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VII – VIII - Convegnoat2012.it

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3. RELAZIONI<br />

PARTE II<br />

SESSIONE <strong>VII</strong> e <strong>VII</strong>I


PARTE II<br />

SESSIONE <strong>VII</strong> - Moderatore Massimo Gubinelli


Io sono qui: nuove frontiere per l’Analisi<br />

Transazionale<br />

L’A.T. per pazienti traumatizzati cranici<br />

R. Musso<br />

Il mio intervento vi condurrà attraverso un lavoro psicoterapeutico in un ambito inusuale<br />

quale un reparto di pazienti con traumi cranici in fase post comatosa 1 che, a mio avviso, è<br />

stato molto “potente” e si è basato su dei concetti profondi quali le posizioni esistenziali<br />

teorizzate da Berne e i concetti neuro fisiologici di simulazione incarnata e neuroni<br />

specchio proposti da Gallese e altri studiosi che hanno permesso di instaurare con questi<br />

pazienti una relazione terapeutica densa di significati molti dei quali inconsapevoli 2 che<br />

hanno portato ad un cambiamento importante per la qualità della vita dei pazienti.<br />

Il contesto nel quale ho operato per più di 4 anni è una clinica nella quale affluivano<br />

pazienti provenienti dalle rianimazioni di tutta la regione che avevano avuto un periodo più<br />

o meno lungo in un Reparto di Rianimazione di qualche Ospedale pubblico in seguito ad<br />

un coma legato ad un trauma cranico.<br />

Ognuno di questi pazienti ha acquisito nel mio percorso professionale e personale un posto<br />

particolare. Con ognuno di loro ho approfondito, non solo da un punto di vista cognitivo<br />

ma anche emotivo, le dinamiche relazionali basate su canali comunicativi spesso non<br />

espliciti.<br />

Entrare nel reparto di questa clinica vuol dire lasciare fuori schemi cognitivi legati alla<br />

rappresentazione della realtà da un punto di vista razionale e assumere ciò che Berne<br />

definisce un pensiero “marziano”.<br />

1 L’elemento discriminante che identifica la grave cerebrolesione acquisita è rappresentata dal coma come<br />

elemento di sofferenza cerebrale diffusa. Nel Trauma Cranioencefalico la sofferenza cerebrale è dovuto al<br />

danno diffuso, principalmente assonale, ma anche vascolare e parenchimale dovuti alle forze di accelerazione<br />

a cui è sottoposto il cervello nel momento del trauma. Anche nelle condizioni non traumatiche si può<br />

verificare una sofferenza diffusa quando le condizioni di aumento della pressione endocranica (esempio<br />

emorragia etc.), per lesione di regioni specifiche (sistema Reticolare ascendente, lesioni bifrontali estese etc.),<br />

encefaliti (infezioni virali etc.) o condizioni di anossia (arresto cardiaco etc.).<br />

2 D’accordo con le teorizzazioni proposte da Sills e Fowlie (2011) relative all’Analisi Transazionale<br />

Relazionale alla quale rimandiamo per eventuali approfondimento


Con ciò intendo dire che nella maggior parte dei casi le persone degenti avevano<br />

piccolissimi cambiamenti in tempi molto lunghi. Piccolissimi cambiamenti che però<br />

permettevano di mantenere la speranza che il lavoro che stavamo facendo avesse un senso<br />

e che potesse portare ad una qualità di vita migliore.<br />

La maggior parte di loro aveva avuto incidenti stradali (macchine, moto o motorini), alcuni<br />

casi erano invece rappresentativi di deficit vascolari nelle zone cerebrali (per lo più ictus o<br />

aneursismi).<br />

Per riuscire a farvi capire meglio questo tipo di realtà (e non prendete questa mia<br />

affermazione come una svalutazione ma come una carezza legata alla complessità della<br />

situazione) voglio proporvi una fotografia metaforica del mio reparto.<br />

Entrando da una porta antincendio si accedeva ad un corridoio con pareti colorate di un<br />

verde pastello dove si affacciavano le diverse stanze nelle quali c’erano 2 letti con pazienti<br />

con traumi cranici in diverse sedi cerebrali.<br />

I pazienti erano suddivisi a seconda della gravità del trauma.<br />

Alla fine del corridoio c’era una grande stanza con 8 letti dove c’erano i pazienti in Stato<br />

