincio a raccogliere informazioni sulla famiglia di origine e, dopo neanche 10 minuti di colloquio,
Giulia mi “rovescia” addosso il macigno che si trascina da circa 25 anni: “… quando avevo 4
o forse 5 anni, era notte e avevo fatto la pipì a letto… mia madre mi ha fatta alzare e mi ha messa a
dormire a letto con mio zio… il fratello di mio padre che aveva 18 anni... lui mi ha toccata, palpeggiata…
masturbata... ogni volta che facevo la pipì a letto mia madre mi faceva dormire con lui e
succedeva sempre la stessa cosa!”.
Questo racconto a freddo, mi scuote emotivamente, esattamente come era scossa la mia paziente
in quel momento. Per un attimo ho pensato “oddio… non ce la faccio a sostenere questo racconto!”,
ma poi mi sono detta “non posso cedere, non devo farlo, lei ha bisogno che io la sostenga… continua
ad ascoltarla senza farle capire che sei imbarazzata…”.
Giulia continua a raccontare fra le lacrime e riferisce che durante il periodo delle elementari era
arrivata a pesare 82 kg, e i compagni la chiamavano “ciccia bomba”.
Nella raccolta dei principali eventi di vita della mia paziente, scopro che il periodo delle prese in
giro da parte dei compagni coincise con l’arrivo del menarca, a soli 11 anni, momento in cui si ri-
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volse alla mamma per avere spiegazioni su quello che le stava accadendo, ma questa non le rispose
neanche. Lo comprende pochi giorni dopo a scuola, studiando il corpo umano. Durante l’estate tra
la seconda e la terza media, decide di dimagrire. Ci riesce mangiando poco, ma in terza media
recupera tutti i chili persi.
A 15 anni conosce Marco e si fidanza con lui, periodo in cui riesce a raggiunge un peso di 58 kg.
A 16 anni il padre la palpeggia tentando di avere un rapporto con lei, ma lei riesce a sfuggirne. Nello
stesso periodo la madre si ammala (fibroma all’utero) e trascorre un mese in ospedale durante il
quale Giulia deve far fonte da sola a tutti gli impegni della casa. Viene spesso picchiata dal padre
perché non assolve bene ai suoi compiti di casalinga. A 18 anni, dopo un pasto completo, comincia
a vomitare per 15 giorni di fila, tutte le sere, perdendo 2 kg. Constata che è un metodo che funziona
per perdere peso e comincia a farlo costantemente, interrompendo a mesi alterni per poi riprendere
nuovamente. A 21 anni si sposa andando a vivere nella casa dei suoceri. A 22 anni ha la prima gravidanza,
a 24 la seconda e a 27 la terza ed ultima.
Contesto familiare e socio-lavorativo
Appare evidente sin dal primo incontro che, Giulia non ritiene di aver avuto, da parte della famiglia,
il sostegno che ogni figlio dovrebbe avere per raggiungere una ottimale condizione di stabilità
emotiva.
Il padre, per Giulia, è stato un uomo da temere, un padre padrone che le ha negato la serenità di
bambina e adolescente. Lei lo descrive come un uomo cattivo e aggressivo. Tutti in famiglia, fratelli
e madre compresa, vivevano nel terrore: “se delle cose andavano storte, lui picchiava”. Lo descrive
comunque, come un uomo che tiene all’apparenza: “… tutto doveva essere a posto, in ordine, altrimenti
eri zozza, sfaticata, nullafacente”.
Nel raccontare la sua storia di vita, ricorda che all’epoca delle elementari, lui le disse che era nata
per sbaglio e quando aveva 15 anni iniziò a palpeggiarla cercando di avere contatti intimi. In particolare,
un giorno, mentre erano al mare, in acqua, lui l’ha palpeggiata per l’ennesima volta e lei gli
è sfuggita dicendogli di non permettersi più: “avverto ancora adesso il senso di schifo”.
A 16 anni la picchiava e la insultava perché lei, per perdere peso, non mangiava: “com t’si fatta
brutt… fai schif!” (Come sei diventata brutta… fai schifo!).
Parla di un uomo molto aggressivo con i figli ma anche con la moglie che “è succube”. Pochi
mesi prima di decidere di iniziare la psicoterapia ha scoperto che il padre ha provato ad avere contatti
intimi con entrambe le nuore, che vivono nello stesso stabile, di sua proprietà. A questa notizia,
datale da una delle cognate, lei ha provato forti emozioni di odio, rabbia, fastidio e ribrezzo nei confronti
del padre.
Quando il padre l’ha molestata, Giulia ha raccontato alla madre l’accaduto, ma questa non le ha
creduto e le ha risposto “che adesso un padre non può fare una carezza a una figlia?”. Davanti a
questa risposta Giulia riferisce di essersi sentita abbandonata e di aver provato molta rabbia. Parla di
una mamma completamente assente nei suoi confronti “tutte le volte che l’ho cercata per averla vicina,
non c’è mai stata”.
Con i fratelli e la sorella Giulia non ha avuto grandi rapporti, soprattutto da quando ha saputo che
i due fratelli non hanno né fatto, né detto nulla pur sapendo che il padre aveva molestato le loro rispettive
mogli.
Il contesto sociale e di relazione in cui vive Giulia, è povero: non svolge alcun lavoro, se non
l’attività di casalinga, e non ha molti contatti sociali. Ha soltanto due amiche fidate: una è la stessa
che mi ha contattata per aiutarla, sposata con tre figlie; l’altra è poco più grande di lei, con due figlie,
problemi coniugali e un amante!
Con queste due amiche frequenta una scuola di ballo, settimanalmente: sembra essere un’attività
che le piace molto ma, nello stesso tempo, le procura molta difficoltà ed imbarazzo nei momenti in
cui si sente al centro dell’attenzione. La sua aspirazione è fare la parrucchiera.
Nel lavoro con Giulia, utilizzo alcuni strumenti di valutazione, d’ausilio alla definizione della
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 15

problematica presentata dalla paziente stessa: la scala Senical-R (Scala degli Eccessi Nutritivi
Inavvertiti e dei Comportamenti Alimentari Limite) (Sibilia, 2009) e il Diario alimentare (Borgo,
2011).
Giulia pesa 77 kg, è alta 1,65 m ed ha un IBM (Indice di Massa Corporea) pari a 28,31.
Si abbuffa e vomita quotidianamente, occasionalmente fa uso di lassativi. Riferisce segni di gonfiore
alle mani, al volto e alle labbra, ogni qual volta assume determinati cibi (cioccolato e latticini
in particolare). Sospetta una intolleranza alimentare per la quale deve fare delle analisi (queste non
verranno mai eseguite durante tutto il corso della terapia). Inoltre, fa fatica a controllare la pipì da
circa un anno.
Giulia sente di essere facilmente irritabile nei confronti delle bambine e del marito. Non è soddisfatta
della vita che conduce, non ce la fa più ad andare avanti e non riesce a trovare una soluzione.
È perennemente preoccupata del giudizio delle persone, del loro possibile rifiuto e di dare una brutta
immagine di sé agli altri.
DIAGNOSI DSM IV: Bulimia nervosa
Storia del sintomo
Il sintomo, vomito volontario, si presenta per la prima volta quando Giulia ha 18 anni. In quella
circostanza, dopo aver consumato un pasto normale e aver percepito un senso di colpa per quanto
ha mangiato, decide di liberarsi dalla pesantezza di stomaco provocandosi il vomito. Questo comportamento
si ripete giornalmente ogni sera, per 15 sere di fila. È qui che Giulia constata che si
tratta di un metodo che la aiuta a perdere peso (perde 2 kg) e continua ad adottarlo a periodi alterni.
Nello stesso periodo si sviluppa anche il comportamento abbuffata ogni qual volta sperimenta un
senso di colpa o vive situazioni di incomprensione, svalutazione personale e senso di inadeguatezza.
È così che si innesca il meccanismo bulimico che Giulia si porterà dietro fino ad oggi.
La paziente presenta una storia di vita legata ad abusi, svalutazioni, incomprensioni e disapprovazioni,
nella famiglia di origine. Le figure significative di riferimento, che dovrebbero essere accudenti
e sostenitrici, nel suo caso si sono rivelate fisicamente pericolose (padre), poco protettrici (madre)
e svalutanti (madre e padre). La mancanza di sostegno, fisico ed emotivo, ha reso Giulia molto
fragile e incline a ricercare continui segnali di approvazione da parte delle stesse figure genitoriali.
Tali segnali non sono mai giunti, anzi, disapprovazione, squalifiche, disprezzo e richieste non adeguate
all’età erano all’ordine del giorno.
È comprensibile come, in un contesto familiare siffatto, Giulia abbia cercato disperatamente di
imporsi come persona e con il tempo, non riuscendo ad affermarsi, abbia riversato il proprio valore
personale sul corpo e sull’aspetto fisico, rendendolo contemporaneamente fonte di gratificazione e
di punizione.
Quando Giulia si trova in situazioni emotivamente forti, nelle quali viene messa in discussione la
sua immagine, si sente frustrata e in colpa ma non riesce a dare la giusta interpretazione agli stati
d’animo. Ha un’immagine del proprio valore personale alquanto limitata e le esperienze negative di
vita (vedasi abusi) non sono state lette con la giusta attribuzione. Conseguentemente ogni riferimento
alla sua persona, da parte di chi la circonda, tende ad essere negativo e squalificante: la paziente
sembra assumere atteggiamenti quasi punitivi nei suoi confronti, attraverso le abbuffate e le condotte
eliminatorie.
Dopo aver riflettuto con Giulia sui motivi che l’avrebbero indotta ad adottare il comportamento
bulimico, definiamo le priorità di trattamento e la tipologia di intervento da attuare, concordando i
tempi e i modi per attuarlo.
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Progetto terapeutico
Finalità
• Ridimensionare il comportamento abbuffata-vomito per limitare i danni fisici e gli squilibri
elettrolitici che esso determina nel corpo umano
• Educare la paziente al riconoscimento dei propri stati emotivi, alla giusta attribuzione di essi
e ad un conseguente e più congruo atteggiamento espressivo verso l’esterno e non verso
l’interno
• Indirizzarla su una costruzione dell’immagine di sé positiva incrementando il livello di autostima
Obiettivi: a breve, medio e lungo termine
• Riduzione del comportamento abbuffata-vomito
• Apprendimento al riconoscimento degli stati emotivi e di comportamenti idonei alla giusta
canalizzazione ed espressione di essi e gestione degli eventi stressanti
• Costruzione di un’immagine di sé positiva con incremento dell’autostima e riconoscimento
del proprio valore
Strategie
Evitamento di stimoli associati all’abbuffata, psico-educazione all’affettività, incremento
dell’autostima.
Tecniche
• Tecniche di rilassamento: training autogeno respiratorio
• Covert sensitisation
• Problem solving
• Ristrutturazione cognitiva
Trattamento e risultati
Ho incontrato la paziente per un totale di 45 sedute più 5 di follow-up.
I primi 5 incontri sono statti dedicati all'assesment. Fissate le finalità e gli obiettivi, è iniziato immediatamente
il trattamento, partendo dal raccogliere giornalmente informazioni tramite il Diario
alimentare (Borgo, 2011) e la scala Senical-R (Sibilia, 2009), con l’obiettivo di monitorare le abitudini
alimentari e le abbuffate. Attraverso questo lavoro Giulia si è resa conto che generalmente mangia
sempre a casa e nelle circostanze in cui si sente dubbiosa, in colpa, a disagio e nervosa. Mangia
con ansia, con foga, con fame o con furia, e pensa sempre di aver ecceduto in quello che ha ingerito.
Le abbuffate si verificano nelle ore serali e/o notturne “... è venerdì, ho mangiato tanto, troppo, fino
a farmi schifo da sola... ho vomitato... ore 1:25”, e comunque in concomitanza con le rimuginazioni
su eventi della giornata, sul senso di inadeguatezza percepito e quando si sente “... male e sola...”.
Nella settima seduta decido di sottoporre Giulia alla Covert sensitisation (C.S.) per arginare le
continue abbuffate e il vomito, ma prima di fare ciò si è reso necessario insegnarle una tecnica di rilassamento.
Spiego alla paziente la necessità di imparare a rilassarsi e che cercheremo di raggiungere questo
stato attraverso il training autogeno respiratorio. Sulle prime, un po’ scettica, Giulia afferma di non
essere capace a rilassarsi, ma la invito a mettersi alla prova. In effetti, nei 10 minuti dedicati al primo
esercizio di rilassamento, al semplice atto di chiudere gli occhi, mostra difficoltà a prendere le
distanze da quello che la circonda. Il non vedere intorno a se cosa succede la rende fisicamente ed
emotivamente vulnerabile “... mi sentivo irrequieta, a disagio ...”, tant’è che afferra un cuscino sul
divano e se lo pone sulla pancia come fosse uno scudo protettivo.
Successivamente, costruiamo la lista degli alimenti verso i quali associare disgusto e quella degli
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 17

stimoli disgustosi, attribuendogli un ordine numerico dal meno al più disgustoso:
LISTA CIBI STIMOLI DISGUSTOSI
-Cioccolata (merendine, biscotti al -Vermetti (8)
cioccolato, sfogliatine, ringo, oro-ciock, -Mosca (7)
cioccolatini, pasticcini)
-Cacca di tutti i tipi (animali e figli) (6)
- Patatine
-Ostriche (3)
-Pane con prosciutto, mozzarella, -Bagni sporchi di pipì (5)
verdura
-Letti di mariti e mogli (peli residui di rapporti)
-Salsiccia
(4)
-Affettati in genere
-Puzza di sudore (2)
-Puzza di fumo di sigaretta (1)
Nei due incontri successivi decido di dedicare più tempo al rilassamento per permettere a Giulia
di familiarizzare con questa tecnica. Questo mi ha permesso di portarla ad affrontare la C.S. con
maggiore padronanza e controllo, sia fisico che emotivo, così che potesse essere più facile per lei
visualizzare gli stimoli proposti.
L'intervento veniva effettuato presso il suo domicilio, ma dalla decima seduta Giulia mi ha comunicato
di voler continuare presso il mio studio perché “… mi sono scocciata di dover far vedere i
fatti miei agli altri... mia suocera stà sempre con l’orecchio alzato e mio suocero, ogni volta che mi
incontra dice sempre: ch vè a fa semp chell accà? (che cosa viene a fare sempre quella qui?) ...basta,
mi so stufata, prendo io la macchina e vengo... chi se ne frega…”.
Queste parole sono un forte segnale di cambiamento; manifestano la volontà di voler prendere le
distanze dall’ambiente dove vive e dal quale esce raramente; di volersi aprire verso l’esterno e verso
il mondo, ma soprattutto sono l’indicatore che finalmente Giulia comincia a credere nelle proprie
capacità e nella propria autonomia.
La C.S. ha i suoi effetti fin da subito, grazie all'ottima capacità di immaginazione di Giulia, prediligendo
l'utilizzo degli stimoli vermi e mosche, che considerava i più disgustosi. Questo intervento
terapeutico coincide con una significativa riduzione delle abbuffate e del vomito: Giulia dimostra di
aver compreso come trattenere l’impulso verso il cibo, cercando di mangiare solo durante i pasti
principali (passa da 77 a 71 kg).
Per rendere questa fase di “resistenza verso il cibo” più efficace, propongo a Giulia di compilare
una lista che abbiamo chiamato “LE MIE ALTERNATIVE”, cioè un elenco di tutte le cose che lei
potrebbe fare in alternativa all’abbuffata, ogni qual volta ne avverte il bisogno.
LE MIE ALTERNATIVE
-Pulire -Fare shopping
-Cucire -Guardare la Tv
-Uscire -Leggere
-Fare la cyclette -Cucinare
-Scrivere -Parlare con qualcuno
-Disegnare -Giocare con le bambine
-Stirare -Scappare
Dopo aver in parte modificato il comportamento abbuffata-vomito, tramite una tecnica avversiva e
allo spostamento dell'attenzione su attività che tengono la paziente lontana dalla fonte cibo, il ciclo
di incontri successivo è dedicato al raggiungimento del secondo obiettivo: imparare a riconoscere le
proprie emozioni e stati d’animo, e dare seguito a comportamenti più funzionali, nonché imparare a
gestire gli eventi stressanti.
Fin da subito emerge dalle parole di Giulia la convinzione di non essere in grado di riconoscere le
proprie emozioni. Attraverso la Ristrutturazione Cognitiva di questo pensiero, Giulia si rende conto
che utilizza il cibo come calmante ogni qual volta vive emozioni negative (dolore, rabbia), conse-
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guenti alla sensazione di non sentirsi capita. È un circolo vizioso che si ripete in continuazione: la
paziente scambia sensazioni emotive con sensazioni di vuoto/fame che colma con il cibo. L’esagerata
assunzione di cibo la fa sentire in colpa e vomita. Il vomito non placa le sensazioni negative e
di conseguenza ricomincia a mangiare. Ciò amplifica il senso di colpa che la spinge nuovamente a
vomitare.
Propongo quindi alla paziente una psico-educazione sul riconoscimento delle emozioni per cercare
di correggere gli errori di lettura ed interpretazione dei propri stati emotivi. Così facendo, Giulia
apprende che esistono delle emozioni di base che corrispondono a differenti stati emotivi collegati
ai pensieri e alle convinzioni.
A questo punto, inizia la fase dedicata al raggiungimento del terzo ed ultimo obiettivo terapeutico:
la costruzione di un’immagine di sé positiva con incremento dell’autostima e riconoscimento del
proprio valore personale.
In parte, nel corso della terapia, abbiamo già affrontato questi argomenti, quindi, partendo
dall’obiettivo di costruire un’immagine positiva di sé, chiedo a Giulia di esplicarmi cosa accetta e
cosa non accetta di sé:
COSA ACCETTO DI ME COSA NON ACCETTO DI ME
Sono simpatica
So fare tante cose (cucinare, fare
dolci, cucire, disegnare, ballare)
Sono volenterosa quando voglio!
Sono una brava madre (quando sto
male no!)
Il mio corpo
Sono cicciona
Sono una perdente
Non ho carattere
Tratto male le mie bambine
Sono odiosa
Considerando la difficoltà che la paziente espone rispetto all’accettazione della propria immagine
corporea e al fatto che per lei è fondamentale uscire di casa ben vestita, ben pettinata e ben truccata,
le propongo di mettersi alla prova per un giorno, sottoponendosi ad un esperimento che chiamiamo
“Sicura di me per un giorno”. Si tratta di trascorrere una giornata cercando di fare tutto quello che
farebbe se fosse sicura di sé. La consegna è : al mattino, indossare il primo abito che le capita, uscire
di casa senza truccarsi e fare tutte ciò che fa abitualmente, camminando per strada a testa alta,
con lo sguardo rivolto verso le persone con cui interagisce. Osservare le sensazioni che sperimenta
adottando questo atteggiamento e le reazioni che suscita nelle persone che incontra. Scopo
dell’esperimento è rendere Giulia consapevole del fatto che non sono né abiti particolari né trucco a
rendere la persona sicura di sé, ma che si può ricevere l’approvazione e il rispetto delle persone con
le quali interagiamo, anche senza questi due elementi.
Giulia accetta di sottoporsi all’esperimento e al successivo incontro mi racconta che è stato facile
indossare la prima cosa capitata per le mani, ma un po’ di trucco l’ha dovuto mettere: “… è stato
più forte di me... io senza trucco mi sento a nudo, per me è come una maschera e non truccarmi significa
far cadere questa maschera... forse non sono ancora pronta a farlo... o forse è questa maschera
che non mi permette di cambiare! Hai ragione... ci voglio riprovare!”.
T: “... secondo te basta il trucco per essere sicure di sé?”.
G: “... No... sicuramente dà una mano... ma è vero, io mi sento insicura anche se sono ben vestita,
pettinata e truccata. Certo che mi so proprio ingannare! Come posso fare allora?”.
Spiego a Giulia che il valore e la stima di sé sono elementi che ognuno di noi acquisisce nel corso
degli anni, a partire dalla più tenera età, fino all’adolescenza, momento in cui si raggiunge un’autonomia
di pensiero. Le persone per noi significative hanno un ruolo fondamentale ricordandoci, giornalmente,
quanto siamo bravi nello svolgere determinati compiti o attività, quanto siamo educati,
quanto siamo bravi a scuola ecc... Tutto ciò permette di accrescere il senso di auto-efficacia e facilita
l'incremento dell'autostima. Riflettiamo con Giulia sul fatto che il suo contesto familiare e sociale
di appartenenza non ha favorito questo sviluppo positivo della sua immagine; tuttavia ciò non significa
che non potrà più sviluppare un senso di sé come persona autonoma, competente ed efficace.
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Concordiamo a questo punto un progetto di rinnovamento rivolto alla costruzione di un programma
di vita più soddisfacente dell’attuale, che permetta a Giulia di diventare una persona autonoma, anche
sul piano economico, con obiettivi lavorativi che la portino a sentirsi competente e soddisfatta
di sé, in poche parole una “persona di valore”.
Giulia costruisce quella che chiama “OPERAZIONE RINNOVO”:
• Perdere altri chili (dieta, attività fisica: ballo, corsa, cyclette)
• Tagliare i capelli
• Raggiungere la taglia 44 entro l’estate (siamo in primavera)
• Non fare più la serva di nessuno
• Saper dire NO
• Fare la scuola da parrucchiera
I primi obiettivi della lista rimangono come sempre di carattere esclusivamente fisico, mentre i
successivi sono legati al miglioramento di aspetti di vita relazionale.
Decido di concentrare l’attenzione sulla volontà di Giulia di “saper dire NO”.
T: “Cosa ti impedisce di dire No a qualcuno?”.
G: “Se dico di no, si offende, ci rimane male, chissà che pensa... ”.
T: “Le persone a te dicono sempre si?”.
G: “Quasi mai!”.
T: “E tu che pensi... per quale motivo ti dicono no?”.
G: “Perché non c’hanno voglia di dire si, non c’hanno tempo, non possono fare quello che gli ho
chiesto...”.
T: “E tu come ci rimani davanti ad un no?”.
G: “Dipende da chi me lo dice... se ci tengo tanto ci rimango male...”.
Anche in queste affermazioni, Giulia manifesta un pensiero tipicamente adolescenziale, poco legato
al contesto e alle circostanze. Ha la pretesa che tutto si svolga come lei desidera, senza alcuna
possibilità di rifiuto: “Ci rimango male perché se mi dicono di no vuol dire che non ci tengono a
me... che non valgo la loro attenzione, la loro disponibilità... mi sento rifiutata...”.
Per Giulia ogni no è un rifiuto verso la sua persona e non verso la richiesta che ha avanzato.
T: “Se tu dicessi no a qualcuno... penseresti che stai dicendo no alla sua richiesta oppure stai svalutando
la persona che ti fa la richiesta?”.
G: “Mah... a questo non c’ho mai pensato...”.
T: “Facciamo un esempio. Se io ti chiedo: mi presti 50€? Tu cosa mi rispondi?”.
G: “E... non lo so... mi metti in difficoltà…” (Giulia assume un’espressione imbarazzata).
T: “Tu ce li hai 50 euro da prestarmi?”.
G: “No”.
T: “E dato che non ce li hai, che cosa puoi rispondermi?”.
G: “Che non ce li ho e non te li posso dare... ma è brutto!!”.
T: “Brava! Perché ti sembra brutto?”.
G: “Perché t’ho detto no...”.
T: “Ma tu hai detto no alla richiesta che io ti ho fatto oppure hai detto no a me... Nadia?”.
G: “Ah... ho capito... io ho detto no ai 50 euro che mi hai chiesto... però tu che penserai di me che
ti ho detto no?”.
T: “Penserò semplicemente quello che tu mi hai detto... – non ce li ho e non te li posso dare-”.
Spiego alla mia paziente la differenza tra le persone assertive e anassertive, e quanto queste tipologie
di atteggiamento influiscano nei rapporti sociali e sulla capacità di accettare o di rifiutare richieste.
È evidente come lei sia una persona anassertiva e che molti dei suoi atteggiamenti sono dettati da
questa caratteristica, per cui decidiamo di dedicare del tempo ad alcuni esercizi da mettere in atto
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nella vita quotidiana per imparare a dire “no”. Nello specifico, Giulia deve imparare a dire no quando
vuole, con tutte le persone con le quali ha contatti, soprattutto con i familiari più stretti e con le
amiche.
Nel tempo ottiene buoni risultati: riesce a dire no alla richiesta di un’amica che le chiede di tenerle
per qualche ora la figlia: “... prima le avrei detto sicuramente di sì anche se avevo già preso un impegno...
mi sarei fatta in quattro e sarei stata male”.
Un’altra situazione nella quale riesce a dire no, è alla richiesta della madre di accompagnarla a
fare la spesa: “... non mi andava di accompagnarla Nà... lei mi cerca solo quando le servo, se mi
serve lei a me dice sempre che non può e allora stavolta pure io le ho detto no! È stato più difficile
perché non avevo una motivazione concreta... tipo un impegno... è che non m’andava e basta!”.
T: “Si può dire no anche se non va di accontentare una richiesta, non necessariamente solo se si
ha un altro impegno!”.
G: “Infatti così ho fatto”.
A questo punto Giulia sembra essere sulla buona strada e nei successivi incontri la rinforzo sui risultati
positivi ottenuti e la correggo lì dove è necessario.
Un altro obiettivo dell’OPERAZIONE RINNOVO è fare la scuola da parrucchiera. Giulia ha difficoltà
economiche, la scuola è privata e lei non può pagarsela. Ma fare la scuola è il suo sogno e
l’unico modo per conquistare autonomia e indipendenza economica.
Propongo di fare un problem solving per trovare una soluzione al problema economico. Tra le alternative
elencate da Giulia, la strada che le sembra più logica e fattibile è quella di chiedere i soldi
al padre perché sicuramente non glieli negherebbe, ma: “... non me la sento di chiederglieli … sarebbe
come abbassarmi a lui e fargli capire che mi sottometto ancora una volta!”.
Le chiedo di riflettere bene su questa possibilità e nell’incontro successivo mi dice: “Ho deciso...
io andrò a scuola di parrucchiera con i soldi di mio padre!”.
Appare molto risoluta, finalmente decisa a portare a termine un obiettivo così importante per lei,
mettendo da parte rancori, dubbi, sensi di colpa, pensando esclusivamente a quello che lei vuole:
fare la scuola.
Nei giorni che seguono mi comunica di aver parlato con il marito dell’intenzione di chiedere i soldi
al padre, ma lui le dice di non farlo e che avrebbe fatto in modo di ricavarli dal suo stipendio.
Giulia si accorda con lui in questo modo e decide che, una volta iniziata la scuola, appena inizierà a
fare qualche lavoretto come parrucchiera, potrà avere qualche soldino con cui pagarla.
Trascorsa l’estate, Giulia inizia a frequentare la scuola per parrucchieri. Mi descrive questo periodo
della sua vita come molto tranquillo e sereno: ha raggiunto il peso di 65.5 kg, ha un buon controllo
degli impulsi ad abbuffarsi (da 4 settimane di fila non si abbuffa e non vomita), e finalmente è
uscita fuori dalle mura domestiche.
L’ingresso nella scuola non è stato semplice:
G: “Mi interessa fare una buona impressione... saper parlare, sapermi comportare... non mi importa
più del fisico, quello l’ho raggiunto... non voglio dare una brutta immagine di me alle persone...
adesso mi sento bella, simpatica e fiera di me”.
Relazione terapeutica: paziente
La paziente, nel primo incontro, manifesta un iniziale atteggiamento di imbarazzo, dettato dalla situazione
contestuale riguardante il disordine presente nella cucina e l’aspetto trasandato che aveva
nel momento in cui mi accoglie in casa. Dopo qualche minuto raggiunge comunque una apparente
tranquillità in seguito alle mie rassicurazioni. Comprendo che Giulia si sente a proprio agio nel momento
in cui comincia ad aprirsi emotivamente (piange) e mi racconta dell’abuso subito in tenera
età. È questo un momento di forte impatto emotivo per entrambe e sento che lei non ha alcuna remora
a proseguire con il racconto della sua vita.
Seduta dopo seduta Giulia assume un atteggiamento sempre più rilassato e mi riferisce che ogni
volta aspetta con ansia che arrivi il prossimo appuntamento per potersi sfogare. È propensa alla
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 21

messa in discussione ed alla collaborazione. Dopo qualche mese di terapia mi porta in regalo un angioletto
di gesso dicendomi “è solo un pensierino, l’ho visto lì sullo scaffale e ho pensato a te. Così
te lo metti qua sulla scrivania, lui ti guarda e ogni volta che lo guardi ti ricordi di me”. Ha molta
fiducia in me e mi manifesta costantemente il bisogno di appoggio, di comprensione e non giudizio.
La sento molto legata emotivamente. Anche durante il corso della terapia mi chiama per nome senza
alcuna difficoltà e io glielo concedo. Non abbiamo mai scambiato questa confidenzialità per
qualcosa che potesse ostacolare la terapia.
Relazione terapeutica: terapeuta
Giulia è stata la mia prima paziente ed anche una paziente piuttosto impegnativa dal punto di vista
terapeutico. Con lei ho sperimentato molte sensazioni, sia negative che positive, forse tutte quelle
che si possono sperimentare con una persona che si sente sola nonostante sia circondata da tanta
gente; che deve combattere giornalmente contro i propri impulsi e contro la chiusura dell'ambiente
in cui vive e che fa fatica a trovare il suo posto nel mondo.
La crescita è stata reciproca: per me in termini professionali, per lei in termini di donna, di madre
e di moglie.
Follow up
Fisso con la paziente 5 incontri di follow up nei quali rivediamo la situazione passata messa a confronto
con l’attuale e preveniamo eventuali ricadute. La trovo fisicamente asciutta, ben vestita e
truccata, con i capelli sempre curati ma non per nascondere il proprio disagio: “… Mi sento bene…
e voglio farlo vedere a tutti che sto bene… mi piaccio e voglio piacere”.
Giulia mi confessa che in alcune circostanze ricade nell’abbuffata. Si tratta di situazioni in cui
sperimenta sensi di solitudine, incomprensione da parte del marito: “… a volte non ce la faccio a
ragionare, a capire le mie emozioni… ma mi rendo conto che lo faccio non perché non lo so fare,
ma perché mi va di farlo… mi sembra di essere stanca ed è più facile e più comodo abbuffarmi che
agire in modo più costruttivo…”.
I conflitti con il marito sono ancora presenti perché fondamentalmente Giulia non è soddisfatta di
quest’uomo che non è molto stimolante nei suoi confronti, abbastanza taciturno e poco intraprendente
“… forse l’ho sposato solo per andare via di casa… o forse lo amavo veramente… boo non
lo so più!”.
Rispetto al rapporto con il padre c’è stata una svolta: un giorno si è trovata a casa dei genitori
mentre era in corso una discussione che il padre stava avendo con la figlia minore. All’improvviso
lei è intervenuta per difendere la sorella e il padre l’ha strattonata dicendole di farsi i fatti suoi: “…
non c’ho visto più… gli sono saltata addosso e gliele ho date di santa ragione… e mentre gliele
davo gli dicevo – brutto porco tu non me le metti più le mani addosso, non sono più quella di una
volta - gli ho fatto male alle gambe, quanti calci c’ho dato Nà… mi so proprio sfogata”.
T. “Come ti sei sentita dopo?”
G. “Libera finalmente libera... anche se alla fine non gli ho detto esattamente quello che mi aveva
fatto, però lui l’ha capito… s’è visto che l’ha capito… e adesso non mi fa più la sensazione di prima…
mi sento più forte nei suoi confronti”.
Nel frattempo Giulia sta continuando a frequentare la scuola per parrucchieri. Dalla frequentazione
della scuola riceve molte soddisfazioni: i professori la lodano per l’abilità manuale che possiede
nel fare le pettinature, prende il massimo dei voti a tutti i compiti in classe (“… anche se non è facile
per me studiare… non sono più abituata … faccio fatica a ricordare le cose… e poi la casa, le
bambine, ma mi ci metto e trovo il modo di farlo”). Anche il rapporto con i compagni è migliorato:
inizialmente si sentiva osservata, era preoccupata dell’immagine che dava, adesso non è più concentrata
su di sé, ma sulla relazione degli altri. Tutti sembrano stimarla “...mi dicono: ma come fai con
la casa, le bambine, un marito… sei proprio una donna da ammirare. E poi quando sto un po’ male
subito se ne accorgono… mi dicono: Giulia stamattina che hai fatto? Hai gli occhi tristi. Loro non
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sanno dei miei problemi con il cibo, ma non è importante che lo sappiano… io adesso non sono più
la Giulia di prima… si, c’ho ancora tanti problemi, ma so che posso e so affrontarli e risolverli”.
Nel frattempo ha iniziato anche a lavorare come parrucchiera, creandosi una clientela tra le amiche
e i parenti. “Adesso so che posso essere autonoma... sono capace di lavorare e guadagnare e so
farlo anche bene… è bello non dover dipendere dagli altri”.
Lascio Giulia con la possibilità di poter sempre fare riferimento a me ogni qual volta ne sente la
necessità. Ogni tanto ricevo qualche sua telefonata… mi tiene aggiornata sull’andamento della sua
vita, adesso sa andare avanti autonomamente. Altre volte è lei che riceve le mie telefonate… la mia
è stata la prima testa “vera” sulla quale ha fatto il suo primo taglio di capelli (non poteva essere altrimenti!
Chi meglio di me poteva e doveva darle fiducia, dopo tutto il lavoro di crescita personale
che abbiamo fatto insieme!) e così è diventata la mia parrucchiera!
Bibliografia
A.I.O. Associazione Italiana obesità. (2001). Peso Sovrappeso Obesità. Come e perché. Riuscire a
dimagrire o vivere felici con la propria identità. Una guida sintetica ad efficace per prevenire, informare,
aiutare, associare. Roma: Guidaverde editrice.
American Psychiatric Association. (2001). Mini DSM-IV-TR-MG. Manuale diagnostico e statistico
dei disturbi mentali per la Medicina Generale. Milano: Masson.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Un approccio nuovo alla cura dei disturbi affettivi.
Roma: Astrolabio.
Borgo S. (2011). Analisi Formativa. Roma: Alpes Italia.
Borgo S., Della Giusta G., Sibilia L. (2001). (a cura di). Dizionario di psicoterapia cogntivo-comportamentale.
Milano: McGraw-Hill.
Guidano V. F., Liotti G. (1979). Elementi di psicoterapia comportamentale. Roma: Bulzoni editore.
Sibilia L. (2009). La valutazione cognitivo-comportamentale nell’obesità. Psycomed: Rivista telematica
di psicoterapia, medicina psicosociale, psicologia della salute e preventiva. Anno IV n.1-
2-3 dicembre. www.crpitalia.eu/psycomed.html
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 23

NON FIDARSI…È MEGLIO. IL CASO DI ALESSIA.
Di Adriana Saba, psicologa-psicoterapeuta, collaboratore dell’Associazione Italiana di Psicologia Preventiva
(AIPRE), socio del Centro per la Ricerca in Psicoterapia (CRP), Tutor presso la Scuola di Specializzazione in
Psicoterapia Cognitivo Comportamentale ed Intervento Psicosociale diretta dal CRP e AIPRE, mail:
adriana.saba30@gmail.com
Brevi cenni identificativi
Alessia è una donna di 48 anni. È sposata da 17 anni con Marco (49 anni) con il quale ha avuto un
figlio (Roberto) di 12 anni. Marco è coreano, vive in Italia da più di 20 anni e attualmente gestisce,
insieme al fratello, una società che si occupa di organizzare viaggi turistici per i coreani che vengono
in Italia.
Alessia vive, con il marito ed il figlio, in un piccolo paese in provincia di X. Attualmente non lavora
e la sua vita si svolge prevalentemente tra la casa e la parrocchia dove insegna catechismo e fa
volontariato.
I due genitori, ancora vivi, sono due ex insegnanti e abitano in una casa accanto alla sua. Alessia
ha un fratello di 50 anni che vive in Australia da 12 anni ed una sorella di 56 anni che abita a pochi
metri di distanza da lei.
Motivo della richiesta
Alessia mi contatta dopo aver partecipato ad un “gruppo genitori” tenuto da me ed un’altra collega.
Si presenta al primo colloquio dicendo di avere necessità di parlare dell’invadenza di alcuni pensieri
negativi, specialmente rispetto a sé stessa, che si presentano in situazioni sociali e che le impediscono
spesso di sentirsi a suo agio. Lamenta inoltre di sentirsi tesa e a volte arrabbiata.
Anamnesi soggettiva
Alessia ricorda poco della sua infanzia. Rammenta che era la mamma a prendersi maggiormente
cura di lei, mentre il padre era una figura rigida e autoritaria che parlava poco e le suggeriva continuamente
di non fidarsi di nessuno. Le attenzioni della madre erano principalmente rivolte alla sua
cura materiale, mentre affettivamente era distaccata.
Riferisce che sono stati i genitori a scegliere per lei la scuola superiore, ragioneria, mentre lei
avrebbe voluto frequentare il liceo linguistico con il sogno di fare l’interprete.
Alessia vive a Y fino all’età di 15 anni circa. Successivamente si trasferisce insieme alla famiglia
a X dove inizia a frequentare un ambiente di ceto sociale molto più elevato rispetto al precedente.
Racconta che i genitori non le consentivano di ricevere amici a casa e che lei stessa, specialmente
fino all’età dell’adolescenza, non poteva andare a trovare nessuno.
All’età di 16 anni Alessia intraprende la sua prima storia sentimentale, durata un anno, con un ragazzo
della sua classe. Simone era molto ricco ed insieme frequentavano ragazzi del suo stesso ceto
sociale. Inizialmente questo stile di vita piaceva ad Alessia che, oltretutto, approfittava del fatto che
Simone piacesse ai genitori per avere più occasioni di uscire.
L’ultimo anno di scuola superiore conosce un “ragazzo di sinistra” che frequenta per circa un
anno. Alessia racconta che con lui si trovava bene, riusciva a parlare molto, era simile a lei negli
ideali e negli interessi e la esortava a non frequentare “quegli altri con cui non ci faceva niente”.
Finite le scuole superiori si trasferisce a X dove si iscrive all’università; cambia facoltà tre volte e
non riesce a laurearsi. All’età di 24 anni conosce Marco in un ristorante dove egli lavorava insieme
ai fratelli. Si sposano dopo circa sei anni di fidanzamento. Il loro matrimonio è stato ostacolato da
entrambe le famiglie a causa della differente provenienza culturale. Subito dopo il matrimonio Alessia
inizia a lavorare come ragioniera in una società di consulenza. Vivono a X fino al ‘99, dopodiché
si trasferiscono in X.
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Nel ‘96 nasce Roberto. Durante questo periodo si trasferisce a casa loro la mamma di Marco.
Alessia ricorda questo come un momento molto difficile a causa della presenza “invadente e autoritaria”
della suocera e della rigidità del marito che non osava contraddire la madre.
Dal ’92 fino al 2000 partecipa ad un gruppo Buddhista; dai suoi racconti emerge una frequentazione
ma non un’adesione totale. Attualmente Alessia è cattolica, praticante, molto impegnata nella sua
parrocchia. Con Marco il rapporto è buono, anche se Alessia soffre della estrema gelosia del marito
e del fatto che comunicano poco. Le piacerebbe condividere di più quello che fa con lui.
Strumenti di rilevazione
Colloquio clinico, osservazione, somministrazione del CBA, della RAS e del Personality Data
Form.
CBA: sintesi dei risultati
Nella dimensione estroversione-introversione il soggetto ha ottenuto un punteggio alto, prossimo
al polo dell’estroversione. Ciò può indicare che la persona è socievole, amante della compagnia e
desiderosa di un rapporto continuo con la gente. Ricerca le emozioni, non si tira indietro di fronte a
situazioni nuove, agisce spesso secondo lo stimolo del momento e accetta volentieri i cambiamenti.
Nel complesso i suoi sentimenti possono, a volte, mancare di equilibrio. Il punteggio alla scala N
può indicare un umore a volte mutevole e facilmente eccitabile. L’alto punteggio alla scala P, in
questo caso, può evidenziare un aspetto legato all’anticonformismo caratterizzato dal desiderio di
sperimentare situazioni nuove e insolite. Il punteggio alla scala L può indicare la tendenza del soggetto
a porsi in buona luce. Lamenta di sentire spesso il cuore batterle forte, di balbettare spesso o
sentire che le si inceppino le parole, di capitarle spesso di arrossire, di avere spesso tremori e sentire
spesso le mani sudate. Riferisce reazioni di paura nei confronti di un numero molto elevato di stimoli
e situazioni. Soprattutto si evidenziano situazioni di rilievo sociale nelle quali il soggetto teme
di essere rifiutato e fatto oggetto di critiche severe. Alcune paure sono relative alla vista di sangue e
ferite, ad iniezioni ed interventi chirurgici. Si evidenzia la presenza frequente di pensieri intrusivi
sgradevoli, di lunghe rimuginazioni mentali e di dubbi per questioni di scarso rilievo.
Personality data form: risultati
Nell’area dell’accettazione – valore – successo emergono: sensibilità al giudizio altrui, senso di
inutilità/ sgradevolezza di fronte ad una conoscenza profonda, senso di colpa verso le proprie azioni
o pensieri, ansia e alta criticità verso le proprie prestazioni.
Nell’area frustrazione – ingiustizia emergono: forte dispiacere e autocompiangimento quando le
cose vanno male, scarsa tolleranza alla frustrazione quando le proprie richieste non vengono assecondate
e un atteggiamento punitivo nei confronti di errori o azioni immorali.
RAS: risultati
Punteggio: 39 - Tendenza all’aggressività
Assessment comportamentale
Ambito e gerarchizzazione dei problemi
Alessia elenca i problemi che attualmente sono per lei fonte di stress ed insieme stabiliamo una
gerarchia:
• Invadenza di alcuni pensieri, prevalentemente legati a situazioni relazionali, che sembrano
impedirle di esporsi e sentirsi a suo agio
• Difficoltà ad entrare in relazione con gli altri
• Difficoltà ad esprimere e gestire le proprie emozioni
Identificazione e descrizione del problema prescelto
La difficoltà di Alessia all’iper riflessione si manifesta il più delle volte attraverso pensieri inerenti
la sua auto percezione. Tali pensieri sono pessimistici, negativi e legati ad un suo senso di inadeguatezza.
A volte il contenuto dei suoi pensieri riguarda una percezione negativa e minacciosa dell’altro
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che Alessia vive come ostile nei suoi confronti. Le emozioni che sperimenta maggiormente in queste
situazioni sono frustrazione e rabbia che Alessia gestisce con difficoltà.
Identificazione degli eventi antecedenti esterni e interni
Il rimuginio e l’incalzare dei pensieri negativi si manifestano quando Alessia vorrebbe esprimere
un parere o un’opinione (a volte tali pensieri bloccano l’emissione stessa di ciò che vorrebbe dire);
dopo aver espresso un’opinione, idea o riflessione; prima di emettere un comportamento (anche in
questo caso i pensieri la bloccano e le impediscono di fare ciò che vorrebbe); in seguito all’emissione
di un comportamento. Spesso, tali pensieri, vengono prodotti in seguito a ciò che dice o fa qualcuno
che si trova con lei. Il problema non si presenta nell’interazione con il figlio e con il marito.
Le sensazioni fisiche che avverte sono: tremore, calore che cresce e mani sudate. L’immagine che
ha prima ancora dell’emissione dei pensieri è un fuoco o una fonte intensa di calore. Vengono emessi
pensieri di questo tipo: “sono la solita cretina”, “sicuramente ho detto una stupidaggine”, “e ora
chissà che pensano gli altri?”, “perché ha fatto così? Forse non mi vuole prendere in considerazione”,
“io cerco di essere carina e lei non mi considera”. La situazione peggiore che Alessia immagina
è che gli altri alle spalle ridano di lei e abbiano un’idea negativa sul suo conto.
Identificazione degli eventi conseguenti esterni e interni
Dopo l’emissione di pensieri negativi e pessimistici Alessia si allontana dalla situazione che sta
vivendo, oppure smette di parlare o di fare quello che aveva pensato di fare o che stava facendo. In
seguito si sente triste, frustrata, non considerata o arrabbiata. A volte sperimenta senso di solitudine
e di inadeguatezza. L’unica immagine che le viene in mente è quella di trovarsi in un posto completamente
diverso o di essere un’altra persona, ottimista, positiva e senza preoccupazioni.
Analisi dei processi cognitivi
Prima. Alessia riporta l’immagine di una fonte intensa di calore o di un fuoco. I suoi pensieri inizialmente
sono di questo tipo: “ecco, ci risiamo”; “mi sento già a disagio”; “perché non so stare
bene come tutti gli altri?”.
Durante. L’immagine del calore si fa più flebile, inizia un incalzare di pensieri: “sto dicendo una
stupidaggine”; “cosa staranno pensando di me?”; “mi chiedono di fare qualcosa e guarda che combino”;
“forse dovrei fare come lei”; “e ora cosa dico? Mi sento male, non sono in grado”; “io ho
fatto tanto e non vengo neanche riconosciuta”; “mi ha detto di no, sicuramente non le va di stare
con me”.
Dopo. In seguito Alessia si dice: “Ma cosa ho detto”; “Perché ho fatto così”; “Ecco mi sta guardando
male, ho sbagliato tutto”. Le immagini che le vengono in mente sono quelle di trovarsi in un
luogo diverso rispetto a quello in cui si trova o di essere un’altra persona.
Forme di autocontrollo e soluzioni previe
Ha cercato alcune volte di rimanere nella situazione nonostante non si sentisse a suo agio e si è
resa conto che dopo un po’ i pensieri si bloccavano e riusciva a stare meglio. Alessia dice che “il
fare e il dedicarsi a qualcosa la aiuta a pensare di meno”.
Repertorio comportamentale efficace
Alessia dichiara di essere consapevole di avere delle risorse (spirito d’iniziativa, operosità, creatività)
e che in tante situazioni il suo operato ha ricevuto riconoscimento.
Valutazione cognitivo – comportamentale: elementi significativi
Alessia si è dimostrata fin dall’inizio molto abile a riconoscere i suoi pensieri automatici. Attraverso
un lavoro con le schede ABC e grazie al questionario sulle convinzioni siamo riuscite a mettere
in evidenza molte delle sue convinzioni disfunzionali. Di seguito vengono riportate alcune delle
convinzioni ritenute più significative per effettuare una valutazione cognitivo-comportamentale:
• “È insopportabile provare disagio, sentirmi tesa o nervosa”
• “Se non piaccio alle persone per me importanti ciò dimostra che sono un individuo senza
valore”
• “Quando mi sento tesa, nervosa o a disagio penso che ciò dimostri che sono una persona
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inutile”
• “È terribile riuscire male nelle cose importanti e penso che sia catastrofico che ciò accada”
• “Ora pensano che non sono capace”
• “Ecco, sono la solita cretina”
• “I miei pensieri sono così radicati e profondi che forse non c’è niente da fare”
• “Non sarò mai capace di affidarmi a qualcuno”
Alessia ha un vocabolario ricco di espressioni che riguardano emozioni, stati d’animo, sentimenti
e sensazioni. Sembra però confondere l’imbarazzo con il senso di inadeguatezza, la paura con
l’ansia, la rabbia con la tristezza. Lei stessa riconosce di non riuscire ad esprimere adeguatamente
ciò che sente, sia emotivamente che verbalmente.
Alessia si dichiara resistente nel raccontare le proprie cose, specialmente quelle più intime. La sua
paura più grande è di essere giudicata o che le proprie confidenze vengano raccontate ad altri.
Con i genitori Alessia non ha un buon rapporto. Loro la giudicano per il suo impegno in parrocchia
che pensano sia una perdita di tempo. Anche con la sorella non ha una relazione positiva, Alessia
non sopporta il suo atteggiamento interpretativo e giudicante. Rimpiange, invece, il rapporto con
il fratello, l’unico con cui andava d’accordo e che secondo lei è andato a vivere in Australia per fuggire
dalla famiglia.
Sindrome osservata
• Presenza frequente di pensieri intrusivi sgradevoli e di lunghe rimuginazioni mentali (CBA,
Personality Data Form, colloquio clinico, schede di autosservazione)
• Umore mutevole accompagnato dalla difficoltà a gestire le proprie emozioni in particolare
rabbia e frustrazione (CBA, Personality Data Form, colloquio clinico, schede di autosservazione)
• Tendenza ad utilizzare uno stile comportamentale aggressivo (RAS, colloquio clinico).
Ipotesi esplicativa
Per la comprensione della problematica di Alessia sono considerati centrali i suoi genitori. Sebbene
la madre si è rivelata la figura di accudimento principale, le sue cure si sono concentrate sul soddisfacimento
di necessità materiali. Il padre, che non si è preoccupato della cura dei figli, è stato
vissuto come una figura rigida e distaccata affettivamente. La distanza delle figure genitoriali si è
associata alle loro convinzioni, specialmente del padre, rispetto alla visione degli altri e del mondo.
L’idea che degli altri non ci si deve fidare ha creato in Alessia una lettura negativa degli eventi
relazionali.
Attualmente Alessia attribuisce la causa della negatività della propria esistenza alternativamente a
sé o alla responsabilità altrui. Quando prevale la responsabilità della situazione su di sé si assiste
all’emergere di pensieri prevalentemente autosvalutanti; quando invece la responsabilità degli eventi
viene attribuita agli altri si assiste soprattutto all’assunzione di comportamenti rivendicativi e colpevolizzanti,
a volte connotati in senso aggressivo. L’oscillazione fra le due posizioni descritte spiega
il frequente alternarsi di sensazioni di disperazione e di rabbia (Bara, 1996).
Alessia nel suo percorso evolutivo ha imparato ad adattarsi alla realtà esterna attraverso comportamenti
di dissimulazione e di inganno, compromettendo il proprio senso di autenticità personale nelle
relazioni (Bara, 1996). Tali strategie, sebbene disfunzionali per l’equilibrio personale, hanno rappresentato
tentativi di raggiungere e mantenere uno stato possibile di relazione con l’altro e di evitare
rifiuti ed abbandoni.
Ad Alessia sembra, inoltre, essere mancata una competenza fondamentale nel repertorio comportamentale
dell’assertività, ossia la capacità di saper dire di no, riconducibile all’inesperienza relazionale.
Alessia presenta una tendenza a drammatizzare il significato dei singoli avvenimenti; tale aspetto
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è un ulteriore spiegazione dei frequenti cambiamenti di umore: anche un piccolo evento può diventare
segno del proprio valore attorno al quale costruire, in quel momento, l’intera percezione di sé.
L’inclinazione ad utilizzare uno stile comportamentale tendente all’aggressività si può ricondurre
alla sua carente esperienza relazionale. Inoltre l’aver avuto dei modelli genitoriali con pochi contatti
sociali non le ha permesso di apprendere, attraverso l’osservazione, modalità relazionali efficaci.
Beck (1984) descrive ampiamente le “regole” che ogni individuo costruisce in base ad esperienze
concrete e che vengono utilizzate come modello per valutare, guidare o inibire i vari comportamenti.
Applicando queste regole, modelli o principi ogni persona valuta il significato delle azioni di altre
persone e interpreta come gli altri giudicano le proprie. Alessia sembra aver costruito alcune delle
sue regole in base a significati e predizioni negative tratti da circostanze presenti o passate.
Nonostante le sue problematiche Alessia possiede risorse che nel suo percorso evolutivo le hanno
consentito di proteggersi dal rischio di incorrere in patologie più gravi. Ha costruito rapporti interpersonali
significativi anche se limitati a figure maschili; riesce a tenere in piedi una relazione coniugale
che per lei è una fonte importante di gratificazione; svolge con dedizione e impegno il suo
ruolo genitoriale; è capace di far parte di una comunità dove opera attraverso mansioni educative e
sociali.
Relazione terapeutica
Grazie alla precedente conoscenza, avvenuta al training per genitori a cui Alessia aveva partecipato,
è stato più facile porre le basi per la costruzione di una positiva relazione terapeutica. Per chiarire
meglio il significato del percorso che avremmo intrapreso ho spiegato lei la metafora dell’uomo
scienziato e dell’analogia ricercatore-supervisore di una ricerca. Alessia ha accolto con positività la
spiegazione fornitale. Alessia ha da subito espresso la sensazione di libertà di potersi raccontare dicendomi
di non sentirsi giudicata. Questo le ha consentito di aprirsi completamente e di dimostrarsi
sincera. Alessia ha svolto fin da subito i compiti a casa dicendomi che le erano di grande aiuto per
comprendere meglio ciò che pensava e le accadeva, evitando di rimuginare ulteriormente e di fare
confusione.
In generale la relazione terapeutica tra me e Alessia è stata un fattore molto importante del percorso
terapeutico, in quanto ha permesso ad Alessia di sperimentarsi positivamente in una relazione, di
fidarsi completamente di qualcuno e di eliminare molte convinzioni negative inerenti l’ “altro”.
Progetto terapeutico
Alla fine del processo di assessment abbiamo stabilito insieme le modalità e gli obiettivi della terapia.
• Obiettivo a breve termine: riconoscere, valutare e mettere in discussione i pensieri negativi
e le convinzioni disfunzionali. L’obiettivo può dirsi raggiunto quando la paziente sarà in
grado di individuare repentinamente pensieri e convinzioni disfunzionali e di sostituirli con
modi di pensare funzionali alla realtà circostante. In particolare dovrà essere in grado di
rapportarsi agli altri senza farsi condizionare da idee e convinzioni irrazionali e di valutare
se stessa e le proprie azioni in modo razionale e auto incoraggiante
• Obiettivo a medio termine: imparare a riconoscere, esprimere ed eventualmente gestire le
proprie risposte emotive di fronte ad alcune situazioni stimolo. L’obiettivo sarà raggiunto
quando Alessia sarà in grado di esprimere adeguatamente le proprie emozioni senza
compromettere la relazione con l’altro e il proprio benessere psicologico
• Obiettivo a lungo termine: mettere in atto uno stile comportamentale assertivo. L’obiettivo
sarà raggiunto quando la paziente sarà in grado di riconoscere le proprie esigenze e di
affermarle, esprimendole, all’interno del proprio ambiente con buone probabilità di
raggiungere i propri obiettivi e di mantenere, al contempo, una buona relazione con gli altri
Rispetto all’assessment condotto ho ritenuto le seguenti finalità come principali dell’intervento:
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• Portare la paziente a pensare ed interpretare i fatti secondo modalità maggiormente aderenti
alla realtà
• Rendere la paziente in grado di esprimere e gestire le proprie risposte emotive nel rispetto
delle proprie relazioni interpersonali
• Potenziare uno stile comportamentale assertivo
• Rendere la paziente consapevole dei propri successi al fine di rinforzare una stima di sé positiva
• Ridimensionare il significato di alcuni eventi rilevanti della propria vita portandola a riflettere
sulle motivazioni sottostanti i propri comportamenti in alcune situazioni
Sedute 1-8
Obiettivi
• Accogliere e ridefinire la richiesta di Alessia
• Identificare e definire il problema
• Condurre un assessment cognitivo-comportamentale
• Ricostruire la sua storia di vita
• Conoscere le motivazioni all’intervento e la disponibilità alla collaborazione
• Stabilire gli obiettivi della terapia
Strategie e tecniche
Ho accolto Alessia ascoltando la sua richiesta e guidandola nell’esposizione e definizione del problema.
Dopo aver esplorato le sue motivazioni all’intervento ho condotto un assessment cognitivo –
comportamentale che è servito a comprendere e definire la sua problematica. Ho somministrato il
CBA, la RAS e il Personality data form. A conclusione di questa prima fase abbiamo stabilito gli
obiettivi della terapia riservandoci di verificare in itinere l’andamento del percorso.
Seduta 9-12
Obiettivi
• Imparare a riconoscere i propri pensieri disfunzionali
• Mettere in discussione i propri pensieri disfunzionali e imparare a decatastrofizzare
Strategie e tecniche
A partire dalla compilazione del Personality Data Form mi sono soffermata, insieme ad Alessia,
ad analizzare i suoi pensieri disfunzionali. Dopo averne chiarito le caratteristiche le ho proposto la
compilazione delle schede A-B-C per imparare, una volta riconosciuti i pensieri, a metterli in relazione
alle situazioni di fronte alle quali vengono prodotti e alle conseguenze che seguono la loro
emissione.
Il passo successivo è stato quello di imparare a metterli in discussione seguendo i seguenti passi:
raccogliere le prove a favore e a sfavore delle convinzioni rintracciate; ideare le alternative, ossia
quali altri modi esistono di interpretare la realtà; decatastrofizzare, cioè fare una valutazione realistica
delle implicazioni (conseguenze ed effetti) di una data avversità; elaborare un piano d’attacco,
ossia pensare concretamente a cosa si può fare per migliorare la situazione e passare eventualmente
all’azione (Seligman, 2006).
Seduta 13-18
Obiettivi
• Imparare a riconoscere le proprie emozioni
• Utilizzare le conoscenze acquisite durante le fasi precedenti per comprendere il legame tra
pensieri, emozioni e comportamenti
• Riuscire ad esprimere e gestire le proprie emozioni, in particolare rabbia e frustrazione
Strategie e tecniche
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 29

I passi seguiti nel lavoro sono stati: comprendere cos’è un’emozione; riconoscere le componenti
coinvolte in una risposta emotiva; discriminare i diversi livelli d’intensità di un’emozione; definire
le emozioni fondamentali; riconoscere le proprie risposte emotive di fronte ad alcune situazioni stimolo;
scoprire le connessioni esistenti tra pensieri, emozioni e comportamenti; valutare l’adeguatezza
delle proprie risposte emotive (Becciu, Colasanti, 2004).
Durante questa fase Alessia si è resa conto di esprimersi molto spesso con rabbia e di provare frustrazione
di fronte a stimoli esterni poco rilevanti. Perciò ci siamo concentrate sulla gestione di queste
due emozioni e sulla valutazione di risposte emotive alternative adeguate.
Seduta 19-25
Obiettivi
• Discriminare i diversi stili comportamentali
• Definire il proprio stile comportamentale
• Apprendere un stile comportamentale assertivo
Strategie e tecniche
Le competenze e gli strumenti acquisiti da Alessia nelle precedenti fasi della terapia le hanno consentito
di sperimentare efficacia e di sentirsi pronta a lavorare sul comportamento. A partire dal punteggio
ottenuto nella RAS ho cercato di definire il suo stile comportamentale tendente all’aggressività
e, attraverso una lettura, di metterlo a confronto con lo stile passivo e assertivo (Becciu, Colasanti,
2000).
Inizialmente abbiamo lavorato sull’ascolto come competenza attiva soffermandoci sull’aspetto
della risposta ad un messaggio, in particolare sugli interventi comunicativi che incoraggiano la comunicazione
dell’interlocutore: la riformulazione, la formulazione di domande aperte e semistrutturate,
l’uso dosato del silenzio.
Successivamente abbiamo considerato le abilità necessarie per iniziare una conversazione ossia:
scegliere un argomento opportuno, autorivelarsi, formulare domande aperte e/o fornire informazioni
personali, avere senso del timing, cioè cogliere il momento opportuno nel quale intervenire. Dopodichè
abbiamo lavorato sull’importanza di poter proseguire una conversazione rimanendo in sintonia
con l’interlocutore; a riguardo abbiamo trattato le seguenti abilità: saper cogliere le libere informazioni,
ossia ciò che una persona dice di sé oltre a quanto le è stato chiesto, formulare domande e
fornire informazioni personali.
Sono stati, inoltre, presi in considerazione i rituali legati alla chiusura di una comunicazione, importanti
per Alessia che, spesso, nelle sue interazioni, non sentendosi a proprio agio, si congedava
dal proprio interlocutore con modalità brusche e poco adeguate alla situazione.
Al fine di instaurare comunicazioni autentiche si è rivelata importante la capacità di esprimere
sentimenti ed opinioni.
Un’altra abilità significativa, su cui abbiamo lavorato, è stata quella di fare e ricevere complimenti,
rispetto alle quali erano emerse modalità comportamentali inadeguate, legate o ad un’invadenza
nell’essere estremamente gentile con l’altro o, nel caso in cui riceveva complimenti, ad un’emozione
di forte imbarazzato accompagnata da frasi del tipo: “non me lo merito”, “non è così”. Per cui è
stato importante sottolineare la differenza tra un sano amor proprio e forme narcisistiche ed egocentriche
di rapportarsi all’altro.
In seguito abbiamo lavorato sul fare e ricevere critiche. Quest’aspetto è stato importante in quanto
la modalità di Alessia di rivolgere critiche era connotata dall’utilizzo di espressioni inadeguate,
spesso aggressive, mentre il fatto di riceverle comportava lo sperimentare rabbia e frustrazione. Abbiamo
considerato l’importanza di formulare critiche costruttive, ossia: indirizzate al comportamento,
espresse in modo positivo e attraverso termini concreti e precisi riferimenti che sollecitino il senso
di responsabilità. Ho inoltre rinforzato l’abilità di saper ricevere critiche costruttive e di sapersi,
invece, difendere da quelle aggressive e manipolative.
L’ultima forma di comportamento assertivo trattata è stata quella riguardante il fare e rifiutare ri-
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chieste. Tale lavoro si è rivelato importante specialmente nell’aspetto inerente il rifiutare una richiesta,
che in Alessia si accompagnava all’emergere di pensieri disfunzionali associati alla paura di essere
rifiutata dall’altro (Becciu, Colasanti, 2000).
Nel lavoro sull’assertività ho utilizzato i seguenti metodi e strumenti: lettura di testi e documenti
inerenti gli argomenti trattati, schede di autosservazione, esercizi da completare, situazioni stimolo
con domande di riflessione.
Verifica dei risultati e follow up
Alla fine della terapia Alessia riporta episodi in cui sussiste ancora l’emissione dei pensieri negativi
ma appare cambiata la modalità con cui li affronta. Alessia sostiene di accettarli e di trattarli
come ipotesi; la sostituzione sta divenendo sempre più immediata ed alcuni pensieri negativi non
compaiono più e nelle situazioni sociali si sente più rilassata e a suo agio.
Sul versante emotivo Alessia dice di essere ora maggiormente consapevole dell’emozione che
sperimenta e di riuscire a distinguerle meglio. In particolare, rispetto alla rabbia sembra aver imparato
a gestirla anche grazie all’utilizzo di pensieri funzionali. Inoltre ha ridimensionato la lettura di
alcune situazioni relazioni dove la rabbia scaturiva da una risposta dell’altro. Anche la frustrazione,
sperimentata in qualche circostanza, sembra aver lasciato il posto ad un’emozione di dispiacere che
“passa dopo un po’”.
Riguardo al suo stile comportamentale Alessia si dichiara molto soddisfatta dei risultati raggiunti:
l’operatività e la concretezza delle indicazioni ricevute le ha dato modo di metterle subito in atto e
di verificarne il risultato. Alessia sostiene di sentirsi più competente e non più sprovveduta degli
strumenti necessari per costruire relazioni positive. Inoltre, l’acquisizione di nuove abilità comunicative
le ha permesso di migliorare la qualità della comunicazione con Marco.
I risultati ottenuti le hanno consentito di sperimentare efficacia personale e di conseguenza la sua
immagine di sé appare ora più positiva. In alcuni momenti subentrano emozioni di tristezza per
qualcosa non andata come lei avrebbe voluto; in questi casi riesce a incoraggiarsi facendosi forza
grazie ai successi terapeutici.
L’incontro di follow up che avevamo stabilito non è avvenuto in quanto Alessia ha avuto problemi
di salute che l’hanno trattenuta a casa per un periodo. Telefonicamente mi ha detto che la messa in
pratica dei suggerimenti e delle indicazioni terapeutiche stava dando buoni risultati. Le sue relazioni
sociali oltre ad essere migliorate sono incrementate e Alessia riesce ad avere spirito d’iniziativa invitando,
per esempio, delle persone a cena dove nella preparazione coinvolge anche Marco.
Bibliografia
Bara B. G. (a cura di). (1996). Manuale di psicoterapia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri.
Becciu M. – Colasanti A. R. (2000). La promozione delle abilità sociali. Descrizione di un programma
di addestramento. Roma: Edizioni AIPRE.
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Franco Angeli.
Beck A.T. (1984). Principi di Terapia Cognitiva. Un approccio nuovo alla cura dei disturbi affettivi.
Roma: Astrolabio.
Seligman Martin E.P. (2006). Come crescere un bambino ottimista. Insegniamo agli adulti di domani
a vedere i lati positivi della vita. Milano: Sperling & Kupfer Editori.
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QUANDO NON SI PUÒ AVERE CIÒ CHE SI AMA,
BISOGNA AMARE QUELLO CHE SI HA.
Di Stefania Schiesaro, Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, formatrice Lions Quest Italia,
socio ordinario SITCC, mail: stefania.schiesaro@tin.it , tel. 339.8724605
Primo incontro
Laura, una ragazza di 30 anni, si rivolge a me nel settembre 2006 su consiglio di un’amica. Lavora
come commessa in un negozio e vive con una sorella. La madre è casalinga e il padre, operaio, è
alcolista da molti anni. Non fuma, non beve né fa uso di sostanze.
Laura arriva con una grande moto, abbigliamento maschile, capelli corti, senza trucco, ben curata
ed evidentemente emozionata. Alla mia domanda “Come posso aiutarla?” Mi risponde: “Non mi
sento bene, ho qualcosa dentro che mi fa stare male, non sono serena”. Alla mia richiesta di precisazione
“Cosa intende e da quanto tempo si sente così?” Mi risponde: “Non ho avuto un’infanzia
felice, forse sarà questo… Mi sono dovuta assumere presto delle responsabilità… Poi ho una relazione
con una donna sposata con una figlia che mi fa soffrire…”. Piange.
Contesto di vita e ipotesi diagnostica
“Ogni conoscenza riflette inevitabilmente gli specifici vincoli autoreferenziali a partire dai quali
un dato sistema conoscitivo struttura la propria esperienza”(Guidano, 1987).
0-3 Presenza della mamma e dei nonni.
3-6 A scuola tutto bene. “Giocavo sempre con i maschietti, ero ribelle, giocavo in modo aggressivo
volevo vincere…”.
6-10 “Mio padre beveva e non c’è stato mai per me. Mia madre non mi faceva mancare nulla ma
era poco affettuosa, non mi ha mai detto che mi voleva bene. Mi faceva fare quello che volevo. Poi
si sono separati in casa, ma è stato peggio. Io preferivo stare a casa dei nonni dove però nonno picchiava
nonna. Mio nonno è stata la figura più importante per me, mi portava sul camion in giro per
l’Italia e giocavamo insieme. Poi si è separato da mia nonna… la picchiava... se ne è andato di
casa ma è sempre stato presente”.
10-13 “Mentre frequentavo la scuola media mi sono accorta di essere attratta dalla professoressa
di Educazione fisica: andavo da lei a ripetizione di inglese e rimanevo a pranzo con lei. Prima cotta.”
13-19 “14aa menarca “è una tortura, vorrei non averlo!”. Mi è dispiaciuto molto lasciare i professori
della scuola media. Primi mesi del liceo linguistico ho avuto dei dolori alle gambe. A livello
medico non è stato riscontrato nulla. A16 anni inizio a giocare a calcio: mia mamma non voleva,
aveva paura che abbandonassi lo studio, ma io studiavo quando tornavo dagli allenamenti. Se avevo
un obiettivo lo dovevo raggiungere, ho sempre fatto quello che volevo. Quello del calcio era un
ambientaccio persone più grandi di me e mascoline, io era attratta dalle donne mi facevo tante
domande… E’ iniziata lì la mia prima storia d’amore. Era premurosa con me, ma era fidanzata.
Tra noi nasce un’amicizia, poi lei si lascia ed è lei che prende l’iniziativa ed io dopo un po’ mi
lascio andare. Sono nate tante paure non sapevo se facevo bene o male…con un ragazzo sarebbe
stato diverso…con lei mi dovevo nascondere. La storia è durata 5 anni. Lei continuava ad avere
rapporti con la sua ex ed io avevo paura delle bugie, non stavo mai tranquilla. Poi mi ha tradita
con una mia amica. Doppio tradimento. Sono subito partita. Ho lavorato per 6 mesi a F.. Mi sono
trovata bene ma non era il posto per me. Sono tornata e dopo essere stata senza lavoro per 5/6 mesi
sono andata a lavorare da F.L. Mi trovo molto bene. Con gli amici mi sono sempre sentita a disagio
quando ognuno parlava delle proprie esperienze: io mi tenevo tutto dentro “mi sentivo morire”.
Parlavo solo con le amiche come me. In famiglia non ne ho mai parlato, nascondere tutto a mia
madre mi faceva soffrire. Poi durante una nostra discussione lei mi disse “Sei una lesbica”… a
quel punto le ho detto tutto. Lei da me si aspettava qualcosa di diverso. Non ci siamo parlate per
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un po’, ma sono stata meglio anche se la gente commenta e a me dispiace per lei…
Due anni fa conosco Silvia (sposata con una figlia), viene a vedere una partita di calcio, ci siamo
solo guardate…lei ha chiesto il mio numero di telefono e mi ha telefonato. E’ iniziata una storia
bellissima. Dopo un anno si è separata. Ultimamente le cose sono cambiate non mi rende più
partecipe della sua vita, non mi fa vedere la bambina, non ci vediamo più così spesso, mi pone
delle regole che mi fanno soffrire…Quando non c’è mi sento morire…
Silvia ha iniziato un percorso terapeutico perché dice che deve capire cosa succede dentro di lei,
si vergogna, non sa cosa dire alla bambina...”.
Strumenti di rilevazione diagnostica utilizzati
CBA (EPQ/R-E=98 – EPQ/R-P=95- EPQ/R-L=98) osservazione diretta - schede autosservative -
analisi scritte del proprio comportamento – fantasia guidata (albero) – Schede ABC.
Concettualizzazione
Insorgenza. Pur non essendo soddisfatti tutti i criteri diagnostici per ipotizzare un Disturbo Dipendente
di Personalità, i disturbi della paziente sono evidentemente collegati alla necessità di essere
costantemente presente e fondamentale nella vita della persona a lei vicina. Per questo richiede
spesso rassicurazioni e conferme, e tende a vivere qualsiasi gesto di allontanamento, come un possibile
e doloroso abbandono. (La richiesta di aiuto è avvenuta quando Silvia ha iniziato ad allontanarsi).
La dipendenza relazionale patologica, così come una sostanza, può compensare i deficit di autoregolazione
individuali laddove il ricorso all’altro assume una funzione di regolazione emotiva e diventa
una strategia per raggiungere fini altrimenti inaccessibili. La presenza di Silvia consente a
Laura di modificare in modo piacevole, predicibile ed egosintonico il suo stato mentale nella direzione
desiderata, inibendo lo sviluppo di strategie di adattamento più flessibili ed evolute. (Di Maggio,
Semerari, 2006).
Innesco. Dalle diverse analisi funzionali è emerso che: Laura prova rabbia e tristezza quando Silvia
non le presta le attenzioni di cui ha bisogno o non le dà le spiegazioni che si aspetta “Io do tutto,
rinuncio anche a cose già organizzate” o quando sente il distacco degli amici o freddezza da parte
loro. L’assenza di una relazione significativa ed accudente fa percepire a Laura un senso di vuoto e
solitudine affettiva accompagnata da rabbia e umore depresso.
Mantenimento. Laura ha una grande capacità di comprensione dell’altro, che si accompagna però
ad un deficit di decentramento che impedisce la differenziazione tra gli scopi e i desideri propri e
quelli altrui. “Rinuncio…per farla contenta”. Non si tratta di una semplice forma di sottomissione,
ma di assumere gli scopi di Silvia per dare forma e organizzazione alla propria esistenza. In questa
situazione Silvia si sente spinta verso modalità controllanti la relazione, gode del piacere legato al
poter decidere e di accentrare l’attenzione sui propri desideri, finchè non percepisce il senso di coercizione.
“Quando sono sola sono in un modo, con lei sono diversa…più razionale come se dovessi
controllare la situazione... Lei si stranisce e rovina tutta la serata”. A seguito di una
ribellione/allontanamento di Silvia, Laura reagisce o con un senso di colpa e un giudizio morale sul
proprio comportamento o entra nello stato di vuoto interiore che la spingerà a ricercare nuovamente
la relazione reiterando il ciclo e mantenendo il problema. “Quando sono stranita sparisco”: viaggio
– non rispondo al telefono – non mi faccio trovare…”.
Valutazione cognitivo-comportamentale
Variabili cognitive: Laura presenta convinzioni del tipo “se la faccio star bene non potrà fare a
meno di me e non mi abbandonerà ”. Quando si sente sola avverte un profondo senso di vuoto legato
anche al fatto di sentirsi inadeguata, insicura e con una bassa valutazione del proprio valore personale
e delle proprie capacità (fantasia guidata sul tema “albero”: … non è così forte come
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sembra… è solo, abbandonato a se stesso…).
Variabili emotive: il senso di rifiuto e di ostilità percepito da parte delle figure significative, può
essere spiegato sia attraverso un’assunzione assoluta di responsabilità (“mi rifiutano perché non
sono degna di amore”) sia attraverso lo sviluppo di una percezione negativa dell’altro (“mi rifiutano
perché cattivi e poco sensibili”). Il dover lottare, ora contro la propria inadeguatezza, ora contro
l’ostilità altrui, rende ragione del frequente alternarsi di sensazioni di disperazione e rabbia. L’emergere
della rabbia dopo l’emozione di disperazione, rappresenta lo strumento più efficace ed economico
del sistema per impedire che la tristezza e la disperazione diventino così intense e dirompenti
da diventare disadattive.
Variabili comportamentali: il forte timore di essere abbandonata, induce Laura ad avere comportamenti
volti ad evitare l’abbandono. Cercando di comprendere la volontà e i piaceri di Silvia, Laura
ne anticipa i desideri: “faccio di tutto per farla star bene, rinunciando a cose mie già
organizzate…”,“sarei capace di mollare tutto per la persona che ho accanto…”.
Variabili socio-relazionali: la solitudine e l’impossibilità di chiedere serenamente aiuto e supporto
rende ragione dello sviluppo di un particolare atteggiamento noto come autosufficienza compulsiva,
che consiste essenzialmente nella convinzione profonda di poter contare solo sulle proprie capacità.
(Le proprie capacità socialmente più apprezzate, es. il calcio, vengono coltivate e utilizzate come
canale privilegiato per entrare in rapporto). La dimensione dell’aiuto, non sufficientemente sperimentata
come attenzione ricevuta, può essere conosciuta ponendosi nella posizione di fornire cure e
supporto agli altri. Il riconoscimento sociale ottenuto quando Laura assume questo ruolo diventa
una delle poche forme di accettazione di sé sotto la forma di accudimento compulsivo: “prendo
sempre l’iniziativa con le mie amiche e sono una buona organizzatrice… loro mi fanno i complimenti”.
Schemi prevalenti
Amabilità personale: “l’altra persona che sicuramente si rende conto di ciò che sono non potrà
amarmi”. Nella situazione in cui una persona dimostra il suo amore (senza invalidare lo schema) è
possibile che si attivi un meccanismo che potrebbe essere definito di simbiosi affettiva, determinato
dalla paura della perdita della persona che si ama e quindi “fare di tutto” per non perderla.
Forza e debolezza personale: la costruzione di sé come persona debole comporta facilmente la ricerca
di una o più figure protettive, percepite in grado di offrire aiuto e sostegno, con le quali vengono
a instaurarsi rapporti privilegiati di dipendenza.
La terapia: contratto terapeutico e riformulazione del problema
Alla fine del primo colloquio ho definito a Laura gli elementi espliciti del contratto e descritto i
criteri generali del modello di intervento, cosicché Laura potesse costruirsi una prima immagine del
lavoro che stava per intraprendere. Con parole semplici ho spiegato a Laura il processo terapeutico
cognitivo-comportamentale che avremo intrapreso, avrebbe mirato ad una ricostruzione delle caratteristiche
degli schemi prevalenti nel suo sistema di conoscenza e dell’influenza che essi esercitano
sul suo comportamento.
Concordiamo una decina di incontri a cadenza settimanale per analizzare il suo comportamento e
comprendere la differenza tra comportamento/pensiero/emozione. Viene descritto un modello di
funzionamento psicologico alla base del quale c’è un processo costante di produzione e organizzazione
di Unità Funzionali Psicofisiologiche (UFP) (Sacco, 2003) composte da tre fenomeni integrati
fra loro che costituiscono il fondamento del nostro sistema di conoscenza:
• Esperienza emotiva
• Schema cognitivo
• Sequenza comportamentale
In un’ottica evolutiva la comprensione del comportamento umano è possibile attraverso la rico-
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struzione della continuità e coerenza del suoi processi di sviluppo, e di come tali processi diano luogo
a specifiche organizzazioni conoscitive individuali, e di come tali organizzazioni subiscano periodiche
oscillazioni che producono più o meno disagio emotivo fino al raggiungimento della soglia
di scompenso.
La terapia durerà trenta incontri con sedute settimanali e poi quindicinali.
Momenti chiave
L’ assessment: è stato utile per individuare precocemente gli indicatori personali di attivazione dei
cicli disfunzionali e formulare conseguentemente il contratto terapeutico: non lavorare contro la dipendenza,
ma verso una maggiore capacità di regolare le scelte in modo autonomo.
Impostazione della relazione terapeutica: è stato importante per me non sentirmi a disagio nei
confronti della immediata dichiarazione di Laura circa la sua identità sessuale. Il mio atteggiamento
è stato da subito non giudicante ma rivolto all’ascolto, senza cercare di interpretare le sue “percezioni”.
Educare a vivere in modo sereno la propria diversità non significa infatti fornire una chiave di lettura,
ma far comprendere che non sono sempre applicabili le categorie “giusto” e “sbagliato”. Ho
cercato di prendere consapevolezza del mio eventuale vissuto omofobico, in modo tale da poter
creare una relazione terapeutica empatica, basata sull’accettazione, la comprensione, la disponibilità
al dialogo e all’ascolto. Per fare questo ho esaminato in modo schietto le mie idee, i miei sentimenti
profondi, le mie fantasie nei confronti dell’omossessualità. Credo che Laura si sia sentita subito a
suo agio fondamentalmente perché ero io a mio agio con le mie fantasie eterossessuali e omossessuali,
con la mia sessualità e con la mia vita privata.
Risposta emozionale: dalle Schede ABC sono emerse, da subito, reazioni di ansia e paura oltre a
rabbia e tristezza. Le prime come conseguenza al concetto di perdita quindi quando c’era una separazione
o minaccia di separazione da parte di Silvia. Le seconde conseguenti a comportamenti di
Silvia ritenuti da Laura inaccetabili.
Ho ritenuto opportuno iniziare la valutazione di come si “sentiva” Laura insieme a Silvia, cercando
di capire come si manifestavano le sue emozioni (quantitativamente e qualitativamente), da quali
tipi di situazioni critiche (interne e esterne) venivano più facilmente e intensamente attivate e quali
erano le sue reazioni comportamentali.
Creazione di una buona alleanza terapeutica: evitando il coinvolgimento in dinamiche relazionali
patologiche (es. accondiscendere agli scopi del terapeuta senza sentirli totalmente propri, rafforzare
il rapporto di dipendenza), Laura ha avuto bisogno di una rappresentazione stabile del mio atteggiamento.
E' probabile che se avesse percepito un mio sottrarmi alla responsabilità di gestione, ciò
avrebbe potuto indurla a fare richieste caotiche di rassicurazione riattivando i cicli disfunzionali.
Credo che Laura abbia avuto con me la sensazione di una profonda condivisione e sintonia che le
ha permesso di non sperimentare sentimenti di vuoto e di frustrazione e di non entrare in un ciclo di
auto-invalidazione in cui la sensazione di fragilità annulli quella di competenza. Questo meccanismo
l'avrebbe portata a sentirsi inadeguata, indegna e avrebbe favorito una rappresentazione
precaria della relazione.
Ho sottolineato più volte la sua partecipazione attiva e la sua responsabilità in questo percorso comunque
faticoso e impegnativo, cercando di capire le sue motivazioni e le sue aspettative rispetto al
cambiamento.
Dopo aver condotto una indagine sincronica, cioè focalizzandoci sui sistemi di relazione tra cose
ed eventi che avvenivano simultaneamente nel qui ed ora, abbiamo rivolto la nostra attenzione agli
aspetti storici del problema (indagine diacronica): quando si è presentato per la prima volta, con
quali caratteristiche, quali mutamenti nella sfera relazionale e nelle abitudini di vita ha comportato.
Inoltre, quali sono stati i cambiamenti di vita che si sono verificati prima del suo manifestarsi, quali
sono stati gli eventi o le sensazioni significative che ricordava.
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Autosservazione del comportamento e lettura dei resoconti scritti
Sulla base degli homework è stata possibile l'identificazione e la discussione dei pensieri automatici
emersi nelle situazioni critiche riportate sulle schede ABC. Difficilmente chiamava le emozioni
con il loro nome, di solito usava il termine “mi sono stranita” per indicare il suo stato emotivo spiacevole.
Attraverso le diverse schede ABC siamo riuscite ad identificare tre diversi stati mentali connessi
tra loro. Ognuno con caratteristiche specifiche, che meritavano una giusta attenzione e richiedevano
strategie diverse di soluzione: il timore dell’abbandono, il vuoto in assenza di scopi, il senso
di impotenza ed inadeguatezza.
Il colloquio terapeutico si è svolto attraverso racconti di storie che riguardavano la sua vita interiore,
le sue relazioni e la sua modalità personale di dare significato agli eventi. E’ stato opportuno
ricordare alcune narrazioni “prototipiche” che ci hanno aiutato ad individuare le caratteristiche del
suo funzionamento all’interno delle relazioni.
Questo lavoro ha messo in evidenza come Laura fosse concentrata sullo stato mentale di Silvia,
fino a confonderlo con il proprio: i desideri di Silvia diventano i suoi desideri, la vita di Silvia diventava
la sua vita.
In quel momento io mi sono chiesta: come potrebbe non esserci il vuoto in assenza di una relazione
significativa? Attraverso alcune di queste sue narrazioni ho potuto comprendere come l’instaurarsi
progressivo della dipendenza e la loro rievocazione nel corso della terapia, abbia facilitato la
costruzione di uno stato mentale condiviso per affrontare i problemi. Viene incrementata e stimolata
l’organizzazione di attività piacevoli e analisi delle emozioni. In questo senso non ho cercato di
spingere verso una rottura del legame di dipendenza (processo di compenso e auto-cura), ma ho cercato
di favorire la costruzione di una nuova rappresentazione di sé che includa, scopi, mete e desideri
propri a partire dalle abilità che lei si riconosceva e dagli obiettivi già raggiunti.
Evidenziare tutti gli obiettivi raggiunti nella vita e progettare i nuovi
Al ventesimo incontro circa, mi dice che è da un po’ che si sente emozionata quando mi vede
“Sento una cosa dentro non so se è infatuazione o altro”. Io mi imbarazzo molto: non me lo aspettavo,
non riuscivo a guardarla negli occhi. Poi le chiedo di spiegarmi meglio per riuscire a capire
cosa fosse esattamente “questa cosa dentro”. Io le dico che se fosse amore non sarebbe possibile visto
il setting e il fatto di non conoscerci se non come paziente e terapeuta; se fosse empatia e buona
relazione terapeutica potrebbe essere normale visto che siamo alla ventitreesima seduta e il rapporto
di fiducia che si è instaurato. Non riusciva a spiegare forse per l’evidente imbarazzo da parte sua
“volevo non dirti niente, ma poi ho preferito così”. Ho sottolineato la positività del fatto che fosse
stata capace di leggersi dentro e di comunicarlo. Per capire l’ho invitata a scrivere quello che sentiva
così forse si sarebbe chiarita senza provare troppo imbarazzo.
Ho riflettuto molto su ciò che era accaduto in seduta. La mia difficoltà era dovuta alla gestione
della situazione nel rapporto per poterla utilizzare a fini terapeutici. Se fosse successo in un altro
contesto l'avrei risolta con una battuta, come nel mio stile.
Poi pensando a Laura ho cercato di capire cosa le fosse successo e ho fatto diverse ipotesi:
• Mi sta corteggiando, mettendo in atto strategie seduttive per vedere una mia reazione (mi ha
sempre detto che non ha mai fatto il primo passo… perché non ne era capace)
• Ripete la struttura prototipica di provare un sentimento verso un “partner difficile” (il primo
amore era una ragazza fidanzata, il secondo una donna sposata), coerente con la percezione
del mondo come invariabilmente rifiutante
• Mi vede come una figura idealizzata che consente di colmare il suo deficit affettivo e mantenere
così stabile il senso di autostima. Immagine di sé come persona non amabile
• Mi vede come la figura femminile (madre) che non ha mai avuto (forte, intraprendente, che
sa ascoltare, con cui parlare…), attivando il sistema di attaccamento
Abbiamo utilizzate le ultime sedute per capire meglio quello che era successo. Dopo aver sottoli-
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neato l’importanza di ciò che era accaduto, escludiamo l’ipotesi che potesse essere innamoramento,
ed esaminiamo in particolar modo il suo senso di vuoto e solitudine ricolmato dalla mia figura come
terapeuta comprensiva e capace di ascoltare. Emergono tematiche importanti come la paura
dell’abbandono, il distacco, il significato del fallimento. Viene attuata una ricostruzione della storia
di vita, partendo dallo stile di attaccamento genitoriale.
Nuovi obiettivi
• Assumere una distanza critica dalle aspettative delle relazioni prototipiche
• Rievocare nei momenti di solitudine le esperienze di relazioni confortanti
• Rielaborare le esperienze infelici di attaccamento
• Potenziare i bisogni di sicurezza personale, di soddisfazione, di auto-affermazione
Far andare Laura avanti e indietro ripetutamente lungo il suo itinerario di sviluppo ha favorito una
capacità di autosservazione ed ha innescato un riordinamento di notevole rilievo delle esperienze
critiche. Nello stesso tempo però è emersa una sequenza di ricordi finora ignorati, come il legame
con il nonno, un’esperienza confortante che è tutt’ora presente nella sua vita. La maggior consapevolezza
del proprio funzionamento, si accompagnava a tutta una serie di emozioni contrastanti fra
loro dando luogo ad un senso di incertezza: “Sento che dentro di me qualcosa sta cambiando e questo
mi spaventa”. Per superare il problema di dipendenza Laura ha probabilmente sviluppato una
temporanea dipendenza nei confronti del terapeuta, ma questa è stato elaborato non come una meta
raggiunta ma come un mezzo per raggiungere la meta.
Mettendo in atto comportamenti che non era mai riuscita ad attuare ha deciso di chiudere la storia
con Silvia, dicendomi: “Quando non si può avere ciò che si ama, bisogna amare quello che si ha”.
Questa frase mi ha portato a dirle che il nostro rapporto poteva essere trasformato in un rapporto di
supervisione, dove lei era il terapeuta che si occupava di se stessa e periodicamente sottoponeva il
caso ad una collega più esperta. Con un sorriso ci siamo salutate e date l’appuntamento tra due
mesi.
L’incontro dopo due mesi ha confermato il lavoro lungo e faticoso svolto insieme, il risultato positivo
ottenuto e gli obiettivi raggiunti. Laura era appena tornata da un viaggio che desiderava fare da
tempo in Costa Rica, aveva cambiato squadra di calcio e con una immensa gioia nel cuore mi ha
annunciato la maternità della sorella.
Bibliografia
Bara B.G. (a cura di) (2001). Manuale di Psicoterapia Cognitiva. Milano: Boringhieri.
Beck A.T. (1976).Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Borgo S., Della Giusta G., Sibilia L., (2001). Dizionario di psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Milano: McGraw-Hill.
Bowlby J. (1979). Costruzione e rottura dei legami affettivi. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Cionini L. (1991). Psicoterapia cognitiva, teoria e metodo dell’intervento terapeutico. Roma: La
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Di Maggio G., Semerari A., (a cura di). (2006). I Disturbi di Personalità. Modelli di Trattamento.
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Guidano V. (1987). La Complessità del Sé. Milano: Boringhieri.
Guidano V. (1991). Il Sé nel suo divenire. Milano: Boringhieri.
Montano A. (2000). Psicoterapia con clienti omosessuali. Milano: McGraw-Hill.
Sacco G. (2003).Psicoterapia e sistemi dinamici. Milano: McGraw.
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IL CASO DI G.
Di Ilaria Muscella, Psicologa, psicoterapeuta, collaboratore A.I.PRE e socio C.R.P. Svolge attività clinica, consulenza
e supporto psicologico alle famiglie e formazione ad insegnanti ed alunni delle scuole di ogni ordine e
grado. Tutor presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale ed Intervento Psicosociale
del CRP di Roma, mail: ilariamuscella@hotmail.com
Cenni anamnestici
G. è una donna di 37 anni, sposata da 12 anni con D. con il quale ha avuto 4 figli: E. (11 anni), L.
(9 anni), M. (8 anni) e E. (5,6). Lavora come ricercatrice presso l’università dove entrambi i genitori
erano docenti, prima della pensione. Il marito è un consulente finanziario. La paziente ha due sorelle
maggiori, una ingegnere, l’altra insegnante.
Motivo della richiesta
G. si presenta al colloquio inviata dal medico di base chiedendo di essere aiutata a fronteggiare
con più competenza alcune situazioni della sua vita che costituiscono per lei fonte di disagio. Il suo
medico le ha diagnosticato una generica “forma depressiva” ma, durante il primo colloquio, la paziente
non descrive il suo stato emotivo bensì le situazioni che la fanno sentire in difficoltà. In particolare,
desidera essere più determinata nelle sue scelte, nelle relazioni e soprattutto nel gestire i conflitti
con il marito che ha provato più volte a lasciare, senza mai riuscirci. Dichiara di volersi separare,
ma di non avere le forze per farlo. Ha paura delle possibili reazioni del marito e ha paura di affrontare
la situazione con i figli. I due figli più piccoli seguono una terapia per i disturbi del linguaggio.
Secondo il medico di base G. sta attraversando un periodo di depressione per il quale è opportuno
oltre ad un supporto farmacologico (Entact) da lui stesso prescritto, un aiuto di tipo psicoterapico.
G. riferisce di sentirsi stanca e sovraccarica ma non così depressa come afferma il suo medico
curante. Durante la fase anamnestica le somministro il CBA dal quale non emergono punteggi rilevanti
circa la probabile presenza di un disturbo depressivo.
Presentazione del problema
Nel descrivere la situazione attuale, G. si sofferma essenzialmente sul suo insoddisfacente rapporto
coniugale. G. e D. vivono insieme con i figli nonostante lui sia tornato da qualche mese in casa
dopo un breve periodo di separazione durante il quale ha convissuto con un’altra donna.
Attualmente quando sono in casa chiacchierano durante la cena come due persone che convivono
e, specifica la paziente, “neanche come amici”. Quando D. parla, lei sta zitta e accetta tutto ciò che
lui le dice. Il marito non aiuta economicamente G. ma lo fa la famiglia di lei. In casa è aiutata da
una donna delle pulizie e dalla baby-sitter. G. non ha più aspettative nei confronti del marito; è
scocciata e delusa del suo comportamento in quanto si erano sposati condividendo un progetto di
vita ed ora lui è cambiato e non fa nulla per risolvere la situazione tra loro. Non capisce perché si
sia staccato da lei. Non crede di avergli fatto nulla di male. Non prova amore ma affetto visto che
spesso si preoccupa per lui. Dice che per ora vorrebbe continuare a viverci insieme per il bene dei
figli ma sa che non vuole invecchiare vicino ad un uomo del genere. Vorrebbe riuscire a capire se
separarsi da lui o modificare la loro relazione.
Secondo G. i problemi con il marito sono iniziati dopo la nascita del primo figlio. Quando lui tornava
a casa dal lavoro era sempre nervoso e non le rivolgeva la parola. I problemi sono aumentati
con il passare degli anni: lui non le parlava o la trattava male. Quando lei ha avuto una prima crisi e
lo voleva lasciare è andata a sfogarsi dalla madre che dopo averla ascoltata e consolata le ha detto di
tornare dal marito e di sforzarsi di essere “sempre carina” con lui. Per un lungo periodo D. spariva
senza dire dove andasse. Le prime volte che non rientrava a casa senza preavviso lei aveva delle
forti crisi d’ansia e chiamava il medico. Nel 2002 lui ha chiesto la separazione giudiziale: le ha fatto
inviare a casa una lettera in cui le chiedeva la separazione (che non è mai avvenuta). Il marito da
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Maggio a Settembre 2006 ha convissuto con una ragazza più giovane di lui. Incontro G. da Maggio
2007 a Marzo 2008 con una seduta di follow-up a Settembre 2008.
Valutazione psicologica
Dalla conduzione dell’assessment, dai colloqui clinici, dall’osservazione e dalla somministrazione
del CBA emerge che lo stile comportamentale della paziente è di tipo anassertivo: non riesce a fare
richieste, non sa dire di no, non riesce ad esprimere emozioni, opinioni e bisogni, si impegna a mantenere
il compito richiesto senza lasciar trapelare i suoi reali bisogni ed evitando di manifestare il
disappunto.
La paziente stessa riconosce di essere una persona poco affermativa e riferisce di essere sempre
stata così. Diverse volte ha lasciato prendere le decisioni da sua madre o dal marito. Tutt’ora non
riesce ad essere autentica con la madre, sente di essere accomodante con il suo professore e con i
suoi colleghi. Con il marito, inoltre, tende a non esporsi in nessun modo. Spesso non parlano o comunicano
solo per organizzare la giornata familiare. Con i figli ritiene di essere molto affettuosa e
giocherellona. Quando torna a casa si occupa di controllare che i figli abbiano fatto i compiti ma
non riesce ad essere severa con loro e pretendere che li finiscano completamente.
Le emozioni che sperimenta più frequentemente sono quelle di rabbia, paura, ansia, timore, delusione
e insicurezza. Tutte queste emozioni sono vissute e riconosciute dalla paziente seppur non direttamente
espresse.
La vita sociale di G. è ristretta. Ha contatti solo con i colleghi, i genitori e le mamme degli amici
dei suoi figli. Lei ed il marito non hanno amici in comune. Solitamente, la domenica G. e D. non
stanno insieme: lui va in bicicletta e solo quando rimane a casa lei può uscire ed andare al centro
commerciale o in qualche via del centro in quanto ama passeggiare per i negozi e fare acquisti
(sempre da sola o con i figli).
Storia evolutiva
Fin dall’inizio della fase della raccolta anamnestica G. dice di avere pochi ricordi della sua infanzia.
Racconta di essere stata concepita “per caso”. La mamma aveva 42 anni e quando è rimasta incinta
ha attributo il malessere fisico iniziale ad una influenza passeggera. Quando era a casa passava
il tempo da sola con la “tata” che viveva con loro, tata che è stata molto presente nella sua educazione.
Ricorda che poteva giocare solo stando seduta sul tappeto perché, come si raccomandava
sempre la mamma, doveva stare attenta a non raffreddarsi. A 4 anni è andata alla scuola materna,
ma l’impatto è stato difficile perché la prima maestra era anziana e molto dura. Quando era alla
scuola elementare ha stretto amicizia principalmente con una bambina. Dice di essere stata molto timida
e chiusa. Alle scuole superiori frequentava un gruppo di ragazze con le quali studiava e, ogni
tanto, usciva. Il suo primo innamoramento lo attribuisce ad un ragazzo della parrocchia. Verso i 18
anni, spronata dalle sue amiche, lo ha invitato ad una festa e da quel momento hanno cominciato a
frequentarsi come amici. Lei era molto timida e dice di essersi fatta una violenza per cercare di instaurare
un rapporto con lui perché voleva conquistarlo. Il rapporto è rimasto solo a livello amicale
in quanto non ricambiato. Dopo un po’ di tempo dalla rottura di questa amicizia, la madre del ragazzo
ha raccontato a G. che lui aveva avuto degli episodi psicotici (sentiva le voci del padre e dello
zio morto). Lei ricorda che anche quando erano amici lui spesso le raccontava di colloqui avuti con
il padre ma lei, nonostante fosse a conoscenza della sua morte, dice di non aver chiesto spiegazioni
e di non essersi fatta mai delle domande, rimaneva solo stupita e dubbiosa.
Tutto ciò che riguardava l’educazione sessuale non è stato mai affrontato in casa ma con le amiche.
Ha avuto il suo primo rapporto sessuale con suo marito dopo alcuni mesi dall’inizio del loro fidanzamento.
Lei aveva circa 19-20 anni. Ha ricordi piacevoli di quella esperienza. Generalmente,
prima del matrimonio, i loro rapporti sessuali erano abbastanza soddisfacenti anche se non molto
frequenti, a motivo della distanza dove lui abitava. Quando hanno fissato la data del matrimonio
hanno deciso di interrompere i loro rapporti sessuali (per circa 6 mesi) fino alla prima notte di nozze
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per motivazioni religiose (avevano cominciato un cammino neocatecumenale). La prima notte di
matrimonio G. era molto stanca e aveva solo voglia di dormire ma poi ha ceduto alla richiesta del
marito. Quando è iniziata la loro vita coniugale hanno deciso di non utilizzare più precauzioni.
Dopo ogni parto G. aveva un forte calo del desiderio sessuale perché aveva paura di rimanere incinta
nuovamente. Dopo il secondo figlio (per il quale ha sofferto molto durante il parto) aveva il timore
di riaffrontare un’altra gravidanza in quanto quella precedente era stata per lei un’esperienza traumatica.
Fin dai primi anni di matrimonio quando D. le si avvicinava fisicamente, inizialmente utilizzava
diverse scuse per evitare di avere rapporti sessuali, ma alla fine cedeva alla sua richiesta. Ha
provato poche volte il piacere sessuale e pensa di aver raggiunto l’orgasmo solo in pochissime occasioni
quando erano fidanzati. Lui non ha mai avuto particolari attenzioni nei confronti di G. e non si
rendeva conto che lei non era sessualmente appagata. Attualmente, non hanno rapporti sessuali da
diversi mesi. Dice di aver avuto sempre difficoltà nell’affrontare discorsi inerenti la sessualità.
La mamma era colei che si occupava dell’educazione delle figlie, educazione definita rigida nonostante
lei fosse una bambina “docile”. La mamma era molto attenta al rispetto dell’igiene e ricordava
spesso alla figlia di non prendere freddo, di stare tranquilla e di non fare confusione. Era la madre
che dava i permessi anche perché G. faceva fatica a chiederli al padre. Con lui non ha passato
molto tempo; ricorda solo che la sera le leggeva le favole, anzi forse le inventava. Questo la divertiva
molto e la faceva sentire amata. In generale, il rapporto con il padre è definito negativo: da piccola
ne aveva paura. Spesso lui “faceva delle sfuriate”, urlava e diceva delle cose non vere. Ad
esempio, accusava la moglie di non amarlo. G. dice che per lei il padre si comportava in modo incomprensibile,
“non c’era con la testa in alcuni momenti”. Lanciava oggetti dalla finestra, minacciava
di suicidarsi e bestemmiava. A volte picchiava la moglie. G. dice di non averlo mai visto direttamente
ma si ricorda delle urla che provenivano dalla camera da letto e della mamma che era spesso
piena di lividi. Con le figlie non è stato mai violento. Questi comportamenti duravano per alcuni
giorni fino a quando “tutto tornava normale”. G. racconta un episodio in particolare che l’ha sconvolta
di più rispetto ad altri: un giorno, a causa delle forti urla del padre, sono stati chiamati i carabinieri.
Questi, dopo aver verificato che tutto andava bene sono andati via. Il padre, allora, è andato
nella sua camera e con la vernice ha scritto sul muro sopra il letto il numero 113. Lei e le sue sorelle
hanno sempre sperato e voluto che i genitori si separassero ma la mamma diceva loro che la famiglia
doveva rimanere unita. Ora G. pensa che la madre abbia fatto bene a non lasciare il padre.
Quando G. aveva all’incirca 15-16 anni, il padre è partito per lavoro e ha trascorso un anno e mezzo
in Africa. G. non ha sentito la sua mancanza, anzi, dice che stava meglio. Gli unici momenti che la
famiglia ha condiviso in maniera serena sono alcune domeniche quando, tutti insieme, andavano a
fare delle passeggiate.
Racconta di aver avuto sempre un ottimo profitto, studiava da sola, ma ha avuto qualche difficoltà
solo durante le scuole medie. Ha iniziato a studiare sempre meno perché se fosse andata bene sarebbe
stata derisa e presa in giro dal resto della classe. Aveva paura di dimostrare di essere preparata e
di prendere buoni voti. L’atteggiamento della mamma rispetto allo studio era di rinforzo positivo
quando otteneva ottimi risultati ma era contraria a farle i complimenti di fronte ad altre persone. Le
sue materie preferite erano matematica e scienze. G. aveva scelto di frequentare il liceo scientifico
ma, poiché la mamma preferiva quello classico, ha chiesto aiuto alla professoressa di matematica
delle medie per convincere la madre a cambiare idea. Così la domanda d’iscrizione è stata fatta sia
all'una che all'altra scuola. L’estate prima dell’inizio delle superiori lei e la mamma sono andate a
vedere i quadri di entrambi i licei e, accorgendosi che i voti con i quali venivano promossi gli
studenti dello scientifico erano più bassi di quelli del classico, hanno deciso di confermare
l’iscrizione a quest’ultimo. L’ingresso alle scuole superiori è stato migliore rispetto a quello delle
medie. La classe era mista e quasi nessuno si conosceva. Lei era molto silenziosa ma è riuscita ad
inserirsi in un gruppo di ragazze. Il profitto era buono. Qui chi andava bene veniva considerato
positivamente. Dopo essersi diplomata, quando G. ha comunicato che avrebbe voluto studiare
chimica la reazione dei genitori fu di contentezza anche se la madre, inizialmente, ha tentato di
40 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