Vegetativo o in Minima Responsività 3 monitorati h24 da medici ed infermieri.<br />

Immaginatevi, entrando, un profumo di pulito misto a medicinali, tipico degli ospedali, un<br />

gran silenzio, interrotto da urla di pazienti con lesioni frontali che si opponevano<br />

massicciamente agli interventi riabilitativi o medici a loro proposti.<br />

Le età dei pazienti erano variabili dai 16 ai 70 anni.<br />

Immaginate ora:<br />

- alcuni ragazzi di 15/16 anni che dopo incidenti in motorino, nel migliore dei casi avevano<br />

3 La condizione di coma è sempre temporanea poiché nell’evoluzione clinica o la persona muore oppure<br />

passa ad un’altra condizione in genere definita come Stato vegetativo. Le condizioni cliniche sono<br />

classificabili attraverso la rilevazione di due aspetti: la vigilanza e la consapevolezza. In condizioni normali<br />

la vigilanza e la consapevolezza sono presenti (Laureys, Owen et al. 2004). Nella condizione di coma, sia ha<br />

la vigilanza che la consapevolezza sono a livelli molto bassi provocando un’assenza di contatto con<br />

l’ambiente, la chiusura degli occhi e la scarsissima attivazione motoria. Nello Stato vegetativo il paziente<br />

comincia ad aprire gli occhi, ad acquisire un ciclo sonno-veglia praticamente normale senza dare segni<br />

evidenti di contatto con l’ambiente. In questa condizione la vigilanza e alta ma la consapevolezza è assente.<br />

Lo stato di minima coscienza è molto simile allo Stato vegetativo tranne che per il fatto che la<br />

consapevolezza comincia ad emergere attraverso i minimi contatti con l’ambiente, in genere incostanti.<br />

Un’ultima condizione, la sindrome di Locked-in, è, di fatto, particolare in quanto è rappresentata da uno stato<br />

di disconnessione motoria e quindi di assenza di interazione con l’ambiente, in presenza di una<br />

consapevolezza e vigilanza normali. In questa condizione, infatti, il paziente interagisce in modo corretto con<br />

l’ambiente esterno attraverso i movimenti oculari. In questa visione schematica non possiamo non<br />

considerare che, probabilmente, molte condizioni di Stato vegetativo o stanno minimamente cosciente<br />

possono essere dovute a un problema di output motorio impedendo al paziente di interagire con il mondo<br />

esterno. Con un neologismo potremmo definire queste condizioni come “Locked-in alte”. Con gli studi di<br />

risonanza funzionale questo aspetto, allo stato attuale speculativo, potrà essere approfondita ed<br />

eventualmente scientificamente confermato.


mantenuto la vita, ma con un danno nel lobo frontale così massiccio che non erano più in<br />

grado di contenere i loro scatti di rabbia e aggressività. A distanza di anni tornavano a<br />

trovarci con famiglie e vite distrutte (fuori dalla clinica non c’erano strutture che gli<br />

garantivano un sostegno psicologico, la loro aggressività limitava se non azzerava le loro<br />

relazioni sociali, spesso si manifestava in casa contro i familiari che erano soli a doverla<br />

affrontare).<br />

- uomini e donne adulti che in seguito a interventi chirurgici erano rimasti in stato<br />

vegetativo o in minima responsività.<br />

- persone che a causa di incidenti sul lavoro avevano subito dei traumi frontali che avevano<br />

per sempre compromesso la loro funzionalità psicologica e sociale.<br />

Una caratteristica comune di queste persone è che il loro corpo dimostra che ci sono, sono<br />

lì proprio di fronte a noi, ma dopo pochi minuti anche l’osservatore più distratto si rende<br />

conto che lì davanti a lui la persona che vede “non c’è” o per meglio dire non è più come si<br />

aspetta che sia.<br />

La relazione che si può instaurare con questa persona, non può prescindere dal doverla<br />

vedere per ciò che è diventata, integrando il deficit neurologico nel nostro stare insieme.<br />