dissuaderla perché, a suo dire, le donne hanno più difficoltà a lavorare in questo campo.
Si è laureata nel 1998 quando era già sposata e aveva due figli. Successivamente, è entrata in crisi
in quanto era nuovamente incinta e ha dovuto rinunciare alla possibilità di continuare a lavorare in
un laboratorio perché pensava che avrebbe creato difficoltà ai colleghi. Ha deciso, così, di fare la
domanda per il dottorato che ha vinto. La sera della discussione di dottorato ha festeggiato a casa da
sola con i figli perché il marito era a cena fuori e la madre rientrava tardi dall’ospedale dove era ricoverato
il padre. Il marito non era d’accordo che lei facesse il dottorato in quanto riteneva che lavorare
all’università non fosse produttivo. Secondo lui lei doveva stare a casa con i figli o svolgere
un lavoro, ma ben retribuito. Così il marito le prese un appuntamento per farle fare un colloquio in
un’agenzia immobiliare. Fortunatamente, dopo quel colloquio G. ottenne un assegno di ricerca. Era
contenta perché non aveva voglia di lavorare in un’agenzia a contatto con le persone.
Attualmente, lavora in un laboratorio universitario grazie al rinnovo dell’assegno di ricerca. Dice
di essere abbastanza soddisfatta del suo lavoro perché ama quello che fa e si ritiene anche abbastanza
competente. Si impegna molto e fa riferimento alla sua buona preparazione teorica e alla capacità
di gestire il lavoro in modo autonomo. Spesso si è occupata di ricerche senza l’aiuto di nessuno ma
è stata in grado di portare a termine ciò che le era stato assegnato nei tempi previsti e con ottimi risultati.
Le qualità che ritiene di avere nel lavoro sono: la volontà a comprendere, la tenacia nel gestire
il lavoro (nonostante inizialmente sia spaventata perché spesso deve occuparsi di cose di cui
non è già competente), la buona conoscenza della materia e della lingua inglese, la precisione e la
puntualità. Anche il suo professore la apprezza per la sua intelligenza e la sua intuizione. Globalmente,
a livello professionale, G. dice di avere una buona idea di sé ma ritiene di avere difficoltà nei
rapporti con i suoi colleghi e spesso le vengono assegnati compiti non inerenti l’attività di ricerca.
Con i suoi colleghi cerca di essere sempre educata e disponibile. Spesso non riesce ad esprimere le
sue opinioni e tende ad essere remissiva nelle discussioni. Le viene fatto pesare il fatto di avere una
famiglia e di potere stare meno tempo in laboratorio. Non riesce a spiegare loro che avendo un contratto
che non pone un obbligo nell’orario lei si gestisce tutto il lavoro in alcune ore senza perdere
tempo in pause per poi occuparsi della famiglia. Con il suo datore di lavoro il rapporto è in generale
abbastanza buono. Racconta che lui è “ansioso e iperattivo” e a volte lei si sente influenzata dalla
sua ansia, però lo ritiene una persona molto corretta e alla mano e, spesso, la tratta come una figlia.
Condividono la stanza. Lei è stata ritenuta l’unica tra i suoi colleghi ad avere le caratteristiche giuste
per stare a stretto contatto con lui in quanto G. viene considerata molto affabile, disponibile e in
grado di gestire gli sbalzi d’umore del professore.
Dice di non aver avuto mai particolari problemi fisici, forse le classiche malattie. Ricorda solo che
sentiva spesso un forte dolore alle ginocchia che i medici hanno diagnosticato come sintomo di crescita.
La mamma, invece, le diceva che era “voglia di coccole”. Quando frequentava il ragazzo del
quale si era invaghita ha avuto una gastrite che la portava a mangiare molto poco (lei attribuisce
questo disturbo alla difficoltà di gestione di quella amicizia).
Fin da bambina è stata molto pigra e nonostante abbia provato più volte a fare sport preferiva passare
il tempo libero in casa. Attualmente è iscritta in piscina che frequenta raramente.
Racconta due eventi significativi: il primo fa riferimento ad un incidente stradale nel quale è rimasta
coinvolta insieme ai genitori all’età di 10 anni. È stato vissuto da G. come la fine dell’infanzia in
quanto le ha provocato un forte spavento. Il secondo è un incidente con la barca, incidente avvenuto
sempre insieme ai genitori e ad una sorella. Sono rimasti diverse ore in mare su un gommone (la
barca aveva preso fuoco). Quello che ricorda G. è il grande spavento iniziale e l’atteggiamento
positivo e attivo dei genitori di fronte all’evento: cercavano di dividere i compiti e ripetevano
spesso di non perdere mai la speranza perché qualcuno li avrebbe salvati.
Ipotesi esplicativa
Valutando la storia di vita di G. si possono identificare alcuni fattori predisponenti che possono
spiegare la scarsa assertività di G.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 41

L’educazione della madre è definita dalla paziente stessa come rigida: G. non doveva sporcarsi o
prendere freddo, non doveva fare arrabbiare il padre (quando “aveva le sue crisi umorali” lei cercava
di essere invisibile), non ha potuto scegliere l’indirizzo di studi per le scuole superiori, le è stato
consigliato di tornare dal marito ed essere gentile. La mamma le ripeteva spesso queste frasi: “Bisogna
essere sempre carini con gli altri”, “La famiglia deve rimanere sempre unita”. In casa ci
doveva essere sempre silenzio. Altro fattore predittivo può essere quello di aver avuto come
modello di coppia i suoi genitori. In loro lei riconosce una difficoltà relazionale dove la madre
subiva violenze verbali e fisiche da parte del padre ma al tempo stesso si è trovata in accordo con la
loro decisione di non separarsi.
Un fattore di mantenimento del comportamento accomodante di G. è la lettura che lei fa delle reazioni
degli altri di fronte alla sua totale disponibilità. Secondo G. se l’atteggiamento dell’altro è positivo
(ad es. le si rivolge un apprezzamento) vuol dire che questa sua modalità passiva funziona per
far mantenere tranquillo chi le fa una richiesta. In questo modo, le relazioni sono mantenute cordiali
e civili. Tale elemento rinforza il comportamento di G. il quale sembra dipendere sia dall’aspettativa
che lei ha circa il verificarsi di un rinforzo positivo, sia dal valore che lei attribuisce a tale rinforzo
(Sanavio, 2004).
Altri fattori di mantenimento sono le distorsioni cognitive che sono state rilevate nell’analisi delle
situazioni interpersonali e del concetto di sé della paziente. Le difficoltà di G. possono essere legate
a errori nella valutazione dei dati di realtà e nell’elaborazione delle informazioni disponibili sulla
base di premesse erronee (Beck, 1984):
• Percezione distorta e autodenigratoria del proprio comportamento e del feedback sociale
• Svalutazione di sé e delle proprie capacità: “Ho paura di non farcela da sola”, “Ho paura di
usare termini sbagliati di fronte ad altre persone”
• Generalizzazione: “Sono passiva in tutti i contesti e sempre”
• Focalizzazione sugli aspetti negativi: si vede competente nel lavoro ma non si valorizza per
questo in quanto si concentra su altri aspetti problematici
• Doverizzazioni: “Devo pensare al bene dei figli”
• Minimizzazioni: ciò che è positivo di quello che fa non è considerato significativo rispetto
alle sue mancanze
• Catastrofizzazioni: “Se rispondo male posso perdere il lavoro”
Si possono individuare anche alcuni fattori protettivi. G. si sperimenta competente in ambito lavorativo.
Crede di essere “intellettualmente flessibile” e preparata nella sua materia. Nonostante non
riesca a svolgere effettivamente il suo lavoro (fare ricerca e scrivere articoli) è soddisfatta del fatto
che porta a termine tutti compiti che le assegnano e con successo (riceve molti complimenti). Con i
figli sa di essere molto affettuosa e giocherellona quindi si ritiene, da questo punto di vista, una brava
madre.
In sintesi: il non esprimere le emozioni negative, non manifestare le opinioni e le esigenze personali,
non assumere posizioni non condivise dagli altri sembrano essere comportamenti che G. mette
in atto per entrare in relazione ed avere un riconoscimento come persona di valore. Tale stile comportamentale
le ha permesso di gestire la sua vita relazionale.
Relazione terapeutica
Il primo incontro è stato importante per iniziare a costruire un’alleanza terapeutica con G. Dopo
essermi presentata e aver chiarito che sono una terapeuta in formazione ho fornito alla paziente alcune
informazioni circa l’approccio da me utilizzato e mi sono servita della metafora dell’uomo
scienziato e dell’analogia ricercatore-supervisore di una ricerca. Tale definizione è stata facilmente
colta della paziente che, non a caso, è una ricercatrice universitaria (ho riutilizzato più volte l’analogia
della ricerca scientifica e della raccolta dei dati per la costruzione delle ipotesi). I primi incontri
sono stati dedicati alla raccolta della richiesta e dei dati anamnestici, fase che ha permesso a G. di
parlare dei suoi problemi e di sentirsi ascoltata e accolta. Nell’andare avanti con la terapia G. rac-
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conta che in alcune situazioni le sono venuta in mente soprattutto quando si trovava ad analizzare
una situazione: cosa pensava, provava e come avrebbe potuto affrontarla. G. ha sempre faticato nel
compilare i compiti a casa in quanto non aveva molto tempo libero da dedicare. Abbiamo deciso
così di farne molti durante i nostri incontri. Con il tempo, poi, lei è riuscita ad essere in grado di organizzare
il suo spazio in casa e a portare a termine ciò che iniziavamo in terapia. Quando le ho fatto
notare la differenza del suo comportamento rispetto all’inizio del percorso terapeutico lei mi ha
riferito che nel momento in cui l’ho lasciata libera di compilare o meno i compiti a casa si è sentita
in grado di scegliere in modo autonomo come organizzarsi e non ha letto la mia richiesta come una
costrizione (come invece accade al lavoro). G. dice che questo è stato un elemento importante perché
si è sentita compresa nella sua reale difficoltà ed ha avvertito la mia disponibilità ad accogliere
una sua richiesta.
Progetto terapeutico
Durante l’assessment comportamentale chiedo alla paziente di elencare quelli che sono i problemi
che attualmente la preoccupano di più e che sono fonte di stress e di ordinarli gerarchicamente. Lei
afferma che nonostante ciò che le crea più disagio sia il rapporto con il marito, il problema che vorrebbe
affrontare inizialmente è la difficoltà a dire di no alle richieste altrui (colleghi, capo, figli).
Preferisce iniziare con l’affrontare la scarsa competenza affermativa in quanto ritiene che tale problema
possa essere gestito da lei con maggior successo. Afferma che se non fosse in grado di risolvere
tale problema non ne sarebbe sorpresa, ma come percentuale di riuscita stima il 45% di possibilità.
Altra difficoltà che vorrebbe affrontare è quella di saper esprimere emozioni, opinioni e bisogni
in maniera adeguata sia in ambito lavorativo che familiare.
Finalità e obiettivi
Stando all’assessment condotto, ho ritenuto le seguenti finalità come quelle principali per l’intervento
terapeutico.
• Area cognitiva: facilitare la messa in discussione delle distorsioni cognitive
• Area comportamentale: promuovere l’acquisizione e/o il potenziamento di abilità sociali
(comportamento assertivo) e aumentare il grado di autostima
• Area affettiva: promuovere nella paziente la capacità del riconoscimento delle emozioni e
della loro espressione
• Area socio-relazionale: rinforzare la competenza sociale e aumentare i contatti sociali
Con la paziente abbiamo stabilito insieme i seguenti obiettivi a breve termine:
• Aumentare la competenza assertiva ed emotiva. Tale obiettivo potrà dirsi raggiunto quando
al lavoro, con il marito e con i figli riuscirà ad esprimere le sue esigenze, opinioni ed emozioni
e sarà in grado di dire di no o di fare lei stessa delle richieste agli altri
• Migliorare l’immagine di sé. La paziente imparerà a riconoscere e valorizzare le proprie risorse
e accettare i limiti personali non in grado di modificarli
• Aumentare i contatti sociali. Tale obiettivo potrà dirsi raggiunto quando la paziente sfrutterà
la pausa pranzo per passare del tempo con i colleghi e avere modo di relazionarsi con loro
anche in maniera informale, parteciperà ad alcune delle uscite che i colleghi organizzano,
inizierà una conversazione con le persone che frequentano il corso di nuoto
Strategie e tecniche
Durante i primi colloqui ho condotto un assessment comportamentale per raccogliere i dati relativi
al problema in modo più sistematico, ho ricostruito la storia di vita della paziente attraverso i fatti
così come sono stati da lei memorizzati e interpretati e le ho consegnato il CBA.
Il lavoro terapeutico è cominciato con l’utilizzo delle schede ABC per il riconoscimento dei pensieri
automatici, la loro messa in discussione e la sostituzione di quelli disfunzionali.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 43

È stato condotto un training assertivo per lavorare su alcune abilità sociali come la competenza
comunicativa (descrittiva ed espressiva), il fare o rifiutare richieste, l’esprimere le proprie emozioni
e il manifestare il proprio disaccordo. Successivamente, abbiamo lavorato sul potenziamento
dell’autostima prendendo spunto da alcune attività del Subjective Well-being training (Goldwurm,
Baruffi, Colombo, 2004). Nel corso della terapia è stata insegnata e utilizzata la tecnica del problem
solving.
Risultati raggiunti
Ha chiuso la relazione con il marito a Settembre 2008: gli ha riferito di aver scoperto che lui manteneva
ancora una relazione con un’altra donna, gli ha chiesto spiegazioni, gli ha detto che non voleva
continuare a vivere con lui e di cercarsi un appartamento. Stanno prendendo decisioni organizzative
rispetto alla gestione economica e dei figli. Insieme hanno comunicato la decisione ai figli.
La madre ha provato a convincerla a rimanere con il marito oppure di non fare la separazione consensuale,
ma G. le ha detto di essere sicura della sua decisione e le ha espresso la sua volontà di non
discutere più su questo punto.
Il professore sta cercando di cambiarle stanza, ha acconsentito a darle alcune ore al giorno per
scrivere alcuni articoli necessari per completare il curriculum della paziente, le vuole affidare la
coordinazione di un progetto di ricerca.
Alcune volte riesce a resistere ai capricci dei figli o a cercare una negoziazione. In piscina ha cambiato
corso e si è iscritta ad uno di acqua gym dove, però, oltre a qualche scambio di presentazioni,
non ha ancora stretto nessuna amicizia.
Al lavoro pranza spesso con una collega invece che da sola.
Si sente libera da D. e dalle implicazioni del rapporto con lui e, complessivamente, realizzata. Si
sente più sicura, anche con i figli. Ha una percezione di sé migliore (sente di essere più capace di
fronteggiare le situazioni difficili) anche se ha paura di diventare aggressiva.
Follow-up
A Settembre 2008 è stato effettuato l’incontro di follow-up. Prima dell’estate è morto il padre e
per G. è stato un momento di difficoltà. D. le è stato accanto: è andato al funerale e quando G. è
partita con la madre e le sorelle per portare il padre nel cimitero del suo paese di origine, D. si è occupato
dei figli. Entrambi sono riusciti ad organizzare la divisione dei compiti e delle responsabilità
rispetto alla gestione dei figli. D. li porta a scuola tutte le mattine e passa con loro un pomeriggio a
settimana. Il weekend si organizzano sulla base degli impegni personali. D. sta aiutando economicamente
G.
Al lavoro ha iniziato un nuovo progetto che le piace molto, ma non è ancora riuscita ad organizzarsi
per poter scrivere gli articoli così come aveva pensato di fare. Crede di aver bisogno di lavorare
di più sulla sua assertività soprattutto con il suo professore.
Bibliografia
Becciu M. & Colasanti A.R. ( 2000). La promozione delle abilità sociali: descrizione di un programma
di addestramento. Roma: AIPRE.
Beck A.T. (1984). Principi di Terapia Cognitiva. Un approccio nuovo alla cura dei disturbi affettivi.
Roma: Astrolabio.
Goldwurm G.F., Baruffi M., Colombo F. (2004). Qualità della vita e benessere psicologico.
Aspetti comportamentali e cognitivi del vivere felice. Milano: McGraw-Hill.
Sanavio E. (2004). Psicoterapia cognitiva e comportamentale. Roma: Carocci.
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ALLA RICERCA DEL MIO SOLE.
Di Marisa Micucci, psicologa, psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, socio CRP, libera professionista,
mail: marisa.mic@libero.it. Aree di specializzazione: tossicodipendenze, disturbi d'ansia, disturbi dell'umore e di
donne vittime di violenza.
Vedo Federica per la prima volta il 2 ottobre 2008. La terapia durerà circa 1 anno, con incontri settimanali
di un’ora ciascuno. Il follow up è stato effettuato a 9 mesi.
Federica ha 36 anni, è sposata da 12 anni ed ha un figlio di 8 anni. Diplomatasi in ragioneria lavora
come impiegata. Si descrive come una persona timida e riservata che tende ad instaurare dei rapporti
stretti soprattutto con i parenti. Tuttavia, sa entrare in contatto con gli altri e mantenere dei rapporti
piacevoli. La famiglia di origine è composta da padre, madre, fratello minore di 2 anni.
Alla domanda sul motivo per cui si sia rivolta a me riferisce:
• Uno stato depressivo: dice di sentirsi triste e stanca, di non provare più piacere in quello
che fa e di piangere spesso per qualsiasi cosa
• Problemi relazionali con la famiglia di origine: riferisce di sentirsi soffocare dal rapporto
con la madre “che mi mette sempre in mezzo nelle sue discussioni con papà” e di essere molto
arrabbiata con lei. È molto dispiaciuta di avere un rapporto superficiale con il padre
• Problemi in ambito lavorativo: lamenta difficoltà nella gestione del lavoro per un aumento
di lavoro e responsabilità e rapporti tesi con i colleghi
• Alti livelli di rabbia verso la cognata con pensiero ruminante: dice di non sopportare più
le sue lamentele sul marito, sui suoceri, sul figlio, sul lavoro etc... Rimugina sui loro incontri,
sulla rabbia che le provoca e si sente un’ipocrita perché non riesce a dirglielo
• Sensi di colpa verso la nonna morta: “Ho molti rimpianti: avrei potuto passare più tempo
con lei, invece non le sono stata vicina per paura che mia madre soffrisse di gelosia”. Dice
che per questo è “molto arrabbiata” con la madre
• Problemi con il cibo: dichiara di avere avuto un passato manifestazioni di anoressia e bulimia.
Afferma che ora questi problemi sono risolti, ma non ha ancora un rapporto sereno con
il cibo: quando mangia con altre persone osserva attentamente la tavola e guarda costantemente
le porzioni altrui per rendersi conto di quanto mangia
• Ansia nelle relazioni sociali: teme molto il giudizio degli altri, per questo tende ad evitare
di dire la sua opinione. Non si sente come gli altri la vedono “dolce e disponibile”, ma dice
di essere “egoista e cattiva”
• Ansia nel ruolo di madre e sensi di colpa: riferisce di sentirsi in colpa per essere una madre
lavoratrice, che per il lavoro ha dovuto sottrarre del tempo al figlio. Inoltre, si sente in
colpa perché in realtà non ama stare con il figlio e giocare con lui.
Assessment
Alla domanda su cosa la preoccupi maggiormente, fra tutti problemi che ha riportato, Federica
non esita ad affermare che è il suo umore “depresso” e il suo scoppiare a piangere “senza motivo”
che la preoccupa maggiormente. L'intervista di assessment (Sanavio, 2004) viene così a focalizzarsi
sul suo abbassamento del tono dell'umore e sui pianti improvvisi. Il tutto inizia la mattina al momento
di uscire di casa per andare al lavoro; ormai è diventato automatico pensare alla madre e provare
rancore verso di lei e verso se stessa per non aver pensato con la propria testa. Prova una pressione
allo stomaco. Teme di essere come la madre che soffre di depressione; afferma di aver letto
che “... c’è una componente di ereditarietà per i disturbi dell’umore”. Ha paura di perdere il
contatto con la realtà e di stare andando fuori di testa. Teme di sottovalutare i bisogni del figlio in
quanto troppo concentrata sui problemi con i propri genitori. Ha paura di trovarsi vecchia senza
essere riuscita a godersi la vita con suo marito e suo figlio perché troppo coinvolta in quella dei
genitori. Cerca di farsi forza, dicendosi che deve affrontare la giornata e che devo fare le cose con
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ordine.
Il pensiero di andare a pranzo dai genitori la domenica peggiora il suo stato d’animo. Anche la
stanchezza e il ritmo di lavoro incalzante la deprimono ulteriormente. Per tirarsi su pensa al marito
che le dice di pensare alla sua nuova famiglia. Ma alla fine sta peggio perché non riesce a farlo! Il
venerdì sta meglio, si dice: “Dai! Domani è sabato!”, ma se la domenica deve andare dai genitori
non funziona.
Per quanto concerne il decorso dell'umore nell’arco della settimana, riferisce che a volte inizia a
star male dalla domenica sera fino al venerdì pomeriggio. Talvolta sono momenti brevi nell’arco
della giornata, altre volte dura tutto il giorno, dipende da quello che succede, dal lavoro, da come
vanno le cose. Vuole stare sola, ma se sta sola peggiora; se fa qualche attività sta meglio. Su una
scala da 0 a 10 per misurare il quanto stia male, afferma di attribuire valore 10.
L’esordio dell'umore depresso lo fa risalire a dopo la nascita del figlio, quando ha iniziato a pensare
a lei come figlia e a vedere i genitori in modo diverso. Poi ci sono stati alti e bassi.
Tra gli eventi di vita particolarmente significativi, ricorda quando nel 2003 è morta la nonna.
Tra i più recenti, annovera quando quest’anno la collega è andata in maternità e lei si è trovata da
sola ad affrontare tutto il carico di lavoro e le responsabilità; inoltre, quando il fratello ha perso il
lavoro e i suoi genitori hanno continuato a litigare. Da quando ha avvertito un abbassamento del
tono dell'umore, ha iniziato ad allontanarsi dai genitori, ha diradato visite e telefonate facendo credere
loro di essere molto impegnata.
Si è realmente riversata totalmente sul lavoro. Ciò ha funzionato per i primi tempi, ma alla lunga
non ha retto. La paziente vive con ambivalenza l'allontanamento dai suoi genitori: da una parte si
sente sollevata, ma quando li rivede si sente in colpa. Ha cercato di riposarsi fisicamente durante le
ferie. Ma quando il datore di lavoro più di una volta l’ha chiamata per delle urgenze, lei non è stata
in grado di opporsi e di far rispettare il suo diritto alle ferie. Ha provato anche ad alleggerire le
fatiche e il sovraccarico con lo sport, ma senza ottenere buoni risultati. Il tono dell’umore è
migliorato una prima volta a novembre 2006, in coincidenza con il riavvicinamento al papà
sottoposto ad un intervento chirurgico e, una seconda volta, nel 2007 durante i preparativi per il
matrimonio del fratello. Vedeva i genitori concentrati sui preparativi e non litigavano. Sperava che
le cose potessero cambiare.
Alla domanda sugli esiti attesi dai colloqui, risponde: “Le cose che vorrei, oltre a non sentirmi
così depressa, sono veramente tante. Vorrei pensare a mia nonna senza sentirmi in colpa. Vorrei essere
sì la spalla di mia madre ma non provare più tutto questo rancore verso di lei. Mi piacerebbe
avere un dialogo con mio padre. In generale la mia rabbia ora è veramente alta, sto a 9 e vorrei
scendere a 5/6. Mi piacerebbe saper sdrammatizzare, non prendermela per tutto e… mi piacerebbe
anche saper mandare qualcuno “a quel paese”! Poi vorrei smettere di pensare sempre a mia cognata,
non voglio litigarci ma vorrei farmi scivolare di più le cose addosso. Uscir fuori dalle confidenze
della cognata e della suocera che parlano male di lei. Vorrei riuscire a dire la mia opinione
senza aver paura degli altri, di quello che potrebbero pensare. Vorrei mettermi di più la gonna e i
tacchi senza vergognarmi. Mi piacerebbe non vergognarmi guardandomi e facendomi guardare
nuda da mio marito, mettermi il pigiama davanti a lui. E poi, per ultimo, vorrei risolvere il mio problema
con il cibo, non vorrei più controllare il cibo nei piatti degli altri per capire se sto mangiando
troppo o troppo poco e non preoccuparmi più di quello che potrebbero pensare gli altri vedendomi
mangiare”.
Somministrazione test
A Federica è stata somministrata la seguente batteria di test:
• Cognitive Behavioural Assessment (Batteria CBA 2.0) (Sanavio, Bertolotti, Michelin, Vidotto,
Zotti, 1986)
• Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2) (Hathaway, McKinley, 1997)
• State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI) (Spielberger, 1992)
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• Eating Disorder Inventory-2 (EDI-2) + Symptom Checklist (EDI-sc) (Garner, 2001)
Gli indici dei test, che convergono, mettono in luce uno stato ansioso depressivo (non risultano
soddisfatti i criteri diagnostici per un episodio depressivo maggiore né per un stato ansioso secondo
i criteri del DSM-IV-TR), (APA, 2000), con pensieri intrusivi e ossessivi, con problemi di autostima
e assertività. Si evidenzia la presenza di sentimenti di rabbia relativamente intensi, determinati dalle
situazioni, che vengono preferibilmente repressi. Non risulta presente un disturbo del comportamento
alimentare.
Ipotesi esplicativa
Federica nella sua infanzia ha sperimentato una inversione della relazione madre-bambino (Guidano,
1998). La madre depressa piuttosto che dare sostegno emotivo e affettivo pretendeva che la
figlia la sostenesse e la consolasse dai litigi col marito. Si è sempre sentita responsabile dello stato
d’animo della madre, tanto da sentirsi in colpa e costruire un’immagine di sé come incompetente sul
piano relazionale (come figlia, madre, moglie, amica). D’altro lato, presenta anche un’immagine di
sé come persona indispensabile alla madre, come se lei fosse l’unica in grado di sostenerla.
L’esordio del suo disturbo, a seguito della gravidanza, fa pensare ad un momento di crisi e riorganizzazione
rispetto al proprio ruolo: da una parte abbiamo il passaggio dal ruolo di figlia a quello di
madre (per il quale si sente incompetente); guarda ai genitori in modo diverso e fa una valutazione
del loro modo di essere coniugi e genitori; dall’altra, un figlio avrebbe significato non prendersi più
cura come prima della madre e questo potrebbe aver favorito l’emergere del senso di colpa.
Federica sperimenta forti sentimenti di rabbia verso i genitori e più li sperimenta più si intensifica
il senso di colpa, in quanto convinta che il tutto dipenda da lei. Lo sperimentare la rabbia contrasta
con l’immagine che ha sempre dato di sé agli altri (quella buona, dolce, comprensiva che si prende
cura di…) e in tal modo sentirsi amabile.
I peggioramenti nel tono dell'umore sono legati a vissuti di “perdita”: nel 2003 la morte della nonna;
nel 2008 la collega che abbandona il posto di lavoro per maternità.
Federica si sente completamente in balia degli eventi ed oscilla fra la tristezza per le perdite subite,
la rabbia per ciò che ha dovuto subire, l’ansia per il dover affrontare la novità.
I miglioramenti nell’umore accadono in momenti in cui vi è una maggiore serenità fra i genitori e
in cui lei non si sente coinvolta nei loro conflitti. Probabilmente, il fatto che la mamma stesse bene
consentiva a Federica di non sentirsi in colpa.
Lo stato di disagio sembra fungere da pretesto per svincolarsi dalla famiglia e pensare a sé, al marito
e al figlio senza sentirsi troppo in colpa (vantaggio secondario).
Probabilmente, Federica non riesce a fronteggiare in modo adeguato il carico di responsabilità.
Obiettivi terapeutici
In base alla valutazione effettuata vengono individuati i seguenti obiettivi terapeutici:
migliorare il tono dell’umore;
• Aumentare le abilità di coping
• Sviluppare una immagine di sé positiva
• Riconoscere ed accettare i sentimenti di tristezza e rabbia, raggiungendo una adeguata autoregolazione
emotiva
• Incrementare il grado di assertività
• Migliorare il rapporto con il cibo
• Favorire lo svincolo dalla famiglia di origine
• Risolvere i problemi inerenti all’assunzione del ruolo di madre
• Risolvere in modo adattivo il vissuto de lutto
• Stabilizzare i risultati raggiunti (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004)
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Intervento terapeutico
• Obiettivo: migliorare il tono dell’umore
È importante che Federica acquisisca uno stile di vita in cui siano presenti attività piacevoli. Per
individuarle somministro l’Intervista sugli interessi. Individuate un ventaglio di attività, invito Federica
ad inserirle nella sua agenda, per svolgerle nell’arco della settimana.
Le propongo inoltre di incrementare le emozioni piacevoli attraverso l'utilizzo di tecniche immaginative.
Le insegno l’esercizio del “luogo sicuro”, da unire al rivivere in immagine momenti piacevoli
della sua vita (Giannantonio, Boldorini, 2002).
Federica è convinta di essere depressa perché la mamma è depressa. Presento delle slides in cui
spiego cosa è la depressione e cosa si intende per Episodio Depressivo Maggiore (APA, 2000).
Spiego i concetti di probabilità e di vulnerabilità. Attraverso un processo di ristrutturazione cognitiva,
F. comprende di non soffrire, attualmente, di Episodio Depressivo Maggiore e passa da
un’immagine di sé come depressa a quella di una persona che sperimenta tristezza.
• Obiettivo: aumentare le abilità di coping
Dalla valutazione emerge una difficoltà di Federica nell’organizzare il lavoro e il menage familiare.
Il risultato è un aumento delle condizioni di stress. Di conseguenza, risulta importante: iniziare
nuovamente ad organizzare la settimana; migliorare l’organizzazione della giornata; darsi delle
priorità; imparare a rilassarsi (Training Autogeno). Si accorge così di riuscire a portare a termine le
cose iniziate e soprattutto di avere più tempo libero a disposizione.
• Obiettivo: sviluppare un’immagine di sé positiva
Opto per un Training sull’Autostima (Giannantonio, Boldorini, 2002). Federica è molto focalizzata
su ciò che in lei non va, per questo le propongo di focalizzarsi sugli aspetti positivi di sé. Come
homework le assegno di parlare di sé sia in forma discorsiva che facendo delle liste su cosa le piace
di se stessa, i suoi pregi, le sue competenze, i successi raggiunti etc. Per favorire un Dialogo Interno
più funzionale le propongo di stilare una lista con 10 affermazioni positive su di sé da ripetersi a
voce alta ogni giorno per una settimana (Ristrutturazione Cognitiva: Pensieri Utili). Nello svolgere
l’esercizio si accorge che sentire la sua voce mentre dice cose positive su di sé rafforza l’effetto; talvolta
anche nel corso della giornata ripensa alla lista e ciò la far stare bene.
• Obiettivo: riconoscere ed accettare i sentimenti di tristezza e rabbia, migliorare
l’autoregolazione emotiva
Realizziamo un intervento psicoeducativo sulle emozioni, poi per favorire l’esplorazione e la legittimazione
degli stati d’animo, propongo dei protocolli di auto-osservazione e un diario. Inizia
così a scrivere su un quadernone, che lei chiama “il quaderno della terapia”, in cui annota i suoi
pensieri e i suoi stati d’animo. Scrivere le consente di prendere le distanze e di accettare maggiormente
i suoi sentimenti (verso i genitori, cognata etc.). Il mio compito principale in questa fase è
quello di accogliere ed empatizzare con le sue emozioni. Mi chiede cosa deve fare per il suo rimuginio
e la invito ad osservare i suoi pensieri, a non giudicarli, ad osservarli come si osserva un panorama
dal finestrino di un treno e, se vuole, a prenderne nota sul suo quaderno (Melli, 2003). Il rimuginio
inizia lentamente a diminuire sia di frequenza che di intensità . In alcune occasioni utilizzo delle
tecniche immaginative per far rivivere degli episodi di vita in modo da amplificare le emozioni piacevoli;
altre volte utilizzo sempre tecniche immaginative per la regolazione della rabbia (Giannantonio,
Boldorini, 2002), soprattutto verso la cognata (ad es. una volta durante un esercizio in immagine
manda a “quel paese” la cognata ed esclama: “Ora sì che mi sento meglio!”).
• Obiettivo: migliorare l’assertività
Lo scopo è di aumentare la sicurezza di Federica nei rapporti sociali, per questo propongo un Assertive
Training (Bislunghi, Marsigli, 2005; Castanyer, 1998; Giusti, 1992). Facciamo dei giochi di
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uolo sia con episodi realmente accaduti che su ipotetiche situazioni in cui potrebbe trovarsi. Inizia
così a modificare il suo comportamento in pubblico e le persone che la circondano notano i cambiamenti
nel suo modo di relazionarsi. Questo feedback funge da forte rinforzo a livello terapeutico.
• Obiettivo: migliorare il rapporto con il cibo
Federica è convinta di avere un disturbo del comportamento alimentare. Le spiego cosa sia un Disturbo
del Comportamento Alimentare. Nel vedere i criteri diagnostici (APA, 2000) tramite slides
proiettate, si accorge da sola che non ha mai avuto un tale disturbo. La ristrutturazione cognitiva, in
questo caso, provoca un iniziale smarrimento in quanto ha avuto, per molti anni, una visione di sé
come “malata”. Affrontiamo insieme la perdita di questa immagine di sé e l’accettazione di ciò che
è accaduto nella realtà. Per favorire la consapevolezza del proprio comportamento alimentare ricostruiamo
insieme la storia di tale comportamento e le propongo di redigere il diario alimentare (Dalle
Grave, 2004). Emergono molte credenze sbagliate (ad es. saltare i pasti per dimagrire) e convinzioni
disfunzionali sul cibo (cibo-piacere-sessualità) (Pasini, 1994). Approfondendo l’argomento,
emerge il suo timore di essere giudicata come una persona golosa, incapace di resistere alle tentazioni,
priva di controllo, una “peccatrice” (anche sotto l’aspetto sessuale) (Ruggieri, Fabrizio,
1994). Mi avvalgo di dispense e slides sull’argomento (intervento psicoeducativo), per spiegare in
cosa consista una corretta alimentazione. Per quanto concerne la difficoltà di mangiare con gli altri
con serenità (guarda nel piatto delle altre donne), effettuata una ristrutturazione cognitiva, organizziamo
delle esposizioni con delle prescrizioni comportamentali (ad es. mangiare concentrandosi sul
proprio piatto) (Dalle Grave, 2004). Inizia così a mangiare serenamente, non guarda più nei piatti
degli altri e non usa il cibo come regolatore delle proprie emozioni.
• Obiettivo: risoluzione dei problemi nell’assunzione del ruolo di madre
Il primo step è di indagare paure e colpe connesse al ruolo di madre. Emerge immediatamente una
difficoltà nel coniugare il ruolo di madre con quello di lavoratrice. Federica è convinta che essere
una buona madre significhi essere sempre presente fisicamente con il bambino. Ad es., a questo proposito,
le chiedo: “Quindi se una madre sta 24 ore su 24 con il suo bambino in un bilocale, passa
tutto il suo tempo in cucina davanti alla TV, non lo fa uscire e lo tiene in camera a giocare da solo è
una buona madre perché nel caso il bambino la chiamasse lei è lì pronta a rispondere?”. “Beh sì…
se il bambino ha bisogno di lei… lei c’è, hai detto che lei è nell’altra stanza e lui la può chiamare ”.
Ripeto quello che ho detto e alla fine ribatte: “Aspetta… non avevo fatto caso a tutta la frase… mi
ero concentrata solo sul fatto che lei era lì… (ripete fra sé la frase, scandendo le parti). No, messa
in questi termini direi proprio di no, non è una buona madre, un bambino ha bisogno di uscire, ha
le sue esigenze… (scoppia a ridere, una risata cristallina). Mi sembra che piuttosto di quantità dovremmo
parlare di qualità!!!!”.
Questa è l’occasione per riflettere sulle convinzioni e sugli stereotipi culturali rispetto al ruolo materno.
Emerge che dalla famiglia di origine ha ricevuto due messaggi contraddittori: a) devi lavorare
per essere indipendente; b) devi stare a casa e stare con tuo figlio per essere una buona madre.
Altro passo importante è quello di incrementare le attività piacevoli con il figlio. Invito Federica
ad individuare delle attività, inizialmente brevi poi, mano mano, più lunghe, da svolgere con il figlio.
Tutto questo incrementa il senso di autoefficacia nell’espletare il ruolo genitoriale.
• Obiettivo: favorire lo svincolo dalla famiglia di origine
Il primo passo è quello di consapevolizzare il proprio sviluppo nella famiglia di origine. Per questo
utilizzo il Genogramma. Riflettiamo su eventi e vissuti e su come essi abbiano influito sui suoi
comportamenti e stati d’animo. Propongo a Federica di riflettere sul ruolo assunto da lei nella propria
famiglia di origine. Miro poi ad una focalizzazione sugli aspetti positivi dei momenti in famiglia
(racconti di ricordi piacevoli) e ad un incremento delle esperienze positive in famiglia (programmazione
di incontri con automonitoraggio). Attraverso questo lavoro Federica acquisisce una
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 49

maggiore consapevolezza, inizia a sperimentare nuovi modelli relazionali (ad es. fuoriesce dalla
triangolazione con i genitori) ed inizia a dare una rilettura del rapporto genitoriale (non ha più la visione
di una madre succube del marito, ma quella di una donna che decide di stare con il suo uomo
e che tutto sommato i genitori hanno il loro modo di stare insieme e sono felici così).
• Obiettivo: risolvere il lutto
Affinché Federica inizi ad affrontare il processo di sofferenza per la perdita della nonna, la invito
a parlarmi di lei e del loro rapporto (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004). A questo punto però Federica
decide di interrompere la terapia, quindi non abbiamo lavorato ulteriormente su ciò che è emerso.
Quando mi comunica la sua decisione rispondo che quando vorrà potrà contattarmi per un appuntamento.
• Obiettivo: stabilizzare i risultati raggiunti
In funzione di questo obiettivo, durante tutta la terapia, è stata mia premura rinforzare i risultati
che mano mano si sono raggiunti.
Follow up
Federica arriva puntualissima. Le chiedo come sta. Mi risponde che si sente molto bene, che ora
non la spaventa più entrare in un posto dove c’è gente, non balbetta più e non le tremano le gambe.
Riferisce che con il nuovo capo le cose vanno molto bene ed idem con i colleghi. Riferisce che la
sua collega e amica le ha confidato di sentirsi molto in colpa per dover lasciare il figlio piccolo
all’asilo nido e lei le è stata di grande aiuto. Le chiedo dei genitori. Racconta che non li cerca più
tanto come prima ma è serena. La mamma talvolta si sfoga, lei la ascolta e poi torna a casa tranquilla.
Ha iniziato a cercare di restare di più sola con il papà, ha voglia di parlare con lui e cerca di godersi
questi momenti. Arriva un argomento spinoso: la cognata. Riferisce che a volte non vorrebbe
vederla e che alcune cose di lei la fanno arrabbiare, tuttavia poi riesce a tornare di buon umore e non
spreca il suo tempo pensando a lei.
Ora sa che nei momenti di forte stress, quando sente che aumentano le responsabilità, tende ad essere
vulnerabile e ad avere questi stati ansioso-depressivi. Ma sa anche che ora ha tante nuove risorse
e il “disagio” che ha provato non la spaventa più come prima. Addirittura, riesce a vedere questo
stato di disagio che l'ha condotta in terapia, come un qualcosa di positivo: per lei, infatti, è stata
un’occasione per intraprendere un lavoro su se stessa che le sta dando grandi soddisfazioni e la fa
star bene. Il disagio sperimentato è visto ora come un’occasione di cambiamento e le piace la possibilità
di poter considerare i futuri momenti bui come delle “possibilità”: “Ora so che come ce l’ho
fatta questa volta ce la potrò fare anche in futuro”.
Le chiedo di individuare la variabile responsabile del suo benessere in quel periodo buio e risponde
senza indugi che i pochi momenti di benessere erano dovuti allo stare con i genitori e al suo lavoro.
Le chiedo da cosa dipenda oggi il suo benessere. Ci pensa su e risponde: “Oggi la mia serenità
dipende da me. Sono io che sto bene, che mi sento bene. Mi sento più sicura, faccio le mie cose
senza sentirmi in colpa, faccio cose che mi piace fare. Non ti so spiegare ma oggi mi sento bene. Lo
so che ci saranno momenti meno belli, ma oggi non me ne preoccupo, mi godo finalmente quello
che ho”. Le faccio osservare che nel passato il suo benessere era delegato ad altri, mentre ora dipende
da lei. Le ricordo di come all’inizio della terapia diceva che avrebbe desiderato avere la bacchetta
magica della fatina di Cenerentola per risolvere tutti i suoi problemi e le evidenzio che in questi
mesi di duro lavoro non ha mai utilizzato alcuna bacchetta magica, ma è grazie a risorse sue
personali che ha ottenuto i cambiamenti che cercava. Ripercorrendo alcune tappe dell’anno trascorso
insieme, mi dice che è stato impegnativo, difficile, talvolta doloroso ma anche entusiasmante, interessante
e spesso divertente. Faccio un piccolo riassunto del processo terapeutico, degli obiettivi
che ci eravamo poste e che sono stati raggiunti. Dico a Federica che sono molto orgogliosa del lavoro
fatto. I risultati raggiunti sembrano stabili. Su alcuni obiettivi (genitori, lutto per la morte della
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nonna) non abbiamo lavorato in modo sistematico in quanto ha deciso ad un certo punto di interrompere.
Federica è molto contenta e lascia la stanza della terapia con un bel sorriso.
Re-Test
Somministro il CBA. Come unico punteggio elevato persiste quello nella scheda 5 della scala
EPQ/R-L, indice dell’importanza che riveste per Federica l’essere approvata dagli altri. Rimane
come unico item significativo della scheda 6 “arrossire” e nella scheda 7 “Sentirsi respinti o rifiutati
dagli altri”. Tuttavia, questi risultati possono essere letti non come indice di patologia ma come
caratteristiche e vulnerabilità di una persona che ha comunque un buon adattamento e un buon funzionamento.
*… All’inizio del nostro lavoro Federica, nel suo quaderno della terapia, scrisse che di sé riusciva
a vedere solo la sua ombra. Le feci notare che l’ombra può esserci solo dove c’è il sole. La cosa le
piacque molto e decise di considerare la terapia come “la ricerca del mio sole”. Ora Federica può
guardare tranquillamente “nella sua ombra” perché ha riscoperto “la sua luce”.
Bibliografia
American Psychiatric Association. (2000). DSM-IV- TR. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali. Milano: Masson.
Bislunghi L., Marsigli N. (2005). Il timore degli altri. Vincere la fobia sociale. Salerno: Ecomind.
Castanyer O. (1998). L’Assertività: espressione di una sana stima di sé. Assisi: Cittadella Editrice.
Dalle Grave R. (2004). Perdere e mantenere il peso. Un nuovo programma cognitivo comportamentale.
Verona: Positive Press.
Garner D.M. (2001). EDI-2. Eating Disorder Inventory-2. Firenze: Organizzazioni Speciali.
Giannantonio M., Boldorini A.L. (2002). Autostima Assertività e Atteggiamento Positivo. I fondamenti
e la pratica della crescita personale. (II ed.). Salerno: Ecomind.
Guidano V. F. (1998). La complessità del Sé. Un approccio sistemico processuale alla psicopatologia
e alla terapia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri.
Giusti E. (1992). Training dell’Assertività, ma i dire sì quando si vorrebbe dire no! Roma:
A.S.P.I.C.
Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2004). Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti
con interventi a breve, medio e lungo termine. (II ed.). Milano: Masson.
Hathaway S.R., McKinley J.C. (1997). MMPI-2. Minnesota Multiphasic Personalità Inventory-2.
Firenze: Organizzazioni Speciali.
Melli G. (2003). Vincere le ossessioni. Capire e affrontare il Disturbo Ossessivo Compulsivo. (II
ed.). Salerno: Ecomind.
Pasini W. (1994). Il cibo e l’amore. Milano: Mondadori.
Ruggieri V., Fabrizio M.E. (1994). La problematica corporea nel trattamento dell’anoressia mentale.
Roma: Edizioni Universitarie Romane.
Sanavio E., Bertolotti G., Michelin P., Vidotto G., Zotti A.M. (1986). CBA-2-0 Scale primarie:
Manuale. Una batteria a lungo spettro per l’assessment psicologico. Firenze: Organizzazioni Speciali.
Sanavio E. (2004). Psicoterapia cognitiva e comportamentale. Roma: Carocci.
Spielberger C.D. (1992). STAXI. State-Trait Anger Expression Inventory. Firenze: Organizzazioni
Speciali.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 51

MIA MOGLIE DICE CHE NON MI RICONOSCE PIÙ.
Di Raffaele Riccardis, psicologo – psicoterapeuta, mail:raffaelericcardis@fastwebnet.it
Cenni anamnestici
M. è un uomo di 42 anni alto circa 1.90 m con un bel fisico palestrato e folti capelli ricci brizzolati.
È sposato con P., una insegnante di alcuni anni più grande di lui, con la quale ha una figlia. Lavora
in polizia e aiuta la moglie nella palestra che gestiscono insieme.
Motivo della richiesta
Il primo contatto con M. avviene telefonicamente, con un tono pacato mi dice: “Buongiorno dottore
mi hanno parlato di lei nella palestra dove lavoro e mi hanno detto che è uno psicologo. Ho bisogno
del suo aiuto perché mi sto rendendo conto che nella mia vita non riesco a mantenere un
rapporto stabile né con gli amici né con una donna…”. Accolgo la sua richiesta dicendo di non preoccuparsi:
mi avrebbe raccontato meglio la sua situazione al primo appuntamento che gli do a distanza
di cinque giorni nel mio studio.
Nel primo colloquio M. mostra una postura curva su se stesso, con una vocina così sommessa e
timida, che “a cospetto di uomo grande e grosso” mi sembra inverosimile, inizia a raccontare che
sta vivendo un momento difficile con la moglie, più grande di lui di otto anni, con la quale ha una
bambina di nove anni. Gli chiedo di spiegarmi meglio cosa significhi per lui “difficile” e M. risponde
che si accusa tutti i giorni di “essere un incapace nella sua vita ad instaurare e coltivare un rapporto”,
inoltre mi riferisce che in questo periodo non trova gratificazione in nessuna attività: “faccio
del tutto per non gratificarmi”. Con occhi visibilmente lucidi mi dice che la moglie lo accusa
“da sempre”, e in questo periodo particolarmente, di essere un poco di buono che nella vita non hai
mai combinato nulla di costruttivo. Le accuse ripetute dalla moglie, alla quale sostiene di volere
molto bene, lo fanno star male: “non riesco mai a replicare agli insulti che mi rivolge di continuo”.
Gli chiedo che spiegazione si dia del fatto che non riesce a tirar fuori ciò che pensa alla moglie, mi
risponde che ha avuto sempre “una scarsissima considerazione di sé” che lo porta attualmente con
P. ad “abbozzare”.
Storia di sviluppo
M . nasce in una grande città dove vive fino ai 19 anni. La madre, di 64 anni, è stata ed è casalin -
ga, mentre il padre, di 70, ha sempre lavorato nella sua bottega artigianale. C'è una sorella di tre
anni più grande, impiegata, che è rimasta molto più di lui a casa con i genitori, fino a quando ha
trovato un lavoro stabile e si è sposata. M. si descrive nell'infanzia come un bambino chiuso e un
po’ introverso: sin dagli anni dell’asilo le maestre riferivano ai genitori che spesso si isolava dal
gruppo e molte volte preferiva giocare da solo. A volte poi “quasi inspiegabilmente” ai momenti di
chiusura e solitudine si alternavano comportamenti aggressivi che il più delle volte sfociavano
nell’alzare le mani sui compagni o uscire dalla classe senza chiedere il permesso. M. riferisce che
quando pensa a questi comportamenti gli viene un “grosso magone allo stomaco” perché ora si rende
conto che c’era qualcosa che in lui che non funzionava in maniera adeguata. Aggiunge che fino
alle elementari non è mai riuscito ad avere il classico “amichetto del cuore”, aspetto della sua esistenza
che riconosce essere problematico a tutt’oggi: “sembra che sono io che allontano gli altri e
mi convinco che nessuno mi vuole”. Il rapporto con i genitori viene descritto come difficile, in particolar
modo quello con il padre: “ho ricordi vividi nella mia mente di quando mio padre, senza alcun
motivo, mi picchiava in maniera molto aggressiva e io mortificato e dispiaciuto mi chiudevo
nella mia stanza cercando di capire cosa facessi di sbagliato”. Il padre viene definito come una
persona dura, fredda e senza sorriso. Nella famiglia era lui che dettava “le regole” senza lasciare
spazio decisionale a nessuno, insomma “il prototipo del padre-padrone”. Descrive invece la madre
come una persona mite e senza grandi passioni: “la classica moglie che non ha voce in capitolo con
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il marito, che deve preparare pranzo e cena, e tenere in ordine la casa”. Anche se dice “è l’unica
persona che qualche volta mi ascoltava”. La sorella è sempre stata vista come “la brava di casa”,
quella che andava bene a scuola e che non dava mai problemi. È convinto che il padre stravedesse
per lei, mostrando più affetto per la figlia che per la moglie: “anche oggi mio padre non mi chiama
mai mentre mia sorella viene sempre invitata a casa loro e mio padre è solito fargli dei grandi
regali”. Definisce il rapporto con la sorella “asettico”: “qualche volta giocavamo insieme, ma non
ho mai sentito un grande affetto da parte sua nei miei confronti”. M. ricorda che a volte, alle medie,
marinava la scuola con alcuni suoi compagni: “era l’unico modo per sentirmi accettato in un
gruppo”. E riferisce che all’età di quattordici anni, forse per lo stesso motivo, ha iniziato a fare uso
di cannabici: “sapevo che non stavo facendo una cosa buona, ma almeno potevo stare con dei
ragazzi che mi accettavano”. Il profitto a scuola era molto mediocre: “non riuscivo mai a
concentrarmi, era come se avessi altro per la mente” e “anche nella scuola mi rendo conto oggi
che i miei genitori non mi hanno mai seguito”. Alle superiori, M. si iscrive alla scuola scelta dal
padre: “avrei voluto fare una scuola ad indirizzo umanistico ma non avevo il coraggio di oppormi
alla decisioni di papà”. È stato bocciato per due anni e solo successivamente frequentando una
scuola serale ha conseguito il diploma. Riferisce fino ai diciannove anni l'uso di cannabici e altre
sostanze stupefacenti che a volte “nei momenti in cui non ero lucido mi portavano a commettere
qualche piccolo furto”. Aggiunge che sin da piccolino è stato affascinato da sport spericolati e
azioni dove è implicato il rischio. Dal punto di vista relazionale-affettivo dice di avere avuto molte
ragazze ma “come cotte fugaci dove prevaleva sempre l’attrazione sessuale”, fino a quando, all’età
di ventidue anni, nel corso serale che frequenta per conseguire il diploma incontra V., più grande di
lui di quattro anni, della quale si innamora: “finalmente avevo trovato una persona che mi ascoltava
e mi capiva”. Decidono di sposarsi l’anno successivo e vanno a vivere a casa di V. I primi tre anni
di matrimonio vengono descritti come gli anni più belli della sua vita: “avevo finalmente trovato un
equilibrio”. Erano anni in cui dice di non aver fatto uso di alcun tipo di sostanze e aver condotto
una vita regolare. È allora che fa domanda per entrare in polizia e viene assunto. L’entrata in polizia
viene vista come una salvezza, oltre al matrimonio con V.: “era il mio sogno entrare in polizia e ci
sono riuscito”. La situazione con la moglie va complicandosi, poiché la mamma di V. si ammala e
va a vivere insieme a loro. M. racconta che questo evento ha cambiato radicalmente il rapporto con
la moglie: “prima tutte le attenzioni erano rivolte a me, mentre con la presenza della mamma V. non
mi considerava minimamente”. Aggiunge che in quel periodo ha ripreso a frequentare “cattive
compagnie” che lo hanno portato a fare uso di droghe, l’eroina sopra tutte: “mi sentivo di nuovo
solo e la droga mi dava la carica per andare avanti”. Riferisce liti furibonde con la moglie e sua
madre, che visti i ripetuti litigi “si metteva in mezzo per cercare di arginare la situazione”. Erano
litigi molto forti che portavano alle mani. V. diventava sempre più gelosa delle uscite di M.: “o con
gli amici o con me”. La sofferenza provata è tale da decidere consensualmente di separarsi. Dopo la
separazione si susseguono tre anni di notevole uso di sostanze (Malizia, Borgo, 2006) che lo
portano ad un breve ricovero ospedaliero e ad una psicoterapia di gruppo. Ma alla fine riesce a
disintossicarsi: “sono stati anni infernali, ma ho trovato degli angeli che mi hanno saputo aiutare”.
Dopo un anno incontra P., l’attuale moglie. La descrive come una persona solare, piena di tanti
interessi: “non stava un secondo senza parlare” e con tanta voglia di vivere “proprio quella voglia
di vivere che negli ultimi anni a me era passata”. Si sono conosciuti ad un corso subacqueo, del
quale lei era l’insegnante: “era dolce e carina con me, mi sentivo accudito e sostenuto”. Avevano il
versante della spericolatezza in comune. Seguono due anni di divertimento, fatti di uscite di coppia
e uscite con amici di P.: “forse per la prima volta mi sentivo accettato in un gruppo sano”. Due anni
dopo nasce S., un peperino di bambina: sin da piccola “non stava mai ferma” e “nel suo primo
anno di vita ci ha fatto dormire poco”. M. riconosce di volere un gran bene a S., osserva però che
“da quando è nata e poi nel corso degli anni tra me e P. sono cambiate moltissime cose”.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 53

Situazione attuale
Nell’ultimo anno M. descrive una situazione con la moglie quasi insostenibile: continui litigi e
momenti di rabbia incontrollata da parte di P. nei suoi confronti. M. si sente continuamente attaccato
:“sei un poco di buono” e “non sai fare niente”, sono affermazioni rispetto alle quali non riesce a
reagire e che aumentano la difficoltà di trovare uno spazio sia fisico che relazionale all’interno della
famiglia. Anche con la figlia non riesce a identificare un’adeguata modalità di comunicazione né a
farsi rispettare nel ruolo di genitore: “ascolta incondizionatamente la mamma e io mi sento un vaso
di coccio tra vasi di cristallo”. Confessa inoltre che le difficoltà relazionali con la moglie lo portano
a fare “delle scappatelle extraconiugali”: “mi fanno sentire un uomo” e “con P. è un anno che non
abbiamo un avvicinamento fisico, lei mi evita”. Aggiunge che la figlia dorme in mezzo al loro. Lamenta
difficoltà relazionali anche sul luogo di lavoro: “non sono capace di farmi valere e sto sempre
zitto”.
Diagnosi e ipotesi esplicativa
Le variabili cognitive, emotive, comportamentali e socio-relazionali rilevate nella fase di assessment,
attraverso il colloquio clinico, l’osservazione, il test psicodiagnostico MMPI-2 e l’analisi degli
ABC, convergono verso la rilevazione di un pattern cognitivo, emotivo e comportamentale coerente
con uno stato depressivo.
M. non si è sentito approvato e apprezzato dalle proprie figure significative sin da piccolo e
quest’aspetto potrebbe costituire un nucleo di convinzioni svalutative che emerge in termini di specifica
vulnerabilità nei periodi di difficoltà, non a caso relazionali.
In questi periodi la strategia di coping emozionale più frequente è legata alla assunzione di droghe
che sembrano costituire per il paziente l’unica forma di “coccola e rifugio” Questa abitudine si
presenta nella adolescenza in termini di appartenenza al gruppo e si manifesta successivamente
nelle relazioni sentimentali-affettive quando il paziente percepisce l'avvicinarsi inevitabile di un vissuto
di perdita e solitudine, dei quali si ritiene l’assoluto responsabile.
Progetto terapeutico
Contratto terapeutico
Dopo la fase di assessment, che considero una fase fondamentale per la costruzione della relazione
terapeutica, discuto con M. alcune informazioni raccolte e il risultato del test, ponendo l’attenzione
sui nuclei tematici centrali che saranno trattati nell’intervento terapeutico, finalizzato al raggiungimento
di precisi obiettivi concordati insieme. Gli incontri saranno a cadenza settimanale.
Obiettivi terapeutici
Gli obiettivi terapeutici individuati e condivisi con il paziente per le diverse fasi del trattamento
sono i seguenti:
I FASE
Obiettivi generali a breve termine:
• Coinvolgere attivamente il paziente nel processo di trattamento
• Rilevare la relazioni tra pensieri, emozioni e comportamento
• Acquisire maggiore consapevolezza del proprio funzionamento
• Sviluppare la capacità di osservazione del punto di vista dell’altro
II FASE
Obiettivi generali a medio termine:
• Sviluppare la capacità assertiva
• Migliorare i rapporti sociali
• Individuare nuovi interessi
• Favorire la competenza emotiva
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III FASE
Obiettivi generali a lungo termine:
• Consolidare gli obiettivi raggiunti
• Sviluppare una autonomia personale
• Ridefinire il proprio ruolo e i propri compiti
• Prevenire eventuali ricadute
Trattamento psicoterapico tra strategie e tecniche
Nella prima fase di trattamento M. mostra un sentimento di piacevolezza nel venire ai nostri incontri:
“ogni volta che entro qui cerco di lasciare il mondo al di fuori e stare un po’ con me stesso”.
Tuttavia colgo dal primo colloquio che ad ogni informazione o stato d’animo che mi riferisce, M.
osserva attentamente l’espressione del mio sguardo. Individuo subito questo comportamento di M. e
mostro un atteggiamento empatico (es. “non deve essere stato facile...” o “capisco che non è stato
uno dei migliori periodi...”), utilizzando molte riformulazioni. Mi rendo conto che l’accettazione,
per M., è un aspetto centrale della esistenza, mi metto perciò nella posizione di rappresentare per lui
“una base sicura” (Bowlby, 1988): costruiamo sin dall'inizio il nostro “spazio di lavoro” come una
culla dove sentirsi “piacevolmente dondolato”. Diversamente da quanto avvenuto nella vita di M.,
dove l’emozione di piacere è stata tratta quasi esclusivamente dall’uso di sostanze. Il mio intento è
di fornire, forse per la prima volta, l’opportunità di sentirsi accettato e approvato in tutte le sue fragilità
e in tutti i suoi punti di forza. È mia abitudine in ogni incontro lasciare spazio al paziente per
raccontare gli eventi salienti della settimana e nella seconda parte dell’incontro concentrare il lavoro
sull’obiettivo concordato, che in questo caso verteva inizialmente sulla difficoltà ad instaurare e
mantenere un rapporto (la sua richiesta d’aiuto). Dopo una fase educativa sul funzionamento personale
e dunque la rilevazione della relazione emozioni, pensieri e comportamento), inizio a trasmettere
“gli arnesi da lavoro”: reintroduco il modello ABC di A. Ellis (Ellis, 1994), ma questa volta
ampliandolo, secondo il modello proposto da S. Borgo (Borgo, 2010; 2011), al fine da poter far
auto-osservare al paziente e registrare tramite una scheda gli eventi che occorrono nella situazionestimolo.
Suggerisco al paziente di individuare una situazione dove si evidenzino le sue difficoltà relazionali.
I protocolli di auto-osservazione vengono impostati in seduta e poi assegnati come homework
con il tema specifico che emerge nella seduta. Propongo anche al paziente di prendere un
quaderno per custodire i lavori che farà in tutto il percorso terapeutico, dandogli un titolo. M. accetta
molto volentieri la mia proposta e ogni volta si presenta al colloquio con il suo quaderno, chiamato
“La custodia della nuova vita”, pronto per leggere e lavorare sui protocolli o altri tipi di lavori
svolti. Riporto, a titolo esemplificativo, un protocollo dove si evidenziano alcune modalità di funzionamento
del paziente.
SITUAZIONE: M. cucina un polipo per cena e arriva la moglie
(S: Sensazioni; E: Emozioni; P: Pensieri; I: Immagini; C: Comportamento).
PRIMA:Ore 19:00. Io a casa da solo che cucino il polipo che piace solo a P. (la moglie)
S: Agitazione 50 Sudorazione 50 Lieve tremore 40
E: Ansia 80 Rabbia 60
P: “Non riesco mai a dirle che a me il polipo non mi piace” “Dobbiamo mangiare sempre ciò che
piace a lei”
C: Cucino e ascolto la musica
DURANTE: Arriva P. a casa (la moglie). Allora è pronto il polipo?
S: Agitazione 80 Sudorazione 60 Forte sensazione di calore 90
E: Ansia 90 Rabbia 90
P: “Entra neanche mi saluta” “Il polipo è più importante di me”
I: Io cotto al posto del polipo
C: Servo la cena a P., mentre lei si mette comoda a cenare.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 55

DOPO: P. mangia il polipo e dice che è ancora duro.
S: Forte sensazione di calore 100
E: Rabbia 100 Tristezza 80
P: “Io faccio sempre quello che vuole e lei non mi apprezza mai”
I: Da vecchio da solo
C: Non riesco a magiare, ho lo stomaco chiuso.
Oltre a questo, sono stati fatti diversi protocolli auto-osservativi, che il paziente ha trovato molto
utili per identificare le emozioni più frequenti. In essi è emersa la tendenza ad attribuire a se stesso
ogni tipo azione in termini negativi : “sono una spugna che assorbe tutto” (Sanavio, 2004). Nel
lavoro di auto-osservazione il paziente ha trovato un ottimo alleato in quanto, tramite questo
strumento, ha iniziato a sganciarsi dall’idea di essere “l’unico responsabile” dei propri eventi di
vita. I numerosi lavori di auto-osservazione mi permettono di introdurre “la tecnica della moviola”,
al fine di rinforzare da un lato il lavoro sin ora svolto, cioè guardare dall’interno il proprio “agito”
in termini cognitivi- emotivi “da attore che vive la scena”, e dall'altro di sviluppare e rinforzare una
visione di osservatore esterno di se stesso, quindi da “spettatore che osserva la scena” (Guidano,
1988). Dopo qualche seduta ed esercizio a casa il paziente è particolarmente sorpreso dai risultati di
tale tecnica. Inizia infatti ad avere una visione più chiara degli aspetti legati alla bassa autostima e a
comprendere che la volontà incondizionata “di fare per l’altro” fino ad oggi non ha portato a
risultati gratificanti, ma piuttosto ad un enorme fatica e lo ha costretto a “rincorrere” sempre
qualcosa o qualcuno, spendendo una sconsiderata quantità di energia: “non ne vale più la pena di
essere il contenitore di P., voglio iniziare a pensare a me…”. L’altro aspetto che compare in questo
momento della terapia è la capacità di mentalizzare la relazione sentimentale e/o amicale in termini
differenti, individuando il punto di vista dell’altro (Guidano, 1992). La figura della moglie viene
riletta: da persona apparentemente forte per le tante attività che svolge e l’autorità che esercita nei
suoi confronti e della figlia, a persona insicura e fragile che ha la necessità di controllare e gestire le
relazioni per avere conferma di sé. La figlia viene identificata come una bimba che “deve crescere
ad immagine e somiglianza della mamma”, uno dei motivi per il quale probabilmente la moglie la
lascia poco tempo con lui. Inoltre da qualche mese la figlia inizia a presentare sintomi di ansia e
difficoltà a restare a scuola. Da qui la nostra analisi ha permesso una definizione differente della
piccola che è manipolata e gestita dal volere della mamma, tanto che tale presenza ha limitato
estremamente la loro relazione di coppia, fino a non avere più rapporti sessuali nell’ultimo anno.
Lancio le basi per un lavoro che svolgerò successivamente sulla definizione dei ruoli e dei confini.
Ho ripreso la metafora, utilizzata dal paziente, della spugna passando dalla convinzione di assorbire
tutto all’idea di gettarla via ogni tanto, finalizzando la metafora come una sorta di “induzione
ipnotica” che il paziente potesse utilizzare al di fuori del mio studio.
Nelle rivisitazioni di “scene nucleari” passate in moviola, il paziente diviene più cosciente del
ruolo che gioca ogni persona della famiglia. Lo percepisco maggiormente motivato ad un possibile
cambiamento di tipo comportamentale. Inoltre la maggiore consapevolezza degli schemi di base del
suo funzionamento porta alla decisione di passare all’obiettivo successivo e cioè di sviluppare la
capacità assertiva, così che M. possa esprimere in modo appropriato all’interlocutore pensieri e stati
d’animo, mantenendo un atteggiamento autorevole.
Dal punto di vista operativo mi sono avvalso ancora dei protocolli di auto-osservazione per identificare
dove emergesse lo stile comportamentale passivo, evidenziando quindi il significato che assume
per M. paura del giudizio e della squalifica, in particolare da parte dalla moglie e del padre.
Riporto un protocollo di osservazione che evidenzia tali tematiche.
SITUAZIONE: Con P. in casa. Tento di parlare del mio passato.
S: Pesantezza fisica (90)
E: Paura (80) di essere anni luce dal suo mondo
P: “Mi sento incapace ad esternare qualcosa di intimo”. “Ho paura del giudizio di P.”
I: La mia solitudine
56 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

C: Cerco il dialogo ma non riesco e cerco quindi di sfuggire al mio disagio scappando in tutti i
sensi.
Prima di introdurre le tecniche per sviluppare capacità assertive è stato attuato un intervento
psico-educativo sui differenti stili espressivi (passivo, assertivo, aggressivo) per identificare ancora
meglio lo stile personale e per cogliere quello degli altri, nonché per definire le caratteristiche di un
atteggiamento assertivo (Becciu, Colasanti, 2000).
Nel mettere in atto le modalità pro-sociali abbiamo inizialmente, tramite un role-playing, simulato
situazioni inventate e successivamente utilizzato delle tecniche immaginative, in cui il paziente
potesse rappresentare delle situazioni di vita quotidiana dove esprimersi in modo assertivo. Dopo alcune
sedute abbiamo deciso insieme che poteva “scendere in campo” mettendo concretamente in
pratica, nelle relazioni interpersonali, quanto appreso e sperimentato in studio. M. inizialmente sceglie
di sperimentarsi laddove si sente un po' più a suo agio (contesto palestra) e successivamente
estende le tecniche assertive apprese ai colleghi, poi alla figlia: “finalmente riesco a farmi ascoltare
da mia figlia quando facciamo i compiti insieme”, e infine con la moglie: “non mi spaventa più
come una volta”. Ma non riesce a sperimentarsi con il padre.
A questo punto l’attenzione si sposta sul miglioramento delle relazioni sociali. Le convinzioni disfunzionali
“nessuno mi vuole” e “non potrò mai essere divertente” rinforzate nel tempo, hanno
portato M. ad una significativa riduzione delle relazioni interpersonali. Ho proposto ad M. di parlarmi
delle relazioni sociali in cui si sente maggiormente a suo agio per mettere in evidenza i suoi
punti di forza. M. mi parla nuovamente delle relazioni che vive in palestra quando fa l’istruttore in
sala pesi. Mi dice che lì è a proprio agio perché sente che gli altri gli danno un ruolo ed è un punto
di riferimento per loro. In seduta “ci alleniamo” con simulate identificando la comunicazione verbale
e non verbale funzionale con ognuna delle persone della palestra. La sperimentazione è iniziata
nel luogo più propizio, la palestra, ma nel momento in cui cominciano tornare rinforzi positivi dagli
altri, propongo che l' M. della palestra venga trasferito anche in altri contesti. Così concordiamo che
proponga una cena con tutti i ragazzi e ragazze della palestra. La maggior parte del gruppo accetta
la proposta e ciò lo gratifica molto: “non avrei mai pensato che tutte queste persone avrebbero accettato
il mio invito” e “mi sono sentito finalmente per una volta protagonista e desiderato”. La
cena con il gruppo è momento di condivisione: “facevo parte del gruppo”. M. scopre di avere interessi
in comune con diversi ragazzi e da quel momento in poi ogni settimana a turno organizzano
un’uscita, riuscendo nella maggior parte dei casi a “farsi scivolare addosso le continue manovre di
controllo della moglie”: “mia moglie dice che non mi riconosce più”. A questo punto viene attuato
un intervento sul potenziamento degli interessi, che M. trova estremamente utile per passare da attività
di svago svolte individualmente ad attività di svago insieme ad altri. Nel tempo M. socializza
con qualche collega in più e, dopo il lavoro, spesso va con qualcuno di loro a prendere un aperitivo.
Lo sviluppo della capacità assertiva e il miglioramento delle relazioni sociali hanno un’influenza
sulla riduzione sull’uso di “canne” e sulla pratica di sport estremi: “non sento più particolarmente
l’esigenza di fumare perché mi sto gratificando con le relazioni e questo lo trovo molto più salutare”
e “il divertimento sta diventando non più sinonimo di rischio ma di piacevoli serate a ridere e
scherzare”.
I cambiamenti di M., che si susseguono nel corso dei mesi, generano sentimenti oppositivi nella
moglie, che tenta di interferire sul lavoro terapeutico anche nei miei confronti, con ripetute chiamate:
dice che il marito non sta facendo nulla di buono né per lei né per la figlia e anzi addirittura ha
iniziato ad uscire con i nuovi amici. Afferma che vuole venire in terapia per dirmi cosa avrei dovuto
fare per “cambiare il marito”.
Gestisco le chiamate della moglie chiarendo che M. sta facendo un percorso individuale e che comunque
avrei tenuto in considerazione la sua proposta: qualora avessi ritenuto utile un suo intervento,
l’avrei senz'altro convocata.
A questo punto decidiamo di focalizzarci ancora sulle emozioni al fine di potenziarne la verbalizzazione,
discriminarle meglio e scomporre quelle complesse. Mi concentro prevalentemente sulle
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 57

emozioni centrali emerse nella fase di assessment: tristezza e rabbia. Il lavoro principale che viene
fatto è sull’accettazione delle emozioni spiacevoli e su come invece poter incentivare l’emozione di
piacere, collegandola a comportamenti funzionali.
Inizialmente M. aveva difficoltà a discernere l’emozioni poiché leggeva ogni stato emotivo in termini
di tristezza e rabbia, invece nel tempo ha imparato riconoscere le emozioni di base e successivamente
a scomporre le emozioni complesse.
Nell’ultima fase della terapia (ultimi due mesi) con incontri a distanza di quindici giorni, la rabbia
è diventata una fonte di energia da liberare in attività creative e costruttive. Quando questa emozione
si presenta con la moglie, la utilizza per delineare il proprio ruolo e i propri confini utilizzando
una comunicazione e un atteggiamento assertivo ed efficace.
Quando la tristezza si presenta con una intensità maggiore a 50, vuol dire che deve farsi “delle
coccole” cercando attività piacevoli, recentemente scoperte con una indagine sui propri interessi. Il
piacere non è più sinonimo di evasione con uso di sostanze o attività estreme, ma di gradevoli momenti
di condivisione.
Il lavoro sulle emozioni, riviste e utilizzate in termini positivi e autoregolandone l’intensità, è stato
finalizzato anche alla prevenzione di eventuali ricadute.
Gli ultimi colloqui si sono svolti ripercorrendo a gradi linee il percorso fatto e gli obiettivi raggiunti,
per preparare il paziente alla conclusione del lavoro.
La frequenza di M., come già detto, è stata sempre costante in tutto il percorso terapeutico durato
da marzo a novembre dello stesso anno.
A fine trattamento viene concordato un incontro a distanza di tre mesi per valutare/monitorare il
lavoro svolto e verificare come M. se la cavi da solo, senza il mio supporto. Aggiungo che, naturalmente,
per qualsiasi cosa mi può contattare quando vuole.
Relazione terapeutica
La relazione terapeutica credo sia stato l’elemento chiave per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.
Sin dal primo momento mi sono posto nella posizione di garantire “una base sicura” a
quell’omone di quasi due metri ma con due occhi da cucciolo smarrito, per poter raccontare di sé e
individuare cosa fare insieme per modificare una condizione esistenziale di sofferenza perpetuatasi
nel corso del tempo. Sentirsi accettato, confermato e validato nei suoi punti di forza e debolezza lo
ha incoraggiato a sperimentarsi “non più nelle vesti di un pugile messo all’angolo prima di scendere
in campo ma di giocarsi la propria partita gratificandosi quando vince e accettando con maggiore
criticismo sconfitte”. E’ stato un lavoro duro e faticoso per M. che spesso all'inizio mostrava
segni di scoraggiamento. Qualche volta ho avuto la sensazione che avrebbe potuto “mollare” da un
momento all’altro e diceva: “non ce la posso fare a cambiare”. È qui che probabilmente una buona
relazione ha evitato un nuovo fallimento. Quando ho percepito questi dubbi ho messo in atto interventi
di tipo ironico-paradossale, del tipo: “non è che il prossimo colloquio lo faccio da solo, senza
il mio compagno di squadra”. Ovviamente un intervento del genere si è inserito in un clima emotivo
consolidato, che permette di dare da un lato un riscontro al paziente dei suoi momenti di scoraggiamento
e dall’altro di rinforzare l’alleanza terapeutica. Ho anche gestito tale stato d’animo osservandolo
insieme al paziente come momento importante per “accogliere”, riflettere e cambiare
(Bara, 2007). Non è stato poi semplice gestire le incursioni della moglie, “facendola rimanere al
proprio posto” e evitando che spingesse il paziente a terminare anzitempo il lavoro terapeutico. Ho
percepito tuttavia, che nonostante una evidente immagine di sé negativa, c' era allo stesso tempo in
M. un senso di riscatto nei confronti di se stesso e nella vita. Si è inoltre dimostrato molto collaborativo
sia in seduta che nel lavoro a casa e la sua frequenza è stata costante tanto da non voler interrompere
del tutto il nostro lavoro ad agosto, chiedendomi se era possibile vederci. Ho provato emozioni
di rabbia quando mi accorgevo che faceva difficoltà ad emergere nei confronti della moglie,
ma poi una grande gioia nelle ultime sedute quando M., più padrone dei suoi mezzi e più consapevole
dei significati che ruotano intorno a sé e al proprio sistema familiare ha abbandonato
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l’immagine di figlio che deve obbedire incondizionatamente alla mamma abbracciando invece quella
di un uomo che deve essere amato con i suoi pregi e difetti, e considerato in ogni caso, anche
“quando getta la spugna”.
Follow-up
Avendo concordato un incontro di verifica dei risultati raggiunti a distanze di tre mesi, M. arriva
puntuale come sempre, ancora una volta con il suo “quaderno di viaggio”, quasi fosse una bandiera
da sventolare dopo una vittoria di coppa del mondo. Mi dice di sentirsi sempre più capace di stare in
mezzo agli altri: il disagio si è estremamente ridotto e si descrive più forte e deciso nell’esprimere
pensieri ed emozioni. Nell’ambito familiare si dichiara felice per essersi imposto a far dormire “finalmente”
la figlia nella propria stanza iniziando a condividere alcuni momenti da solo con la moglie.
In palestra svolge solo le ore di lavoro concordate dedicando il tempo libero alla figlia e ad attività
di svago con i nuovi amici. A volte si presentano momenti di tristezza, ma dice che ora ha imparato
a coccolarsi in maniera funzionale. Non è riuscito ancora a mettere in atto tutto ciò che ha
imparato con il padre e afferma “magari un giorno torno da te e affrontiamo le difficoltà che ho a
relazionarmi con la mia famiglia d’origine”. Mi dice che il quaderno “La custodia della nuova
vita” è diventato uno strumento indispensabile per non dimenticarsi mai di ciò che ha costruito di
nuovo e per vedere soprattutto come ha gestito i momenti di difficoltà: “mi siedo in platea e osservo
ciò che ha fatto il protagonista del film”. Ricevo le informazioni sul lavoro che il paziente sta continuando
a fare per consolidare, da solo ma con tutti gli strumenti che ha imparato, il suo ruolo e termino
il colloquio in una mezz’oretta, per differenziarlo dal “setting classico”. Mi dichiaro infine
contento e lo ringrazio di tutto ciò che mi ha dato sottolineando le emozioni che ho provato insieme
a lui.
Bibliografia
Bara B. (2007). Dinamica del cambiamento e del non-cambiamento. Torino: Bollati Boringhieri.
Becciu M., Colasanti A. (2000). La promozione delle abilità sociali. Roma: AIPRE.
Borgo S. (2010). Supervisione clinica. Roma: Alpes Italia.
Borgo S. (2011). Analisi formativa. Roma: Alpes Italia.
Bowlby J. (1988). Una Base Sicura- Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento. Milano:
Raffaello Cortina.
Ellis A. (1994). L’autoterapia razionale- emotiva. Come pensare in modo psicologicamente efficace.
Trento: Erickson.
Guidano V. F. (1988). La complessità del sé. Torino: Bollati Boringhieri.
Guidano V. F. (1992). Il sè nel suo divenire. Torino: Bollati Boringhieri.
Malizia M., Borgo S. (2006). Le droghe. Roma: Newton Compton.
Sanavio E. (2004). Psicoterapia cognitiva e comportamentale. Roma: Carocci.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 59

MI PIACI, MA…
Di Sabina Lauretti, Psicologa Psicoterapeuta, Libero Professionista, mail: sabinalauretti@libero.it
Cenni anamnestici
Carla è una donna di 26 anni, nubile. Studentessa in economia. Vive insieme ai suoi genitori e al
fratello minore di 23 anni. Ha diversi hobbies come la lettura, l’arte, il viaggiare, il ballare e l’uscire
con gli amici.
Motivo della richiesta
Carla mi contatta telefonicamente per richiedere un appuntamento, anticipando il motivo della richiesta:
preoccupazione per scariche improvvise di diarrea. La sua richiesta, in particolare, è cercare
di capire il perché del suo malessere fisico. Infatti, Carla presenta il suo problema inizialmente focalizzandolo
sui sintomi fisici, (sintomi gastro-enterici o colici, ma soprattutto frequente diarrea). La
preoccupazione per la salute è comunque dominante “… Ho tutti gli specialisti, sempre pronti ad
essere contattati per un parere… Ci tengo a mantenermi in forma con diete e sedute estetiche…
Evito di uscire con gli amici, in particolare in momenti come questo di disagio per me”. Tale preoccupazione
ha portato Carla a non considerare altri aspetti del suo problema.
Situazione socio-relazionale-affettiva al momento della richiesta ed eventi significativi
Al primo colloquio dopo aver raccolto alcune generalità, chiedo a Carla di darmi alcune informazioni
riguardo alla sua vita, dal punto di vista socio-relazionale e affettivo.
Carla si sofferma sulla situazione affettiva del momento: è fidanzata da circa 6 anni con F., ma
confessa piangendo che “… le cose con F. non vanno bene …” F. è “… inesperto”, oppure interessato
al lavoro, alle partite di calcio della domenica, ai viaggi, ma con gli amici. Appartiene a uno
status sociale più elevato di Carla, in quanto i genitori di F. sono due affermati professionisti, ma C.
riconosce di non provare più la “… passione …” dall’epoca di un vecchio fidanzato che ha lasciato
per “diversità di interessi” (era un operaio). Un episodio tuttavia ha fatto emergere il suo disagio: in
una delle estati in cui F. è in viaggio, Carla conosce un altro ragazzo di nome M., con cui nasce una
forte amicizia (contatti via sms ed e-mail ed anche uscite insieme al mare). M. fa capire a Carla di
essere interessato a lei, ma è allora che C. comincia a riflettere sul fatto di non voler lasciare F. perché
comunque è una persona piacevole “... per le sue capacità di studio e lavorative…”. Pur
provando una forte attrazione per M., decide di non rivelarsi.
Raccogliendo ulteriori informazioni emergono eventi che hanno probabilmente reso vulnerabile
Carla, come il licenziamento del padre con conseguenti problemi economici per famiglia nel periodo
della sua adolescenza e i desideri di autonomia e realizzazione personale attuali. Ma sono i pensieri
ricorrenti e le fantasie verso il ragazzo conosciuto che sembrano aver messo apertamente in
crisi il rapporto con il fidanzato e la sua vita.
Valutazione psicologica
DEFINIZIONE DEL PROBLEMA DA PARTE DEL PAZIENTE
C. definisce il suo problema come una forte ansia sostenuta dall’idea che si tratti di una disfunzione
organica, forse dovuta alle ripetute diete che intraprende insieme all’assunzione di integratori alimentari
naturali.
ANALISI FUNZIONALE
SITUAZIONE : quando sta per arrivare F.
A B C
60 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

Sento al telefono F. che dice
che sta per arrivare a casa.
Sento un bruciore allo stomaco.
Devo andare in bagno.
SITUAZIONE : dover vedere F. per provare a dirgli di non stare più con lui.
A B C
Non riesco a prendere la
macchina per raggiungere F. e
parlargli…
Il pensiero di vederlo e dirgli
che la storia tra noi è finita…
SITUAZIONE : quando penso o sento al telefono F.
A B C
Mi chiama F… Penso che lo faccio soffrire…
se lo lascio…
….Non posso lasciarlo…non
è giusto!!!…
SITUAZIONE : mi viene solo da piangere.
A B C
Mi metto a pensare… Non voglio lasciarlo perché
mentalmente mi piace…è educato…
Dopo tutto non sono stata
mai trattata male da lui e dalla
sua famiglia…
E poi un giorno, potrei fare
una vita con F. migliore di
quella dei miei genitori…Una
vita bella, serena, più agiata,
dove posso permettermi tutto, e
fare tutto ciò che voglio…
Arriva F. e tutto si interrompe.
Mi dà ansia, tremore alle
gambe, e diarrea.
Ansia, diarrea.
Piango...
Senso di colpa, tristezza…
SITUAZIONE : quando penso di continuare a stare con F.
A B C
Penso di continuare a stare Mi viene l’ansia, devo andare
con lui….
in bagno…
SITUAZIONE : quando penso alla scelta di lasciarlo.
A B C
Penso Farò la scelta giusta?
Immagine di una bella casa
che non avrò più…e che rimpiangerò
quello che lascio…
Paura.
VALUTAZIONE COGNITIVO COMPORTAMENTALE
Sintomi cognitivi: pensieri valutati come negativi e minaccianti.
Sintomi emotivi: paura, rifiuto, senso di colpa, tristezza.
Sintomi comportamentali: comportamento eliminatorio (diarrea) (Borgo, Milic, Sibilia, 1991).
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IPOTESI DIAGNOSTICA
Dai sintomi manifestati viene formulata l'ipotesi diagnostica di un disturbo d’ansia somatizzato
(DSM-IV-TR-MG, 2003).
IPOTESI ESPLICATIVA
Dall’analisi effettuata e sulla base dei dati raccolti nelle prime fasi dell’assessment (definizione
del problema e analisi funzionale di episodi manifestanti il disturbo), si ipotizza che il problema di
C., espresso da ansia e sintomi intestinali, sia legato ai pensieri conflittuali, che rappresentano due
realtà altrettanto inaccettabili (continuare a stare con il fidanzato e lasciarlo), con conseguenti reazioni
emozionali di paura e rifiuto per tali pensieri. E per di più le immagini che C. sviluppa nel
tentativo di cercare di non lasciare F. (“… una bella casa, con i mobili più belli... una vita sociale
diversa e più agiata …”) sembrano concorrere ad aumentare la conflittualità.
Nell’analisi funzionale si osserva che alla presenza di F. tali sintomi scompaiono completamente,
come a rilevare un rifiuto riferito più all'inquietudine suscitata dai pensieri che C. formula prima di
incontrare F. che alla persona.
Le emozioni di rifiuto e paura sembrano invece essere interpretate come emozioni negative nei
confronti della persona di F., con conseguenti senso di colpa, tristezza e pianto. E quando il pensiero
di lasciare F. diventa più forte emerge un altro tipo di dialogo interno: “… dopo tutto F. è un ragazzo
educato, gentile, adorabile, che non mi ha trattato mai male; allo stesso modo la sua
famiglia…”, che si accompagna a immagini di rimpianto.
Gli eventi di vita già evidenziati, come il licenziamento del padre e problemi economici familiari
possono aver contribuito ulteriormente all'ideazione conflittuale, in particolare le immagini relative
al raggiungimento, sposando F., di uno status socio-economico più elevato (una bella casa, una vita
più agiata).
RIDEFINIZIONE DEL PROBLEMA
La ridefinizione del problema si è incentrata sulla ridefinizione della relazione con F., mirando a
discriminare la dimensione affettiva da quella relazionale (Borgo, 2011).
La terapia
Gli incontri individuali con C., per un totale di 20 incontri, hanno previsto una cadenza settimanale
fino al conseguimento della riduzione dei sintomi, incentrandosi su un lavoro di osservazione/valutazione
di pensieri ed immagini rispetto alle due dimensioni, intima e di relazione con F. In seguito
incontri più sporadici hanno mirato all’acquisizione di una auto-consapevolezza e autocontrollo
maggiori, identificando schemi cognitivi ed emozionali più rispondenti alla realtà, quindi meno rigidi
e più adattivi (Borgo, Della Giusta, Sibilia, 2001).
Diario degli incontri
Come si è già detto, C. è arrivata al primo colloquio molto preoccupata del suo problema fisico e
di non riuscire a controllare il suo frequente ricorso in bagno. Quindi nei primi incontri si è posta
particolare attenzione all’esplorazione dei sintomi, dei contesti e delle modalità con cui si manifestavano.
C. si è dimostrata molto interessata e disposta a collaborare, seguendo le indicazioni prodotte dalle
ipotesi via via formulate sull’insorgenza e mantenimento del suo problema. Mano mano che si procedeva
con i colloqui C. era sempre più in grado di mettere in evidenza le parti di sé riconosciute
come vulnerabili e/o poco funzionali, sia rispetto al problema presentato, sia rispetto ad altre situazioni
riconosciute simili, per esempio: “... la modalità di espulsione, eliminazione … è una modalità
che spesso adotto… anche in altri contesti e situazioni… Quando assolutamente non mi sta bene
una cosa… Quando ricevo uno sgarbo da una persona, non lo accetto proprio… La elimino completamente
dalla mia vita…”.
Negli incontri successivi C. mi riporta alcune notizie sulla sua famiglia: i problemi economici af-
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frontati dai suoi genitori dopo il licenziamento del padre, il nuovo lavoro e la fatica a riprendere una
vita “dignitosa”, vissuti durante gli anni della prima adolescenza. Mi dice che la “sicurezza
economica” in famiglia è rimasto uno degli aspetti più importanti nella sua storia di vita: pur avendo
avuto dai suoi genitori tutto, afferma che comunque una vita di “stenti” sarebbe “difficile e inaccettabile!”.
Nonostante i tanti sacrifici affrontati dai suoi genitori, C. evidenzia il grande amore che
esiste da sempre e tuttora presente tra i suoi genitori: “…Un amore che è cresciuto nel tempo e che
rimane lo stesso pur in mezzo alle difficoltà!”.
Mentre parla di questo è, allo stesso tempo, sorpresa delle parole che usa nel definire l’amore dei
suoi genitori, affermando di non essersi mai soffermata su questo argomento, nonostante vivesse
tutti i giorni a contatto con loro che “…si dimostrano affetto pure in momenti poco sereni e felici e
da questo traggono tutta la forza per andare avanti…”.
Sulla base di queste affermazioni la invito a rivolgere alcune interviste, sulla storia di coppia: ai
suoi genitori, ai suoi nonni materni viventi, e ai suoi nonni paterni pure viventi.
Dopo aver attuato le interviste alle coppie più importanti della sua famiglia, C. riporta alcuni dati
importanti: la nonna materna, che C. credeva non si fosse sposata per amore, dato che le ripeteva
continuamente di non dover lasciare F. perché avrebbe fatto un giorno la vita da “ gran signora!”, le
rivela invece di aver sposato il marito perché di lui era veramente innamorata.
Da questa intervista con la nonna, in particolare, C. rimane stupita e nello stesso tempo dice di
aver scoperto che: “…il vero amore anche senza una buona condizione, può esistere…”.
C. legge spesso libri come “L’arte della felicità” e “Come vivere in armonia con se stessi e gli altri”,
riportando di questi alcune definizioni di “intimità” di cui rimane particolarmente colpita: “…il
desiderio di intimità è il desiderio di vivere con qualcun altro il proprio sé più profondo”; “…l’intimità
è un' esperienza di connessione…”. Da queste letture C. scopre la possibilità di ricercare e
riempire la sua vita di “altri significati e valori!”.
C. si mostra così pronta ad esplorare ed auto osservarsi meglio che le chiedo di riportare per
iscritto, in maggiore dettaglio, alcune situazioni problematiche rispetto al problema presentato seguendo
lo schema del protocollo emozionale, che le illustro. Tale materiale diventerà occasione di
ulteriori osservazioni di quei pensieri e di quelle immagini che provocano le reazioni problematiche.
Protocollo 1: dovere incontrare F.
COMPORTAMENTO SENSAZIONE DIALOGO
INTERNO
IMMAGINI
PRIMA Comincio a prepararmi Ansia, tremore Devo incon- Lo studio dove
per andare da F. alle gambe. trarlo. Ma solo il lavora.
pensiero mi fa La madre di F.
sentire male…
Dovrei dirgli
che la nostra
storia è finita!
DURANTE Vado di corsa in ba- Mi sento svuota- Mi dispiace Immagine di una
gno…ta.
pensare di la- bella casa, di
Ho la diarrea…
sciarlo dopo tut- mobili e accessori
to è un bravo ra- da favola…
gazzo, non lo
merita… Anche
la sua famiglia
non lo merita…
Sono delle
persone tanto
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DOPO Decido di chiamarlo al
telefono, dico che non
posso andare da lui con
la macchina…
Dispiacere, senso
di colpa, tristezza,
pianto.
per bene…
Prima o poi
devo farlo, ma
non ci riesco.
Ho paura di
sbagliare a pensare
di lasciarlo….
Protocollo 2: pensare di non dover stare più con F.
COMPORTAMENTO SENSAZIONE DIALOGO
INTERNO
PRIMA È mattina vado in bagno…
DURANTE Continuo ad andare in
bagno…
DOPO Per tutta la mattinata
non esco…
Ansia, sudorazione,
sento,
l’intestino… che
non posso trattenere.
Penso come
dire ad F. di non
stare più con
lui…
Mi immagino
nella casa che
sempre sogno di
avere un giorno…
IMMAGINI
Mi immagino a
rimpiangere…
…Con lui avrei
tutto, non mi farebbe
mancare
nulla…La casa
dei miei sogni,
con i mobili più
belli…
Sudorazione. Come faccio a Una persona
lasciarlo: E. è educata…
un ragazzo adorabile,
educato,
sensibile…
Ansia, sudorazione…
Ho paura di
continuare ad
andare in bagno…
Rievocando gli aspetti più intimi della relazione con F., cui C. aveva fatto riferimento all’inizio
degli incontri, le esperienze di “amore vero” tratte dalle interviste rivolte ai suoi parenti e l’osservazione
sistematica sulle sue situazioni problematiche, C. è in grado di spostare la sua attenzione sugli
aspetti globali della sua relazione con F. e a formulare una nuova convinzione sotto forma di un dialogo
interno alternativo a quello scatenante le reazioni problematiche riguardo il suo disturbo: “…
In una relazione è sì importante un uomo educato, adorabile, ma è anche importante una sintonia
su altri aspetti, come il desiderio l’uno dell’altro, l’amore vero, fondato sul rispetto ma anche
sull’intesa di desideri che si scambiano e sono reciproci…”; “…faccio riferimento a ciò che può
contribuire a tenere insieme un rapporto come io lo vorrei… la passione, l’intesa fisica, …insomma
l’attrazione …”; “… da tutte le considerazioni che ho cercato di fare, sono giunta a vedere che non
possono esistere due aspetti separati, o l’uno o l’altro, ma che in un amore ci deve essere tutto… un
amore è complesso e tutto deve esserci, perché possa continuare anche nel tempo...”. “… Dalle interviste,
ai miei genitori, come in quelle dei miei nonni ho visto un’intesa mentale, unita a quella fisica…
ed essere sulla cresta dell’onda sempre e nonostante gli anni!...”. “… Ho pensato poi ad una
mia zia sposata non per amore e che trascorre la sua vita a pensare ad un vecchio fidanzato incontrato
quando era più giovane…!”.
C. diviene sempre più consapevole delle risposte problematiche collegate a ciò che tenta di eliminare:
il pensiero di lasciare F. che risulta ingiusto.
Riguardo alla relazione con F., Carla inizia a vedere in lui solo l’aspetto dell’amicizia e della pro-
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fonda conoscenza. Questo nuovo sentimento porta alla decisione di lasciarlo.
C. annuncia aver lasciato F., ma di continuare ad incontrarlo in occasioni casuali di studio o lavoro,
sentendosi tuttavia disinvolta e senza avvertire disturbi intestinali.
Solo in una situazione C. ha di nuovo scariche di diarrea. Dalla analisi dell'episodio si rileva che il
pensiero di “ritornare con lui”, nella sua nuova condizione, viene identificato come una “minaccia
da eliminare”.
C. sottolinea che F. non si fa sentire spesso e non mette in atto alcun tentativo per riprendere la
storia: quando la incontra sembra felice di rivederla, ed accenna spesso alla loro storia finita commentandola
con “E’ andata bene così…!!!”.
Le immagini di una bella casa e di una vita sociale agiata sono scomparse, mentre si fanno sempre
più vive fantasie a sfondo sensuale ed erotico, materializzando un desiderio di contatto, amore e
passione, che prendono il via da un ricordo: la sua storia di due estati precedenti, con il ragazzo del
mare. Quella esperienza ha evocato ed evoca ancora in ricordi piacevoli e una atmosfera sensuale:
“… Quando penso a M. mi immagino con un abito tutto sexy! Mi immagino che sono insieme a
lui…. Lui sarebbe proprio il mio uomo ideale… Mi piace tanto e di lui soprattutto il suo aspetto fisico…”.
C. decide di ricontattare M. e, dopo averlo raggiunto, gli dichiara i suoi sentimenti, ma riceve
una risposta che non corrisponde alle sue aspettative: dopo due anni le cose sono cambiate e ora
ama un'altra ragazza! C. ritorna dal viaggio assi delusa, ma continuando a desiderare un amore con
lui. Inizia a leggere il “Dolce Stil Novo”, dal quale trae l’ispirazione per coltivare le sue fantasie su
nuovi incontri con M. Dalla lettura del “Dolce Stil Novo”, trascrive la seguente frase: “… L’amore
si esprime attraverso gli occhi, ma riaffiora con il cuore…”. C. sembra disposta ad accettare anche
un amore “platonico”, pur di rivivere emozioni e sensazioni che da tanto non riusciva più a provare.
Fortunatamente C. riceve nella sua mail un breve diario di M. in cui le parla di sé e del suo grande
amore per la sua nuova ragazza! Invito così C. a leggere il diario di M. con la stessa capacità osservativa
che ha impiegato nella rilettura della relazione con F., riuscendo così a vedere nelle parole e
nei contenuti di M. una realtà assai diversa dalla sua fantasia.
La incoraggio a ridimensionare la sua tendenza a vedere M. strettamente associato alla sua fantasia
ed attribuirgli elementi più rispondenti alla descrizione che egli stesso dà di sé, elementi più vicini
dunque alla realtà.
Sulla base della analisi C. conclude che M. è un uomo attraente e simpatico, ma oltre ad essere
impegnato in un’altra relazione o comunque al momento non interessato a riprendere alcun tipo di
relazione con lei, dal diario appare troppo centrato su se stesso “… un uomo che vuole essere solo
sul piedistallo…”.
La terapia si conclude con la decisione di ultimare gli studi di economia e il programma di andare
a vivere da sola.
Follow-up
Il follow-up, a tre mesi dalla conclusione della terapia, ha riguardato i principali temi affrontati: la
relazione con F., le modalità di gestione delle emozioni, le fantasie su M. e in generale il progetto di
vita.
Innanzitutto C. si è in breve tempo laureata in economia.
Per quanto riguarda le le reazioni emotive, C. dice di controllarle maggiormente cercando di essere
più flessibile e più moderata di fronte alle circostanze valutate come “minaccianti”.
Carla continua ad incontrare F. come amica, e parla di lui in questo modo: “... a F. voglio bene,
adesso più di prima, per quello che è, ma ora senza sensi di colpa e rimorsi… Avrei potuto avere
dei mobili costosi, una vita che mille donne avrebbero voluto, ma oggi non rimpiango più tutto questo”.
Il ruolo di M. è stato ridimensionato: “… rincontrare M. mi ha rimesso in moto cose messe da
parte; anche se con lui non è stato possibile iniziare una storia, mi sono accorta ancora di più che
il mondo è pieno di uomini…, per cui guardarsi intorno…”.
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Carla sembra definitivamente uscita da un amore idealizzato, che le permetteva sì di mantenere
vivi i sentimenti, nonostante l'assenza della persona, ma le impediva allo stesso tempo di cercarli
nella realtà! Il ridimensionamento delle fantasie ha aperto la strada ad un comportamento di tipo
esplorativo che investe diversi ambiti: lo studio, il lavoro e gli affetti.
Bibliografia
American Psychiatric Association. (2003). DSM-IV-TR-MG. Manuale diagnostico e statistico dei
disturbi mentali per la Medicina Generale. Milano: Masson.
Borgo S. (2011). Analisi formativa. Roma: Alpes Italia.
Borgo S., Della Giusta G., Sibilia L. (a cura di). (2001). Dizionario di psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Milano: McGraw-Hill.
Borgo S., Milic S., Sibilia L. (1991). Thesaurus di Psicoterapia Comportamentale. CNR, S&R n.4maggio.
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MI PREOCCUPO, DUNQUE SONO: UN CASO DI ANSIA GENERALIZZATA.
Di Anna Tomasello, Psicoterapeuta, mail: annatmsl@libero.it
Cenni anamnestici
Francesca ha 36 anni, è una donna dall’aspetto gradevole e ben curato, un po' in sovrappeso. È coniugata
da 11 anni con M. (34 a.) che fa l’autotrasportatore; la relazione coniugale è buona. Hanno
una figlia di 9 anni e un figlio di 7.
Come titolo di studio ha la licenza media inferiore e lavora come collaboratrice domestica presso
privati. Si sente insoddisfatta dal punto di vista lavorativo, perché avrebbe voluto fare altro nella
vita. Il padre non le ha permesso di continuare la scuola dopo la 5a elementare; lei ha poi recuperato
gli studi con la scuola serale, ma ciò non le ha permesso di continuare gli studi come avrebbe voluto.
Si è sempre è occupata lei della gestione della casa e anche della gestione economica, nonostante
sia il marito a sostenere la famiglia economicamente.
Definizione del problema
“Soffro d’ansia, mi sento agitata nell’affrontare le cose, ho paura di tutto, da circa un anno”.
Motivo della richiesta
Francesca ha chiesto un colloquio psicologico per i suoi stati d’ansia e agitazione, che le creavano
disagio e difficoltà nell’affrontare la vita quotidiana da circa 8-9 mesi. Raccontava di aver avuto difficoltà
a venire, si sentiva agitata ed era sul punto di saltare l’appuntamento.
La paziente collegava il suo disagio ai problemi di salute che la preoccupavano da qualche anno.
Quattro anni fa aveva iniziato a soffrire di forti mal di testa e dai controlli medici non era stato riscontrato
nulla di organico. Successivamente erano iniziati disturbi gastrointestinali, quali reflusso
gastroesofageo, ernia ietale e gastrite.
Voleva capire l’origine della sua ansia, cosa c’è che non andava, chiedeva se fosse “grave” e voleva
tornare a stare bene e vivere tranquilla.
Inoltre, ha raccontato di aver sofferto molto per la morte della nonna materna avvenuta 8 anni fa, a
86 anni, per un tumore. Ancora oggi non riesce ad andare a trovarla al cimitero e vorrebbe riuscirci.
Principali eventi di vita
Ha riferito un’infanzia non serena.
All’età di quattro anni, i genitori si trasferirono a Genova, perché il fratello aveva dei problemi di
salute. I genitori stettero fuori per 3-4 anni in totale, ma non continui. Stavano via per alcuni mesi e
poi tornavano. In quel periodo F. venne quindi affidata ai nonni materni. Non soffriva in particolar
modo la lontananza dei genitori, anche perché aveva un legame molto forte con la nonna, che era la
sua figura di riferimento.
Il padre tornava più spesso rispetto la madre e nel frattempo (Francesca aveva 5 anni) ebbe una relazione
extraconiugale con una conoscente di famiglia, durata circa un anno. Nacque un bambino.
Quando la madre seppe del bambino, lo cacciò di casa spiegando a F. che il padre era fuori per lavoro.
F. non sapeva nulla di quanto accadeva in famiglia in quel periodo anche se percepiva che c’era
qualcosa su cui si discuteva. Il padre riconobbe il figlio, ma lasciò la donna che gli vietava di vedere
il bambino. La moglie quindi lo riaccettò in casa.
Descrive il padre come “padre padrone”, poco affettuoso. Dopo la 5a elementare non le ha permesso
di continuare gli studi. Lei racconta di aver sofferto molto di questo, perché le piaceva molto
la scuola e perché ciò la faceva sentire diversa dalle altre bambine.
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A 20 anni Francesca incontrò l’attuale marito. I primi due anni, si vedevano di nascosto dal padre
di lei, poi decisero di ufficializzare il loro rapporto in famiglia per poterlo vivere con più serenità.
Nel frattempo lei riprese gli studi, frequentando la scuola serale.
All’età di 25 anni, dopo 5 anni di fidanzamento, si sposò e dopo due anni si trasferì in Emilia Romagna
con il marito, per il lavoro di lui.
La nonna iniziò ad avere qualche problema di salute. Si scoprì che aveva un tumore, ma non venne
detto nulla a Francesca per non farla preoccupare, quando la situazione peggiorò le chiesero di
tornare in Sicilia.
Quando arrivò, scoprì che la nonna stava per morire. Restò qualche giorno ad accudirla ma la nonna
stessa la invitò a tornare a Reggio Emilia dal marito.
Quando ormai era tornata in Emilia ebbe la notizia della morte della nonna tramite telefono. In
quel momento rimase immobile, senza una reazione. È come se avesse negato l’evento a se stessa.
Non pianse, non volle scendere per il funerale, non volle parlarne, tenne tutto dentro.
Dopo un anno nacque la prima figlia. Racconta che al momento del parto erano presenti il marito
e la madre, ma lei invocò la nonna e fu come se la vedesse lì accanto a lei. I primi tempi dopo la nascita
della bambina furono difficili, le capitava di piangere perché era stanca, poiché la figlia piangeva
sempre; poi continuò a piangere pensando alla nonna.
Decisero di tornare a vivere in Sicilia perché il lavoro non andava come previsto.
Il rientro non fu facile. Francesca non riusciva ad andare ad abitare nella casa della nonna ormai
libera, così inizialmente si appoggiarono dai suoi genitori. Quando presero una casa in affitto le
cose iniziano a migliorare e dopo poco tempo rimase incinta del secondo figlio.
Non è mai riuscita ad andare al cimitero a trovare la nonna.
Tab. 1 ABC DI UN EPISODIO CRITICO. In questo episodio l’avvertire un improvviso bruciore
allo stomaco, legato ai suoi disturbi gastrointestinali, scatena una forte reazione di paura associata a
pensieri ed immagini che trasmettono un senso di impotenza. La reazione è quella di fuggire via.
A B C
Ad un centro commerciale con
il marito, al momento in un altro
reparto.
Sta guardando per un regalo.
Avverte un forte bruciore allo
stomaco.
Diagnosi
Cosa mi sta succedendo?
E’ la testa o è lo stomaco che
mi fa stare così male?
Sto morendo, devo andare in
ospedale.
E adesso come faccio ad andare
a prendere i bambini, gli
altri si accorgeranno che sto
male.
Se mi prende di nuovo che
devo fare.
Immagine di un onda anomala
che mi travolge.
Immagine del pavimento sotto
i piedi che si sgretola.
Bruciore alla bocca dello stomaco
Calore in viso e in tutto il corpo
Vado via da lì, esco fuori e poi
chiamo mio marito per avvertirlo.
Da un punto di vista descrittivo si può ipotizzare che Francesca soffra di un Disturbo d’Ansia Generalizzato
(GAD) poiché ne vengono soddisfatti i criteri diagnostici.
Francesca riferisce di provare ansia e preoccupazioni eccessive, da più di 6 mesi, riguardo vari
aspetti: gli eventi quotidiani, i familiari, la salute, il mondo che la circonda. Inoltre, all’ansia è associata:
irrequietezza (anche per la difficoltà a bloccare le preoccupazioni) e difficoltà a rilassarsi, facile
affaticabilità, difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria e, spesso, alterazioni del sonno: per
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quanto stanca, ha difficoltà ad addormentarsi.
Concettualizzazione: ipotesi
L’ansia è collegata a distorsioni nell’elaborazione delle informazioni relative a una certa gamma
di situazioni, per l’utilizzo di schemi disfunzionali connessi alle nozioni di pericolo e vulnerabilità
personale. Questi determinano pensieri automatici negativi e anticipazioni catastrofiche (Beck
1984; 1985).
Francesca si sofferma ad esaminare improbabili esiti negativi di una situazione, sovrastimando la
probabilità di tali esiti e amplificandone le conseguenze; come strategia, viene attivato un comportamento
di evitamento (Bara, 2005).
Riferisce che le sue maggiori paure sono relative alle malattie e soprattutto alla morte.
Nello specifico, il disturbo d’ansia generalizzata si caratterizza per la presenza di ansia e preoccupazione,
chiaramente eccessive rispetto alle situazioni reali, che si manifestano per la maggior parte
del tempo e che, sfuggono alle capacità di controllo della paziente. Francesca si preoccupa per banali
circostanze quotidiane, oltre che per problemi di salute; per esempio, ha paura che i figli possano
farsi del male o ammalarsi, vadano male a scuola, oppure frequentino cattive compagnie.
Alla base, c’è la volontà di prevedere e controllare gli avvenimenti in generale (negativi e non),
nella convinzione che solo in questo modo sia possibile evitarli.
La rimuginazione viene usata come una strategia per far fronte alle situazioni più svariate ma, allo
stesso tempo, tale attività è valutata negativamente (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero 2006; Wells
2002). Francesca aveva sviluppato infatti convinzioni negative circa tale processo, quindi sperimentava
un profondo disagio, legato alla soggettiva sensazione di impotenza nel controllare questa
situazione di allerta persistente che le impediva di affrontare le cose spontaneamente.
Queste ulteriori preoccupazioni andavano ad incrementare il circolo vizioso dell’ansia mantenendo
l’agitazione e la costante preoccupazione.
Progetto d’intervento
Obiettivi a breve termine:
• Riduzione dei sintomi ansiosi e modificazione della risposta condizionata di ansia
• Modificazione dei comportamenti di evitamento
• Riduzione delle preoccupazioni e ruminazioni
Obiettivi a medio termine:
• Riuscire ad andare a trovare la nonna al cimitero
• Elaborazione del lutto della nonna
• Riduzione dell’abitudine a programmare e pianificare tutto
Obiettivi a lungo termine:
• Modificazione schemi di vulnerabilità e controllo
• Acquisizione delle abilità di prevenzione delle ricadute
Trattamento
Inizialmente il mio intervento è stato di tipo psicoeducativo. Ho spiegato il modello cognitivo dell’ansia,
facendo comprendere a Francesca la relazione esistente tra i pensieri, le emozioni ed i comportamenti.
Così da incrementare le sue conoscenze su quanto accadeva durante un tipico episodio
di ansia.
Ho quindi sottolineato l’importanza dell’autosservazione, dell'identificazione e della modifica dei
pensieri automatici (Beck, 1984; Wells, 1999). Perciò ho insegnato a Francesca ad osservare i propri
pensieri nel momento dell’ansia (o subito dopo). L’obiettivo era aumentare la consapevolezza della
persona sui pensieri che possono attivare e mantenere l’ansia.
Ho spiegato e provato a compilare con lei una scheda ABC per gli episodi critici. Attraverso l’ana-
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lisi funzionale è emerso che l’evento scatenante erano spesso, ma non in tutti i casi, i sintomi fisici;
questi erano legati ai suoi disturbi gastrointestinali (forte bruciore di stomaco) che la mettevano in
crisi soprattutto quando si trovava fuori casa facendole percepire un senso di perdita di controllo.
Abbiamo quindi evidenziato la relazione tra i pensieri di tipo catastrofico, le sue reazioni emotive,
nonché le strategie di evitamento spesso conseguenti. Quindi le ho spiegato le ragioni per cui avrebbe
dovuto imparare ad accettare le sensazioni spiacevoli generate dall’ansia e a impegnarsi gradatamente
a non mettere in atto gli evitamenti (Beck, 1985).
Dopo qualche seduta iniziò a sentirsi un po’ più sicura a gestire situazioni ansiose ma ciò che non
riusciva a gestire erano i pensieri che le invadevano la mente. Non riusciva a vivere gli eventi per
quel che sono. Sono sempre riempiti di pensieri catastrofici, rivolti sempre al pessimismo.
La maggior parte delle preoccupazioni erano relative a circostanze quotidiane, come l’organizzazione
della casa, le cose da fare, la salute propria e dei familiari. Francesca era consapevole che era
come se con la ruminazione mentale volesse tenere tutto sotto controllo, ma avvertiva tutto ciò con
disagio, come se nella sua testa qualcosa non va perché non riesce a fermarsi un momento, a non
pensare.
Le spiego la tecnica del Worry Time (Wells, 2002) per imparare a gestire e controllare le preoccupazioni,
bloccando le ruminazioni mentali.
Quando ci rivediamo, Francesca mi dice che l’esercizio del Worry Time le è servito. Dirsi che sarà
possibile dare libero sfogo alle proprie preoccupazioni in un altro momento prestabilito della giornata,
l’ha aiutata a gestirle. È infatti riuscita a rimandare i pensieri intrusivi, anche se non sempre
poi si ricordava di dedicare una mezz'ora al giorno ad essi.
Successivamente, Francesca mi riferisce che si sente meglio in relazione alla sua ansia e le sue
preoccupazioni, ora vuole andare al cimitero dove è sepolta la nonna. Spiega che si sente pronta ad
affrontare questa sua paura e che ritiene che se riesce a farlo, potrebbe risolvere gli altri suoi problemi
e sentirsi più forte. È consapevole che potrebbe fallire in questo, ma sente che deve farlo.
Accolgo questo sua decisione. Quindi le propongo di fare in seduta un esercizio di immaginazione,
per permetterle una prima esposizione alla situazione in modo meno ansiogeno. Con lo scopo,
inoltre, di cogliere come si immagina di affrontare l’evento, le sue aspettative, le sue reazioni, i
comportamenti messi in atto (Wells, 1999).
Riesce ad immedesimarsi nella situazione immaginativa e affrontandola mi riferisce di aver avvertito
sensazioni quali sudorazione (soprattutto alle mani), calore in viso, così come se fosse nella situazione
in vivo.
Al colloquio seguente, quando le propongo di fare un altro esercizio immaginativo, Francesca mi
dice che preferisce affrontare tutto direttamente, poiché immaginare la situazione la fa stare male.
È intenzionata ad andare la domenica, accompagnata dal marito, solo con lui si sentirebbe sicura.
Da sola, almeno per ora non potrebbe farcela.
Quindi, per prepararla ad affrontare la situazione, parliamo dell’eventualità di sentirsi sopraffatta
nella situazione temuta, ma la incoraggio poiché ormai è consapevole delle sue reazioni e valuto che
possa gestirle. Sottolineo l’importanza di riconoscere, accettare l’ansia e modificare il suo dialogo
interno per fronteggiarla (Andrews, 2003; Beck, 1985).
Al colloquio seguente Francesca mi dice che è andata al cimitero con il marito e i figli (non aveva
a chi lasciarli). Mi racconta che si sentiva piuttosto tranquilla. Ha avvertito un senso di confusione
quando è entrata, ma tutto gestibile. Come autoistruzione per fronteggiare l’ansia si ripeteva nella
mente “devo andare”. Entrata dentro la cappella avverte una sensazione di bruciore allo stomaco.
Quando è davanti la tomba inizia a piangere, descrive quel pianto come liberatorio, di rassegnazione,
non di dolore. Riferisce di sentirsi ora più forte e di come era più la paura a bloccarla che affrontare
il tutto, nonostante ancora il cimitero e le tombe le trasmettano un forte senso d’angoscia.
Vuole riandare appena è possibile, sempre però con il marito.
Quando va per la seconda volta (sempre con il marito e i figli) dice che non è andata come si
aspettava. Mi racconta che quando è davanti la tomba sente un forte dolore. Mi spiega di come
70 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

avrebbe voluto in quel momento togliere la lapide e abbracciare la nonna. Si sarebbe voluta sentire
libera di piangere e urlare, ma la presenza dei figli la bloccava.
Si sente scoraggiata perché si sente come se avesse fatto un passo indietro. Valutiamo il fatto che
probabilmente la prima volta era presa più dalla sua paura, dal compito. Questa volta invece la paura
è passata in secondo piano perché in parte superata, per cui è emerso il dolore. Abbiamo quindi
insieme riflettuto su come ha affrontato in passato questo lutto, cioè di come abbia impedito un’elaborazione
l’averlo negato a se stessa.
Quindi la sollecito ad affrontare questo dolore, senza negarlo come in passato. Il primo passo è riconoscere
la sofferenza per la perdita e accettare anche se con comprensibile dolore che la morte è
un fatto inevitabile. Le spiego come si può più facilmente superare il dolore pensando ai momenti
passati insieme, abbandonandosi al pianto, constatando quante cose questa persona le ha insegnato e
dato, raccontando episodi che la riguardano: in questo modo la nonna rivivrà nei discorsi e sarà in
qualche modo presente.
Nella seduta successiva racconta che sta meglio, che ha riflettuto e messo in pratica quanto detto
la volta precedente. Sembra sicura del fatto che riuscire ad andare al cimitero l’aiuterà a superare il
dolore ed elaborare il lutto.
Ci rivediamo dopo la pausa estiva e mi racconta che, rispetto all’elaborazione del lutto, ora riesce
a parlare tranquillamente della nonna, anche con i figli ai quali spesso racconta di lei.
Quando va al cimitero, accompagnata dal marito e con i figli, mi dice di aver affrontato tutto tranquillamente.
I familiari si sono stupiti della sua serenità, non ha avuto disagio a stare fra le tombe.
Mi dice di non aver provato dolore e questo le conferma che ha superato il lutto.
Riferisce che è un periodo molto stressante perché il marito è fuori per lavoro per due settimane e
ha troppe cose da fare, deve gestire tutto lei. Riflettiamo, quindi, sul suo programmare per tenere
tutto sotto controllo e sul suo disagio nel gestire gli imprevisti.
Decidiamo quindi di lavorare per superare questa difficoltà, riducendo innanzitutto l’abitudine di
programmare e pianificare ogni cosa.
I colloqui successivi sono dedicati alla verifica e acquisizione di queste nuove modalità di affrontare
le giornate. Francesca seppure con qualche difficoltà iniziale, riesce a lasciar perdere le cose da
fare per giocare con i figli, stare con il marito e uscire.
Francesca riesce ad andare al cimitero, per la prima volta con la madre invece che con il marito.
La madre, vedendola ormai più tranquilla, le ha chiesto se era disponibile ad accompagnarla al cimitero.
Francesca ha avuto un momento di titubanza ma poi ha subito accettato.
Mi racconta di aver affrontato tutto con tranquillità, e, su richiesta della madre, è andata anche
nelle tombe di altri parenti. Non se l’aspettava che sarebbe andata così e si ripropone di andare dopo
15 giorni, sempre con la madre.
Segue il suo proposito e questa volta con la madre ha fatto un tratto più lungo a piedi fra le varie
tombe ed è andata da più parenti. Ha affrontato tutto serenamente. Mi spiega come abbia deciso di
andare sia per mettere ancora alla prova la sua paura, ma soprattutto perché sentiva il bisogno di andare
a trovare la nonna. Mentre prima davanti la tomba provava dolore, ora è come se la sentisse più
vicina.
Diario della relazione terapeutica
Francesca si è affidata e ha riposto molta fiducia nella mia figura e verso la terapia stessa.
Sin dall’inizio ho cercato di creare un clima empatico accogliendo il bisogno di F. di raccontare la
sua storia e i suoi problemi. Al secondo colloquio infatti, mi racconta di come si sia sentita svuotata
la volta precedente uscendo dalla stanza della terapia e abbia pianto durante la settimana.
È stato importante il fatto di riuscire a piangere davanti a me sin dal nostro primo incontro. Lei
stessa successivamente, mi racconta quanto si sia sorpresa di ciò perché non pensava potesse sentirsi
così libera di farlo.
Si è instaurato da subito un clima collaborativo, è apparsa determinata nel voler risolvere i suoi
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 71

problemi. Ha detto di essere molto desiderosa di stare meglio e capire il perché del suo disagio.
Indicatore positivo della relazione terapeutica era il fatto che Francesca spesso interiorizzava le
mie frasi. Spesso mi raccontava come per affrontare delle difficoltà si ripeteva le mie frasi o cercava
di immaginare cosa le avrei detto in quella situazione per incoraggiarla (Semerari, 2000). Inoltre, mi
telefonava per condividere i passi in avanti e successi in relazione all’andare al cimitero della nonna.
Verso gli ultimi incontri ha espresso il desiderio di portarmi delle fotografie della sua famiglia, per
farmi vedere i figli, di cui mi ha sempre parlato orgogliosamente, e anche la nonna. Al colloquio
successivo mi porta diverse foto per farmi conoscere i membri della sua famiglia (marito, figli, genitori,
nonna). Subito va a cercare fra queste quella della nonna con lei da piccola. Mi fa notare
come la tenga con un braccio, quasi come fosse felice di mostrare il suo piccolo trofeo.
Conclusioni
Francesca ha acquisito pian piano una modalità nuova di approccio e gestione delle sue difficoltà,
i sintomi iniziali sono stati eliminati o ridimensionati.
Oggi Francesca è in grado di riconoscere i suoi schemi e le sue emozioni, ponendosi come soggetto
attivo dinnanzi alle esperienze che vive, ed è più padrona e sicura di sé.
Ha imparato a lasciarsi andare e a non tenere tutto sotto controllo, sia a livello comportamentale
che emotivo. Riesce infatti a tollerare e gestire gli imprevisti senza farsene travolgere e a lasciarsi
andare, ad esempio, in un pianto liberatorio. Riesce, inoltre, ad andare a trovare la nonna al cimitero
con serenità.
Bibliografia
Andrews G. (2003). Trattamento dei disturbi d'ansia. Torino: Centro scientifico Ed.
Bara B. (2005). Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri Ed.
Beck A.T. & Emery, G. (1985). L’Ansia e le Fobie. (trad.it.). Roma: Astrolabio Ed.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio Ed.
Sassaroli S., Lorenzini R., Ruggiero G. M. (2006). Psicoterapia cognitiva dell'ansia. Rimuginio,
controllo ed evitamento. Milano: Raffaello Cortina Ed.
Semerari A. (2000). Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Roma: Laterza Ed.
Wells A. (1999). Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Milano: McGraw-Hill Italia Ed.
Wells A. (2002). Disturbi emozionali e metacognizione. Nuove strategie di psicoterapia cognitiva.
Trento: Centro Studi Erickson.
72 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

TUTTE LE COSE PASSANO: IL TEMPO PASSA E PASSA TUTTO.
L'ATTACCO DI PANICO COME EMERGENZA SINTOMATICA
DI UN INCASTRO RELAZIONALE.
Di Dimitra Kakaraki, psicologa – psicoterapeuta. Co-responsabile sezione clinica del CRP. Coordinatore del
comitato redazionale di Psychomed. Tutor e co-didatta della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo
Comportamentale ed Intervento Psicosociale diretta dal C.R.P. e docente esterno di altre scuole di
specializzazione in psicoterapia. Collaboratore esterno dell’ASL RM C in SPDC di S. Giovanni Addolorata e del
Centro Studi e di Documentazione “Vieri Marzi” (D.S.M. ASL RM C) Vice-Presidente di LIBRA Associazione
Scientifica, mail: dimitra.kakaraki@gmail.com
Brevi cenni identificativi
Età: 24; Sesso: F; Peso: 58; Altezza: 153; Stato civile: nubile; Vive con: il compagno; Titolo di
Studio: laurea in Economia, Professione e Lavoro; Professione: libera professionista, lezioni private
– ripetizioni [insegnante]; Cittadinanza: italiana; Composizione nucleo familiare d’origine:
madre, padre, 5 germani [lei è la più piccola]; Inviante: collega psicologo.
Diario degli incontri
Da Dicembre 2006 a Luglio 2007 solitamente con una seduta settimanale, con una pausa natalizia
di 3 settimane tra la terza e la quarta seduta. Ultima seduta: Luglio 2007. Numero totale di sedute:
17. Follow up telefonico: Febbraio 2009.
Motivo della richiesta
“Mi sento sperduta e confusa. Non riesco più a ritrovare me stessa e la mia personalità. Ho sfiducia
nel futuro e nelle persone. Sono stata tradita, nel peggior dei modi, dalla persona più importante
della mia vita. Sono persino finita in ospedale per attacchi di panico”.
Sindrome osservata
La paziente lamenta momenti di forte ansia dovuti alla paura di poter sperimentare nuovamente un
attacco di panico. I sintomi cognitivi sono caratterizzati da pensieri spaventosi ricorrenti “la mia
vita è vuota”, “la mia vita non era quello che credevo”, “mi è sfuggito tutto di mano”, “ho bisogno
della persona che mi ha fatto più male”, “qualsiasi decisione possa prendere posso sbagliare”, “se
lo lascio, non lascio solo lui ma la mia famiglia”, “nessuno può capire quello che vivo”. Gli stati
emotivi sono dolore, paura - da quella lieve fino ad arrivare alla sensazione intensa di angoscia -,
tristezza, delusione accompagnati da sintomi fisiologici quali aumento del battito cardiaco, dispnea,
mal di stomaco, sensazione di vomito. Talora emerge la paura di impazzire che è mantenuta attraverso
valutazioni disfunzionali circa i sintomi fisici dell’ansia, anticipazioni catastrofiche e richiami
nella memoria, attraverso cioè immagini mentali dei momenti nei quali è stata sperimentata la sensazione
di panico. Sono presenti incubi notturni riguardanti gli attacchi di panico ed una riduzione
dell’appetito.
Atteggiamento verso il cambiamento
La paziente, essendo molto preoccupata della sua situazione con il timore che “questi attacchi di
panico non finiscano mai” e che possano interferire con la sua capacità decisionale, si presenta molto
motivata ad intraprendere un percorso di cambiamento.
Storia di sviluppo
La paziente nasce in una famiglia povera e numerosa: è l’ultima di 5 germani, in un quartiere peri-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 73

ferico di una grande città. Ricorda la sua infanzia positivamente per quanto riguarda la scuola e gli
amici, ma negativamente per gli episodi vissuti all’interno della casa. Evoca numerosi episodi verbalmente
violenti per via della “malattia” del padre: definisce il padre un “alcolista” e la madre il
“carabiniere di casa”. Per via dei molteplici problemi economici, la famiglia si trova costretta a trasferisci
in un quartiere ancora più periferico e questo comporta diversi problemi alla paziente, tra
l’altro in un’età molto delicata come l’inizio della pubertà (11 anni). Perde tutti i suoi punti di riferimento
esterni alla famiglia ed è costretta ad iniziare da capo. Sostiene che la forza del suo carattere
l’ha aiutata molto in questo, anche perché la situazione a casa diventava sempre più difficile da gestire.
Ricorda le domeniche “a terra bruciata” a casa, in quanto i suoi fratelli e sorelle evitavano di
rimanere a casa per non subire le “ubriacature” del padre. La madre, a sua volta, prende il controllo
economico della casa, dando al padre una paga giornaliera, cosa che genera non poche discussioni,
e i soldi sono, oramai, un punto focale della sua attenzione.
All’età di 14 anni, inizia un rapporto sentimentale con il cognato di sua sorella. Questa storia è vista
male da tutti e lei si trova costretta a viverla in gran segreto. Questo ragazzo di 4 anni più grande
di lei, diventa il suo unico punto di riferimento. Tutta la sua organizzazione ruota intorno ai momenti
che possa vedere lui, il quale tra l’altro è visto come l’unica persona che la possa capire fino in
fondo. Sostiene che la loro storia ha il sapore romantico di “Romeo e Giulietta”. All’interno di questa
relazione si trova da un lato a sentirsi protetta dal comportamento autoritario di lui e dall’altro
subire violenze da lui. Le è capitato qualche volta di ricevere uno schiaffo e in questo modo autoritario
ha vissuto anche il suo primo rapporto sessuale. Secondo la paziente questa mancata preparazione
da parte del compagno all’atto sessuale le ha provocato la malattia che ha oggi: una stenosi
uretrale. Nello stesso periodo, per via dei forti problemi economici in famiglia, si trova a dover
mancare molte volte dalla scuola in quanto costretta ad andare a lavorare. Si trova a fare lavori di
diverso tipo: baby sitter, donna delle pulizie e simili. Comunque, nonostante ciò, riesce a finire la
scuola con il massimo dei voti. Il suo rapporto sentimentale si conclude in seguito ad un tradimento
subito, che le ha comportato uno stato “depressivo”. Per uscire da questo stato decide di andare a
confrontarsi con la nuova ragazza del ex compagno e questo le dà la forza di andare avanti.
Alla conclusione della sua formazione scolastica, trova un lavoro presso uno studio di commercialista,
dal quale si allontana bruscamente per via di una forte crisi d’ansia avuta improvvisamente nel
ufficio. Questo suo comportamento dà adito alla sua famiglia di definirla come una “instabile”, “incapace
di tenersi un lavoro” e “irresponsabile”.
Durante questo periodo conosce l’attuale compagno il quale si presenta come una persona molto
educata e generosa. La paziente trova molto conforto nel confronto con lui e decide, inoltre, di rivolgersi
ad un centro di consulenza psicologica. In pochissimi incontri, a prescindere da quello che
dicono in generale i suoi familiari, realizza la sua volontà di iscriversi all’università per proseguire
gli studi. Si iscrive alla facoltà di economia, che vede come la sua futura professione e inizia a dare
ripetizioni agli studenti delle scuole medie del quartiere. In questo periodo migliora moltissimo anche
il rapporto con il suo fratello T., il quale diventerà a sua volta punto di riferimento.
Il rapporto con il nuovo compagno è sempre più soddisfacente tanto che dopo 3 anni decidono di
fissare la data del matrimonio. Lui lavora come autista preso un’agenzia di pompe funebri, proviene
da una famiglia benestante, è figlio unico ed è proprietario di un monolocale nello stabile dove risiede
la madre vedova. Il compagno ha perso il padre poco prima di conoscere la paziente: è morto
per un attacco cardiaco tra le sue braccia.
Una volta stabilita la data del matrimonio, la paziente decide di andare a convivere con il compagno
non appena laureata e completati i lavori di ristrutturazione della casa nuova. La coppia si trova
ad affrontare diversi problemi per via di tutti questi impegni, ma la paziente decide di fare momentaneamente
finta di niente, almeno fin quanto non si laurei e vada a vivere con lui. Inoltre, inizia a
notare comportamenti di abuso di alcol e cannabis da parte del compagno.
Nei giorni del trasloco sente una telefonata “particolare” del compagno, che le dà l’impressione
che ci sia un’altra donna, e circa un mese dopo, completato il suo trasferimento, viene a sapere dal
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compagno che negli ultimi 6 mesi frequenta un'altra donna, la quale tuttavia non sa della sua esistenza.
Per via della forte stato emozionale suscitato dalla situazione, sviluppa un disturbo di panico
(diagnosi pronto soccorso).
Strumenti Psicodiagnostici
SCL-90: Ideazione paranoide: 2.6; depressione: 1.6; somatizzazione: 1.6; disturbi del sonno: 1.6;
sensibilità interpersonale: 1.4; Ansia: 1.3; ostilità: 1.3.
DAS: 142 [devo essere una persona utile, produttiva, creativa, altrimenti la vita non ha
significato; sto bene solo quando controllo completamente la situazione; dovrei sempre avere il
controllo completo dei miei sentimenti; il concetto che ho di me stesso è più importante di ciò che
pensano gli altri di me; è possibile essere totalmente autosufficienti; la mia felicità dipende
sostanzialmente da ciò che mi capita].
Inventario dei pensieri automatici - ATQ: 78 [nessuno mi capisce; vorrei poter fare di meglio;
la mia vita non va come dico io; non ce la faccio più; vorrei soltanto poter scomparire; che cosa mi
succede?].
Prima – Quarta seduta
Leggenda: R: la paziente; F: il compagno; T: il fratello.
Durante questi primi incontri mi sono proposta di raggiungere i seguenti obiettivi: 1) stabilire una
buona relazione con la paziente; 2) condurre un assessment cognitivo comportamentale; 3) verificare
la motivazione all’intervento; 4) stabilire con lei gli obiettivi del nostro percorso (Wells, 1999).
Partendo da una spiegazione cognitivo comportamentale della interrelazione fra emozioni, pensieri
e comportamenti, ho cercato di addestrare la paziente ad auto-monitorarsi attraverso i compiti a
casa [schede di analisi funzionale di tipo ABC, schede di Panic Rating Scale (PRS)] allo scopo di
favorire una riattribuzione di significati [ristrutturazione cognitiva] degli episodi di attacco di panico
(Beck, 1984). Per questo motivo ho fornito nozioni “scientifiche” circa l’attacco di panico, le
forti crisi d’ansia e sulle loro conseguenze in termini di sintomi fisici [Psicoeducazione, biblioterapia],
(Baldini, 2004). Insieme abbiamo cercato di ricostruire il circolo vizioso che caratterizza la sua
difficoltà, di minimizzare gli effetti catastrofici temuti dall’ansia e di individuare le strategie che potrebbe
utilizzare per fronteggiarli. Infine è stato proposto un esercizio di rilassamento.
Il materiale prodotto dalla paziente è stato:
Panic Rating Scale (PRS): Prima settimana: 1/2 episodi; Ha cercato di evitare le situazioni per
paura? = 8 (sempre); Come si comporta? a) controllare i propri pensieri; b) controllare il proprio
battito cardiaco; c) controllare la respirazione; d) distrarsi; e) cerca di rilassarsi. Cosa pensa mentre
le capita di essere ansiosa? a) mi sento soffocare (100); b) sento di perdere il controllo (100); c)
questo attacco di panico non finirà mai (100); d) mi manca l’aria (80); e) non sento e non vedo niente
(80); f) sto diventato pazzo (60).
Analisi funzionale ABC
Luogo: Camera da letto
Che cosa stava facendo: Cercare di dormire
Persone presenti: F.
Dialogo Interno: Non posso vivere senza tutto
questo
Emozione: intensità: Paura: 7
Immagini ad occhi aperti: Nulla
Attività fisiologica: intensità: Insonnia: 9
Comportamento: Abbraccio forte F.
Luogo: Casa
Che cosa stava facendo: Non ho voluto fare
niente, mi sono buttata tutta la mattina a letto a
piangere
Persone presenti: Nessuno
Dialogo Interno: Ho perso per sempre F. e me
stessa
Emozione: intensità: Angoscia: 10
Immagini ad occhi aperti: Nulla
Attività fisiologica; intensità: Stanchezza: 10,
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Apatia: 10, Confusione: 10
Comportamento: Continuato a piangere
Luogo: Palestra
Luogo: Al mercato
Che cosa stava facendo: Ginnastica
Che cosa stava facendo: Shopping… ho
Persone presenti: Istruttrice e altre signore incontrato lo sguardo di una ragazza che mi ha
Dialogo Interno: La mia vita è tutta crollata. ricordato lei…
Niente di quello che vivo è vero
Persone presenti: Suocera e folla
Emozione: intensità: Confusione: 10, Dialogo Interno: Vuoto
Angoscia: 9
Emozione: intensità: Improvviso disagio: 10,
Immagini ad occhi aperti: Episodio bello Fastidio: 10, Cambiamento repentino di umore:
passato con F.
10.
Attività fisiologica: intensità: Mancanza Immagini ad occhi aperti: Il volto di lei
d’aria: 6, Senso di disagio: 10, Aumento battito Attività fisiologica: intensità: Distrazione e
cardiaco: 7
confusione: 9, Aumento battito cardiaco: 8
Comportamento: Ho fatto finta di niente ed
ho respirato profondamente
Comportamento: Fatto finta di niente
Luogo: Camera da letto
Che cosa stava facendo: Sistemare la camera
Persone presenti: Nessuno
Dialogo Interno: Come è contraddittorio tutto quello che mi è successo con la realtà presente e
quella passata
Emozione: intensità: Confusione: 10, Angoscia: 9.
Immagini ad occhi aperti: Loro due in atteggiamenti intimi al paese
Attività fisiologica: intensità: Aumento battito cardiaco: 8
Comportamento: Mi sono seduta e ho respirato profondamente, aspettando che tutto passasse
Attraverso i suoi racconti, in queste quattro settimane siamo riuscite ad individuare i fattori di
mantenimento che rinforzano le sue difficoltà: 1) gran parte delle sue difficoltà è mantenuta da comportamenti
di evitamento e quindi di non sperimentazione degli effetti temuti. La paziente evita di
allontanarsi dal suo compagno per paura di risentirsi male; 2) quando le capita di avvertire stati di
agitazione cerca immediatamente rassicurazione da suo compagno.
La paziente, per via di questi comportamenti evitanti, che non le lasciano la possibilità di verificare
le sue strategie di fronteggiamento, arriva a pensare che senza l’aiuto del compagno da sola non
possa far fronte a questi momenti. Questo atteggiamento, però, la porta, da un lato, a fare delle
meta-valutazioni negative circa il suo comportamento “facendo così però se io ero dipendente da
F., io così ci sto andando ancora sotto di lui… sono ancora più dipendente!” e, dall’altro, di fare
anticipazioni catastrofiche circa il futuro: “ho paura che un qualsiasi cambiamento in futuro mi
possa scaturire questo stato d’animo”, “io penso che in occasioni future mi sentirò cosi… sicuro,
sicuro, sicuro… neanche tanto la disperazione quando la sensazione di dispersione che mi fa venire
l’ansia”.
Attraverso il nostro lavoro abbiamo, inoltre, individuato come i significati attribuiti al compagno
contribuiscano al timore di avere questa reazione “lui è il mio appoggio per tutto”, “se perdo lui
vedo il vuoto”, “lui non è solo il mio compagno ma la mia famiglia. Solo lui mi capisce”, “amore
per me vuol dire condividere tutto”.
La paziente ha riassunto quanto ha compreso in questo periodo nel seguente scritto:
“Quando penso alle mie “crisi di panico” non riesco con la mente a soffermarmi su un’unica
emozione, un’unica sensazione… Innanzitutto perché si sono verificate spesso in maniera diversa
ma, soprattutto, perché in quei momenti sentivo tante emozioni contemporaneamente. Quello che so
dire con certezza è che in quei momenti passato e futuro mi sembravano vuoti e con loro anche io.
In particolar modo il futuro all’improvviso diventava un burrone profondo ed io ero sicura di stare
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per cadere dentro, senza appigli… Quando è successa quella cosa con F., ciò che caratterizzava i
miei attacchi di panico era la confusione: era come se ad un tratto io non stessi più in nessun luogo
e, anche se mi trovavo in una folla, era come se mi trovassi sola. La mente non riusciva a comporre
un pensiero finito, gli occhi si soffermavano nel vuoto e il cuore cominciava a battere più forte.
Quando ho provato a tornare da mamma, mi sentivo dentro salire l’angoscia e aumentare il battito
e non riuscivo più a ritrovare la mia vita: la mia cameretta, in cui sono stata tanti anni, è un ripostiglio,
mio fratello T. che è andato a convivere, l’università che ho terminato e mi sono resa conto
di non avere neanche amiche con cui uscire. Capivo allora che dovevo tornare indietro perché altrimenti
quell’angoscia e quel battito, quell’adrenalina che sentivo in corpo mi avrebbero schiacciato.
Era tanta anche la paura di non rivedere più F. Tornavo immediatamente indietro a riprendermi
la vita che mi sono costruita con le unghie. Molto spesso i miei attacchi di panico erano collegati
a immagini… lei, lui e lei in atteggiamenti intimi ma soprattutto lui innamorato di lei. In quel
periodo, gli attacchi di panico mi prendevano spesso la notte perché anche il buio era vuoto e rappresentava
esattamente la mia vita. Dovevo sedermi improvvisamente nel letto, accedere la luce e
parlare con F. per capire che era tutto a posto”.
Quinta – decima seduta
Procedendo nel nostro lavoro, gli obiettivi sono stati divisi in due grandi aree:
• legati alle crisi d’ansia: a) normalizzare gradualmente gli episodi delle crisi d’ansia
attraverso una ricostruzione puntuale; b) promuovere la capacità di riconoscere i propri stati
emotivi di paura, rabbia, dolore e tristezza; c) promuovere, attraverso esperimenti
comportamentali e di riattribuzione verbale, una modificazione delle valutazioni
disfunzionali riguardanti gli stati d’ansia
• legati alle relazioni: a) riconoscere i significati che guidano le proprie modalità relazionali;
b) riconoscere i propri incastri relazionali prendendo come guida le proprie emozioni
Durante questi incontri si sono verificati degli episodi che hanno interferito notevolmente con il
nostro lavoro. In concomitanza, è stato diagnostico al padre un tumore alla vescica, che richiede, a
detta dei medici, un intervento di esportazione immediato, e F. è stato portato al pronto soccorso per
una fortissima crisi d’ansia in seguito all’assunzione di cocaina. La paziente è venuta a sapere il
motivo di tale crisi non attraverso il compagno, ma dal certificato medico che ha dovuto ritirare nel
momento della sua dimissione dall’ospedale.
Area 1: crisi d’ansia
La paziente attraverso gli esercizi è stata capace di individuare un aspetto importante dell’innescarsi
delle crisi: “prima avverto che sono contratta e poi mi viene l’ansia perché ci penso sopra!”.
Inoltre, si è potuto notare come le crisi d’ansia, da un lato, siano collegate ad una sensazione di incastro
e di costrizione, e dall’altro, ad immagini vivide di quei momenti così dolorosi ed allarmanti.
L’emozione di base che, inizialmente, ha caratterizzato gli attacchi di panico era il dolore mentre i
momenti attuali di forte agitazione si basano, oltre che sul dolore, anche sulla rabbia. Il dolore, ovviamente,
per la perdita temuta della persona amata e la rabbia per essere stata incastrata. Gli episodi
accaduti nelle ultime settimane hanno avuto il vantaggio di attivare in lei la sensazione di voler
prendere di nuovo in mano la situazione. La paziente, inoltre, ha individuato quanto la costrizione
sia per lei una condizione attivante di uno stato d’ansia. Il parallelismo è stato fatto con certe condizioni
di lavoro. Secondo lei, in passato ha vissuto tale sensazione quando si è trovata a fare un determinato
tipo di lavoro (a tempo pieno in ufficio).
Attraverso la tecnica di Espressione Emozionale Scritta (Pennebaker, 2010) la paziente ha più volte
trascritto l’episodio del primo attacco di panico che l’ha portata a chiedere aiuto ai medici del
pronto soccorso. Il primo scritto riporta le seguenti informazioni: “Sono al bagno a casa dei miei,
buttata per terra a piangere… disperata. Voglio morire. Non so cosa devo fare. Sto male. Mi sento
morire, mi manca l’aria, piango e vedo vuoto davanti a me. Non riesco a pensare a niente perché
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vedo tutto vuoto. Mi sento nel tunnel. Ho paura di diventare matta. Ora sarò sempre così. Non ce
l’ho fatta a studiare, a lavorare… Finirò dentro casa facendo il vegetale. Gli altri mi daranno della
pazza. Sono una persona sconclusionata. Tutto questo non finirà… non finirà mai… mi serve lui…
mi serve un suo abbraccio… sono confusa… devo prendere una decisione… Vorrei sparire dalla
faccia della terra. Il cuore mi batte forte. Una confusione mentale. Non riesco a fare un pensiero
completo. Non finirà. Sarò così per tantissimo tempo. Devo cercare F.”.
Ristrutturazione cognitiva dell’attacco di panico
“Inizialmente penso che sia stata la paura di cambiare. Io non volevo cambiare la mia vita. Tornare
a casa con i miei, annullare il matrimonio, smettere di fare università, riprogettarla. Non mi
andava proprio. Poi lui ha creato la situazione in modo tale che io comunque non potessi prendere
una decisione. Perché da quello che io ho capito lui si è visto con lei fino il 4 agosto ed io il 9 agosto
sono andata a vivere con lui. Nel frattempo dalla chiamata che ho scoperto (9 luglio) lui non mi
faceva capire niente. Se lui me l’avesse detto allora, prima che io arrivassi a fare tutto il trasferimento
(il trasloco sembra una cavolata ma io ci avevo messo tantissimo tempo per farlo). Quando
lui mi ha detto la verità io a casa dei miei genitori non avevo niente. Dopo 4 giorni di luna di miele
non potevo andarmene. Io me ne andavo a fare la mia vita. Era oltre il rapporto di coppia, di fidanzatini,
conviventi, noi abbiamo sempre avuto una vita insieme. Lui ha fatto in modo che io non me
ne andassi. Ora ho maggiore consapevolezza di me: io non volevo accettare quello che mi era successo.
Non volevo apprendere quello che mi succedeva e questo senso di rabbia mi faceva poi stare
così. Se mi vedessi con gli occhi di un’estranea, capisco che è successa una cosa talmente strana
che lo trovo normale che mi sia sentita cosi”.
Procedendo con il lavoro di approfondimento sui propri incastri relazionali, la paziente è stata in
grado di individuare un altro aspetto molto importante della grande confusione che provava nel momento
in cui veniva a sapere della relazione parallela del compagno: il mancato appoggio dalla parte
della famiglia, i quali pretendevano da lei una decisione lucida ed immediata. La paziente sostiene
che la sua famiglia fosse contraria alla sua volontà di rimanere vicino al compagno, il quale tra
l’altro, secondo il suo punto di vista, era l’unica persona in grado di fornirle tutte le spiegazioni necessarie
affinché arrivasse al punto di poter prendere una decisione circa il loro futuro di coppia.
Inoltre, è stata in grado di individuare anche che nella coppia che stava formando lei riversava
speranze di una vita migliore anche sul piano pratico: una casa di proprietà da condividere con il
futuro marito e la libertà di gestire il suo guadagno per la sua vita e non per mantenere i genitori che
pretendevano una parte del suo guadagno mensile. Dunque, lasciare il compagno e tornare a casa
dei suoi genitori avrebbe significato per lei anche una mancata realizzazione personale e una marcia
indietro rispetto al raggiungimento dei suoi obiettivi. Questo era un altro aspetto che faceva
scatenare gli attacchi di panico, ogni qual volta lei ha cercato di allontanarsi dal compagno tornando
a casa dei suoi genitori: la sua stanzetta vuota che veniva piano piano trasformata in ripostiglio, le
pretese della madre, la bottiglietta di Lexotan sul tavolino come unica forma di sostegno offerto per
far fronte a questo momento di grande confusione.
Undicesima – Quindicesima seduta (area 2: incastri relazionali)
In questo momento del nostro percorso, la paziente decide di ristabilire, comunque dopo tutto, una
nuova data di matrimonio per l’anno successivo anche se non è certa di arrivare a farlo. Succede,
però, che il compagno viene coinvolto in un incidente stradale in seguito all’abuso di alcol e cannabis,
e questo porta la coppia ad una nuova fase del loro percorso. La paziente, con il mio aiuto, suggerisce
al compagno uno psicoterapeuta [un collega di orientamento cognitivo comportamentale],
per iniziare un percorso terapeutico per superare la dipendenza da alcol e cannabis. Questa genera in
lei emozioni di rabbia e disgusto nei confronti del compagno che hanno come effetto lo sviluppo di
un atteggiamento più distaccato rispetto alla situazione generale.
L’intervento viene così rimodellato sulla base dei nuovi bisogni della paziente. Attraverso schede
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di osservazione l’intervento mira a sostenerla emotivamente nel ristabilire i suoi obiettivi personali.
La rabbia e il disgusto che prova in questo periodo le permettono anche di sentire la grinta necessaria
per spezzare il cerchio dell’attacco di panico. Queste emozioni la aiutano a sviluppare nuove abilità
di autoregolazione emozionale (rilassamento e accettazione dello stato emozionale) nel momento
in cui sperimenta sensazioni di ansia dovute alla mancata ricerca di un appoggio esterno (ricerca
del compagno) per ottenere il sollievo emozionale.
Per quanto riguarda i suoi obiettivi circa il matrimonio e il lavoro, la paziente ha compilato diverse
volte delle check list dei vantaggi e degli svantaggi (Bruch, Bond, 2000). Cosi facendo ha avuto
modo, comunque, di confermare più volte la sua convinzione di star facendo delle scelte giuste per
lei: continuare il suo rapporto con il compagno e svolgere un’attività da libero professionista.
Attraverso questo lavoro, la paziente ha individuato come i suoi familiari contribuiscano attivamente
alle sue crisi d’ansia: ogni volta che le sue scelte vengono criticate da loro, lei si sente inadeguata
e si trova a sperimentare forti sintomi d’ansia/panico: “tutti aspettavano da me decisioni, decisioni”,
“mi fanno passare per la debole, per quella che non è capace di affrontare le cose della
vita”, “io mi sento che agli occhi degli altri devo fare un’altra scelta”, “a casa mi fanno passare
per pazza”. Dunque, questa contrapposizione di punti di vista tra il suo nucleo familiare d’origine e
i suoi genera in lei un enorme conflitto: senso di inadeguatezza da una parte e sensazione di costrizione
dall’altra. Sentendosi molto confusa nelle situazioni che si trova ad affrontare, cerca in loro
un appoggio ma le soluzioni proposte finiscono per essere diametralmente opposte a quello che in
fondo desidera per se stessa e a quello che sostiene sia fondamentale per il raggiungimento dei suoi
obiettivi personali. La costrizione è lo stimolo scatenante delle crisi d’ansia e la sensazione di isolamento,
solitudine e vuoto che ne consegue aggrava ulteriormente l'ansia fino al panico.
Sogno: “Una cosa senza senso”.
- Mi sono sognata che dovevo sposarmi, un matrimonio organizzato senza la mia volontà con un
cinese. Mi avevano vestito malissimo e in questo matrimonio c’erano solo due persone. E poi cosa
ho fatto; sono scappata da questa chiesa e ho iniziato a cercare F. Quindi io sapevo nel sogno che
mi dovevo sposare con F. Ad un certo punto sono andata dai carabinieri perché ho capito che
quella persona fosse uno potente della Cina e voleva farmi del male, a F. e ai miei parenti.
- Che significato dai?
- Non so che nesso ci può essere. Mi viene anche da ridere raccontandolo però nel sogno io mi
sono agitata perché c’era questa persona che non volevo perché io volevo F. Del cinese forse ho capito.
Il giorno stesso avevo litigato con un cinese sull’autobus. E poi ho visto un matrimonio cinese.
Credo che sia il fatto che tutti vogliono che io lasci F ed io non lo voglio fare. Pensa che nel mio
sogno sposando quella persona potente della Cina sarei diventata ricchissima, però ecco qui… era
una costrizione. Io mi sento che agli occhi degli altri io devo fare un’altra scelta. Mia madre mi ha
detto “io non è che voglia male a F. ma mi aspettavo meglio per te”. E tutti dicono qualcosa.
Per prevenire future ricadute è stata insegnata alla paziente la strategia di problem solving (Borgo
et al., 2001) ed è stato messo in atto un training assertivo (Andrews et al., 2003) per consentirle di
imparare modi più chiari e diretti per comunicare agli altri desideri, bisogni, richieste ed idee. La
stessa strategia è stata anche applicata nella gestione del suo rapporto con il compagno, considerato
anche fondamentale in questo momento delicato per lui che, a sua volta, si trova ad affrontare un
percorso psicoterapico faticoso e difficoltà con i familiari, anche per quanto riguarda la gestione
della malattia del padre. Inoltre, la paziente ha deciso di riallacciare i rapporti con i suoi vecchi amici
nella prospettiva di rendersi nuovamente autonoma ed indipendente rispetto al rapporto sentimentale
curando maggiormente la sua vita sociale.
Sedicesima – diciassettesima seduta (fase conclusiva)
Durante queste due ultime sedute, abbiamo messo a fuoco la soddisfazione che la paziente stava
provando per la sensazione di libertà, autonomia e indipendenza che è tornata a sperimentare. Crede
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che il matrimonio con il compagno sia la cosa giusta da fare per loro, sente che la gestione dei rapporti
con i suoi familiari siano meno “costringenti” per lei, anche perché è riuscita a mettere molte
cose in chiaro con i suoi genitori e i suoi germani. Al livello comportamentale è tornata ad essere attiva
e disponibile verso le persone, ma riflette anche sul carattere di “sacrificio” che fino a quel momento
ha condizionato molte delle sue scelte.
“Il discorso è che ho rivalutato il sacrificio: mai rinunciare alle cose proprie perché tanto può
succedere di tutto. Non ne vale la pena. È cosi. Il mio atteggiamento adesso: fare quello che serve,
aiutare e stare con mio padre, vedere che posso fare per aiutare anche F. ma non togliendo qualcosa
da me. Non è un atteggiamento di sacrificio il mio. Il tradimento mi ha aiutato a capire che non
bisogna sacrificarsi. Oggi è 9 luglio!!!! Un anno che io ho sentito quella chiamata. Stamattina per
un attimo mi sono agitata pensando “mamma mia che burrasca”, ho pensato “di quest’ora l’anno
scorso ero morta” ma sono sincera, mi ha fatto più male il giorno del matrimonio. Sono sincera.
Perché mi sentivo proprio strana. Oggi niente di niente. Oggi ho solo riflettuto sul fatto “che anno
ho potuto passare io”. Devo dire che ho imparato il fatto che “tutte le cose passano”, il tempo passa
e passa tutto. Credo che adesso se mi dovesse capitare una cosa brutta, che sinceramente credo
che non si può ripassare una cosa cosi terribile, sarà sicuramente più lieve a livello di dolore, mi
ricorderò di quello che ho passato quest’anno e saprò che tutto passa”.
Follow up telefonico: Febbraio 2009
La paziente al telefono sembra molto contenta e gioiosa. Mi dice che le capita ogni tanto di
pensare al nostro percorso e di richiamare la sensazione di benessere che aveva raggiunto “nel nostro
studiolo”. Durante quest’anno la paziente si è sposata con il compagno (il quale, a sua volta, ha
completato il suo percorso psicoterapico con risultati abbastanza buoni) e continua a dare lezioni
private ai suoi studenti: è arrivata ad avere 15 alunni ed è una cosa che la rende molto orgogliosa.
Infine, mi comunica che si sta prendendo anche la patente.
Relazione terapeutica
La relazione terapeutica è stata caratterizzata da un buon clima collaborativo e sentimenti di accettazione.
Tale collaborazione si è concretizzata nella notevole aderenza della paziente all’assegnazione
dei compiti a casa. Il clima empatico del nostro percorso ha permesso alla paziente di esporre
con facilità informazioni precise, pertinenti ed esaurienti e di ottenere, nella maggior parte delle
nostre sedute, un buon sollievo emozionale.
Per quanto riguarda i miei sentimenti, considerando che non si trattasse di un caso difficile sul piano
diagnostico, ma per lo più sul piano interpersonale, è stato faticoso per la mia natura dinamica
“aspettare” che la paziente si organizzasse per uscire dai suoi incastri relazionali. È stato un esercizio
contro attitudinale molto importante e un ottimo apprendimento di pazienza.
Un commento della paziente: “nella tua disponibilità professionale ho visto me!”.
Bibliografia
Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L., Page A. (2003). Trattamento dei disturbi
d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Torino: Centro Scientifico Editore.
Baldini F. (2004). Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche. Milano: Mc-Graw-Hill.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Un approccio nuovo alla cura dei disturbi affettivi.
Roma: Astrolabio.
Borgo S., Della Giusta G., Sibilia L. a cura di (2001). Dizionario di Psicoterapia Cognitivo Comportamentale.
Milano: Mc – Graw – Hill.
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Bruch M., Bond F.W. (2000). Oltre la diagnosi. Nuovi percorsi per la formulazione del caso. Mi-
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Pennebaker J.W. (2010). Expressive writing therapy, In I. Marks (Ed.), L. Sibilia, S. Borgo (co –
Eds.) Common Language for Psychotherapy Procedures. Roma: CRP.
Wells A. (1999). Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Milano: Mc – Graw – Hill.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 81

REAGIRE AL TRAUMA: DAL "POVERO ME"
ALLA SCOPERTA DEI PROPRI POTERI.
Di Federica Dominici, Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale. Iscritta all'albo degli Psicologi
dell'Umbria, libera professione nella città di Viterbo, mail: federicadominici@libero.it
Brevi cenni identificativi
Il paziente è un uomo di 37 anni, di professione impiegato tecnico amministrativo attualmente in
cassa-integrazione. Vive in una cittadina del Lazio con la moglie (30 anni, casalinga) con cui è sposato
da 8 anni, ed i loro due figli: un bambino di 6 anni ed una bambina di 4 mesi.
Presentazione del problema
I disturbi che il paziente lamenta sembrano iniziare a seguito degli arresti domiciliari subiti ad
aprile dell’anno precedente. Arresti che il paziente riferisce come traumatici: è stato infatti svegliato
in piena notte e prelevato dalla sua abitazione dai carabinieri, ammanettato e condotto alla centrale
senza nessun preavviso e davanti alla sua famiglia “come un delinquente”. In caserma gli hanno poi
comunicato che la società per la quale lavorava, era stata accusata di frode fiscale e che lui, come
tecnico amministrativo della società, era ritenuto personalmente responsabile e quindi soggetto a 30
giorni di arresti domiciliari in attesa del processo.
Al termine del periodo di arresti domiciliari, il paziente si è trasferito per 3 mesi in un’altra regione,
per un impiego temporaneo, mesi riferiti come un periodo di stand-by piuttosto tranquillo. Il lavoro
a tempo pieno e la lontananza dal suo ambiente lo hanno distolto da quanto aveva vissuto. Al
ritorno, a settembre, la situazione è rapidamente peggiorata ed il paziente ha iniziato ad accusare
vari disturbi, che sono andati degenerando con il passare del tempo.
Al momento del nostro primo incontro, a gennaio dell’anno seguente, il paziente riferisce di avere
varie difficoltà: di sentirsi “depresso”, di scoppiare spesso a piangere senza apparente motivo, di vivere
uno stato di vuoto ed apatia e una sensazione di inutilità rispetto alle proprie giornate; ritiene,
inoltre, di avere della difficoltà di gestione della rabbia, si definisce “arrabbiato con tutto il mondo”,
tende a reagire impulsivamente e con rabbia a qualsiasi banalità, spaventandosi delle sue reazioni
aggressive, mai avute prima; racconta, ad esempio, di aver picchiato per la prima volta il figlio
per motivi banali. Egli riferisce inoltre degli “attacchi di panico” riferendosi a momenti di
malessere avuti in luoghi in cui erano presenti altre persone; ritiene di poter riconoscere gli attacchi
di panico perché ne ha sofferto la moglie in passato.
Il disagio maggiore appare comunque legato all’evento traumatico degli arresti domiciliari: afferma
di essere molto scosso dalla situazione, di sentirsi accusato ingiustamente, trattato male e vittima
di una giustizia che non funziona, di ripensare spesso a quanto subito, di sognarlo spesso la notte.
Egli accusa infine vari disturbi fisici, tra cui prevalentemente mal di testa, mal di schiena, stanchezza
e difficoltà a dormire, con frequenti incubi di ombre alla finestra o persone scure che entrano in
casa o lo afferrano per portarlo via…
Prima del nostro incontro, il paziente si è rivolto al suo medico di base, il quale ha diagnosticato
un disturbo ansioso-depressivo e prescritto una terapia farmacologia a base di ansiolitici (Rizen, 10
mg in compresse). Ha intrapreso varie visite mediche per appurare la causa di alcuni disturbi, primo
tra tutti i dolori allo stomaco, la pressione alta, i mal di testa: le varie visite non hanno evidenziato
situazioni fisiche all’origine di tali disturbi.
Anamnesi soggettiva
Il paziente riferisce di essere stato sempre una persona calma e tranquilla. Da piccolo si è occupata
di lui prevalentemente la madre con i nonni materni. Ricorda un’infanzia felice, in cui aveva facile
rapporto con gli adulti (parenti e maestri) e con i coetanei. Alle medie il suo rendimento scolasti-
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co diminuisce perché si dedica di più ad uscire con gli amici, a fare vari sport (non tanto per passione
ma per stare con gli altri). Alle superiori ripete un anno per un periodo che definisce “di sbandamento”:
“le ragazze, gli amici, il motorino, volevo andare a lavorare …”. Si iscrive all’Università,
si lega molto ad un amico, seguendo il quale si perde un po’ negli esami e quindi decide di lasciare,
anche perché inizia a sentire forte la necessità di un’indipendenza economica, visto che anche molti
suoi amici avevano lasciato l’università e iniziavano a mantenersi economicamente. Si definisce un
ragazzo timido e riservato ed afferma di essersi sempre trovato meglio se aveva qualcuno vicino. A
27 anni conosce la ragazza che poi sposerà, lascia il suo lavoro di magazziniere e va a lavorare nel
bar di lei, finché la moglie non rimane incinta ed il lavoro al bar diviene per entrambi troppo faticoso
e non compatibile con la famiglia. Lasciano il bar, la moglie diviene casalinga e lui viene assunto
nella società dello zio della moglie (fratello del suocero), su invito del suocero, prima come ragioniere,
poi come amministratore-tecnico.
Sintesi valutativa
I primi cinque colloqui sono stati dedicati all’assessment dei disturbi, della personalità, della storia
di vita e della situazione attuale del paziente (Sanavio, 1991). La valutazione è stata effettuata
tramite colloqui e somministrazione di due test: la Batteria CBA 2.0 (Sanavio et. al., 1986) e l’
MMPI-2 (Butcher, Williams, 1996).
Le varie informazioni così rilevate convergono nell’evidenziare alcuni indicatori psichici:
Scarsa competenza emotiva, con difficoltà di contatto e gestione delle emozioni proprie ed altrui:
il CBA evidenzia ansia di tratto e di stato e depressione, mentre l’MMPI-2 evidenzia come la
presenza di tratti depressivi ed ansiosi sia associata alla repressione delle emozioni ed alla tendenza
a coglierne solo l’aspetto fisiologico interpretandolo come malessere fisico. Il paziente mostra infatti
una notevole preoccupazione per la propria salute corporea, in quasi totale assenza di disturbi fisici
accertati dal punto di vista medico, ed una varietà di disturbi fisici coerenti con una tensione emotiva
non gestita. Ma sono soprattutto i colloqui che confermano una carenza nella capacità di parlare
delle proprie emozioni, sia nell’individuarle, sia nel discriminarle: il paziente usa continuamente la
parola “ansia”, anche per denominare vissuti interni molto diversi tra loro e non riconosce le
emozioni nel loro sorgere: esse sembrano esplodere improvvisamente con un’intensità esagerata e
spesso senza un vero motivo oppure non esistere, spesso affermava di sentirsi “Normale!” o “In
nessun modo particolare!” o “Come si sarebbe sentito chiunque altro!”.
Alcune emozioni vengono inoltre giudicate negative, disdicevoli, inutili, prime tra tutte la rabbia,
e quindi negate o represse fin quando possibile oppure vissute con senso di colpa. In uno dei primi
colloqui, parlandomi del suo passato il paziente mi disse: “Ero uno tranquillo, non ho litigato mai
con nessuno, non sono uno che si arrabbia, infatti adesso non mi riconosco più, mi sento quasi un
mostro!”. Notevoli difficoltà si evidenziano anche nell’attribuzione e nella gestione delle emozioni
altrui, interpretate per luoghi comuni o in base a come avrebbe reagito lui, più che realmente riconosciute.
Rigidità degli schemi di pensiero: il paziente sembra orientarsi attraverso schemi e programmi
precisi, per i quali non sono ammesse eccezioni. Si definisce “una persona programmatica”, afferma
di farsi al mattino il programma del giorno ed essere molto turbato se deve modificarlo e vive
tale caratteristica come un pregio, in quanto la ritiene un grande aiuto alla sua organizzazione ed
alla sua efficienza. I suoi costrutti sono fortemente dicotomici, privi di sfumature ed eccezioni: “Se
non mi sostieni, mi accusi!”, “O mi capisci o no!”. Anche le soluzioni ipotizzate ad eventuali problemi
sono estreme: “o esplodi o tieni tutto dentro, o litighi o fai finta di niente…”. Egli inoltre è
guidato da valori e atteggiamenti tradizionalisti e moralisti, che lo portano ad identificare ad
esempio il valore di un uomo con il suo successo nel lavoro, tanto che afferma: “Ora che non
lavoro, mi sento completamente inutile!”, oppure a delegare delle scelte anche personali al suocero
perché “lui è il capo-famiglia”.
Stile relazionale passivo-aggressivo: l’MMPI-2 evidenzia forte somatizzazione e repressione
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delle proprie emozioni e dei propri bisogni e scarsa capacità di imporsi e di reagire in modo intraprendente
e fiducioso in sé. Anche nelle situazioni interpersonali raccontate il paziente riferisce un
comportamento completamente passivo, caratterizzato da evitamento del conflitto, ritiro in se stesso
ed assenza di reazioni, ciò si unisce però ad una serie di pensieri di tipo aggressivo, accusatori e critici
verso l’altro. Nelle sue idee l’altro si meriterebbe la peggior reazione, ma in realtà lui non fa
nulla. Solo nell’ultimo periodo compaiono esplosioni di rabbia “incontrollata”, in cui il paziente aggredisce
verbalmente l’altro per poi vivere intensi sensi di colpa. Lo stesso vale per il giudizio
dell’altro che viene tenuto in grande considerazione, temuto e subìto con sofferenza quando non
può essere conquistato.
Locus of control esterno, stabile e globale: il paziente attribuisce la responsabilità delle proprie
difficoltà attuali all’esterno: alla moglie o ai familiari che non lo capiscono, ai figli che non obbediscono,
alla società che non lo ha tutelato, agli interessi economici che a sua avviso sono all’origine
della denuncia in cui si è trovato coinvolto. Anche nelle rare situazioni in cui viene riconosciuta una
propria responsabilità, essa viene attribuita al suo carattere, ritenuto però un fattore immutabile
della sua persona e su cui egli non ha nessun potere di controllo, né tanto meno di cambiamento:
“Che ci posso fare se sono programmatico?”, “Lo so che non mi aiuta, ma non sono mai stato uno
che chiede, non lo faccio proprio!”. Nel pessimismo attuale inoltre, tali attribuzioni esterne e “interne”,
sono inoltre ritenute immodificabili e quindi stabili e sembrano non riferirsi ad episodi o aspetti
specifici, ma essere generalizzate, egli afferma ad esempio: “In una società ingiusta non c’è scampo
per nessuno, triste a chi tocca!”.
Ipotesi esplicativa
L’ipotesi esplicativa è che il paziente stia attraversando un momento di disforia e reazioni da
stress conseguenti all’arresto subito e alla successiva condanna agli arresti domiciliari, da lui vissuti
come un vero e proprio trauma non ancora elaborato. Egli riporta infatti un umore depresso e sintomi
propri di un Disturbo Post-traumatico da Stress (DSM-IV-TR., 1996): è stato esposto ad un
evento traumatico, l’arresto e la successiva condanna, lesivo dell’integrità della propria immagine,
accusando sentimenti di paura e impotenza; l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente
con incubi, pensieri e ricordi ricorrenti e disagio di fronte a stimoli che ricordano l’evento; c’è evitamento
degli stimoli associati con il trauma: luogo di lavoro, colleghi, situazioni sociali dove potrebbe
incontrare amici che potrebbero chiedergli della sua situazione, e presenta una riduzione
dell’interesse e della partecipazione ad attività significative, come la vita scolastica o sportiva del figlio,
la nascita e l’accudimento della figlia, situazioni sociali varie, con sentimenti di distacco e di
estraneità verso gli altri; si evidenziano infine sintomi persistenti di aumentato arousal come indicato
da difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno, irritabilità o scoppi di collera ed ipervigilanza
(Kaplan, Sadock, 2001).
L’ipotesi è che l’evento dell’arresto non sia stato integrato ed elaborato dal soggetto in quanto non
compatibile con i propri schemi e con la propria immagine di sé (Semerari, 2006), anche a causa
della loro rigidità ed assolutezza, e che il paziente, a causa dello scarso contatto con la propria emotività
e delle proprio stile comportamentale passivo, non riesca, a distanza di quasi 9 mesi dall’evento,
a reagire in modo costruttivo ad esso, ma abbia optato per un ritiro in sé stesso ed una sfiducia
totale sia in sé che all’esterno, adottando in pieno il ruolo di vittima in balia di forze esterne (legge,
giudizi altrui) ed interne (emozioni e impulsi) ritenute negative (Bara, 2005). Tale atteggiamento depressivo
rimanda al concetto di “impotenza appresa” di Seligman (Seligman, Abramson et al.,
1979). Il paziente. sembra infatti aver appreso, in base alla sua prima interpretazione dell’esperienza
dell’accusa e degli arresti, che gli eventi sfuggano completamente al suo controllo, che non siano
assolutamente correlati con il suo comportamento, in quanto da un comportamento innocente ne è
scaturita un’accusa, e che quindi egli non abbia la possibilità di influire su quanto può accadergli, di
conseguenza non gli rimane altro da fare se non subirlo passivamente. Ciò ha fatto si che il paziente
ponesse selettivamente attenzione solo agli aspetti negativi della situazione vissuta, innescando una
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serie di pensieri automatici distruttivi coerenti con i propri schemi, tra cui: “non lavoro quindi non
valgo nulla”, “sono stato arrestato quindi tutti mi giudicano un delinquente”, “ho subito un’ingiustizia
quindi la vita è ingiusta ed io sono una vittima”. La scarsa competenza emotiva ha portato poi
il paziente a vivere la tensione emotiva come malessere fisico, lamentando così svariati disturbi fisiologici,
e a non essere in grado di gestire emozioni come la rabbia e la tristezza, che vengono inibite
finché non raggiungono intensità tale da sfuggire al controllo ed esplodere in crisi di rabbia o di
pianto (Bara, 2005). Anche la rabbia verso se stesso non viene utilizzata per riflettere sui suoi eventuali
errori, ma solo per giudicarsi in modo distruttivo (Bara, 2005).
Tale reazioni sembrano essere rinforzate dall’atteggiamento iperprotettivo del suocero e della famiglia
della moglie e dai vantaggi secondari derivanti dalla delega totale di ogni responsabilità familiare
in un momento in cui, con la nascita della seconda figlia, il carico di lavoro domestico è notevole
e le proprie capacità vengono seriamente messe in discussione.
Sembra dunque necessario che il paziente riesca a riconoscere anche il proprio ruolo in quanto gli
è accaduto ed in ciò che può ancora accadergli, a ridimensionare le responsabilità esterne e rivalutare
il proprio comportamento come poco accorto ed estremamente arrendevole e fiducioso, riacquistando
così un senso di autoefficacia sugli eventi e quindi una motivazione a reagire (Bara, 2005).
In base a tale ipotesi, è stato concordato con il paziente che gli obiettivi del percorso terapeutico
fossero: l’integrazione e l’elaborazione dell’evento traumatico, l’incremento della competenza emotiva,
l’adozione di uno stile comportamentale assertivo, l’aumento della flessibilità degli schemi di
pensiero, il rafforzamento dell’immagine di sé e l’abbandono della terapia farmacologia.
Relazione terapeutica
Il paziente, coerentemente con il suo modello comportamentale passivo, formale ed accondiscendente,
ha stabilito da subito una relazione basata su un apparente fiducia totale ed incondizionata, rispetto
e accettazione acritica di ogni mia parola. Ho avuto da subito la sensazione che mi fosse stato
attribuito, a priori, il ruolo di “esperta”, non solo rispetto alla mia professione, ma anche rispetto
alla conoscenza della sua persona. Per tale motivo ho impostato la relazione con lui su una
collaborazione massima e paritaria, dove ho cercato di sottrarmi ad ogni delega e ad ogni decisione,
evitando di aggiungere una sola parola a quanto da lui affermato su se stesso, o di suggerire
alternative, anche laddove, vista la sua rigidità di pensiero, egli faticava molto a trovarne (Semerari,
2006). Ho ripetuto spesso frasi del tipo: “Non so, proviamo a capirlo insieme, non ne ho idea!”.
All’inizio questo aspetto mi ha creato difficoltà, in quanto da una parte temevo di perdere la sua
fiducia e la sua stima, dall’altra spesso non capivo se alcune sue risposte erano effettivamente sue o
erano quelle che intuiva che io ritenevo le migliori. Gradualmente però il paziente ha iniziato ad
essere più protagonista nei colloqui, interrompendo ogni delega e assumendosi la responsabilità di
ogni suo pensiero. A fine terapia ritengo che questo aspetto della nostra relazione si sia rivelato uno
dei fattori più importanti del successo della terapia: il paziente sembra aver sperimentato per la
prima volta una relazione dove non gli veniva detto cosa era giusto o sbagliato fare o pensare, dove
lui e solo lui doveva cercare soluzioni e risposte e dove il suo tentativo di delega non portava l’altro
a sostituirsi a lui nelle sue decisioni o nelle sue responsabilità rimandandogli fiducia nelle sue
capacità di fare da solo.
Diario degli incontri
Focalizzando gli episodi significativi delle sue giornate attraverso i protocolli di auto-osservazione
degli episodi critici e delle emozioni (Greenberger, Padesky, 1998), il lavoro si è incanalato su
tre aspetti principali:
Gestione dei momenti di malessere interpretati dal paziente come Attacchi di Panico: è stato
subito evidente, fin dai primi protocolli, che il paziente interpretava come A.P. momenti in cui viveva
forte imbarazzo e vergogna all’idea di essere giudicato dagli altri per il suo “reato”. Essi infatti
evidenziavano sempre la stessa cosa: preoccupazione di incontrare fuori casa persone che sapevano
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 85

quanto gli fosse successo e che lo giudicassero, era intollerabile per lui trovarsi esposto allo sguardo
giudicante dell’altro, il quale lo avrebbe sicuramente valutato male per il reato di cui era stato accusato
“penseranno che ho fatto questo per soldi” , “che sono disonesto!”.
Il semplice rileggere le sensazioni fisiche vissute dal paziente come imbarazzo e vergogna, lo ha
aiutato a non averne più paura e a non interpretarle più come malessere fisico (Beck, 1984) . Gli
episodi del genere si sono subito interrotti.
Rivalutazione di ruoli alternativi a quello del “ lavoratore”
: riflettendo sui protocolli degli episodi
depressivi emerge un’immagine di sé negativa, più legata ai risultati che non all’impegno messo
per raggiungerli, al ruolo di uomo lavoratore, e quindi al fare, al produrre, più che all’essere, ed
al giudizio dell’altro più che al proprio. Il paziente ad esempio non riesce a valorizzare altro che il
lavoro, tanto da sentirsi inutile e fuori luogo nelle situazioni dove invece sta assolvendo ad un suo
ruolo importante, quello di “padre”. Questa riflessione apre un lavoro, che si rivelerà utilissimo nel
percorso, di riscoperta e rivalutazione di altri ruoli/aspetti della vita del paziente, oltre a quello lavorativo,
ruoli non considerati e invece pieni di soddisfazioni, utilità e importanza, primo tra tutti quello
di genitore: il paziente gradualmente si riappropria del suo essere padre, inizia ad occuparsi del
figlio, ad aiutarlo nei compiti, a seguirlo in piscina, a parlare con lui dei suoi problemi con i compagni
di classe. In seguito inizia a prendersi cura anche della figlia di pochi mesi, a cui non aveva mai
cambiato un pannolino e rispetto alla quale si sentiva incompetente, visto che non riusciva a calmarla,
a farla addormentare. Gradualmente invece rileggiamo la sua incompetenza come mancanza di
pratica, di esercizio, e quindi il paziente inizia ad essere più attivo nella cura della figlia. La moglie
non facilita questo lavoro in quanto si mostra esigente, non tollerante e perfezionista nel fare le
cose, tanto che spesso la cambia di nuovo dopo che il paziente lo ha appena fatto dicendo che non
era stato fatto bene, ma quando egli riesce a distanziarsi dalle critiche della moglie, trova soddisfazione
nel vedere che riesce a fare delle cose: diviene abile nell’addormentare la bambina,
nell’imboccarla, nel cambiarla. (Bara, 2005).
Acquisizione di uno stile assertivo: dai protocolli del paziente emerge come egli non riesca a
dire “no” in modo rispettoso dell’altro, ed abbia generalmente due reazioni comportamentali opposte:
quella aggressiva: gridare ed offendere, e quella passiva: subire; iniziamo dunque un lavoro per
stimolare invece una modalità assertiva, soprattutto attraverso la formulazione di pensieri e reazioni
alternative a quelle del paziente (Becciu, Colasanti, 2004). Gradualmente il paziente ha poi iniziato
ad esercitarsi in reazioni assertive nella sua vita quotidiana: ha deciso ad esempio di confrontarsi
con i propri genitori, con i quali da Natale era in “silenzioso contrasto” per essersi sentito abbandonato
in un momento delicato come quello che stava affrontando. Il pensiero di base del paziente era
che “l’aiuto dei familiari deve venire senza chiederlo, loro sanno quando c’è bisogno di loro e se
non lo fanno è perché non vogliono”. Riflettendo su questo pensiero, il paziente è riuscito a metterlo
in dubbio e ha capito che gli altri, potrebbero non aver chiari i suoi bisogni e che quindi, come
figlio, poteva esplicitarli meglio. Con grande gioia il paziente ha affrontato il discorso, si è chiarito
con i suoi genitori e ha chiesto loro di stargli vicino, migliorando decisamente i rapporti con loro ed
iniziando a sentirli più vicini, ad apprezzarli di più e a sentirsi meno incompreso. Il paziente ha riconosciuto
che il suo reagire con rabbia o tristezza era solo un modo di chiedere attenzione ed aiuto,
non riuscendo a farlo in altro modo: “Ho bisogno di avere qualcuno che mi dia attenzione, e quando
vedo che non lo fanno mi arrabbio e li aggredisco…”. Riconoscendo poi che così li allontana
anziché avvicinarli, aggiunge “dovrei comunicare in modo più normale le mie richieste e smetterla
di arrabbiarmi e basta”. Riconosce inoltre che la moglie è la persona con cui si arrabbia di più anche
perché, dopo la nascita della bambina, non c’è più tempo per momenti di affetto verso di lui,
che gli mancano.
Gradualmente si rende conto della sua difficoltà di esplicitare le sue esigenze in ogni campo: anche
sul lavoro ritiene di aver sempre subito un trattamento ingiusto senza averne mai parlato con il
capo per paura di rovinare i rapporti, accumulando stress per il sovraccarico di lavoro, “a volte
neanche andavo a pranzo perché non avevo tempo!”, e soprattutto perché si trovava a fare cose che
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nessuno gli aveva mai spiegato, “spesso c’erano richieste di scarichi in più che non era facile gestire,
dovevo però accettarle, mica potevo rimandare i carichi indietro…”. In quel periodo ad esempio,
alcuni colleghi avevano ripreso il lavoro, per cui pensava che sarebbe stato giusto far riprendere
anche lui, ma non riusciva ad andarne a parlare col datore di lavoro, per paura di creare dei contrasti.
Rispetto a ciò il paziente si sentiva molto combattuto anche per la pressione esercitata su di lui
dal suocero, il quale lo invitava “abbi pazienza, lascia perdere, tanto qualsiasi cosa ti serve a livello
economico ci sono io”, e la moglie, che gli diceva invece “Ma fai l’uomo una volta, è un tuo diritto
riavere il lavoro!”. Solo dopo essersi liberato delle pressioni esterne il paziente è riuscito a
prendere una sua decisione ed andare a chiedere al datore di lavoro di essere riammesso al lavoro in
qualche modo “non per i soldi, so che non sono un problema, ma per principio!”, ottenendo la promessa
che ciò sarebbe stato fatto appena possibile.
Il paziente gradualmente ha iniziato a sentirsi orgoglioso di riuscire a dire e a fare alcune cose che
non avrebbe immaginato, anche se non sempre otteneva il risultato sperato, e questo ha contribuito
notevolmente a migliorare il suo senso di autostima ed autoefficacia.
Anche in situazioni più banali il paziente ha iniziato a modificare il suo comportamento in senso
assertivo, come ad esempio con un automobilista che sbatte il proprio sportello sulla sua macchina o
con una signora che tenta di passare prima degli altri ad uno sportello.
Risultati terapeutici
Negli ultimi incontri il paziente sembra aver ripreso il controllo della sua vita e del suo umore: si
ritiene molto soddisfatto per essersi riappropriato del ruolo di padre e porta in seduta richieste di riflessione
sul modo di educare i figli, diviene presente nella gestione della casa, fornendo un grande
aiuto alla moglie, che finalmente inizia a riconoscerlo come un valido supporto nella vita domestica.
Il rapporto con la moglie diviene più sereno, il paziente inizia a vedere le risposte scortesi ed i momenti
di nervosismo della moglie come conseguenza di sue situazioni personali (lo stress per la
bambina che dorme poco, la dieta a cui si è sottoposta…) e non riporta più ogni discussione ad una
svalutazione del marito a causa del suo non lavorare per cui riesce a comprenderla ed essergli di
aiuto e sostegno senza invece arrabbiarsi con lei. Inizia ad adottare la strategia di “… la lascio
sfogare nel momento in cui è stressata, senza dire nulla…e poi riprendo il discorso quando si è
calmata!”, strategia che lo soddisfa sia per i risultati, sia perché non lo fa sentire vittima degli
attacchi della moglie. Il tono dell’umore migliora decisamente e diviene stabile, a detta del paziente,
soprattutto perché il non lavorare non significa più per lui non fare niente e quindi non valere
niente, ma essere di grande aiuto in casa, proprio nel momento in cui, vista la nascita della seconda
figlia, la moglie ne ha più bisogno. Ritrova anche interesse per alcuni suoi vecchi hobbies, come
l’elettronica… iniziando a ritagliarsi degli spazi per sé “ora che posso!”. Al lavoro gli offrono la
possibilità di fare un corso di informatica per cassa-integrati, che lo impegna qualche ora al giorno,
all’interno del quale stringe rapporto con altri “colleghi”, che scopre molto comprensivi ed affatto
giudicanti verso la sua situazione; si ritiene molto soddisfatto di essere riuscito a parlare con loro
della sua situazione senza vergognarsi e senza sentirsi colpevole. Riprende così anche i rapporti con
i suoi vecchi amici, che scopre essere “stati impegnati in loro problemi personali” e non
“disinteressati a lui”: un suo amico ad esempio, gli ha riferito di essersi separato dalla moglie e di
aver attraversato un brutto momento… il paziente afferma in proposito “forse ha pensato lo stesso
di me … è che ero troppo egoista, pensavo che tutto doveva girare intorno a me solo per quello che
mi era successo!”. Dal punto di vista legale, a fine aprile la società per cui lavorava accetta un
patteggiamento a sua totale insaputa, egli invece lo rifiuta, affermando “Mi rifiuto di prendermi
colpe che non ho, sarebbe come ammettere che sono colpevole, faremo ricorso, basta ad essere
passivo!”. In questo periodo il paziente decide inoltre di concordare col medico di base la riduzione
graduale e la definitiva interruzione della terapia farmacologica, affermando che non la ritiene più
necessaria. La terapia viene sospesa in circa 15 giorni, senza, a suo dire, risentirne in alcun modo.
Negli ultimi incontri il paziente riferisce la sensazione di aver risolto i suoi problemi e di affrontare
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 87

la vita in modo completamente diverso da prima, ripete spesso di essere passato da una situazione di
massimo “egocentrismo negativo”, in cui tutto ruotava intorno i suoi problemi, e tutti dovevano
capirlo solo per quello che gli era successo, ad una situazione di reazione alle cose negative e di
visione più ottimistica delle cose.
Nel mese di giugno riprende anche il lavoro, visto che la società per cui lavorava ha avuto un
mandato nuovo per un breve periodo. Decide inoltre di fare un colloquio per un nuovo lavoro, visto
che non gli dispiacerebbe lasciare comunque quella società.
Nell’ultimo incontro facciamo una riflessione sul suo percorso, ritiene di aver raggiunto gli obiettivi
che avevamo stabilito ed evidenzia come cambiamenti importanti che hanno favorito la sua
“guarigione”: “la scoperta di altre aree importanti della mia vita, oltre al lavoro, la capacità di capire
la mia rabbia e i miei sentimenti e non essere impulsivo”, “il dare meno importanza al giudizio
degli altri”, “l’aver imparato ad adattarsi ad una situazione nuova, anziché piangere la vecchia”,
“l’investimento sulla mia famiglia” ed aggiunge una metafora: “E’ come aver imparato a sintonizzare
i canali della TV, ora, se si perdono, so come risintonizzarli!”.
Valutazione del trattamento e verifica dei risultati
Gli incontri di follow-up ed i test somministrati a fine terapia hanno confermato il raggiungimento
degli obiettivi terapeutici prefissati. Nel primo incontro di follow-up di settembre, a due mesi
dall’interruzione del percorso terapeutico, il paziente riferisce una situazione di benessere, riportando
delle difficoltà legate prevalentemente alla gestione dei figli. Riferisce che il suo mutato atteggiamento
lo rende più soddisfatto della sua vita ed anche i suoi familiari si congratulano con lui per
come sta affrontando le cose. Si dichiara soddisfatto soprattutto del rapporto con la famiglia d’origine
e con la moglie. Dal punto di vista si dice molto fiducioso della piega che sta prendendo la sua
pratica, sembra infatti che la sua accusa abbia possibilità di cadere in prescrizione, e si sente soddisfatto
della sua scelta di non accettare il patteggiamento. Dal punto di vista lavorativo si sta impegnando
per cercare un nuovo lavoro, rispetto a ciò continua a contare sull’aiuto del suocero, che
sembrerebbe una persona piuttosto influente nel suo ambiente.
Ritiene di avere delle difficoltà nella gestione della sua vita quotidiana, ma di affrontarle con efficacia
e tranquillità: “Prima mi agitavo per tutto, ora invece cerco di organizzarmi per risolvere i
problemi, tanto quelli non mancano mai!”.
Visto l’aumento di peso che ha avuto in questo ultimo anno, ha deciso di prendersi anche più cura
del suo corpo, cerca dunque di migliorare la sua alimentazione e ha ripreso uno sport che faceva da
ragazzo: la bici ed afferma di averne riscoperto il fascino.
Al secondo incontro di follow-up, effettuato a gennaio dell’anno seguente, il paziente si è presentato
decisamente sorridente, soddisfatto della propria modalità di affrontare le difficoltà, sempre
presenti, sia rispetto all’accudimento dei figli, sia all’ambito lavorativo. Sul piano familiare il paziente
non riporta novità, se non un miglior comportamento e rendimento del figlio a scuola e una
miglior intesa padre-figlio.
Negli incontri di follow-up ho somministrato di nuovo al paziente alcune scale del CBA 2.0 e
l’MMPI-2, dall’analisi dei quali risulta che il paziente ha notevolmente diminuito l’ansia, non presenta
più problematiche di tipo depressivo, né disturbi psicofisiologici. L’umore appare stabile ed il
paziente sembra aver incrementato la propria estroversione e la propria fiducia sociale, anche se si
può ipotizzare una tendenza a mostrarsi sotto una luce favorevole e dare una buona immagine di sé,
che valuterei anche positivamente, se confrontata con la tendenza del paziente iniziale a svalutarsi e
“fare la vittima”. Il profilo del paziente risulta valido e completamente nella norma.
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 89