È proprio a questo punto che è cominciato il mio pensiero marziano, è qui che è<br />

cominciato il mio iniziale sconforto professionale legato alla totale assenza di certezze, alla<br />

piccolissima bibliografia relativa al lavoro psicologico con questi pazienti, alla necessità da<br />

parte mia di pormi in ascolto di un mondo per me fino a quel momento totalmente<br />

sconosciuto.<br />

Il mio lavoro terapeutico ha avuto quindi come inizio un lungo periodo di osservazione, nel<br />

quale ho avuto bisogno di sintonizzarmi con quella specifica persona e con la sua<br />

situazione.<br />

Ho osservato l’angoscia legata all’incapacità da parte del paziente di trovare le parole per<br />

descrivere ciò che accadeva (molte persone avevano gravi problemi di afasia), con<br />

l’irrefrenabile voglia di urlare o di prendere a pugni una madre che disperata non sapeva<br />

come fermare il figlio adolescente: lo riconosceva nel corpo, ma non era più come prima,<br />

suo figlio era pronto a picchiarla per un nonnulla.<br />

Ho visto la paura che si leggeva negli occhi di una giovane madre che di fronte ai suoi<br />

piccoli bambini non li riconosceva più, e cercava di allontanarli con calci mentre loro le si<br />

aggrappavano sulle gambe per abbracciarla.<br />

Ho osservato tante persone bloccate in un corpo totalmente irrigidito che dal loro letto


avevano occhi fissi che guardavano qualcosa di invisibile a noi, che ti guardavano con uno<br />

sguardo totalmente disconnesso, per i quali un grande successo era agganciare il loro<br />

sguardo e farti seguire nei movimenti che facevi.<br />

Tutto era diverso da prima dell’incidente, tutte le aspettative su come si sarebbe<br />

comportato un paziente in una particolare situazione sociale ed emotiva (in presenza o<br />

meno di persone care) erano disattese.<br />

Quello che succedeva aveva quindi diversi attori: il paziente, i familiari, il personale<br />

sanitario... me.<br />

Occorreva data la complessità della situazione, trovare qualche punto comune con il quale<br />

avvicinarmi ai pazienti.<br />

Ho cominciato così ad entrare sempre più in questa realtà, consapevole che “per<br />

comprendere l’altro, cioè per imitare i suoi sentimenti in noi stessi, noi ci mettiamo in una<br />

prospettiva di imitazione interna che in qualche modo fa sorgere dei sentimenti in noi<br />

analoghi, in virtù di un antica associazione tra movimento e sensazione” (Nietszche).<br />

Già Freud nel 1926 diceva che “è solo per mezzo dell’empatia che siamo in grado di<br />

conoscere l’esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra”.<br />

Man mano che passava il tempo ho trovato le costanti tra gli attori di questa terribile realtà:<br />

il profondissimo lutto vissuto in maniera diversa da ogni persona e la necessità per ognuno<br />

di continuare a sentirsi OK.<br />

Per quanto riguarda il lutto credo che in una situazione come questa sia necessario creare<br />

una categoria particolare, cioè il lutto vissuto ha la particolarità dell’irreversibilità (il danno<br />

neurologico non può più cambiare) ma per aiutare i pazienti e le loro famiglie ad avere una<br />

qualità della vita accettabile non si può perdere la speranza, per quanto poco realistica, che<br />

ci possa essere una ripresa, o un parziale cambiamento. Senza la speranza la motivazione<br />

per affrontare questo momento tragico svanirebbe con l’aumento di stati depressivi e di<br />