IL CASO DI PIETRO. OVVERO, L'INCREMENTO
DELL'AUTOEFFICACIA.
Di Monica Vanzella, Psicologa, Psicoterapeuta, mail: monicavanzella@libero.it
Il caso clinico di seguito presentato è relativo ad un percorso psicoterapeutico con un giovane di
31 anni con un forte senso di fallimento e un basso livello di autoefficacia. L’articolo descrive il
motivo della richiesta, l’assessment, la sintesi valutativa, l’intervento psicoterapico con gli obiettivi,
le strategie, i risultati e la relazione terapeutica stabilita. Il lavoro clinico, in linea con i presupposti
teorici del modello cognitivo – comportamentale e della teoria dell’autoefficacia, si è sviluppato seguendo
scelte terapeutiche strategicamente orientate ad accompagnare il paziente in un percorso
volto ad incrementare l’autoefficacia negli ambiti in cui è risultato più deficitario.
Motivo della richiesta
Il primo contatto con il paziente è telefonico e chiede un appuntamento perché: “sto attraversando
un brutto periodo, sono senza lavoro e i miei genitori mi stanno continuamente addosso, devo
sempre rendere conto a loro di tutto e questa cosa non la sopporto. Non ce la faccio più a sentire
continuamente i miei che si lamentano di me e mi controllano… mi sento perso, insicuro, ho bisogno
di aiuto per uscire da questa situazione”.
Diario degli incontri
Il percorso realizzato con Pietro ha avuto una durata di circa un anno, con incontri a frequenza settimanale
e quindicinale negli ultimi tre mesi, più due incontri di follow up a tre e a sei mesi dalla
conclusione della terapia.
Valutazione psicologica – assessment
Strumenti di rilevazione
Gli strumenti utilizzati durante l’assessment sono stati i seguenti:
• Colloquio clinico
• Osservazione
• Batteria CBA 2.0 (Bertolotti, Michielin, Sanavio, Simonetti, Vidotto, Zotti, 1986)
• Self-report idiografico (ABC di Ellis, 1989; 1994)
• Scale di Autoefficacia (Caprara, 2001)
Primo colloquio
Pietro arriva puntuale al primo appuntamento. È un giovane di statura media, dal fisico atletico,
definito e longilineo. Indossa un maglioncino attillato che mette in risalto la sua struttura fisica. È
molto curato nell’aspetto. Durante il primo scambio di battute ha un eloquio veloce, si inceppa ogni
tanto con le parole, gesticola con le mani, è visibilmente agitato. Lo esplicita subito dicendomi che
è la prima volta che si rivolge ad uno psicologo ed è un po’ nervoso. Ha deciso di chiedere aiuto
perché sta male e non riesce più a gestire la situazione che sta vivendo.
Sono trascorsi quattro mesi da quando è stato licenziato dal posto di lavoro. In questo momento
sta vivendo con un po’ di soldi che è riuscito a mettere da parte nel tempo e con l’aiuto dei genitori
che, da quando è stato licenziato, gli stanno pagando le rate del mutuo con il quale ha acquistato un
anno prima la casa. Nonostante ciò, vive con i genitori perché la casa non è stata ancora arredata e
perché il cambiamento comporterebbe ulteriori spese, anche se mai come ora vorrebbe stare lontano
dai suoi. Dal punto di vista economico è preoccupato perché sa che prima o poi i soldi che ha messo
da parte finiranno e che i genitori non saranno disposti ad aiutarlo ad oltranza. Racconta che attualmente
sta cercando lavoro come rappresentante, ma di non aver ancora trovato nulla. Riferisce di
sentirsi smarrito, di non saper più cosa fare e di pensare che il futuro non gli riservi nulla di buono.
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Pietro afferma che i suoi genitori sono sempre stati critici e intrusivi nei suoi confronti: “Per loro
sono sempre stato il figlio svogliato, che fa le cose senza pensare, che crea guai, che devono controllare
ogni volta quello che combina”. La perdita del lavoro ha amplificato il loro atteggiamento
nei suoi confronti e i litigi in casa. Anche se lo stanno aiutando dal punto di vista economico, Pietro
afferma che quello che veramente desidererebbe è che gli stessero più vicino dal punto di vista emotivo.
In casa invece c’è una situazione molto tesa che in questo momento gli pesa particolarmente;
quando litigano Pietro riferisce di diventare aggressivo nei toni e, prima che la situazione degeneri,
di uscire di casa, interrompendo ogni possibilità di comunicazione.
Pietro cerca di rimanere il più possibile fuori casa. Attualmente, non ha una relazione affettiva importante
e nemmeno relazioni sentimentali o sessuali. La gran parte della giornata la passa in palestra,
mentre la sera va a giocare a calcio e a basket, a livello amatoriale, con due squadre di amici.
“Fare sport mi piace molto e mi rilassa. Quando litigo con i miei, esco, vado in palestra e sto meglio.
In palestra mi sento valorizzato, tutti mi chiedono consigli perché sanno che sono bravo e a
me fa tanto piacere”.
Sebbene molto provato dall’attuale situazione, Pietro si rivela da subito motivato alla terapia.
Anamnesi soggettiva
Pietro è figlio secondogenito di genitori, entrambi, attualmente, in pensione. È nato in un piccolo
paese, a pochi chilometri dal capoluogo di provincia e ancor oggi abita lì con il padre e la madre,
mentre il fratello è andato a vivere da solo circa dieci anni fa. La madre ha 65 anni e ha lavorato in
passato nel settore degli acquisti per l’estero di un’importante azienda della zona. È grande appassionata
di sport ed è giudice nazionale di nuoto. Il padre ha 77 anni e ha lavorato nella stessa azienda
della moglie, dove si sono conosciuti. È stato per circa quarant’anni nella protezione civile e un
grande amante dello sport. Pietro definisce il padre una persona rigida e di vecchio stampo. È lui a
prendere in casa le decisioni e la madre, nella maggior parte dei casi, lo asseconda. Descrive invece
la madre come una persona più docile, più affettuosa del padre, ma comunque rigida nelle regole. I
rapporti tra i genitori sono sempre stati buoni; tra loro, secondo Pietro, c’è un rapporto di profondo
amore. Il fratello ha 42 anni, sposato con due figli. “Mio fratello – afferma - è sempre stato per i
miei migliore di me, quello che non ha mai dato troppi pensieri. A scuola andava così così, si è
iscritto all’Università ma non l’ha terminata; nonostante questo, nel lavoro si è realizzato”. Definisce
“indifferente” il rapporto con il fratello. “Forse – dichiara - per la differenza d’età (11 anni),
non abbiamo mai avuto chissà che rapporti… da piccoli giocavamo assieme ogni tanto, ma nulla di
più. Anche ora, lui ha la sua vita e io la mia”.
Dalla storia di vita emerge una lunga serie di insuccessi che Pietro ha vissuto, sia a livello scolastico
che lavorativo, a causa dei quali i genitori hanno dimostrato sempre molta insoddisfazione nei
suoi confronti. Dopo aver frequentato le scuole elementari e medie senza esser mai bocciato ma comunque
con difficoltà dovute, secondo quanto riporta, alla poca voglia di studiare, si è iscritto
all’Istituto Tecnico Industriale Statale, nonostante i professori gli avessero consigliato una scuola
meno impegnativa. La scelta è stata fatta da Pietro che non voleva essere considerato un ragazzo
non in grado di affrontare una scuola difficile. Ha ripetuto due volte la classe prima, due volte la seconda
e al terzo anno, all’età di 19 anni, ha deciso di abbandonare la scuola, con grande delusione
dei genitori che desideravano prendesse almeno il diploma. Racconta di non aver mai dato, al tempo,
più di tanto peso alla scuola e di esser stato bocciato semplicemente perché non si impegnava.
Le bocciature non lo preoccupavano, se non per il fatto di dover rendere conto ai genitori
dell’insuccesso scolastico e di sentire le loro continue lamentele. “Non sopportavo – racconta -
quando dicevano che non mi davo da fare, che ero uno scansafatiche e che se continuavo così nella
vita non avrei mai combinato nulla”. A scuola era considerato dai compagni “quello che faceva ridere
tutti, ma anche lo sfaticato che non aveva voglia di studiare”. La sua materia preferita è sempre
stata Educazione Fisica e i suoi passatempi preferiti fare palestra e giocare a calcio. Lo sport è
una grande passione di Pietro: “Ho sempre fatto con grande piacere tanto sport, ottenendo sempre
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uoni risultati”.
Subito dopo aver abbandonato la scuola, ha trovato il suo primo lavoro come operaio, per un
anno, in una fabbrica; successivamente, ha lavorato un anno sempre come operaio in un’altra fabbrica,
poi per due anni in una ditta di impianti elettrici, per tre anni come rappresentante di prodotti
per parrucchiere, un anno come rappresentante di calze e poi, sempre per un anno, come rappresentante
di prodotti di estetica. Pietro afferma che tutti i lavori che ha svolto li ha trovati tramite conoscenze
ed è stato lui a mollarli perché li trovava poco stimolanti (nei primi due casi), o perché il datore
di lavoro non si comportava bene (nel terzo caso e nel caso della vendita di calze), o perché veniva
pagato poco (negli altri due casi). È stato successivamente assunto come rappresentante di
prodotti da banco, a seguito di un annuncio letto su un giornale, per l’azienda farmaceutica dalla
quale è stato poi licenziato. Riferisce che quel lavoro gli piaceva molto perché gli permetteva “di
stare a contatto con farmacisti, con persone studiate, di un certo livello…”. Pietro attribuisce la
causa del licenziamento a fattori esterni.
Nel periodo in cui ha lavorato per l’azienda da cui è stato licenziato, ha deciso di acquistare un appartamento
con un mutuo. La maggior parte dei suoi amici già possedeva una casa propria e desiderava
anche lui poter concretizzare qualcosa di suo. L’acquisto dell’appartamento si è rivelato da subito
un pessimo affare per una serie di lavori di ristrutturazione dello stabile esterno che erano stati
già stabiliti dai condomini e che Pietro non era in grado di sostenere economicamente. Ha dovuto
così vendere l’immobile ed acquistarne subito un altro meno costoso per non perdere il contributo
regionale per la prima casa.
Assessment cognitivo comportamentale
Dall’assessment comportamentale emergono alcune situazioni tipiche che scatenano le reazioni
emotive spiacevoli che sempre più spesso Pietro sperimenta da quando è senza lavoro. Si rilevano,
in particolare, tutte quelle situazioni in cui le persone chiedono informazioni a Pietro sulla sua attuale
situazione lavorativa, lo invitano a darsi da fare, cercano di dargli dei consigli. Di seguito, l’analisi
delle variabili emotive, cognitive, comportamentali e socio-relazionali rilevate.
Variabili emotive
Le emozioni che Pietro sperimenta più frequentemente in questo periodo sono rabbia e tristezza.
La rabbia emerge quando amici o conoscenti gli chiedono informazioni sul lavoro, lo incitano a
darsi da fare o, nel caso dei genitori, lo controllano, gli dicono come dovrebbe comportarsi, gli ricordano
gli insuccessi passati. Le parole dei genitori hanno comunque un forte effetto su di lui, lo
mettono in crisi e lo obbligano a confrontarsi con le sue difficoltà. Alla rabbia segue spesso l’emozione
della tristezza. Pietro sente di “non aver peso”, di non valere quanto gli altri, di essere incapace
e questo gli procura una grande tristezza. L’unica situazione in cui afferma di sentirsi bene è
quando si trova in palestra, o in generale, quando fa sport.
Variabili cognitive
Lo stile attributivo di Pietro è correlato all’insuccesso e nello spiegarsi le avversità ricorre a pensieri
permanenti e pervasivi che favoriscono l’insorgere di esperienze emozionali spiacevoli. I pensieri
permanenti tendono a confermare una sorta di inevitabilità dell’accadimento, avvalorata dalle
esperienze vissute nel passato, che Pietro include nel presente e nel futuro (es. “Non sono stato mai
capace di combinare nulla di buono… è sempre la stessa storia che si ripete…”, “Non sono in grado
di farcela… Non vedo futuro…”). I pensieri predominanti, rilevati nei colloqui e nei diversi ABC
eseguiti in studio, riguardano in generale il confronto sociale, il non essere capace ed il pensare di
non aver peso. Pietro vive, inoltre, ogni preoccupazione espressa da altri nei suoi confronti come un
tentativo di voler mettere in evidenza le sue difficoltà e incapacità.
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Variabili Comportamentali
Pietro tenta di tenere sotto controllo le sue reazioni emotive mediante una strategia di allontanamento
dalle situazioni in cui si sente in difficoltà. È così che, ogniqualvolta le persone affrontano
l’argomento della sua condizione attuale, si allontana alla ricerca di situazioni più gratificanti, evitando
di confrontarsi con gli altri. La maggior parte delle volte va in palestra, luogo in cui si sente
gratificato, valorizzato, in cui riesce ad emergere.
Dalla storia degli insuccessi vissuti si evidenzia, inoltre, come strategia di fronteggiamento l'evitamento
che Pietro mette in atto ogni volta che si trova di fronte a delle difficoltà: ai primi ostacoli
che incontra molla, evitando di affrontare il problema.
Variabili socio – relazionali
Pietro è una persona socievole che ha facilità nel rapportarsi con le persone e lo fa utilizzando una
modalità di interazione che si basa sul “far divertire, sull’essere simpatico e prendere le cose alla
leggera” o, con le ragazze, sulla fisicità, stabilendo per lo più rapporti superficiali e di breve durata.
Se da un lato Pietro utilizza queste sue caratteristiche per relazionarsi agli altri, dall’altro lamenta
di sentirsi apprezzato e cercato solo per questi motivi. Pietro evita di parlare di sé, anche con gli
amici più stretti. Questo gli permette di non essere giudicato per gli aspetti più intimi, ma allo stesso
tempo si rammarica che il giudizio degli altri sia limitato alle sue caratteristiche più frivole. Nonostante
affermi di avere rapporti superficiali con gli amici, ha mantenuto nel tempo lunghi rapporti di
amicizia e gli amici più stretti si sono sempre dimostrati interessati a lui e legati da un profondo sentimento,
aiutandolo anche concretamente nei momenti di difficoltà. Ciò fa pensare che ci siano comunque
altre caratteristiche, oltre alla simpatia, che Pietro possiede e che gli permettono di stabilire
buoni rapporti di amicizia, ma alle quali sembra non dare particolare valore.
Sintesi valutativa
Convergenza degli indici
Le variabili rilevate attraverso il colloquio clinico, l’osservazione, il CBA 2.0, le Scale di Autoefficacia
e gli ABC, evidenziano in Pietro un forte senso di fallimento e un basso livello di autoefficacia.
Ipotesi esplicativa
Per l'eziopatogenesi possiamo far riferimento alle teorizzazioni di Bandura (1997) sull'autoefficacia
e al concetto di impotenza appresa di Seligman (2006).
Bandura definisce l’autoefficacia come l’insieme delle convinzioni che l’individuo possiede nei
confronti delle proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre
determinati risultati (Bandura, 1997). Le convinzioni di autoefficacia influenzano i modi di
pensare, le sfide e le mete che vengono scelte, l’impegno e gli sforzi profusi, i risultati attesi, la perseveranza
di fronte agli ostacoli, il livello di stress e depressione sperimentati nell’affrontare gravose
richieste ambientali e la qualità delle realizzazioni (Caprara, 2001). Secondo Bandura (2000), le
persone con un basso livello di autoefficacia in particolari sfere di attività rifuggono i compiti difficili
in quegli stessi ambiti, hanno aspirazioni ridotte, hanno difficoltà a motivarsi e riducono gli
sforzi o rinunciano velocemente di fronte agli ostacoli. Nelle situazioni difficili indugiano sulle proprie
mancanze, sulle difficoltà del compito e sulle conseguenze avverse dell’insuccesso. Ciò provoca
disagio psicologico e indebolisce ulteriormente i loro sforzi e il loro pensiero analitico, spostando
l’attenzione dalla ricerca del modo migliore per eseguire le attività ai deficit personali e alle possibili
calamità. In effetti, Pietro si trova ad essere in preda a dubbi verso se stesso, ha uno stile attributivo
correlato all’insuccesso e nello spiegarsi le avversità ricorre a pensieri permanenti e pervasivi
che favoriscono l’insorgere di esperienze emozionali spiacevoli, non è in grado di costruire il proprio
contesto lavorativo, di controllarlo e trasformarlo secondo i propri disegni, di fronte alle difficoltà
non persiste nel conseguimento dello scopo e rinuncia.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 93

Secondo Bandura (1986; 1996) le persone possono costruire le proprie convinzioni di efficacia integrando
le informazioni provenienti da quattro diverse fonti e mediante un continuo confronto con
i messaggi inviati da queste. Le quattro fonti riguardano le esperienze passate maturate in riferimento
ai successi e agli insuccessi, le esperienze vicarie relative alla trasmissione di competenze e il
confronto con le prestazioni ottenute dalle altre persone, la persuasione verbale che ci arriva dagli
altri ogni volta che raggiungiamo un successo o un insuccesso e le reazioni fisiologiche percepite
durante lo svolgimento di un compito. Gli insuccessi vissuti da Pietro a partire dal periodo della
scuola, i modelli rappresentati dagli amici, ma anche dai genitori e dal fratello, persone che nella
vita hanno raggiunto determinati obiettivi, ma che Pietro valuta diversi da sé e la persuasione sociale
da parte delle persone significative, non incentrata sull’incoraggiamento, ma sulla preoccupazione
e sul controllo, potrebbero aver indebolito il senso di efficacia di Pietro, consolidando la
convinzione di non essere in possesso di ciò che occorre per riuscire.
Anche il concetto di impotenza appresa di Seligman potrebbe aiutarci a capire come Pietro, soprattutto
in ambito scolastico e durante le esperienze lavorative, abbia imparato gradatamente a non
reagire attivamente alle contrarietà, ad accettare di non essere in grado di reagire e ad evitare le situazioni
non gratificanti.
Pietro è vissuto in un sistema familiare in cui ha imparato a misurare il valore personale non
sull’essere, ma sul fare. Avrebbe così appreso la convinzione secondo la quale una persona vale, è
un membro importante della famiglia, se riesce ed ha successo negli obiettivi che si prefigge. Per
questo, la posta in gioco nel fallimento è per lui molto alta. Nel momento in cui fallisce è in gioco
infatti l’amabilità ed è così che alle prime difficoltà che incontra molla come se volesse di fatto anticipare
il fallimento previsto. L’immagine inoltre che Pietro presenta all’esterno è quella della persona
svogliata, superficiale, che non si impegna nelle cose per mancanza di volontà o interesse. Questo
gli permette di evitare che le persone pensino che sia una persona incapace accettando che pensino
che sia semplicemente una persona svogliata. Questa strategia però, se da un lato gli è funzionale
perché gli permette di tenere lontano il confronto con ciò che per lui significa fallimento, ossia
il fatto di non essere capace, dall’altro gli impedisce di raggiungere gli obiettivi desiderati.
L’intervento psicoterapico
Nel primo percorso psicoterapico realizzato con Pietro ci si è prefissati i seguenti obiettivi:
• obiettivo a breve termine: consolidarsi rispetto al nuovo lavoro trovato dopo alcuni mesi
dall’inizio della terapia
• obiettivo a medio termine: andare a vivere nella nuova casa
• obiettivo a lungo termine: incrementare il livello di autoefficacia negli ambiti in cui è più
deficitario
Per raggiungere tali obiettivi, il trattamento psicoterapico ha previsto più fasi, ciascuna con obiettivi
e tecniche specifiche, articolate in una serie di colloqui nell’arco di circa un intero anno. Fin
dall’inizio, le sedute sono state strutturate in maniera abbastanza standardizzata: una prima parte dedicata
a quanto era avvenuto nella settimana precedente e una seconda parte relativa al raggiungimento
degli obiettivi stabiliti per quella specifica fase. Tale struttura mi sembra abbia rappresentato,
soprattutto all’inizio, un elemento di sicurezza agli occhi di Pietro, ma anche un esempio di come si
lavora per obiettivi in modo organizzato.
Nella prima fase del trattamento psicoterapico ho aiutato Pietro ad esplorare la storia dei suoi fallimenti
e successi, ponendo particolare attenzione allo stile esplicativo, attraverso il “gioco della
torta” di Seligman (2006), al fine di promuovere una maggiore consapevolezza delle proprie modalità
attributive e sollecitarne successivamente la modifica in funzione di una maggiore controllabilità
degli eventi. In generale, Pietro possiede un buon senso di autoefficacia nell’ambito sportivo e
valuta le capacità, in questo campo, abilità acquisibili che si sviluppano con l’impegno. Gli insuccessi
riflettono, secondo lui, una mancanza di esperienza e tale inesperienza può essere compensata
con l’impegno. Al contrario, nel campo scolastico e lavorativo, Pietro concepisce la qualità delle
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proprie prestazioni come qualcosa di incontrollabile, dovuto a capacità che considera caratteristiche
stabili, ostacolando la convinzione di poter sviluppare competenze per riuscire nelle diverse situazioni.
Ho cercato così di farlo riflettere su questi aspetti, per aiutarlo a vedere le cose secondo le diverse
prospettive. Il confronto tra i diversi ambiti gli ha permesso di considerare i diversi stili attributivi
utilizzati nella loro specificità, di capire meglio come funziona, ma anche di prendere consapevolezza
di come l’utilizzo nell’ambito sportivo di uno stile esplicativo diverso abbia contribuito a
fargli ottenere determinati risultati.
In seguito, ho focalizzato il lavoro sulla modifica delle idee disfunzionali, addestrandolo dapprima
a prestare attenzione ai dialoghi interni nelle situazioni per lui critiche, attraverso il modello ABC,
per poi aiutarlo a costruire pensieri alternativi, principalmente attraverso le tecniche di ristrutturazione
cognitiva delle interpretazioni e il ricorso al pensiero utile. I pensieri di Pietro riflettono
spiegazioni permanenti, pervasive e personalizzate che, oltre a favorire l’insorgere di esperienze
emozionali spiacevoli, limitano la possibilità di trovare soluzioni alle avversità. Abbiamo così
dedicato diversi colloqui a trasformare i pensieri permanenti e pervasivi in transitori e circoscritti e
ad attribuire la responsabilità delle sue difficoltà a comportamenti specifici che possono essere modificati,
più che a fattori interni legati ad elementi consistenti immodificabili.
Una notevole parte del lavoro psicoterapico è stata inoltre dedicata al cercare di aiutare Pietro nel
mantenere il nuovo lavoro di rappresentanza di prodotti cosmetici per farmacie e parafarmacie, trovato
alcuni mesi dopo l’inizio della terapia, in considerazione anche di una serie di problematiche,
soprattutto economiche, che da subito lo hanno messo in difficoltà e che mi hanno fatto temere che
anche in questa circostanza Pietro mettesse in atto la sua solita strategia di fronteggiamento. Abbiamo
così lavorato sul considerare l’attuale situazione economica come temporanea e a darsi un tempo
in cui cercare di organizzare tutte le risorse disponibili per affrontarla, attraverso un problem solving
proattivo. Inoltre, abbiamo anche lavorato sull’organizzazione e programmazione del lavoro,
ambito deficitario per Pietro, attraverso indicazioni concrete su come fare per “fare bene”. Il tutto
per accrescere le sue possibilità di controllo degli eventi. Pietro, inizialmente, si lamentava di aver
sempre fatto le cose senza ponderare, accontentandosi di realizzare obiettivi veloci, vivendo alla
giornata. Il lavoro terapeutico gli ha permesso di agire diversamente, considerando le strategie e le
risorse che poteva mettere in pratica per raggiungere determinati obiettivi. Ho cercato inoltre di aiutare
Pietro a considerare le abilità che possedeva in quel momento come ad un livello transitorio inserito
in un processo di crescita, non come un indice delle sue capacità innate e stabili.
Quando, prima del percorso intrapreso, avevo chiesto a Pietro che punteggio dava, da 1 a 10, rispetto
alla possibilità di mantenere il nuovo lavoro, la sua risposta era stata “4”. Temeva di non riuscire
a sostenere le varie spese e di non vendere abbastanza. Dopo il percorso realizzato, alla stessa
domanda ha risposto “7, forse qualcosina anche in più”, sostenendo di poter gestire le situazioni facendo
leva sull’organizzazione, sulle nuove strategie acquisite, sull’impegno, ma anche su alcune
risorse che iniziava a riconoscersi, grazie al percorso realizzato anche in quest’ambito, e che ha scoperto
essere molto utili nel suo lavoro, come le capacità sociali.
Nell’autostima ci sono due elementi importanti, il “sentirsi bene” e il “fare bene”. Ho ritenuto fosse
essenziale con Pietro lavorare su entrambi gli aspetti, considerando il fatto che una persona si
sente bene anche nella misura in cui riesce nelle cose che si propone. Più la persona “fa bene”, raggiunge
determinati obiettivi, più si sente forte nel suo senso di efficacia e aumenta di conseguenza
anche l’autostima. Contemporaneamente, abbiamo comunque dedicato una parte del percorso al lavoro
sulle risorse personali, al passaggio dall’idea di inferiorità a quella di diversità rispetto al confronto
sociale e al considerare il valore personale a prescindere dal “saper fare”.
A conclusione del trattamento terapeutico, tutti gli obiettivi stabiliti con Pietro sono stati raggiunti.
Nonostante ci siano state tante situazioni particolarmente critiche, le ha affrontate, si è concentrato
di più sulle opportunità disponibili che sui rischi da evitare come faceva in passato, si è organizzato,
ha utilizzato strategie di problem solving, ha perseverato non abbattendosi alle prime difficoltà. Anche
il rapporto con i genitori è migliorato. Pietro ha riportato quanto inizialmente si sbagliasse pen-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 95

sando che la colpa di tutte le sue problematiche fosse dovuta ai genitori, al loro modo di essere critici
e intrusivi nei suoi confronti. Mentre all’inizio il pensiero di Pietro era del tipo “I miei genitori
mi stanno troppo addosso e questo mi crea difficoltà”, successivamente, è come se l’avesse ridefinito
in “Con le mie paure e difficoltà ho fatto in modo che i miei genitori si preoccupassero e mi stessero
addosso e nella misura in cui io riesco a gestirmi meglio, anche la loro pressione diminuisce”,
passando così da un locus of control esterno ad uno di tipo interno. Pietro ha sostenuto di essere più
positivo per il futuro, riportando di poter affrontare le diverse situazioni che si presenteranno, grazie
al ricorso alle sue capacità e alle strategie acquisite. Il suo atteggiamento verso la realtà è cambiato.
“Anche se ci potranno ancora essere situazioni complicate – ha affermato - so che le posso affrontare,
indipendentemente dai risultati che ci potranno essere. So che le cose non possono andare
sempre bene, ma mi fanno molta meno paura ora”.
La relazione terapeutica
Con Pietro si è creata una relazione basata sull’apertura e sulla collaborazione. È stata la sua forte
motivazione che mi ha fatto capire che con lui si sarebbe potuto lavorare bene. Nonostante questo,
ho subito pensato quanto il percorso potesse comunque essere faticoso per una persona poco avvezza
a parlare di sé, attenta al giudizio degli altri e a preservare la propria immagine. Perciò, da subito,
ho posto particolare attenzione alla creazione di una collaborazione terapeutica e di una buona piattaforma
comunicativa, attraverso uno stile terapeutico non valutativo, non critico e giudicante. Non
nego che inizialmente ero preoccupata che Pietro mettesse in pratica anche nei confronti della terapia
le stesse modalità che utilizzava nelle situazioni difficili da affrontare; temevo che non si impegnasse,
che non fosse costante, ma non è stato così. Ciò nonostante, durante i primi colloqui, Pietro
cercava di giustificare certi suoi comportamenti e si irrigidiva dinnanzi a certe mie domande. Se di
primo impatto questo suo comportamento mi aveva creato delle perplessità, ho poi capito che poteva
essermi molto utile per comprendere le sue modalità.
Il setting terapeutico ha rappresentato un’instancabile “palestra”, per utilizzare una metafora a lui
familiare, entro cui Pietro ha imparato a confrontarsi e nella quale ha sperimentato nuove modalità
per affrontare le situazioni. Il mio ruolo ha funzionato come modello per Pietro, trasmettendogli conoscenze,
abilità e strategie efficaci per gestire le situazioni problematiche. Confrontarsi con modelli
che insegnano modi di agire migliori può infatti elevare l’autoefficacia di individui che hanno subito
molte esperienze attestanti la loro inefficacia (Bandura, 1977).
Oltre al modeling, anche la persuasione verbale nella relazione terapeutica è stata uno strumento
molto importante per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Ho sempre cercato di rimandargli il
fatto che credevo nelle sue capacità di apprendere modalità adeguate al cambiamento, di dargli
feedback positivi in riferimento ai successi che man mano, anche se piccoli, otteneva, più che ricordargli
la distanza da colmare, facendo riferimento a indicatori oggettivi. Ero tra l’altro consapevole
del fatto che per lui rappresentavo un persuasore efficace, competente, che conosceva bene le difficoltà
che doveva affrontare e la sua situazione e questo ha facilitato il mio compito.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 97

UNA LENTE CHE METTE A FUOCO LE EMOZIONI.
Di Magda Cesi, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, mail: magda30l@hotmail.com
Cenni identificativi della paziente
Alessia ha 31 anni, è sposata da 6 anni ed ha un bambino di 4 anni. È diplomata in ragioneria e
lavora presso l'agenzia di pompe funebri di famiglia; inoltre il pomeriggio fa la commessa in un negozio
di torrefazione.
Motivo della richiesta
Il problema portato in consultazione è costituito da una serie di sintomi che Alessia avverte da alcune
settimane quali irritabilità, mancanza del respiro, diarrea, tremori, palpitazioni, stanchezza,
tono d'umore basso e sensi di colpa. Questi sintomi vengono collegati alla difficoltà di coppia che
sta attraversando con suo marito: da 3 mesi ha deciso di allontanarlo da casa per comportamenti
controllanti messi in atto verso di lei e l'uso occasionale di cocaina. Gli vengono anche attribuiti
comportamenti irresponsabili verso il nucleo famigliare: a Dicembre avrebbe portato con sé di notte
il figlio di 4 anni ad un “party”, dove si sarebbe fatto uso di cocaina. Alessia sostiene che ciò che
più la fa star male è il sentirsi bloccata nel decidere se lasciare definitivamente il partner o
continuare ed aspettare un suo cambiamento. Prova inoltre un senso di fallimento e di colpa
pensando alla sua storia in rapporto all'unità famigliare della sua famiglia d'origine.
Anamnesi
Alessia riferisce che con i suoi ha avuto da sempre un rapporto di affetto e comprensione anche se
con il papà c'è stata una forma di “amore ed odio”, soprattutto nel periodo pre-puberale e dell'adolescenza,
in cui questi dava regole ferree riguardo gli orari delle uscite e dei luoghi da frequentare,
mentre la mamma “la copriva” aiutandola a sviare le regole ed essendole complice, “quasi un'amica”.
Il papà faceva l'imbianchino durante la sua prima infanzia, ma successivamente, quando Alessia
aveva 17 anni, i genitori hanno deciso di aprire un' attività in proprio, un'agenzia di onoranze funebri.
Inoltre dagli 11 anni d' età, nella sua educazione, hanno avuto un ruolo sempre più importante
i nonni, soprattutto la nonna materna alla quale Alessia era molto legata e con la quale trascorreva
molto tempo dopo la scuola. Ha un ricordo di quando aveva 10 anni: suo padre in macchina al ritorno
da scuola le dice “così io e tua mamma non possiamo andare avanti, ci sono problemi economici
a casa, i soldi non bastano… stiamo pensando di separarci... io faccio l'imbianchino non è una colpa!”.
Alessia ricorda di essere rimasta in silenzio, e di aver raccontato l'episodio quel pomeriggio
stesso alla nonna materna che l'aveva confortata, dicendole che non sarebbe accaduto nulla. Infatti
sino ai suoi 17 anni sono stati supportati economicamente dai nonni materni, grazie al cui aiuto finanziario
poterono aprirei una attività di onoranze funebri.
Mi racconta poi come ha conosciuto Manuel, suo marito: lei aveva 22 anni e lui 24, M. ha preso
l'iniziativa invitandola a cena fuori e da quel giorno “sono diventati inseparabili”. Ricorda che con
lui, in quel periodo, ha vissuto una vita fatta di divertimenti, ballo, spensierata. Le piaceva molto il
suo spirito libero: lui amava viaggiare e aveva lavorato 1 anno e mezzo a Londra. Altro aspetto della
vita di Manuel che A. dice di “aver idealizzato” in passato, facendosi coinvolgere, era l'uso frequente
da parte del marito di droghe quali hashish e marijuana.
Quando ha iniziato a frequentarlo al ritorno da Londra, i suoi genitori lo hanno accettato ed accolto
dopo poco in famiglia e nella propria azienda, pur sapendo che in passato aveva fatto uso di sostanze.
Alessia mi dice che ancora oggi di suo marito apprezza l' essere un gran lavoratore e il grande attaccamento
nei confronti del figlio. Anche riguardo alla sua vita lavorativa, mi riferisce di essere
soddisfatta. I cambiamenti che vorrebbe da Manuel riguardano l'essere più presente in casa dopo il
lavoro, più gioioso e più socievole con gli altri. Un tempo giocava a calcetto e aveva una vita socia-
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le più sana. E in generale una vita più sana.
Alcune schede auto-osservative.
Dal terzo incontro abbiamo iniziamo ad analizzare insieme gli episodi in cui sperimenta tristezza e
rabbia, le uniche emozioni sin ora riportate, oltre alle sensazioni fisiche da lei elencate nel corso
della valutazione
Iniziamo con l'emozione la tristezza:
Antecedenti Beliefs Conseguenti
Al mattino, a lavoro in agen- Loro non ci sono più, mi man- Sento freddo, ho tremori, sento
zia di famiglia, guardo la foto ca la nonna!... la mia famiglia le lacrime che mi bagnano il viso
dei miei nonni sulla parete da- non c'è più... un fallimento
vanti a me
Poi le chiedo di riportarmi un episodio in cui prova rabbia.
Antecedenti Beliefs Conseguenti
La sera, davanti alla televisione
Non si sta insieme come un
tempo... siamo due estranei... la
famiglia perfetta... quale famiglia
perfetta? Che fallimento!
Sento un nodo alla gola, mi si
stringe il petto, mi fa male, mi
manca il respiro... Ho tanta rabbia
verso Manuel, verso me
stessa... sono triste
Altri episodi tipici in cui sperimenta rabbia verso suo marito sono come il seguente:
Antecedenti Beliefs Conseguenti
Sto a cena con mio marito a
casa.
Gli propongo di vendere la
casa per la quale abbiamo contratto
il mutuo insieme e di
prenderci il ricavato dalla differenza...
Mi risponde che non vuole
vendere per il legame affettivo e
perché rimarrà a nostro figlio...
Lo sapevo... non vuole assumersi
le sue responsabilità…
non cambierà mai... ed io che
ho riprovato stasera a ristabilire
un contatto...
Sintesi valutativa ed ipotesi esplicativa
Tensione alle gambe, blocco
allo stomaco, mancanza di fiato...
Sono arrabbiata e frustrata!
Gli elementi evidenziati dai colloqui, dalla siglatura del CBA 2.0 e dal MMPI-2 mostrano un accordo
su aspetti che caratterizzano lo stato psico-emotivo e la sintomatologia neurovegetativa sperimentata
dalla paziente.
Questi sono: la presenza di una sintomatologia ansioso-depressiva sub-clinica come reazione alle
situazioni configuratesi come stressor multipli, avvenuti in breve successione nella vita della paziente:
la nascita del bambino, il lutto dei nonni a distanza di 24 ore l'uno dall'altro, l'arresto del fratello
minore per problemi di droga e la crisi relazionale col marito. Quest'ultimo evento è stato definito
dalla paziente la “goccia che ha fatto traboccare il vaso”.
Si è rilevata la presenza di sintomi di tipo neurovegetativo come astenia, sudorazione, tremori,
blocco allo stomaco, debolezza, diarrea.
Per quanto concerne le variabili cognitive, è presente la tendenza ad evitare pensieri introspettivi e
a focalizzare piuttosto l'attenzione su eventi ed aspetti esterni e concreti.
Sono presenti pensieri che si configurano come “preoccupazioni pre-addormentamento”, quali la
gestione economica del menage famigliare o cosa fare della sua relazione senza far soffrire nessuno.
Tra le variabili emotive emerge una scarsa elaborazione interna ed espressione dei propri vissuti
emozionali, con un uso ipertrofico di uno stile di coping attivo e distraction-oriented.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 99

Come risorsa emotiva viene acquisita, mediante auto-osservazione, la capacità di riconoscimento
delle emozioni sperimentate, per lo più emozioni di tristezza e rabbia.
Tra le variabili comportamentali si rilevano uno stile comunicativo di tipo aggressivo con il partner,
una centratura su aspetti concreti e pragmatici in situazioni a valenza emozionale e l'impegno in
attività distraenti, nel tentativo di fronteggiare così le situazioni frustranti, che richiederebbero
invece l'elaborazione di aspetti cognitivo-emotivi.
Ipotesi esplicativa:
È ipotizzabile che la sintomatologia ansioso-depressiva presentata da Alessia e la difficoltà decisionale
sul rapporto col marito, verso cui esibisce spesso comportamenti originati dall'emozione di
rabbia (ad esempio, comunicazioni aggressive) siano legati ad una condizione emozionale creatasi a
seguito di una serie di stressor occorsi, nella vita della paziente, in modo consecutivo e ravvicinato
nel tempo.
La nascita del figlio (mutamento di ruolo) e dopo un mese il lutto per entrambi i nonni materni (in
particolare la morte della nonna è stato traumatico in quanto avvenimento del tutto improvviso e
inaspettato). Si aggiunge la possibilità di un'ulteriore separazione, quella dal marito, con cui ora è in
crisi. Inoltre nel periodo in cui è venuta in terapia, il fratello minore, al quale è molto legata, è agli
arresti domiciliari per detenzione e spaccio di marijuana.
Per tanto si ipotizza si sia creata una vulnerabilità a questa tipologia di stressor (lutti, separazioni,
perdite, intese anche come delusioni di aspettative). Negli studi e nelle ricerche sugli eventi
stressanti (bibliografia) si parla anche di “effetto kindling” o di “scoppio all'ultimo stressor”, in cui
le capacità di fronteggiare l'evento stressante subirebbero un “cortocircuito” ed un esaurimento di
efficacia (Grillon, Soutwick, Charney, 1996; Sgarro, 2008). È da evidenziare anche il fatto che Alessia
fa risalire l'inizio dei dissidi coniugali ed il suo divenire sempre più intollerante verso gli atteggiamenti
disturbanti del marito (uscite serali, atteggiamento controllante verso di lei con telefonate
frequenti anche a lavoro; assunzione abbondante di alcool durante la giornata) proprio al 2006, anno
della morte dei nonni.
Riguardo la morte della nonna, Alessia ne evidenzia il carattere improvviso e fulmineo, sottolineando
che a quella del nonno, invece, era “preparata” da tempo. Riferisce poi sensi di colpa e rabbia
per non averli potuti piangere in quei giorni così tristi “anche per colpa del marito” . È ipotizzabile
quindi la presenza di un lutto non elaborato, anche per uso massiccio di uno stile di coping centrato
sul problema e “distraction-focused”, in base al quale Alessia non si concederebbe lo spazio
per sperimentare e comprendere i vissuti emotivi. Infatti anche nella situazione conflittuale con il
marito, Alessia riferisce di preoccuparsi prevalentemente della gestione economica della casa e dei
pagamenti da fare (per i quali il marito non sarebbe puntuale).
Rispetto alla gestione del rapporto coniugale è probabile che Alessia riproponga un copione famigliare,
un modello appreso dai suoi genitori, centrati su aspetti concreti anziché affettivi. Alessia infatti
riferisce che i genitori si stavano per lasciare quando lei aveva 10 anni per problemi economici
e il tutto si è risolto quando i genitori hanno deciso di aprire una propria attività, un'impresa di onoranze
funebri che è andata bene e che anche ora dà buoni proventi. Ad acuire i problemi di coppia
tra Alessia e suo marito c'è spesso una comunicazione di tipo aggressivo e unicamente centrata, da
parte di lei, su aspetti economici e pratici.
Trattamento psicoterapico
• Obiettivi a breve termine: favorire la consapevolezza del legame tra eventi-pensieriemozioni/sensazioni/comportamenti
e il riconoscimento delle proprie emozioni
• Obiettivi a medio termine: favorire il riconoscimento delle proprie emozioni legate alle
situazioni succedutesi nel tempo in modo più o meno ravvicinato, che hanno costituito per
Alessia un carico di stress elevato, sino ad ora ha espresso prevalentemente attraverso
sintomatologia fisica. Favorire quindi la scoperta di nuovi significati delle vicende della
100 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

propria vita, permettendo il passaggio da uno stato di confusione ad uno più ordinato, con
un'attenzione particolare alla possibile elaborazione del lutto, bloccata, e collegata ancora
oggi a vissuti di colpa (verso i nonni) e rabbia (verso il marito). Favorire la conoscenza e
l'utilizzo, adeguato in determinate situazioni, di un coping emotivo. Modifica delle
convinzioni irrazionali circa il tema di colpa per il “fallimento coniugale” nonché
dell'aspettativa di avere “una famiglia perfetta”. Favorire nei confronti del marito una comunicazione
efficace, espressiva, in sostituzione di quella aggressiva
• Obiettivi a lungo termine: favorire il processo decisionale di Alessia attraverso il
riconoscimento dei suoi bisogni e vissuti emozionali
Strategie e tecniche utilizzate
Auto-osservazione delle emozioni riportate; psicoeducazione sugli stili di coping ed loro adeguato
utilizzo in base alle diverse situazioni; tecniche di rilassamento; tecnica dell'Espressione Emozionale
Scritta sull'evento traumatico ed inaspettato della morte della nonna materna; ristrutturazione cognitiva;
training su alcune abilità di comunicazione efficace, espressiva, quali saper ascoltare l'altro,
incoraggiandolo a parlare, e saper esprimere le proprie opinioni ed emozioni; analisi e rafforzamento
del processo decisionale inerente il rapporto di coppia; strategia di ricostruzione narrativa degli
eventi stressanti, vissuti da Alessia prevalentemente a livello fisico.
Fase iniziale del processo terapeutico
L'assessment, fase iniziale del processo valutativo e terapeutico, ha compreso 4 incontri in cui
hanno avuto luogo: l'accoglienza, la definizione del problema, il contratto terapeutico con la definizione
delle motivazioni al cambiamento, la valutazione delle risorse e delle vulnerabilità di Alessia,
mediante colloqui e somministrazione dei test.
Sono seguite altre 5 sedute in cui abbiamo concordato con Alessia di cercare di capire da dove
prendessero origine i sintomi fisici che lei ha sperimenta in questo periodo di vita critico, caratterizzato
dalla crisi relazionale col marito. Il mio obiettivo era far sì che Alessia potesse dare un nome
ai suoi sintomi, riuscendo a riconoscere e ad esprimere ciò che stava vivendo a livello emozionale,
aumentando così la sua consapevolezza riguardo al legame tra eventi-pensieriemozioni/sensazioni/comportamenti.
Dopo un primo intervento di psico-educazione sulle emozioni di base ed i loro correlati neurofisiologici
con i rispettivi antecedenti situazionali scatenanti, abbiamo cominciato in seduta ad eseguire
insieme auto-osservazioni sulle situazioni in cui Alessia sperimenta malessere.
È apparso da subito evidente come fosse mancato ad Alessia lo spazio per riconoscere e dare un
nome alle emozioni, vissute prevalentemente sotto forma di sensazioni fisiche. L'apprendimento è
rapido e già in fase di assessment è in grado di riconoscere ciò che le accade la sera, a fine giornata,
quando “cala il sipario”: usando una sua espressione, sente un misto di rabbia e tristezza come si
evince dai suoi protocolli iniziali.
Fase intermedia del processo terapeutico
Alessia continua ad auto-osservare le emozioni ripercorrendo adesso gli eventi stressanti che ha
vissuto sino ad ora (nascita del figlio, morte dei nonni, crisi coniugale, arresto del fratello) e cercando
di trovare possibili collegamenti con i suoi vissuti interiori attuali ed i pensieri che ha oggi rispetto
ad essi. Dall'analisi degli antecedenti appare evidente come il “materiale emozionale”, pensieri
per lo più a contenuto spiacevole, emergano e trovino spazio tutti la sera, sotto forma di preoccupazioni
pre-addormentamento, quando è sola e non ha più nulla da fare per “evitare di pensare e
di sentire”.
Ho proceduto con un intervento di psico-educazione centrato sui diversi stili di coping attuabili ed
adeguati in base al tipo di situazione da affrontare, distinguendoli nei due tipi fondamentali,
“problem oriented e emotion oriented” (Lazarus, Folkman, 1984). Ho fatto inoltre riflettere Alessia
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 101

sul fatto che, con il lavoro svolto, ci siamo occupate di potenziare uno stile di coping centrato sulle
emozioni, a seguito del quale ha constatato dei miglioramenti e maggior benessere psicofisico. E'
stata discussa l'ipotesi che la tendenza a focalizzarsi sulla gestione pratica delle situazioni di vita,
anche quelle implicanti l'affettività, potesse derivare dall'apprendimento di un modello famigliare e
Alessia ha notato che, anche rispetto alla situazione conflittuale col marito, i suoi le hanno ripetuto
più volte che in fondo Manuel è un gran lavoratore, “lavora in famiglia... dagli tempo e tutto si
sistemerà”, senza chiederle come lei si senta, cosa stia provando e cosa voglia fare realmente in
quella situazione.
La paziente, piangendo, rievoca la morte della nonna, e nota che non ha pianto in quei giorni così
tristi e sconvolgenti, impegnata come era nell'accudire il bambino che aveva solo un mese, mentre il
marito le ripeteva che “erano anziani, lascia stare e pensa a nostro figlio”. Le propongo così un
ulteriore strumento per esprimere e riflettere sui suoi vissuti interiori riguardo a questo evento,
l'Espressione Emozionale Scritta (Lo Iacono, 2005; Smyth, 1998). Alessia si mostra disponibile a
scriverla a casa nei giorni successivi, prima del prossimo incontro.
Durante queste sedute, propongo ad Alessia anche degli esercizi comportamentali in cui lei possa
utilizzare ciò che ha appreso sino ad ora mediante il nostro lavoro sulle emozioni, ossia focalizzarsi
durante gli incontri con Manuel su ciò che lei sente, esprimendogli i suoi vissuti, i suoi pensieri, tralasciando
gli aspetti concreti della situazione famigliare (pagamenti, casa, mutuo...). E abbiamo
verificato quanto fosse importante e fruttuoso con Manuel portare avanti i propri punti di vista e le
proprie emozioni attraverso l'uso di “messaggi-io” (comunicazione espressiva, di qualità) (Becciu,
Colasanti, 2000), in cui si mettono in risalto i propri vissuti, riportando dei fatti concreti a loro supporto,
senza colpevolizzare l'altro.
Un altro aspetto che abbiamo cercato di potenziare è stata la capacità di ascolto attivo dell'altro, in
questo caso Manuel, permettendo a questi di esprimere il suo punto di vista ed i suoi vissuti con
l'uso, da parte di Alessia, di abilità quali parafrasi del messaggio ricevuto.
Grazie agli incontri riusciti, in cui Alessia ha esternato a Manuel tutto ciò che ha vissuto durante
gli eventi spiacevoli accaduti negli ultimi anni, ha potuto ritrovare l'abbraccio di suo marito, che ha
definito “accogliente, protettivo”, come non riusciva più a ricordare.
Fase finale del processo terapeutico
Per aiutare Alessia a capire cosa realmente volesse fare del suo rapporto con Manuel, di cui adesso
riusciva ad apprezzare la maggior comprensione ed il maggior affetto, ho lavorato con lei su 2
fronti. Da un lato, è stata favorita la ristrutturazione cognitiva di alcune convinzioni irrazionali
emerse dai protocolli auto-osservativi: l'idea del fallimento per la separazione dal marito collegata
al mito della “famiglia perfetta”, con le conseguenti rappresentazioni di biasimo e giudizio negativo
da parte di altri significativi che si traducevano in un un Dialogo Interno disfunzionale, in cui lei
stessa si giudicava negativamente, “sono un fallimento se adesso c'è questa crisi famigliare... se poi
ci separassimo!... Chissà che penserebbero i nonni, i miei, sono un fallimento per loro”. Dall'altro
lato ci siamo centrate proprio sul potenziamento diretto del processo decisionale, attraverso una
meta-riflessione sulle scelte possibili e sulle conseguenze nonché sui suoi bisogni, vissuti e desideri.
Ho messo in atto una psico-educazione sul processo decisionale (Aquilar et al., 2005) indicandone
le sue fasi (di valutazione delle alternative, di decisione, di scelta di un comportamento/modifica
ambientale) e le variabili da usare in ciascuna di esse per giungere alla fase finale di scelta ed intervento
sull'ambiente.
Alessia arriva a dire che adesso, guardandosi dentro, vede che c'è del bene per suo marito e ancora
della stima; è decisa a chiedergli dei cambiamenti, non per “valutarlo” come diceva in passato, ma
per rinsaldare la loro relazione, alla quale tiene veramente.
Così nelle successive 3 sedute, alla mia domanda di come Manuel abbia accolto le sue richieste, la
paziente mi dice positivamente, con comprensione e, a livello concreto, non ha più comportamenti
di controllo verso di lei, le lascia puntualmente i soldi per i pagamenti, ha ripreso un giro di amici
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che Alessia definisce “sano”, cioè “gli amici del calcetto”, con i quali si vede ogni lunedì e giovedì
per una partita. Ha anche comprato dei biglietti aerei per andare a Parigi, ad Eurodisney.
Alessia ora si sente più serena, talora felice: concordiamo di vederci fra 3 mesi, a Dicembre, per
verificare come stiano procedendo le cose e come stia lei.
Relazione terapeutica
L'alleanza terapeutica con Alessia si è stabilita già dai primi incontri, quando ha trovato per la prima
volta spazio per prendere coscienza delle sue emozioni, per esprimerle, provandone da subito
sollievo e motivandosi così sempre più a lavorare per vedere sotto una nuova luce i problemi portati
in terapia, che inizialmente si esprimevano per lo più in termini di sintomi fisici (tremore, sudorazioni,
irrequietezza, astenia, diarrea, mancanza di respiro). Alessia ha quindi svolto gli homework
con costanza e regolarità.
Follow up a 3 e 6 mesi
Nel primo follow up, Alessia mi conferma che il suo rapporto di coppia va veramente bene, il marito
ha una vita più regolare e sana (non esce più spesso la sera, ha mantenuto amicizie buone).
È appagata dalla sua situazione di vita attuale in cui, oltre al lavoro, ha altre attività piacevoli,
come uscire il venerdì sera per una pizza “tra donne”. Ha anche iniziato un corso di sub (lei che
aveva paura dell'acqua profonda!).
Nel secondo follow up, Alessia mi riporta un avvenimento spiacevole, la mamma ha avuto una
ischemia cardiovascolare. Mi riferisce di aver avuto tutto il supporto di Manuel, che ha badato al
bambino, in quei giorni, in cui lei era in ospedale. Le chiedo cosa fosse accaduto in lei e mi risponde
che ha esternato a Manuel i suoi bisogni e le sue emozioni di tristezza e paura: è bastato questo
per essere aiutata dal suo compagno e ciò l'ha fatta sentire più serena e forte.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 103

LA TERAPIA CHE ACCAREZZA LA PANCIA.
Di Marisa Micucci, psicologa, psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, socio CRP, libera professionista,
mail: marisa.mic@libero.it. Aree di specializzazione: tossicodipendenze, disturbi d'ansia, disturbi dell'umore e di
donne vittime di violenza.
Vedo Francesca per la prima volta il 2 ottobre. La terapia durerà circa 1 anno, con incontri settimanali
di un’ora ciascuno. I follow up sono stati effettuati a 3 e a 6 mesi.
Francesca è una bella ragazza di 24 anni. Vive con la famiglia, composta da padre, madre, un fratello
di anni 23 e una sorella di anni 21. Lavora nella società familiare. Da circa 3 anni ha una relazione
sentimentale, ed ora è in procinto di iniziare una convivenza.
Alla mia domanda sul motivo per cui si è rivolta a me riferisce:
• Umore depresso: dice di essere “molto depressa”, è sempre triste, ha voglia di piangere,
non ha voglia di parlare con nessuno. E’ molto preoccupata per questo suo stato d’animo,
teme di non riuscire ad uscirne
• Problemi relazionali e sessuali: riferisce che il suo ragazzo non ha più le attenzioni di una
volta, è diventato abitudinario, sembra che dia il rapporto per scontato. I rapporti sessuali
sono meno frequenti, lui ha iniziato a soffrire di eiaculazione precoce e lei non riesce a raggiungere
l’orgasmo. E’ preoccupata perché stanno facendo i lavori a casa per iniziare la convivenza
ma ora non è più convinta della sua scelta
• Problemi con la futura suocera: si lamenta del fatto che la futura suocera, che abita sopra
alla loro futura casa, è invadente e mette bocca su tutte le loro decisioni
• Alti livelli di rabbia: dice di essere molto arrabbiata e riferisce che, in quest’ultimo periodo,
le è già capitato di perdere le staffe e di fare delle scenate in famiglia
• Ansia nelle relazioni sociali: dice di non sentirsi a proprio agio con gli altri e che spesso
non si sente considerata
• Ansia nell’affrontare il lavoro: lamenta difficoltà a gestire la giornata lavorativa e i rapporti
con i colleghi, alcuni di questi suoi familiari. Ha paura di sbagliare e di ricevere commenti
negativi da parte del padre e dei clienti
• Preoccupazione per i genitori: dice di essere molto preoccupata per la madre che si trascura
a livello di salute e lavora molto, e per il padre. Pensa al fatto che stanno invecchiando e
teme per la loro salute.
Assessment
Alla mia domanda su cosa la preoccupi maggiormente, fra tutti problemi che mi ha riportato,
Francesca risponde che è il suo umore “depresso”, di conseguenza, nell’intervista di assessment
(Sanavio, 2004), decido di focalizzarmi sul suo abbassamento di umore. Riferisce che il tutto inizia
quando è molto stanca o quando inizia a pensare al ragazzo, alla nuova casa, alla suocera, al lavoro,
ai genitori che stanno invecchiando… e si dice: “Ma chi me lo ha fatto fare!!! Io ci provo a fare tutto,
ma forse non sono in grado, non sono capace!”. Questo pensiero è riferito soprattutto al lavoro.
Il pensiero è accompagnato dall’immagine di un ipotetico nuovo negozio che desidera aprire. Nel
mentre pensa che sarebbe stato più sensato se avesse seguito una scuola appropriata o se per lo
meno avesse fatto una cosa per volta. A questo punto, quando si trova a lavoro, se può si allontana e
rimanda quello che deve fare, altrimenti continua a lavorare e si dice che tanto per adesso non può
fare niente e diventa triste e demoralizzata. Per tutto il tempo persiste sempre l’immagine del locale
desiderato. Il pensiero di non lavorare tranquillamente come in teoria potrebbe la fa innervosire e
deprimere ulteriormente. Quando si sente depressa non le va di fare niente: non le va di uscire, né di
parlare, le passa l’appetito, diventa apatica, non cura la sua persona e se ne sta in silenzio. Sta peggio
il fine settimana, quando sente come un peso allo stomaco. Sta meglio il lunedì-martedì perché
lavora e quindi ci pensa meno, o quando si distrae in mezzo agli amici oppure quando, dopo un bel
bagno caldo, si corica sul letto e non c’è nessuno che la disturba.
104 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

Ricorda di aver sempre avuto fin da piccola questi momenti di tristezza, anche se era una bambina
vivace. Da quando sta male ha l’impressione di non riuscire ad occuparsi di tutto e di trascurare le
cose. Fino ad ora ha cercato di trovare le soluzioni ai diversi problemi: quando le decisioni dipendono
da lei le prende facilmente e risolve il problema con successo, ma quando il problema coinvolge
anche altre persone e propone la soluzione, dice di non venir mai ascoltata e di sentirsi una fallita.
Pensa che quando sarà andata via di casa i familiari capiranno che non è capricciosa e che è una
persona matura e valida. Pensa che questo stato d’animo dipenda da ciò che ha vissuto in passato. I
suoi genitori erano permissivi su cose che forse, dice, avrebbero dovuto impedirle ed erano oppressivi
quando invece avrebbero dovuto lasciarla libera di provare. Forse, pensa, dipende anche dal suo
carattere. Dice che era una persona attiva, e provava piacere in quello che faceva, ma le cose sono
cambiate dopo la morte di un suo amico. Attualmente invece è estremamente disordinata e le piace
pure! Le piace vedere la propria stanza con i vestiti buttati sul letto così si rende conto di come sta
dentro, del disordine che c’è dentro di lei. Sente che deve rimettere le cose a posto, metterle in ordine.
Somministrazione Test
I risultati della Cognitive Behavioural Assessment (Batteria CBA 2.0 Sanavio, Bertolotti, Michelin,
Vidotto, Zotti, 1986) rilevano una instabilità emozionale, con uno stato d’ansia accentuato.
Ipotesi iniziale
Francesca presenta problemi di tipo emotivo. Nello spettro ansioso rientrano: a) le preoccupazioni
che si manifestano rispetto a diversi settori come lavoro, salute dei genitori, situazione economica,
futuro in generale (tuttavia, non risultano soddisfatti i criteri diagnostici per un disturbo d’ansia generalizzato)
(APA, 2000); b) il disagio vissuto nelle situazioni sociali e nelle prestazioni nelle quali
è esposta al possibile giudizio degli altri (tuttavia, non risultano soddisfatti i criteri diagnostici per
una fobia sociale).
I sentimenti di rabbia risultano collegati a rapporti relazionali non soddisfacenti. L’abbassamento
del tono dell’umore, riportato come problema principale da Francesca, risulta essere secondario alle
situazioni presentate.
In base ai dati raccolti è plausibile ipotizzare uno stato ansioso-depressivo con problematiche relative
ad una bassa autostima, ad una mancanza di assertività e ad una bassa auto-efficacia, dovute
probabilmente ad un processo di apprendimento di messaggi svalutativi, rispetto alla propria persona,
da parte di persone significative durante l’età evolutiva. Tutto questo sembra aver bloccato Francesca
rispetto al proprio progetto di vita.
Obiettivi terapeutici
In base alla valutazione effettuata vengono individuati i seguenti obiettivi terapeutici:
• Migliorare il tono dell’umore
• Raggiungere una adeguata autoregolazione emotiva
• Aumentare le abilità di coping
• Aumentare la consapevolezza del proprio comportamento sessuale
• Sviluppare una immagine di sé positiva (migliorare l’autostima)
• Migliorare l’assertività
• Creare un adeguato network sociale
• Risolvere il lutto
• Riprendere un progetto di vita che sembra essersi interrotto
• Stabilizzare i risultati raggiunti
• Prevenire la ricaduta (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2004)
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 105

A marzo Francesca mi comunica di essere incinta. Non è una gravidanza desiderata. Questo fa sì
che, agli obiettivi precedenti, si aggiunga un obiettivo importante da raggiungere nel breve termine
(è incinta da circa 1 mese, quindi il seguente obiettivo deve essere raggiunto entro, al massimo, 2
mesi):
• Prendere in piena consapevolezza la decisione di tenere o meno il bambino
Francesca decide di tenere il bambino, pertanto viene formulato un nuovo obiettivo:
• Sostenere Francesca nel corso della gravidanza
Interventi terapeutici
• Obiettivo 1: migliorare il tono dell’umore
Francesca è convinta di avere una depressione. Pertanto, attuo un intervento psicoeducativo spiegando
cosa è un disturbo depressivo in senso clinico (APA, 2000). Le spiego che è possibile che ci
sia un tono dell’umore basso come reazione alle situazioni che sta vivendo. Questa riformulazione
consente, già di per sé, un miglioramento del tono dell’umore.
È importante che acquisisca uno stile di vita in cui siano presenti attività piacevoli. Per individuarle
somministro l’Intervista sugli Interessi. Francesca non riesce a trovare una coerenza fra le diverse
cose emerse. È importante ritessere la sua storia, focalizzare la sua attenzione sulla sua bravura e
sulla sua coerenza. Successivamente, la invito ad individuare delle cose che le piacerebbe fare da
inserire nella sua agenda settimanale. Inizia così a prendersi cura di sé, a dedicarsi del tempo per
fare le cose che, come riferisce: “Non facevo più da un’eternità!”.
La gravidanza e il conseguente aumento di endorfine, influisce nettamente sul suo umore e giunge
serena al momento del parto, coincidente con la fine della terapia. Al fine di evitare un “effetto rimbalzo”
dopo il parto, decido, in una ottica di prevenzione della ricaduta, di lavorare sulla sua paura
di una depressione post-parto. Tale paura insorge nel momento in cui ne sente parlare al corso preparto
che frequenta. Indago le sue conoscenze in proposito e le spiego le cause di questa depressione.
Più volte ribadisco che non tutte le donne hanno una depressione post-parto. Francesca assimila
questo messaggio, focalizza i segni che potrebbero essere “dei campanelli d’allarme” ed individua
delle strategie.
• Obiettivo 2: migliorare l’autoregolazione emotiva
Il primo step è un intervento psicoeducativo sulle emozioni. Con l’aiuto dei protocolli di automonitoraggio
inizia a prendere dimestichezza con le emozioni: a riconoscerle, ad accettarle e a modularle.
• Obiettivo 3: aumentare le abilità di coping
Francesca risulta piuttosto stressata, pertanto opto per un training di rilassamento. Le propongo il
R.A.T. Immediatamente impara a rilassarsi. Lavoriamo poi per fa sì che impari a darsi obiettivi realistici
e delle priorità. Con l’ausilio del problem solving prende decisioni importanti.
• Obiettivo 4: aumentare la consapevolezza del proprio comportamento sessuale
Ripercorriamo la storia del comportamento sessuale. Emerge che si è sempre vergognata a parlare
di sessualità. Da piccola il cugino (di 3 anni più grande di lei) la costringeva a fare dei giochi sessuali.
Tutto questo è proseguito fino all’inizio della pubertà. Lei non voleva ma al tempo stessa era
incuriosita. Questo ricordo la disturba molto, tanto che considera ciò che è accaduto un abuso. A
questo punto risulta importante spiegarle che i bambini sono incuriositi dal sesso e che fanno giochi
di questo tipo (dottore etc.). Questo consente a Francesca di non sentirsi in colpa per la curiosità che
provava. Emerge, inoltre, che verso gli 8-9 anni una notte si sveglia sentendo gemere la madre. Si
alza spaventata, convinta che la madre stia in pericolo e stia soffrendo. Si avvia verso la camera da
letto dei genitori e li vede mentre fanno l’amore. Rimane scioccata. La invito a riflettere, da adulta
come lo è ora, sul fatto che i genitori sono un uomo e una donna che hanno una vita sessuale. Il di-
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stanziamento le consente di vedere quell’evento come un atto naturale fra una coppia che si ama.
Riflette sul fatto che pensava che quei gemiti fossero segno di sofferenza, ritiene che questo pensiero
abbia condizionato la sua vita sessuale. Ora può connotare quei gemiti come segno di piacere, di
conseguenza anche la sessualità assume una connotazione diversa rispetto a prima. Con l’attuale ragazzo
ha problemi nel raggiungere l’orgasmo, per questo è convinta di “non funzionare come si
deve”. Viste le informazioni raccolte in sede di valutazione, opto per un intervento psico-educativo
dove spiego, con l’ausilio di immagini e dispense, i genitali femminili e maschili e il comportamento
sessuale (Déttore, 2001). A questo punto comprende di “funzionare benissimo” (infatti raggiunge
l’orgasmo con la masturbazione) e riconosce che il problema è nella relazione che ha con il compagno.
Per questo una parte consistente del lavoro di Francesca sarà quello di cambiare il suo comportamento
con il compagno al fine di modificare positivamente la relazione, anche in ambito sessuale
(ne parla con lui, fa richieste esplicite, lo coinvolge nella lettura delle dispense che le ho dato) (Simonelli,
1997).
Come abbiamo detto, nel corso della terapia Francesca resta incinta, quindi, a questo punto, il lavoro
sulla sessualità tiene necessariamente conto di questo evento (Miraglia, Orlandini, Michelette,
1984). Affrontiamo la sua difficoltà ad accettare i cambiamenti che avvengono nel suo corpo. I successi
che ottiene nel migliorare la sua comunicazione con il compagno si ripercuotono anche in ambito
sessuale. Scopre che anche incinta è comunque sexy e desiderabile, che può dare comunque
piacere al partner.
• Obiettivo 5: sviluppare una immagine di sé positiva (migliorare l’autostima)
Francesca è convinta di essere poco intelligente. Decido di fare un esame di realtà, con i dati che
abbiamo a disposizione (risultati scolastici, lavorativi, obiettivi raggiunti nella vita, etc.). Inoltre
miro a farla focalizzare sugli aspetti positivi di sé (Giannantonio, Boldorini, 2002). Dalla sua storia
di vita emerge una persona dinamica, piena di energia, intraprendente e creativa. Diamo spazio anche
ai ricordi spiacevoli, che hanno influito negativamente sulla sua autostima La invito a rifletterci
criticamente e a fare un esame di realtà in modo da confutare le vecchie convinzioni disfunzionali.
• Obiettivo 6: migliorare l’assertività
Propongo a Francesca un Assertive Training (Castanyer, 1998). Facciamo dei giochi di ruolo sia
con episodi realmente accaduti che su situazioni che deve affrontare. Andando avanti con la terapia
Francesca diviene sempre più assertiva sia con il compagno che con le persone che la circondano.
Naturalmente questo ha un effetto positivo sul suo umore.
• Obiettivo 7: creare un adeguato network sociale
Una parte consistente del lavoro terapeutico consiste nel far sì che Francesca si crei un adeguato
network sociale. Questo lavoro diviene ancora più importante quando rimane incinta ed è indispensabile
individuare delle figure chiave. Visti i rapporti non idilliaci con alcune persone, è importante
che raggiunga sì, come lei dice, una giusta distanza con loro (ad es. con la suocera, i suoi familiari)
ma impari anche a considerarli un sostegno, un aiuto sul quale poter contare.
• Obiettivo 8: risolvere il lutto
Lo scopo principale è quello di consentire a Francesca di affrontare la sofferenza per la morte del
suo amico. Dai colloqui emerge che non ha utilizzato un coping emotivo per affrontare questo lutto.
A tal proposito le chiedo di raccontarmi di lui. È la prima volta che ne parla con qualcuno. Ho
l’impressione che abbia necessità di mettere ordine in questa storia, di dar finalmente una narrazione
a ciò che lui è stato nella sua vita, a cosa ha rappresentato, a cosa poteva essere e invece non è
stato (forse un amore mancato) e finalmente a fare i conti con la sua morte.
Due settimane prima del parto Francesca vive nuovamente un lutto: muore lo zio del compagno, a
cui lei era molto legata. Questo evento ci porta nuovamente ad affrontare l’argomento morte. A que-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 107

sta morte ha reagito con un coping attivo (ha aiutato il compagno, la suocera, e nel frattempo ha
continuato a fare le sue cose), ma anche con un coping emotivo, permettendosi di piangere e soffrire.
Francesca rimane incinta. Gli obiettivi seguenti riguardano il periodo successivo:
• Obiettivo 9: prendere in piena consapevolezza la decisione di tenere o meno il bambino
Il 12 marzo Francesca mi comunica di essere incinta. Le chiedo come ha reagito e mi dice bene,
ma non sembra convinta. La ginecologa le ha detto che “deve essere felice”, che è una bella notizia,
che molte coppie hanno difficoltà a fare figli e che quindi deve ritenersi fortunata. Le faccio presente
che una donna può anche non essere contenta di aspettare un bambino, che è possibile provare
sentimenti contrastanti, avere dubbi, sono tutti sentimenti legittimi. A questo punto sbotta e mi riferisce
di aver cercato su internet informazioni sull’interruzione di gravidanza, poi non se l’è sentita e
ha chiuso. Il mio obiettivo principale in questo momento è permettere a Francesca di esprimere le
proprie emozioni, farle sentire che le sono accanto in questo momento difficile. Deve sentirsi libera
di decidere se tenere o meno il bambino. Ma questa scelta deve essere fatta in piena coscienza,
perché è una scelta irreversibile, di cui deve assumersi la responsabilità. Sono momenti molto
difficili a livello emotivo. Alla fine Francesca decide di tenere il bambino, una scelta presa con
consapevolezza e che le da grande serenità.
• Obiettivo 10: sostenere Francesca nel corso della gravidanza
La prima ecografia purtroppo non è un momento piacevole: il rumore del battito cardiaco del
bambino, piuttosto che essere un momento di felicità, riapre un’antica ferita, una I.V.G. fatta all’età
di 17 anni. È la prima volta che ne parla con qualcuno. Appare fondamentale ricostruire una narrativa
dell’evento e farle sentire che ci sono, che le sono accanto senza giudicarla.
Con il passare del tempo il rapporto con il compagno migliora, è proprio Francesca a fare in modo
di coinvolgerlo, ad aiutarlo ad entrare nel ruolo di padre. Ma tutto questo accade dopo aver superato
un momento molto difficile, di profonda crisi durante la quale non sa se continuare o meno questa
storia, a prescindere dal fatto che stia aspettando un bambino.
Per quanto concerne il lavoro, elabora delle soluzioni su come potrà organizzarsi in futuro con il
bambino. Francesca mostra una buona capacità di organizzazione e una buona dose di intraprendenza.
L’immagine del negozio che mi aveva presentato all’inizio del nostro lavoro, che la rendeva triste
e ansiosa, sta diventando una guida ai suoi progetti.
Col passare del tempo, Francesca diviene sempre più bella, il volto addolcito dalla maternità, gli
occhi che brillano, un bel sorriso. Inizia un corso pre-parto. Si dice tranquilla, considera il parto una
cosa naturale, affrontato dalla stragrande maggioranza delle donne. Due settimane prima del parto,
le cose cambiano, ora non si sente più pronta, sa che il parto è un evento naturale ma al corso le
hanno fatto vedere un filmato e le immagini la disturbano. Inoltre, non sa se è pronta a diventare
mamma, teme la depressione post-parto di cui le hanno parlato al corso. Ha dubbi anche sull’ultimo
esercizio RAT che le hanno fatto fare. Decido di focalizzarmi su queste immagini ansiogene e le
propongo la tecnica del “turn-off”. Le spiego in cosa consiste. Accetta immediatamente. Per interrompere
la fantasia sgradevole utilizzo il battito di mani e le propongo di sostituire l’immagine
sgradevole con l’immagine del suo “luogo sicuro” (già utilizzata in passato come tecnica di rilassamento)
(Giannantonio, Boldorini, 2002). La tecnica ha subito effetto. La ripetiamo per qualche volta
e Francesca si tranquillizza. Le spiego l’esercizio RAT che non le è chiaro e lo rifacciamo insieme.
Successivamente effettuo il lavoro sulla depressione post-parto (presentato precedentemente).
31 ottobre: la sera ricevo un sms da parte di Francesca : mi comunica che il bambino è nato.
Dicembre: pochi giorni prima delle vacanze di Natale Francesca mi telefona per farmi gli auguri.
Mi dice che il parto è andato bene, che ci sono delle difficoltà ma le reputa tipiche del momento
particolare che sta vivendo e ritiene di affrontarle con successo. Fissiamo un appuntamento per gen-
108 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

naio.
I Follow up: 21 gennaio
Dal colloquio si evidenzia che sono stati raggiunti i seguenti obiettivi:
• Ha ripreso un suo progetto di vita
• È più sicura di sé
• Riconosce meglio le sue emozioni e riesce a modularle in modo più funzionale
• È più assertiva
• Riesce finalmente a rilassarsi
Fissiamo un nuovo colloqui fra 3 masi, per la somministrazione del CBA.
II Follow up: 30 aprile
Francesca arriva di corsa e si siede contenta sulla poltrona esclamando “la mia poltrona!”. Le
chiedo come va e mi dice che ha un sacco di cose da dirmi. Mi parla di quanto sia stato difficile inizialmente
con il bambino e di come invece ora le cose siano più semplici. Nonostante vada sempre
di corsa è molto soddisfatta di come riesce a gestire il tutto: casa, figlio, compagno, lavoro, familiari.
Mi parla delle nuove mansioni lavorative: ha assunto nuove responsabilità all’intero della società
familiare. Mi dice che continua a pensare ai suoi progetti e che ogni tanto fa qualche passo avanti:
ha sempre intenzione in futuro di aprire un punto vendita tutto suo.
I risultati del re-test (Batteria CBA 2.0) non confermano completamente i cambiamenti riferiti da
Francesca in sede di colloquio. Si possono tuttavia fare alcune considerazioni : 1) il test è stato
compilato a casa, quindi in una situazione non rilassante come quella della seduta; 2) un bambino
piccolo è un impegno notevole che provoca comunque un cambiamento dello status quo; 3) il nuovo
ruolo di mamma apre tutta una serie di problematiche come ad es. una attenzione maggiore
all’igiene, pensieri ricorrenti e domande esistenziali. Di conseguenza, i punteggi possono essere letti
non come indicatori di patologia residua quanto piuttosto come una reazione ad un evento importante
come quello della nascita di un bambino.
* Il 23 novembre Francesca mi contatta per invitarmi all’inaugurazione del suo nuovo locale. Il 28
novembre, giorno dell’inaugurazione, passo al negozio per farle gli auguri. Appena mi vede mi abbraccia.
C’è parecchia gente e abbiamo solo il tempo di un saluto. Poco dopo che esco ricevo un suo
sms: “Grazie mille!...Grazie di tutto…”.
È stato meraviglioso vederla nel suo negozio, pensare che quell’immagine che mi ha presentato
durante i nostri primi colloqui sia stata trasformata in realtà.
Bibliografia
American Psychiatric Association. (2000). DSM-IV- TR. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali. Milano: Masson.
Castanyer O. (1998). L’Assertività: espressione di una sana stima di sé., Assisi: Cittadella Editrice.
Déttore D. (2001). Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. Milano: McGraw-
Hill.
Giannantonio M., Boldorini A.L. (2002). Autostima Assertività e Atteggiamento Positivo. I fondamenti
e la pratica della crescita personale. (II ed.). Salerno: Ecomind.
Giusti E. (1992). Training dell’Assertività, mai dire sì quando si vorrebbe dire no! Roma:
A.S.P.I.C.
Giusti E., Montanari C., Iannazzo A. (2004). Psicoterapie integrate. Piani di trattamento per psicoterapeuti
con interventi a breve, medio e lungo termine. (II ed.). Milano: Masson.
Miraglia F., Orlandini E., Micheletti G. (1984). Sarò madre: la donna dall’adolescenza alla ma-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 109

ternità. Milano: Rizzoli.
Sanavio E. (2004). Psicoterapia cognitiva e comportamentale. Roma: Carocci.
Simonelli C. (a cura di). (1997). Diagnosi e trattamento delle disfunzioni sessuali. Milano: Franco
Angeli.
110 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

LA FELICITÀ... UNA COSA CHE NON AVEVO MAI PROVATO PRIMA.
TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DI UN DISTURBO
DEPRESSIVO MAGGIORE.
Di Francesca Di Lauro, Psicologa-Psicoterapeuta, Esperta in Neuropsicologia. Membro della sezione clinica
del CRP e del Comitato Redazionale di Psychomed. Docente-Formatrice della NTS. Collaboratrice nel progetto
di ricerca sulla FASD presso il C.R.A.R.L. del Policlinico Umberto I. Psicologa della Cooperativa ITINERA e
Consorzio Tiresia. Socia e Segretario di Libra Associazione Scientifica, mail: fradilauro@hotmail.com
Brevi cenni identificativi
Anna è una donna di 40 anni, di aspetto gradevole, robusta, con una prossemica melanconica ed
una postura un po’ goffa, tendente alla chiusura. Veste con uno stile che si avvicina al dark e le
piacciono molto i pearcing ed i tatuaggi.
È nata in Svizzera ma vive da più di trent’anni in una piccola città italiana.
In questo momento è disoccupata e percepisce una pensione di invalidità.
Sposata nell’89 e separata da circa 4 anni, vive da sola con un figlio di 20 anni.
Il padre è un pescatore in pensione, la madre è casalinga, entrambi in buona salute, ed il fratello
minore, sposato e padre di una bambina, è residente in Svizzera.
Diario degli incontri
Gli incontri di psicoterapia hanno avuto una durata di 7 mesi, da aprile 2010 a novembre 2010,
con un’interruzione di due settimane ad agosto. Catamnesi per e-mail a 3 mesi e a 1 anno.
Inviante
Lo psichiatra del Centro di Salute Mentale.
Motivo della richiesta
Anna era in cura presso il Centro di Salute Mentale con diagnosi di “Depressione Maggiore a
episodi ricorrenti” (APA, 1996). Lo specialista, dopo l’ultima crisi, ha ritenuto che ad Anna, oltre al
trattamento farmacologico, avrebbe fatto bene intraprendere un percorso psicoterapeutico.
Presentazione del problema
Anna si presenta dicendo di voler smettere di fumare. Racconta di essere stata da un ipnotista ma
senza risultati. Ha comprato alcuni libri di autoipnosi e sta provando a diminuire gradualmente il
numero di sigarette. Successivamente, dice di soffrire di depressione dall’età di 18 anni. Di aver
vissuto una vita di sofferenza e di aver provato più volte a togliersi la vita. Da qualche settimana, il
figlio è partito in Germania per lavorare nei mesi estivi come cameriere e lei sta soffrendo molto.
Qualche giorno fa, dopo una violenta litigata avuta con la convivente del figlio, si è sentita molto
agitata al punto da perdere il controllo. Si è rivolta al Centro di Salute Mentale, dove le hanno
prescritto un trattamento farmacologico in fiale. In questo momento è più tranquilla però si sente
disperata, ha frequenti crisi di pianto e mi dice “voglio farla finita così non do più dispiacere ai
miei famigliari”. Vive in un appartamento nella periferia della città con un cane al quale è molto
legata ed ogni tanto si vede con un’amica che abita nel suo stesso palazzo. Dice di essere epilettica
e di recepire una pensione d’invalidità del 62%.
Sintomi osservati
SINTOMI COMPORTAMENTALI:
Evita le situazioni sociali; tende a stare da sola; mangia voracemente; ha crisi di pianto.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 111

SINTOMI COGNITIVI:
Bassa autostima; visione negativa di se stessa e del mondo; aspettative negative del futuro;
pensieri di suicidio; preoccupazioni riguardanti il suo stato economico; preoccupazioni riguardanti
il figlio.
SINTOMI EMOTIVI E FISIOLOGICI:
Faticabilità; assenza di desiderio sessuale; disturbi del sonno; forti dolori alla schiena.
ASSUNZIONE DI FARMACI O DROGHE:
Xeristar 60mg la mattina
Zyprexa 10mg la notte
Rivotril all’occorrenza
Keppra 500mg mattina e sera
Tigrato 400mg la sera
È una fumatrice di sigarette e riferisce che in passato assumeva hashish e marjuana.
Diagnosi mediche/psichiatriche
Le diagnosi sono state effettuate dagli psichiatri che si sono alternati negli anni al Centro di Salute
Mentale.
Anno 2010 : “Depressione Maggiore ed Epilessia”.
Anno 2009: “Depressione Maggiore di grado moderato/grave ad andamento cronico e disturbo
d’ansia generalizzato e da somatizzazione. Ideazione auto lesiva e mania”.
Anno 2003 e 2007: “Diagnosi bipolare. Famigliarità positiva per disturbi d’ansia”.
Storia di vita
Anna nasce in una piccola città della Svizzera da una coppia di emigrati italiani. Descrive la sua
infanzia come il periodo più bello della sua vita. Ha bellissimi ricordi della scuola, delle gite che
faceva con i suoi compagni e racconta di essere stata molto legata alla balia che si occupava di lei e
di suo fratello minore. All’età di 8 anni si è trasferita in Italia con tutta la famiglia, per un cambio di
lavoro del padre. Da quel momento sostiene che per lei sia iniziato “l’inferno”. Oltre alle difficoltà
riscontrate con la lingua italiana e con l’integrazione in un nuovo contesto sociale e scolastico,
descrive un repentino cambio di comportamento da parte del padre che diveniva sempre più
violento nei suoi confronti. La picchiava per ogni piccola marachella che commetteva ed era sempre
appoggiato dalla moglie. In quegli anni riporta anche un tentato abuso sessuale da parte di un vicino
anziano. Interrompe gli studi all’età di 14 anni e inizia a lavorare come domestica. A 17 anni a causa
di un ritardo nel rientrare a casa, il padre “l’ha massacrata di pugni e calci”, per la prima volta ha
avuto paura di morire ed è scappata di casa. Dice di aver vissuto durante i giorni feriali presso il
domicilio della donna da cui lavorava, mentre il fine settimana, dormiva per strada o si appoggiava
da un ragazzo che la obbligava a subire atti sessuali “perversi”. Separarsi da lui è stato molto
difficile “il suo comportamento nei miei confronti oggi lo chiamerebbero stalking”. È in questo
periodo che conosce il marito e sul quale afferma di essersi creata delle aspettative eccessivamente
positive ed irrealistiche. Rimane incinta e decide di sposarsi. Anche quest’uomo che dapprima si era
mostrato premuroso ed accudente, diviene sempre più prepotente a causa della tossicodipendenza.
Lei è costretta a lavorare per mantenere la famiglia e per comprare le dosi di eroina al marito. Parla
del matrimonio come un lungo periodo di sofferenza ed a causa della tossicodipendenza e della
successiva sieropositività del coniuge, ha provato più volte a togliersi la vita. Per anni è riuscita a
celare le condizioni di salute del marito al figlio, finché non ha dovuto sottoporsi insieme a
quest’ultimo a controlli medici. Questo le ha generato ansia e dice di aver sofferto di attacchi di
panico, diagnosticati in regime di pronto soccorso. Con la separazione dal coniuge, quelli che lei
chiamava attacchi di panico e disturbo d’ansia, sono scomparsi. Dice di essersi sentita “sollevata” e
112 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

di non avere più avuto paura la notte perché finalmente dormiva da sola. Nel 2003 le viene
diagnosticato l’ Epilessia ed a causa di questo lascia il lavoro. Con il tempo, il rapporto con l’ex
marito è migliorato. Lui si è disintossicato ed ha un atteggiamento nei suoi confronti più accudente.
Anche i genitori sono meno severi e si rendono disponibili, soprattutto economicamente, ma lei li
chiama solo quando ne ha veramente bisogno. Per anni ha provato a intraprendere dei percorsi
terapeutici ma non è mai stata seguita con costanza. Afferma di non aver mai trovato nessuno che la
facesse sentire presa in cura e che è stata seguita solo da un punto di vista farmacologico. In passato
“reagivo ai problemi con aggressività, naturalmente dopo aver sopportato tanto. Ora l’aggressività
si presenta solo in casi estremi, è stata sostituita dal silenzio e dalla sopportazione. L’aggressività
si manifestava in vari modi, tipo spaccare con rabbia gli oggetti oppure lanciarli nel vuoto…a volte
anche alle mani”. Ora descrive se stessa come una donna “perennemente infelice, con brutti
pensieri, triste, apatica, nervosa, impaurita e insoddisfatta della vita”. Ha tentato più volte di
togliersi la vita e tutt’ora ci pensa ma senza progettare niente. Ha paura di trovarsi in mezzo alla
gente ed esce di rado. Sostiene inoltre, di avere momenti in cui è fortemente eccitata, non riesce a
dormire, a stare ferma, cammina per la casa frettolosamente fumando sigarette “mi sento molto
attiva, faccio un sacco di cose, mi sveglio presto al mattino…ma ho paura perché di solito, dopo
questo sovraeccitamento, segue un brutto periodo di depressione”.
Life events
• Trasferimento in Italia con difficoltà di inserimento sociale all’età di 7-8 anni
• Tentato abuso all’età di 8 anni
• Maltrattamenti da parte del padre dall’età di 8 anni ai 17
• Abbandono scolastico all’età di 14 anni
• Fuga da casa a 17 anni
• Maltrattamenti da parte del partner a 17 anni
• Matrimonio all’età di 18 anni e nascita del figlio
• Il marito si ammala di HIV e Epatite c
• Evento epilettico nel 2003
• Vari tentativi di suicidio
• Litigata violenta con la fidanzata del figlio che causa il ricorso al Centro di Salute Mentale
Trasferimento definitivo del figlio in Germania nel giugno 2010.
Situazione attuale
Contesto famigliare : Anna vive da sola in un appartamento in periferia della città. L’unico figlio
al quale è molto legata e che nel tempo ha avuto un ruolo di figlio/compagno si è trasferito da poco
in un’altra nazione. È l’amore per lui che le ha dato la forza in questi anni di sopportare le angherie
subite dall’ex marito. Ha un cane di taglia piccola al quale è molto affezionata e che ha assunto il
ruolo di “salvatore” durante un tentativo di suicidio. Con l’ex marito si incontra ogni tanto ed ha
instaurato un rapporto sufficientemente sereno. Riguardo alla famiglia di origine invece, ha un
legame fortissimo con il fratello minore che vive all’estero mentre con i genitori ha un rapporto
“ambivalente”. La madre ha instaurato un legame di tipo ansioso, soprattutto dopo la diagnosi di
depressione della figlia che, a sua volta, richiede le sue attenzioni rimarcando il ruolo di “malata”
ma nello stesso tempo si lamenta perché non vuole farla preoccupare. Il padre sembra avere un
ruolo periferico ed Anna parla di lui con indifferenza ed a volte fastidio. Ogni volta che viene
invitata a pranzo dai sui genitori, Anna partecipa mal volentieri soprattutto se sono occasioni in cui
si deve festeggiare una ricorrenza.
Vita affettiva
e sessuale: in questo momento non ha un compagno ma sembra che si veda con un
amico ogni tanto, con cui non ha rapporti sessuali. Dice di non pensare al sesso da tanto tempo e
che non si sente pronta per iniziare una nuova relazione sentimentale. Avendo avuto in ogni sua
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 113

elazione un partner violento e maltrattatore, non riesce a concepire una relazione che non abbia
come presupposto maltrattamenti e sofferenza. Riguardo al sesso, ha dovuto condividere il letto
matrimoniale con un marito sieropositivo di cui aveva paura e che le generava ansia. Si può
supporre che lei abbia associato l’attività sessuale a queste emozioni negative e che non riesca a
vederla come un atto di piacere.
Contesto socio/lavorativo: dal 2003, anno in cui ha avuto un attacco epilettico nel suo negozio
davanti ad una cliente, è disoccupata e percepisce una pensione di invalidità. Ogni tanto riesce a
ricavare piccoli guadagni facendo lavori di artigianato. Ha ristretto ad una sola amica, la sua
dirimpettaia, la cerchia di amici. Con lei è molto disponibile ed accudente e sembra abbia un
atteggiamento di tipo anassertivo/passivo.
Valutazione psicodiagnostica
CBA – 2.0 (Cognitive Behavioural Assessment di Sanavio et al., 1986).
SCL 90-R (Symptom Checklist 90-R di Leonard R. Derogatis, 1994) :
Somatizzazione 1,2 – Ossessione-Compulsione 2,2 – Sensibilità interpersonale 1,7 – Depressione
2,7 – Ansia 2,2 – Ostilità 1,2 – Ansia fobica 1,4 – Ideazione paranoide 2,3 – Psicoticismo 1,3 –
Disturbi del sonno 3,7. GSI Global Score Index 1,9
Cut off /= 2 patologico
Progetto terapeutico
Ipotesi esplicativa
Anna mi viene descritta come una paziente grave, seguita da 20 anni dal Centro di Salute Mentale
con diagnosi di Depressione Maggiore ma che contrasta con la terapia farmacologica che assume.
Si potrebbe ipotizzare che possa avere un disturbo di tipo psicotico o una sindrome di tipo schizoaffettiva
data l’assunzione di neurolettici. Per di più, è stata da sempre trattata come una paziente
cronica, senza alcuna possibilità di riabilitazione, al punto da non averla mai considerata idonea ad
intraprendere una psicoterapia, fino ad oggi. Inoltre, alcune manifestazioni in senso maniacale, di
cui la paziente parla, non sono state prese in considerazione fatta eccezione nella diagnosi
psichiatrica effettuata nel 2003.
Dall’esame psicometrico emergono numerose manifestazioni in senso depressivo ma anche di tipo
fobico e di ansia sociale (CBA; SCL-90). Prevedere eventi minacciosi ed un futuro negativo genera
ansia, un quadro in linea con la triade di Beck riguardo ai pazienti depressi. Inoltre, emergono degli
indici rilevanti anche in senso di psicoticismo e di ideazione paranoide.
Dall’osservazione psicoterapica si può dedurre che Anna ha sicuramente un vissuto di tipo
persecutorio da parte dei genitori e successivamente degli uomini della sua vita ma, quest’ultimo
punto, non è del tutto esente da aspetti di tipo personale che l’hanno indotta ad effettuare
determinate scelte di vita. Ad esempio, quando da ragazza è scappata di casa, ha scelto di dormire
per strada durante i week end e si è affidata ad una cerchia di amici composta da tossicodipendenti
senza lavoro e con abitudini delinquenziali, piuttosto che, ad esempio, rimanere dalla signora presso
cui prestava servizio. D’altronde, le ricerche mostrano che le conseguenze negative ricorrenti in
ragazze vittime di trascuratezza o maltrattamenti da parte di genitori e che hanno in seguito subito
violenze sessuali da uomini conosciuti, amici di famiglia, vicini di casa ecc, sono rappresentate da
un elevato rischio di incorrere da adulte, in situazioni di violenza domestica. Spesso le ragazze
fuggono in coppia con ragazzi violenti.
Questa sua predisposizione alla ribellione coesiste con una accentuata diffidenza verso gli altri ed
un eccessivo senso di vergogna legato proprio ai suoi vissuti. In passato affrontava tutto ciò che
percepiva come minaccioso con estrema aggressività e questo ha influenzato il suo stile relazionale
in contesti sociali.
La descrizione dettagliata dell’ultimo tentativo di suicidio fa emergere che una situazione a rischio
è il sentirsi sola e abbandonata mentre il suo antidoto è il percepire di sentirsi importante per
114 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

qualcuno che si prende cura di lei. A tal proposito, Anna non si è mai sentita amata, ad iniziare dai
suoi genitori fino ad arrivare al non sentirsi presa in cura dall’Istituzione che gestisce il suo caso da
20 anni. Scoprire dopo la diagnosi di depressione che i propri genitori le rivolgono le dovute
attenzioni ha sicuramente contribuito a rafforzare il ruolo di malata. Il prendersi cura, che è una
normale attitudine in un legame di attaccamento, diventa, in questo caso, un fattore patogeno.
Questo spiegherebbe perché questa donna, giovane e con tante risorse personali, sia trattata da tutti
questi anni come una malata cronica ed istituzionalizzata. Lei stessa parla di sé come se non ci
fossero più speranze “ormai a 40 anni che posso fare”. È considerata una paziente da pensione
d’invalidità e lei si comporta come tale. Una persona istituzionalizzata è abituata a risuonare su
aspetti negativi, a maggior ragione se questo è un vantaggio secondario nella ricerca di attenzioni
che non ha mai sentito in precedenza.
Da un punto di vista funzionale, il comportamento osservato costituito da affaticabilità, crisi di
pianto, sintomi depressivi, è rinforzato da cognizioni sottostanti come “ormai la vita non mi da
nulla”, “sono una persona sconfitta”. Questo suo modo di pensare la porta inoltre ad avere
un’immagine di sé estremamente negativa, al punto da provare ansia e vergogna in contesti sociali.
Queste emozioni sono alla base di disturbi di tipo motivazionale, come l’evitare le attività e le
uscite con amici (Beck, 1984; 1987).
Da un punto di vista terapeutico sarebbe sicuramente opportuno, instaurare una buona relazione
che la aiuti a sperimentare una base sicura di attaccamento e che soprattutto, risuoni sugli aspetti
positivi che la persona non riesce a vedere.
Anna è comunque arrivata ad un equilibrio che non è tanto disposta a cambiare, quindi,
l’intervento non dovrà mettere troppo in discussione questi elementi di stabilità ma anzi, rafforzare
l’equilibrio raggiunto e percepito da lei come libertà. Il suo sentirsi libera dalla famiglia che chiama
solo quando ne ha voglia e che finalmente risponde ai suoi bisogni, libera da un uomo che le
procurava danni fisici e morali, lo sottolinea in modo evidente con il nickname con cui comunica e
si presenta agli altri per e-mail, annalibera.
Un’altra strada da percorrere è il raggiungimento del sentirsi amata non per gli aspetti legati alla
patologia ma per quelli positivi. Quindi, lo spostamento dell’attenzione su ciò che c’è di positivo in
lei e lavorare sull’autostima. Rispetto a ciò, unico elemento positivo della sua vita che lei riconosce
è il figlio. Lui personifica tutto ciò che Anna non è riuscita ad essere e che non è riuscita a fare. I
suoi sogni, le sue speranze sono legate al figlio. L’eventualità che gli possa succedere qualcosa o la
sola percezione di perderlo, così come è accaduto in seguito alla brutta litigata avuta con la sua fidanzata,
diventa quindi l’aspetto di maggiore vulnerabilità da tener presente per un eventuale scompenso.
Sembra essere importante allargare il ventaglio delle situazioni positive ed inoltre, lavorare
sugli aspetti positivi di un ipotetico distacco tra i due, ad esempio, l’emancipazione del figlio e la
fierezza di madre per lei.
Pianificazione dell’intervento
Finalità
• La promozione della qualità della vita rendendo consapevole la paziente delle sue potenzialità
e risorse
• Rafforzare un equilibrio di vita già intrapreso spontaneamente dalla paziente
Obiettivi
Obiettivi a breve termine:
• Costruzione di una solida alleanza terapeutica
• Esplicazione del modello cognitivo - comportamentale
• Raccolta anamnestica e storia di vita
• Ridefinizione del problema che la paziente ha presentato
• Valutazione del funzionamento cognitivo (codici di rappresentazione)
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 115

• Schemi cognitivi prevalenti e schemi di attaccamento
• Stabilire i comportamenti e/o schemi cognitivi bersaglio
Obiettivi a medio termine:
• Spostare l’attenzione verso aspetti positivi di sé e della sua vita
• Riattivare i ricordi piacevoli
• Innalzare la sua autostima
• Rinforzare le passioni ed i suoi interessi
• Diminuire l’ansia sociale ed il senso di vergogna
Obiettivi a lungo termine:
• Avere una visione positiva della vita
• Gestire il distacco dal figlio
• Relapse prevention
Tecniche
• Riduzione del problema
• Diario degli episodi emotivi
• Compilazione di un diario
• Utilizzo delle fotografie
• Training sull’autostima e sull’autoefficacia
• Training motivazionale
• Training sull’assertività
• Partecipazione a gruppi di attività terapeutica
L’intervento terapeutico
Con questa paziente mi sono concentrata innanzitutto sull’instaurare una buona e forte alleanza
terapeutica (Klosko, 2001). Avevo di fronte una persona che non ha mai avuto una buona
considerazione delle Istituzioni, che aveva conosciuto diversi professionisti del settore ma non ha
mai sentito di essere stata presa in cura. Non si è mai sentita amata perché è una brava figlia, una
brava donna o una brava madre. Inoltre, si è presentata con una domanda d’aiuto su come smettere
di fumare. Era quindi molto forte, il pericolo di un drop out.
Dopo aver lavorato sulla relazione ed acquisito fiducia da parte della paziente, ho ritenuto più
opportuno iniziare dalla riduzione del problema. Beck (Beck, 1984) sostiene che può essere
applicato questo principio su disturbi specifici come la depressione. Concentrandosi su certe
componenti cruciali del disturbo, come la bassa autostima o aspettative negative, la terapia può
produrre un miglioramento del tono dell’umore. Lei aveva una forte attenzione selettiva verso tutti
gli aspetti negativi di sé e della sua vita ed era convinta di non avere mai vissuto esperienze
piacevoli. La sua visione del passato, presente e futuro era esclusivamente pessimistica. Ho provato
ad assegnarle un compito, quello di ricercare nella sua memoria, esperienze piacevoli di vita vissuta
e laddove non riuscisse a trovarne, poteva aiutarsi con le fotografie. Questo compito le ha
risvegliato pian piano tantissimi episodi che lei credeva di aver rimosso e le hanno suscitato
emozioni positive che non pensava di provare. Andando avanti con le sedute, alle fotografie, si è
affiancata la compilazione di un diario, dove in un primo momento descriveva queste memorie e
successivamente, si è passati a ad un resoconto di ciò che le succedeva durante la settimana.
Partendo da questo, abbiamo lavorato sulle emozioni e sui pensieri che erano alla base dei suoi
comportamenti. A questo scopo è stata utilizzata la schede sugli episodi emotivi.
Anna ha dimostrato da subito collaborazione ed una buona capacità di insight.
L’attivazione comportamentale le ha dato gratificazione. Questo è stato l’inizio per un lavoro
116 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

sull’autostima. Pian piano, ha ripreso a fare lavori di bricolage che le hanno fatto sentire sempre più
gratificata per qualcosa di tangibile che aveva fatto. Questo ha innalzato la sua autostima. Il ciclo
che è stato compiuto è prestazione migliore > maggiore auto-stima > motivazione più forte >
prestazione migliore (Beck, 1984; 1987). Constatando da sé che egli riesce a raggiungere un
obiettivo, il paziente riceve un’informazione cruciale la quale modifica il suo atteggiamento verso
se stesso (Bern, 1967 e Wilkins, 1971 in Beck, 1984).
Per evitare che la tendenza depressiva di sminuire le sensazioni piacevoli e screditare gli eventi
positivi prendesse il sopravvento, è stato di importanza cruciale, il ruolo che ha avuto la discussione
e l’applicazione della tecnica di disattenzione selettiva.
I sintomi affettivi che riportava la paziente sono stati affrontati con tecniche comportamentali ma
il ruolo principale della terapia lo ha avuto la modificazione cognitiva. La paziente è arrivata a
formulare pensieri come “sono capace a fare delle belle cose”, “le persone mi vogliono bene perché
sono una brava persona”, “merito il rispetto degli altri”, “sono una buona madre”.
In un successivo momento, ci siamo concentrati sul suo comportamento anassertivo passivo nei
confronti dell’amica/vicina di casa ed abbiamo effettuato un training di assertività che ha
funzionato egregiamente.
Di seguito, ci siamo concentrati sulla sua fobia sociale. Con un incremento di autostima e di
pensieri positivi su se stessa, aveva già iniziato ad affrontare le situazioni sociali con meno disagio.
In più, ho introdotto la paziente in gruppi di attività terapeutica, come il cucito e la musica,
organizzati dal Servizio a cui lei si rivolge, per permetterle di mettere in pratica ciò che si faceva in
terapia.
L’elemento principale della terapia è stato risuonare sugli aspetti positivi che lei mi trasmetteva ed
inoltre, il rinforzare un equilibrio che lei aveva già da tempo ricercato, senza sconvolgerlo troppo.
Avendo notato alcuni aspetti di tipo maniacale (Reda, 1993), si è lavorato sul riconoscimento
degli stimoli che la sovraeccitano e le emozioni ad essi connesse. Importante per la prevenzione
delle ricadute sia in senso depressivo che maniacale.
In questi mesi di terapia, le circostanze hanno voluto che il figlio si trasferisse definitivamente in
un’altra nazione. Attraverso la discussione è stata fatta una valutazione dettagliata su cosa implica
questa circostanza, con una maggiore attenzione per gli spetti positivi. In questo caso erano la
crescita professionale del ragazzo, la sua autonomia e di conseguenza l’orgoglio di madre.
Verifica dei risultati
La verifica della riuscita della terapia è stata fatta dai report che portava la paziente durante le
sedute e dall’osservazione psicoterapica.
Catamnesi
Avendo avuto un trasferimento in un’altra regione, ho effettuato i follow up tramite mail, modalità
comunicativa scelta dalla paziente.
A tre mesi:
“Ciao Dott.ssa Di Lauro, oggi ho voglia di raccontarle la giornata che ho passato ieri... Non ricordo
se le avevo detto che mio figlio M. doveva scendere il 21 perché il 22 ha un'udienza...Comunque
ieri verso le undici e mezzo mi suonano il citofono ed era il mio ex marito...è salito...io ero in
cucina e all'improvviso dietro di lui chi ne spunta????
MIO FIGLIO che mi ha voluto fare una sorpresa scendendo prima del previsto...
Ho urlato, riso e pianto mentre ci abbracciavamo fortissimo...non ci staccavamo più...
Ho sentito un esplosione di sensazioni positive che MAI avevo provato prima...
Ho pensato che quelle sensazioni sono quelle che la gente chiama FELICITÀ...!!!!
Mio figlio è riuscito a farmi provare " LA FELICITÀ"...una cosa che non avevo mai provato prima
ed è stato bellissimo. Ora rimane qui per due settimane e io sono al settimo cielo...mi stava man-
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cando troppo. Non eravamo mai stati lontani per così tanto tempo...
Spero che lei stia bene e che le piaccia il nuovo posto di lavoro... Se non ha tempo non importa rispondere
alla mia mail, io capisco, però ci tenevo a farle sapere e condividere questa gioia con la
persona che mi ascoltava fino a poco tempo fa e che mi manca... Le mando un forte abbraccio e le
auguro una buona Domenica”.
Anna
A un anno in risposta ad una mia mail:
“Ciaooo..........che bella sorpresa questa mail..... . Certo che mi ricordo...e come potrei dimenticare
la mia preferita in assoluto... :-) Io non scrivevo per non disturbare, comunque diciamo che ci
sono sempre gli alti e i bassi. Mi manca molto mio figlio che è in Germania ed il mio cane che è
morto in primavera. Ne ho sofferto tantissimo...ora, in casa, sono sola ed ho tutto il tempo per rimuginare.....cosa
che non mi fa tanto bene...ma grazie a te ho imparato a capire come gestirmi.
In questi giorni sto costruendo un porta notebook decorato da portare a mio Figlio quando vado
a trovarlo a Gennaio. Quindi sono con la mente impegnata. Ne ho già fatto uno per me ed è venuto
carino.
Spero tanto di rivederti prima o poi perché mi hai aiutato molto. Sto dando del TU perché mi
sembra che ci eravamo lasciate così...
Ora ti saluto e ti auguro ogni bene. Mi ha fatto davvero piacere.
Un bacione grande e a presto”.
Anna
Bibliografia
American Psychiatric Association. (1996). DSM-IV. Milano: Masson.
Beck A.T. (1984). (Trad it.). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Beck A.T et al. (1987). (Trad. it.). Terapia cognitiva della depressione. Torino: Bollati Boringhieri.
Bertolotti G., Michielin P., Sanavio E., Simonetti G., Vidotto G., Zotti A.M. (1986). Batteria
CBA-2.0 Scale Primarie: Manuale. Firenze: Organizzazioni Speciali.
Derogatis L. R. (1994). Symptom Checklist 90-R.
Klosko J.S., Sanderson W.C. (2001). Trattamento cognitivo-comportamentale della depressione.
Milano: McGraw-Hill.
Reda G. C. (1993). Psichiatria. Problemi fenomeni ipotesi interventi. ( II ed.). Torino: UTET.
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ACCRESCERE LA TOLLERANZA ALLA FRUSTRAZIONE:
LUCA E LA SUA FAMIGLIA.
Di Adriana Saba, psicologa-psicoterapeuta, collaboratore dell’Associazione Italiana di Psicologia Preventiva
(AIPRE), socio del Centro per la Ricerca in Psicoterapia (CRP), Tutor presso la Scuola di Specializzazione in
Psicoterapia Cognitivo Comportamentale ed Intervento Psicosociale diretta dal CRP e AIPRE,
mail:adriana.saba30@gmail.com
Brevi cenni identificativi
Luca è il secondo di 4 figli. Al momento della richiesta ha 10 anni e frequenta la quarta elementare.
Giulia, la mamma di Luca e il padre Damiano sono separati e Damiano non vive più in casa con
il resto della famiglia. Luca ha tre fratelli: Federico di 11 anni, Matteo di 8 anni e mezzo e Sara di 6
anni. Giulia ha 37 anni e lavora come ricercatrice. Damiano ha 37 anni e lavora come consulente
presso un'agenzia.
Motivo della richiesta-Presentazione del problema
Giulia si presenta al primo colloquio inviata da una collega con la quale al momento della richiesta
svolgeva un percorso di psicoterapia. Giulia chiede aiuto rispetto ad alcuni comportamenti di
Luca riguardo ai quali anche le insegnanti le hanno suggerito di chiedere il supporto di uno psicologo.
Giulia racconta che Luca in alcune circostanze (quando gli si ricorda che deve fare i compiti,
quando incontra una difficoltà nel loro svolgimento, quando durante il gioco trova un impedimento
che non gli consente di andare avanti) mette in atto una serie di comportamenti tipici quali: si butta
per terra, si lamenta (ripete continuamente “no, no”), stringe i pugni contro le tempie, aumenta il
tono di voce, piagnucola e a volte dice qualche parolaccia. A scuola sembra adottare comportamenti
simili quando incontra una difficoltà nell’esecuzione di un compito.
La madre vorrebbe che Luca trovasse un modo per gestire le sue “crisi” dicendomi di rendersi disponibile,
insieme a Damiano, ad apprendere nuove modalità di gestione del comportamento di
Luca.
Anamnesi oggettiva
Alla nascita di Luca, Giulia e Damiano avevano entrambi 27 anni. Giulia racconta di aver avuto
una gravidanza tranquilla ed un parto naturale. Luca è stato allattato per 6 mesi e lo svezzamento è
avvenuto senza difficoltà.
Rispetto al ritmo sonno veglia i genitori descrivono Luca come “un gran dormiglione”; la sera va
a letto verso le 23.30 e la mattina si sveglia intorno alle 7.00 facendo molta fatica ad alzarsi.
Riguardo all’apprendimento delle abitudini igieniche Giulia racconta che Luca ha tolto il pannolino
che aveva più di 3 anni e con difficoltà. Quando Luca si sporcava piangeva e Giulia tempestivamente
lo rassicurava e lo puliva.
Rispetto all’apprendimento del linguaggio Giulia racconta che Luca, intorno ai 6 anni, ha avuto un
problema di “ritardo” che si è risolto spontaneamente subito dopo l'ingresso alla scuola primaria.
I primi momenti di separazione dalle figure di attaccamento sono avvenuti con qualche difficoltà;
Luca ha avuto un’iniziale problema d’inserimento sia al nido che alla scuola materna, dove per primi
tre mesi non ha parlato.
A Luca piace molto giocare con le costruzioni. Da piccolo era soprannominato il “meccanico”.
Ama maggiormente giocare in casa piuttosto che fuori in giardino.
Rispetto all’area dell’autonomia i genitori di Luca riferiscono che la mattina fa fatica e vestirsi da
solo, il pomeriggio aspetta Giulia per fare i compiti e non rimette a posto le sue cose dopo averle
utilizzate.
Riguardo alle abitudini alimentari Luca tende a mangiare poche verdure e molti carboidrati, tanto
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 119

che appare nettamente in sovrappeso. La sua alimentazione è disordinata e non adeguata alla sua età
e a casa ha accesso a qualunque alimento desideri (patatine, coca cola, panini, insaccati,
merendine). Giulia e Damiano considerano il loro distacco come un evento traumatico per i figli.
Raccontano che prima di questa separazione, concorde, ci sono stati periodi di “tensione, di grande
crisi e allontanamento” (Damiano era già andato via di casa un’altra volta).
Definizione del comportamento-problema
I dati e le informazioni riportati in terapia sono serviti a ricostruire i comportamenti di Luca secondo
questo modello.
Descrizione: Luca si butta per terra, si lamenta (ripete continuamente “no, no”), stringe i pugni
contro le tempie, aumenta il tono di voce, piagnucola, si dondola e a volte dice anche qualche parolaccia.
Frequenza: a casa tali episodi si presentano anche tutti i giorni, con una media di 1, 2 volte al giorno,
mentre a scuola 3-4 volte alla settimana.
Intensità e durata di ogni singolo episodio: a volte durano pochi minuti, a volte 30 minuti o, a
scuola, anche tutta la mattina. Sembra che l’intensità e la durata non dipendano dal motivo scatenante.
Il comportamento di Luca persiste fino a quando qualcuno non gli si avvicina per aiutarlo o
incoraggiarlo. L’intensità della reazione comportamentale non è proporzionata alla gravità della difficoltà
che incontra: è possibile che una piccola difficoltà scateni una reazione comportamentale
molto intensa e viceversa.
Ambiente (dove si presenta): tale comportamento si manifesta a casa, a scuola e nello sport.
Analisi degli antecedenti
Quando si manifesta il comportamento – problema: a casa si presenta in alcune circostanze (per
es. quando gli si ricorda che deve fare i compiti, quando incontra una difficoltà nel loro svolgimento,
quando durante l’esecuzione di un gioco non riesce ad andare avanti).
Secondo il racconto delle insegnanti il comportamento – problema di Luca a scuola si manifesta
quando egli rimane indietro nella dettatura (questa è la situazione che più spesso scatena il comportamento
– problema), quando nella corsa non riesce a stare al passo dei compagni, quando perde durante
il gioco, quando incontra una difficoltà durante l’esecuzione di un compito e quando non riesce
a comunicare o spiegare qualcosa (questo può innescare il comportamento – problema, ma anche
mantenerlo).
In presenza di chi o di cosa il comportamento problema aumenta, diminuisce o non si presenta:
secondo Giulia tali comportamenti aumentano in sua presenza. Con il padre si verificano meno e
con un’intensità minore. Le insegnanti definiscono Luca come “umorale… a volte arriva dicendo
che si è svegliato con il piede storto. Quando accade così è mal disposto nei confronti delle attività
didattiche ed è più probabile che incontri difficoltà e di conseguenza che abbia più reazioni comportamentali
negative”.
Analisi dei conseguenti
Giulia dice che in quei momenti cerca di stargli vicino coccolandolo, aiutandolo e invitandolo a
respirare e a stare tranquillo. Damiano dice che a volte reagisce come Giulia, mentre il più delle
volte lo lascia perdere o si arrabbia e solo dopo un po’ di tempo Luca smette. Le maestre di Luca
sostengono di “averle provate tutte”. A volte cercano di essere comprensive, di stragli accanto e di
farlo ragionare, altre volte lo rimproverano chiedendogli di smetterla. Le maestre raccontano che la
reazione dei compagni è quella di avvisarle dicendo loro che “Luca è in crisi” o “è arrabbiato”. A
detta delle maestre sembra che i commenti dei compagni a volte inneschino il comportamento –
problema di Luca, altre volte lo mantengono. In generale le insegnanti di Luca sembrano essere accoglienti
e supportive. Secondo quanto loro riferiscono la comprensione e la dolcezza permettono
che il comportamento non aumenti d’intensità, però il tempo di ripresa e recupero è lungo (il pianto
può durare anche tutta la mattina).
120 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

Valutazione cognitivo-comportamentale
Dalle schede di autosservazione compilate durante le nostre sedute emerge che Luca non appena
incontra una difficoltà inizia a produrre pensieri catastrofici legati alla sue possibili reazioni sia
emotive che comportamentali: “ecco, ora mi innervosisco sicuramente e mi metto a piangere, non
ce la farò mai, ecco mi sono bloccato completamente”.
Le insegnanti sostengono che Luca appare motivato e generalmente interessato alle attività didattiche,
dichiarano però una tendenza alla distrazione, specialmente in alcuni giorni. In generale il suo
rendimento scolastico è buono ed ottiene voti alti specialmente in matematica.
Dai racconti dei genitori, delle insegnanti e dello stesso Luca l’emozione associata a tali comportamenti
sembra essere la frustrazione vissuta ad un livello tale da risultare a Luca insopportabile. Di
fronte a tale stato emotivo si scatena in Luca un’altra emozione: la rabbia. Tale associazione è legata
ad un vissuto di insopportabilità della frustrazione che scatena rabbia che Luca non sa gestire in maniera
adeguata. Dai racconti di Luca emerge che spesso, non solo di fronte ad una difficoltà, ma anche
in presenza di una critica o di una provocazione da parte di un compagno si scatena una forte
emozione di rabbia che a volte genera aggressività.
Oltre i comportamenti già evidenziati precedentemente ci sono altre forme comportamentali che è
importante sottolineare. Giulia e Damiano si lamentano della scarsa autonomia di Luca dicendomi
che sono sempre loro a dovergli ricordare di fare i compiti. Al mattino Luca sembra fare molta fatica
a svegliarsi e conseguentemente ad alzarsi e richiede l’aiuto dei genitori per lavarsi e vestirsi.
Anche a scuola spesso, specialmente durante le prime ore di lezione, sembra “ancora addormentato”
(così riferiscono le maestre), tanto che sono queste le volte in cui rimane indietro e di
conseguenza si innesca il problema.
Luca pratica uno sport: la pallacanestro. All’interno della squadra i rapporti con i compagni appaiono
buoni e lui si dimostra soddisfatto delle sue relazioni d’amicizia.
A casa Luca sembra avere un ottimo rapporto con Giulia che appare la sua figura d’attaccamento
principale. Giulia è molto presente nella vita di Luca: è lei che, principalmente, lo aiuta a fare i
compiti, è con lei che gioca, va al cinema e chiacchiera.
Damiano si dichiara “presente nella vita di Luca” e si definisce più “severo” rispetto a Giulia.
Questo emerge anche durante gli incontri con Luca che spesso arriva triste e con le lacrime agli occhi
a causa di qualche “sgridata ingiusta” da parte di Damiano. Nonostante questo emerge un sentimento
di ammirazione nei confronti del padre che Luca sembra imitare e rispetto a cui si sente simile.
Sindrome osservata
Gli strumenti di rilevazione utilizzati sono stati: il colloquio clinico, l’osservazione diretta, le
schede di analisi funzionale, il Questionario Emotivo Comportamentale (QEC).
I colloqui con i genitori, gli insegnanti e lo stesso Luca e i risultati del QEC rivelano un problema
di scarsa tolleranza alla frustrazione. In Luca l’ostacolo che genera frustrazione può presentarsi sotto
forma di impedimento oppure può scaturire dalla semplice dilazione di un soddisfacimento di un
bisogno. Gli incontri effettuati con le diverse figure educative indicano che i fattori scatenanti e di
mantenimento sono i medesimi. Allo stesso modo le schede di osservazione compilate con i genitori
e quelle di autosservazione con Luca rivelano indici che confermano lo stesso problema.
Ipotesi esplicativa
Il problema di Luca inizia a manifestarsi quando egli entra in contatto con le prime difficoltà. Secondo
la madre i primi episodi risalgono all’ingresso alla scuola materna. Dato l’esordio precoce
del problema si potrebbe ipotizzare una familiarità con tale problematica confermata dai racconti di
Giulia rispetto alle sue reazioni ad alcune difficoltà (Giulia riporta episodi in cui di fronte, per es.,
ad una sgridata da parte di Damiano si accovaccia, piange fino a non capire più niente, si tiene la te-
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sta tra le mani e dondola, comportamenti simili a quelli di Luca). Le reazioni stesse della madre potrebbero
essere diventate un modello di imitazione per Luca che in questo modo avrebbe rinforzato
la sua innata predisposizione (Bandura, 1962; 1969).
Giulia educativamente dimostra un alto calore emotivo ed un basso controllo al contrario di Damiano
il quale manifesta poco calore emotivo ed un alto controllo. Pertanto i modelli a cui Luca è
esposto sembrano poco coerenti tra di loro e poco equilibrati nel dispensare calore emotivo e controllo.
Tali stili educativi oltre ad aver innescato confusione potrebbero non aver contenuto e regolato
nel modo adeguato i comportamenti disfunzionali di Luca (Tausch e Tausch, cit. in Franta, 1988).
La letteratura scientifica riguardo al tema della frustrazione sostiene che le persone che mostrano
una scarsa tolleranza alla frustrazione siano immature dal punto di vista emotivo (Brophy, 1999).
Luca sembra infatti non possedere competenze adatte a gestire le sue emozioni, in particolare
frustrazione e rabbia. La competenza emozionale, a sua volta, si forma attraverso l’esposizione a
modelli competenti emozionalmente i quali sembrano, appunto, non essere stati all’altezza.
L’esperienza di situazioni frustranti, molto comune nell’esistenza di ognuno, ha un valore formativo
importante, perché favorisce la ricerca di soluzioni per risolvere i problemi. Dai racconti dei genitori
emerge che di fronte a tali esperienze frustranti Luca o è stato aiutato repentinamente a risolvere
la situazione, in particolare da Giulia, o è stato rimproverato da Damiano per il solo fatto di essere
incorso in una situazione di difficoltà.
Un fattore precipitante della situazione di Luca potrebbe essere stato la separazione dei genitori la
quale è stata probabilmente vissuta come un momento di forte stress per il quale la sofferenza e la
non accettazione della separazione stessa hanno innescato episodi di crisi di forte intensità.
Il processo che ha mantenuto il problema di Luca può essere compreso alla luce di un meccanismo
ricorsivo (Isola, Mancini, 2003) secondo il quale egli incontra una difficoltà di fronte alla quale
mette in atto una modalità di risposta tesa, secondo le sue ragioni, a risolvere il problema (piange,
urla e si dispera); la madre si avvicina a lui e lo consola, cercando di farlo calmare senza offrirgli
però una modalità alternativa di risposta a quella situazione; Luca, la prossima volta che incontrerà
una difficoltà, tenderà a mettere in atto lo stesso comportamento.
Oltre alla frustrazione Luca manifesta una scarsa capacità di gestire la rabbia come dimostrano gli
episodi di aggressività raccontati durante il percorso terapeutico. Sembra che la difficoltà principale
che si incontra nella metabolizzazione della frustrazione consiste nel rifiuto ad accettare il fastidio
prodotto dalla frustrazione stessa. La mancata gratificazione può così scatenare la reazione aggressiva
la quale può essere eterodiretta (rivolta verso l'esterno) oppure autodiretta (rivolta su di sé). Luca
manifesta episodi di aggressività sia rivolti verso se stesso (dà le testate al muro o al banco si tiene i
capelli con forza quasi a volerseli strappare) che verso gli altri (picchia i compagni).
Nell’analisi del caso sono emersi alcuni fattori di protezione e risorse importanti. In primo luogo il
calore affettivo ed il controllo manifestati da Giulia e Damiano anche se da ridimensionare e correggere;
la presenza di insegnanti altamente motivati nel voler affrontare e risolvere il problema di
Luca; la competenza sociale di Luca che gli consente di instaurare relazioni amicali positive e di ricevere
sostegno quando si trova in difficoltà; la presenza di un ampio ambiente familiare che permette
di sperimentare e mettere in atto i nuovi eventuali apprendimenti.
In conclusione pare che Luca abbia appreso una sequenza tipica di comportamenti come risposta
ad una situazione di difficoltà. Il pericolo potrebbe essere che a lungo andare, se non si apprendono
modalità e strategie differenti per rispondere a tali situazioni, si rischia di vivere esperienze di fallimento
e di conseguenza aspettative di fallimento o una serie di pensieri scomodi che potrebbero interferire
con la concentrazione e limitare le abilità di reagire e far fronte ai problemi che si incontrano.
Relazione terapeutica
Durante i primi incontri ho cercato di costruire un’alleanza terapeutica con i genitori di Luca. Ho
spiegato loro l’importanza di lavorare congiuntamente in modo coerente e collaborativo al fine di
122 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

ottenere risultati migliori.
Inizialmente ho fornito alcune informazioni circa l’approccio da me utilizzato servendomi della
metafora dell’uomo scienziato e dell’analogia ricercatore-supervisore di una ricerca. Giulia e Damiano
si sono dichiarati motivati e disposti a collaborare. Di fatto la loro collaborazione è venuta
meno rispetto ai compiti per casa che avevamo stabilito insieme. Ciò mi ha portato a cambiare strategia:
quando Giulia accompagnava Luca sfruttava il suo tempo rimanendo a studio e leggendo articoli
e materiali che io di volta in volta le consegnavo.
Ho accolto Luca proponendomi come figura di supporto, come persona che poteva aiutarlo ad affrontare
e risolvere le sue difficoltà. Anche con lui ho utilizzato l’analogia del ricercatore-supervisore
che Luca ha accettato con grande positività. Ci sono stati incontri in cui Luca è arrivato con il
broncio e molto arrabbiato per qualche accadimento. È stato difficile lavorare in questi momenti anche
perché Luca a volte piangeva quasi fino a perdere il respiro.
In generale la relazione che si è creata sia con i genitori di Luca che con Luca può definirsi positiva
e tale da aver contribuito alla riuscita del percorso terapeutico.
Progetto terapeutico
Alla fine del processo di assessment con Giulia, Damiano e Luca abbiamo stabilito insieme gli
obiettivi terapeutici i quali sono stati integrati e ampliati, durante il corso della terapia, in base alle
nuove esigenze emerse. Di seguito verranno elencati gli obiettivi le strategie d’intervento del percorso
terapeutico affrontato con i genitori e con Luca.
Percorso con i genitori
Obiettivi
• Accogliere la richiesta di Giulia e Damiano
• Definire il problema e ricostruirne la storia
• Descrivere il comportamento – problema di Luca
• Stabilire una buona relazione
• Conoscere le motivazioni all’intervento e la disponibilità alla collaborazione
• Fornire a Giulia e Damiano una chiara definizione del problema di Luca
• Stabilire gli obiettivi della terapia
• Promuovere uno stile genitoriale autorevole
• Proporre la tecnica della token economy familiare
• Offrire sostegno alla genitorialità
Strategie
Durante la prima fase della terapia con i genitori ho cercato di curare la nascita di una positiva relazione
terapeutica dimostrandomi disposta a comprendere il problema, ad accogliere le loro richieste
e disponibile a costruire un’alleanza.
Dopo che Giulia e Damiano hanno presentato il problema abbiamo cercato di ricostruirne insieme
la storia. In questa fase è stato dato spazio alla raccolta anamnestica delle informazioni. Successivamente
ho cercato di descrivere il comportamento – problema di Luca.
Ho indagato le motivazioni all’intervento e la disponibilità a collaborare esplicitando loro l’importanza
di un lavoro «insieme» per garantire maggiore riuscita all’intervento. Ho chiesto loro se fossero
d’accordo nel non utilizzare più l’espressione “crisi di nervi”. In alternativa abbiamo cercato di
individuare i singoli comportamenti in essa contenuti, al fine di dare ad ogni comportamento il suo
nome (es.: piangere, sbattere i pugni contro le tempie, piagnucolare ecc.).
Nel corso della terapia ho spiegato a Giulia e Damiano che i comportamenti di Luca sembrano derivare
da una scarsa tolleranza alla frustrazione; Luca ha appreso una sequenza tipica di comportamenti
come risposta alle situazioni di difficoltà. Ho presentato loro una proposta di intervento mira-
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ta all’acquisizione di nuove modalità di risposta di fronte alle situazioni di difficoltà. Poiché, insieme
alla necessità di imparare a gestire il comportamento – problema di Luca, Giulia e Damiano
hanno espresso l’urgenza di promuovere la sua autonomia, abbiamo stabilito insieme alcuni “accorgimenti
educativi” utili anche al fine di migliorare l’organizzazione e la gestione dello spazio familiare.
Di volta in volta tali accorgimenti educativi sono stati arricchiti in base a nuove esigenze
emerse nel corso della terapia.
Ecco alcuni esempi:
• Impoverire l’ambiente prima di andare a letto (per es. attraverso la proposta della lettura di
una storia)
• Chiedere ai figli di contribuire alle faccende domestiche
• Ιnsegnare l’ordine (per esempio chiedendo a Luca di prepararsi da solo lo zaino della scuola,
di rimettere al loro posto le cose dopo averle utilizzate, di ripiegare i propri vestiti)
• Chiedere a Luca di eseguire i compiti da solo e rivederli con i genitori una volta conclusi
Durante il corso della terapia Giulia e Damiano scelgono di ricongiungersi e di tornare a vivere insieme.
Mi confermano il loro desiderio di collaborare alla terapia e mi espongono alcuni problemi
legati all’organizzazione familiare e della casa. Mi dicono che: fanno fatica a seguire i figli nello
studio tutti i pomeriggi, i ragazzi in casa sono molto disordinati, non riescono a gestire il momento
in cui i figli devono andare a letto con il risultato che vanno a dormire molto tardi e la mattina fanno
fatica ad alzarsi, passano molto tempo (soprattutto Luca) davanti alla TV o giocando alla play.
In seguito a tale richiesta ho proposto loro il “gioco del capitano di giornata” esponendogli la programmazione
del gioco in base ai seguenti punti:
• Stabilire i “ desiderata”:
ogni membro della famiglia individua i comportamenti desiderabili,
esprime i cosiddetti “desiderata”. Questi devono essere formulati in modo preciso e devono
essere verificabili
• Nominare un “ capitano di giornata”
: a turno, durante la settimana, viene nominato un
capitano di giornata con il compito di controllare la situazione, ossia verificare se i
comportamenti desiderati sono stati messi in atto. Il capitano porrà una crocetta (se il
comportamento è stato messo in atto) in corrispondenza di ogni desiderata rispetto a ciascun
giorno della settimana
• Compilare un elenco di ricompense per ciascuno: “quelle che piacciono di più all’inizio
della lista; queste sono anche le più costose, perciò più una certa ricompensa piace più
crocette dovranno servire per ottenerla; decidete quante crocette servono per ciascun
premio”
• Convertire le crocette in premi: a fine settimana le crocette vengono sommate e si
stabiliscono le ricompense
Propongo loro di creare un cartellone e di appenderlo in una parete visibile e accessibile a tutti.
Giulia e Damiano sembrano entusiasti anche se manifestano subito l’impegno che il gioco richiede.
Con i genitori, in particolare con Giulia ho lavorato tramite letture ed esercizi assegnati mentre Giulia
aspettava che Luca terminasse l’incontro con me.
Percorso con Luca
Obiettivi
• Accogliere Luca e comprendere se conosce le motivazioni della richiesta dell’aiuto terapeutico
• Stabilire una buona relazione
• Motivare Luca all’intervento e promuovere la sua disponibilità alla collaborazione
• Definire il problema dal punto di vista di Luca
• Descrivere il comportamento – problema di Luca
• Scomposizione del comportamento molare in una sequenza molecolare vs destrutturazione
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• Eliminare l’etichetta “crisi di nervi”
• Produrre comportamenti alternativi adeguati
• Comprendere i segnali del proprio corpo
• Imparare a distendersi prima di affrontare un compito impegnativo
• Trovare comportamenti adeguati di fronte a situazioni difficili
• Aumentare le ore di sonno
• Imparare a riconoscere e gestire le proprie emozioni
• Comprendere la connessione tra emozioni, pensieri e comportamenti
• Imparare a calmarsi
• Passare da uno stile attributivo esterno ad uno interno
Strategie
Durante i primi incontri con Luca abbiamo cercato di esplorare insieme il suo comportamentoproblema.
Luca mi ha parlato delle sue “crisi nervose” senza che io facessi riferimento a questi episodi
descrivendole così come i genitori le avevano precedentemente presentate. Ho cercato di motivare
Luca al percorso terapeutico proponendomi come figura guida e di supporto. Consapevole della
dedizione che l’intervento avrebbe lui richiesto mi sono impegnata ad introdurre nella terapia giochi
ed esercizi originali utilizzando fogli colorati, pastelli e pennarelli. Inoltre ho adottato flessibilità
nella cura del contesto, lasciando Luca libero di decidere se sedersi sul divano, per terra sopra un
tappeto o davanti alla scrivania.
Per comprendere e descrivere il problema di Luca abbiamo cercato di compilare insieme delle
schede di autosservazione seguendo la sequenza A-B-C. Ho proposto a Luca di riempire una piccola
scatola colorata con alcuni foglietti in cui abbiamo scritto i comportamenti che caratterizzano la
“crisi di nervi”: piangere, sbattere i piedi per terra, piagnucolare, dare pugni contro le tempie, ecc.
Una volta riempita la scatola l’abbiamo svuotata leggendo ad alta voce tutti i comportamenti trascritti.
A questo punto ho chiarito con Luca che i comportamenti descritti nei foglietti di carta rappresentavano
tutti i comportamenti presenti nella sua “crisi di nervi”. Terminata l’attività ho chiesto
a Luca se fosse d’accordo nel decidere di non usare più l’espressione “crisi di nervi” iniziando a
chiamare, invece, ogni comportamento con il suo nome.
Al fine di trovare alternative comportamenti adeguate ho proposto a Luca di costruire un fiore. Al
centro abbiamo inserito la situazione – problema, (es. “quando non so rispondere alla domanda di
una verifica”) inserendola in un cerchio che abbiamo ritagliato e messo da parte. In seguito abbiamo
disegnato e ritagliato i petali che avrebbero rappresentato le alternative di soluzione di fronte a quella
situazione. Luca ha voluto chiamare i petali “rimedi positivi”. Ecco alcuni esempi: chiedere aiuto
ad un compagno; lasciare per il momento la domanda e andare avanti; se anche non si riesce a rispondere
lasciare la risposta in bianco; chiedere aiuto alla maestra; meditare come gli indiani...respirare
profondamente e andare avanti. Abbiamo chiamato il fiore: “il fiore delle alternative”. Ogni
volta che in terapia veniva costruito un fiore lasciavo a Luca, come compito per casa, la ricostruzione
del fiore. Il fiore ricomposto sarebbe stato attaccato su un foglio e Luca avrebbe riscritto in elenco
i rimedi positivi in modo da poterli leggere ogni volta che ne avrebbe avuto necessità. Ho suggerito
a Luca di appendere i fiori, in modo da averli sempre visibili e a disposizione con l’indicazione
che avesse trovato altri rimedi funzionali potevano essere aggiunti.
Durante il corso della terapia è capitato che Luca sia arrivato molto stanco e assonnato. Da
un’analisi della situazione è emerso che ciò accade quando si sente stanco, si annoia o non gli va di
fare qualcosa; a volte si sente così prima di iniziare a studiare. Visto il suo desiderio di “muoversi
un po’” gli propongo alcuni esercizi fisici per sgranchirsi dicendogli che può apprenderli per poi
utilizzarli quando ne sente il bisogno.
Sempre in merito alla stanchezza e alla sua voglia di dormire compare la difficoltà, specialmente
durante le prime ore a scuola, a seguire l’insegnante con attenzione. Dopo aver indagato la situazione
emerge che ciò capita quando la sera precedente è andato a letto tardi (Luca in genere dorme 7
ore a notte). Spiego a Luca che per evitare di sentirsi stanco e assonnato a scuola, dovrebbe dormire
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almeno 8-9 ore. Propongo lui un diario. Disegniamo insieme una tabella con 3 colonne riportanti i
giorni della settimana, l’orario in cui è andato a letto quel giorno e la firma di un supervisore. Luca
decide che il supervisore sarà la mamma o il papà. Stabiliamo insieme un orario per andare a letto
(22.30, invece che le 00.00). A questo punto coinvolgiamo Giulia e la informiamo della scelta.
Scriviamo insieme un contratto in cui Luca s’impegna a rispettare tale orario che verrà controllato
dal supervisore il quale firmerà per ogni giorno della settimana, mentre Giulia s’impegnerà, per
ogni settimana in cui l’orario viene rispettato, a concedere un premio a Luca. Il premio verrà deciso
durante le nostre sedute.
A seguito della richiesta esplicita di Luca di voler riuscire a controllare la sua rabbia, al fine di
non aggredire più i compagni, abbiamo iniziato un lavoro sulle emozioni finalizzato a: riconoscere
le componenti coinvolte in una risposta emotiva, riconoscere le proprie risposte emotive di fronte ad
alcune situazioni stimolo, scoprire le connessioni esistenti tra pensieri, emozioni e comportamenti,
valutare l’adeguatezza delle proprie risposte emotive (Becciu, Colasanti, 2004). Nel lavoro sul
riconoscimento delle emozioni mi sono servita del pc (strumento che Luca ha accolto con grande
entusiasmo) per la proiezioni di immagini raffiguranti emozioni. Abbiamo in seguito lavorato sui
pensieri associati alle emozioni, in particolare, di rabbia e frustrazione a partire dagli episodi portati
in terapia da Luca. Tali pensieri li abbiamo chiamati caldi/roventi. Ho cercato di far prendere consapevolezza
a Luca che il tipo di pensiero ed emozione prodotti influenzano l’emissione o meno di un
certo comportamento. La fase successiva è consistita nell’insegnare a Luca a modificare i propri
pensieri caldi sostituendoli con pensieri freddi. Luca in questo modo si è reso conto che modificando
il pensiero poteva mutare la propria risposta emotiva e conseguentemente il proprio comportamento.
Ho integrato il lavoro sulla gestione delle emozioni attraverso l’insegnamento di una tecnica breve
di rilassamento, finalizzata alla gestione immediata di emozioni di rabbia e frustrazione sperimentate,
spesso da Luca, con un’intensità talmente elevata da farlo piangere fino quasi a perdere il respiro.
Ho proposto a Luca uno strumento caratterizzato dai seguenti passi: respirare profondamente,
contare alla rovescia da 20 a 1, pensare a qualche cosa di piacevole (Goldestein, Glick, 1990).
A conclusione della terapia ho ritenuto necessario lavorare sullo stile attributivo, poiché Luca ha
iniziato a pensare che il suo miglioramento fosse dovuto alla mancata presenza di eventi – stimolo
che innescavano il suo comportamento – problema. Questo tipo di lavoro è servito a passare da
un’attribuzione esterna ad una interna.
Verifica dei risultati e follow up
A conclusione del percorso Luca riesce a produrre comportamenti alternativi più funzionali sia a
casa scuola che a casa. Rispetto a quanto riferiscono gli insegnanti Luca, di fronte alle difficoltà, ha
reazioni più “positive e adeguate”. I comportamenti problematici sono diminuiti sia a livello
d’intensità che per numero di episodi. Luca racconta di non picchiare più i compagni. A casa Giulia
dice che la “situazione è migliorata”: Luca piange molto meno e quando lo fa “il suo pianto non
dura più le ore”. Rispetto alla sua autonomia la mattina si veste da solo ed esegue anche i compiti
da solo quasi sempre. Resta il problema del disordine che Giulia, sorridendo, mi dice di non riuscire
a risolvere. Le ore di sonno di Luca sono aumentate ed il diario viene sempre utilizzato anche se
Giulia spesso non è puntuale nella consegna del suo premio.
L’incontro di follow up stabilito a conclusione della terapia non è avvenuto a causa della disdetta
dell’appuntamento da parte di Giulia.
Bibliografia
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126 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

Becciu M., Colasanti A. R. (2004). La promozione delle capacità personali. Teoria e prassi. Milano:
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Fedeli D. (2009). Educare alle regole. Psicologia e Scuola. Anno 29°, Mar. – Apr.
Franta H. (1988). Atteggiamenti dell’educatore. Teoria e training per la prassi educativa. Roma:
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Goldestein A.P., Glick B. (1990). Stop all’aggressività. Un approccio educativo integrato per la
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Isola L., Mancini F. (2003). Psicoterapia cognitiva dell’infanzia e dell’adolescenza. Milano: Franco
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Portmann R. (1997). Anche i cattivi giocano. Giochi per gestire l’aggressività. Molfetta: La Meridiana.
Seligman Martin E.P. (2006). Come crescere un bambino ottimista. Insegniamo agli adulti di domani
a vedere i lati positivi della vita. Milano: Sperling & Kupfer Editori.
Sitografia
http://www.mariodipietro.it/
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 127

SPERIAMO... CHE GLI PRENDA UN COLPO!
Di Cinzia Dell’Imperio, Psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, collaboratrice a contratto presso Ospedale
“S. Camillo de Lellis” Rieti, libera professionista presso studi medici Roma e Rieti,
mail:cinzia.dellimperio@virgilio.it
Dati anamnestici
Giorgio, 12 anni, frequenta la prima media, vive con i genitori e la sorella Gaia di 8 anni, che frequenta
la terza elementare. Pratica attività atletica due volte a settimana e il catechismo una volta a
settimana. Si presenta per la prima volta accompagnato dai genitori e la sorella, arrivando in anticipo
all’appuntamento. G. appare timido e introverso, anche se con la sorella sembra avere un rapporto
fatto di complicità e di gioco.
Motivo della richiesta e contratto iniziale
I genitori lo descrivono come un bambino estremamente timido, che si isola sia a scuola che nelle
attività ricreative, e non riesce a socializzare con i suoi coetanei. Il padre lo vede come un bambino
incapace di difendersi dagli attacchi dei compagni, incapace di rispondere, tanto da essere soprannominato
“muto” dai compagni di atletica. Mi racconta alcuni episodi in cui G. mostra estrema timidezza
in pubblico, ad esempio nelle vittorie di gare, in cui si vergogna a salire sul podio. La mamma,
invece, mi parla della gelosia di G. nei confronti della sorellina di 8 anni, Gaia. Mi descrive G.
come un bambino molto buono e affettuoso con tutti, in particolare con lei. Infatti G. mostra un
particolare attaccamento alla madre, cerca spesso un contatto fisico con lei e continuamente il suo
sguardo. Mi raccontano, e lo osservo direttamente, che spesso G. richiede attenzioni, ad esempio sedendosi
in braccio alla madre o al padre, oppure toccando e infastidendo i genitori quando si fermano
a parlare con qualcuno. Definiscono G. un bambino vittima di bullismo da parte dei compagni di
classe.
Un’altra loro preoccupazione è il rendimento scolastico di G. in quanto all’ultimo colloquio i docenti
hanno detto loro che si blocca alle interrogazioni e non parla: vedono che a casa studia, ma a
scuola poi si chiude.
Ho specificato ai genitori l’importanza del loro ruolo e del loro impegno sia nella fase della raccolta
delle informazioni che in quella successiva del trattamento, cercando di responsabilizzarli al
cambiamento. Abbiamo concordato le modalità della raccolta delle informazioni e cioè direttamente
con loro sia durante i colloqui che attraverso la compilazione di questionari da effettuare a casa, e
con G., attraverso varie forme e utilizzando vari strumenti diagnostici.
Definizione del problema
Seguono i primi colloqui di definizione del problema con i genitori, poi solo con G., che sceglie
come problema dominante la paura delle interrogazioni a scuola, in particolare quelle di italiano.
ABC DEL PROBLEMA
• Quando, dove, come, con chi si presenta: si presenta soprattutto con il professore di italiano,
nonostante G. affermi di trovarsi bene con lui e non lo trovi antipatico
• Descrizione dettagliata di un’interrogazione recente: mentre aspetta che arrivi il professore,
G. pensa “speriamo che sia ammalato e che non venga, che gli prenda un colpo”. Quando il
professore entra in classe, G. pensa “Speriamo che scivoli per terra e si rompa una gamba”
e lo dice anche ai compagni, sbattendo la testa sul banco. Quando il professore esce
dall’aula per andare in bagno, G. pensa “Speriamo che la tazza del water esploda”, “Speriamo
che rimanga chiuso nel bagno”, “Speriamo che un compagno, uscendo, gli sbatta la
porta in faccia”. Poi il professore rientra in aula e lo chiama all’interrogazione. Lui pensa
“Che rottura! Che gli possa prendere un colpo! Speriamo che gli cada la lampada in testa e
lo ammazzi”. Il professore gli chiede l’argomento del giorno e lui non risponde. Il professore
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chiede se ha studiato e lui risponde di sì, ma il professore, visto il suo silenzio, non gli crede
e chiede perché non ha studiato. Lui non risponde, c’è tutto silenzio in classe. Poi, dopo,
“per non prendere proprio quattro”, quando gli fa delle domande precise, lui risponde
• Descrizione delle emozioni problematiche e identificazione delle sue risposte comportamentali
(C): Già quando G. entra in classe e sa che avrà italiano, il suo cuore comincia a battere
più forte, prova una forte paura ed ansia. Poi, quando il professore entra in aula la tachicardia
aumenta sempre più con un’escalation graduale fino a quando non riesce a dire alcune
parole, a rispondere, pur in modo sintetico e conciso ad alcune delle domande dell’interrogazione.
Risponde con un grado elevato di ansia anche a livello fisiologico, ossia con tremore,
nausea, senso di soffocamento, eccessiva sudorazione, rossore al volto e un senso di tensione.
A livello cognitivo, invece, continua a sperare che al professore accada qualcosa che lo
salvi dall’interrogazione. Quando vede che le sue aspettative vengono deluse ogni volta,
l’ansia cresce sempre di più. Essa diminuisce solo quando riesce a pronunciare qualche parola
• Elementi scatenanti attivanti il disturbo: (presenza di situazioni critiche interne ed esterne -A
critici-): paura di un brutto voto, paura di portare una nota a casa, di fare brutta figura coi
compagni, paura che S. e M. (i suoi due compagni che lo prendono in giro) ridano di lui
(cosa che accade spesso)
• Individuazione delle convinzioni disfunzionali di G:
Su di sé :
“Voglio studiare per rendere felice mamma”
“Non riuscirò a rispondere alle interrogazioni, farò la solita figura dello sciocco”
“Sono ridicolo quando parlo o leggo davanti ai compagni”
Sui compagni:
“Mi guarderanno tutti, penseranno che sono stupido”
• Reazioni di G al suo comportamento disturbato (C): (Es. dopo un insuccesso scolastico)
Si chiude ancora di più in se stesso
Prova tristezza
Consapevolezza di non essere accettato e rispettato dagli altri e di non valere
Seguono dei colloqui di raccolta di informazioni sulla storia del problema, prima di effettuare
un’ipotesi diagnostica.
Ipotesi diagnostica
Fobia sociale generalizzata (APA, 2000; OMS, 1996).
Valutazione psicodiagnostica
Test utilizzati
Strumenti utilizzati Settore di indagine
Matrici di Raven Cognitivo
Test dell’albero (K. Koch) Emotivo
Favole della Duss Dinamiche interpersonali
Persona sotto la pioggia Difese e reazioni agli stress ambientali
In particolare, per valutare l’intelligenza, è stata utilizzata la serie completa delle Matrici di Raven.
Il punteggio ottenuto è di 46 risposte esatte su 60 e lo colloca per età oltre il 75° percentile. G.
ha un’intelligenza brillante, anche se sul versante del rendimento scolastico si rilevano delle difficoltà
non strutturate in un disturbo vero e proprio. La grafia non è elegante ma leggibile, si rileva
una scarsa propensione alle autonomie personali e ad un’attribuzione di responsabilità interna delle
proprie azioni. Molto forte è in lui la paura del giudizio esterno. G. è un bambino timido e introver-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 129

so, con comportamenti spesso egocentrici, caratterizzati dal bisogno di sentirsi continuamente al
centro dell’attenzione. Il bambino potrebbe aver bisogno di essere seguito inizialmente, per poi
esprimersi al meglio, una volta acquisita la sicurezza in se stesso necessaria. Ma G. mostra anche un
lato del carattere attivo e intraprendente, con tanta voglia di fare, disponibilità verso gli altri e senso
dell’amicizia nonché un forte attaccamento alle figure genitoriali, in particolare alla figura materna.
È stato inoltre compilato un elenco delle paure, un elenco delle alternative e sono stati messi in
atto degli esercizi di role-playing (inversione dei ruoli, lui nel ruolo del suo migliore amico che cerca
di rassicurarlo prima di un’interrogazione, io nei panni di G. che ha paura perché sa di essere interrogato
ed è convinto di far brutta figura) (Isola, 2006).
Alla fine della fase valutativa, ho confermato l’ipotesi diagnostica di fobia sociale generalizzata.
È seguito un colloquio di restituzione della valutazione effettuata e la presa di decisione da parte
di G. e dei genitori a proseguire col trattamento.
Riformulazione del contratto terapeutico e individuazione di obiettivi da raggiungere
A questo punto il contratto viene riformulato, avendo avviato la fase del trattamento vero e proprio.
Definiamo insieme a G. i seguenti obiettivi da raggiungere:
• Miglioramento delle competenze sociali
• Potenziamento dell’autonomia
• Incremento dell’assertività
• Gestione delle emozioni problematiche, in particolare ansia
Non si è ritenuto di inserire tra gli obiettivi un trattamento sulle sue ideazioni a contenuto emozionale
di rabbia inespressa, in quanto l’emozione è stata contenuta con un training comportamentale
per rafforzare le risorse di G.
Fase del trattamento
• Intervento Comportamentale:
Role-playing, homework, inizio di TSA (training per le abilità sociali).
• Intervento sulla paura sociale:
Tecniche per il superamento della paura in contesti sociali, per poter utilizzare le abilità sociali apprese
successivamente.
Data la difficoltà a comunicare con G. a causa della sua timidezza, ho provato già durante
l’assessment a mettere in scena dei role-playing riguardanti le situazioni che lui mi riportava come
le più imbarazzanti e difficili da affrontare, come ad esempio una mattinata in classe prima dell’arrivo
del professore di italiano, giornata in cui sapeva che sarebbe stato interrogato.
• Intervento Cognitivo:
Individuazione di credenze disfunzionali (Beck, 1976), loro messa in discussione, ristrutturazione
cognitiva con alternative funzionali.
Abbiamo individuato con G. alcune sue credenze disfunzionali che costituivano dei pensieri intrusivi
talmente forti da inibire ogni suo comportamento durante le performances scolastiche. G. mi
racconta che avvertiva una rigidità crescente a livello muscolare che lo bloccava anche a livello motorio.
Alcuni di essi li abbiamo così riassunti:
• Predizioni negative su di sé: “Non riuscirò mai a farcela”; “Anche oggi farò come l’altra
volta”; “Farò la solita figura dello sciocco”
• Sui compagni: “Penseranno che sono stupido”; “Tutti mi guardano”; “Mi giudicano incapace”;
“I soliti 3 compagni rideranno di me”
• Sui genitori: “Tornerò a casa con un brutto voto”; “Mamma mi sgriderà e non mi parlerà
più per 2 giorni”; “Non mi aiuterà più a fare i compiti il pomeriggio”
Ristrutturazione cognitiva: abbiamo effettuato una ristrutturazione cognitiva, analizzando e met-
130 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

tendo in discussione ognuna delle sue credenze patogene e fornendo delle alternative funzionali, alternative
che G. stesso ha individuato seguendo la tecnica: “Cosa consiglieresti ad un tuo amico che
si trovasse nella tua situazione?”.
Homework: ho utilizzato delle schede di autosservazione che G. ha compilato a casa, subito dopo
le sue interrogazioni precedenti o alcune performances da lui ritenute fallimentari (esempio: leggere
a voce alta in classe, rispondere a semplici domande dal posto). Abbiamo sostituito al dialogo interno
frasi come “Non ce la farò mai” con altre che rivalutassero in positivo le sue risorse personali, ricordando
episodi in cui la performance era andata bene e bloccando così la sua memoria selettiva
dei fallimenti. Abbiamo stilato insieme un elenco delle sue capacità, con il compito di leggerlo almeno
2 volte al giorno o in ogni momento in cui si sentisse demotivato.
Desensibilizzazione sistematica (D.S.) (Borgo, 2001): G. arriva all’incontro sorridente e felice di
raccontarmi il successo ottenuto all’interrogazione di storia. Il professore gli ha fatto addirittura i
complimenti, dicendogli di aver sempre creduto in lui e che, visto che all’interrogazione di storia
aveva dimostrato di potercela fare, si aspettava un bel risultato anche all’interrogazione di italiano.
Questa era per G. fonte di grande preoccupazione e di ansia. Temeva di poter deludere il professore
che aveva per la prima volta mostrato fiducia in lui. Così gli propongo di effettuare una desensibilizzazione
sistematica (D.S.). Lo invito a compilare una gerarchia di eventi ansiogeni in ordine di
intensità progressivamente crescente. G. appare motivato a migliorare, fiducioso nelle sue capacità,
a differenza dei precedenti incontri. Stavolta sente che ce la può fare, c’è sempre quella vocetta dentro
di lui che gli ricorda le sue capacità, ormai imparate a memoria. Contemporaneamente, mentre
lui compila la gerarchia, lo addestro ad ottenere un rilassamento muscolare, utilizzando le contrazioni
e decontrazioni del metodo Jacobson.
Lista degli eventi ansiogeni:
• Frequentare gli allenamenti di atletica leggera
• Vincere le gare e salire sul podio
• Leggere ad alta voce in classe
• Rispondere a semplici domande dal posto in tutte le materie
• Interrogazioni alla cattedra di tutte le materie
• Interrogazione di italiano
G. raggiunge quasi subito una buona capacità di rilassamento, e così cominciamo la D.S. vera e
propria, facendogli immaginare prima gli stimoli ansiogeni che secondo la sua gerarchia suscitano
l’ansia minore, ossia andare agli allenamenti sportivi col gruppo dei compagni. G. riesce subito a
descrivere la situazione con molti dettagli e senza dar segno di disagio alcuno, così proseguiamo col
secondo evento ansiogeno e così via.
Coping imagery: visto che G. riesce a visualizzare senza ansia tutte le situazioni, introduco
all’interno della D.S., la tecnica del Coping imagery (Sacco, 2003), in cui lo addestro, mentre visualizza
una scena, ad immaginare se stesso che affronta attivamente l’ansia mediante accorgimenti
tecnici (respiri lenti e profondi) e mentre si fornisce le autoistruzioni concordate precedentemente
insieme.
Risultati raggiunti e conclusioni
Colloquio di chiusura con G. in cui preventiviamo un incontro finale con i genitori per comunicare
loro i risultati raggiunti e la sospensione della terapia. Ripercorriamo insieme tutte le tappe,
dall’inizio dei colloqui ad oggi, e G. sorride dei suoi pensieri intrusivi e delle sue convinzioni che lo
bloccavano davanti agli altri. Ora è consapevole che, anche se avrà un po’ di ansia e di agitazione
alle interrogazioni o alla premiazione delle gare, ha in mano gli strumenti per gestirla al meglio.
Concordiamo anche un incontro di follow up tra 2 mesi, prima della pausa estiva.
Obiettivi raggiunti:
• Innalzamento dell’autostima
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 131

• Capacità di seguire le regole in casa che lo portano verso il raggiungimento di un’autonomia
personale (svolgimento dei compiti da solo, dormire in camera con la sorella, non chiedere
più a mamma se lo manda a scuola l’indomani)
• Affrontare situazioni ansiogene (interrogazioni e vittoria di gare) gestendo le sue emozioni,
in particolare controllando il suo livello di ansia
Follow up
G. torna a giugno e mi racconta delle sue vittorie alle corse campestri, di come si sia preparato il
giorno prima di salire sul podio. Mi racconta contento delle sue interrogazioni del secondo quadrimestre
che lo hanno portato alla promozione. I genitori si lamentano dei voti bassi. Concordiamo
che la sufficienza e qualche sette nelle materie artistiche e musicali sono un bel risultato e sottolineo
il grande cambiamento che vedo in lui e nei traguardi raggiunti finora.
Bibliografia
American Psychiatric Association (2000). DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi
mentali: criteri diagnostici. Milano: Masson.
Bara G.B. (a cura di). (2005). Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Milano: Bollati Boringhieri.
Beck A.T. (1976). (Trad. ita.). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Bijou S.W. (1997). Analisi comportamentale dello sviluppo infantile. Milano: Mc Graw-Hill.
Borgo S., Della Giusta G., Sibilia L. (a cura di). (2001). Dizionario di psicoterapia cognitivocomportamentale.
Milano: Mc Graw-Hill.
Bowlby J. (1979). Costruzione e rottura dei legami affettivi. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Kaplan H.I., Sadock B.J. (2001). Psichiatria clinica. Manuale di scienze del comportamento e
psichiatria clinica. Torino: Centro Scientifico Editore.
OMS. (1996). ICD-10. Classificazione delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali.
Isola L., Mancini F. (a cura di). (2006). Psicoterapia cognitiva dell’infanzia e dell’adolescenza.
Milano: Franco Angeli.
Sacco G. (2003). Psicoterapia e sistemi dinamici. Milano: Mc Graw-Hill.
Sunderland M. (2006). Aiutare i bambini…a superare ansie o ossessioni. Trento: Erickson.
132 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

ANSIA DA VALUTAZIONE IN AMBITO SCOLASTICO E FATTORI DI CRITICITÀ:
IL CASO DI ALICE.
Di Monica Vanzella, Psicologa, Psicoterapeuta, mail: monicavanzella@libero.it
Il caso clinico descritto è relativo ad un percorso psicoterapeutico condotto con una ragazza di 18
anni che frequenta l’ultimo anno del Liceo Socio Psicopedagogico. La paziente presentava problemi
di ansia da valutazione in ambito scolastico, ma anche altri importanti fattori di criticità che
evidenziavano come i problemi scolastici fossero solo i più evidenti. L’articolo descrive il motivo
della richiesta, la valutazione (assessment), la sintesi valutativa, l’intervento psicoterapico realizzato
e la relazione terapeutica stabilita. Il percorso psicoterapico ad orientamento cognitivo comportamentale
è stato finalizzato ad accompagnare la paziente in un percorso volto a favorire la riduzione
dell’ansia e la messa in atto di strategie e comportamenti adattativi in ambito scolastico, ma anche a
sviluppare comportamenti assertivi, ampliare la gamma degli interessi, migliorare i rapporti nelle
relazioni sociali, favorire la competenza emotiva e sviluppare l’autonomia personale e un progetto
di vita.
Motivo della richiesta
Venni inizialmente contattata telefonicamente dalla madre di Alice che mi chiese un appuntamento
per la figlia che “ha bisogno di aiuto per problemi riguardanti l’ambito scolastico”. A scuola era
sotto pressione ed era molto preoccupata per l’Esame di Maturità di fine anno. Stava studiando tantissimo
ma pensava di non farcela perché lo studio stava diventando sempre più impegnativo e
c'erano due materie in particolare in cui arrivava “tirata, tirata alla sufficienza”. Per questo era
sempre molto nervosa e i genitori erano particolarmente preoccupati.
Diario degli incontri
Il percorso realizzato con Alice ha avuto una durata di circa un anno, con incontri a frequenza settimanale
e quindicinale negli ultimi due mesi, più due incontri di catamnesi (follow up), a tre e a sei
mesi dalla conclusione della terapia.
Valutazione psicologica – assessment
Strumenti di rilevazione
Gli strumenti utilizzati durante la valutazione sono stati i seguenti:
• Il colloquio clinico
• L'osservazione
• La batteria CBA 2.0 (Bertolotti, Michielin, Sanavio, Simonetti, Vidotto, Zotti, 1986)
• Il Picture Frustration Study – forma per adolescenti (Rosenzweig, 1992)
• Self-reports idiografici (ABC di A. Ellis, diari autosservativi dei pensieri)
Anamnesi soggettiva
Alice è nata in un piccolo paese di provincia, dove vive con i genitori e il fratello minore. Il padre
ha 60 anni. È un uomo molto impegnato nel lavoro, ma anche legato alla famiglia. Alice lo definisce
un uomo all’antica, molto rigido nelle regole, che parla poco. Ha sempre delegato l’educazione dei
figli, ma se qualcosa non va secondo le sue aspettative interviene, solitamente con la moglie che la
reputa responsabile dell’andamento della casa e della famiglia. Tiene molto ai risultati scolastici dei
figli perché ritiene che al giorno d’oggi sia fondamentale avere un buon titolo di studio per crearsi
una posizione. La madre ha 48 anni, è nata in Russia e fa la casalinga. Si è trasferita in Italia quando
ha conosciuto il marito che si trovava in Russia per lavoro. È completamente dedita alla famiglia,
presente e partecipe in tutto con i figli. Alice riporta che la madre non ha altri interessi al di fuori
della sua famiglia e che è molto legata a lei e a suo fratello. La descrive come una persona molto
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 133

ansiosa e più docile e affettuosa del padre, ma comunque rigida nelle regole. Come il marito, anche
lei tiene in modo particolare alla preparazione scolastica dei figli. Il fratello di Alice ha 15 anni e
frequenta il secondo anno del Liceo Classico. Alice lo descrive come un “ragazzino molto intelligente,
ma che a scuola non si impegna e che pensa solo ad uscire con gli amici”. Nonostante ciò,
non è mai stato né bocciato, né rimandato. I genitori lo hanno sempre considerato un ragazzo brillante,
ma con poca voglia di fare, mentre Alice una ragazza diligente, buona, educata, che necessita
però di più tempo per fare le cose e di essere sostenuta.
Per Alice la scuola ha sempre rappresentato l’aspetto più importante della sua vita, dopo la famiglia.
Sia alle elementari che alle medie i rapporti con le maestre e gli insegnanti erano positivi. È
sempre stata una studentessa studiosa, che si impegnava molto, a volte anche più del dovuto, per
questo ben vista dagli insegnanti. I rapporti con i compagni erano invece piuttosto negativi. La
prendevano in giro perché era un po’ “cicciottella” e perché studiava tanto. A ricreazione stava spesso
sola, separata dal gruppo. Nonostante ciò la facesse stare molto male, aveva reagito facendo finta
di nulla, confidandosi solo con la madre che, preoccupata, era andata a parlare con i professori che
non avevano però dato più di tanto peso alla situazione. Alice non riportava nessun esempio di amica
alla quale si sia particolarmente legata durante tutti gli anni della scuola. Le sue frequentazioni
hanno sempre riguardato solo i cugini e i figli degli amici dei genitori in situazioni familiari.
Alle superiori si iscrisse al Liceo Scientifico, nonostante i professori lo avessero sconsigliato. A
loro parere sia il Liceo Classico che Scientifico (inizialmente la scelta dei genitori si era rivolta a
queste due scuole) non erano alla portata di Alice. Lei sapeva che lo Scientifico era una buona scuola
e perciò era d’accordo con i genitori. Il primo anno, nonostante l’impegno, le ripetizioni e l’aiuto
dei professori, i risultati erano al limite della sufficienza. Aveva incontrato particolari difficoltà soprattutto
nelle materie scientifiche. Con i compagni di classe i rapporti erano però decisamente migliori
rispetto gli anni precedenti, anche se si trattava sempre e solo di rapporti di natura scolastica.
Viste le difficoltà, ha cambiato scuola e si è iscritta al secondo anno del Liceo Socio
Psicopedagogico nel quale, fino all’attuale quinto anno, ha sempre ottenuto buoni risultati.
Situazione iniziale
Alice trascorreva le giornate totalmente immersa nello studio. Il suo obiettivo per quest’anno era
arrivare preparata all’Esame di Maturità e uscire un buon voto. Aveva sempre avuto la media del
sette in quasi tutte le materie, ma quest’anno era un po’ diminuita “a causa della maggiore complessità
degli argomenti”. L’impegno richiesto quest’anno era decisamente superiore rispetto a quello
degli anni passati e per lei era particolarmente faticoso mantenere i ritmi che si era imposta. Alice
studiava dalle sei alle sette ore al giorno, sabato e domenica comprese, anche dopo cena, e faceva ripetizioni
due volte alla settimana. Trascorreva la maggior parte del tempo a trascrivere le lezioni registrate
in classe e a fare continue ricerche di approfondimento su internet, chiusa nella sua cameretta,
facendo solo brevi pause durante le quali ascoltava musica o “chattava” su internet.
Raccontava che spesso quando era a casa le capitava di scoppiare improvvisamente a piangere
perché sosteneva di non farcela più a reggere così tanto impegno. Mentre la madre accorreva a sostenerla,
ricordandole che erano gli ultimi sforzi, il fratello il più delle volte la prendeva in giro. Ciò
che più la faceva star male era il fatto che, nonostante tutto, i risultati non erano poi così eccellenti e
la preoccupava in particolare la situazione in Italiano e Scienze Sociali. “I due insegnanti sono nuovi
e ce l’hanno con me… Mi attaccano e non mi sostengono come invece dovrebbero fare… Tutto
quello che io faccio o dico non va mai bene del tutto… Quanto vorrei ci fossero ancora i professori
dell’anno scorso… con loro avevo il sette pieno e si complimentavano sempre con me per l’impegno”.
In entrambe le materie, nello scritto ha la media del sei, mentre nell’orale i suoi voti variavano
tra il cinque e mezzo e dal cinque al sei. Alice sosteneva che i suoi genitori erano molto preoccupati
che il forte stress a cui era sottoposta potesse compromettere il risultato dell’esame finale.
Con i compagni di classe non andava d’accordo perché l’accusavano di mettersi “in mostra con i
professori facendo mille ricerche di approfondimento e alzando sempre la mano”. Li descriveva
134 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

“superficiali e stupidi” e utilizzava queste motivazioni per non frequentarli, anche se dai racconti
sembrava che fossero soprattutto loro ad evitarla.
Alice non usciva quasi mai. Affermava di stare bene così e di dover, soprattutto in quel periodo,
concentrare tutte le sue forze nella scuola. Di fatto passava molto tempo davanti al computer per
studio, ma anche per “chattare”. Mi raccontava che tramite chat aveva conosciuto tante persone con
le quali parlava di scuola, musica, politica… e che questo era spesso motivo di litigio con la madre
che non voleva entrasse in contatto con persone sconosciute. Raccontava che spesso la madre la
controllava, ma aggiungeva anche che si era abituata a questo suo comportamento: “Mia mamma
mi controlla sempre qualsiasi cosa, dal computer, al telefono, allo zaino, pensando che non me ne
accorga… Mi dà fastidio quando fa così, ma non posso farci nulla, è fatta così e non cambierà
mai”.
I suoi passatempi preferiti erano navigare su internet, ascoltare musica, leggere e informarsi
sull’attualità. Le piaceva, in modo particolare, seguire la politica e poi confrontarsi con il padre. Rispetto
al futuro, dichiarava che fin da piccola non aveva mai avuto progetti o desideri particolari.
L’unica cosa per lei importante è andare all’Università e avere una buona istruzione.
Sebbene molto provata da questa situazione, Alice si rivelava motivata alla terapia: “sono disposta
a venire da lei anche tutti i giorni, ma la prego… mi deve aiutare”. Le chiesi cosa si aspettava
dai nostri incontri e mi rispose: “mi aspetto di stare meglio, di poter affrontare con più tranquillità
l’anno scolastico e di uscire alla maturità con un bel voto”.
Assessment comportamentale
Dall’assessment comportamentale eseguito emerge che la paziente presenta difficoltà nella gestione
degli ostacoli che incontra in ambito scolastico, principalmente con i due insegnanti di Italiano e
Scienze Sociali, che definisce austeri e dall’atteggiamento poco improntato alla comprensione. Questo
si verifica ogniqualvolta, in situazioni di valutazione, gli insegnanti sottolineano le sue lacune o
esprimono giudizi non sufficienti. Di seguito l’analisi delle variabili emotive, cognitive, comportamentali
e socio-relazionali rilevate.
Variabili emotive
Le emozioni che Alice sperimenta più frequentemente sono l'ansia e la tristezza. La batteria CBA
2.0 rileva un livello di ansia di stato e di tratto molto elevato (rango percentile 99 per entrambe).
Emerge inoltre che la stabilità emozionale della paziente in presenza delle sollecitazioni ambientali
critiche risulta decisamente carente. In effetti, nelle situazioni di valutazione lamenta diversi disturbi
psicofisiologici che possono essere raggruppati in tre categorie: quelli che fanno parte del sistema
cardiovascolare (aumento del ritmo cardiaco, palpitazioni), quelli legati alla respirazione (sensazione
di soffocamento, difficoltà respiratorie) e quelli di natura neuromuscolare (agitazione, tremori).
Inoltre manifesta altri sintomi somatici quali rossore in volto e sudorazione. L’emozione della tristezza
pervade invece la paziente in tutte quelle situazioni in cui non ottiene i risultati scolastici desiderati,
anticipando l’idea della delusione dei genitori, le prese in giro del fratello e uno scenario
futuro desolante e insoddisfacente.
Variabili cognitive
Durante l’assessment sono stati rilevati diversi pensieri disfunzionali caratterizzati da distorsioni
cognitive circa la realtà esterna e le proprie capacità di affrontarla. In particolare, si evidenzia la
convinzione: “Devo assolutamente riuscire”. L’irrazionalità di tale affermazione è dovuta al fatto
che qualcosa che è obiettivamente preferibile e vantaggioso (l’esito positivo della valutazione) viene
trasformato in qualcosa di importanza vitale. La visione assolutistica viene inoltre proiettata nel
futuro coinvolgendo la persona in toto, con un contenuto catastrofico (es. “Se non avrò assolutamente
buoni risultati scolastici, nella vita non sarò mai nessuno”). La riuscita per Alice significa
ottenere determinati risultati e l’uscita da questo ideale costituisce una minaccia e rappresenta una
catastrofe (“Se continuo così, come arriverò alla maturità?!? Sarà un disastro!”). I risultati delle
prove sono inoltre continuamente sottoposti al giudizio sociale.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 135