sintomatologie psicologiche gravi.<br />

Come fare allora? Come elaborare il lutto che tutto non sarà mai più come prima, che la<br />

persona che ero e che continuo a vedere allo specchio, l’uomo o la donna che amo, mio<br />

figlio, non ha più nessuna chance, e continuare a sperare di raggiungere risultati<br />

soddisfacenti, che poi gli permetteranno di sentirsi ancora persona?<br />

Anche qui era necessario cambiare ottica.<br />

Dopo questa prima fase di osservazione ho individuato un modo per poter cambiare, che a<br />

mio avviso era entrare in relazione profonda e terapeutica con ognuna di queste persone


nonostante gli enormi problemi fisici e neurologici presenti in questa situazione.<br />

Per far ciò ho trovato molto potente l’uso nella mia pratica clinica dell’Analisi<br />

Transazionale e delle posizioni esistenziali enunciate da Berne.<br />

Il concetto centrale della filosofia dell’Analisi Transazionale è l’essere OK.<br />

Berne (1961) fin dalle sue prime teorizzazioni enuncia alcuni assunti filosofici di base sui<br />

quali costruisce gli elementi dell’Analisi Transazionale.<br />

Tali assunti secondo Stewart e Joines (1987) riguardano l’uomo, la vita e gli obiettivi di<br />

cambiamento.<br />

Essi sono:<br />

1. Ognuno è OK<br />

2. Ognuno ha la capacità di pensare<br />

3. Ognuno decide il proprio destino, e queste decisioni possono essere cambiate<br />

In questi assunti è evidente il grande rispetto di Berne per l’essere umano e la fiducia che<br />

egli ha, sulle sue potenzialità.<br />

L’essere OK riconosce la “responsabilità personale”, non negando la tristezza, la paura e la<br />

collera che sono considerati sentimenti sani, qualora si inseriscano in situazioni reali in<br />

modo appropriato.<br />

Secondo Berne la “reale” percezione di sè (fatta di caratteristiche personali e limiti) dà<br />

all’uomo un certo grado di potenza perché ognuno assume un ruolo attivo nella sua vita e<br />

nelle relazioni con gli altri.<br />

Eureka!! Avevo trovato un modo di entrare in relazione con ognuno dei miei pazienti,<br />

ovviamente tenendo presenti le diverse situazioni cliniche, nella mia relazione con ognuno<br />

di loro ero riuscita a rivedere la persona e non solo il loro deficit.<br />

Il lavoro che ho fatto con questi pazienti è stato diverso a seconda della relazione che si<br />

poteva instaurare con ognuno di loro: non è possibile generalizzare la metodologia, né le<br />

prassi terapeutiche ma è fondamentale che venga mantenuta costante la relazione di<br />

okness.<br />

Ogni relazione si basava su un processo creativo nel quale io e il mio paziente co-<br />

costruivamo significati specifici (Brandchaft, 2004), che permettevano a lui di progredire<br />

attraverso la relazione nella sua presa di consapevolezza del ambiente circostante e dei suoi<br />

limiti neurologici o comportamentali. Le risposte che i pazienti davano diventavano<br />

sempre più adeguate agli stimoli relazionali proposti.<br />

I pazienti progredivano in uno spazio relazionale nel quale aumentava lo spazio per il


“noi” 4 , uno spazio relazionale intersoggettivo non immediatamente accessibile alla<br />

consapevolezza 5 ma che giorno dopo giorno permetteva una sempre maggiore attivazione<br />

da parte del paziente dello Stato dell’Io Adulto che riusciva ad interagire con il suo Stato<br />

dell’Io Bambino ricostruendo nuovi significati alla realtà e ai suoi limiti fisici.<br />

Questo processo, con diverse intensità e con diversi tempi di reazione 6 , avveniva sia in<br />

pazienti con traumi cranici lievi sia in pazienti con traumi encefalici più profondi.<br />