Alice presenta un locus of control esterno rispetto agli eventi negativi. In particolare, attribuisce le
difficoltà che incontra in ambito scolastico ai due insegnanti che “ce l’hanno con lei”, “non considerano
tutto lo studio e l’impegno che c’è a casa”. Rispetto agli eventi positivi presenta invece un
locus of control interno, attribuendoli alle sue capacità di impegno e costanza.
I diversi pensieri evidenziati sono inoltre di tipo ruminativo: Alice continua a pensare alla propria
condizione sentendosi vittima degli eventi, senza concentrarsi su modalità più adattive di fronteggiamento
della situazione. Tali pensieri ostacolano infatti la concentrazione durante lo studio e influenzano
negativamente il recupero dell’informazione durante le valutazioni, favorendo la
compromissione della preparazione.
Variabili comportamentali
Durante le interrogazioni, non appena i due professori evidenziano delle lacune o anche solo delle
imprecisioni nelle sue risposte, Alice inizia a parlare incespicando; a questo punto, non riesce più a
dirigere l’attenzione sugli aspetti pertinenti al compito, non riesce a recuperare le informazioni, anche
se afferma di possederle, e dopo poco si blocca. Chiede di andare al posto e scoppia a piangere,
mentre i professori, nella maggior parte dei casi, abituati alle sue reazioni, proseguono con le interrogazioni
e i compagni ridacchiano, aumentando ancora di più il disagio della paziente. Quando arriva
a casa si dispera in modo particolare con la madre, che manifesta da subito la sua apprensione,
mentre il padre esprime la propria critica per l’esito dell’interrogazione e il fratello la prende in giro
per il suo atteggiamento. Alice piange e incolpa i professori che l’hanno messa in difficoltà. Il comportamento
che mette in atto di fronte ai problemi è passivo e adotta un atteggiamento da vittima,
che induce nella madre atteggiamenti protettivi. L’immagine che manifesta è di una ragazza fragile,
sensibile, che necessita di essere sostenuta e protetta, immagine che viene regolarmente rafforzata
dalla madre con tutti coloro che hanno dei rapporti con lei.
Variabili socio - relazionali
Alice è una ragazza che ha sempre manifestato rilevanti difficoltà nelle relazioni interpersonali.
Nel corso della sua vita non ha mai instaurato amicizie o rapporti significativi e duraturi. Con i
compagni di classe ha sempre avuto rapporti superficiali, solo di tipo scolastico, il più delle volte
negativi, venendo considerata come “quella che passa tutto il tempo sui libri”, “che vuole fare sempre
bella figura con i professori”, “che piange in continuazione e poi corre dalla mamma” e con
queste motivazioni spesso derisa ed esclusa dal gruppo. L’atteggiamento assunto da Alice è di indifferenza.
Sostiene la “superficialità e stupidità” dei compagni e il totale disinteresse nel prendere in
considerazione le loro opinioni e nel frequentarli e si rifugia in relazioni virtuali, attraverso chat di
discussione su scuola, musica, attualità.
In generale le sue modalità relazionali nelle diverse situazioni interpersonali sono di tipo passivo.
Alice si relaziona in maniera rinunciataria, incapace di far valere le proprie posizioni ed esigenze interiori
con genitori, compagni e insegnanti.
Sintesi valutativa
Le variabili rilevate nella fase di assessment convergono verso la rilevazione di un pattern cognitivo,
emotivo e comportamentale coerente con l’ansia da valutazione in ambito scolastico. L’ansia
da valutazione è concepita da molti ricercatori come una tendenza ad emettere delle risposte centrate
su se stessi, che non hanno nessun rapporto con il compito, producendo in tal modo una notevole
interferenza nella sua riuscita (Mandler, Sarason, 1952).
Dalla valutazione psicologica eseguita emergono inoltre importanti fattori di criticità che evidenziano
come i problemi scolastici della paziente non siano altro che un elemento del quadro. I fattori
rilevati riguardano, in particolare, i vissuti di isolamento e di rifiuto da parte del gruppo dei pari, la
mancanza di una rete esterna all’ambito familiare, l'iper-controllo da parte della madre, l'incapacità
di far valere le proprie posizioni, bisogni ed emozioni, la mancanza di autonomia e di progettualità,
interessi legati esclusivamente all’ambito scolastico ed una forte attribuzione esterna di fronte alle
difficoltà. Nonostante ciò, si rilevano una forte resilienza e flessibilità, motivazione ed impegno.
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Dalla storia di Alice emerge come la paziente abbia sempre investito tutto il suo tempo, le sue risorse,
il suo impegno nella scuola. Alice è vissuta in una famiglia in cui il successo scolastico ha
grande importanza perché lo considera legato all’affermazione sociale. La pressione esercitata dai
genitori per le prestazioni scolastiche poteva, secondo la mia ipotesi, essere direttamente collegata
al livello di ansia che la paziente sperimenta. Per Alice avere buoni risultati scolastici significava da
un lato essere considerata persona di valore, dall’altro avere la stima dei genitori e per questo la posta
in gioco nell’insuccesso era per lei molto alta. Così, ciò che era maggiormente temuto riguardo
una possibile valutazione negativa erano le conseguenze per ciò che viene considerato il proprio valore
personale. Sarebbe stata proprio questa preoccupazione, secondo la mia ipotesi, ad interferire
con le prestazioni di Alice durante le valutazioni.
In effetti, la letteratura riporta l’esistenza di una relazione tra il bisogno di affermazione intellettuale
e sociale dei genitori nei confronti dei loro figli e l’ansia d’esame che questi sperimentano
(Gagliardini, Meazzini, 1992). Figli di genitori che pongono molta attenzione all’affermazione nel
campo intellettuale, possono vivere le prestazioni scolastiche come continue prove del loro valore.
La continua tensione verso le conseguenze della prestazione innescherà tutta una serie di preoccupazioni
circa la riuscita, che farà direttamente riferimento all’aspetto valutativo della famiglia (Maher,
Sjogren, 1971) e che interferirà con la prestazione.
Pensieri che generano ansia e attivano reazioni comportamentali inadeguate sono stati individuati
dalla letteratura soprattutto in termini di esigenze assolutistiche o di pensieri catastrofizzanti o che
coinvolgono la persona nella sua totalità (Di Pietro, 1992). In effetti, i pensieri di Alice riguardavano
proprio queste tipologie. L’errore cognitivo della paziente consisteva soprattutto
nell’ipergeneralizzare, trasformando la valutazione negativa di un insegnante in un fallimento globale
su una qualunque prova.
L’intervento psicoterapico
In base alla valutazione psicologica eseguita, tenendo in considerazione il motivo della richiesta e
le diverse aree di criticità individuate, ho ritenuto importante realizzare con Alice un percorso
psicoterapeutico ad orientamento cognitivo comportamentale ad ampio respiro, non mirato unicamente
all’ambito scolastico, ma basato anche sul potenziamento di alcune abilità di vita (life skills).
Ho deciso inoltre di agire strategicamente coinvolgendo nella restituzione e informando sul lavoro
da intraprendere, con il consenso della paziente, entrambi i genitori, contrariamente a quanto avrei
fatto in un'altra situazione, considerando la maggiore età della paziente. Le motivazioni che mi hanno
portata a prendere questa decisione sono state principalmente due. Innanzitutto, il rischio concreto
che la madre potesse sentirsi tagliata fuori e intervenire interrompendo i colloqui o interferendo
negativamente con il proseguo della terapia. Inoltre, l’importanza della famiglia per la paziente, al
tempo ancora unico suo punto di riferimento. Ciononostante, ho sempre prestato attenzione a proteggere
la riservatezza e tutelare lo spazio di Alice, impedendo intrusioni e manipolazioni da parte
della madre, come già aveva cercato di fare durante i primi colloqui telefonandomi di nascosto dalla
figlia, per sapere se era emerso qualcosa di particolare.
Con Alice abbiamo inizialmente lavorato sulla riduzione dell’ansia nelle situazioni di valutazione,
attraverso un processo di comprensione e di trasformazione delle reazioni emotive spiacevoli, grazie
ad un insieme di tecniche cognitive, immaginative e comportamentali, applicate all’interno di
una strategia generale di ristrutturazione cognitiva, e sul cercare di potenziare le strategie di
apprendimento in ambito scolastico.
Alice ha superato l’Esame di Maturità con una votazione di 67/100. E’ stata, nel complesso, soddisfatta
dell’esame, non tanto per il voto, ma per il fatto che è riuscita nel periodo di preparazione
ad essere più tranquilla e ad ottenere risultati superiori rispetto all’inizio dell’anno scolastico. La ristrutturazione
cognitiva, l’organizzazione del lavoro, il potenziamento delle strategie di apprendimento,
il ritagliarsi degli spazi per sé sono stati fondamentali. Durante l’esame ha affrontato serenamente
la commissione, senza bloccarsi, riconoscendo quanto sia stato determinante a tal fine il trai-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 137

ning sull’ansia.
Se da un lato l’intervento nell’ambito scolastico è stato molto importante, dall’altro è stato essenziale
il lavoro parallelamente sviluppato, volto ad offrirle altre occasioni di crescita e valorizzazione
di sé. Alice ha sempre investito tutto il suo tempo, le sue energie, le sue attenzioni nella scuola. Ho
pensato così di aiutarla ad ampliare la gamma di interessi, per offrirle altre occasioni di impegno
che rappresentassero attività per lei piacevoli, ma anche uno svago dallo studio e occasioni per conoscere
nuove persone e fare amicizie. Gli stili comportamentali disfunzionali di Alice l’avevano
nel tempo allontanata progressivamente dalla possibilità di relazionarsi efficacemente con gli altri.
Inoltre, la non accettazione da parte del contesto sociale di appartenenza, dovuta proprio alla consistente
difficoltà nel relazionarsi, aveva inciso sfavorevolmente sulla percezione della sua autostima
e auto-efficacia influenzando in modo negativo aspettative, attribuzioni, emozioni e motivazioni.
Per questo è stato necessario realizzare un lavoro rivolto al potenziamento e all’incremento delle
abilità sociali (social skills training), allo scopo di promuovere il benessere individuale della paziente.
A lungo Alice ha lavorato inoltre sulla capacità di affermare le proprie posizioni in modo assertivo.
Abbiamo realizzato un percorso orientato a sviluppare la capacità della paziente di esprimere in
modo appropriato le proprie emozioni e le proprie opinioni; tutto ciò al fine di instaurare comunicazioni
autentiche con gli altri, assumendo un atteggiamento autorevole e regolando con maggiore
consapevolezza il proprio comportamento nei confronti dell’interlocutore.
Nel tempo tutto ciò ha portato però a dei cambiamenti che hanno preoccupato i genitori che stavano
perdendo gradualmente il controllo sulla figlia. Lo svincolo relazionale di Alice dal contesto familiare
ha comportato un aumento della conflittualità con le figure genitoriali. Alice ha cominciato
a sentirsi “intrappolata nelle loro rigidità e regole”, ha cominciato a lamentarsi sui limiti imposti,
confrontando spesso la libertà dei coetanei con la propria. In questa fase così delicata, al fine di evitare
spiacevoli fratture del rapporto con i genitori, è stato necessario aiutare Alice a comunicare il
proprio pensiero in modo assertivo e a gestire le proprie reazioni emotive in modo adeguato. Il percorso
è stato complesso e ha richiesto molto tempo e impiego di energie da parte della paziente per
consolidare le competenze comunicative ed emozionali acquisite e per gestire le reazioni dei genitori.
Dopo l’Esame di Maturità, abbiamo inoltre lavorato per una graduale conquista di un’autonomia
personale e sociale sempre più ampia, ma anche sul suo progetto di vita. La scelta dell’Università ha
rappresentato un’occasione per lavorare su questi aspetti. Ancora una volta i genitori hanno cercato
di imporre i loro desideri ed Alice ha sentito molto la loro pressione. Le loro scelte erano dettate dal
bisogno di controllo, nel caso della madre, e di prestigio, nel caso del padre, ma non attente alle attitudini
e ai desideri di Alice. Abbiamo così dapprima cercato di individuare una scelta personale che
tenesse conto da un lato di ciò che le piaceva fare e dall’altro delle sue attitudini. La scelta di Alice
è stata la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, vista la sua particolare inclinazione
per le lingue; inoltre, ha tenuto conto di ciò che poteva offrirle una Laurea in Lingue, di
come sarebbe potuto essere il suo futuro, dei cambiamenti che a breve avrebbe dovuto affrontare,
delle diverse possibilità di alloggio, delle sue paure. Ma ha anche tenuto conto del percorso che in
poco tempo era riuscita a fare con la sua determinazione e motivazione al cambiamento. Il benessere
provato in questo periodo, gli importanti risultati raggiunti che all’inizio le sembravano fuori dalla
sua portata l’hanno fatta arrivare alla conclusione che anche questa volta, mettendosi in gioco,
avrebbe potuto raggiungere i traguardi desiderati. È così che ha scelto, inoltre, di frequentare l’Università
trasferendosi in una città a circa cento chilometri da casa, riuscendo a far rispettare ai genitori
le sue decisioni. Quest’esperienza ha rappresentato una bella prova per la paziente. Sapeva che
sarebbe stata dura per lei, era consapevole delle sue difficoltà, ma era grande il desiderio di mettersi
alla prova, superare i suoi limiti, diventare più autonoma.
Nell’arco di circa un anno Alice ha consolidato le competenze acquisite e ha raggiunto un maggior
livello di sicurezza e di fiducia in se stessa e una maggior padronanza rispetto ai vari ambiti
138 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

della sua vita. Progressivamente i nostri incontri sono stati ridotti, nonostante Alice ne fosse ancora
molto legata. Ho cercato di rimandarle che aveva gli strumenti per poter affrontare il futuro e che
avevo fiducia nella sua capacità di gestire le situazioni che via via le si sarebbero presentate. Il messaggio
che ho voluto darle, nonostante ci fossero ancora alcune difficoltà, è stato “cresci, vai avanti,
mettiti alla prova, sei in grado di farlo anche senza il mio sostegno”. Un messaggio di fiducia nei
suoi confronti, quella fiducia che ha sempre cercato.
Alice si è dimostrata soddisfatta del percorso fatto e gratificata della fiducia data. “È stato un lungo,
ma soddisfacente percorso – ha affermato alla conclusione - che mi ha portata a capire meglio
me stessa e ad uscire da quella campana di vetro in cui mi trovavo che mi proteggeva ma che mi
impediva di vivere. Sono pronta ad affrontare ciò che mi riserverà il futuro, le cose belle e brutte”.
La relazione terapeutica
La relazione terapeutica è stata particolarmente importante per l’efficacia del percorso psicoterapico
realizzato con la paziente. Fin dal principio Alice ha espresso le paure e i bisogni dei genitori,
come se fossero i propri e ha avuto un atteggiamento sempre molto collaborativo e accondiscendente
nei miei confronti. Sempre puntuale, educata, ha eseguito sempre tutti gli homework che le indicavo,
con impegno, entusiasmo e attenzione, ma più per evidenziarmi quanto brava e rispettosa fosse
che per reale motivazione. Le modalità relazionali che Alice ha adottato nei miei confronti inizialmente
mi hanno molto preoccupata, successivamente ho capito però che potevano essere particolarmente
importanti al fine di capire quali fossero le difficoltà della paziente. Se da un lato questi
aspetti la rendevano la paziente “perfetta”, dall’altro mi rendevo conto quanto ci fosse da lavorare
per aiutarla a prendere consapevolezza dei suoi reali bisogni, delle sue difficoltà, dei suoi desideri e
ad esprimerli assertivamente.
Fondamentale è stato l’atteggiamento empatico, non giudicante e non assecondante le richieste dei
genitori che ho adottato con lei. Il fatto che in occasioni diverse avessi manifestato attenzione alle
sue esigenze e non a quelle dei genitori ha fatto in modo che Alice si fidasse ed entrasse in relazione
con me in modo autentico. Un aspetto inoltre sul quale ho lavorato particolarmente durante tutto il
percorso è stato l’incoraggiamento.
Alice ha cercato più volte di relazionarsi a me con un atteggiamento passivo. Quello che ho cercato
di fare è stato così incoraggiarla a credere nelle sue capacità di gestire le situazioni che di volta in
volta si presentavano, aiutarla a sperimentarsi, dandole fiducia, stimolando la motivazione,
calandomi nel suo mondo esperienziale, cogliendone i bisogni, gli interessi, le necessità, sottolineando
il positivo, sdrammatizzando esperienze di insuccesso e rispettandola per ciò che è.
Bibliografia
Bertolotti G., Michielin P., Sanavio E., Simonetti G., Vidotto G., Zotti A.M. (1986). Batteria
CBA-2.0 Scale Primarie: Manuale. Firenze: Organizzazioni Speciali.
Di Pietro M. (1992). L’educazione razionale emotiva. Trento: Erickson.
Ellis A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Roma: Astrolabio.
Ellis A. (1994). L’autoterapia razionale emotiva. Trento: Erickson.
Gagliardini I., Meazzini P. (1992). Ansia e valutazione. Terapia del comportamento, n. 33/34,
Roma: Bulzoni.
Maher M.L., Sjogren D. (1971). Atkinson’s theory of achievement motivation: First step towards
a theory of academic motivation? Review of Educational Research, n. 41, pp. 143-161.
Mandler G., Sarason S.G. (1952). A study of Anxiety and learning, Journal of Abnormal and Social
Psychology, n. 47, pp. 166 -173.
Rosenzweig S. (1992). Picture Frustration Study – Forma per adolescenti. Firenze:
Organizzazioni Speciali.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 139

ORA RIESCO A VEDERE I FILM DELL'HORROR.
Di Sabina Lauretti, Psicologa Psicoterapeuta, Libero Professionista, mail: sabinalauretti@libero.it
Cenni anamnestici
Marica è una ragazza di 12 anni che frequenta la seconda media. Terzogenita, ha due sorelle: A. di
18 anni e T. di 16. Il padre e la madre di Marica, rispettivamente di 58 e 53 anni, gestiscono un’atti -
vità commerciale, in uno dei punti vendita fondati e tramandati dai nonni paterni, ancora viventi.
È la madre di M. a contattarmi e a presentare, al primo colloquio, il problema della ragazza. Si definisce
da subito “una mamma disponibile, aperta e molto attenta” nei riguardi delle sue figlie e descrive
suo marito, il papà di M., come una persona sensibile e presente nella cura delle tre figlie “un
papà affettuoso e anche molto divertente”.
Anche i nonni paterni, che vivono nella casa accanto (villino bi-familiare), vengono descritti dalla
signora, come persone molto care, affettuosissime e protettive, soprattutto nei confronti di M. che è
la più piccola della famiglia e considerata da tutti la più vulnerabile dopo il problema evidenziatosi
alla nascita: M. dovette infatti sottoporsi a continui interventi chirurgici sino all’età di 6 anni per un
grande nevo sulla testa che si estendeva dalla parte fronto-laterale sinistra sino alla base occipitale.
I nonni materni vivono a circa 40 km di distanza dalla famiglia di M., nella vecchia casa di origine.
La madre di M. è la secondogenita del primo matrimonio del padre: quest’ultimo si risposò dopo
la morte della prima moglie, deceduta a causa di un’interruzione di una terza gravidanza celata a
tutti. All’epoca dei fatti, la madre di M. aveva solo due anni.
M. e le sorelle maggiori hanno un buon rapporto tra di loro anche se, nelle occasioni di socializzazione,
ciascuna preferisce uscire con il proprio gruppo di amici.
Motivo della richiesta
M. prova disagio nel pronunciare e sentir pronunciare la parola “sangue” e ad avvicinarsi a tutte
quelle situazioni ed esperienze di tipo medico associate al sangue. Non è in grado perciò di studiare
Scienze, prendendo voti insufficienti. In particolare non riesce a leggere la parola “sangue” e sistematicamente
la cancella con la matita.
La madre di M. chiede di aiutare la figlia a superare tale “paura”, anche in previsione di eventi
che dovrà necessariamente affrontare con la crescita, come ad esempio la comparsa del menarca ed
eventuali altre necessità di intervento medico.
Storia del problema ed eventi significativi
Al termine di uno degli ultimi eventi chirurgici (M. aveva circa 6 anni), si verifica lo scoppio della
bolla di espansore (tessuto epidermico) applicato sulla sua testa: improvvisamente goccioline di
sangue si sono riversate a pioggia sul camice bianco che avvolgeva la bambina, “… spaventandola
all’improvviso…”, come riferito dai genitori che assistettero all’intervento e come anch’essi a loro
volta si mostrarono alla bambina “… sorpresi e sgomenti di un evento così inatteso per M”. In genere
la bambina “… si comportava come se non si accorgesse di ciò che le capitava” solo in quella
circostanza Marica “…. pianse…” e solo “quando la bolla di espansore esplose, perché fu proprio
inaspettato ed improvviso…”. Le tornò il sorriso non appena le portarono dei palloncini colorati… e
le spiegarono come sempre che tutto era come un gioco e che ciò che era accaduto, era come un palloncino
tanto bello da vedere ma che può anche esplodere.
• All’età di 8 anni M. si spaventa rimanendo immobile alla vista di una ferita della nonna ad
una gamba.
• All’età di circa 9 anni (tra la 4 e la 5 elementare), M. si mostra maggiormente evitante alla
pronuncia della parola sangue e non si sottopone ad un prelievo di routine avvenuto a scuola
e ad altre circostanze connesse. I compagni a scuola iniziano a prenderla in giro e a nominarle
continuamente la parola “sangue”.
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• All’età di 11 anni, quando il nonno viene urgentemente ricoverato in ospedale, “… e si
andò, di corsa…, perché M. volle vederlo a tutti i costi… Una volta lì, M. scoppiò improvvisamente
a piangere”.
• Al mare, M. reagisce bene al dolore di una puntura di una tracina.
• Si presenta con disinvoltura ad appuntamenti dentistici.
Valutazione psicologica
Nella valutazione psicologica riporto alcune notizie tratte dal colloquio con M. e con i suoi genitori
per mettere in luce l’idea che hanno rispetto al problema presentato e alle situazioni o ai contesti
di vita della ragazza che potrebbero averla resa più vulnerabile al momento della maggiore manifestazione
del suo disagio, comparso all’età di circa 9 anni, come riferito sopra e nell’arco della storia
del disturbo.
• Definizione del problema da parte dei genitori di M.
Si definiscono genitori tranquilli, disposti a parlare del problema di M. ad altre persone che vogliano
sapere notizie, anche davanti alle loro figlie, pur se, a volte, la madre preferirebbe “… abituare…”
le sue figlie “… a non preoccuparsi, spaventarsi e caricarsi troppo…”. La madre racconta
che quando era bambina, al suo paese di origine, si usava riportare ai bambini qualsiasi cosa in
maniera drammatica, fino a spaventarli tanto, farli preoccupare e caricarli di responsabilità. Emerge,
tuttavia, che l’ospedalizzazione e i numerosi interventi chirurgici siano, per i suoi genitori, i fattori
determinanti per il disturbo di M.
• Definizione del problema da parte di M.
Del periodo degli interventi (da 0 a 6 anni) M. riferisce solo alcuni ricordi, come per esempio: il
tubo nero dell’anestesia, l’odore acre dell’anestetico e l’amicizia con un'altra bambina in ospedale.
Ricorda anche l’evento della ferita della nonna e del prelievo a scuola.
M. dice: “… non riesco a capire perché mi dà fastidio il …! Non ricordo un episodio preciso; mi
è rimasta forse la paura… non lo so. Dopo uno o due volte che sento nominare… mi dà fastidio. A
scuola mi prendono in giro… per questo. Quando vedo a scuola dei filmati sul corpo umano vedere
il corpo umano mi dà fastidio lo stesso. Il DNA, le cellule, non ci capisco niente!… Sembra un casino…Non
riesco a capire la posizione, come sono fatte…le cellule! Rispetto al sangue che scorre,…
lo penso un liquido viscido, che scorre veloce ed esce…all’improvviso, e questo mi dà fastidio, non
è il dolore di una puntura, di una siringa! Toccare qualcosa di viscido penso mi farebbe schifo…. I
miei genitori dicono che tutto sia nato dall’ultimo intervento dello scoppio del palloncino sulla testa.
Ma io non lo so…”.
M. continua dicendo: “… mi spaventa non sapere come sono fatte le cose… Anche a casa con i
miei genitori non ci capisco niente… in modo particolare con mia madre, non capisco il perché di
tante cose… Come per esempio non capisco perché non posso andare a trovare un mio amico in
ospedale. … Rispetto al mio amico in ospedale, e in genere, mi dice che non devo caricarmi troppo
dei problemi degli altri… che sono ancora piccola… che non mi vede pronta…ma io non so che
cosa c’entra con il mio amico…quando sento di stargli vicino… Sembra che nessuno capisce come
mi sento… Mia madre mi ha visto pure piangere… e mi ha detto che forse esagero… ed è un po’
troppo per un amico…”.
M. riferisce di non voler sentire pronunciare… “una certa parola…” (sangue) e di avere difficoltà
lei stessa a pronunciarla e di provare sensazioni spiacevoli alla vista o all’immaginare di prelievi, siringhe,
bende e cerotti.
Riferisce di avvertire una “sensazione di fastidio” di intensità 10 e di provare le stesse sensazioni
al ricordo dell’odore dell’anestetico e/o quando immagina di sottoporsi ad altri interventi chirurgici.
Quando si parla di certi argomenti, la sua bocca ruota a manifestare “lo schifo”, il rifiuto.
M. oltre ad avere difficoltà nel sentire pronunciare e vedere la parola sangue ed immaginare altre
situazioni connesse, dice di non piacersi con le cicatrici sulla fronte e di vergognarsi soprattutto
d’estate al mare dopo il bagno quando deve correre veloce verso l’asciugamano per evitare che gli
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 141

altri la vedano in volto.
• Valutazione cognitivo-comportamentale.
Sintomi cognitivi: immagine del sangue viscido che scorre veloce dentro al corpo; immagine della
fuoriuscita improvvisa del sangue.
Sintomi emotivi: paura, rifiuto.
Sintomi comportamentali: immobilizzazione, evitamento.
• Ipotesi Diagnostica.
Prendendo in esame i sintomi riportati da M. di intensa paura o ansia anticipatoria e il forte disgusto,
con conseguente evitamento, riguardanti un oggetto e le situazioni connesse, si considera la seguente
ipotesi diagnostica:
Fobia specifica di tipo Sangue/Iniezioni (APA, 2003).
• Ipotesi Esplicativa.
Nel caso di M. la reazione emozionale è provocata dalla presenza o dall’attesa del sangue percepito
vagamente e indistintamente come un fenomeno “viscido, che scorre veloce ed esce all’improvviso”,
quindi disgustoso ma anche improvviso e inaspettato.
La sensazione di spiacevolezza, che M. prova alla percezione del sangue o alla vista di esso quando
“… lo tirano fuori con la siringa…” diventa lo stimolo per le rispose emozionali di paura e rifiuto
rispetto sia al sangue, sia alle altre circostanze ad esso connesse (sala d’attesa, camici, bende, cerotti,
corpo umano). La reazione di disgusto rispetto al “viscido” appare come un elemento primario,
M. infatti dichiara: “… dal dentista non provo fastidio perché… il dente so che è duro come un
osso!…”.
L’esordio nella fanciullezza e/o la presenza di eventi traumatici, presenti nei ricorrenti ricoveri e
interventi chirurgici avvenuti nella prima infanzia, tra cui lo scoppio del palloncino di espansore
epidermico sulla testa e altri episodi successivi come la ferita della nonna e il prelievo a scuola, hanno
anche la caratteristica di essere esperienze improvvise e inaspettate, confermando le difficoltà di
coping (Borgo, Milic, Sibilia, 1991) di M.
Dalla valutazione psicologica di M. e dei suoi genitori, emerge infatti che le modalità utilizzate
dai genitori, siano state volte ad “abituare” le loro figlie a “vivere gli eventi senza caricarsene troppo”.
Ciò potrebbe aver limitato le esperienze di M., favorendo quindi la sensazione di sentirsi impreparata
ad affrontare certe circostanze e a percepirle come fenomeni ed eventi vaghi e indistinti.
All’età di 9 anni (prelievo a scuola) confrontandosi con gli altri, potrebbe essersi sentita impreparata:
le sole rassicurazioni verbali dei genitori “…che hanno sempre parlato e spiegato…” sembrano
non bastare più, non essere più sufficienti a fronteggiare eventi che provocano forti risposte
emozionali di spavento e rifiuto. I compagni, individuando il suo punto debole e pronunciando la
parola “sangue”, hanno probabilmente rinforzato la sua sensibilità, la consapevolezza di vulnerabilità
e il conseguente evitamento.
Una analoga reazione M. sembra mostrare verso altre situazioni della sua vita valutate come vaghe,
imprecise, e poco chiare (rapporto con la madre e la sorella “…non ci capisco mai niente…”)
oppure come inaspettate e improvvise “… cosa succederà…”, segnalando di nuovo, la sua difficoltà
ad accogliere eventi imprecisi.
La terapia
Dopo aver esposto in modo generale il tipo di intervento da attuare, mirante ad acquisire la capacità
di avvicinarsi gradualmente agli stimoli temuti, sono stai programmati incontri individuali, di 1
ora ciascuno, con cadenza settimanale per un totale di 9 mesi. Gli incontri sono stati pianificati in
modo tale che le nuove modalità di risposta gradualmente apprese in terapia, potessero essere esercitate
a casa e monitorate all’incontro successivo.
Per la difficoltà mostrata da M. ad iniziare ad affrontare alcuni argomenti, gli incontri si sono
svolti secondo un piano di intervento che ha previsto diverse 3 fasi:
• Una prima fase in cui sono stati presentati in gerarchia a M. gli stimoli temuti sotto forma di
142 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

una storia favolosa.
• Una seconda fase di Desensibilizzazione Sistematica ed Esposizione Graduata (nella forma
immaginativa e in vivo), in cui M. è stata esposta agli stimoli e alle situazioni evitate (Wolpe,
1972).
• Una terza fase psico-educazionale in cui è stato presentato a M. un testo sul corpo umano
con piccoli modelli in plastica e immagini raffiguranti i principali apparati delle funzioni
ematiche.
Diario degli incontri e della relazione terapeutica
Nel periodo preliminare, dell’assessment e della valutazione psicologica, M. è presente insieme ai
suoi genitori. In questi incontri raccolgo le informazioni riguardanti la famiglia di M., il motivo della
richiesta, la loro idea sul problema e gli eventi significativi.
M. arriva al primo incontro aspettandosi di trovare, come dice la madre, un dottore con il camice
bianco.
È esile, dall’atteggiamento delicato e ha tra le mani una borsetta di cotone alla moda. Rimane ad
ascoltare attenta tutto ciò che stiamo dicendo, come se attendesse che qualcosa le dovesse essere rivelata
da un momento a un altro, e intanto mostra un atteggiamento cauto, incerto ed evitante: il suo
corpo è ricurvo su se stesso, i suoi gomiti e le suoi piedi si strofinano uno contro l’altro. Ad ogni domanda
che le viene rivolta, risponde volgendo più volte lo sguardo verso la madre, con voce molto
sommessa.
Negli incontri successivi che si svolgono solo con M., noto che anche in mia presenza, senza i genitori,
si mostra un po' tesa. Le spiego allora il tipo di trattamento psicoterapeutico nel dettaglio e la
invito a fare più domande possibili sugli incontri e sulle tecniche che si impiegheranno, per per renderla
più tranquillità mentre cerca di comprendere ciò che le appare come poco chiaro.
Fase 1 dell’intervento
In questa prima fase dell’intervento, compilo insieme a M. una lista di situazioni e stimoli evitati,
che numero gerarchicamente a partire da quello meno temuto per M. (di seguito alcuni esempi):
• Colore rosso
• Camice bianco
• L’epidermide
• Corpo umano
• Cerotti, medicazioni
• Ago
• Sensazione di puntura sui polpastrelli delle dita, polso e braccio
• Prelievo
• Anestetico
• Liquido rosso sparso e viscido
Ogni elemento temuto viene associato poi ad un oggetto di fantasia “simpatico e familiare” per M.
(Beck, Emery, 1988). Per esempio M. associa il colore rosso a pennelli e pittori; ai cerotti, lo
scottex assorbente; alle vene e alle arterie, associa tubi concentrici o cannucce per le bevande; l’ago
ad una cannuccia molto piccola e sottile; l’epidermide a spugne rosa per lavarsi; il sangue viene
associato ad un liquido nutriente pieno di zuccherini colorati, caramelle zigulì al gusto di fragola, e
al gusto di succo di ACE (nell'allegato 1 ci sono alcuni esempi).
Presento poi gradualmente a M. gli elementi della gerarchia, sotto forma di una storia favolosa,
con personaggi “simpatici” di fantasia associati agli stimoli temuti della stessa gerarchia. Già in
questa prima fase del trattamento, espongo M. alla tecnica cognitiva della Coping Imagery, verificando
con quale rapidità e vividezza di particolari M. riesce ad immaginare le situazioni proposte
e/o le difficoltà a mantenere tali immagini.
Fase 2 dell’intervento
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In questa fase, introduco metodi atti ad indebolire le risposte abituali di M. agli stimoli temuti,
contrapponendo modalità di risposta opposte come ad esempio il rilassamento.
Gli esercizi impiegati per il rilassamento sono stati il Training Autogeno Respiratorio o RAT e il
metodo delle contrazioni e decontrazioni muscolari alla Jacobson, presentati entrambi in maniera
breve, accelerata e semplificata.
Effettuando la piccola serie di esercizi, di respiri lenti e profondi si determina già una forma di distensione
che consente a M. di potersi esercitare e rilassare anche al di fuori del setting terapeutico
(Guidano, Liotti, 1979).
Una volta raggiunta una buona capacità di rilassamento, le presento gli stimoli emotigeni che secondo
la gerarchia suscitano una risposta minore, proseguendo poi gradualmente nell’esposizione
con stimoli via via più intensi secondo la tecnica della Desensibilizzazzione Sistematica.
Gli stessi stimoli in gerarchia presentati prima in immaginazione, sono presentati poi a M. in vivo,
cioè nell’ambiente della paziente.
Riassumo di seguito solo alcuni momenti dell’Esposizione Graduata in vivo con le immagini rispettive
in allegato:
• Camice bianco macchiato di rosso. Il camice bianco indossato, lo tingo di rosso (lo sporco
appositamente con le tinte del rosso dei colori a dito per bambini)
• Corpo umano. Suggerisco a M. di esporsi alla visione della serie di filmati cartonati sul corpo
umano, editi dalla Fabbri
• Cerotti, medicazioni. Invito M. a familiarizzare in seduta con cerotti e medicazioni, e a casa
con quelle usate dal nonno paterno. Il cerotto aveva un’intensità di timore = 2, però afferma
M. “…se lo vedo come qualcosa che blocca la perdita, l’intensità del fastidio scende = 0”
• Ago e sensazione di puntura. In questo incontro invito M. ad avvicinarsi alla sensazione di
puntura sui suoi polpastrelli delle dita, con un oggetto appuntito (stuzzicadenti). M. inizialmente
infastidita da questa sensazione, riesce poi a mantenere e a spostare l’oggetto appuntito
da un polpastrello ad un altro, per tutta la durata della seduta
• Siringa. Esposizione alla vista della siringa prima vuota e poi con liquido rosso (Allegato 2,
Figura (b) e (c))
• Prelievo. In seduta, presento dei prelievi simulati. Nel contesto di vita M. cerca di assistere
al prelievo insulinico della nonna e a prelievi cui devono sottoporsi le sue sorelle (Allegato
2, Figure (f),(g))
• Anestetico. In questo incontro, simulo una seduta di preparazione ad un intervento: con
l’apparecchio dell’Areosol faccio respirare a M. goccioline di vapore di un infuso (tisana al
sapore acre-dolce del mandarino)
• Materiale viscido (gel per capelli) (Allegato 2, Figura (n))
• Liquido viscido rosso (Allegato 2, Figura (o))
Fase 3 dell’intervento
In questa fase, di tipo psico-educazionale, gli incontri prevedono la presentazione a M. di un testo
sul corpo umano (Allegato 3), in cui sono presenti piccoli modelli in plastica e immagini raffiguranti
i principali apparati delle funzioni ematiche.
Dalle diverse didascalie nel testo (Il corpo umano, i modellini. De Agostini), M. legge ed osserva:
“SE IL SANGUE È OVUNQUE È TUTTO MERITO DEL CUORE. IL CUORE È UN GRANDE
MUSCOLO CHE POMPA INSTANCABLMENTE IL SANGUE AL RITMO DI 340 LITRI
L’ORA. PERCORRENDO UN LUNGO E INTRICATO SISTEMA DI CONDOTTI GRANDI E
PICCOLI, CHIAMATO SISTEMA CIRCOLATORIO, IL SANGUE PORTA OSSIGENO E SO-
STANZE NUTRIENTI ALLE CELLULE; PROVVEDE INOLTRE ALLO SMALTIMENTO DEL-
LE SOSTANZE DANNOSE COME L’ANIDRIDE CARBONICA. IL SANGUE TI MANTIENE
IN VITA, TI SCALDA E RAPPRESENTA LA TUA ARMA MIGLIORE CONTRO I GERMI E LE
MALATTIE”.
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Nel testo del “IL CORPO UMANO” sono illustrati altri apparati insieme a quelli delle principali
funzioni ematiche: LA PELLE, LO SCHELETRO, L’APPARATO DIGERENTE, IL SISTEMA RE-
SPIRATORIO, I MUSCOLI. La loro lettura ed osservazione hanno permesso a M. una conoscenza
globale e non circoscritta, che le ha consentito un esercizio che sviluppa le modalità di esplorazione.
M. scopre, dalla osservazione e dalla lettura delle principali funzioni del corpo umano, il modo
per potersi rappresentare certi fenomeni, in maniera chiara e comprensibile: “… pensavo che tutto
scorresse…così in tutto il corpo, senza un ordine… in modo sparso,… invece vedo che c’è un ordine;
ogni sistema funziona separato dall’altro, ma nello stesso tempo si incontra con l’altro… E’
molto più chiaro… e non mi fa più paura. So, come è fatto di più il mio corpo!”.
Follow-up
Nell’incontro di follow-up, avvenuto a distanza di tre mesi dal termine della terapia, M. e i suoi
genitori mi riferiscono le seguenti notizie:
M. ha preso la decisione di voler ricontattare il chirurgo dell’ospedale pediatrico, per eliminare la
cicatrice sulla fronte. Riesce a sottoporsi a sedute di agopuntura estetica per l’eliminazione di peluria
in eccesso sul viso, derivante da tessuto pubeo (innestato in passato sulla tempia sinistra). M.
sembra aver trasformato il viscido (che le rimandava una sensazione di spiacevolezza e rifiuto) e
l’inaspettato, in qualcosa di diverso; riesce ad immaginare il sangue diversamente, a nominarlo e a
sentirlo nominare: “… pensare al sangue ad un liquido zuccherino, tinto di rosso, mi dà un’ immagine
diversa e non mi dà più fastidio. Mi spaventava la siringa, ma adesso che conosco bene la sua
funzione, va meglio. Capire per me è importante. “… Ora quando cambio canale alla TV, riesco a
vedere i film horror fino a quando i corpi si aprono!!!”.
I genitori riferiscono che nel corso della terapia di M., hanno compreso come il solo parlare di
certi argomenti non risulti a volte sufficiente. Hanno imparato a modificare questa consueta abitudine
con la possibilità di far “avvicinare” le loro figlie, e in particolare M. a quelle circostanze percepite
come “…troppo grandi da sostenere!”.
Conclusioni
M. associava il sangue a qualcosa di terribile, imprevisto e improvviso che, a causa degli apprendimenti
e modalità trasmesse dai genitori, non si sentiva preparata ad affrontare.
Le modalità “cuscinetto” dei genitori, probabilmente non le avevano permesso di apprendere e di
creare risposte più funzionali.
La nuova modalità dei genitori di M., di parlare e spronare nello stesso tempo M. a non temere di
“…caricarsi troppo…”, hanno permesso a M. di vivere più da vicino le esperienze di vita. Le tecniche
di rilassamento insieme alle strategie di avvicinamento graduale agli stimoli temuti, hanno contribuito
a produrre un rilassamento mentale e fisico autoindotto. Queste nuove capacità di coping
emotivo hanno aiutato M. a fronteggiare meglio le situazioni emozionali. Infine i successi ottenuti
hanno aumentato l'autostima e l'auto-efficacia di M., e modificato nei genitori l'immagine di bambina
malata e vulnerabile.
Bibliografia
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Beck A.T, Emery G. (1988): L’Ansia e le Fobie. Una prospettiva cognitiva. Roma: Astrolabio.
Borgo S., Milic S., Sibilia L. (1991). Interfaccia Medicina-Psicologia. Thesaurus di Psicoterapia
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Guidano V. F., Liotti G. (1979). L’analisi del repertorio comportamentale. In Elementi di psicoterapia
comportamentale. Roma: Bulzoni.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 145

Wolpe J. (1972). Tecniche di Terapia del Comportamento. Milano: Franco Angeli.
ALLEGATO 1
ALLEGATO 2
(o )
ALLEGATO 3
(b ) (c ) (f ) (g ) (n )
146 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

IL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO: STORIA DI UNA DIPENDENZA.
Di Augusta D’Ottavio Psicologa Psicoterapeuta, libero professionista, mail: augustadottavio@gmail.com
L’analisi di questo caso clinico permette di ricostruire la storia di un uomo che ha utilizzato il gioco
d’azzardo patologico come tentativo di cura alla sua sofferenza. Questo tentativo disfunzionale è
chiaramente fallito, ed il presente caso evidenzia gli aspetti più significativi di tale comportamento
patologico con particolare attenzione soprattutto agli aspetti cognitivi del disturbo. Il percorso terapeutico
si è svolto in regime di ricovero presso una clinica psichiatrica. Ci si è proposto d’intervenire
su tale dipendenza affrontando in una prima fase il problema della mancata consapevolezza del
disturbo, poi aumentando la capacità di riconoscimento dei propri stati emotivi e darne una lettura,
infine intervenendo sulle distorsioni cognitive, il pensiero magico e le credenze erronee e disfunzionali
legate al gioco. Una parte del trattamento ha riguardato anche lo sviluppo della capacità di problem
solving, al fine di stimolare e aumentare la capacità di risolvere problemi. Dall’analisi effettuata
si evince che il gioco d’azzardo patologico rappresenta per il paziente un modo per affrontare le
emozioni negative come rabbia, senso di colpa, e ansia.
Gli obiettivi concordati risultano raggiunti, ma richiedono di essere consolidati nel tempo; in virtù
di questo è stato sviluppato un progetto a lungo termine che prevede un intervento in regime di Day
Hospital all’interno del quale il paziente potrà continuare il percorso iniziato. Anche se resta ancora
del lavoro da compiere, la buona motivazione ed una buona alleanza terapeutica hanno facilitato
l’attuazione del piano di trattamento. L’intervento ha permesso comunque di ottenere un miglioramento
generale nell’ambito emotivo, cognitivo e comportamentale.
Informazioni generali
F. ha 60 anni ed è in pensione da qualche anno, vive in famiglia con la moglie e la figlia. E’ diplomato
ed ha lavorato come contabile presso un Conservatorio, e successivamente, sempre nello stesso
ruolo, presso un’Accademia di Musica.
La moglie è casalinga, la figlia di 32 anni vive ancora in famiglia poiché non ha ancora un lavoro.
F. non ha molti amici, ha soprattutto conoscenti; si dedica volentieri alla lettura di riviste e libri; trascorre
del tempo risolvendo giochi di enigmistica, ma negli ultimi tempi queste attività sono diventate
per lui fonte di fatica.
Era al momento ricoverato presso una clinica psichiatrica per approfondimenti diagnostici in
quanto negli ultimi mesi aveva abusato di benzodiazepine. E’ stato ricoverato per alcuni giorni presso
il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura a causa di un’assunzione eccessiva di psicofarmaci
che il paziente usava per dormire, ed ha rischiato in quell’occasione il coma farmacologico.
È giunto presso la clinica su richiesta del medico curante; F. riferiva infatti di sentirsi ancora confuso.
La richiesta di ricovero è stata avanzata non solo per i problemi fisici legati all’abuso di benzodiazepine,
ma anche perchè il paziente negli ultimi anni aveva dilapidato tutti i risparmi e la pensione
nel gioco: la moglie doveva esercitare un controllo costante su di lui per evitare che il problema
finanziario diventasse più grave di quello che era al momento.
F. si è presentato al colloquio curato nell’aspetto e visibilmente incuriosito, in quanto si trattava
per lui di un’esperienza nuova; non aveva mai fatto altre psicoterapie.
Era in trattamento farmacologico con un antidepressivo e uno stabilizzatore del tono dell’umore.
Abbiamo concordato di incontrarci una volta alla settimana per le sedute.
Circa un anno e mezzo prima F. aveva avuto una forte amnesia ed aveva perso completamente la
memoria, non ricordava il suo nome, non riconosceva la moglie e la figlia, non aveva più la sua
identità. Al momento aveva recuperato gran parte della memoria, il recupero è stato molto lento ed è
durato quasi un anno, ma F. diceva di non riuscire ancora a ricordare tutto, e questo lo faceva sentire
molto triste. Passava gran parte della giornata sforzandosi e cercando di far affiorare i ricordi, ma
tutto ciò gli provoca spesso un gran mal di testa.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 147

Faceva fatica ad addormentarsi, ed una volta addormentato aveva un sonno molto leggero che lo
portava a svegliarsi spesso e al mattino si sentiva molto stanco. Non aveva molto appetito, ma riusciva
comunque a mangiare. Diceva di sentirsi come se avesse una fascia legata sulla testa che lo
comprimeva e lo faceva sentire stordito per tutto il giorno.
Da diversi anni, inoltre, era diventato un forte giocatore, giocava al lotto, totip, gratta e vinci, super
enalotto. Diceva: “Il gioco mi fa sentire in uno stato euforico, ci penso sempre durante la giornata
finché non riesco a farlo”.
Aveva giocato l’ultima volta prima del ricovero, ed aveva iniziato all’età di 34 anni.
F. è arrivato al punto di giocarsi l’intera pensione, unica fonte di sostentamento per la famiglia, ma
il pensiero di giocare lo faceva sentire bene: allegro, pieno di vitalità, senza pensieri e preoccupazioni.
Durante il ricovero, ha affermato di averci pensato molto meno perché aveva la possibilità di
stare con altre persone, chiacchierare e confrontarsi con loro.
Il paziente considerava la moglie troppo presente e controllante, e la figlia come “la sua croce”
perché non aveva ancora un lavoro e non era intenzionata a cercarne uno. Aveva un solo amico con
il quale ultimamente i rapporti si erano un po’ diradati.
Manifestava più volte durante i colloqui sentimenti di rabbia verso la moglie e verso la figlia che
considerava responsabili della sua condizione e del tracollo economico che ha subìto. Tendeva infatti
a sottostimare l’entità del suo disturbo e ad avere una ridotta consapevolezza del suo problema
con il gioco: tutto ruotava intorno ai suoi disturbi fisici e alle preoccupazioni riguardanti malattie
gravi che avrebbero potuto colpirlo.
Storia di sviluppo
F. ha vissuto la sua infanzia in un piccolo paese dell’Italia meridionale, è il penultimo di otto figli.
Ricorda di quel periodo soprattutto i bei momenti di gioco con il fratello più grande e l’atmosfera
felice nei giorni di festività.
La madre era casalinga ed il padre impiegato comunale. F. trascorse un’infanzia serena fino all’età
di otto anni, quando fu messo di fronte ad una scelta: accettare una borsa di studio o andare in collegio.
Nonostante le insistenze del padre che voleva che lui accettasse la borsa di studio, F. decise di
andare in collegio per seguire il fratello maggiore, compagno di giochi. Descriveva questo ambiente
come molto strutturato e severo, simile ad un ambiente militare. In questa struttura, frequentò la
scuola media e l’Istituto Tecnico Commerciale. All’età di 19 anni uscì dal collegio e rientrò nella
sua famiglia. In quel periodo conobbe alcune ragazze, ma le sue aspettative furono ripetutamente
deluse. Inoltre, si scontrò con la difficoltà di trovare un lavoro. In seguito a questi avvenimenti cominciò
ad avere crisi di pianto, a non voler vedere nessuno, e a stare quasi tutto il tempo chiuso nella
sua stanza.
Il medico di famiglia lo spinse ad andare da un neurologo che gli prescrisse in quell’occasione degli
psicofarmaci che F. assunse regolarmente; per un periodo di due/tre anni effettuò una visita ogni
venti giorni.
All’età di 23 anni partecipò ad un concorso in un Conservatorio per il ruolo di contabile e lo vinse,
trasferendosi pertanto in una grande città.
Qualche anno dopo, a febbraio, conobbe in un dancing la futura moglie; ad ottobre dello stesso
anno si erano sposati. L’anno successivo, quando F. aveva 27 anni, nacque la figlia.
Continuava nel frattempo la sua attività di contabile, soddisfatto del suo lavoro. A 34 anni si verificò
un evento a cui F. attribuiva l’origine del suo tracollo: muore la madre della moglie, la quale
entrò in depressione e venne poi ricoverata in diverse cliniche psichiatriche.
Dopo i ricoveri la moglie non volle più tornare nella casa dove abitavano e spinse F. a trovare
un’alternativa. Lui non avrebbe voluto trasferirsi: “Se fossi stato un uomo di polso! Se fossi stato
capace di impuntarmi! Adesso non sarei ridotto così…”
Per acquistare la nuova casa F. contrasse dei debiti, e per la prima volta iniziò a giocare. Diceva di
essersi sentito abbandonato da tutti in quel periodo, dalla moglie, dai fratelli, e dagli amici. Nel frat-
148 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

tempo la situazione economica peggiorava sempre di più; il tutto veniva complicato dal gioco che F.
cominciava a praticare sempre più spesso, pensando che così avrebbe sistemato tutto.
Nel frattempo cambia lavoro, si trasferisce in un’Accademia di Musica, sempre in qualità di contabile.
All’età di 51 anni subì l’asportazione della tiroide, e dopo l’intervento cominciò per la prima volta
ad avere dei “vuoti”, delle forme di svenimento improvvise; dopo lo svenimento non ricordava nulla.
Sottoposto a risonanza magnetica, si evidenziò un’atrofia cortico-frontale di grado elevato e atrofia
sottotentoriale di grado medio.
Valutazione diagnostica
Al paziente è stato somministrato il test MMPI-2. Il test è risultato valido.
Secondo il DSM-IV è stato possibile fare una diagnosi di Gioco d’azzardo patologico in soggetto
con psicosindrome organica.
Il paziente ha subìto l’asportazione della tiroide ed ha una diagnosi di atrofia corticale. È stato effettuato
un monitoraggio periodico di tale situazione, ma fino all’ultimo controllo non c’erano le
condizioni per fare una diagnosi di esordio di demenza.
Dall’analisi funzionale è risultato che le situazioni che innescavano nel paziente delle intense fluttuazioni
emotive come ansia, rabbia e senso di colpa inducevano il comportamento di gioco. Si osservava
inoltre una particolare difficoltà del paziente ad accedere agli stati interni ed effettuare un
riconoscimento dei propri stati emotivi.
Nel presente caso risultavano soddisfatti i seguenti criteri diagnostici per il Gioco d’azzardo patologico
:
• Era eccessivamente assorbito dal gioco
• Aveva bisogno di giocare con quantità crescenti di denaro
• Aveva ripetutamente tentato di interrompere il gioco senza successo
• Era irrequieto ed irritabile quando tenta di interrompere
• Giocava per sfuggire problemi
• Dopo aver perso tornava ancora a giocare
• Mentiva ai membri della famiglia e agli altri sul suo reale coinvolgimento
Il gioco infatti aveva per F. un significato molto importante: gli permetteva di gestire le proprie
emozioni negative, che dimostrava di avere grande difficoltà a riconoscere e regolare. Il valore del
denaro diventava per lui uno stimolo emotivo e per questo spostava di continuo l’obiettivo su una
sfida maggiormente attivante (Cocci et al., 2006).
Verosimilmente le prime relazioni significative del paziente sono state caratterizzate da ambiguità
e confusione. In famiglia, l’attenzione veniva posta sull’aspetto esteriore e non sui pensieri e sulle
emozioni; ciò ha comportato una iniziale incertezza e confusione, e l'elaborazione di un atteggiamento
personale centrato sul giudizio degli altri, con conseguente timore di critiche e delusioni
(Bara, 2005).
Non è stata dunque stimolata la capacità di leggere le proprie emozioni ed imparare ad esprimerle.
Nei rapporti significativi, il paziente oscillava tra il deludere gli altri o rimanere deluso; ciò contribuiva
al mantenimento di indefinitezza e incertezza.
Erano inoltre presenti tratti di dipendenza e bassa autostima. Il gioco diventava fonte di eccitazione
ed euforia (Lavanco, 2001). In tal modo si generava un circolo vizioso che si auto-manteneva: il
paziente dopo le prime esperienze di vincita continuava a rincorrere altre vincite, ma nel momento
in cui perdeva, il gioco diventava non solo un modo per recuperare ciò che era stato perso ma anche
per continuare ad inseguire altre possibili vincite (Capitanucci, Marino, 2002).
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Progetto terapeutico
Il lavoro con F. si è focalizzato soprattutto sul problema del gioco d’azzardo, evidenziando il significato
che assumeva per lui e identificando le principali distorsioni cognitive riguardanti
l’azzardo stesso. Inoltre, l’obiettivo è stato anche quello di favorire l’acquisizione di abilità che permettessero
al paziente di affrontare e gestire le situazioni problematiche.
F. mi chiese di affrontare anche quelle problematiche di carattere organico che lo affliggevano. Ho
spiegato al paziente che per questo problema avrebbe dovuto effettuare degli approfondimenti diagnostici
presso centri specializzati, mentre l’intervento da realizzare in clinica sarebbe stato rivolto
al trattamento del disturbo relativo al gioco (Guerreschi, 2000).
F. ha concordato con il programma di lavoro presentato.
L’obiettivo a breve termine è stato rivolto alla costruzione di una buona alleanza terapeutica con il
paziente che si è dimostrato già nelle prime fasi piuttosto collaborativo.
Il programma di trattamento si è focalizzato, inoltre, fin dall’inizio, sull’accrescimento della consapevolezza
del disturbo, sull’identificazione e sulla correzione delle principali distorsioni cognitive
(Croce, Zerbetto, 2002).
L’obiettivo a medio termine è stato centrato invece sullo sviluppo della capacità di risolvere problemi,
in questo caso l’intento era quello di far emergere nel paziente delle soluzioni alternative al
gioco e in grado di produrre lo stesso piacere e gratificazione. La capacità di problem solving e di
individuare le situazioni a rischio erano dunque tra le abilità da sviluppare in questa fase.
L’obiettivo a lungo termine è stato rivolto, infine, alla prevenzione delle ricadute (Ladouceur,
2004): mediante l’individuazione dei pensieri automatici, delle emozioni associate e dei comportamenti
messi in atto, si è mirato a favorire la consapevolezza che il controllo dell’impulso a giocare
d’azzardo si origina dall’interno.
Percorso terapeutico
Nelle fasi iniziali della terapia F. mostrava di avere bisogno di tempo per raccontare gli eventi più
significativi della sua vita: l’amnesia, i rapporti con la moglie e la figlia e soprattutto i suoi problemi
fisici. Ho assecondato questo suo bisogno, lasciandogli tutto lo spazio necessario e fornendo empatia
e accettazione indispensabili alla creazione di un buon rapporto.
La difficoltà iniziale è stata quella di arginare i racconti del paziente, per esplorare più da vicino il
problema relativo al gioco d’azzardo di cui F. in questa fase non aveva consapevolezza. Mi diceva
infatti che, rispetto agli altri pazienti ricoverati in clinica, lui non aveva grandi problemi, se non gli
stati confusionali riconducibili ad una patologia organica.
L’obiettivo è stato quello di rispettare i suoi tempi, ma al tempo stesso stimolare la riflessione
sull’impatto che il comportamento patologico poteva avere su altri aspetti della sua vita come la famiglia,
le relazioni sociali e le relazioni con i fratelli.
Costantemente, in questa prima fase l'ho rassicurato circa la prosecuzione dei colloqui: il paziente
infatti temeva di dover interrompere il lavoro terapeutico a causa delle dimissioni. Sono intervenuta,
inoltre, sulle idee poco chiare che F. dimostrava di avere sul trattamento: mi diceva infatti inizialmente
che voleva riappropriarsi di quei ricordi che ancora gli sfuggivano e sentirsi meglio con il suo
umore.
Dopo aver creato una buona relazione, ho cominciato ad introdurre il concetto di azzardo, per favorire
la comprensione dei meccanismi automatici che si attivano nelle fasi di gioco. Ho spiegato il
significato del termine e soprattutto che ogni giocata è indipendente dall’altra e non c’è nessuna
strategia per controllare i possibili risultati. F. è apparso inizialmente sorpreso e poco convinto, pertanto
l'ho esortato a rievocare un episodio specifico e quindi a individuare i pensieri, le emozioni e i
comportamenti messi in atto. Da questo lavoro emergeva un pensiero costante: quello di poter recuperare
nella successiva giocata la perdita precedente.
Ho collegato, pertanto, questo pensiero al concetto di azzardo e di come ci fosse una speranza illusoria
di guadagno e di poter controllare il gioco e di come questa illusione di controllo favorisse il
150 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

mantenimento di tale abitudine. F. ha cominciato per la prima volta a riflettere su questo aspetto.
Nelle sedute successive infatti è apparso meno allegro del solito, mi disse di aver avuto un sonno
piuttosto disturbato e di aver ripensato a quanto detto in seduta. Risultava difficile per lui accettare
che non sia possibile in alcun modo controllare le giocate; pertanto, ho dedicato un congruo spazio
a questo punto importante e ho verificato che al paziente fosse chiaro il meccanismo che si attivava.
Nella fase successiva, l’obiettivo è stato di individuare il collegamento tra pensieri, emozioni e
comportamenti. Abbiamo passato in rassegna tutte le emozioni, in quanto F. dimostrava di avere una
grande difficoltà nel riconoscimento di esse (Ardito, 2005). Ho proposto, pertanto, un lavoro di autosservazione
mediante un diario. Il compito era quello di compilarlo nei momenti sia di malessere
che di benessere nel corso della giornata. Dal lavoro svolto è emersa una confusione tra emozione e
sensazione; pertanto, abbiamo esaminato la differenza tra le due.
Con questo tipo di intervento, mi proponevo da una parte di sviluppare la capacità del paziente di
accedere ai propri stati emotivi e riconoscerli (Di Pietro, 1999), e dall’altra di sensibilizzarlo alle situazioni
che potevano favorire la tendenza a giocare.
È stato inizialmente evidenziato il collegamento tra situazioni di rischio e desiderio di giocare;
dopo averle identificate, abbiamo compilato una lista delle situazioni che potevano generare questo
impulso. Sono emerse alcune situazioni ed emozioni che sembravano favorire il comportamento patologico:
rabbia, rifiuto, immaginarsi mentre si sta vincendo, avere vinto l’ultima volta, essere allegro
e spensierato.
Gradualmente mi accorgo che F. parla sempre meno dei suoi disturbi fisici, cosa che invece era
prevalente nelle fasi iniziali della terapia. Appariva anche più sereno.
Il passaggio successivo del lavoro terapeutico ha riguardato l’individuazione delle distorsioni cognitive
(Beck, 1984) prima, durante e dopo una sessione di gioco e l’esame degli stati emotivi legati
a tali pensieri. Il paziente comunque riferiva di pensarci sempre meno e di riuscire ad interagire di
più con gli altri pazienti della clinica; ha iniziato anche a partecipare ai gruppi di reparto.
Parte dell’intervento è stato poi focalizzato sul pensiero magico del paziente, secondo il quale con
l’azzardo si risolveranno tutti i problemi. Affermava infatti: “Penso che se gioco e vinco, tutto si sistemerà”.
F. aveva creato un’associazione tra gioco e stati emotivi positivi come euforia, spensieratezza e allegria.
Ho proposto dunque la creazione di una lista di attività alternative in grado di produrre tali risposte
emotive. Inizialmente, il paziente è apparso completamente bloccato, certo del fatto che nulla
avrebbe potuto produrre degli effetti simili. Si è riusciti comunque a creare una piccola lista, l’obiettivo
era quello di far emergere delle fonti di gratificazione alternative al comportamento patologico.
Il lavoro successivo si è concentrato sull’individuazione delle credenze errate circa il valore predittivo
delle giocate. F. infatti diceva: “Sento che questa sarà la volta buona! Queste schedine sono
quelle vincenti!”. Questa credenza superstiziosa lo induceva a pensarci perfino durante il ricovero,
con la tentazione di dare dei soldi ad un altro paziente che usciva per un permesso, chiedendogli di
giocare al suo posto. Il lavoro su questo episodio ha permesso di individuare la credenza errata di F.
e di riformularla adeguandola alla realtà.
I passaggi successivi sono stati orientati a consolidare quanto appreso e a lavorare sulle possibili
ricadute. Ho fornito pertanto una spiegazione della ricaduta, ridefinendola come una fase del percorso
terapeutico.
Abbiamo ricostruito insieme le situazioni che esponevano maggiormente F. ai comportamenti patologici,
nonché riesaminato le convinzioni magiche e disfunzionali, sostituendole con verbalizzazioni
adeguate.
Il paziente in quest’ultima fase è apparso più tranquillo e fiducioso nelle proprie capacità di mettere
in atto comportamenti funzionali.
Relazione terapeutica
F. sembrava abbastanza motivato ad intraprendere una psicoterapia. Si è presentato al primo collo-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 151

quio entusiasta e curioso nei confronti di questa nuova esperienza. Era stato proprio lui a richiedere
all’équipe medica dei colloqui individuali. Era preciso e puntuale negli appuntamenti e voleva essere
costantemente rassicurato circa la prosecuzione della psicoterapia. Chiedeva di essere aiutato a
superare questo momento difficile in cui le preoccupazioni per il suo stato di salute lo facevano sentire
giù, e a riprendere una vita tranquilla e regolare, senza avere problemi economici e sentirsi
schiacciato dai debiti.
La creazione di una buona alleanza terapeutica è stata sicuramente facilitata da una buona motivazione
del paziente. Nelle prime sedute ho cercato di fornire un clima accogliente ed empatico (Bowlby,
1989) dando spazio anche all’iniziale bisogno di F. di raccontare la sua storia e i suoi problemi.
Ho cercato di rispettare i suoi tempi e di accogliere le sue difficoltà con grande comprensione.
Nelle prime fasi, inoltre, il paziente cercava costantemente rassicurazioni, e vedeva il nostro rapporto
come un'occasione per esprimere le proprie difficoltà ed affrontare per la prima volta anche
tematiche toccanti e delicate.
Dopo le prime sedute in cui era presente una grande curiosità da parte del paziente nei confronti
della psicoterapia, sono emerse le prime difficoltà: F. progressivamente scopriva che il lavoro lo
esponeva anche a compiti impegnativi, come riflettere su pensieri ed emozioni che non aveva mai
riconosciuto ed accettato – mentre per lui erano esistiti solo il malessere fisico e le sensazioni corporee
– oppure eseguire i compiti prescritti a conclusione della seduta, come la compilazione del
diario. In questa fase, l’obiettivo è stato quello di fornire appoggio e comprensione per la difficoltà
dell’impegno. Ciò si è ottenuto rinforzando costantemente la capacità di F. di collaborare, e questo
ha permesso al paziente di sviluppare maggiore fiducia in ciò che stavamo facendo.
Le fasi centrali della terapia sono state le più complicate, proprio perché F. aveva bisogno della
presenza del terapeuta molto più che nelle fasi iniziali: andava sostenuto e stimolato.
Nelle fasi conclusive, invece, ho cercato di consolidare le abilità acquisite e favorire quindi la crescita
di maggiore auto-efficacia (Bandura, 2000). Tutto questo è stato possibile grazie al clima di
collaborazione empatica che fin dall’inizio ha permesso di porre le basi per un buon lavoro terapeutico.
Conclusioni e catamnesi
Gli obiettivi fissati all’inizio della terapia risultano raggiunti, e il lavoro che F. sta continuando a
fare nel Day Hospital si propone di consolidare quanto è stato appreso e raggiunto.
La motivazione del paziente ha senza dubbio avuto un ruolo importante nel raggiungimento degli
obiettivi: individuare le situazioni a rischio, i pensieri disfunzionali, il collegamento tra pensieri e
comportamenti, nonché confutare i pensieri magici radicati.
A conclusione del lavoro sono scomparse anche quelle continue lamentele relative al proprio corpo
e alle sensazioni fisiche, che venivano interpretate come segnale di possibili malattie che lo
avrebbero portato ad una fine inaccettabile.
La situazione viene descritta in questa fase come più tranquilla; il paziente è riuscito a riacquistare
anche fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di affrontare i problemi e le difficoltà in
modo diverso e più funzionale.
Incontrerò F. dopo due mesi circa dalle sue dimissioni; nel frattempo è stato inserito in un nuovo
progetto di Day Hospital che prevede per alcuni pazienti la partecipazione a gruppi di reparto due
volte alla settimana.
F. appare più sorridente e sereno; mi dice che in questi mesi non ha giocato, anche se, alcune volte
ha avuto l’impulso molto forte a farlo. Il pensiero del gioco comunque è presente molto meno; adesso
F. ha ripreso a frequentare degli amici di vecchia data da cui negli ultimi tempi si era allontanato.
Ha completato tutti gli accertamenti di carattere neurologico e la situazione appare stabile; tutto
questo lo rassicura molto.
Mi dice inoltre che l’esperienza del Day Hospital gli è molto utile perché gli permette di mantenere
un filo conduttore con il lavoro svolto insieme e di continuare a lavorare sugli aspetti più proble-
152 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

matici. Anche la situazione in famiglia risulta più tranquilla; sente meno il controllo della moglie e
della figlia e tutto questo contribuisce al suo benessere.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 153

IL CASO DI PAOLO. DISTURBO DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI SESSUALI.
Di Elisa Scian, psicologa e psicoterapeuta, Azienda Ospedaliera “S. Maria degli Angeli” di Pordenone, Associazione
Via di Natale – Aviano, Progetto Prendersi Cura – Associazioni Oncologiche Pordenone, mail:
elisascian@virgilio.it
Il caso clinico descritto è relativo ad un percorso psicoterapeutico rivolto ad un ragazzo di 29 anni
che presenta un disturbo del controllo degli impulsi sessuali. Nel lavoro clinico si è reso necessario
decentrare l’attenzione del paziente dal comportamento sessuale trasgressivo al fine di evitare
l’instaurarsi di dinamiche di dipendenza e focalizzare l’intervento su scelte terapeutiche che,
all’interno di una cornice teorica cognitivo-comportamentale, favorissero il raggiungimento di una
maggiore adultità, il prosieguo del percorso di studi, un potenziamento dell’autostima e delle competenze
emozionali e relazionali, lo sviluppo di strategie di coping funzionali. A questo lavoro fa
riscontro il raggiungimento di una maggiore integrazione del paziente che ha sviluppato competenze
e strategie che gli hanno permesso di gestire con maggior padronanza i vari ambiti della sua
vita comportando la progressiva estinzione del comportamento sessuale trasgressivo.
L’articolo descrive la problematica presentata dal paziente, la fase di assessment, il processo terapeutico
delineando obiettivi, tecniche ed esiti, i follow-up, la relazione terapeutica.
Brevi cenni identificativi
Paolo è un ragazzo di 29 anni, laureando in Ingegneria Meccanica. Si presenta molto curato
nell’aspetto, alto, di corporatura robusta e cortese nell’atteggiamento. Per motivi di studio, vive a
Padova con due compagni di università e nel fine settimana ritorna a casa con i genitori e due fratelli
minori. Nel tempo libero svolge il lavoro di guardiano part-time di una mostra d’arte.
Motivo della richiesta
Il paziente, inviato da un collega psicologo, richiede la consulenza per un supporto psicologico legato
alla difficoltà di gestione di diverse aree della sua vita: sentimentale, familiare, universitaria.
Richiede aiuto in questa fase della sua vita perché crede di aver preso coscienza della sua incapacità
di costruire relazioni sentimentali. A suo dire, questa convinzione l’ha portato a mettere in atto comportamenti
incontrollabili che lo mortificano, gli suscitano sensi di colpa e confermano l’immagine
negativa che ha di se stesso: frequenta regolarmente prostitute, spesso senza ricorrere a precauzioni.
Afferma: “Non riesco a trovare una ragazza, la famiglia è un casino, l’università un buco
nell’acqua, almeno mi concedo qualche soddisfazione!”. Riconduce le sue difficoltà ad una scarsa
percezione del proprio valore personale, legata a situazioni familiari ed insuccessi scolastici.
Diario degli incontri
Da marzo 2009 a maggio 2010 gli incontri si sono svolti con frequenza settimanale per i primi
dieci mesi del percorso psicoterapeutico e con cadenza quindicinale negli ultimi tre mesi per un totale
di 52 sedute. Sono stati effettuati tre follow-up ad uno, tre e sei mesi dalla conclusione della terapia.
Presentazione del problema
Il paziente riferisce che l’insicurezza e la scarsa stima di sé l'accompagnano sin dall'infanzia ed in
particolare dalle continue svalutazioni che riceveva dai genitori.
Due sono gli episodi particolarmente significativi che potrebbero aver segnato in senso disadattivo
il percorso evolutivo di Paolo. Il primo è avvenuto in adolescenza quando il paziente in occasione
dell’ennesima lite violenta tra i genitori ha tentato il suicidio di fronte a loro bevendo alcol etilico
denaturato. Questo episodio ha avuto un chiaro vantaggio secondario in quanto ha comportato un
momentaneo miglioramento del clima familiare.
154 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

La condizione di vulnerabilità in cui già il paziente si trovava è precipitata intorno ai 18 anni
quando ha iniziato a confrontarsi con i ragazzi della sua età rispetto alle sfera della sessualità. La
constatazione di essere l’unico tra gli amici a non aver avuto un rapporto sessuale l’ha fatto cadere
in un profondo sconforto. Si è sentito triste e diverso. Nasce da qui la prima esperienza con le prostitute.
Il percorso del paziente a partire dall’esordio del problema è stato caratterizzato da un continuo
crescendo di insuccessi, frustrazioni e rifiuti ai quali ha reagito in modo disfunzionale.
In particolare, rispetto alla sua carriera scolastica Paolo riferisce di non essere mai stato valorizzato
dai genitori che minimizzavano i suoi risultati definendolo mediocre. La complessità del percorso
di studi, i risultati non molto brillanti, le critiche da parte dei genitori hanno alimentato la demotivazione
allo studio e di conseguenza i risultati negativi.
Nel contesto familiare la conflittualità è aumentata in modo graduale, ma continuo e significativo
tanto che il padre ha iniziato ad abusare di alcol. Paolo negli anni ha cercato di mediare tra i genitori
con scarsi risultati e con ripercussioni negative sul suo rapporto con loro.
In riferimento alla sfera sentimentale, il percorso di vita del paziente è stato caratterizzato da molti
rifiuti da parte delle ragazze. Non è mai riuscito a instaurare una relazione stabile nemmeno di breve
durata. Le modalità relazionali a cui ricorre sono inadeguate e lo espongono ad un inevitabile fallimento.
Nel 2005 in seguito al rifiuto da parte di una ragazza, che già considerava “la donna della
sua vita” pur non essendoci alcun fondamento di relazione, Paolo ha tentato il suicidio assumendo
farmaci ed alcol. In seguito a questo episodio, nel 2006 ha iniziato un percorso ad orientamento psicoanalitico
con buoni risultati. A distanza di un anno dalla sospensione del trattamento afferma di
essere in difficoltà e di non essersi rivolto allo stesso terapeuta in quanto non è stato soddisfatto della
sua modalità relazionale. Inoltre aggiunge sorridendo: “Questa volta ci voglio provare con un terapeuta
donna…Scherzo!”.
L’unico aspetto positivo che Paolo riesce a rilevare nel suo percorso di vita è l’ampia rete sociale
che ha costruito. Nonostante ciò non riesce ad avere piena fiducia verso gli amici, in quanto vengono
ripetutamente criticati dai suoi genitori e questo lo mette in allerta.
Al momento attuale il paziente si trova in uno stato di rassegnazione. Definisce la sua vita un fallimento
da tutti i punti di vista. Si sente vittima degli eventi, senza alcuna alternativa o possibilità di
miglioramento. L’assolutezza, l’immodificabilità e la negatività del suo modo di vedere la situazione
stanno compromettendo ogni progetto di vita di Paolo. La frequentazione delle prostitute diventa
per lui la gratificazione per tutto quello che sta subendo. Il bisogno di soddisfare i propri impulsi
sessuali è un pensiero fisso nella sua mente che lo porta a contattare e ricercare le prostitute in presenza
di antecedenti che suscitano in lui emozioni spiacevoli.
Durante la fase di assessment sono stati rilevati diversi pensieri disfunzionali caratterizzati da alcuni
errori cognitivi (tendenza ad un pensiero rigido e dicotomico, iper-generalizzazione, personalizzazione),
dall’irrazionalità e da uno stile rimuginativo. È consapevole che lo scarso valore che riconosce
a se stesso e alle proprie capacità influisce negativamente sulle sue modalità di fronteggiamento
della situazione, ma ne attribuisce la causa alle frequenti svalutazioni da parte dei genitori.
Alla luce di questo è possibile affermare che il paziente presenta uno stile attributivo esterno, pervasivo
e permanente (Seligman, 2006).
La competenza emozionale di Paolo è di tipo neurovegetativo e comportamentale. Riesce infatti a
descrivere con precisione i pattern neurofisiologici connessi alle sue emozioni e le reazioni comportamentali
che da queste scaturiscono, ma presenta una rilevante difficoltà nel riconoscimento e
nell’espressione emozionale. Il processo di autoregolazione è disfunzionale in quanto si caratterizza
per la tendenza a trattenere l’espressione dell’emozione fino a quando l’intensità raggiunge un livello
tale da renderla incontenibile. Durante la fase di assessment si è rilevata la presenza delle seguenti
emozioni: ansia, rifiuto, rabbia, tristezza. Il paziente tende a rispondere con ansia alla maggior
parte delle situazioni della vita quotidiana interferendo con il suo benessere personale. L’emozione
di ansia, ad esempio, insorge in prossimità degli esami universitari tanto da far sì che non si presenti
alla sessione ricorrendo ad una strategia di evitamento. L’emozione di rifiuto viene attivata dalle
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 155

violente liti tra i genitori. Il rifiuto viene seguito da una profonda rabbia che è una delle emozioni
che prevalgono nella vita di Paolo. Il paziente è arrabbiato con i genitori che litigano continuamente
e che lo svalutano, con le donne che lo rifiutano, con i professori che lo bocciano. La rabbia, attivata
da questi antecedenti che Paolo ritiene ingiusti e rispetto ai quali si sente impotente, a suo volta favorisce
la perdita del controllo degli impulsi in particolare in riferimento ai bisogni di natura sessuale.
Questo comportamento, al di là di una momentanea emozione di piacere, attiva una reazione di
auto-riprovazione a cui segue una profonda tristezza che a sua volta riattiva la rabbia. Si può concludere
che il paziente si trova in un circolo vizioso che si autoalimenta favorendo reazioni comportamentali
disfunzionali di fronte a situazioni che suscitano pensieri ed emozioni spiacevoli.
Storia di vita
Paolo è nato nel 1979. Il padre Carlo (59 anni) è un insegnate di educazione fisica in pensione, la
madre Anna (58 anni) è un’insegnate di musica. Primogenito di tre figli maschi, ha due fratelli Marco
(23 anni) che lavora come perito meccanico e Giulio (20 anni) che studia presso un istituto tecnico
industriale. Paolo riferisce di aver vissuto un’infanzia triste a causa dei continui litigi tra i genitori
che arrivavano anche alla violenza fisica. La conflittualità coniugale e familiare è continuata anche
durante la sua adolescenza ed è tuttora presente. Paolo fin da piccolo ha avvertito un profondo
senso di responsabilità nei confronti di questa situazione e da sempre si sente in dovere di intervenire
per cercare di risolvere i problemi. Ricordando quei momenti, racconta che si sentiva paralizzato,
impotente ed incapace. Riferisce che ancora oggi, a differenza dei suoi fratelli che si estraniano, lui
è ipercoinvolto e continua a prendere le parti di uno o dell’altro genitore. Pur non tollerando la situazione
non si attiva per svincolarsi dalla famiglia sia dal punto di vista economico che relazionale
rapportandosi ai genitori con maggiore adultità.
Valuta discreta l’educazione ricevuta dalla madre e insufficiente quella ricevuta dal padre. Racconta
l’estrema severità da parte del padre che lo controllava continuamente, interferiva nei suoi
studi, sceglieva le sue amicizie ed anche i suoi hobbies. Si definisce un figlio iper-responsabilizzato
che doveva essere perfetto e non poteva permettersi di sbagliare. Ricorda molte punizioni, rari incoraggiamenti
e poche gratificazioni. Attualmente, si sente dipendente dai suoi genitori in quanto
provvedono al suo mantenimento e alle spese per i suoi studi, ricattandolo e rinfacciandoglielo frequentemente.
Paolo riferisce che la conflittualità familiare, il suo senso di impotenza nel gestire la
situazione, la svalutazione ed il controllo da parte dei genitori hanno minato la sua autostima.
Dal punto di vista fisico ed evolutivo non ha mai avuto nessun problema nel corso dello sviluppo.
Afferma di aver vissuto con serenità la sua sessualità fino a quando ha iniziato a credere di non essere
in grado di instaurare una relazione sentimentale con una ragazza.
Nell’arco della sua vita ha sempre avuto molte relazioni amicali e ha coltivato molti interessi (sci,
palestra, lettura, cinema, viaggi). Ha frequentato la scuola con regolarità, ma con scarso profitto. Attualmente
è iscritto fuori corso alla Facoltà di Ingegneria Meccanica dell’Università degli Studi di
Padova dove risiede durante la settimana insieme a due compagni di corso, con i quali ha instaurato
un buon rapporto. Durante il percorso di studi ha incontrato molte difficoltà che hanno comportato
periodi di sospensione a causa di una profonda demotivazione allo studio. Il paziente riconduce tali
difficoltà allo scarso impegno determinato da problematiche relazionali sentimentali e familiari, ma
anche da momenti in cui lui stesso non credeva più nelle proprie capacità.
Sintesi valutativa
Le variabili cognitive, emozionali, comportamentali e socio-relazionali rilevate nella fase di assessment
attraverso il colloquio clinico, l’osservazione, la batteria CBA 2.0 e le schede di autoosservazione
convergono verso la presenza di un disturbo del controllo degli impulsi non altrimenti
specificato. In questa categoria è compreso anche il comportamento sessuale compulsivo (Kaplan,
Sadock, Grebb, 1998). La caratteristica principale di questo disturbo è data dalla difficoltà della
persona a resistere ad un particolare impulso. Solitamente il paziente avverte un aumento
156 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

progressivo del livello di arousal poco prima di mettere in atto l'impulso a livello comportamentale,
sperimentando di conseguenza piacere, sollievo e/o gratificazione. Immediatamente dopo tale
azione possono comparire ansia, flessione dell'umore, sensi di colpa, rimorso, auto-riprovazione e
stress con intensità variabile e con conseguente danno all'area sociale, familiare, lavorativa, affettiva,
etc. Nella fase di assessment si è potuto constatare che il paziente, in seguito ad un evento scatenante
spiacevole percepisce una forte tensione che aumenta progressivamente e lo spinge alla ricerca
della soddisfazione dell’impulso sessuale. Nonostante i tentativi di controllare l’impulso distraendosi,
la tensione continua a salire fino a raggiungere un livello incontenibile. A quel punto
Paolo va alla ricerca di una o più prostitute. L’emozione di piacere e la soddisfazione legate all’atto
sessuale, vengono seguite da auto-riprovazione, sensi di colpa e tono dell’umore depresso. Lo stile
attributivo esterno fa sì che a conclusione del percorso il paziente provi un’emozione di profonda
rabbia verso chi, a suo dire, è colpevole di questo suo comportamento e di conseguenza si attivano a
catena delle ricadute negative sul contesto familiare, scolastico, sentimentale. Si ipotizza che si stia
innescando un meccanismo di dipendenza per cui più il comportamento sessuale viene connotato in
modo trasgressivo più il paziente ne è attratto. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza
l’importanza degli aspetti psicosociali connessi al disturbo del controllo degli impulsi. Sono stati
considerati implicati anche modelli inadeguati di identificazione con le figure parentali che hanno, a
loro volta, difficoltà nel controllo degli impulsi. Inoltre si ritiene che abbiano un ruolo significativo
anche fattori parentali come la violenza in famiglia, l’abuso di alcol e le tendenze antisociali
(Kaplan et al., 1998). Effettivamente il paziente fin dall’infanzia è stato esposto a modelli
genitoriali inadeguati caratterizzati da forte conflittualità, abuso di alcol e strategie di coping
disfunzionali.
Inoltre, maltrattamenti, soprattutto emotivi, durante l’infanzia, rendono l’individuo vulnerabile
alla hopelessness contribuendo alla costruzione di uno stile cognitivo negativo dovuto alla svalutazione
da parte degli adulti (Rose, Abramson, 1992). Dalla storia di vita del paziente si rileva che i
suoi genitori hanno adottato uno stile educativo molto rigido, autoritario e svalutante.
Trattamento psicoterapico
Alla luce del quadro clinico emerso si è intrapreso un percorso psicoterapeutico ad orientamento
cognitivo comportamentale finalizzato al raggiungimento dei seguenti obiettivi definiti e condivisi:
• Obiettivi a breve termine: utilizzare precauzioni nei rapporti sessuali a rischio; decentrare
l’attenzione del paziente dal comportamento sessuale trasgressivo
• Obiettivi a medio termine: riprendere il percorso di studi; ridurre la frequenza dei rapporti
sessuali a rischio; svincolare il paziente dal contesto familiare dal punto di vista economico;
favorire il passaggio ad uno stile attributivo interno; favorire l’utilizzo di strategie di coping
adattive; incrementare la competenza emozionale
• Obiettivi a lungo termine: accrescere l’autostima e le capacità assertive; svincolare il
paziente dal contesto familiare favorendo il raggiungimento di una maggiore adultità;
sviluppare le capacità relazionali; favorire la progettualità di coppia; estinguere il
comportamento sessuale trasgressivo
La prima fase dell’intervento è stata orientata a promuovere un atteggiamento più responsabile rispetto
al comportamento sessuale evitando i rischi associati ai rapporti sessuali non protetti. Un intervento
esclusivamente informativo non sarebbe stato sufficiente in quanto il paziente era pienamente
consapevole dei rischi a cui si esponeva. Per questo motivo si è lavorato sul pensiero disfunzionale
che stava alla base di questo comportamento. Il paziente ha, infatti, affermato di non utilizzare
precauzioni nei rapporti sessuali con le prostitute in quanto la possibilità di ammalarsi o di morire
non lo preoccupava visto che la sua vita era “uno schifo”. Questo pensiero è di tipo permanente
e pervasivo e quindi non comprende la possibilità di un miglioramento della situazione. Attraverso
la ristrutturazione cognitiva si è cercato di trasformare il suo pensiero in temporaneo e circoscritto
solo ad alcune aree della sua vita. Le tecniche di ristrutturazione cognitiva che sono state utilizzate
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 157

sono la decatastrofizzazione, i pensieri utili e le interpretazioni alternative. Fondamentale all’interno
dell’alleanza terapeutica, è stato porre l’intenzione di preservare la propria salute come presupposto
necessario per rendere significativo il lavoro psicoterapeutico che si stava per iniziare. Il processo di
adattamento a questa situazione è stato lento e graduale e ha compreso alcune ricadute. Un segnale
molto importante che ha indicato un aumento della responsabilità del paziente è stato la scelta di
sottoporsi al test dell’HIV. Questo aspetto ha agito da rinforzo per l’evitamento delle ricadute, in
quanto anche una solo rapporto non protetto avrebbe annullato l’iter diagnostico. Rispetto a
quest’area si è scelto di non realizzare nessun altro intervento diretto in quanto il paziente aveva
connotato il proprio comportamento sessuale in modo trasgressivo e rischiava di svilupparsi un
meccanismo di dipendenza. Si è quindi deciso di spostare la sua attenzione su altre aree su cui sarebbe
stato più funzionale focalizzare l’intervento.
A questo punto, il lavoro si è orientato allo sviluppo dell’autonomia pratica e relazionale dal contesto
familiare cercando una maggiore indipendenza economica e favorendo il raggiungimento
dell’adultità. Per quanto riguarda il primo obiettivo si è proceduto a realizzare una ricognizione delle
fonti remunerative del paziente, risultate insufficienti, e all’individuazione di alternative lavorative
più redditizie che fossero compatibili con i progetti di studio. Alla luce delle sue passate esperienze,
si è concluso che l’attività ideale avrebbe potuto essere il tutoring per studenti delle scuole
medie e superiori. Si è realizzato un lavoro di analisi delle caratteristiche che in passato avevano
permesso a Paolo di svolgere adeguatamente quel compito cercando di favorire il passaggio da
un’attribuzione esterna dell’evento positivo ad un’attribuzione interna. Fondamentale al fine di raggiungere
il riconoscimento delle proprie capacità è stata la tecnica dell’amico. A partire dalla valorizzazione
delle capacità individuate si è quindi proceduto ad una pianificazione delle tappe da percorrere
per iniziare l’attività di tutoring e all’avvio del programma. Durante il corso della terapia,
Paolo ha ricevuto la proposta, da parte del padre di un ragazzo, di collaborare con il suo studio di
architettura per realizzare dei piccoli aggiustamenti ai progetti tecnici. Questa esperienza è stata
molto significativa non solo da un punto di vista strettamente economico, ma anche dal quello psicologico:
per la prima volta era riuscito a raggiungere un obiettivo, contando solo sulle proprie capacità.
La discreta autonomia economica così raggiunta ha permesso a Paolo di aver maggiore forza
nello svincolarsi dal sistema familiare anche dal punto di vista relazionale. Nella gestione di questo
aspetto è stato fondamentale realizzare un intervento di potenziamento delle capacità assertive e
della competenza emozionale del paziente. Il lavoro sullo sviluppo dell’adultità ha compreso anche
l’utilizzo delle tecniche di ristrutturazione cognitiva, al fine di modificare il pensiero disfunzionale
secondo il quale era suo compito moderare le liti tra i genitori. Questo intervento nel tempo ha permesso
al paziente di comprendere che non necessariamente era tenuto ad intervenire nei loro conflitti.
Una parte del lavoro psicoterapico è stata dedicata ad aiutare Paolo a riprendere sistematicamente
gli studi. L’analisi del metodo di studio ha messo in rilievo difficoltà di pianificazione e mancanza
di strategie efficaci. Il desiderio di finire l’università il prima possibile spingeva Paolo a definire
obiettivi elevati per contenere l’ansia, ma puntualmente si esponeva al fallimento e alla frustrazione.
A partire da questa analisi si è passati alla definizione di un piano di studi realistico, dettagliato e
raggiungibile progredendo per piccoli obiettivi. Questo modo di operare ha permesso al paziente di
avere un costante monitoraggio rispetto all’andamento dello studio, favorendo il miglioramento dei
suoi risultati e rinforzando così la motivazione e l’autostima.
Abbiamo così lavorato sul potenziamento della competenza emozionale, in particolare, in riferimento
al riconoscimento e alla gestione delle proprie emozioni. A tal fine si è realizzato un intervento
psicoeducativo sulle emozioni seguito da una serie di esercizi orientati ad applicare le conoscenze
apprese (Borgo, 2006; Di Pietro, 1998; Ekman, 1992). Attraverso questo lavoro Paolo è
riuscito ad acquisire nel tempo una buona capacità di riconoscimento e discriminazione delle
proprie emozioni. Il passo successivo è stato l’utilizzo sistematico delle schede di auto-osservazione
al fine di potenziare ulteriormente le capacità discriminative, ma anche di analisi di quali con-
158 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

nessioni fossero presenti tra antecedenti, reazioni fisiologiche, emozioni, comportamento, pensieri,
immagini. Le schede di auto-osservazione si sono rivelate estremamente utili in quanto hanno permesso
al paziente di comprendere i propri processi emozionali e di acquisire uno strumento di autoregolazione,
infatti l’individuazione degli antecedenti che più frequentemente attivavano reazioni
emozionali spiacevoli ha favorito un riconoscimento anticipato di tali emozioni fin dai primi segnali
ed una gestione delle stesse prima che diventassero incontrollabili.
Una parte dell’intervento è stata orientata a sviluppare uno stile comunicativo assertivo. A partire
da un intervento psicoeducativo, si è passati all’applicazione di alcune linee guida utili nel produrre
una comunicazione assertiva (Becciu, Colasanti, 2004; 2010). A tal fine è stato seguito un
programma graduale che permettesse al paziente di sperimentarsi inizialmente in un contesto protetto
e poi nella vita reale prevedendo una successiva analisi in seduta degli episodi significativi.
Contemporaneamente è stata dedicata una parte del percorso al lavoro sull’autostima promuovendo
una maggiore consapevolezza del paziente rispetto alle proprie qualità e ai propri difetti
favorendone un realistico, e non ipercritico, riconoscimento. In primo luogo è stato realizzato un
intervento psicoeducativo propedeutico ad iniziare un lavoro di analisi dei vari ambiti dell’autostima:
corporeo, familiare, sociale, scolastico, affettivo-sentimentale. In particolare ho chiesto a
Paolo di attribuire un punteggio di soddisfazione e di valore a ciascun ambito individuando poi i
margini di miglioramento. Questo esercizio gli ha permesso di comprendere il concetto di autostima
e di analizzarne i vari ambiti individuando che cosa sarebbe dovuto accadere per migliorare la sua
soddisfazione e quindi la sua autostima globale.
A questo punto si è proposto al paziente di presentarsi mettendo in evidenza le proprie qualità e i
propri difetti al fine di favorire la promozione di una maggiore autoconsapevolezza. Poiché ha riportato
solo una serie di caratteristiche negative, si è passati all’individuazione delle caratteristiche
negative che non gli appartenevano per condurlo ad una trasformazione nell’equivalente positivo.
Al fine di rafforzare ulteriormente il processo realizzato, ho proposto a Paolo di rappresentare graficamente
le sue qualità (la galleria delle sua qualità) e di esporle nella sua stanza.
Infine una parte dell’intervento è stata dedicata a favorire l’acquisizione di competenze relazionali
che permettessero al paziente di rapportarsi in modo adeguato con le donne favorendo un’adeguata
progettualità di coppia. Il primo passo è stato la ristrutturazione cognitiva di un pensiero disfunzionale
molto radicato: “Non troverò mai una ragazza”. Il processo di ristrutturazione cognitiva è stato
molto lungo e complesso, in quanto le passate esperienze negative di Paolo avevano rinforzato negli
anni il suo pensiero disfunzionale. Ritornare frequentemente ai pensieri utili e alle interpretazione
alternative ha favorito la ristrutturazione cognitiva. In questa fase un passo importante è stato l’individuazione
delle caratteristiche della ragazza ideale secondo il paziente, soffermandosi sulla distinzione
tra ideale e reale e sulla necessità di considerare un margine di flessibilità nell’incontro con
l’altro. A questo punto del lavoro si è resa necessaria l’attenzione allo sviluppo di strategie di corteggiamento
adeguate. È emerso così in modo evidente l’importanza di considerare gli obiettivi del
corteggiamento, la dimensione temporale, la capacità di cogliere i feedback inviati dall’altra persona.
In primo luogo si è intervenuti per ristrutturare la convinzione del paziente secondo il quale tutte
le relazioni devono essere profonde, stabili e durature fin dal principio. Si è riflettuto quindi sulla
costruzione di una relazione sentimentale in quanto processo che richiede tempo e l’approfondimento
della conoscenza reciproca. Si è di conseguenza lavorato con il paziente attraverso il role-playing,
la fantasia guidata, l’analisi degli episodi, le schede di auto-osservazione. Questo lavoro ha favorito
una maggiore attenzione ai propri pensieri e alle proprie emozioni in relazione alla ragazza,
ma anche alle reazioni di lei imparando a leggerle come utili feedback per modulare il proprio comportamento.
Con la progressiva acquisizione di una maggiore consapevolezza e di una migliore
competenza relazionale, progredendo a piccoli passi ed imparando dall’analisi degli errori compiuti,
Paolo è riuscito a vivere le relazioni con le donne in modo più adeguato e rispettoso di se stesso e
dell’altro. Una breve relazione sentimentale con una compagna di corso ha permesso a Paolo di scoprire
di essere amabile, ma anche di rendersi conto che se era riuscito a controllare l’impulso ses-
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suale in quei sei mesi, allora quell’impulso incontrollabile stava diventando controllabile. Verso la
fine del percorso psicoterapico Paolo ha instaurato una relazione sentimentale con una ragazza conosciuta
ad un corso di ballo. La gestione del corteggiamento e della conoscenza di Stefania è stata
adeguata nei tempi e nelle modalità. Paolo non si è fatto travolgere dagli eventi, ma ha vissuto la relazione
per gradi costruendo un rapporto che nel tempo è divenuto molto significativo.
La fase conclusiva dell’intervento terapeutico è stata orientata a consolidare gli obiettivi raggiunti,
ma anche a favorire una maggiore consapevolezza di quali fattori hanno favorito il successo del percorso
terapeutico al fine di prevenire le eventuali ricadute. Dopo la conclusione del trattamento ho
rivisto il paziente tre volte: a un mese, a tre mesi e a sei mesi dalla fine della terapia. Nell’arco di
questo tempo Paolo ha consolidato le competenze acquisite e ha raggiunto così una maggiore padronanza
nei vari ambiti della sua vita: si è laureato, ha mantenuto l’autonomia economica e relazionale
rapportandosi ai genitori con maggiore adultità, ha reso più autentiche le sue relazioni, ha consolidato
la relazione sentimentale, ha estinto completamente il comportamento sessuale trasgressivo.
È possibile, quindi, rilevare che sono stati raggiunti tutti gli obiettivi terapeutici.
Relazione terapeutica
La relazione terapeutica è stata un punto cardine particolarmente rilevante rispetto all’efficacia del
percorso psicoterapico. Le modalità relazionali che il paziente ha adottato nei confronti del terapeuta
sono state un materiale informativo importante al fine di capire quali fossero le sue difficoltà interpersonali.
Il suo atteggiamento era seduttivo ed ambivalente. Lo sguardo, gli apprezzamenti, le
battute a sfondo sessuale mi facevano sentire a disagio, ma dall’altra parte mi hanno permesso di
capire le sensazione che avrebbe potuto provare una donna in relazione a lui. L’emozione prevalente
che sperimentavo in seduta era il rifiuto dovuto alla mancanza di rispetto dei confini relazionali.
Questo meccanismo si attivava in tutte le relazioni del paziente con le donne, qualunque ruolo queste
avessero nella sua vita. Si è quindi reso evidente che la relazione terapeutica avrebbe potuto essere
un modello importante per aiutarlo a rapportarsi in modo adeguato con le donne. Questa consapevolezza
mi ha permesso di tollerare il suo atteggiamento anche quando oltrepassava i limiti cogliendo
questi momenti come opportunità per favorire un cambiamento. Il mio obiettivo a questo
punto è stato quello di definire delle regole chiare e condivise rispetto alla relazione terapeutica che
mi permettessero di stabilire un confine che il paziente avrebbe dovuto rispettare. Soprattutto nella
fase iniziale, Paolo ha tentato più volte di violare i confini e le regole per mettermi alla prova, secondo
la sua tipica modalità relazionale a volte aggressiva. Rimanere ferma sui chiari confini che
erano stati stabiliti, pur all’interno di una relazione empatica, mi ha permesso di far comprendere al
paziente che all’interno delle regole definite, io sarei stata disponibile ad aiutarlo. Non l’ho rifiutato
in quanto persona, ma ho rifiutato una sua modalità relazionale inadeguata. Si è attivato così gradualmente
un processo di modeling che ha fatto sì che l’esperienza positiva nella relazione con una
donna in terapia, sia servita come modello di riferimento funzionale con il quale il paziente si è potuto
misurare favorendo lo sviluppo della capacità di instaurare relazioni più adeguate con le donne
anche al di fuori del contesto terapeutico.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 161