Questo tipo di modalità terapeutica è stata supportata da un costante lavoro supervisivo nel<br />

quale io lavoravo sul mio essere in relazione di OKness.<br />

Questo mia modalità terapeutica ha avuto molti risultati positivi in termini di diminuzione<br />

dei livelli di aggressività in situazioni di lesioni frontali (lavoravo con il paziente sul<br />

concetto di responsabilità personale e contenimento), ed in termini di grandi deficit<br />

cognitivi (il lavoro era basato sull’osservazione del limite, e non sulla sua negazione e ciò<br />

portava il paziente a trovare altre strategia per raggiungere i suoi obiettivi).<br />

In patologie più gravi quali gli stati vegetativi, o gravi lesioni cerebrali ho trovato molto<br />

interessanti i lavori di Gallese sulla consonanza intenzionale.<br />

L’autore afferma che ci sono “meccanismi nervosi che presiedono a comprendere i<br />

sentimenti, le azioni e le emozioni dell’altro sperimentando l’umanità”.<br />

Secondo questa scuola di pensiero “Il significato delle esperienze altrui è compreso non in<br />

virtù di una spiegazione, ma grazie ad una comprensione diretta dall’interno... il sistema<br />

dei neuroni specchio è alla base non solo del riconoscere e comprendere le azioni altrui, ma<br />

anche le intenzioni che le hanno promosse (Iacoboni e alt 2005).<br />

Questa spiegazione neurologica ha ancora di più rafforzato in me l’idea dell’importanza<br />

che una relazione sana con ognuna di queste persone possa generare un cambiamento<br />

positivo anche da un punto di vista neurologico.<br />

La relazione in okness ha permesso, probabilmente agendo sui neuroni specchio, di entrare<br />

in contatto attraverso una “simulazione incarnata” 7 con la persona con trauma cranico e il<br />

lavoro che ho fatto ha portato ad instaurare relazioni interpersonali, che tenendo conto dei<br />

4 Fatto quindi di un “io” e di un “tu”.<br />

5 Sills, 2011.<br />

6 Risultati migliori ovviamente sono stati raggiunti con pazienti con lesioni ai lobi frontali che avevano<br />

problemi legati all’aggressività o problemi cognitivi quali l’afasia, ma anche pazienti in minima responsività<br />

sembrava rispondessero con maggiore consapevolezza ed in maniera più congrua agli stimoli ambientali<br />

rispetto a prima che la relazione terapeutica cominciasse.<br />

7 “La simulazione incarnata permette di comprendere e condividere non solo azioni e linguaggio ma anche<br />

esperienze emotive. Stati mentali ed emozioni sono condivise in uno spazio noi centrico che mette in<br />

relazione sé ed altro da sé in una complessità di esperienze esplicite ed implicite che entrano in gioco nelle<br />

relazioni intersoggettive stabilendo delle relazioni empatiche (Gallese, 2007).


limiti neurologici dei pazienti, hanno favorito la creazione di significati relativi al mondo<br />

interno ed esterno condivisi e condivisibili.<br />

“I neuroni specchio sono coinvolti nella comprensione del significato delle azioni<br />

osservate e nella comprensione linguistica che descrivono le azioni stesse” (Gallese 2007).<br />

Per concludere do un nome ad alcuni miei pazienti che attraverso questo tipo di lavoro<br />

sono riusciti a sentirsi OK nonostante i loro irreversibili limiti neurologici:<br />

Voglio parlare di Gabriele che dopo 6 mesi di coma un trauma cranico nel lobo frontale,<br />

più di 10 interventi legati alla ricostruzione di alcune parti ossee, 2 anni di degenza presso<br />

la nostra clinica, nei quali si era chiuso completamente, con scatti di rabbia immotivati e in<br />

alcuni casi comportamenti paranoidi, ha ricominciato ad interagire con me e succes-<br />

sivamente con l’ambiente circostante e dopo 3 anni dall’incidente ha deciso di riprendere<br />

l’università laureandosi in giurisprudenza.<br />

E poi di Fabrizio un uomo di 47 anni che dopo un incidente in moto ha avuto un trauma<br />

cranico frontale e occipitale che aveva compromesso gravemente il suo linguaggio 8<br />

portandolo a peggiorare la sua situazione clinica con una sintomatologia depressiva<br />

attraverso la quale tendeva ad isolarsi da ogni tipo di relazione.<br />

Fabrizio era uno scrittore e aveva fatto della parola e della condivisione dei significati, un<br />

elemento essenziale della sua vita, il dolore legato alla consapevolezza dell’irreversibilità<br />

totale del suo limite neurologico lo aveva imprigionato in una opposizione, piena di dolore,<br />

alla relazione con l’altro.<br />

Con lui ho lavorato attraverso la relazione di OKness facendo riferimento a delle sue<br />

capacità artistiche... faceva dei disegni molto belli.<br />

Attraverso questo canale è riuscito ad avere dei miglioramenti non solo da un punto di<br />

vista psicologico ma anche cognitivo, legati ad un aumento della sua motivazione, e aveva<br />

trovato un nuovo modo per condividere i suoi significati.<br />

La relazione in okness è stata molto utile anche nel lavoro con i familiari.<br />

In questo caso il lavoro da me svolto aveva come obiettivo di sostenere queste persone<br />

nella loro fase di lutto ma anche aiutarle a non perdere la speranza: il loro caro avrebbe<br />

recuperato il recuperabile.<br />

Per loro tutti i parametri erano stati cambiati, e spesso si scontravano con aspettative,<br />

comprensibili ma irrealistiche, che tutto sarebbe tornato come prima.<br />

Spero che per loro e per tutte le persone che quotidianamente si trovano in queste terribili<br />

8 Aveva un danno celebrale che gli impediva di elaborare le parole aggravato da una forte limitazione agli<br />

arti superiori che gli impediva di scrivere.


situazioni l’Analisi Transazionale possa dare un nuovo modo di affrontare le mille<br />

difficoltà che la loro vita impone.


Bibliografia<br />

Brandshaft B. J. (2004) To free the spirit from its cell. In R. Stolorow, G. Atwood,<br />

Brandshaft (Eds), In The intersubjective Prospective. Oxford: Jason Aronson.<br />

Gallese V., Migone P., Eagle N., (2007) La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le<br />

basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi,<br />

Rivista di Psicoanalisi<br />

Giusti E., Militello F. (2011) Neuroni specchio e psicoterapia Sovera Edizioni Roma<br />

Iacoboni M., Molnar-Szakacs I., Gallese V., Buccino G., Mazziotta J., Rizzolatti G., (2005)<br />

Grasping the intentions of others with one’s own mirror neuron sistem, Plos Biology, 3,<br />

529-535<br />

Laureys, S., A. M. Owen, et al. (2004). “Brain function in coma, vegetative state, and<br />

related disorders.” Lancet Neurol 3(9): 537-46.<br />

Musso R., (2010) “Io sono Ok e tu... ci sei? Relazione tra le posizioni esistenziali e il<br />

processo di attaccamento” In Rivista Italiana di Analisi Transazionale e Metodologie<br />

Psicoterapeutiche Anno XXX n°22 (59), Dic.2010<br />

Sills C. (2011) The importance of uncertainty In Fowlie H., Sills C., Relational<br />

Transactional Analysis Karnac Books Ltd<br />

Zampolini, M. and a. n. d. g. GISCAR (2003). “Lo studio Giscar sulle gravi cerebrolesioni<br />

acquisite: aspetti metodologici e dati preliminari.” Giornale Italiano di Medicina<br />