GLI SPIRITI DELLA PROPRIA TERRA.
Di Francesco Battista, Psicologo – psicoterapeuta. Il caso del sig. F fa riferimento ad un periodo della sua collaborazione
con l’INMP, presso l’Antico Ospedale San Gallicano, mail: fbattistapsicologia@yahoo.it
Presentazione e motivo della richiesta
A. è un signore di 43 anni originario del Nord Africa, si presenta al nostro servizio lamentando
“attacchi di panico” e richiedendo un supporto psicologico.
Il Servizio a cui afferisce è il Servizio di Etnopsichiatria Clinica, per cui la prassi adottata differisce
da quella del Servizio Richiedenti Protezione Internazionale e Vittime di Tortura (Morrone,
2008): l’accoglienza viene fatta dagli stessi psicologi che, dopo aver fatto una prima analisi del
caso, mettono il paziente in una lista e verrà richiamato direttamente dal terapeuta che andrà a prenderlo
in carico per fissare un appuntamento (Anagnostopolous, Germano, Tumiati, 2008).
Cenni anamnestici
Il paziente proviene dall'Africa del nord. Fino alla maggiore età è vissuto insieme ai genitori e ai
suoi 7 fratelli, tutti più grandi di lui, in una grande città. Fin da allora si fa strada il desiderio di emigrare
in Europa: nel 1990, a 23 anni, lascia il suo paese e giunge in Italia. Per 7 anni vivrà al nord
come clandestino in un contesto socioeconomico estremamente difficile. Ottenuto il permesso di
soggiorno si sposta in una città del centro dove incontrerà la sua futura moglie. Nel 1999 si converte
dall’islam al buddismo. Nel 2001 nasce la sua prima figlia. Nel 2002 avviene la morte del padre, figura
centrale nella sua vita ma con la quale ha avuto, per suo dire, un rapporto difficile anzi un
“non” rapporto. Nel 2004 nascerà il figlio maschio.
Nel corso della sua permanenza in Italia ha svolto diversi lavori, specializzandosi in primis come
massaggiatore ed approfondendo tutto ciò che concerne il buddismo, incluso lo Yoga e le sue tecniche
di rilassamento. Lavora per un lungo periodo come commesso in un supermercato finché,
nell’ottobre 2009, perde il lavoro conseguentemente ad un’accesa lite con il suo capo, alla fine della
quale lo licenzia. Reagisce immediatamente aprendo un chiosco di abiti usati.
Un mese dopo ha il suo primo “attacco di panico”: una mattina, mentre stava andando in macchina
a lavoro dopo aver accompagnato i figli a scuola, all'improvviso avverte un'accelerazione del
battito cardiaco, percepisce una dilatazione del campo visivo e comincia a sudar freddo. Accosta
con la macchina finché non si sente meglio, ma 2 settimane dopo ha un altro episodio analogo nella
stessa situazione e così anche altre 2 settimane dopo.
Il medico di base gli prescrive 5 gocce di Xanax al giorno che assumerà per altri 2 mesi, fino a
poco prima di essere chiamato per l’appuntamento con il sottoscritto.
Nei primi colloqui di accoglienza il signor A. esprime con chiarezza le sue difficoltà che siamo
andati a riformulare (Carkhuff, 1987) insieme come una difficoltà a gestire la rabbia, che risulta essere
improvvisa, inaspettata ed esplosiva, e a contattare le emozioni mantenendo un filtro del mondo
esteriore principalmente cognitivo e razionale (Ellis, 1989).
Quelle che il signor. A. riferisce essere “esplosioni di rabbia” sono stati infatti la causa ultima della
perdita del suo lavoro e sono causa di difficoltà relazionali con la moglie ed i figli.
L’approccio cognitivo – comportamentale
I colloqui sono stati svolti interamente in lingua italiana, lingua che ormai il sig. A. parla da circa
20 anni, all’interno degli uffici riservati ai vari servizi dell’Albero delle Parole.
Gli incontri si sono svolti per un periodo complessivo di 7 mesi, da gennaio a luglio per un totale
di 25 incontri con cadenza, salvo eccezioni, settimanale.
Il lavoro con il signor A. si è svolto adottando la seguente metodologia: una prima fase di assessment,
dove si è cercato di instaurare un rapporto empatico con A. e di analizzare la sua domanda
(Sanavio, 1998), una seconda in cui si è approfondita la storia dei suoi sintomi ed una terza d’inter-
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vento (Coppo, 1986).
Il progetto terapeutico
Fin dai primi colloqui emerge come A., nonostante in Italia da tanti anni e complessivamente integrato
nella società, abbia difficoltà a livello relazionale: non ha infatti neanche un amico, non trova
il tempo per dedicarsi ad attività di svago e ha una relazione che risulta difficoltosa con la moglie,
soprattutto a livello emotivo. Inoltre riferisce di aver perso i lavori a causa delle sue “esplosioni” di
rabbia, incontrollate e scatenate da futili motivi.
Riferisce di aver avuto fin da quando ricorda problemi relazionali con la propria famiglia di origine,
in particolare con il padre, con il quale non ha mai veramente “parlato” in vita sua se non una
volta sola poco prima della morte. I suoi hanno spesso contestato le sue scelte imponendo un rapporto
in cui A. doveva semplicemente eseguire i loro ordini. A. non ha mai criticato apertamente i
suoi e ha represso la rabbia, che esprimeva in un secondo momento e da solo (per es. dopo una richiesta
del padre è andato apparentemente tranquillo in camera sua dove ha poi distrutto il suo stereo).
A tutt’oggi i rapporti con la famiglia sono scarsi e formali (nessuno ovviamente sa della sua conversione
al buddismo).
Con la moglie i problemi sono cominciati qualche anno dopo il loro matrimonio e sono scaturiti
da motivi principalmente di natura economica: i progetti iniziali di lavoro stabile e ben retribuito
non si sono compiuti. Si sono ritrovati a dover svolgere lavori modesti, precari e mal pagati: la moglie
fa la guida turistica lavorando quasi esclusivamente durante il periodo estivo. Le discussioni tra
di loro sono un crescendo di accuse reciproche per la situazione economica familiare in cui A. prova
un sentimento di solitudine profondo : “Se cado nessuno mi sostiene, mi faccio male. Voglio poter
sbagliare senza essere incolpato”.
Vivendo in una casa piccola insieme alla moglie e ai figli, gli spazi sono molto ristretti ed i figli
spesso sono partecipi a queste forti discussioni. Al termine di queste A. prova anche dei sensi di colpa
per averli coinvolti.
Lavoro a breve termine
L’obiettivo che ci poniamo a breve termine ha quindi il duplice scopo di evitare il coinvolgimento
dei figli nella discussione e di imparare a gestire le discussioni con la moglie in modo da “non perdere
i nervi”.
Per raggiungere questo obiettivo chiediamo ad A. di svolgere i seguenti compiti:
• Appena terminata una discussione, scrivere quello che viene detto durante un litigio, cercando
di essere il più fedele possibile alle parole usate (preludio per utilizzare la tecnica ABC),
(Beck, 1984)
• Effettuare un brainstorming (Ellis, 1993) su quello che potrebbe fare per prevenire gli effetti
dei suoi litigi sui figli
Il paziente mostra fin da subito una difficoltà a mettere per iscritto i compiti, cosa che non farà
mai, ma quanto meno si attiene alle prescrizioni tenendo ben a mente il compito e la situazione in
cui è da svolgere.
Grazie alla buona capacità cognitiva riesce a descrivere bene i passi della discussione con la moglie
andando a rendersi conto che è sempre lui che alza per primo i toni durante la discussione perché
vuole che la gente gli dia sempre ragione e si sente male (tensione al plesso solare) ogniqualvolta
ciò non avviene. Continua a ripensare, a rivivere la discussione a livello mentale fino a che
non trovi una soluzione positiva a questa, ovvero una in cui lui alla fine prevalga e gli venga data
ragione.
Lavoro a medio termine
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Prendere consapevolezza delle proprie emozioni e saperle diversificare tra loro era il lavoro a medio
termine prefissato con il paziente (Ellis, 1989).
Per far ciò si era pensato di utilizzare delle schede di autosservazione emozionale (Borgo, 2011),
introducendole nel corso di una seduta per proporle poi nelle sedute seguenti.
L’intenzione era di lavorare in primis su una situazione che avesse come componente principale la
rabbia per poter poi andare ad analizzare il comportamento, le sensazioni, il dialogo interno e le immagini
prima, durante e dopo la situazione.
Risultati ottenuti
Prima delle vacanze estive A. è riuscito a gestire meglio le discussioni con la moglie e ad acquisire
maggiore consapevolezza dei meccanismi che instauravano i suoi “accessi d’ira”.
I principali risultati ottenuti sono:
• Non si sono più manifestati attacchi di panico
• Le discussioni con la moglie sono diminuite sia di frequenza che di intensità
• Le relazioni del paziente hanno avuto un sensibile miglioramento qualitativo
Al rientro dalle ferie A. mi ha contattato telefonicamente dicendo di aver trovato un lavoro in una
cooperativa sociale. Mi ha anche ringraziato per il lavoro svolto, precisandomi di non poter più venire
per via degli orari.
Bibliografia
Anagnostopoulos K., Germano F., Tumiati M.C. (2008). L’approccio multiculturale. Interventi in
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della Enciclopedia Italiana Treccani.
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Trento: Erickson.
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164 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

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Morrone A. (2008). (a cura di). Oltre la tortura, percorsi di accoglienza con rifugiati e vittime di
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Scaraffia L. (2002). Rinnegati. Roma: La Terza.
Sironi F. (2001). Persecutori e vittime. Milano: Feltrinelli.
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 165

UNA VITA DI VIAGGI E DI DOLORE.
Di Francesco Battista, Psicologo – psicoterapeuta. Il caso del sig. F fa riferimento ad un periodo della sua collaborazione
con l’INMP, presso l’Antico Ospedale San Gallicano, mail: fbattistapsicologia@yahoo.it
Presentazione
Il caso clinico presentato riguarda il sig. F. proveniente dal Ghana ed è stato seguito presso l’Antico
Ospedale San Gallicano nei seguenti Servizi: Il Servizio Richiedenti Protezione Internazionale e
Vittime di Tortura ed Il Servizio di Psicologia Clinica ad orientamento Etnopsichiatrico (Morrone,
2008).
Il caso del sig. F. è esemplificativo del modus operandi offerto dal personale psicologico, antropologico
e di mediazione culturale dell’Istituto (Devereux, 1978).
Motivo della richiesta
F. è un signore di 36 anni proveniente dal Ghana, si presenta al nostro Servizio richiedendo aiuto
per la sua situazione di richiedente protezione internazionale e lamentando problemi di natura fisica
e psichica. Dopo una prima accoglienza effettuata da un mediatore culturale, mi viene assegnato il
caso. Lo seguirò parallelamente sia a livello della sua richiesta di protezione internazionale, sia a livello
psicoterapeutico.
Cenni anamnestici
F. proviene da un piccolo villaggio del Ghana sito a nord della capitale Accra e appartiene al gruppo
linguistico-etnico Twi, che rappresenta la maggioranza della popolazione del Ghana.
F., che ha oggi 37 anni, vive tutta la sua vita nel villaggio, dove dopo aver finito la scuola elementare,
comincerà a studiare presso le officine per diventare meccanico. Questo sarà il suo mestiere,
che intraprenderà con successo, e che lo porterà a lavorare come meccanico all’interno di navi mercantili
che lo porteranno in vari Paesi, anche molto lontano come il Giappone.
F. cresce con i propri genitori come figlio unico fino all’età di 22 anni, quando, a sorpresa, vista
l’età dei genitori (50 anni il padre e 38 la madre), avrà un fratello.
A 26 anni sposa E., di 15, dalla quale dopo un anno avrà una figlia.
Come da tradizione F. e la moglie andranno ad abitare in una parte della casa della famiglia, mentre
le altre parti dell'edificio erano già occupate da altri nuclei familiari (con legami di parentela di
primo o di secondo grado).
Una caratteristica che si rivelerà decisiva, in maniera traumatica, nel corso della sua vita, è
l'appartenenza del padre al movimento politico NPP. Il padre infatti è un membro importante del
NPP, partito che, nonostante sia di centro-destra, è considerato più progressista che il suo rivale
NDC, di centro-sinistra.
Nel corso del 2008, F. ed il padre sono attivamente coinvolti nelle attività di propaganda in vista
delle elezioni politiche di fine anno. All'inizio di dicembre, dopo la prima tornata elettorale, gli exit
poll danno in vantaggio l'NDC. Questo basta a scatenare la furia del nucleo locale dell'NDC sulla
famiglia di F.
Alcuni uomini fanno irruzione nella sua casa, lo prendono e lo portano fuori. Lo picchiano, cercano
di rompergli una gamba, lo trattengono per ore. Vogliono sapere dove sta il padre. Non sanno che
egli è già fuggito ma F. con uno stratagemma, riesce a fuggire e da allora comincia il suo percorso
migratorio che nel giro diversi mesi lo vedrà impegnato in una lotta per la sopravvivenza, che lo
porterà ad affrontare il deserto del Sahara a bordo di un pick-up con oltre 20 persone a bordo ed infine
il mar Mediterraneo a bordo di una piccola imbarcazione, con la consapevolezza che la morte si
poteva nascondere ovunque.
Giunto finalmente in Italia, arriverà finalmente al nostro Servizio, dove oltre a richiedere aiuto per
il suo percorso legale, chiede un aiuto più personale, più specifico.
166 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

L’approccio etnopsichiatrico e quello cognitivo – comportamentale
Nel lavoro col sig. F. mi sono basato sull’approccio etnopsichiatrico (Coppo, 1996) in quanto la
peculiarità dell’appartenenza alla popolazione ghanese, in particolare all’etnia Kibi, parlante lingua
Twi ha richiesto un approccio che non fosse culturalmente orientato secondo i paradigmi italiani e
più in generale del mondo occidentale (Inglese, 1994).
Per quanto riguarda l’approccio cognitivo – comportamentale, essendo l’approccio peculiare della
mia formazione all’interno del CRP, per questo caso specifico ho trovato utili in particolare la parte
umanistica svolta nel percorso quadriennale della scuola, ovvero la parte basata sulle tecniche prima
di Rogers e poi di Carkhuff (Carkhuff, 1987), la parte centrata sulle tecniche di rilassamento e la
tecnica cognitiva del “thought – stopping” (Beck, Emery, 1988).
Diagnosi
Durante la prima parte del percorso col sig. F. abbiamo prodotto un certificato comprensivo di una
valutazione su più livelli e che includeva la seguente diagnosi: Disturbo Depressivo Maggiore in comorbilità
con un Disturbo Post – Traumatico da Stress (APA, 2000).
Il progetto terapeutico
Da gennaio, data dell’inizio degli incontri, fino a novembre sono stati effettuati complessivamente
46 incontri.
I primi 12 sono stati divisi in 3 parti ed hanno avuto lo scopo di produrre una certificazione medica.
Una prima parte di assessment, durata 3 incontri (Sanavio, 1998), basata innanzitutto sull’ascolto
attivo ed empatico dove è stata lasciata a F. la possibilità di esprimersi; durante altri 3 appuntamenti,
il focus è stato posto sulla ricostruzione delle parti più traumatiche della sua storia (Anagnostopoulos,
Germano, Tumiati, 2008); negli ultimi 3 si è ricorso a strumenti psicodiagnostici quali lo
SCID-II (Structured Clinical Interview for DSM Disorders), ad oggi considerato uno dei pochi utilizzabili
transculturalmente, e alla revisione della sua storia per la redazione della certificazione.
A partire da aprile i colloqui con F. sono andati a centrarsi sulle seguenti tematiche:
• Pensieri intrusivi riguardanti le violenze subite (Devereux, 1984)
• Tecniche di rilassamento (Beck, Emery, 1988)
• Aumento delle capacità di problem solving (Ellis, 1993)
Lavoro sui pensieri intrusivi
Il ricordo delle violenze subite nel suo Paese (le torture per fargli rivelare il luogo dove si era nascosto
il padre), l’aver visto la propria casa data alle fiamme, la lontananza dalla moglie e dalla figlia
sono eventi traumatici che hanno avuto una forte ripercussione nella vita di F.
Riferisce di avere questi pensieri tutto il giorno e anche la notte: infatti soffre di insonnia e riesce
a dormire solo poche ore la notte (circa 4, 5 ore). Questo comporta due cose: la prima è che durante
il giorno è stanco, soffre spesso di mal di testa; la seconda è che perde spesso cognizione del tempo
e dello spazio (ad es. si dimentica di scendere alla sua fermata dell’autobus) e non riesce a concentrarsi
su quello che fa.
Le sue preoccupazioni, diventati pensieri intrusivi/ossessivi, sono stati affrontati con la tecnica
comportamentale del “thought stopping” (Beck, Emery, 1988) abbinata ad un rilassamento per gestire
il nucleo ansioso.
L’insegnare ad F. a rilassarsi aveva un duplice obiettivo: in primis quello di dargli uno strumento
per la gestione dell’ansia, poi quello di prepararlo al “thought stopping” per ridurre il danno causato
dai pensieri intrusivi.
In origine avevo pensato di insegnargli il metodo di Schultz del training autogeno ma, principalmente
a causa delle difficoltà linguistiche, ho preferito utilizzare una sua forma “ridotta” basata sul-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 167

la respirazione controllata.
L’esercizio è fondamentalmente così costituito:
• Chiudi gli occhi
• Fai un respiro profondo, contando mentalmente e lentamente fino a tre
• Spingi l'aria inspirata verso la pancia, e via via sempre più su fino a riempire completamente
i polmoni
• Trattieni il respiro per circa tre secondi
• Non avere fretta, prenditi il tuo tempo
• Espira lentamente contando fino a cinque
• Non forzare eccessivamente il respiro, ma mantienilo fluido e regolare
• Ripeti l'operazione
• Concentra l'attenzione su quel punto della pancia che si alza e seguilo su fino al torace
• Utilizza il naso per inspirare, la bocca per espirare
• Mentre espiri cerca di liberare la mente da problemi e preoccupazioni
• Fai scorrere via i pensieri insieme all'aria che esce dal tuo corpo
• Mantieniti calmo e rilassato
• Concentrati sulla respirazione e prova a ripetere l'esercizio per dieci minuti
• Se ti concentri sulle fasi della respirazione non verrai assalito da pensieri spiacevoli
E' stato ottenuto un risultato positivo con poche sedute ma solo dopo aver creato uno spazio di accoglienza
iniziale che rendesse F. maggiormente propenso all’esercizio.
Il lavoro con il “thought stopping” è stato molto più difficile: in certi momenti le reazioni emotive
del paziente erano talmente intense da richiedere l’interruzione dello stesso.
Ad oggi, grazie ai feedback di F., posso affermare che la parte relativa al rilassamento è finora la
più riuscita.
Aumento delle capacità di Problem Solving
Viste le difficoltà attuali del paziente, che si vanno a porre nell’ambito delle necessità immediate,
insieme abbiamo cercato di aumentare le sue capacità di risoluzione dei problemi (Ellis, 1993).
F. infatti mi esprime l’idea totalizzante e irrazionale che “non c’è soluzione ai suoi problemi e che
tutti i suoi problemi sono dovuti alla mancanza di permesso di soggiorno”.
La convinzione che la mancanza del permesso di soggiorno crei numerosi problemi è senz’altro
vera e pertanto razionale, ma che sia la causa di tutti i suoi problemi e che con un permesso di soggiorno
tutto si possa risolvere purtroppo è falsa, irrazionale.
Nonostante ciò, l’obiettivo di ottenere il permesso di soggiorno è fonte di speranza e gli dà molta
forza, quindi abbiamo scartato l'idea di affrontare questa convinzione irrazionale per andare ad attivare,
e far così affrontare al paziente quelle situazioni che credeva insuperabili e non affrontabili per
la mancanza del permesso di soggiorno.
Attraverso il metodo di soluzione strutturata dei problemi (Sanavio, 1998) e raggiungimento degli
obiettivi abbiamo affrontato, fra le altre, le seguenti tematiche:
• “Non posso aiutare la mia famiglia da qui”
• “Non ho un posto dove dormire”
• “Non ho di che mangiare”
• “Non posso lavorare”
Il paziente si è attivato su tutti e 4 i punti, riuscendo ad elaborare piani concreti ed ottenendo risultati
soddisfacenti a tutti i punti.
Risultati raggiunti
La terapia è durata circa un anno articolandosi in tre fasi:
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• È stato portato a termine il percorso psicodiagnostico ed è stato consegnato il certificato medico
al paziente
• F. ha imparato a utilizzare la tecnica di rilassamento sopra descritta con buoni risultati
• Un intervento di “thought stopping” ha permesso di controllare i pensieri intrusivi
• F. ha incrementato la sua capacità di fronteggiamento delle problematiche di vita (anzi di sopravvivenza!)
attraverso l’utilizzo del problem solving fino a risolvere alcune di esse
Gli obiettivi raggiunti hanno rinforzato la motivazione di F. e diminuito parte della sintomatologia
come il mal di testa e l’insonnia.
Follow up
Il paziente ha ottenuto lo status di Rifugiato e conseguentemente ha avuto un netto miglioramento
sotto il profilo psichico. Alla data attuale è tornato in Africa per ricongiungersi con la famiglia con il
progetto di poter tornare in Italia per avere un nuovo inizio insieme ai suoi cari.
Bibliografia
Anagnostopoulos K., Germano F., Tumiati M.C. (2008). L’approccio multiculturale. Interventi in
Psicoterapia, Couinseling e Coaching. Roma: Sovera.
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della Enciclopedia Italiana Treccani.
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Trento: Erickson.
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Faranda L. (2004). Non uno di meno. Roma: Armando editore.
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migrano. Roma: Sensibili alle foglie.
Morrone A. (2008). (a cura di). Oltre la tortura, percorsi di accoglienza con rifugiati e vittime di
tortura. Roma: Magi Edizioni.
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Scaraffia L. (2002). Rinnegati. Roma: La Terza.
Sironi F. (2001). Persecutori e vittime. Milano: Feltrinelli.
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L'ORA DELLA MORTE.
Di Elisa Scian, psicologa e psicoterapeuta, Azienda Ospedaliera “S. Maria degli Angeli” di Pordenone, Associazione
Via di Natale – Aviano, Progetto Prendersi Cura – Associazioni Oncologiche Pordenone, mail:
elisascian@virgilio.it
Il caso clinico riportato è relativo ad un percorso psicoterapeutico di un uomo di 69 anni affetto da
fibrosi polmonare in stadio avanzato che presenta difficoltà di adattamento nella fase terminale della
vita. Il lavoro clinico, in linea con il modello teorico cognitivo-comportamentale, si è sviluppato seguendo
scelte terapeutiche orientate ad accompagnare il paziente nel percorso di regolazione emotiva
e di mentalizzazione del processo di avvicinamento alla propria morte all’interno di una solida
relazione terapeutica intesa come spazio di coping emozionale. A questo lavoro fa riscontro un progressivo
miglioramento della qualità di vita del paziente e l’attivazione di strategie di coping attivo
che gli hanno permesso di gestire, negli ultimi mesi di vita, alcune questioni personali, anche di tipo
pratico, che lo preoccupavano.
L’articolo descrive la problematica presentata dal paziente, la fase di assessment, il processo terapeutico
delineando obiettivi, tecniche ed esiti, la relazione terapeutica.
Brevi cenni identificativi
Angelo è un uomo di 69 anni, sposato e padre di un figlio. Vive con la moglie in un piccolo paese
di montagna che conta circa 1000 abitanti e dista 50 km dalla provincia. Fa parte degli emigranti
che dopo la Seconda Guerra Mondiale si sono trasferiti nelle grandi città, nel suo caso Milano, alla
ricerca di lavoro (perito elettrico). Ha trascorso la sua vita a Milano prima con la sua famiglia d’origine
e poi con la moglie ed il figlio. È rientrato nel paese nativo nel 1994 in seguito al pensionamento
con l’obiettivo di trascorrere la vecchiaia in serenità dedicandosi alle sue passioni.
Motivo della richiesta
Il paziente viene inviato alla consulenza da un’infermiera del servizio domiciliare. L’infermiera
mi contatta segnalandomi il caso: Angelo è affetto da fibrosi polmonare ad uno stadio avanzato e
presenta, a suo dire, difficoltà di accettazione della condizione di malattia. Il quadro clinico è molto
compromesso e la prognosi è infausta: solo pochi mesi vita.
Il paziente al telefono accenna brevemente al suo problema di salute motivando la richiesta di
consulenza esprimendo la difficoltà ad accettare la sua condizione e l’impatto che la malattia ha
quotidianamente sulla sua vita compromettendo le sfere dell’autonomia personale, della vita familiare
e sociale. Al primo colloquio riferisce di aver deciso di rivolgersi ad uno psicologo a distanza
di quattro anni dalla diagnosi di fibrosi polmonare, perché crede che sia importante “un supporto
psicologico per prepararsi alla propria morte”.
Fibrosi Polmonare
La fibrosi polmonare è una malattia debilitante caratterizzata da progressiva involuzione o cicatrizzazione
dei polmoni che gradualmente compromette la capacità di respirare. Alla base vi è
un’alterazione patologica del processo di riparazione del polmone caratterizzata da una cicatrizzazione
eccessiva in risposta a diversi tipi di danno polmonare. In questo modo i polmoni progressivamente
sostituiscono il tessuto polmonare con tessuto fibrotico inerte e incapace di acquisire l’ossigeno
di cui ha necessità il nostro organismo. Si sviluppa così un'insufficienza respiratoria. Di solito
la manifestazione più importante è la dispnea, che all'inizio non è molto intensa, ma che nell'arco di
alcuni anni aumenta progressivamente e si presenta dopo sforzi sempre meno intensi. La fibrosi polmonare
viene trattata con la somministrazione di corticosteroidi (Grossi, 2006).
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 171

Diario degli incontri
Da maggio a novembre gli incontri si sono svolti con frequenza settimanale, con una pausa estiva
di 3 settimane, per un totale di 22 sedute della durata di circa 60 minuti ciascuna.
Presentazione del problema
L’esordio del problema risale a 4 anni prima quando in seguito ad un iter diagnostico molto lungo
e connotato da incertezza e disorientamento, il paziente ha ricevuto la diagnosi di fibrosi polmonare
ad uno stadio iniziale. Angelo riferisce di aver accolto la notizia “con filosofia”. “Finalmente avevo
scoperto di che si trattava”. Nel raccontare l’impatto con la diagnosi appare fatalista ed anaffettivo.
Solo in seguito riferirà l’ansia e la preoccupazione vissute nell’interminabile attesa del “verdetto”,
la rabbia verso i medici per i lunghi tempi diagnostici, il senso di colpa e la rabbia verso se stesso
per aver condotto una vita stressante, la preoccupazione per il suo futuro e per la moglie.
Da quel momento, la vita di Angelo è stata scandita dai tempi della malattia: le visite di controllo,
le terapie e gli accertamenti. Nel tempo ha diminuito progressivamente le sue attività lavorative e i
suoi interessi a causa delle difficoltà fisiche, ma anche per un disinvestimento motivazionale ed
emotivo. Ha ridotto in modo significativo anche le relazioni sociali per timore di incontrare persone
che avrebbero potuto “compatirlo”. Con il passare degli anni gradualmente le mura domestiche
sono divenute il suo unico ambiente di vita.
Nonostante le terapie abbiano comportato un rallentamento nella progressione della malattia, al
momento della consultazione il quadro clinico è compromesso: il paziente appare molto affaticato e
quotidianamente necessita di elevati dosaggi di ossigeno.
A livello cognitivo presenta una piena consapevolezza della propria condizione clinica. È informato,
conosce la malattia e le sue caratteristiche, l’evoluzione e la prognosi. Il confronto diretto con
l’équipe medica e la perfetta aderenza a tutte le prescrizioni terapeutiche e alle indicazioni sullo stile
di vita da condurre, hanno favorito la sua piena padronanza rispetto alla situazione. Gestire attivamente
ed in prima persona le situazioni problematiche fa parte del suo modo di affrontare le difficoltà,
anche in altri contesti della vita. Rifacendosi al modello di Lazarus e Folkman (1984) si può
affermare che il paziente presenti uno stile di coping centrato sul problema
Il suo eloquio è chiaro, fluente, ricco di immagini e metafore esplicative dei pensieri e delle emozioni
che cerca di trasmettere anche attraverso l’autoironia.
Nel suo stile cognitivo si rileva la tendenza ad un pensiero rigido e dicotomico, in particolare in riferimento
alle limitazioni che la malattia ha comportato alla sua vita: se le attività non possono essere
svolte come prima della malattia, vengono completamente abbandonate.
Un errore cognitivo che sta alla base di un ulteriore pensiero disfunzionale è l’ipergeneralizzazione
che si evince, ad esempio, dalla considerazione che Angelo ha dei suoi compaesani: “Sono tutti
pettegoli e bramosi di sapere se veramente sto per morire”. Nella sua vita ha conosciuto alcuni
compaesani che presentavano queste caratteristiche e le ha generalizzate a tutta la gente del paese.
Si rileva, inoltre, la presenza di un’idea irrazionale molto radicata: “Una persona ammalata non
può vivere momenti piacevoli”. Questa convinzione è alla base della significativa riduzione delle attività
e delle relazioni sociali del paziente, e del conseguente incremento dell’impatto negativo della
malattia sulla sua qualità di vita. Il bisogno di coerenza, che rappresenta un fattore di continuità rilevabile
in tutta la sua storia di vita, fa sì che in modo congruo con questa convinzione irrazionale Angelo
escluda dalla sua quotidianità qualsiasi attività piacevole, che non si addica alla sua condizione
di malato o che possa distogliere la sua attenzione dalla malattia.
Il paziente presenta un dialogo interno molto ricco ed un pensiero intrusivo e rimuginativo. Trascorre
gran parte del suo tempo a riflettere soprattutto su questioni legate alla malattia.
Per tutta la vita ha mantenuto un’immagine di uomo forte, sicuro e protettivo verso la famiglia:
questa immagine si scontra ora con la condizione fragilità fisica ed emotiva attuale.
Dal punto di vista emozionale, il paziente prova un profondo senso di angoscia di fronte all’imminente
conclusione della sua vita, ma fino al momento dell’inizio della terapia ha vissuto e affrontato
172 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

questo carico emotivo in solitudine. L’incertezza della situazione, la graduale progressione della
malattia, l’ineluttabilità della morte, l’ignoto del morire e del post-mortem attivano in lui un ventaglio
di emozioni spiacevoli: dolore, tristezza, rabbia, paura, preoccupazione, senso di colpa. Nel
momento in cui ha compreso che il contesto terapeutico ed il terapeuta stesso erano disponibili ad
accogliere le sue emozioni piene d’angoscia, Angelo le ha espresse, le ha “buttate fuori” con veemenza,
senza il timore di ferire, di essere giudicato o di essere incoerente con l’immagine di uomo
forte. Il paziente ha trovato così un suo spazio di coping emozionale.
Si rende necessario sottolineare il fatto che Angelo presenta una rilevante difficoltà nel riconoscimento
e nell’espressione verbale delle sue emozioni. Le comunica attraverso il corpo, le immagini e
i sogni. La sua competenza emozionale è di tipo neurovegetativo, comportamentale ed immaginativo.
In particolare, colgo l’emozione di rabbia dal tono di voce alto del paziente, dalla sua postura in
avanti, dalla tensione e dalla rigidità del suo corpo, dall’agitazione motoria. Colgo la tristezza dalla
staticità, dalla debolezza e dalla stanchezza del paziente che va oltre le difficoltà e limiti posti dalla
malattia. Si può rilevare un profondo senso di solitudine rispetto alla sfera emozionale, la tendenza
all’isolamento e ad un ritiro sociale quasi completo, un rilevante senso di impotenza. Il pianto è la
manifestazione più evidente della presenza di una profonda tristezza, ma anche di un intenso dolore,
legato alla malattia, al senso di perdita della vita in tutte le sue sfaccettature, alla morte imminente.
L’inaccettabilità e l’insopportabilità della situazione a livello umano connotano l’emozione pervasiva
di dolore che si manifesta anche attraverso l’agitazione, la tensione, l’incapacità a controllare i
propri movimenti.
Il paziente non trova all’interno dell’ambito familiare uno spazio di coping emozionale: la moglie
e gli altri familiari non sono pronti ad accettare che se ne stia andando e ad accogliere e contenere le
sue emozioni. Lo rassicurano e cercano di convincerlo che guarirà confinandolo così nella solitudine
delle sue emozioni spiacevoli e dilaganti.
A livello comportamentale, al momento della consultazione, Angelo si trova in una passiva attesa
del giungere della fine della sua vita. Trascorre la maggior parte del suo tempo seduto in poltrona a
riflettere sulla malattia o su altre problematiche familiari, non si dedica a nessun’altra attività ad
esclusione della lettura del giornale o di qualche documentario in televisione, mentre prima della
malattia era un uomo molto attivo, impegnato nell’ambito lavorativo, ma anche nello sport e nella
vita sociale. Le buone capacità comunicative e relazionali hanno permesso al paziente di mantenere
una fitta rete di relazioni fino a quando la malattia l’ha condotto ad un graduale ritiro sociale. Al
momento della consultazione le sue frequentazioni si limitano a sporadiche visite di pochi amici intimi,
del sindaco, del parroco e di qualche familiare.
Storia di vita
Angelo è nato in un piccolo paese di montagna nel 1941 e dopo pochi anni, in seguito alla Seconda
Guerra Mondiale, si è trasferito a Milano con la famiglia per motivi di lavoro del padre.
Quest’ultimo era operaio metalmeccanico. Lo definisce egoista, autoritario e poco attento ai bisogni
dei figli e della moglie. La madre era casalinga e si occupava con gran cura della casa e della
famiglia. Una donna dolce, buona d’animo, generosa, che sapeva ascoltare gli altri. Ultimo di otto
figli (4 fratelli e 3 sorelle) è cresciuto in una famiglia molto numerosa. Riferisce di aver trascorso
un’infanzia serena, nonostante lo stile educativo molto autoritario del padre. Durante la sua
preadolescenza il padre (70 anni) è morto a causa di un tumore intestinale ed Angelo si è trovato a
gestire da solo la malattia della madre (tumore al fegato), in quanto i fratelli e le sorelle vivevano
già fuori casa. Si è preso cura della madre fino all’età di 17 anni quando lei è mancata (60 anni).
Dall’infanzia all’adolescenza ha frequentato con regolarità le scuole fino ad ottenere il diploma di
maturità superiore presso un Istituto Tecnico Professionale per periti ad indirizzo elettrico. Ha mantenuto
il suo primo incarico lavorativo come elettricista in un’azienda di Milano fino alla pensione.
Amava il suo lavoro e si riconosceva una buona professionalità.
All’età di 19 anni ha conosciuto Teresa durante una vacanza estiva nel paese montano nativo e
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dopo cinque anni si sono sposati. Da quel momento ha sempre lavorato con ritmi molto intensi per
poter garantire una stabilità economica alla sua famiglia e per poter acquistare una casa.
Attualmente è sposato da 45 anni con Teresa, 68 anni, casalinga. La descrive come una donna
molto dolce, premurosa ed accudente, ma anche poco acculturata, troppo buona ed eccessivamente
disponibile soprattutto con il figlio. Angelo si definisce un marito presente ed un padre autorevole.
Il figlio Marco (39 anni) è sposato con Anna (35 anni) ed è padre di 2 figlie: Jessica (16 anni) e Stefania
(13 anni). Gestisce con la moglie una gelateria in Germania dove vivono dall’inizio della primavera
alla fine dell’estate. Durante il periodo invernale abitano in Italia vicino ad Angelo.
Quest’ultimo definisce suo figlio “immaturo, spendaccione e approfittatore” per questo una delle
preoccupazioni è che in seguito alla sua morte, il figlio possa “sfruttare economicamente” la madre.
Angelo in seguito al pensionamento nel 1994 è ritornato a vivere stabilmente nel paese nativo con la
moglie per trascorrere serenamente la sua vecchiaia. Stimato da tutti sia come uomo che come professionista,
ha continuato ad eseguire piccoli lavori come elettricista e a partecipare attivamente alla
vita sociale e culturale del paese.
Sintesi valutativa
Le variabili cognitive, emozionali, comportamentali e socio-relazionali rilevate nella fase di assessment
attraverso il colloquio clinico, l’osservazione, i test, l’analisi ABC convergono verso un
pattern coerente con il processo di adattamento alla fase di terminalità e quindi all’avvicinamento
alla fine della vita. Secondo il modello di Kubler-Ross esistono cinque fasi che delineano tale processo
e che si caratterizzano per le specifiche dinamiche reattive della persona a cui è stata diagnosticata
una malattia in fase terminale: rifiuto, rabbia, contrattazione-patteggiamento, depressione,
accettazione. Da sottolineare che si tratta di un modello a fasi, e non a stadi, per cui le fasi possono
anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso
ordine (Kubler – Ross, 1976). Esaminando la storia di Angelo ed il suo percorso di malattia si possono
individuare tutte le fasi del modello: l’incredulità iniziale e la ricerca di altri consulti medici
che potessero disconfermare la diagnosi; la rabbia verso i medici per i lunghi tempi diagnostici e
verso sé stesso per aver fumato e aver condotto una vita sregolata; la negoziazione nell’attenersi
scrupolosamente e ossessivamente alle prescrizioni farmacologiche e alle indicazioni sullo stile di
vita pur di vivere un giorno in più; la depressione nella costatazione del deterioramento progressivo
del corpo, nel ritiro sociale, nel disinvestimento emotivo e motivazionale da qualsiasi attività piacevole;
l’accettazione nell’individuazione di uno spazio di coping emozionale, nella sistemazione degli
aspetti burocratici finalizzati a tutelare la moglie, nella stesura del testamento.
Il paziente richiede la consulenza spinto dalla motivazione di “prepararsi alla propria morte”. La
necessità di intraprendere un percorso terapeutico nasce dall’impossibilità di esprimere e condividere
le sue emozioni, e i suoi pensieri relativi al fine vita con qualcuno che lo ascolti, contenga le sue
emozioni, senza cercare di rassicurarlo. Al signor Angelo manca nella rete familiare e sociale uno
spazio di coping emozionale indispensabile per favorire il processo di accettazione della condizione
di terminalità e dell’imminente fine vita (Kubler – Ross, 1976; 1991).
All’interno della sua famiglia, il paziente ha sempre ricoperto il ruolo di uomo forte, determinato
e abile nella gestione delle situazioni più complesse. Questa immagine non è compatibile con la situazione
di fragilità e vulnerabilità che si trova a dover sperimentare in seguito alla malattia. Un
profondo bisogno di coerenza fa sì che anche in questo momento di estrema difficoltà, lui per primo
non si conceda la possibilità di condividere con le persone care ciò che gli sta accadendo, per non
ferirli. Tale bisogno di coerenza si può cogliere anche nella tendenza a rimanere concentrato esclusivamente
sulle terapie e sulla malattia in quanto questo è congruo con la sua immagine di persona
malata. Dedicarsi ad attività piacevoli che potrebbero migliorare la sua qualità di vita viene visto
come un comportamento incoerente con la sua condizione.
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Trattamento psicoterapico
A conclusione della fase di assessment, il lavoro terapeutico è stato strutturato secondo obiettivi a
breve, medio e lungo termine individuati e condivisi con il paziente.
Per raggiungere gli obiettivi concordati, durante la terapia sono state utilizzate specifiche tecniche:
parafrasi, verbalizzazioni, contenimento e legittimazione delle emozioni, ristrutturazione cognitiva;
discussione delle convinzioni irrazionali, problem solving, rinforzo positivo e sociale, rilassamento
muscolare progressivo di Jacobson, esposizione graduale ai contesti relazionali.
Il principale obiettivo del lavoro terapeutico è stato offrire al paziente uno spazio di coping emozionale
all’interno del setting clinico, dove potersi esprimere liberamente senza il timore di essere
giudicato o rassicurato. L’intervento di contenimento emotivo, lo stare del terapeuta nel dolore del
paziente, ha permesso la costruzione di una forte alleanza terapeutica che ha favorito il percorso clinico
successivo. Lui stesso afferma: “Sono riuscito a dire che morirò, non ho dovuto rassicurare
nessuno, l’ho detto e basta”. Da quel momento Angelo si è sentito legittimato nelle sue emozioni ed
autorizzato ad esprimerle. Ha potuto così dar voce, forse per la prima volta, alla rabbia, alla tristezza,
al profondo dolore, all’angoscia, alla paura della morte e del morire. Il lavoro clinico sul versante
emotivo è stato dedicato esclusivamente a questa funzione di contenimento e legittimazione delle
emozioni. Nonostante le significative difficoltà nel riconoscimento delle proprie emozioni,
nell’espressione verbale e nell’analisi delle diverse situazioni emozionali si è deciso di non realizzare
un intervento di alfabetizzazione emotiva, in quanto renderlo consapevole delle proprie emozioni
in questa fase delicata della sua vita, avrebbe potuto essere controproducente.
In secondo luogo si è lavorato sulla promozione di una migliore qualità di vita del paziente e sul
mantenimento del livello di autonomia possibile. Una citazione tratta da “La morte amica” si è rivelata
particolarmente utile per favorire un cambiamento di prospettiva rispetto agli ultimi mesi della
sua vita: “Il tempo che ad ognuno di noi rimane da vivere ci appartiene. Nessuno può prevedere
con certezza quello che rimane il mistero più grande dell’essere umano: l’ora della morte” (De
Hennezel, 1998). La riflessione scaturita da questo pensiero ha permesso al paziente di comprendere
l’importanza di investire sulla qualità anche dell’ultima fase della sua vita, cercando di vivere
bene il tempo a disposizione, di godere al meglio di ogni attimo. Afferma: “Quando sono arrivato
da lei pensavo solo alla mia morte e a come avrei potuto renderla più accettabile per me e per
la mia famiglia, diciamo così pensavo alla qualità della mia morte, ma forse mi sono fregato da
solo, forse devo proprio pensare alla qualità della mia vita che resta…”. Nell’affrontare questo
tema, ho cercato di mantenere un clima caldo e accogliente che potesse facilitare l’espressione delle
emozioni e dei pensieri, ma allo stesso tempo trasmettergli un senso di “serenità possibile”.
Si è lavorato, inoltre, al fine di favorire la riscoperta della possibilità di vivere emozioni piacevoli
nonostante la malattia. La necessità di perseguire questo obiettivo è nata dalla presenza di un’idea
irrazionale molto radicata: “una persona ammalata non può trascorrere momenti di spensieratezza”.
La discussione della convinzione irrazionale ha permesso al paziente di realizzare una ristrutturazione
cognitiva che l’ha portato a riconoscere che una persona ammalata può concedersi momenti
di spensieratezza, pur nella consapevolezza della sua malattia e pur gestendo adeguatamente la situazione.
Si è passati quindi all’individuazione e all’analisi delle attività piacevoli che fossero ancora
compatibili con i limiti imposti dalla malattia: giocare a carte, incontrare gli amici e i conoscenti,
ascoltare musica, passeggiare. Tali attività sono state inserite nella vita di Angelo gradualmente
permettendogli di rivivere emozioni piacevoli, momenti di spensieratezza che l’hanno aiutato
a distogliere l’attenzione dalla malattia e dalle sensazioni corporee evitando il rischio di una loro
amplificazione. La qualità della vita di Angelo è aumentata gradualmente ed in modo costante durante
tutto l’iter terapeutico attraverso l’incremento delle attività a cui si è dedicato e al mantenimento
del livello di autonomia possibile, rafforzato anche dalle emozioni piacevoli riscoperte e dal
riscontro positivo da parte degli altri (rinforzo sociale).
Particolarmente significativa è risultata l’applicazione della tecnica del problem solving finalizzata
alla programmazione di una vacanza al mare molto desiderata dal paziente, ma anche temuta per i
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possibili rischi in caso di emergenza. La considerazione delle diverse alternative possibili, dei rispettivi
vantaggi e svantaggi e della situazione clinica del paziente ha permesso di individuare la soluzione
più opportuna: partire dopo aver organizzato la vacanza anche dal punto di vista sanitario e
quindi portando con sé i farmaci necessari, la documentazione clinica indispensabile in caso di
emergenza e raccogliendo tutte le informazioni e i contatti utili rispetto ai servizi sanitari presenti
nel luogo di villeggiatura. Questa pianificazione ha permesso ad Angelo di vivere serenamente la
sua vacanza insieme alla moglie, consapevole di avere a disposizione gli strumenti per gestire adeguatamente
un’eventuale emergenza. Il successo nell’organizzazione di questa vacanze è stato determinante
nel favorire un maggior senso di auto-efficacia personale contrastando il senso di impotenza
dilagante. Angelo è ritornato dalla vacanza più autonomo: organizzandosi con un carrellino
trasporta da solo la bombola dell’ossigeno che prima veniva portata dalla moglie. Inoltre dal punto
di vista relazionale, la vacanza si è rivelata un’ottima occasione per superare le sue resistenze nelle
relazioni interpersonali legate al timore del giudizio degli altri e per comprendere che gli anni passano
inesorabilmente per tutti, indipendentemente dalla presenza della sua patologia.
Nel corso della terapia il paziente è riuscito ad affrontare delle esperienze che gli hanno permesso
di migliorare la propria auto-efficacia personale e di riscoprire il senso della sua vita. In particolare
l’aver collaborato alla realizzazione di una mostra fotografica sugli usi e costumi del suo paese nativo
gli ha permesso di ripercorrere la propria storia. Nella fase terminale è fondamentale aiutare il
paziente a dare un senso al suo percorso di vita: avere la consapevolezza che la propria vita ha avuto
un’importanza, rende meno duro il processo di avvicinamento alla morte. In occasione dell’inaugurazione
della mostra fotografica in paese, Angelo si è reso conto che molte persone si sono avvicinate
a lui con sincero interesse. Questa esperienza ha favorito una ristrutturazione cognitiva di un
pensiero assolutistico: i compaesani sono tutti pettegoli e malevoli.
Durante la terapia, si è ricorsi all’utilizzo della tecnica di rilassamento muscolare progressivo di
Jacobson che ha favorito il miglioramento della qualità del sonno del paziente riducendo i risvegli e
l’agitazione notturna. Questa tecnica è stata preferita per la sua ampia applicabilità, per la rapidità e
facilità di apprendimento da parte dei pazienti e per l’assenza di controindicazioni.
Nonostante il miglioramento della qualità di vita e la maggior attenzione verso la ricerca di momenti
piacevoli e di spensieratezza, Angelo quando si sente debole e stanco, si fa prendere dallo
sconforto. Afferma: “È come se ci fossero due porte, alcuni giorni mi faccio forza e apro la porta
della serenità, altri giorni non ci riesco e apro la porta della malinconia e della preoccupazione”. Il
paziente utilizza una metafora che esprime in modo chiaro l’andamento del suo stato emotivo. Vista
la situazione, non ci si può aspettare che non ci siano dei momenti di tristezza o preoccupazione, ma
è positivo che sia riuscito ad “aprire almeno ogni tanto la porta della serenità”.
Un punto di svolta determinate rispetto al processo di adattamento al fine vita è stata una grave
crisi respiratoria a causa della quale Angelo ha rischiato di morire. Il paziente ha riferito che il suo
primo pensiero è stato: “Sarebbe stato meglio se mia moglie fosse arrivata in ritardo, a quest’ora
sarebbe tutto finito”. Un pensiero che è durato un istante, ma che esprime la tristezza e la difficoltà
nell’affrontare la situazione. Riferisce che in quel momento ha ricordato le riflessioni sul tema della
qualità di vita e ha pensato: “Finché posso, voglio restare qui e godermi il tempo che mi resta,
quando mi addormenterò poi si vedrà!”. Non è un caso che il paziente abbia utilizzato il termine
“addormenterò”. Paradossalmente questo evento critico ha dato ad Angelo un contenuto positivo e
rassicurante: si è reso conto che se ne stava andando nel sonno, senza soffrire. A partire da quel momento,
l’attenzione e le energie di Angelo sono state rivolte ad individuare delle soluzioni che, dopo
la sua morte, avessero potuto tutelare la moglie dal punto di vista economico. Il paziente è riuscito
ad avvalersi di strategie di coping attivo che gli hanno permesso di gestire la situazione sistemando
le questioni che lo preoccupavano. In questa fase molto delicata, ha coinvolto anche il figlio per
spiegargli le sue motivazioni e per evitare che rimanessero risentimenti dopo la sua morte. Mentre
me ne parla gli scendono le lacrime, ma questa volta non dice nulla al proposito, questa volta non si
scusa, Angelo ha legittimato le sue emozioni, si è riconosciuto il diritto di esprimerle liberamente.
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Per la prima volta, anche la sua famiglia non l’ha lasciato emotivamente solo, ma ha accolto il suo
dolore e i suoi pensieri di morte senza interromperlo né rassicurarlo. Si è sentito capito veramente:
la sua famiglia gli ha offerto una spazio di coping emozionale. Dopo tre settimane Angelo se n’è andato
nel sonno, consapevole di aver vissuto pienamente e di aver lasciato tutto sistemato.
A conclusione del trattamento terapeutico è possibile rilevare come Angelo abbia raggiunto tutti
gli obiettivi a breve, medio e lungo termine definiti nel contratto terapeutico. Si può affermare che
la terapia ha avuto un buon esito, in quanto ha permesso al paziente di vivere pienamente i suoi ultimi
mesi di vita, riducendo l’angoscia di morte e contrastando la passività e il senso di impotenza.
Credo che il fattore di successo di questo intervento terapeutico risieda nelle tecniche utilizzate,
ma anche nella forte alleanza terapeutica che ha permesso al paziente di trovare uno spazio autentico
di coping emozionale.
Relazione terapeutica
Il signor Angelo è stato il primo malato terminale che ho seguito in terapia. Un’esperienza molto
significativa e impegnativa soprattutto sul piano emotivo, ma anche etico e professionale. Ho avvertito
una forte responsabilità. Quell’uomo stava affidando a me il suo dolore ed io ero sola di fronte a
lui ad accoglierlo. Mi sono chiesta: “Sarò in grado di accompagnarlo in una fase così delicata della
sua vita? E se dovesse morire pieno di angoscia perché io non sono riuscita ad aiutarlo?” . Queste
domande mi sono passate per la mente nei primi momenti in cui ho conosciuto il paziente. La
consapevolezza di avere acquisito delle conoscenze e delle competenze in ambito psicoterapeutico e
la supervisione del mio lavoro mi hanno aiutato a gestire la preoccupazione.
All’inizio del percorso, ho spiegato al paziente la mia condizione di specializzanda e ho chiesto
l’autorizzazione alla supervisione della sua situazione. Il timore era che Angelo perdesse fiducia nei
miei confronti a causa della mia giovane età rispetto a lui, degli studi non ancora conclusi e della
necessità di una supervisione. In realtà il suo atteggiamento è stato molto rassicurante: “Credo nei
giovani e nelle loro capacità, per me va bene se il suo lavoro sarà supervisionato da una docente,
significa che sono più fortunato perché mi seguiranno in due al prezzo di uno”.
Fin dal principio ho cercato di costruire una relazione terapeutica basata sul rispetto reciproco e su
un rapporto che permettesse al paziente di sentirsi protagonista attivo del processo terapeutico e non
passivo destinatario. A questo proposito il ricorso alla metafora dello scienziato (Kelly, 1955) è stato
molto funzionale, in quanto ha permesso di chiarire che io sarei stata l’esperta delle tecniche, lui
l’esperto dei contenuti ed insieme avremmo cercato di raggiungere gli obiettivi individuati.
Un passaggio molto importante nella costruzione dell’alleanza terapeutica è avvenuto nei primi
colloqui. Ho colto che il paziente stava verificando fino a che punto avrebbe potuto esprimere veramente
la sua angoscia senza turbarmi o senza essere interrotto. Nel momento in cui ha capito che il
terapeuta era disponibile ad accogliere la sua sofferenza, Angelo si è liberato come un fiume in piena
sfociando in un pianto interminabile che mi ha fatto sentire impotente di fronte ad una persona
lacerata dalla sofferenza. La mia presenza, il silenzio, il riuscire a stare nella situazione ha però permesso
ad Angelo di trovare uno spazio di coping emozionale autentico. Da quel momento in poi, la
relazione terapeutica è stata caratterizzata da una profonda empatia, da un’attiva collaborazione nel
percorso terapeutico che si è concretizzata nella puntualità, nella perfetta adesione alle prescrizioni,
nell’impegno costante e nella profonda motivazione al cambiamento.
Quando la moglie di Angelo mi ha comunicato il suo decesso, ho provato un profondo dolore. Mi
sono sentita sciocca, in fondo Angelo non era un familiare o un amico, era “solo un paziente”, ma
ho compreso che il rapporto empatico con il paziente è anche un rapporto affettivo, ed è quindi
umano e comprensibile che la morte di un paziente generi dolore nel terapeuta.
Oggi ricordo Angelo con stima e con il sorriso, e lo ringrazio per avermi dato la possibilità di mettermi
alla prova come professionista vicino ad una sofferenza così profonda.
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Bibliografia
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TUTTE A ME, È NORMALE, NO?
Di Martina Fornari, Psicologa-specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale. Studio Psicologia
Clinica, Via Trieste 27/h San Cesareo 00030 Roma. Tel: 3398707009 – 06.9587421. Psicologa operatrice presso
il Centro Diurno di Cave Asl Rm-G. Psicologa referente "sportello d'ascolto" presso il liceo Cartesio di Olevano
Romano (Rm), mail: martinafornari@hotmail.it
La psiconcologia, negli ultimi venti anni, ha acquisito anche in Italia una precisa identità culturale,
scientifica e metodologica definendo più puntualmente gli obiettivi di intervento, le metodiche
utilizzate e i modelli organizzativi dei servizi. Essa si pone come interfaccia tra le discipline oncologiche
e quelle psicologiche-psichiatriche, i suoi obiettivi di ricerca e di applicazione clinica riguardano
quattro principali settori (Grassi et al., 1999):
• La prevenzione e la diagnosi precoce
• La valutazione della morbilità psicosociale in oncologia e la sua prevenzione
• Gli interventi psiconcologici
• La formazione
Secondo le linee guida della SIPO (Società Italiana di Psiconcologia) le aree di intervento della
psiconcologia, rivolti al paziente e ai suoi familiari sono:
• La valutazione delle reazioni psicopatologiche (area psicopatologica)
• I colloqui di supporto psicologico e di psicoterapia
• La conduzione di gruppi di auto aiuto
• Il trattamento psicofarmacologico
Una delle premesse da cui muove la psiconcologia è quella secondo cui il disagio psicologico che
la persona manifesta nel corso di una malattia oncologica non sia connesso ad una vulnerabilità o ad
una predisposizione psicopatologica della persona stessa, quanto piuttosto alla condizione di crisi
che la malattia come evento stressante, generalmente imprevisto, porta con sé. Un discorso analogo
può essere fatto per i coniugi-parenti che compongono la rete prossima, infatti le loro eventuali problematiche
psico-emotive e relazionali possono essere visti come fenomeni affettivi e comportamentali
circolarmente collegati all’insieme dei cambiamenti che la diagnosi di malattia oncologica
introduce nel sistema familiare. Di qui il costante riferimento al concetto di “crisi” nel quale si distinguono
tre momenti: l’esplicitazione del problema, la mobilitazione della rete sociale, lo sviluppo
di un nuovo equilibrio: “strategie di adattamento” o “coping”.
Il caso di Maria
Maria ha 59 anni. Sua madre muore quando lei ha undici anni circa, per un sospetto tumore allo
stomaco. Il padre dopo il decesso della moglie si risposa con una donna, “la sua amante”, andando
via di casa e lasciando in difficoltà economiche Maria, le sue due sorelle e il fratello maggiore.
Questo, di nove anni più grande della paziente, le fa da padre, mentre la sorella maggiore da madre.
La seconda invece non ha buoni rapporti con loro, a diciotto anni si sposa. I legami che la paziente
instaura con il fratello e la sorella maggiore sono fortissimi. Sin da piccola si occupa delle faccende
domestiche ed esegue piccoli lavori come sarta, poi più grande fa la commessa in un negozio al centro
di Roma. A otto anni le asportano le tonsille: ricorda una sensazione di soffocamento.
A diciotto anni subisce un’appendicectomia, in questo periodo conosce l’attuale marito: anche a
lui è morta la madre, nello stesso giorno in cui è morta la madre della paziente. Questa coincidenza
la colpisce, comincia la frequentazione e dopo due anni si sposano. Il marito lavora come vigilante,
è premuroso, affettuoso. Tutt’ora la paziente si definisce innamorata del marito. Hanno tre figli.
Oggi, tranne la primogenita che vive con loro ed è disoccupata, gli altri due lavorano e hanno una
loro famiglia (la paziente ha quattro nipoti). A 28 anni circa subisce un’isterectomia per un tumore
all’utero.
In questo periodo cominciano le difficoltà economiche in quanto il marito è costretto ad abbando-
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nare il lavoro perché cardiopatico. Nei successivi anni, dal 2001 ad oggi, la paziente subisce cinque
interventi al seno con conseguente mastectomia e attualmente presenta sospetti noduli polmonari e
una condizione fisica generale compromessa dalle conseguenze, anche farmacologiche, della patologia
tumorale. Da più di dieci anni si è trasferita a Palestrina, dopo aver venduto la sua casa di
Roma per difficoltà economiche. Il cambiamento di ambiente ha accentuato la sua condizione depressiva.
Ancora oggi non si sente integrata, si scontra con una mentalità diversa dalla sua, definita
da lei “chiusa, paesana”. Ha numerosi controlli per la sua salute fisica, è stanca di tutto ciò, stanca
di dover affrontare sempre la medesima situazione.
Richiede perciò un supporto psicologico, oltre che farmacologico in un momento della sua vita in
cui vorrebbe addirittura che le sue condizioni fisiche peggiorassero perché “stanca di vivere”. Si definisce
depressa. Assume Cipralex, Remeron, Xanax.
Valutazione psicologica
Motivata a intraprendere un percorso terapeutico, accede a colloqui con cadenza quindicinale.
Analisi funzionale
Deambula con difficoltà ed è come piegata in avanti a scopo antalgico. La mimica è ipomobile,
l’eloquio è spontaneo e congruo. Non presenta disturbi del contenuto del pensiero che però appare
rallentato, come affaticato. Mostra umore depresso, emotività appiattita. La paziente riferisce persistenti
preoccupazioni per lo stato di salute, riferisce insonnia, scarso appetito, apatia. Presenta due
sogni ricorrenti: in uno si trova in una stanza buia, chiusa e prova una sensazione di soffocamento e
l'altro cade in un buco nero, nel vuoto.
Valutazione cognitivo – comportamentale
Maria riferisce distorsioni cognitive, quali “tutta la mia vita è nera”, “non ce la faccio, nessuno
mi può capire” tanto che in alcuni momenti pensa che “sarebbe meglio che la mia salute si aggravasse
per trovare finalmente pace e riabbracciare mia madre e mia sorella”. Seguendo Beck (Beck,
1987) tali processi di pensiero distorti, come quelli catastrofizzanti e di astrazione selettiva, rendono
l’individuo incline a sviluppare una visione negativa di sé, dell’ambiente, del futuro (triade
cognitiva di Beck). Gli eventi di vita stressanti (la malattia) e le perdite potrebbero aver attivato
schemi disfunzionali acquisiti nel percorso evolutivo. E tuttavia una caratteristica fondamentale di
questa paziente sembra essere la sua straordinaria resilienza, che le ha permesso e le permette di
fronteggiare le tante difficoltà della vita, incluse le gravi patologie personali e familiari: di fronte
agli eventi traumatici rivela una notevole capacità di riorganizzare efficacemente la propria esistenza,
trovando chiavi di lettura nuove.
Contratto terapeutico
Pianificazione dell’intervento
Si stabiliscono incontri quindicinali di supporto psicologico con la possibilità di interventi domiciliari
qualora la paziente fosse impossibilitata fisicamente a raggiungermi. L’intervento è suddiviso
in due fasi della durata di un anno ciascuno. La seconda fase ha inizio quando al fratello maggiore
della paziente viene diagnosticato un tumore al fegato in stadio avanzato.
Finalità e obiettivi del trattamento della prima fase
Finalità
Migliorare la qualità della vita.
Obiettivi di primo livello (sostegno psicologico):
• Diminuire l’umore depresso
• Contenere l’ansia e le emozioni che scaturiscono dalla situazione oncologica
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• Migliorare la verbalizzazione emotiva
• Potenziare le strategie cognitive
• Rafforzare la comunicazione assertiva
• Visualizzare e incrementare i fattori protettivi
• Affrontare gli eventi di crisi
Obiettivi di secondo livello (sostegno integrato unisce gli obiettivi dell’intervento precedente la
possibilità di limitare gli effetti collaterali della malattia oncologica):
• Diminuire l’insonnia
• Migliorare la gestione del dolore
• Accrescere la capacità di chiedere aiuto alle persone per lei significative
• Migliorare la capacità di affrontare l’incertezza sul futuro
• Potenziare la capacità di gestire le problematiche esistenziali generalmente associate alla patologia
tumorale
• Individuare e modificare pensieri, emozioni, emozioni e comportamenti disadattavi
Diario delle sedute
Nelle prime sedute è valutata l’effettiva gravità del disagio psicologico ed individuati i fattori di
rischio e di protezione secondo i parametri menzionati nell’introduzione (Biondi, Costantini, Grassi,
1995).
Le sedute si focalizzano sulla rilevazione dei sintomi, sull’osservazione della comunicazione non
verbale, sulla definizione del problema da parte del paziente, sulla sua storia di vita, sulla identificazione
dei fattori di protezione e di rischio al fine di formulare un’ipotesi diagnostica.
Sintomi
Emozioni: tristezza, rabbia, frustrazione, dolore, paura, anedonia.
Dialogo interno (frammenti): “se ci fosse stata mia madre le cose non sarebbero andate così”; “a
volte penso che la cosa migliore sarebbe se la mia condizione fisica peggiorasse”; “non sono compresa,
non voglio pietà”.
Immagine: un buco nero nel quale cade.
Sogni: è in una stanza chiusa e si sente soffocare.
Comportamenti: non va al cimitero, usa il tempo presente quando parla della sorella deceduta, resta
al buio, evita contatti sociali, preferisce restare sola, crede che gli altri provino pietà per la sua
condizione fisica e che nessuno la possa capire. Dimentica spesso le cose da fare, presenta insonnia
e scarso appetito.
Comunicazione non verbale: deambula con difficoltà, piegata in avanti, trascurata nell’aspetto fisico.
Fattori di rischio:
• La condizione fisica: noduli polmonari, restringimento del campo visivo, artrite
• La condizione economica: percepisce un assegno familiare di 250 euro
• La figlia maggiore vive con loro, è disoccupata e single
• Il diabete e la depressione del marito
• La rete sociale scarsa
Fattori di protezione:
• L’amore per i nipoti, i figli e il marito
• La resilienza ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di
riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà
• Il giardinaggio e il tenere in ordine la casa
• La fede religiosa
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Riferisco alla paziente la mia valutazione ed espongo il progetto terapeutico, ovvero colloqui
quindicinali di sostegno psicologico, con possibilità di visite domiciliari quando fosse impossibilitata
a raggiungere la struttura per motivi di salute. Aggiungo, inoltre, che la supporterò nell’affrontare
le difficoltà attuali, con gli obiettivi di migliorare il suo umore, di attenuare l’ insonnia, l’ipofagia,
di potenziare la sua memoria a breve termine, ovvero di migliorare la qualità della sua vita (Crocetti,
1992).
La paziente sembra essere motivata ad intraprendere questo percorso terapeutico, mostrando fin
dalle prime sedute un’estrema collaborazione. Si evidenzia una forte alleanza terapeutica: Maria accetta
con convinzione il contratto terapeutico.
In questa fase l’intervento si focalizza sulla verbalizzazione delle emozioni, attraverso la tecnica
dell’album fotografico. Le foto, inoltre, permettono di visualizzare e approfondire la struttura e la
qualità dei legami familiari, rafforzando i suoi fattori protettivi. Vengono utilizzate alcune schede
ABC, per facilitare l’espressione emotiva.
Maria lamenta un abbassamento del tono dell’umore, derivato, secondo la paziente, non da riflessioni
sul suo passato, bensì sull’incertezza del futuro. In questo periodo Maria ha fatto molti accertamenti
e alcuni, come i marcatori tumorali, hanno dato esito positivo. Tramite gli esercizi a casa
diamo risalto agli eventi positivi della sua vita, incentivando anche i suoi fattori protettivi, distogliendo
quindi l’attenzione agli eventi negativi (Simonton, 1978).
Dopo quasi un anno di terapia, con evidenti miglioramenti, la paziente mi comunica della malattia
neoplastica del fratello “sono nata per soffrire, per vedere i miei cari morire”. Mostra grande dignità
e buone capacità di gestione emotiva. In questo frangente evidenzia una tenuta e una reattività
utile anche alla gestione della sua sofferenza somatica.
Inizia la seconda fase dell’intervento dove la finalità è supportare e accompagnare la paziente nel
percorso di accettazione della malattia terminale del fratello. Gli obiettivi concordati tramite incontri
settimanali sono: accrescere la competenza emotiva, potenziare le strategie di adattamento emotivo,
elaborare l’idea della morte (Bressi, 1994). Muore il fratello. Maria non riesce ad andare al cimitero,
durante il funerale ha un mancamento. Quando descrive il momento della morte del fratello
ha una mimica facciale rigida, non piange. Racconta che si trovava accanto a lui, ha sentito un forte
sospiro e la sua mano fredda, ma solo quando la cognata ha strillato si è resa conto dell’evento.
Continuo nell’ascolto attivo. Traccio un’analisi funzionale del dolore: la sua qualità, intensità,
frequenza, i disturbi consecutivi. Maria presenta, infatti, alterazioni di alcune capacità cognitive,
nella memoria a breve termine e nella percezione. Non ricorda le cose che dovrebbe compiere
durante la giornata, perciò le suggerisco di scriverle. Si sente disorientata, ha difficoltà nel mettere a
fuoco i visi delle persone mentre cammina.
Le ricordo di non disdire i suoi controlli medici, in quanto mostra un completo disinteresse per la
sua condizione fisiche, oltre a presentare anedonia, visione negativa del futuro, rallentamento psicomotorio.
Inoltre è preoccupata per lo stato di disoccupazione della figlia primogenita, ciò andrà a
pesare sulla situazione economica non facile. Dopo vari incontri di supporto la paziente mostra nuovamente
la sua resilienza, il suo spirito anche quando al marito viene diagnosticato un tumore alla
prostata e alla sorella un probabile nodulo epatico. Colpita da questa sequela di disgrazie mi lascio
sfuggire un commento “ogni volta una nuova!”, ma Maria con autoironia replica: “Tutte a me, è
normale, no?”. E sorride. Mostra stanchezza nel doversi confrontare con la patologia neoplasica,
ma nonostante ciò è combattiva e sembra voler far coraggio anche a me.
Risultati della terapia
Dopo quasi due anni dall’inizio dei nostri incontri il percorso terapeutico è concluso. Gli obiettivi
della seconda fase sono stati raggiunti. Viene concordato un contatto telefonico a due mesi, confermando
la mia disponibilità qualora Maria ne ritesse opportuno, se le sue condizioni fisiche o quelle
dei suoi familiari dovessero aggravarsi.
Dopo due mesi Maria, come da accordi presi, mi contatta telefonicamente, riferendo una condizio-
182 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

ne fisica stabile e un miglioramento del tono dell’umore. È consapevole di dover continuare a combattere
contro la patologia tumorale per lei e per la sua famiglia.
Commento personale
Qualunque sia la diagnosi, la prognosi, la risposta alle terapie, non esistono tumori di scarsa rilevanza.
Il cancro infatti è per il paziente e per la sua famiglia, ma anche per i terapeuti, una prova
esistenziale sconvolgente (Santinello, 1990).
Il percorso terapeutico con la signora Maria ha assunto un significato particolare per me. A volte
mi sono trovata da sola ad affrontare l’ansia che deriva dal confronto con la morte e la sofferenza, in
un continuo conflitto tra la nostra illusione di immortalità e l’evidenza della finitudine, tra il bisogno
di ottemperare alla mia professione e il doverne accettare i limiti, al confine di un coinvolgimento
personale considerato eccessivo e pericoloso per l’equilibrio della relazione terapeutica. Maria
mi ha insegnato a non oltrepassare quel limite, a combattere il dolore, a promuovere la dignità.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 183

UN FANTASMA CHE RITORNA. TRATTAMENTO COGNITIVO-
COMPORTAMENTALE DOMICILIARE DI UN DISTURBO DEPRESSIVO
NELL’ANZIANO.
Di Francesca Di Lauro, Psicologa-Psicoterapeuta, Esperta in Neuropsicologia. Membro della sezione clinica
del CRP e del Comitato Redazionale di Psychomed. Docente-Formatrice della NTS. Collaboratrice nel progetto
di ricerca sulla FASD presso il C.R.A.R.L. del Policlinico Umberto I. Psicologa della Cooperativa ITINERA e
Consorzio Tiresia. Socia e Segretario di Libra Associazione Scientifica, mail: fradilauro@hotmail.com
Introduzione
Il presente lavoro è un estratto dettagliato di un intervento di psicoterapia cognitivo comportamentale
domiciliare di un paziente anziano (Anderson, 2001; Bruce et al., 2002) con depressione
involutiva, in presenza di disturbi medici ed esiti neurologici. L’ intervento, della durata di sei mesi,
ha avuto nel corso delle sedute dei risvolti molto interessanti. Si è passati dall’affrontare il lutto della
moglie suicida al complicato stile comunicativo con la figlia. Da un tipo di trattamento volto al
sostegno ad un intervento preventivo nell’anziano fino ad una terapia di tipo familiare.
Brevi cenni identificativi
Il paziente è un uomo di 81 anni, di origini siciliane ma residente in un'altra regione del sud dal
’65. Vedovo dall’88, vive con sua figlia nata nel ’67. Medico chirurgo e pediatra in pensione, ricopriva
il ruolo di direttore di un brefotrofio nella città in cui vive.
Motivo della richiesta
Il primo contatto è avvenuto telefonicamente da parte della figlia, in presenza del padre. Questa
mi ha riferito di essere preoccupata per il padre perché lo vede molto giù di morale e poiché è molto
impegnata vorrebbe che me ne occupassi io, si giustifica dicendo: “non posso far tutto!”. Chiedo di
parlare con il paziente che mi conferma di sentirsi giù di umore e di avere il bisogno di comunicare
con me.
Sindrome osservata
SEGNI OSSERVATI
Il paziente si presenta di aspetto leggermente trasandato ed una cura di sé all’apparenza insufficiente.
L’espressione è partecipe ma un po’ sospettosa; l’atteggiamento è lievemente passivo, un po’
rigido ma collaborante; l’eloquio è appropriato ed adeguatamente espressivo ma con poca iniziativa.
La mimica evidenzia segni di rigidità come se volesse trattenersi nel dire e fare qualcosa. La coscienza
appare lucida e ben orientata nel tempo e nello spazio, non si evidenziano disturbi sensoriali,
fatta eccezione per una ipoacusia compensata con l’utilizzo di apposito apparecchio acustico. Le
capacità attentive appaiono lievemente ridotte, mentre le capacità di apprendimento e memoria risultano
pressoché nella norma per età e scolarità. La comprensione si mostra sufficientemente pronta;
il flusso ideativo appare normale e coerente così come i nessi associativi ma è a tratti a contenuto
depressivo. Il paziente mostra un’ottima capacità di critica rispetto alle proprie idee con un’adeguata
capacità di giudizio di realtà. L’emotività sembra adeguata ma labile, l’umore appare lievemente
disforico. Il comportamento è adeguato, collaborante e socievole. Sembra esserci buona capacità di
introspezione ed insight. Non ha vita sociale fatta eccezione per le relazioni con le badanti e con la
figlia. A tal riguardo sembra sia presente una forma di evitamento delle relazioni sociali al di fuori
della casa.
PROBLEMI LAMENTATI
Difficoltà a seguire un discorso se gli si parla veloce; facile distraibilità; disturbi del sonno; sensa-
184 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

zione di affaticamento al risveglio; tendenza all’isolamento e all’abulia; umore depresso; prevalenza
di pensieri e ricordi negativi; sensi di colpa; tristezza e perdita di vitalità; scarso appetito; assenza di
interesse per la vita sociale.
Analisi cognitivo – comportamentale
TRASVERSALE:
Contesto familiare: il paziente vive con la figlia e due badanti che si alternano tra mattina e pomeriggio
ad eccezione della domenica. Con la figlia sembra ci sia un attaccamento di tipo ansioso
ambivalente, nel senso che si alternano i ruoli di padre/figlia – marito/moglie – mamma/bambino.
Con la badante della mattina, vi è un rapporto di fiducia e complicità, lei è più permissiva ed affettuosa,
mentre con l’altra, amica della figlia, c’è un rapporto di subordinazione da parte del paziente.
Questa seconda donna, è più controllante, giudicante e con un atteggiamento molto simile a quello
messo in atto dalla figlia: gli impone ciò che deve e ciò che non può fare.
Contesto socio/lavorativo: in questo momento è in pensione. Rispetto alle amicizie, ha ristretto
molto la cerchia di amici. Ha quasi esclusivamente contatti con un prete che è diventato come uno
di famiglia, molto amico della figlia e con il quale trascorrono le feste comandate. Ha instaurato un
rapporto molto superficiale con un altro signore di cui si serve per fare lavori al computer.
LONGITUDINALE:
Famiglia di origine: il padre era un uomo che lui ha sempre ammirato ed a cui è stato molto legato.
Direttore dell’Istituto Agrario nella città in cui vivevano, era un uomo molto importante, carismatico
ed ha sempre ottenuto riconoscimenti sociali. Tutt’ora, il paziente sente molto la sua mancanza.
Abitavano nella tenuta dell’Istituto con un immenso giardino e quello è stato per lui il periodo
più bello della sua vita. La madre era colei che gestiva la casa. Era l’esempio di come deve essere
una moglie, una mamma ed una donna di casa. Anche a lei è sempre stato molto legato così come
alla sorella maggiore, con la quale ha sempre avuto un buon rapporto. Le maggiori difficoltà le ha
riscontrate con il fratello maggiore del quale non ha una buona considerazione. Dice di non averlo
mai considerato come un fratello e che ritiene responsabile del suo senso di inferiorità ed assenza di
carisma.
Famiglia acquisita: è stato sposato per 23 anni ma parla in positivo solo dei primi sette mesi di
matrimonio. Il declino inizia subito dopo il parto. La moglie era una donna molto fragile che si suppone,
non abbia saputo affrontare lo scompenso ormonale del post partum. Ha poi subito un’ operazione
all’utero che le procurava forti dolori e da lì ha cominciato una dipendenza da farmaci, in particolare
antidolorifici in supposte. Lui la descrive come una donna che non si occupava della casa,
non faceva la moglie e soprattutto non le importava di fare la madre. I genitori di lei, persone molto
ben in vista, non hanno mai voluto contribuire alla gestione della situazione. Il paziente ha il sospetto
che questa donna soffrisse già da ragazza di un qualche disturbo psichico, accentuatosi dopo la
gravidanza. Lui ha dovuto fare da padre e da madre, ha dovuto soccorre la moglie tutte le volte che
lei si imbottiva in modo eccessivo di farmaci e veniva ricoverata d’urgenza in clinica. Ha dovuto
sopportare “le paranoie e le sfuriate” che lei gli faceva per telefono mentre era a lavoro, fino al suo
suicidio. Con la figlia, da quel momento in poi, si è instaurato un rapporto, già di tipo esclusivo,
come da moglie/marito. Hanno imparato ad appoggiarsi l’uno all’altra e a farsi forza a vicenda. Anche
la figlia ha sofferto di depressione ma questa volta lui dice di aver gestito meglio il problema.
Non ha sottovalutato la sintomatologia, così come aveva fatto con la moglie, le ha fatto intraprendere
un percorso psicoanalitico e che dura tutt’ora con sedute sporadiche di controllo ed ha incentivato
la ragazza a mirare ad una realizzazione professionale. Si potrebbe supporre che questo abbia fatto
nascere un tipo di relazione quasi simbiotica e fortemente ansiosa tra padre e figlia, di cui non sono
più chiari né i confini e neppure i ruoli. In questa fase della vita, la senilità, lui si ritrova con una
donna in casa che non riesce a staccarsi dal padre e individuarsi, ma che nello stesso tempo cerca di
controllarlo attraverso l’imposizione di rigide regole.
Contesto socio-lavorativo: sin dai tempi in cui era ragazzo, si descrive come timido e senza carat-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 185

tere. All’università, nonostante i successi accademici, dice di non essere riuscito a farsi e mantenere
una posizione rilevante perché ha sempre avuto poco carattere e quindi ha trovato sulla sua strada
“chi gli ha fatto le scarpe”. Nonostante fosse poi diventato direttore di un brefotrofio, sostiene di
non essere mai riuscito a gestire le situazioni “con polso duro”. Altri colleghi, soprattutto una suora,
nonostante fossero subordinati, si approfittavano di questa sua anassertività. Non ha mai avuto molti
amici per via della difficile situazione coniugale. Le uniche persone con le quali ha instaurato un bel
rapporto di amicizia e che dura fino ad oggi sono, una ex collega, ma che evita di contattare per
paura di disturbare ed un amico prete, molto anziano, con il quale ha instaurato un rapporto di tipo
familiare.
Progetto terapeutico
Avendo di fronte un paziente anziano con esiti di ictus, ho innanzitutto valutato quanto la presenza
di possibili deficit cognitivi potesse compromettere il suo stato emotivo e/o determinare conseguenti
comportamentali. Constatato, attraverso test psicometrici, che da un punto di vista neuropsicologico
avesse conservato sufficientemente le funzioni corticali superiori, ho improntato il mio intervento di
psicoterapia cognitivo-comportamentale con la finalità di dare maggior benessere possibile, innalzare
il tono dell’umore e promuovendo la sua percezione della qualità della vita, attraverso la consapevolezza
delle proprie potenzialità e risorse psicofisiche.
Gli obiettivi sono stati stabiliti in base alle esigenze di tipo terapeutico ed in relazione alle richieste
emerse durante le sedute.
In un primo momento ho ritenuto opportuno soffermarci sulla costruzione di una solida alleanza
terapeutica, l’esplicazione del modello cognitivo – comportamentale, la raccolta anamnestica e storia
di vita, quindi, la definizione del problema che il paziente ha presentato (Sacco, 2003; Dobson,
2000).
In un secondo momento si è pensato di fare una rilettura in senso positivo della storia di vita, valorizzando
la parte sana della persona, ma rispettando i reali limiti dell’età.
Parallelamente, ci si è prefissati come obiettivo, l’innalzamento del tono dell’umore. A tal riguardo
è stato fondamentale effettuare una ridefinizione dei ruoli di marito/ medico/ padre in riferimento
alla rilettura degli eventi critici della sua vita, con particolare rilievo alla malattia e il successivo
suicidio della moglie.
Ad un certo punto della psicoterapia, sono emerse problematiche di tipo ansioso causate da eventi
di vita quotidiana. È stato necessario intervenire sulla riduzione dell’ansia e degli stressor, con l’
utilizzo di schede di autosservazione ABC (Beck 1976; Sacco, 2003) e effettuando colloqui con la
badante e con la figlia.
Lavorare sulla gestione e risoluzione dei problemi, ha evidenziato delle disfunzioni di tipo comportamentali
e di tipo comunicativo nella relazione padre-figlia. Ho, quindi, ritenuto di fondamentale
importanza lavorare sulla costruzione di una comunicazione efficace tra i due, trasformando
l’intervento da un approccio al singolo a quello familiare.
Infine si è passati all’elaborazione del distacco terapeutico e all’interruzione condivisa della terapia.
Relazione terapeutica
La relazione terapeutica, in questo caso particolare, è stata l’elemento cardine di tutta la terapia se
non la terapia stessa.
PAZIENTE:
Si è mostrato da subito a suo agio anche nel rispondere a domande su argomenti intimi. Ascoltava,
si lasciava aiutare e guidare, rispettava le regole, seguiva le indicazioni ed accettava insegnamenti.
Con il procedere della terapia si è reso gradualmente autonomo.
TERAPEUTA:
Questo è stato il mio primo caso di terapia privata. Nonostante la paura iniziale perché mi accor-
186 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

gevo che il paziente investiva molto nella mia figura professionale e traeva benessere dalla mia presenza,
mi sono sentita comoda nella relazione che si stava creando e che da un punto di vista emotivo,
ho sfruttato per far ottenere durante i colloqui il massimo sollievo emozionale possibile.
Atteggiamento verso il cambiamento
Il paziente si è mostrato disposto a mettersi in discussione. Era un lavoro che già da solo aveva
iniziato a fare negli anni ma con l’unico risultato di addossarsi ulteriori colpe e giudizi negativi.
Intervento terapeutico
Ho preferito suddividere la descrizione dell’intervento terapeutico in base agli obiettivi prefissati e
raggiunti nelle diverse sedute. Di seguito è esposta una sintesi dei 19 incontri organizzati in 4 blocchi.
Sintesi delle sedute
Legenda: A = il paziente ; F = la figlia.
Dal I al V incontro
I primi incontri sono stati dedicati alla fase di assessment (Borgo, Della Giusta, Sibilia, 2001).
Sono state fissate le regole contrattuali ed è stata data una descrizione della psicoterapia cognitivocomportamentale.
Già in queste prime sedute, A mi parla della moglie, della sua dipendenza da farmaci
antidolorifici, del suo rifiutarsi di essere madre e donna di casa e del suo suicidio. Emergono
sensi di colpa fortissimi rispetto a pensieri sulla scarsa ed inefficace gestione della situazione. Ogni
volta che era giù di tono ripensava ad episodi tristi e dolorosi o faceva sogni riguardanti esperienze
dolorose con oggetto la moglie. Al contrario, una modalità che ha sempre utilizzato per sentirsi aitante
e forte è l’utilizzo della fantasia. È stata presa in esame una tipica fantasia sessuale, in cui si
vede come un giovane bello e virile. Diceva di riuscire a masturbarsi ancora, ma che dopo si sentiva
molto fiacco.
È emersa un’attrazione sia fisica che intellettuale nei miei confronti che lo hanno incentivato ad
avere una cura più adeguata della propria persona. Mentre nelle prime due sedute si mostrava molto
trasandato, successivamente si presentava pulito, sbarbato e profumato. Questo lo ha reso oggetto di
commenti scherzosi da parte delle badanti e ciò ha rallegrato molto le sue mattinate.
Ho conosciuto una delle badanti, quella che è più accogliente e meno giudicante nei suoi confronti
e ciò mi ha dato maggiori informazioni sul tipo di abitudini e difficoltà che A riscontrava nella quotidianità.
Comunque, tema principale dei colloqui erano i ricordi ed i sogni riguardanti la moglie. Emergeva
il passato, un passato negativo e sempre con le stesse modalità di narrazione. Ha sempre avuto un
atteggiamento molto critico nei riguardi della moglie, forse perché ha fatto riferimento a standard
molto elevati, come quelli rappresentati da sua madre. Descriveva la moglie come una bella donna,
proveniente da una ricca e importante famiglia, ma non come una brava massaia (aspetto che le rimproverava).
Con la sua morte, si è rinforzato il rapporto già esclusivo con la figlia, al punto che questa
ha sostituito in parte il ruolo che aveva la madre. La figlia, che appariva per alcuni versi infantile,
si presenta, nello stesso tempo, estremamente indipendente. Ha un atteggiamento irruento, critico
e autoritario. Sente il peso della vecchiaia del padre in modo eccessivo, forse per paura di perderlo.
Nello stesso tempo, assume talvolta comportamenti infantili-adolescenziali, rinforzati da atteggiamenti
del padre e che contrastano con le sue affermazioni di desiderare che si faccia una sua famiglia.
L’utilizzo di tecniche terapeutiche in questo momento è passato in secondo piano perché avrebbe
potuto essere fonte di ansia e di disturbo. Ciò che è sembrato essere molto rilevante e funzionale è
stata la relazione terapeutica che si stava instaurando. Ho improntato il mio lavoro verso una psico-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 187

terapia positiva, massimizzando i contenuti positivi della relazione per attenuare i vissuti negativi
che il paziente riportava. Lui cercava molto la relazione. La mia persona poteva, quindi, essere considerata
come un plus valore alla terapia, un qualcosa che crea un effetto positivo. D’altronde, per
evitare forme di compiacimento, ho cercato di addestrare A all’utilizzo del pensiero critico, per cui
lo incentivavo a dire ciò che pensava rispetto a quello che potevo proporgli.
Concentrandomi, quindi, sulla buona relazione terapeutica che si stava instaurando, ho ritenuto
opportuno intervenire rinforzando ogni altro aspetto positivo della sua vita, come ad esempio i suoi
interessi, tra cui leggere e scrivere su un quaderno riflessioni di qualsiasi genere che adorava discuterne
con me.
È emersa, inoltre, una sorta di fobia sociale che lo ha portato negli anni ad isolarsi sempre di più,
legato a sentimenti di vergogna per la condizione della moglie.
Dal VI al XII incontro
Un vissuto di inquietudine emergeva costantemente dai racconti e dai sogni (telefonate da parte
della moglie che delirava mentre era a lavoro in compagnia di colleghi; ricoveri continui della moglie
e notti passate accanto a lei in clinica; episodi di viaggi rovinati perché lei era “drogata” ecc).
Una narrativa che portava con sé un aspetto negativo ed in più una sensazione di limitazione e di
costrizione tipica di quel periodo. A sottolineava molto la gravità della situazione della moglie,
come se avesse bisogno di una narrativa a suo sostegno per attenuare sensi di colpa rispetto al suo
agito. Ogni tanto ritornava il tema del suicidio della moglie ed emergeva in genere quando era già di
umore negativo.
A cercava da me conferme riguardanti i comportamenti che assumono le donne depresse, alludendo
alla sua storia, senza mai chiedermi direttamente se la moglie lo fosse stata. Nel momento in cui
parlava delle scelte terapeutiche adottate con lei, utilizzava il noi, soprattutto quando si riferiva alla
decisione di toglierle completamente i farmaci, gesto che ha portato la donna al suicidio. Si sentiva
probabilmente partecipe come medico nella gestione della malattia della moglie, anche se non era
“compito” suo. Più si affrontavano questi temi e più sembrava cercasse un’assoluzione per aver
avuto un ruolo che in realtà non gli competeva.
Non ho ritenuto conveniente, in termini terapeutici, sviscerare e analizzare una storia di vita con
degli aspetti che sarebbero potuti essere difficilmente trattati. In queste sedute, il lavoro è stato concentrato
in un primo momento sulla rilettura in senso positivo della sua storia di vita. Quindi a livello
terapeutico, ho ritenuto più opportuno agire ad un livello emotivo, inducendo emozioni positive e
ad un livello cognitivo, stimolando ricordi positivi e sfruttando il canale positivo delle fantasie
(Beck, 1976; 1987). Inoltre, ci si è soffermati sul ruolo positivo che possono ancora avere gli amici
nella propria vita. Il paziente è stato incentivato ad essere più propositivo nei confronti di quelle poche
persone che gli vogliono bene.
Data l’irruenza del passato negativo e l’età del paziente, si è fatto una terapia volta al presente ed
al sollievo, cercando di non dare corpo a qualcosa che avrebbe potuto avere aspetti difficilmente
trattabili.
Il sostegno terapeutico ha favorito il lavoro sulla rielaborazione del ruolo di marito e di medico
nella gestione della ipotetica depressione della donna e del suo suicidio. Questo è stato un piccolo
passo verso una sorta di “assoluzione” rispetto a ciò che lo tormentava da anni.
Ad un certo punto del percorso terapeutico, è sorto un ulteriore problema. A mi ha descritto delle
difficoltà che riscontrava nel masticare ma non riconosciute dalla figlia, che invece, credeva fosse
solo un capriccio ed un modo per richiamare l’attenzione delle badanti. In realtà, c’era un reale problema
ad un dente che andava a peggiorare le già presenti difficoltà nella deglutizione. È stato necessario
parlare con F, dando informazioni corrette sulla condizione psico-fisica che viveva il padre
e facendo un intervento psico-educativo (Vaccaro, 2003) su come affrontare le difficoltà. È stato risolto
il problema del dente con una seduta dal dentista, ma il problema dei pasti si è ripresentato.
Abbiamo esaminato una tipica situazione in cui si era tutti insieme a tavola e l’ho istruito alla compilazione
delle schede di autosservazione tipo ABC. Da questa valutazione è emerso che A viveva
188 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

con molta ansia il momento del pasto perché non riuscendo a masticare bene immaginava di sporcarsi
e quindi di essere umiliato e rimproverato da F. Sono state utilizzate le immagini e non il dialogo
interno (Borgo, Della Giusta, Sibilia, 2001), perché A mostrava difficoltà nell’individuare il
narrativo, mentre funzionava benissimo la rappresentazione iconica. Da questa analisi si è aperta
una strada che riguarda il rapporto tra A ed F. Lei non voleva vedere che il padre stava invecchiando
per paura di perderlo, mentre A aveva tante paure riguardo al futuro della figlia.
Dal XIII al XVI incontro
A non parlava più dei sogni ricorrenti sul suicidio. Le sedute si aprivano con barzellette e delle
belle risate. Seguendo i consigli dati in supervisione (Borgo, 2010), si è svolta una terapia di tipo famigliare
in senso cognitivo-comportamentale, parlando con la figlia sia individualmente sia insieme
al paziente.
Mi sono trovata di fronte ad una nuova situazione: dopo aver affrontato i sensi di colpa per la
morte della moglie, si è lavorato sul tipo di rapporto instauratosi con la figlia. In termini di obiettivi
terapeutici ho preso in considerazione ciò che di drammatico emergeva dal rapporto con F: la preoccupazione
di un padre che ha paura di lasciare da sola la figlia, la preoccupazione della figlia che ha
paura di rimanere da sola senza di lui. Quindi ciò che è drammatico nel presente, anzi nel futuro, e
non più nel passato.
Il problema si centrava sulla non accettazione da parte di F che il padre stava invecchiando ed
inoltre, rinunciando a crearsi una sua famiglia, credeva di avere sotto controllo tutta la sua vita e
quella di A. Mi disse di assumere psicofarmaci e di soffrire di nevrosi con sbalzi di umore in senso
depressivo, con il commento: “è una malattia che avrò ereditato da mia madre”. Questo “tragico
destino” è stato affrontato prendendo due lauree, iscrivendosi a psicologia e scegliendo di non diventare
mai mamma e mai moglie, “in questo modo non potrò mai essere come lei”. Questo contrastava
con l’atteggiamento che aveva con il padre, di cui non accettava i limiti negando l’evidenza.
Il lavoro effettuato con entrambi è stato sul tipo di comunicazione. Sembrava che ci fosse un patto
di complicità tra i due nel mantenere il gioco di F, quello della negazione. Il comunicare da parte di
A ad F, la propria debolezza, ha avuto un ruolo rilevante perché ha rotto questo gioco. Da un punto
di vista terapeutico, con A è stata incentivata una comunicazione di tipo assertivo (Bonetti, Meneghelli,
1999) e sono state fatte delle simulate, con F mi sono concentrata su un più reale esame di
realtà.
Dal XVII al XIX incontro
Queste sedute erano caratterizzate per lo più da una condivisione di riflessioni riguardanti la medicina,
la psicologia, la filosofia, la politica e l’attualità. Si parlava molto della figlia, di quello che lui
avrebbe voluto per lei. Inoltre, sono emersi episodi passati che riguardavano il distacco da persone
alle quali si era molto legato. Lui ha sempre vissuto con sofferenza l’allontanarsi da figure importanti
e questo ci ha condotto ad affrontare il tema del termine della nostra relazione e le emozioni
che lui provava a riguardo. Abbiamo confrontato le situazioni ed abbiamo analizzato il tipo di relazione
che aveva instaurato con me. Ci siamo soffermati anche su quello che è stata la richiesta iniziale
e gli obiettivi raggiunti.
Durante questo arco di tempo, incoraggiato da me, ha iniziato a condividere più spesso i suoi pensieri,
le sue riflessioni e le sue preoccupazioni con un’amica, ex collega, con la quale è sempre rimasto
in contatto ma che aveva paura di disturbare. Per sua sorpresa, è stato ben accolto dalla signora
ed hanno ripreso a comunicare e a vedersi con lei.
Intanto, F. ha accettato un lavoro in una città a qualche chilometro di distanza ed ha intrapreso le
trattative per l’acquisto di una casa.
Durante l’ultima seduta, lui mi ha letto delle riflessioni che aveva scritto. Era una sorta di bilancio
delle azioni positive e negative della sua vita e tutto sommato andava in positivo. Questo ci ha portato
a parlare anche della chiusura della terapia e con mia sorpresa lui mi ha detto che ci aveva riflettuto.
Abbiamo, dunque, deciso insieme di chiudere la terapia, dandoci un appuntamento telefoni-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 189

co a tre mesi.
Riflessioni sul caso
In un primo momento, questo caso clinico si è presentato come un semplice sostegno all’anziano
ma ha rivelato in seguito aspetti insospettati.
L'inizio è stato caratterizzato dall'intervento di supporto, basato su una forte relazione terapeutica
(Petrini, Zucconi, 2008) e questo ci ha portato ad affrontare una rielaborazione del complicato rapporto
con il fantasma della moglie e il trauma del suo suicidio. Ciò che sembra essere stato efficace
è la distinzione tra i ruoli di marito e di medico: chi doveva gestire la malattia della moglie erano i
medici e non il marito. E inoltre, rileggere negativamente la storia medica a posteriori non solo non
mostrava alcuna utilità, ma anzi generava emozioni negative e sensi di colpa. Mentre, l'auto-assoluzione
dell'operato nei confronti della moglie ha portato a una sorta di pacificazione.
Successivamente, è stato attuato un intervento comportamentale, nella gestione di problematiche
di vita quotidiana, come l'organizzazione dei pasti, il rapporto con la figlia, con le badanti e gli amici.
È stata una terapia effettuata nel luogo di vita del paziente e questo ha permesso di intervenire
direttamente sul contesto, attuando una psicoterapia comportamentale nel vero senso del termine.
Poiché il paziente era un anziano, ed aveva quindi un arco di vita breve ma buone risorse di tipo
psico-fisico, economico e di contesto, si è cercato di migliorare la qualità della vita nel senso di promozione
della salute. E' stata fatta una terapia centrata sulla persona, evidenziando il lato sano evitando
di eccedere con le richieste (come faceva la figlia).
La terapia preventiva con l’anziano, anche se in presenza di patologie da un punto di vista medico,
è basata sull’incremento delle sue potenzialità fino a far divenire egli stesso una risorsa.
In una ulteriore fase, si è passati ad una terapia di tipo familiare. La figlia che fino a quel momen -
to aveva tenuto sempre il controllo di tutto, con la mia entrata, ha potuto distaccarsi ed ha iniziato a
dedicare più tempo alle sue esigenze. E' stato modificato il suo stile di comunicazione, di tipo autoritario,
verso il padre ed è stata favorita una modalità di comunicazione più efficace, basata su dati
di realtà. In funzione di uno scarso funzionamento della coppia genitoriale e della grave depressione
materna, si era creato un rapporto privilegiato tra padre e figlia (Pezzati et al., 2005) con un’alterazione
dei confini e dei ruoli relazionali. Si è reso, dunque, necessario intervenire su tali modalità al
fine di favorire l’emergenza di un nuovo equilibrio.
In conclusione si può ritenere che ci sia stata una buona risposta al trattamento, sia riguardo
all’innalzamento del tono dell’umore, sia rispetto alla gestione di problematiche legate all’età del
paziente ed al rapporto con sua figlia. Una ulteriore conferma è stata data dai colloqui fatti a tre
mesi e a sei mesi dalla conclusione della terapia. È stato il paziente stesso ad affermare di sentirsi
più vitale e sereno ma soprattutto meno preoccupato per la figlia che d’altra parte, allargando le sue
conoscenze sociali, trasferendosi in una sua casa ed accettando un nuovo e interessante lavoro, ha
finalmente intrapreso un percorso di individuazione.
Inoltre, ha riferito di sentirsi più sicuro nei rapporti con gli altri, al punto da aver ripreso i contatti
sia con l’ex collega che con un altro amico, mentre prima del mio intervento, non era mai riuscito a
parlare dei suoi problemi con nessun altro al di fuori della figlia. Ora ha potuto sperimentare che ci
si può confidare senza vergogna anche con altre persone a noi vicine.
Nel complesso si può affermare che ci sia stato un notevole miglioramento della percezione della
qualità della vita.
Bibliografia
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Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 191

TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DI UN DISTURBO AN-
SIOSO-DEPRESSIVO ASSOCIATO A SOSPETTA DEMENZA FRONTO-
TEMPORALE.
Di Silvia Capezzuto, Psicologa-Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, mail: silviacapezzuto@libero.it
Introduzione
L’obiettivo di questo contributo è descrivere il trattamento cognitivo-comportamentale di un paziente
con disturbo-ansioso depressivo associato a sospetta demenza fronto-temporale. Tale tipo di
demenza è caratterizzata da alterazioni cerebrali a livello dei lobi frontale e temporale e i sintomi riguardano
prevalentemente le funzioni esecutive, il linguaggio, il ragionamento, i comportamenti e,
anche se in misura minore, la memoria.
Si evidenzia in questo intervento la difficoltà di pianificare ed attuare un trattamento psicoterapeutico
in presenza di una diagnosi neurologica incerta e si descrive la scelta terapeutica effettuata, rivelatasi,
durante e a conclusione del trattamento, efficace.
Cenni anamnestici
Andrea ha 54 anni, è un ragioniere e lavora in un’azienda.
Vive in una città del centro Italia con la moglie di 51 anni e la sua unica figlia di 29, entrambe impiegate.
Riguardo alla sua famiglia il paziente esprime contentezza e soddisfazione perché “anche
se ogni tanto ci sono delle discussioni, ci amiamo moltissimo”.
Andrea ha perso entrambi i genitori e, da tre anni, per motivi non molto chiari, non ha più contatti
con il fratello. Afferma di essere molto legato ai suoceri che, fra l’altro, vivono nel suo stesso palazzo.
Il paziente non ha una rete sociale molto ampia. Egli ha, infatti, solo un amico del cuore,
purtroppo malato di cancro (poi deceduto nel corso della terapia) ed ottimi rapporti di amicizia con
uno dei due fratelli della moglie. L’esiguo numero di amici, comunque, non sembra per Andrea
rappresentare un problema.
Motivo dell’invio
Andrea giunge da me su consiglio della neurologa dell’Unità Valutativa Alzheimer di un importante
ospedale, cui si è rivolto per dei problemi di memoria. Durante le visite appare bloccato, motivo
per cui la neurologa lo invia da me, sotto richiesta dello stesso paziente e di sua moglie. Al nostro
primo incontro apprendo, dalla sua documentazione medica, che si sospetta egli abbia una demenza
fronto-temporale.
Domando ad Andrea di spiegarmi il motivo per cui ha sentito il bisogno di chiedere l’aiuto di uno
psicoterapeuta e questi inizia ad espormi i suoi principali problemi:
Blocco emotivo: quando c’è una discussione in famiglia, o quando qualcuno si rivolge a lui con
un tono di voce troppo elevato “mi blocco, mi sento teso, non riesco a sopportarlo, tremo, non ragiono,
sto male, è un malessere che parte dalla testa”. Su mia esortazione a farmi un esempio di
una situazione in cui ha avvertito questo tipo di sensazioni racconta che, durante una discussione fra
sua moglie e sua figlia, “non riuscivo a respirare, ero intontito”. Alla domanda su quanto fosse intenso
questo malessere su una scala da uno a dieci lui risponde “dieci”.
In seguito alla richiesta di narrare un altro episodio recente in cui abbia sperimentato sensazioni
simili, racconta che, qualche giorno prima, trovandosi alla stazione per prenotare dei biglietti del
treno ad un tratto si è bloccato, “ho perso la concentrazione, mi sentivo un incapace, mi chiedevo
cosa ci facevo lì, pur sapendo che dovevo fare dei biglietti”. A quel punto, non riuscendo a ragionare
lucidamente, ha chiamato la moglie che, telefonicamente, ha portato a termine l’operazione.
Amnesie: riguardo alla sua memoria Andrea afferma che “è sempre stata flebile, ma da qualche
192 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

anno la situazione è peggiorata, non trovo oggetti, apro le cose sbagliate, ad esempio il frigorifero
invece della credenza”. Il paziente afferma, inoltre, di ricordare più gli eventi remoti rispetto a quelli
recenti.
Ad un’indagine più approfondita emerge che questo tipo di difficoltà si manifestano quasi esclusivamente
a casa, mentre al lavoro non ha notato alcun cambiamento. Quando ad Andrea capita di
non ricordare qualcosa sembra provare le stesse sensazioni da lui sperimentate durante le discussioni
e cioè si blocca e non si sente più lucido.
Disfasie: Andrea racconta anche che ogni tanto gli accade di avere l’impressione di iniziare a balbettare
e che “mi si incespichi la lingua”. Di fatto però il suo eloquio non sembra rispecchiare quanto
da lui riferito.
Attribuzioni. Il paziente ritiene che questi suoi problemi possano in parte essere dovuti
all’infanzia difficile che ha vissuto, ma anche e soprattutto a tutta una serie di difficoltà che lui e la
sua famiglia hanno affrontato negli ultimi quattro anni. A proposito di queste Andrea racconta che la
figlia ha molto sofferto per la fine di una relazione che durava da molti anni e per la quale lui si è
molto preoccupato, tanto che la notte non riusciva a dormire per paura che la ragazza potesse fare
gesti avventati.
Eventi di vita. L’anno dopo, a causa dell’errore di un legale Andrea e la sua famiglia perdono una
causa “che era praticamente vinta”; ciò ha determinato un ingente danno economico che è stato
vissuto da tutti loro, ma particolarmente dalla moglie del paziente, con una “tensione grandissima”.
Nello stesso periodo viene diagnosticato al migliore amico di Andrea un tumore al cervello, a causa
del quale purtroppo egli è deceduto durante il percorso psicoterapeutico.
Storia di sviluppo
Prima di sposarsi Andrea ha sempre vissuto con la sua famiglia composta, oltre che da lui, dalla
mamma, che di professione faceva la sarta, il papà, elettricista, e il fratello più piccolo del paziente.
Andrea definisce sua madre con termini molto forti, “una SS che mi riempiva di schiaffi e che mi
mandava in giro con i lividi ”; riguardo al padre dice che non lo ha mai picchiato, ma neanche difeso
quando la madre lo faceva. Il paziente racconta di non aver avuto un’infanzia felice anche perché,
a suo dire, il fratello minore era “il cocco di casa”, mentre lui ha sempre avuto difficoltà relazionali
con i genitori, anche perché si definisce nei loro confronti “piuttosto chiuso”.
La mamma di Andrea è morta di colon al retto a sessant’anni, mentre il padre a 70 di leucemia. Il
paziente ricorda con tristezza di essere stato molto vicino ai genitori durante le loro malattie, a differenza
del fratello che da loro tanto aveva ricevuto. Con quest’ultimo Andrea non ha rapporti da
circa tre anni e a riguardo afferma di non averne capito il motivo; alla domanda se abbia mai cercato
di ricontattare quest’ultimo risponde di no perché “abbiamo sempre cercato di evitare intrusioni
nella nostra famiglia”, riferendosi al nucleo composto da lui, dalla moglie e dalla figlia.
Sindrome osservata ed ipotesi di lavoro
L’incertezza della diagnosi neurologica, “sospetta demenza fronto-temporale”, con la quale
Andrea si è presentato al primo colloquio (rimasta tale per tutta la durata della terapia), ha reso
difficile fare delle ipotesi sull’insorgenza e sul mantenimento dei suoi problemi, sia formulare un
contratto terapeutico. Se la diagnosi fosse stata confermata, infatti, si sarebbe dovuto lavorare
innanzitutto allo scopo di farla accettare ad Andrea e poi di migliorare la qualità della sua vita. Per
ottenere quest’ultimo obiettivo si sarebbe dovuto attuare sia un intervento di riabilitazione cognitiva
volto a mantenere il più possibile le sue capacità cognitive residue e ad elaborare insieme delle
strategie che lo aiutassero a compensare le sue mancanze, sia un intervento psico-educativo, in cui
coinvolgere anche la moglie e la figlia di Andrea.
Se, invece, l’ipotesi diagnostica fosse stata smentita si sarebbero dovute innanzitutto comprendere
le cause della sintomatologia del paziente e, poi, in un secondo momento, intervenire su di esse. La
scelta terapeutica è stata quella di intervenire innanzitutto sull’ansia e sull’umore depresso che
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 193

Andrea presentava nei primi colloqui, partendo dal presupposto che così non avrei potuto nuocergli
e che ciò gli avrebbe, comunque, apportato dei benefici. Lavorando in questo modo, infatti, o si
sarebbero eliminate le cause delle sue difficoltà cognitive o, in ogni caso, delle variabili che, in caso
di conferma della diagnosi di demenza, avrebbero condizionato un peggioramento della
sintomatologia della sfera cognitiva. Si sarebbe, inoltre, ottenuto un miglioramento del suo
benessere psicofisico. Pertanto, tenendo anche conto delle aspettative nutrite da Andrea riguardo al
lavoro che ci apprestavamo ad iniziare, da lui espresse in prima seduta con le parole “migliorare
questo blocco”, ho deciso di lavorare allo scopo di abbassare il livello d’ansia e innalzare il tono del
suo umore che, ai primi colloqui, appariva decisamente depresso.
Secondo l’ipotesi di partenza, sulla quale è stato impostato il percorso terapeutico, Andrea in un
periodo di particolare stress ha iniziato a manifestare delle difficoltà cognitive dovute o ad una patologia
di tipo organico (demenza frontotemporale) o conseguenti ad uno stato ansioso-depressivo o,
più probabilmente, ad un’interazione di questi fattori.
In effetti dai racconti di Andrea emergeva che alla base del mantenimento delle sue difficoltà cognitive
ci fosse la paura che il suo cervello non funzionasse più adeguatamente, riassunta dal paziente
con queste parole: “ho paura che il mio cervello non mi dica il vero e quindi subentra l’ansia
e non riesco a controllarmi. Mi rendo conto di non essere proprio in piena forma e questo mi dà
ansia. Qualsiasi cosa io faccia mi crea ansia. Vorrei migliorare e non riesco a migliorare. Mi sento
che non sono in grado di risolvere i vari problemi. Prima ero una ruspa, ora sono indifeso, come
un bambino che può cadere. Ho paura di non riuscire ad essere come prima. Ho paura di non riuscire
a superare la situazione, vorrei essere tranquillo, rilassato. Mi sento come un bambino che fa
i primi passi, ho paura di sbagliare ancora, mi manca la lucidità. Qualsiasi cosa debba fare, il cervello
mi si blocca ”.
L’ansia provata da Andrea, e così ben descritta dalle sue stesse parole, creava in lui uno stato di
confusione mentale e di blocco che lo portava a commettere errori, rinforzando così la convinzione
che il suo cervello non fosse in grado di funzionare come prima. Per evitare questo tipo di situazioni
e sensazioni, inoltre, il paziente tendeva a delegare molti dei suoi compiti alla moglie e quindi, non
esercitando le sue abilità cognitive residue, aggravava ulteriormente la sua sintomatologia.
Il percorso terapeutico descritto in seguito è stato dunque impostato sulla base di questa ipotesi.
Progetto psicoterapeutico
Io e Andrea, durante la stipula del contratto terapeutico, abbiamo stabilito di lavorare insieme al
fine di ottenere il decremento dell’emozione ansia e l’innalzamento del tono dell’umore; conseguentemente,
si mirava ad una riduzione dei deficit cognitivi, o perlomeno, al mantenimento delle
capacità residue, attraverso l’utilizzo di tecniche di riabilitazione cognitiva. Per ottenere tali
obiettivi, abbiamo quindi indicato i comportamenti bersaglio del trattamento (Borgo et al., 1991):
• Individuazione delle situazioni in cui il paziente sperimenta difficoltà cognitive: per tutta
la durata della psicoterapia, ma soprattutto nelle prime sedute, io e Andrea abbiamo individuato
le situazioni in cui questi sperimentava maggiormente i suoi problemi cognitivi.
• Ansia relativa alle sue difficoltà cognitive: con il paziente abbiamo cercato di rintracciare
gli elementi comuni alle varie situazioni problematiche (blocco emotivo, amnesie, disfasie)
analizzando oltre al contesto in cui queste si verificavano (quasi esclusivamente quello familiare),
anche il suo dialogo interno, le sue emozioni e i comportamenti conseguenti ai suoi
pensieri e alle sue emozioni (Klosko, Sanderson, 2001). Ciò che è emerso era la presenza
dell’emozione ansia in ognuna di queste situazioni. Andrea, infatti, riferiva la presenza di sudorazione,
tremore, tachicardia e senso di confusione alla testa (Borgo et al., 1991).
• Tono dell’umore depresso: Andrea, durante le prime sedute, presentava un tono dell’umore
depresso, probabilmente dovuto alle sue difficoltà cognitive. Agire su di esso è stato uno dei
principali obiettivi poiché, oltre a creare un forte malessere al paziente, determinava anche
un aggravamento della sua sintomatologia cognitiva. Egli, infatti, provando un forte senso di
194 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

scoraggiamento a causa delle sue difficoltà, tendeva a non affrontare le situazioni da lui ritenute
rischiose e a delegare la risoluzione di queste alla moglie, determinando conseguentemente
un incremento dei suoi deficit cognitivi.
• Deficit cognitivi: Una volta ottenuti la riduzione dell’ansia e l’innalzamento del tono
dell’umore, si è stabilito, nella fase conclusiva della psicoterapia, di intervenire direttamente
sulle difficoltà cognitive presentate da Andrea.
Io e il paziente abbiamo concordato che le sedute sarebbero durate 45/60 minuti e che, almeno inizialmente,
avrebbero avuto frequenza settimanale. Dopo tre mesi dall’inizio della terapia abbiamo,
invece, iniziato ad incontrarci ogni due settimane. Abbiamo, inoltre, stabilito sia su richiesta del paziente
e di sua moglie, sia per una mia necessità di maggiori informazioni che, se necessario, la signora
avrebbe preso parte a qualche colloquio. Di fatto quest’ultima ha partecipato a due sedute,
una all’inizio della terapia ed un’altra verso la conclusione per ricevere un ulteriore feedback sul
percorso svolto da Andrea.
Intervento terapeutico
Le prime sedute con Andrea sono state completamente dedicate all’assessment cognitivo-comportamentale
effettuato attraverso colloqui clinici, somministrazione del Cognitive Behavioural Assessment
(CBA), il tutto integrato con i test neuropsicologici somministratigli dalla neurologa in ospedale
(Wells, 1999).
Una volta terminata la fase di assessment e individuati i comportamenti bersaglio (Borgo et al.,
1991) si è passati alla fase più operativa e cioè l’intervento terapeutico.
Per ridurre la sintomatologia ansiosa io e Andrea abbiamo individuato le situazioni che maggiormente
l’attivavano. Quindi, con l’ausilio delle schede di autosservazione, abbiamo rilevato i pensieri
che alimentavano tale emozione, scoprendo che Andrea faceva largo uso di catastrofizzazioni e
generalizzazioni. Una volta acquisita dal paziente la capacità di identificare tali pensieri irrazionali,
l’ho aiutato ad operare una ristrutturazione cognitiva, grazie alla quale ha imparato a sdrammatizzare
gli eventi e a giungere a conclusioni meno affrettate, riducendo moltissimo, fin quasi a vederla
sparire, la sua sintomatologia ansiosa (Klosko, Sanderson, 2001). Allo stesso tempo, il fatto di dargli
frequentemente rinforzi positivi e di aiutarlo a scoprire le sue innumerevoli risorse ha fatto sì che
Andrea incrementasse la sua autostima e il suo senso di auto-efficacia, fattori entrambi
fondamentali per poter affrontare efficacemente le difficoltà che egli si trovava ad attraversare.
La ristrutturazione cognitiva attuata con Andrea, nonché i frequenti rinforzi elargiti hanno indotto
anche un incremento del suo tono dell’umore; egli ha infatti acquisito consapevolezza riguardo al
suo modo catastrofico di leggere quanto gli accadeva, ha imparato a modificare i suoi pensieri, rendendoli
più flessibili e meno pessimisti, ed ha preso consapevolezza delle sue molteplici risorse.
Inoltre, sempre allo scopo di innalzare il tono del suo umore, ho esortato Andrea a compilare una lista
di attività piacevoli, da svolgere quotidianamente, nei momenti di tempo libero (Goldwurm et
al., 2004). Pur avendo avuto diverse difficoltà nel far svolgere al paziente questo compito, a causa
dell’estrema limitatezza dei suoi interessi, ritengo che l’aver dedicato, seppure una minima parte
della sua giornata, al relax e all’evasione l’abbia aiutato a sentirsi meglio e a riacquistare energie
psico-fisiche importanti.
Per migliorare la qualità della sua vita, a prescindere dal miglioramento o meno delle sue capacità
cognitive, abbiamo anche lavorato con Andrea allo scopo di ridurre lo stress conseguente alle sue
difficoltà cognitive. Una delle modalità con cui abbiamo cercato di raggiungere tale obiettivo è stata
quella di aiutare Andrea a gestire e ad ovviare ad alcuni suoi problemi di memoria attraverso l’utilizzo
di semplici procedure come quella di tenere determinati oggetti sempre nello stesso posto e di
utilizzare un foglio, da lui stesso chiamato “foglio della memoria”, per ricordare la posizione di
questi all’interno delle mura domestiche.
Infine, dopo aver ottenuto questi importanti obiettivi, ho tentato di far comprendere ad Andrea
l’importanza di esercitare la sua mente e l’ho ripetutamente stimolato a svolgere attività che poten-
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 195

ziassero le sue capacità cognitive residue. Tra queste, ad esempio, la lettura, la scrittura, l’utilizzo
del computer, le parole crociate e la visione del telegiornale con riassunti e commenti da svolgere
insieme alla moglie. Alla fine di ogni seduta ho, dunque, assegnato ad Andrea degli homework
riguardanti diverse funzioni cognitive: memoria, attenzione, capacità di set shifting, lettura e
scrittura e ad ogni incontro ho verificato se e come questi li avesse eseguiti.
Relazione terapeutica
Durante i primi colloqui con Andrea ho sperimentato alcune difficoltà ad instaurare una buona alleanza
terapeutica perché percepivo da parte sua una certa diffidenza e soprattutto difficoltà ad
aprirsi con me. In effetti il paziente appariva molto introverso ed era piuttosto faticoso sostenere con
lui un’ intera seduta con i suoi lunghi silenzi. Col proseguire degli incontri, però, il nostro rapporto è
progressivamente migliorato, Andrea appariva sempre più disteso e mostrava una crescente fiducia
in me ed una sincera gratitudine per l’aiuto che, sentiva, gli stavo dando. Tanto da dirmi che quando,
fra una seduta e l’altra, sperimentava una qualche difficoltà, pensava alla mia tranquillità e così
si calmava ed affrontava la situazione.
In breve tempo si è dunque instaurata fra noi una relazione basata sul rispetto e sulla reciproca fiducia
e ciò che mi ha favorevolmente colpito è stato osservare come, con l’aumentare della nostra
conoscenza, crescevano l’ironia e il senso dell’umorismo di Andrea che, soprattutto nella fase conclusiva
della terapia, era ben lontano la persona timida, schiva e un po’ sospettosa che si era presentata
da me al primo incontro.
Particolarmente importante con Andrea è stato il fatto di rimandargli continuamente il suo ruolo
attivo all’interno della nostra relazione e, in generale, del processo terapeutico. La fiducia che aveva
in me, infatti, lo portava spesso a sminuire i suoi meriti nel raggiungimento degli obiettivi terapeutici.
Andrea continuava costantemente a ringraziarmi per il fatto di aver reso la sua vita più serena ed
io, ogni volta, gli facevo notare quanto lui fosse stato capace di trasferire nella quotidianità quanto
appreso durante le sedute e, inoltre, quanto celere fosse stato nel farlo. Tutto ciò allo scopo di facilitare
in lui il passaggio da un’attribuzione di tipo esterno ad una di tipo interno.
A parte le difficoltà provate nei primissimi incontri, dunque, la relazione fra me e Andrea si è costantemente
evoluta in senso positivo. Oltretutto, avendo spesso insistito sui meriti e sul ruolo attivo
che il paziente aveva all’interno di essa, anche il distacco fra noi è avvenuto senza particolari problemi.
La riduzione graduale dei nostri incontri, l’acquisizione di una sempre maggiore autonomia
di Andrea e il ribadirgli frequentemente che, in caso avesse avuto bisogno di me, io ci sarei stata, ha
permesso che potessimo porre fine al nostro percorso insieme senza ansie e nel modo più naturale
possibile.
Risposta al trattamento
Andrea è arrivato da me molto preoccupato per le sue difficoltà cognitive, alle quali aveva risposto
con un’evidente flessione del tono dell’umore e con una notevole attivazione ansiosa. Il paziente
durante i nostri primi colloqui riferiva di non sentirsi più lo stesso e di percepirsi indifeso.
Già dall’ottava seduta, però, riferiva dei miglioramenti che, con qualche piccola flessione, sono
continuati fino al termine dei nostri incontri, durati per circa un anno, e che sono emersi anche alle
visite neurologiche, da lui effettuate all’incirca ogni tre mesi.
Ciò che principalmente sembra aver funzionato con il paziente è stato l’averlo aiutato ad identificare
i suoi pensieri catastrofici e, conseguentemente, a modificarli, volgendoli in positivo (Klosko,
Sanderson, 2001). Abbiamo, infatti, molto lavorato allo scopo di aumentare le possibili interpretazioni
degli eventi che nella quotidianità gli accadevano e ai quali lui tendeva ad attribuire quasi
sempre il significato più negativo. Come lui stesso mi ha riferito, durante il percorso psicoterapico
ha invece imparato a “sdrammatizzare” le situazioni e quindi ad affrontarle con minor
preoccupazione e in modo più efficace. Oltre a ciò, il fatto di sentirsi costantemente rinforzato per
ogni piccolo o grande risultato che riusciva a raggiungere nella quotidianità ha fatto sì che egli
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accrescesse la sua autostima e fiducia nelle proprie possibilità, arrivando a percepirsi come un uomo
con delle difficoltà che però, attraverso l’utilizzo di alcune strategie, riusciva ancora a fronteggiare
(Borgo et al., 1991).
È lo stesso Andrea a descrivere con le sue parole, in una delle nostre ultime sedute, il suo nuovo
modo di approcciarsi alle difficoltà di ogni giorno: “riesco a tranquillizzarmi con più facilità, mi
riesce naturale in questo periodo, non mi abbatto come prima”.
Il paziente e la moglie, inoltre, ritenevano che la grande quantità di stress accumulata negli ultimi
quattro anni fosse dovuta anche al fatto che questi usasse tenersi tutto dentro senza mai dar sfogo
alle sue preoccupazioni. Questo lo aveva portato poi “ad esplodere”, causando le difficoltà per cui
era giunto in terapia. In effetti una delle cose che secondo Andrea lo hanno aiutato a star meglio è
stata quella di essere riuscito a parlare e ad aprirsi con me mentre, al di fuori del setting terapeutico,
“non riesco a tirar fuori tutto”. In seguito a questa sua comunicazione ho cercato di aiutarlo, innanzitutto,
a riconoscere i suoi stati d’animo spiacevoli, a dare loro un nome e poi a trovare dei modi
per esprimerli alla moglie e alla figlia. La modalità scelta da Andrea è stata quella di non rimandare
l’espressione dei propri bisogni e lo sfogo dei suoi malesseri, ma di affrontarli ed esplicitarli nel
momento in cui questi si verificavano. A detta dello stesso paziente e anche di sua moglie ciò ha ridotto
di molto il livello d’ansia di Andrea che ha riassunto la sua nuova abitudine con queste parole:
“Prima non parlavo perché avevo paura che parlando si accumulassero tensioni, adesso mi sono
reso conto che parlare subito allevia le tensioni”.
Anche la moglie di Andrea mi ha riferito che questi alla fine della psicoterapia gestiva meglio le
difficoltà, anche per il fatto di aver imparato a sfogarsi. Secondo lei, il marito aveva anche iniziato
ad affrontare la quotidianità con più calma e ad orientarsi meglio in casa, trovando con maggior
frequenza ciò che cercava.
In uno dei nostri ultimi incontri Andrea ha affermato di aver raggiunto un equilibrio soddisfacente,
anche se “ho ancora paura che mi succeda qualcosa, lo vivo come un sogno, non sono sicurissimo
di non cadere più. Sono sempre sul chi va là”. Anche in seguito a questa affermazione ho aiutato
Andrea a sdrammatizzare, aiutandolo a comprendere che la terapia non faceva miracoli, che sicuramente
nella sua vita avrebbe incontrato altre difficoltà, ma che ora era maggiormente in grado di affrontarle,
essendo consapevole delle sue risorse ed essendo in possesso di maggiori strategie di
fronteggiarle. Il paziente ha risposto a questa mia affermazione dicendosi d’accordo e rivolgendomi
un ampio sorriso.
Si può, dunque, ritenere che Andrea abbia sufficientemente raggiunto gli obiettivi che avevamo
stabilito durante la stipula del contratto terapeutico. A conclusione della terapia, infatti, sulla base
dei colloqui e dei risultati della seconda somministrazione del CBA, non solo apparivano diminuiti i
suoi livelli d’ansia, ma anzi essa sembrava quasi totalmente scomparsa. Andrea riferiva, infatti, di
affrontare ora eventi da lui prima ritenuti ansiogeni in maniera più tranquilla e naturale. Raccontava,
inoltre, di sentirsi sereno e non più triste e scoraggiato e a conferma di ciò, nei nostri ultimi incontri,
appariva quasi sempre sorridente e scherzoso.
Nel corso della terapia, dunque, l’ipotesi di partenza sembra aver trovato conferma; in effetti riducendo
di molto i livelli d’ansia con cui il paziente si approcciava alle quotidiane incombenze della
vita e innalzando il tono dell’umore, le prestazioni cognitive, pur non avendo raggiunto dei risultati
ottimali, apparivano sia ai test neuropsicologici, sia da quanto riportato dallo stesso Andrea e da sua
moglie, migliorate; analogamente, nel complesso, notevolmente migliorata appariva la sua qualità
di vita.
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Wells A. (1999). Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Milano: McGraw-Hill.
198 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

I MIEI OCCHI SONO PIÙ CHIARI DEI TUOI.
Di Anna Tomasello, Psicoterapeuta, mail: annatmsl@libero.it
Cenni anamnestici
Simona ha 35 anni, ha i capelli di colore castano, gli occhi celeste chiaro e una carnagione molto
chiara. È ordinata e curata nell’aspetto. È nubile e non ha una relazione sentimentale. In passato ha
avuto una storia di breve durata ed un fidanzamento.
Ha il diploma magistrale: in passato ha lavorato come segretaria e commessa per brevi periodi, ma
attualmente è disoccupata,
Vive in famiglia: il padre è pensionato, la madre è casalinga (il marito non voleva che lavorasse)
ed ha una sorella di 25 anni, studentessa di medicina, alla quale è molto legata.
Ha poche amicizie, che definisce più che altro conoscenze. Dice di avere difficoltà a confidarsi
con un’amica e pensa che “degli amici in fondo non ci si può mai fidare” perché non c’è un legame
di sangue. Le amicizie non sono destinate a durare, prima o poi succede che ci si allontana.
Motivo della richiesta
Quando le chiedo il motivo per il quale ha chiesto un colloquio, mi dice che vorrebbe neutralizzare
i pensieri ossessivi, incentrati sulla bellezza, che ha ultimamente verso la sorella, e aggiunge di
avere “una storia clinica complicata”. Inizia a raccontare quando sono sorti i primi disagi: tutto è
cominciato tre anni fa quando ha avuto uno stato depressivo a causa di un ragazzo che frequentava e
che “si è comportato male”. Si è rivolta ad uno psichiatra che le ha prescritto una cura, seguita per
circa un anno.
Mi spiega che non ha mai avuto rapporti sessuali, perché vorrebbe rispettare il valore della verginità
trasmessole dalla famiglia e dalla Chiesa (è molto credente e praticante). Tuttavia inizia a rendersi
conto di come sia difficile mantenere questa scelta. D'altra parte sarebbe troppo forte il senso
di colpa nei confronti dei genitori se la violasse.
Dice di non sentirsi realizzata perché a 35 anni non è ancora sposata e non ha una laurea. Ha abbandonato
l’università (facoltà di lettere) perché aveva bisogno di tanto tempo per preparare gli esami
e il percorso era troppo lungo per lei. I suoi genitori avevano approvato la sua scelta, confermando
l’idea che l’università non fosse “cosa per lei”.
Inoltre non ha un lavoro e non saprebbe neanche cosa fare: alla base sembra esserci l’idea che
qualunque lavoro senza una laurea non avrebbe molto valore.
Contesto familiare
La famiglia di Simona viene descritta come molto unita, rigida, tradizionalista, con una forte aderenza
ai valori morali e religiosi. I genitori hanno trasmesso ai figli, sin da piccoli, la necessità di
seguire regole convenzionali di etichetta ed educazione.
Hanno inoltre incentivato atteggiamenti di controllo (non lasciarsi andare e mantenere una buona
immagine di sé) e chiusura verso gli altri, trasmettendo altresì un certo grado di sfiducia verso questi.
Descrive il padre, e la sua famiglia d’origine, come persone non generose con gli altri. Le ha sempre
detto “tieniti le cose per te”. Dice che ciò probabilmente l’ha influenzata nei suoi rapporti affettivi.
Sembra essere molto dipendente dal giudizio e dall'approvazione del padre che ha sempre tenuto
molto allo studio e alla cultura. In particolare questi considera la professione di medico come assai
prestigiosa. Ultimamente Simona si sente in colpa e ha la sensazione che preferisca la sorella poiché
sta riuscendo a laurearsi in medicina, in accordo con le aspettative del padre che l’aveva spinta ad
intraprendere questa strada.
La madre le ha trasmesso convinzioni quali “non dire agli altri le cose tue” o “non avere bisogno
Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012 199

degli altri”. Questo avveniva soprattutto durante l’adolescenza quando Simona, ad esempio, rimaneva
delusa per comportamenti di amiche che rendevano pubbliche le sue cotte. Dietro a queste affermazioni
c’era anche l’idea di non rivelare le proprie debolezze e difficoltà per mantenere
un’immagine di sé ideale, quasi di perfezione.
In famiglia è molto presente il tema della bellezza, considerata un parametro di valutazione importante.
Vengono valorizzati canoni di bellezza classici quali la carnagione chiara.
Storia del sintomo
I pensieri sulla bellezza l’hanno sempre accompagnata: da piccola le veniva detto che era bella,
ma percepiva che, per quanto fosse bella, sua madre lo fosse più di lei. A tal proposito mi dice che
la madre le ha raccontato a 10 anni un episodio avvenuto quando era più piccola, in cui la bisnonna,
pur considerando la sua carnagione chiara (indice di bellezza), valutava però quella della mamma
tutta un’altra cosa. Lei era infatti “scura” come la nonna paterna, che in famiglia non era molto
apprezzata. Simona mi spiega che è come se in quel momento le avesse insinuato un dubbio.
I primi pensieri ossessivi, a 13 anni, sono relativi alla bellezza di amiche e compagne di scuola,
soprattutto se queste hanno gli occhi azzurri. Sempre a A 13 anni, con la masturbazione, emerge la
paura della rottura della imene (accompagnata da senso di colpa per la perdita di qualcosa di valore
a causa sua). La preoccupazione dura qualche mese poi cessa la masturbazione. A 18 anni ricomincia
a masturbarsi ed emerge la stessa paura. In questo periodo i pensieri ossessivi diventano più evidenti.
A 20 anni, dopo una masturbazione si sente male: formicolio alla testa, orecchie sorde, giramenti
di testa. Mi racconta che questi sintomi durarono per qualche mese e quindi fece anche degli
accertamenti medici sollecitata dai genitori (ignari di ciò che le era successo) che diedero esito negativo.
Quando a 23 anni una cugina le ha chiesto di cresimarla ha dovuto rifiutare a causa dei pensieri
sulla bellezza che le sono sorti nei confronti della cugina. Lei stessa dice che alla base c’era la paura
del legame, il dover dare qualcosa e l’assunzione di responsabilità. In quest’occasione ha spiegato ai
suoi genitori il suo problema e hanno trovato insieme una scusa per rifiutare. Si è rivolta quindi ad
un neurologo che le ha prescritto una cura. Per alcuni anni è stata bene.
I pensieri di tipo ossessivo sono emersi nuovamente a 30 anni, nei confronti del fidanzato, e avevano
come oggetto il colore degli occhi. Questa relazione, che risale a 8 mesi fa, è durata 6 mesi.
Spiega che aveva avuto poche storie e quindi era forte il desiderio di viverne una. Tuttavia riconosce
che non c’è stato un forte coinvolgimento affettivo con questo ragazzo: non provava in effetti
emozioni. Il ragazzo aveva gli occhi azzurri e sin dall’inizio le sono comparsi dei pensieri ossessivi
nei suoi riguardi: doveva, infatti, confrontare il colore dei suoi occhi con quelli di lui, per verificare
se fossero più chiari dei suoi (quelli di lui erano un azzurro più intenso, quindi i suoi di colore celeste
erano i più chiari). Spiega la presenza di questi pensieri con il fatto che non era serena: lui era
cupo, introverso e ciò la metteva in ansia. Quando le chiedeva se fosse coinvolta, rispondeva che
era necessario del tempo, ma in realtà cercava di farselo piacere. Il fidanzato alla fine mette in discussione
il loro “amore” e si lasciano.
Da quando il fidanzamento è stato interrotto i pensieri ossessivi si sono spostati verso la sorella.
Diagnosi
Ho fatto l’ipotesi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo, poiché ne vengono soddisfatti i criteri diagnostici
suggeriti dal DSM-IV. Simona, infatti, riferisce di avere pensieri intrusivi e ricorrenti sulla
bellezza, che non sono semplici preoccupazioni e che le provocano disagio. Li riconosce come egodistonici
e cerca di neutralizzarli con ragionamenti che la tranquillizzano. Ritiene necessario ripetersi
le frasi che l’aiutano ad allontanare i pensieri ossessivi involontari, per ridurre il malessere ad
essi associati, anche se riconosce questi pensieri come irragionevoli e disturbanti. Nel corso della
terapia rivela, inoltre, di mettere in atto piccoli rituali di tipo scaramantico che delineano un disturbo
ossessivo-compulsivo di tipo superstizioso (Dèttore, 2003). Simona pensa che il fatto di compie-
200 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

e o meno determinati gesti, un certo numero di volte, in determinate situazioni, condizioni l’esito
degli eventi. Il rituale serve a neutralizzare o evitare che possano accadere eventi negativi a se stessa
o alla propria famiglia.
Concettualizzazione: ipotesi
Simona presenta un disturbo ossessivo-compulsivo caratterizzato da pensieri ossessivi sulla bellezza
che la spingono a fare un confronto con l’altro percepito come bello chiedendosi chi lo sia di
più. Sin da piccola nel contesto familiare ha identificato la bellezza come un parametro di valutazione
importante. Il perpetuarsi di questi pensieri intrusivi generano uno stato di disagio e di sofferenza
psicofisica. Simona tenta di ridurre o annullare tale disagio attraverso pensieri o ragionamenti che
pian piano diventano compulsioni (Dèttore, 2003). Ad esempio, per controllare i pensieri ossessivi
di confronto con la sorella sulla bellezza utilizza come strategia un pensiero di sottofondo “mi sarebbe
dispiaciuto se fosse stata più brutta”.
La presenza dei pensieri ossessivi sembra celare uno stato di insoddisfazione e insicurezza. La necessità
di fare in modo ossessivo il confronto con l’altro sulla bellezza (o su chi ha il colore degli
occhi più chiari, ad es.), sembra mirato ad ottenere uno stato di rassicurazione. Questa però è solo
temporanea, poiché seguita da senso di colpa (soprattutto quando questi pensieri sono rivolti alla sorella,
verso la quale “non dovrebbe” avere pensieri negativi) e disagio.
Alla base sembra esserci uno sfondo depressivo: Simona esplicita da subito uno stato di insoddisfazione
generale perché a 35 anni non è riuscita ancora a sposarsi e a laurearsi, avendo abbandonato
l’università. Ciò che la preoccupa di più è il non aver un fidanzato, aver perso delle occasioni. È
implicita l’idea che se si sposasse non cercherebbe un lavoro. Spiega che questa sua “problematicità”
le rende tutto più difficile e complicato. Sembra essersi creata un alibi ed essersi adagiata in
questa situazione.
Al momento della consultazione questi pensieri sono rivolti principalmente alla sorella. Infatti la
sorella ha appena iniziato a preparare la tesi di laurea in medicina, Simona dice che “in famiglia
non si parla d’altro”: il padre considera la laurea in medicina la massima aspirazione ed è stato lui
stesso a spingere la figlia a intraprendere questi studi. Confessa che inizia a provare un po’ di fastidio
e solitudine. È come se venisse messa da parte, soprattutto dal padre, del quale sente il bisogno
di approvazione.
Le rigide convinzioni morali e religiose trasmesse principalmente dai genitori hanno favorito lo
sviluppo di atteggiamenti, regole e assunti, che condizionano la sua vita e aumentano la difficoltà a
lasciarsi andare emotivamente (Bara, 2005). Ciò che la spinge a tenere tutto sotto controllo sembra
essere il bisogno di mantenere un’immagine di sé ideale e conservare l’autostima, valutata prevalentemente
in base alla propria integrità morale.
Obiettivi terapeutici
• Riduzione delle compulsioni per spezzare il circolo di auto-mantenimento legato al rinforzo
• Miglioramento qualità delle relazioni (imparare ad esprimere e condividere emozioni e stati
d’animo con gli altri)
• Imparare ad assumere più punti di vista rispetto alle situazioni. Raggiungere una visione di
sé e degli altri “multidimensionale”, relativistica, meno legata ai giudizi e reversibile.
• Trovare un lavoro o attività che la faccia sentire impegnata
• Riduzione pensieri ossessivi e ruminazioni mentali
• Ristrutturazione dei sistemi di convinzione irrazionali
Trattamento
Il nostro percorso è iniziato lavorando sui pensieri ossessivi, con le loro caratteristiche tipiche: la
non accettazione e la valutazione in termini negativi. Viene innanzitutto programmato il monitorag-
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gio di questi pensieri per coglierne il significato e la modalità di giudizio. A tale scopo le chiedo di
annotare durante la settimana i pensieri che le sorgono, spiegandole lo schema dell’ABC (Beck
1984; Wells, 1999). Dalla analisi dell’homework emerge che i pensieri vengono rivolti
principalmente alla sorella e si evidenzia come spesso, conseguentemente al pensiero di confronto,
Simona si dica frasi come “mi dispiacerebbe se lei fosse stata più brutta” oppure “non devo essere
per forza la più bella”. Ciò la tranquillizza, soprattutto perché si sente in colpa per questi pensieri
verso la sorella. In realtà dirsi queste parole sembra configurare un comportamento attuato per
ridurre l'emozione sgradevole, mentre il sollievo fungerebbe, a sua volta, da rinforzo a mantenere
questo comportamento (Sanavio, 1991). Le spiego perciò che deve cercare di lasciare andare
passivamente le intrusioni, pur ammettendone la presenza. Le assegno quindi come compito quello
di cercare, d’ora in avanti, di non giudicare i pensieri ossessivi (Wells, 1999). Pian piano Simona
riesce, anche se con difficoltà e non tutte le volte, a non valutare i suoi pensieri ossessivi e a gestirli
meglio.
Nel corso dei colloqui abbiamo ridiscusso alcuni eventi significativi legati alle sue relazioni affettive.
Ne è stata in particolare incoraggiata una rilettura per individuare gli schemi interpersonali e le
modalità di relazione. Simona ha riflettuto sulle emozioni e gli atteggiamenti relativi ad alcuni
episodi e ha provato ad assumere anche il punto di vista dell’altro per capirne le reazioni. E' divenuto
evidente come le convinzioni disfunzionali e i relativi pensieri automatici negativi influenzino
l’esperienza emozionale (Semerari, 2000).
Simona inizia così a prendere consapevolezza della sua “rigidità”. Riflettiamo come questo controllo
stringente sia condizionato da idee che le sono state trasmesse (ad es. “non dire o dare cose
agli altri”), dalla paura che gli amici possano tradirla e da un ideale di perfezione, che le impone di
non mostrare le proprie difficoltà o debolezze. Quindi le propongo di provare, d’ora in avanti, a lasciarsi
andare con gli altri e imparare a “condividere” con gli amici. Provando a sperimentare queste
nuova modalità, non senza qualche difficoltà, mi dice di essersi sentita più partecipe e di aver avuto
una sensazione piacevole di apertura verso l’esterno.
Con il tempo emerge la consapevolezza della necessità di trovarsi un lavoro per sentirsi realizzata
e svincolarsi dalla famiglia. A tal scopo dovrebbe decidere cosa fare, preparare un curriculum vitae
e vedere come muoversi. Immediatamente sorge una difficoltà: non sa cosa fare né riesce a valutare
cosa sia adatto a lei. È come se non essendosi laureata le sia preclusa la possibilità di sentirsi soddisfatta
dal punto di vista lavorativo e di realizzarsi. E' inevitabile il confronto con la sorella che si
laureerà in medicina. Prima pensava fosse un onore avere un medico in famiglia, ora pensa che la
sorella sarà sempre una dottoressa e lei no. Le chiedo di riflettere sul fatto che non ha mai pensato
di iscriversi in medicina, ha “scelto” di non farlo, forse perché non era quello che voleva: non sarà
mai una dottoressa per scelta. Le viene dato un homework sulle sue qualità: la seduta successiva mi
dice che ne ha trovate 2-3. Guardando l’elenco le faccio notare che invece sono più di dieci. Le qualità
riportate sono legate ad atteggiamenti e comportamenti di tipo morale (saper ascoltare, essere
gentile, essere riservata ecc.). Rinforzo il fatto che si tratti di qualità importanti e che non tutti posseggono.
E ne avrebbe potuto scrivere altre che però ha omesso. Ne segue una discussione sulla
consapevolezza delle esperienze e competenze possedute: la faccio riflettere sul fatto che molte volte
non è indispensabile essere sicuri di essere competenti prima di poter passare all’azione talvolta
basta un’accettazione ragionata del rischio con la prospettiva di poter imparare. Mi dice che pensa
che non ci si debba valorizzare troppo per non umiliare gli altri, “Bisogna essere umili”. Discutiamo
anche questa convinzione.
Successivamente viene rianalizzato il periodo scolastico. In realtà avevamo già affrontato l’argomento
in fase di assessment ma solo ora Simona riesce a parlarne descrivendomi meglio quel periodo.
Al momento della scelta della scuola superiore, ha deciso di fare il corso magistrale parificato
(non c’era quello statale) anche se il padre avrebbe preferito il liceo classico. Mi racconta che a livello
di profitto si manteneva sulla sufficienza, non era particolarmente motivata a studiare era
piuttosto presa dai suoi “pensieri” e dalle vicissitudini adolescenziali. In famiglia l’importante era
202 Psychomed N.1-2-3, Anno VII, Dicembre 2012

non perdere l’anno, ma in realtà l’argomento scuola veniva evitato, soprattutto dal padre che “soffriva”
all’idea che la figlia facesse una scuola parificata, al contrario della sorella che invece ha poi
frequentato il liceo classico e si è diplomata con il massimo dei voti. Riflettiamo sul ruolo di questi
mancati riconoscimenti scolastici e su quanto fare una scuola parificata abbia costituito un elemento
svalutante per lei e in particolare agli occhi del padre.
Nel frattempo Simona mi riferisce un piccolo rituale quotidiano che è comparso da un paio di
mesi, quando era già in corso la terapia: consiste nell’evitare di toccare alcuni oggetti per un totale
di 6 volte, il numero può essere minore o maggiore di sei ma non uguale a sei, perché è il numero
associato al diavolo. Il diavolo sta ad indicare il male. Le chiedo come se lo immagina, mi risponde
che non ha un’immagine ben definita: è bruttissimo, nero, grande, con le corna. In particolare questo
rituale si presenta in modo più strutturato la sera al momento di andare a dormire. Quando domando
a Simona che significato ha per lei quel momento della giornata, mi spiega che è il momento
in cui si chiude la giornata, va a riposare e si aspetta che il sonno sia tranquillo e faccia dei bei sogni.
Quindi il rituale sembra avere le caratteristiche del pensiero magico e un ruolo scaramantico:
mi spiega che le dà un senso di sicurezza toccare la maniglia della porta della stanza per assicurarsi
che questa sia ben chiusa e nessuna entità possa entrare. Tocca poi la radio per accertarsi che sia
spenta per non consumare energia elettrica. Le chiedo di provare a mettere in discussione il pensiero
magico e verificare cosa succeda toccando per 6 volte gli oggetti. Lei mi dice che non prevede
grosse difficoltà e che quindi proverà. Riflettiamo insieme anche su come la presenza di questo rituale
sia associata ad uno stato di ansia e disorientamento dovuto probabilmente alla maggiore consapevolezza
di sé raggiunta attraverso il percorso terapeutico e quindi al saper di dover fare qualcosa
per ottenere un cambiamento. Al colloquio successivo mi dice che in settimana ha eseguito
l’homework relativo al rituale e non ha avuto difficoltà, ma non è stata costante. Infatti è capitato
che per due sere non si sentisse di buon umore e, come se si volesse sentire rassicurata, non l'ha eseguito.
Quindi riprendiamo e approfondiamo l’importanza che Simona dà al fare dei bei sogni. Mi riferisce
che nei sogni prova emozioni e sensazioni che non si possono vivere nella realtà. Riflettiamo su
come nei sogni non vi sia un autocontrollo e probabilmente lei riesca a vivere emozioni così intense
perché nella realtà il controllo cognitivo che non le permette di viverle nella loro pienezza. Quindi
viene confutata la convinzione che nella realtà non si possano provare forti emozioni come nei sogni,
come ha sempre pensato, ma forse può esserci semplicemente una maggiore difficoltà nel lasciarsi
andare ad esse, elemento comunque superabile. Al colloquio seguente, mi riferisce che ormai
la sera prima di andare a dormire fa i sei tocchi tranquillamente, ma che in realtà c’è un altro rituale
legato al numero sei che ha difficoltà ad eliminare. Mi spiega che il conteggio è spesso presente anche
quando mangia. Nello specifico, si ritrova a contare i bocconi e fa attenzione affinché questi
non risultino nel totale uguale a sei. A questo punto Simona sembra essere più motivata a provare ad
eliminare anche questo rituale, verificando cosa succeda ingerendo sei bocconi anche se in questo
caso la difficoltà sembra maggiore in quanto si tratta di qualcosa da ingerire: è come se facesse entrare
il diavolo nel corpo ed ha paura che le possa succedere qualcosa di brutto.
Quando ci rivediamo verifico la messa alla prova del rituale del conteggio del cibo e mi riferisce
come in settimana abbia provato a ingerire volontariamente 6 sorsi d’acqua verificando che non le
succedeva nulla. Attuare la stessa procedura con il cibo le è risultato più difficile, perché l’acqua è
qualcosa di più leggero e meno consistente. Le dico che procedere per gradi: può essere la strategia
migliore per raggiungere un risultato e quindi può continuare a sperimentare secondo questa modalità
assumendo di volta in volta un minimo di rischio (Lakatos, Reinecker, 2005).
Quando ci rivediamo dopo la pausa estiva mi racconta che ha iniziato a lavorare in un call center:
sicuramente non è il lavoro della sua vita, tuttavia trova stimolante l’idea di lavorare, sentirsi impegnata
e mettersi alla prova. Sottolineo l’importanza di fare una nuova esperienza lavorativa con tutto
ciò che ne deriva. Rispetto ai rituali scaramantici legati al cibo, mi spiega che si è impegnata nel
metterli in discussione ingerendo sei bocconi. Non è stato semplice: inizialmente non è stata
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costante ma ha così potuto sperimentare concretamente che non succedeva nulla e ciò le ha dato
sicurezza. Ora dice di non attuare più conteggi mentre mangia.
Al colloquio seguente mi dice di sentirsi soddisfatta perché riesce a perseverare nel lavoro. Mi
racconta che, nonostante abbia incontrato delle difficoltà, cerca di non scoraggiarsi, al contrario di
altre colleghe che hanno invece lasciato il lavoro. Mi spiega che vedere gli ostacoli come piccole
sfide con se stessa l’aiuta ad affrontarli. Rinforzo questo atteggiamento e riflettiamo insieme su
come un tempo non avrebbe reagito così. Si mostra più fiduciosa verso il futuro: “le cose pian piano
possono cambiare”.
Diario della relazione terapeutica
Da subito ho percepito la rigidità e controllo di Simona, vivendo anche una sensazione di valutazione.
Ho quindi cercato di creare un clima accogliente in cui si sentisse compresa e libera di esprimersi
senza timore di essere giudicata. Inoltre ho ritenuto importante strutturare l’alleanza terapeutica
stimolando ed incentivando un comportamento collaborativo (Beck, 1984). Data la tendenza a
sottovalutarsi, ho cercato di motivarla ad attuare dei cambiamenti ma stando attenta a non trasmetterle
l’idea di non andare bene. Ho cercato di rinforzare le sue capacità per renderla consapevole
delle risorse che aveva ma tendeva a minimizzare. Abbiamo instaurato un rapporto di grande cordialità,
è passato tuttavia un po’ di tempo prima che sentissi una vera complicità. Il fatto di provenire
da una famiglia chiusa ha reso più difficile stabilire un contatto con lei e una maggiore apertura
ha costituito già un obiettivo terapeutico fondamentale. C’è voluto del tempo prima che Simona riuscisse
a raccontarmi alcuni episodi e vissuti personali: tanti aspetti sono riuscita a comprenderli e
inquadrarli meglio solo in un secondo momento. La disponibilità a coinvolgersi nella terapia, a provare
a superare le difficoltà veniva spesso ostacolata dalle paure. Pian piano ho però iniziato a cogliere
dei cambiamenti in lei e soprattutto una maggiore propensione a sperimentare legata
all’acquisizione di consapevolezza e sicurezza.
Conclusioni
Oggi Simona è più consapevole di sé, dei suoi schemi e ha messo in discussione alcune convinzioni
disfunzionali Ha imparato a riconoscere e comprendere i propri stati d’animo, ad entrare in
contatto con le proprie emozioni e con quelle degli altri. Ciò ha influenzato positivamente la qualità
e la gestione delle relazioni interpersonali. E’ riuscita a mettere alla prova piccoli rituali di tipo magico/scaramantico
che sono emersi nel corso della terapia. Sono inoltre diminuiti i pensieri ossessivi
e la tendenza alla ruminazione mentale. Ha assunto anche un atteggiamento meno rigido nel valutare
le situazioni e se stessa. Aver iniziato un’attività lavorativa è un importante traguardo: le permetterà
di mettersi alla prova e acquisire una maggiore sicurezza. Probabilmente non sarà sufficiente
per sentirsi realizzata professionalmente, ma ritengo che imparare ad aver fiducia nelle sue capacità
e risorse l’aiuterà nell’individuare il suo percorso.
Bibliografia
Bara B. (2005). Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri.
Beck A.T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Dèttore D.(2003). Il disturbo ossessivo-compulsivo. Caratteristiche cliniche e tecniche di intervento.
Milano: Mc Graw-Hill.
Lakatos A., Reinecker H. (2005). Terapia cognitivo-comportamentale nel disturbo ossessivo-compulsivo.
Un manuale terapeutico. Roma: Fioriti.
Sanavio E.(1991). Psicoterapia cognitivo e comportamentale. Roma: Carocci.
Semerari A. (2000). Storia, teorie e tecniche della psicoterapia cognitiva. Roma: Laterza.
Wells A. (1999). Trattamento cognitivo dei disturbi d’ansia. Milano: McGraw-Hill.
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IL DISTURBO PSICOTICO E LE SUE COMPLESSITÀ:
UN INTERVENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE.
Di Augusta D’Ottavio, Psicologa, Psicoterapeuta, libero professionista, mail: augustadottavio@gmail.com
Il presente caso clinico illustra le buone possibilità di applicazione di una psicoterapia cognitivocomportamentale
ad un disturbo psicotico. L’intervento è stato realizzato in regime di ricovero presso
una clinica psichiatrica ed evidenzia come l’impiego sinergico di terapia farmacologica, psicoterapia
individuale e di gruppo, possa produrre degli effetti evidenti sul benessere del paziente.
L’obiettivo del trattamento è stato di ricostruire le abilità di base necessarie a condurre una vita normale,
come la cura del proprio corpo, la pianificazione delle attività da svolgere durante la giornata,
e la capacità di instaurare e mantenere relazioni con altre persone.
Questo ha rappresentato senza dubbio un primo intervento e vuole essere l’inizio di un percorso
che dovrà continuare necessariamente dopo le dimissioni. Il contatto con i servizi specialistici esterni
ha in questo senso permesso di realizzare una pianificazione a lungo termine del trattamento.
La difficoltà principale è stata la creazione di una relazione con la paziente, ma superato questo
ostacolo iniziale è stato possibile intervenire utilizzando tecniche cognitive incentrate
principalmente sul potenziamento delle funzioni metacognitive che nella paziente risultavano carenti,
e tecniche comportamentali utilizzate soprattutto per la normalizzazione della routine quotidiana.
Il trattamento ha prodotto un evidente miglioramento; inoltre, l’inserimento in gruppi di reparto ha
permesso di consolidare le abilità acquisite nel corso della psicoterapia, ma anche di ottenere un rinforzo
dal gruppo stesso. Nonostante la complessità del disturbo, la terapia cognitivo-comportamentale
ha reso possibile - in associazione al trattamento farmacologico - una risposta più rapida alla situazione
di crisi ed una migliore qualità di vita.
Informazioni generali
L. ha 48 anni, e lavora presso un Ministero. Vive sola: ha interrotto da alcuni mesi una relazione
che durava da vent’anni. Al momento del colloquio dice di avere rapporti solo con la madre e con la
sorella maggiore, mentre con il padre e con la sorella minore ha interrotto qualunque relazione. Non
ha amici, gli unici conoscenti sono i colleghi di lavoro con cui tuttavia ha un rapporto molto superficiale.
Nella sua vita non esistono hobbies, tutte le sue energie sono focalizzate sul lavoro.
Ha conseguito il diploma di maturità classica e si è poi iscritta alla facoltà di scienze politiche
presso la quale ha sostenuto con successo otto esami.
È attualmente ricoverata presso una clinica privata in quanto da alcuni mesi ha iniziato ad abusare
di alcol. L. dice: “L’alcol mi calma, mi permette di affrontare il terrore e il panico che sento dentro
e che mi fa stare malissimo!”. Prima di arrivare in clinica, su indicazione del CSM, L. è stata ricoverata
presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura per quindici giorni, per abuso alcolico.
Si presenta al colloquio poco curata nell’aspetto, il suo viso è teso, immobile, dà la sensazione di
essere molto scettica e sospettosa. Non ha richiesto lei di fare dei colloqui, ma l’iniziativa è stata
dell’équipe medica. Precisa di aver già fatto psicoterapia: una di approccio transazionale, l’altra di
orientamento psicoanalitico, senza nessun risultato.
Fino al momento del ricovero è stata seguita privatamente da una psichiatra, ed ha assunto farmaci
antidepressivi per quasi trent’anni, infatti la paziente si presenta in clinica con una diagnosi di disturbo
depressivo maggiore.
Al momento è in trattamento farmacologico con antipsicotici. Il tono dell’umore è orientato in
senso depressivo.
La paziente riferisce di non riuscire più a vivere così come ha fatto finora, il suo problema sono le
relazioni con gli altri. Desidera disperatamente il rapporto con l’altro, ma poi prevale l’inadeguatezza
e si protegge da questa minaccia utilizzando “il sistema dell’ostilità e dell’invidia”. Nel momento
in cui si considera inadeguata comincia a provare rabbia ed invidia verso l’altro e questo porta poi
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ad uno scontro (verbale). Con questo sistema riferisce di riuscire a proteggersi dal confronto che
avverte come una minaccia.
L. racconta di stare malissimo da due anni, quando è arrivata nel suo ufficio una nuova capodivisione:
si tratta di una donna più giovane di lei, laureata, sposata e con un figlio. Questo le fa provare
un grande dolore per non essersi laureata e la fa sentire fallita per non aver avuto dei figli e per non
avere una famiglia, comincia quindi a provare rabbia ed invidia verso di lei. Si concentra sempre di
più nel lavoro, tanto da diventare sempre più esperta e suscitando a sua volta risentimento nella capodivisione
che infine la fa allontanare dal suo ufficio e trasferire in un altro reparto che a lei non
piace.
In quel periodo L. sviluppa un delirio, crede di essere pedinata dai servizi segreti, di avere microspie
in casa e che in televisione si parli di lei. Mi dice: “Questo accadeva perché volevano capire
come ero fatta”.
Nel frattempo propone una convivenza al suo compagno, lui rifiuta, e L. decide di interrompere
definitivamente la relazione che durava ormai da vent’anni. In quel periodo sta malissimo, prova
senso di inferiorità perché non è riuscita come gli altri a portare avanti la relazione, la sensazione è
quella di aver fallito. Le condizioni finiscono per aggravarsi ed L. comincia ad avere difficoltà di
concentrazione, a rendere meno, comincia a balbettare quando parla con gli altri, non avverte più
punti di riferimento ed inizia a bere.
Storia di sviluppo
L. trascorse la sua infanzia in una cittadina del centro Italia con i due genitori e le due sorelle. Ricorda
che i genitori erano molto severi, in particolare la madre era molto religiosa e categorica nel
separare il maschile dal femminile, il padre invece era giudicante e punitivo. L. si descrive come
una bambina vivace ed amante dello studio, e ricorda che la sorella maggiore la invidiava per queste
sue capacità, mentre con la sorella minore non aveva molti rapporti perché era piuttosto diversa da
lei. Dice: “Lei era molto pratica e realista, io invece amavo molto fantasticare sul mio futuro”.
Le piaceva fare giochi dinamici, soprattutto la corsa, e preferiva giocare con i maschietti. All’età
di 10 anni si trasferì con la famiglia in una grande città, ed in quel periodo cominciò ad avere le prime
difficoltà: lei era molto semplice nel modo di vestire e di pensare rispetto alle sue coetanee, e
questo le procurava difficoltà di adattamento, riferisce che a scuola la prendevano in giro soprattutto
per le sue idee religiose. I genitori le permettevano al di fuori della scuola di frequentare solo la parrocchia,
ed era questo l’unico luogo in cui riusciva ad avere qualche amicizia. A scuola non riusciva
a socializzare perché si sentiva diversa.
I genitori vengono descritti come punitivi, e soprattutto indifferenti e distaccati. L’ambiente familiare
appare caratterizzato da elevati livelli di controllo, e da processi relazionali e di comunicazione
inadeguati. Il sistema di convinzioni dominante era caratterizzato da diffidenza, paura e pericolo per
eventi negativi. La paura riguardava soprattutto i rapporti con l’altro sesso. Inoltre, la mancanza di
confini relazionali ben definiti ha impedito alla paziente la costruzione di una solida identità. Il clima
emotivo appare caratterizzato da elevati livelli di criticismo e isolamento sociale (Reda, 1986).
All’età di 18 anni infatti, L. conobbe un ragazzo con cui ebbe il suo primo rapporto sessuale. Il ragazzo
raccontò quanto accaduto agli amici della parrocchia e da quel momento L. si sentì rifiutata,
gli venne apertamente detto che si era comportata male e che non avrebbe dovuto farlo. Dopo un
anno circa L. interruppe la relazione con il ragazzo, si iscrisse all’università, ma dopo aver sostenuto
otto esami si chiuse in casa.
Cominciò ad avere sensi di colpa molto forti per il rapporto sessuale. Ricorda che in quel periodo
piangeva, non mangiava più, non voleva più uscire e venne ricoverata per la prima volta in un Istituto
Psichiatrico Universitario, dove subì sette elettroshock nell’arco di un mese.
All’età di 22 anni, in trattamento farmacologico con antidepressivi e dopo un parziale recupero
della sua condizione, iniziava il suo primo lavoro in una tipografia (il lavoro è stato scelto dal padre).
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Afferma che in quel periodo non sapeva più cosa voleva e smise quindi di desiderare qualunque
cosa.
Per alcuni anni ha continuato a svolgere questo lavoro, ma racconta che è stato proprio allora che
cominciò a manifestare dei comportamenti bizzarri: si chiudeva negli armadietti degli uffici per difendersi
dalla minaccia degli altri.
Qualche anno dopo vinse un concorso in un Ministero e venne assunta in qualità di impiegata in
un reparto amministrativo. Trascorse in quella fase un periodo di relativo benessere, lavorava con
interesse e coinvolgimento ed il lavoro le piaceva molto.
Decise ben presto di acquistare una casa per andare a vivere da sola. I primi tempi era molto contenta,
descrive la sua casa come una placenta in cui può rifugiarsi quando ha terminato la sua giornata
lavorativa, è contenta inoltre perché è riuscita ad acquistarla con un ingresso indipendente, e
questo per lei è molto rassicurante perché non deve interagire con gli altri condomini.
Tutto trascorreva in maniera piuttosto regolare finché l’arrivo della nuova capodivisione sconvolse
il suo equilibrio precario, e l’interruzione della relazione con il suo compagno aggravò ulteriormente
la sua condizione nonostante il rapporto sia sempre rimasto molto superficiale: si incontrava
con lui una volta alla settimana per fare una passeggiata o avere dei rapporti sessuali, ma questo le
bastava per sentirsi tranquilla.
Valutazione diagnostica
La paziente ha solo la sorella maggiore che si occupa dei lei; madre e padre vengono descritti
come molto distaccati, li vede raramente. L. si presenta al colloquio con un atteggiamento sospettoso
e scettico, mostra un atteggiamento conflittuale in quanto da un lato dice di essere stanca di ripetere
la sua storia senza poter essere aiutata, dall’altra vorrebbe recuperare l’allegria che da tanto
tempo le manca. Si descrive come una persona che ha un cattivo rapporto con i genitori. Senza dubbio
il nucleo del suo problema è quello delle relazioni con gli altri: vorrebbe andare verso l’altro,
ma poi prevale il senso di inadeguatezza, che la porta ad utilizzare dei meccanismi difensivi rappresentati
dall’ostilità e dall’invidia che la proteggono dal confronto, avvertito come una minaccia.
Si sente fallita, in quanto non è riuscita a costruirsi una famiglia e a laurearsi. Solo il lavoro può
rappresentare un rifugio a tutto questo, ma a causa di un problema sul luogo lavorativo con una capodivisione
L. sviluppa un delirio a sfondo paranoico.
Alla paziente è stato somministrato il test MMPI-2. Il test è risultato valido, e facendo riferimento
al DSM-IV è possibile fare una diagnosi di Disturbo psicotico NAS.
Non risultano soddisfatti criteri per un Disturbo Psicotico Specifico.
Nel seguente caso risultano soddisfatti i seguenti criteri per il Disturbo psicotico NAS:
• Eloquio disorganizzato (deragliamenti)
• Sintomi negativi: appiattimento affettività, alogia, abulia e anedonia
• Disfunzione sociale e lavorativa
La paziente ha avuto un delirio a carattere persecutorio alcuni anni fa. Dall’analisi funzionale riferita
all’ultima crisi emerge che la situazione attivante è rappresentata da una condizione in cui nasce
un confronto con l’altro, che fa sentire L. inadeguata ed innesca reazioni emotive caratterizzate da
rabbia e ostilità, seguite da un impulso a fuggire dalla situazione o dal desiderio di aggredire l’altro.
Si ipotizza che tali interazioni attivino schemi di competizione e autosvalutazione con i vissuti associati
di rabbia e ostilità verso chi le stimola tale risposta. La costruzione di tali situazioni nei termini
di competizione viene effettuata in ambito cognitivo tra ciò che lei avrebbe dovuto essere e ciò
che percepisce di essere. Questo la fa sentire inadeguata e fallita; gli schemi comportamentali
(Beck, 1984) di ostilità funzionano da meccanismo protettivo di evitamento di tali sensazioni spiacevoli
e penose, diminuendo o eliminando le occasioni di confronto con gli altri.
Il problema si manifestò già dall’età adolescenziale quando L. cominciò a scegliere di stare sola
piuttosto che stare con gli altri. Viveva la separazione come una sorta di protezione dai pericoli del
mondo, ma aveva comunque la sensazione di aver rinunciato a qualcosa: la crescita e il vivere.
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La malattia ha assunto per L. un significato funzionale: quando c’è riceve le attenzioni, il calore la
protezione della sorella, quando non c’è si sente sola e abbandonata.
Il disturbo di L. non è correlato agli effetti fisiologici di sostanze psicotrope, anche se la paziente
negli ultimi mesi ha abusato di superalcolici. I sintomi erano antecedenti al comportamento di abuso,
e persistono anche dopo la scomparsa dello stesso.
Percorso terapeutico
Durante il periodo di ricovero L. è stata trattata con farmaci antipsicotici al fine di alleviare la sintomatologia
acuta; quando giunse in clinica, infatti, la paziente non si alzava dal letto, non si pettina,
non si lavava. Lo sguardo era confuso e spaesato, diceva di sentirsi molto stanca ed il sonno era
piuttosto leggero. Il comportamento di abuso alcolico era in remissione. L’équipe medica predispose
di affiancare al trattamento farmacologico una psicoterapia cognitivo-comportamentale (Fowler
et al., 1997) ed in una fase successiva l’inserimento nei gruppi di reparto.
L’obiettivo era dunque rivolto, in una prima fase, alla riorganizzazione della routine quotidiana
che al momento del ricovero risultava compromessa e all’acquisizione delle abilità necessarie ad instaurare
una relazione con l’altro; ciò al fine di uscire progressivamente dallo stato di isolamento, e
sperimentare e consolidare all’interno dei gruppi di reparto le abilità acquisite (Scrimali, 2006). Il
lavoro è stato realizzato in regime di ricovero in modo tale da poter iniziare a gestire queste esperienze
in un ambiente protetto, auspicando un intervento post ricovero dei servizi specialistici esterni.
In fase iniziale l’obiettivo è stato rivolto innanzitutto alla costruzione di una solida alleanza terapeutica
(Bara, 2005) favorita dalla creazione di un clima accogliente e non giudicante.
Successivamente l’intervento ha mirato a normalizzare la routine quotidiana tramite la pianificazione
di attività da svolgere durante la giornata e l'assegnazione di un diario a tre colonne per
l’identificazione di fatti significativi, possibili interpretazioni, e clima emotivo.
Tra gli obiettivi a medio termine erano previsti un piccolo lavoro sull’analisi e potenziamento delle
funzioni meta cognitive (Semerari, 1999), tra cui, in particolare, un lavoro sul riconoscimento
delle emozioni; inoltre, era prevista un’analisi delle convinzioni di vulnerabilità rispetto al prossimo
e di ostilità da parte di questo (Beck, 1984), da realizzarsi mediante una ristrutturazione cognitiva.
Tra gli obiettivi a lungo termine vi sono la promozione di auto-efficacia (Bandura, 2000) ed autostima.
Si è iniziato facendo sperimentare in vivo alla paziente situazioni che possono essere fonte di paura
nelle relazioni con gli altri; si è proseguito con l'acquisizione della capacità di avviare una relazione
con altre persone e mantenimento di tale rapporto nei giorni successivi.
Quando L. si presentò al primo colloquio non era particolarmente interessata e partecipe, e la prima
difficoltà che mi sono trovata ad affrontare è stata proprio la costruzione di un rapporto con lei.
Ciò che mi colpiva era soprattutto il distacco con cui la paziente raccontava il suo problema, mi diceva
infatti che non riconosceva la voce come la sua, non riusciva a sentirla propria.
Al fine di instaurare un rapporto ho cercato di fornire un clima accogliente senza essere intrusiva,
e di assecondare il più possibile i tempi della paziente.
Tutto questo mi ha aiutato già nelle sedute successive a favorire un maggior contatto di L. con le
sue sensazioni ed emozioni: mi diceva, infatti, di sentirsi da qualche tempo “molto scomoda”, come
se avesse una pietra sullo stomaco che le faceva però avvertire il peso in tutto il corpo.
Dalla terza seduta in poi la paziente è arrivata desiderosa di parlare; così si è riuscite lentamente a
ricostruire la storia dei suoi problemi. Nonostante la maggiore apertura, la relazione terapeutica è
sempre stata tra gli obiettivi primari della seduta, perché avvertivo che una qualunque piccola cosa
avrebbe potuto incrinarla. Ho fornito pertanto sempre profonda empatia ed accettazione, e soprattutto
quell’ambiente privo di giudizi che tanto le è mancato. Ripercorrendo la storia personale e parlando
della sua famiglia per la prima volta, la paziente ha pianto, ricordando di come lei avesse provato
in tutti i modi a far capire che stava male e di come nessuno se ne sia accorto davvero.
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Le emozioni sono emerse sempre di più rievocando i ripetuti ricoveri nelle cliniche psichiatriche e
le sensazioni penose di quei periodi.
Progressivamente hanno cominciato ad attenuarsi i sintomi negativi del disturbo, l’eloquio è diventato
più organizzato, la cura di sé e del proprio corpo migliorata, così come la dimensione affettiva.
Dopo questa prima fase la paziente ha cominciato a chiedere ripetutamente all’équipe medica di
uscire: aveva paura che il ricovero in clinica potesse provocarle dei problemi sul lavoro. Ho dedicato
del tempo a questa tematica e ridefinito l’esperienza del ricovero come una fase che le permetterà
di riprendere con maggiore efficienza la vita lavorativa. Esprimendo comprensione per l’esperienza
difficile che sta vivendo, le ho esplicitato che anche noi dell’équipe desideravamo che venisse dimessa
al più presto. Lavorare insieme ci avrebbe permesso di raggiungere più rapidamente tale
obiettivo.
La paziente si è dimostrata collaborativa. Nelle sedute successive abbiamo cercato di esaminare le
difficoltà incontrate nell’esecuzione dei compiti proposti, come la compilazione del diario a tre colonne.
Ho cercato di ascoltare le sue difficoltà e di proporre una soluzione diversa che le permettesse
di riuscire nel compito assegnato e di accrescere la fiducia nelle proprie capacità.
Un’attenzione particolare è stata dedicata al lavoro sulle funzioni meta cognitive (Casacchia et al.,
2005), in particolare alle emozioni. Ho proposto una serie di immagini che raffigurano dei volti
umani ed ho invitato la paziente ad individuare l’emozione corrispondente. Sono state effettuate
delle simulazioni nel corso delle sedute per farle acquisire maggiore familiarità con questo processo.
Affrontata questa fase, l’obiettivo è stato quello di farla partecipare ai gruppi di reparto e capire
cosa avviene nella fase di costruzione della relazione con l’altro, avvalendosi delle competenze acquisite
fino a quel momento. La funzione del gruppo è stata dunque quella di aiutare ad individuare
le difficoltà e di rinforzare le competenze.
Esaminando una delle ultime situazioni che L. si è trovata ad affrontare, è emerso il tema del giudizio
e dell’inadeguatezza. Il lavoro si è focalizzato pertanto su questi temi e su delle simulazioni.
Durante i nostri incontri settimanali la paziente ha avuto la possibilità di acquisire nuovi strumenti
da applicare poi all’interno dei gruppi di reparto che si tengono tre volte alla settimana.
Inizialmente la paziente appariva un po’ scoraggiata, l' ho rinforzata pertanto sulle competenze acquisite
fino a quel momento e sul lavoro che ha positivamente portato avanti nel corso delle sedute:
le ho esplicitato che il lavoro è impegnativo e lungo e dovrà continuare dopo le dimissioni. Il nostro
obiettivo è pertanto quello di lavorare sulle principali abilità.
Nella fase conclusiva ho proposto alla paziente un breve training sulla comunicazione al fine di
migliorare le sue abilità nella comunicazione verbale e non verbale.
Ora la paziente sta molto meglio, sorride, il suo viso è rilassato, ma mi dice di aver paura che una
volta dimessa e tornata al lavoro troverà un mondo spietato e crudele che la schiaccerà.
Le spiego che l’ambiente della clinica, seppur protetto, rappresenta comunque una micro-società,
in cui ci sono molte persone diverse, e le competenze che sta gradualmente acquisendo potranno essere
utilizzate anche al di fuori della casa di cura.
Concordiamo di preparare insieme una serie di istruzioni scritte che L. una volta dimessa potrà
portare con sé. Queste le saranno utili nel momento in cui vorrà interagire con gli altri: basterà rivedere
le autoistruzioni che si è data.
Il modeling ha permesso di raggiungere un buon livello nella comunicazione non verbale nella
quale la paziente dimostrava di avere particolari difficoltà.
A questo punto l’équipe medica, visto il miglioramento della paziente e il buon adattamento raggiunto,
programma le dimissioni.
Dedico l’ultima seduta ad una rivisitazione del lavoro svolto insieme. La persona che ho ora di
fronte è molto diversa da quella incontrata nel primo colloquio: sorride, il suo viso è disteso, anche
se talvolta sono presenti dei lampi di preoccupazione. E’ contenta di uscire anche se intimorita da
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ciò che fuori la sta aspettando.
La relazione terapeutica
E’ stato molto difficile entrare in relazione con L., soprattutto nelle fasi iniziali, durante i primi
colloqui, quando il totale appiattimento emotivo rendeva quasi impossibile stabilire un rapporto con
lei. Ho manifestato nei suoi confronti empatia, totale accettazione dei suoi tempi e di lei stessa. Non
sono mai stata giudicante, evitando di perpetuare quella modalità avuta dai genitori. La creazione
inoltre di un ambiente accogliente e protetto ha permesso progressivamente alla paziente di aprirsi e
cominciare a sentire le proprie emozioni.
All’inizio ero piuttosto spaventata, sapevo che avevo di fronte una paziente che aveva già fatto altre
psicoterapie, che era in trattamento da molti anni, e che quindi difficilmente avrei potuto aiutare.
Ho cercato di gestire la mia paura dicendomi che comunque avevo gli strumenti per poter fare il
mio lavoro e avrei cercato di fare del mio meglio. Dopo questa prima fase di tensione mantenutasi
per le prime tre sedute, quando ho capito che non c’era nulla da temere, mi sono tranquillizzata e
anche il clima tra di noi si è disteso.
La difficoltà iniziale era legata anche alla difficoltà di L. a dare una continuità al rapporto terapeutico:
nelle sedute il lavoro di costruzione del rapporto doveva sempre ricominciare daccapo. L. applicava
quello stesso schema di relazione applicato ad altre persone: SE sono entrata in rapporto,
ALLORA rifiuto questa relazione (perché intollerabile).
Già dalla terza seduta in poi la paziente ha iniziato ad essere più distesa, a sorridere, e parlare con
maggiore coinvolgimento delle sue esperienze. La relazione è diventata più serena e L. si è mostrata
sempre più interessata e desiderosa di iniziare le nostre sedute, all’inizio sembrava quasi le vivesse
come un’imposizione.
Il rapporto si è consolidato nel momento in cui L. ha iniziato a sviluppare le prime competenze e
acquisire maggiore fiducia nelle proprie capacità; a questo punto la figura della terapeuta è diventata
un riferimento (Bowlby, 1989).
Ho cercato di essere sempre presente, anche nelle settimane di festività, e farle sentire in questo
modo la mia vicinanza e il mio sostegno.
Non ho mai tralasciato di fornire feedback positivi sulle sue abilità, considerando la tendenza della
paziente a scoraggiarsi.
Il rispetto dei tempi personali, la piena fiducia, e l’incoraggiamento hanno permesso di sviluppare
un clima collaborativo che ha facilitato il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.
La strutturazione di un rapporto più saldo si è evidenziato anche dal desiderio di L. soprattutto
nelle ultime sedute di rimanere oltre la durata prevista, il suo desiderio era quello di continuare.
La relazione a conclusione del percorso terapeutico era improntata ad una grande collaborazione e
questo ha permesso di raggiungere il primo e più complesso obiettivo del nostro lavoro insieme.
Conclusioni e catamnesi
Il giorno delle dimissioni L. è curata nell’aspetto, tra breve riprenderà il lavoro ed ha in programma
di iscriversi ad un corso di ballo, in quanto vuole dare spazio finalmente a quella dimensione ludica
che ha sempre tralasciato. Il viso è piuttosto rilassato, sorride, e dice che tutto sta andando
bene, anche se teme il rientro al lavoro in quanto proprio in ufficio si erano manifestati gli eventi
che avrebbero poi dato luogo alla sua crisi.
L’indicazione fornita alla paziente è quella di applicare quanto appreso, esattamente come già realizzato
nella clinica. L. ha già preso contatti con la psichiatra che la seguirà privatamente e le fornirà
il sostegno necessario ad affrontare il rientro nel contesto lavorativo.
La capacità di concentrazione risulta migliorata e la paziente riesce a svolgere delle attività che
prima la facevano stare male, come leggere, fare una passeggiata o andare al mare.
Il lavoro da effettuare con L. risulta ancora lungo in quanto bisognerà lavorare sulle relazioni
emotivamente più coinvolgenti, tuttavia gli obiettivi impostati all’inizio della terapia sono stati rag-
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giunti.
La paziente è riuscita a riorganizzare la sua routine quotidiana che risultava compromessa, a tenere
un diario, a riconoscere le emozioni, a formulare delle ipotesi esplicative diverse di uno stesso
evento, stabilire relazioni con gli altri e partecipare ai gruppi di reparto.
Tutto questo ha permesso inoltre di vedere il ricovero come un’occasione, e non come punto di
non ritorno, ed iniziare dalle basi gettate insieme un lavoro più profondo e duraturo.
Bibliografia
American Psychiatric Association (1996). DSM-IV. Milano: Masson.
Bandura A. (2000) Autoefficacia: teoria e applicazioni. Trento: Erickson.
Bara B. (2005) Nuovo Manuale di Psicoterapia Cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri.
Beck A. T. (1984). Principi di terapia cognitiva. Roma: Astrolabio.
Beck A.T., Rector N.A. (2004) Special Issue on Cognitive Theory and Therapy of Schizophrenia.
Journal of Cognitive Psychotherapy, 18 (4).
Bowlby J. (1989). Una base sicura. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Casacchia M., Mazza M., Frangou I., Giosuè P., Roncone R. (2005). La riabilitazione meta-cognitiva
nella schizofrenia, in C. Di Berardino (ed.), L’approccio multimodale nella riabilitazione psichiatrica.
Milano: McGraw-Hill.
Fowler D., Garety P., Kuipers E. (1997). Terapia cognitivo-comportamentale delle psicosi. Teoria
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Garety F. A. (2003) The future of psychological terapies for psychosis. World Psychiatry, vol.2
n.3, 147-152.
Guidano V. F. (1988) La complessità del sé. Torino: Bollati Boringhieri.
Reda M. (1986) Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia. Roma: Carocci.
Semerari A. (a cura di). (1999) Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Metacognizione e relazione
terapeutica. Milano: Raffaello Cortina.
Scrimali T. (2005a). La schizofrenia, in Bara B. (a cura di). Nuovo Manuale di Psicoterapia Cognitiva.
Torino: Bollati Boringhieri.
Scrimali T. (2005b). L’assessment della disabilità, in Di Berardino C. (a cura di), L’approccio
multimodale nella riabilitazione psichiatrica. Milano: McGraw-Hill.
Scrimali T. (2006). Entropia della mente ed entropia negativa. Milano: Franco Angeli.
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PROPOSTE EDITORIALI
I dilemmi del supervisore: teoria e pratica della supervisione clinica in psicoterapia.
Recensione al volume di Stefania Borgo: “Supervisione clinica”
(Alpes, Roma 2010),
di Francesco Aquilar, Psicologo e psicoterapeuta. Didatta SITCC (Società Italiana di Terapia
Comportamentale e Cognitiva), Presidente AIPCOS (Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva
e Sociale), Napoli.
Il pregevole volume “Supervisione clinica” di Stefania Borgo ha una qualità insolita e assolutamente
necessaria sia per coloro che si occupano responsabilmente di supervisione clinica che per i
giovani psicoterapeuti che si affacciano al mondo professionale: si occupa concretamente di pratica
della teoria. E lo fa non soltanto documentando chiaramente (e alleviando direttamente) le difficoltà
degli psicoterapeuti all’inizio della loro pratica clinica, ma anche non dimenticando l’altro aspetto
reciproco di riferimento, che è quello della teoria della pratica (ben noto agli psicoanalisti, e talvolta
un po’ trascurato dai cognitivisti).
Intanto, la struttura del volume è precisa e volutamente priva di fronzoli: il lettore entra direttamente,
con un attacco immediato in medias res, nello studio del supervisore, ascolta direttamente il
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caso clinico raccontatogli dal collega meno esperto, e si confronta in un elastico cronoprogramma
con le risposte del supervisore, che si allargano anche – di volta in volta – a ben 15 specifici temi
teorico-clinici sottesi alla problematica di volta in volta affrontata. Fin da subito, il lettore conosce
la diagnosi e il contesto terapeutico, in modo da poter orientare correttamente la sua attenzione. E
rapidamente si rende conto del fatto che saranno esaminati con cura 18 esempi di problemi psicologici
molto seri e diffusi. I casi clinici riportati, infatti, riguardano: 1) Aggressività/problemi relazionali;
2) Attacchi di panico; 3) Problemi relazionali; 4) Depressione, insonnia ed emicrania; 5) Disturbo
somatico da stress; 6) Problemi adolescenziali; 7) Schizofrenia; 8) Disturbi alimentari; 9)
Depressione (di altro tipo); 10) Ritardo mentale; 11) Depressione (ancora in un’altra variante); 12)
Depressione (di nuovo diversa); 13) Insonnia; 14) Parafrenia; 15) Bulimia; 16) Agorafobia; 17)
Amenorrea; 18) Disturbo ossessivo. Il fatto che ricorra quattro volte la depressione, in varie forme,
testimonia numericamente quanto questo aspetto possa attraversare trasversalmente più problematiche.
La scelta di utilizzare i trascritti, indipendentemente dalla opinione che si può avere su questa modalità,
presenta indubbi vantaggi: innanzi tutto, la comunicazione è “vera”. Infatti, ogni psicoterapeuta
esperto può riconoscere la congruità del caso clinico, e grazie al tipo di formulazione dello
stesso appare immediatamente possibile al lettore formarsi un’idea precisa del paziente. Poi, rappresenta
una guida efficace per il giovane psicoterapeuta: la costante attenzione ai dettagli, i riepiloghi
clinici, il monitoraggio dello svolgimento della psicoterapia, i richiami ai passaggi teorici sono tutti
elementi necessari per una buona pratica clinica, e sono mostrati con assoluta chiarezza. Infine, il
tipo di dialogo riportato allena il lettore allo sviluppo delle proprie capacità metacognitive e
metacomunicative, favorendo un decentramento e una comprensione critica rari e del tutto
apprezzabili.
Fin qui, la parte fecondamente utile per studenti, specializzandi e giovani psicoterapeuti. Ma il contributo
a mio avviso più euristico del volume è nella fine, anche se questa parte richiede una lunga
pratica psicoterapeutica per poterne apprezzare la complessità, l’efficacia e la universalità. Si tratta
del fondamentale ultimo capitolo, centrato formalmente sugli aspetti teorici della supervisione clinica
e sulla teoria della pratica in azione. Come diceva Kurt Lewin (e non solo lui), non c’è niente di
più pratico di una buona teoria. E la teoria proposta da Stefania Borgo appare ampia, esaustiva e soprattutto
super partes, consentendosi il lusso di poter essere accettata non solo all’interno del paradigma
cognitivista e cognitivo-comportamentale (cui l’Autrice, e anche chi scrive, appartengono),
ma anche riferendosi alla “Psicoterapia” tout court, intesa come disciplina autonoma e adulta, non
più vincolata a polemiche di scuola. L’analisi delle funzioni della supervisione svolta dall’autrice è
serrata e multicomprensiva; il parallelo con l’approccio dinamico (e implicitamente con altri modelli:
valga per tutti la citazione di Carkhuff, noto esponente della psicoterapia umanistica) è rigoroso e
non egocentrico; l’operazionalizzazione delle funzioni è al di là delle opinioni; e, infine, i riferimenti
ai fattori contestuali e ai fattori di potere appaiono rigorosi, senza paura e soprattutto immuni da
luoghi comuni.
Per cui l’effetto del volume è molteplice: a) utilità specifica per studenti e specializzandi; b) graduale
autonomizzazione dei giovani colleghi psicoterapeuti; c) sviluppo di una paritarietà creativa
con loro, di pura matrice maieutica; d) sfida intellettuale appassionante per i colleghi supervisori.
Questi ultimi, in tal modo, si confrontano direttamente non solo con la loro teoria della pratica, ma
anche e soprattutto con la mappa concettuale ed emotiva collegata all’esperienza del trasfondere la
scienza, l’arte e la cultura della psicoterapia alle generazioni più giovani (per contagiarle con il nostro
entusiasmo), non dimenticando le generazioni più esperte. Per aiutarci a mantenere un approccio
permanentemente euristico, morbidamente autocritico, veramente compassionevole nel senso di
Paul Gilbert, e soprattutto saggiamente ironico. Senza mai dimenticare la documentata scientificità
della psicoterapia (inclusa la didattica professionale), e il rigoroso rispetto dei pazienti, delle loro
storie, e dei colleghi dalle differenti legittime opinioni.
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CONGRESSI INTERNAZIONALI
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CONTRIBUIRE A PSYCHOMED
Psychomed è una rivista quadrimestrale di psicoterapia, medicina comportamentale, psicologia
della salute e preventiva, pubblicata dal Centro per la Ricerca in Psicoterapia (CRP), congiuntamente
con la Società Italiana di Medicina Psicosociale (SIMPS), l'Associazione Italiana di Psicologia
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