Riabilitativa 17(4): 15-30.<br />

Dott.ssa Roberta Musso PTSTA


L’uso dell’Analisi Transazionale nel lavoro<br />

con malati terminali... o meglio, con persone<br />

alla fine della vita!<br />

1. Il contesto<br />

M. Roncaglia Luporini<br />

Quando si comincia a parlare di terminalità?<br />

Lavorare con malati terminali non significa occuparsi della morte, ma della vita fino al<br />

momento in cui sopraggiunge la morte. Si tratta di quell’insieme di ”attenzioni<br />

terapeutiche” che si attivano quando gli interventi finalizzati alla guarigione non hanno più<br />

alcuna efficacia.<br />

Dal momento della diagnosi infausta cominciano diverse fasi della vita di un malato e della<br />

sua famiglia: un primo tempo in cui si combatte la malattia e s’intraprendono trattamenti<br />

più o meno aggressivi che hanno come scopo la cura (Terapie Attive); un secondo tempo in<br />

cui non vi sono più trattamenti efficaci per curare la malattia e si cominciano a limitare gli<br />

interventi che non sono più finalizzati alla cura della malattia, ma alla gestione del sintomo


(Cure Palliative). Sia durante sia nell’intervallo fra questi due momenti, dovrebbe sempre<br />

essere adottato un atteggiamento di attenzione e cura del malato nella sua globalità e<br />

complessità. Idealmente, ma non sempre concretamente, fra le due vi è una fase di<br />

passaggio nella quale il malato può essere preso in cura contemporaneamente dai reparti di<br />

terapia (medicine, oncologia...) e dall’equipe di Cure Palliative che comincia ad introdurre<br />

una nuova logica nel trattamento e si fa carico dei bisogni psicologici e spirituali del<br />

malato e della famiglia precedentemente non sempre accolti e compresi (Simultaneous<br />

Care). Quando la malattia si fa critica e la realtà della morte comincia a diventare<br />

imminente, s’inizia a parlare di Cure di Fine Vita. Talvolta manca il passaggio dalle terapie<br />

attive alle Cure Palliative, per cui il malato finisce le terapie attive solo nell’imminenza<br />

della morte.<br />

Nella quotidianità clinica lo psicologo che opera nella terminalità, viene utilizzato<br />

prevalentemente in Cure Palliative, piuttosto che in Cure di Fine Vita 9 , quindi l’intervento<br />

verterà principalmente sulle Cure Palliative. Il termine “palliativo” trova la sua etimologia<br />

dal latino “pallium”, con cui s’indicava il mantello del pellegrino. Per Cure Palliative<br />

s’intende, l’insieme d’interventi multidisciplinari finalizzati al prendersi cura di una<br />

persona con aspettativa di vita breve, attenuando i sintomi connessi alla malattia.<br />

Come si agisce in Cure Palliative?<br />

Il contributo dello psicologo al fianco di persone affette da malattie inguaribili, appare<br />

abbastanza recente rispetto ad altri contesti in cui lo psicologo opera tradizionalmente.<br />

Trattandosi di un campo d’azione recente, porterò alcune riflessioni che sono a tutt’oggi in<br />

via di definizione e di discussione fra i professionisti che operano in quest’ambito.<br />

Gli interventi psicologici sono generalmente inseriti in un lavoro globale e multi<br />

professionale di accompagnamento alla fine della vita. Il professionista, quindi, pur<br />

mantenendo la propria autonomia professionale, non opera da solo e deve interagire con<br />

diverse professionalità (oncologi, palliativisti, anestesisti, talvolta specialisti d’organo,<br />

infermieri, operatori sociosanitari, fisioterapisti, assistenti sociali...). Il confronto<br />

dev’essere multilaretale, poiché lo psicologo necessita d’informazioni sulla condizione del<br />

malato nel momento specifico e deve rendere fruibili alcune informazioni sul suo<br />

intervento agli altri operatori affinché le azioni siano sempre coordinate e globali.<br />

9 “Lo Psicologo con expertise in Cure Palliative non opera sull’urgenza. L’intervento in CP deve essere<br />

gestito all’interno dell’attività e presa in carico dell’équipe” da LO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE.<br />

WORKSHOP pre-congressuale della Società Italiana di Cure Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010


Lo psicologo, in questo contesto, quindi, opera 10 contemporaneamente in qualità di: 1.<br />

membro dell’equipe; 2. canale di interazione fra il malato, i familiari e gli altri membri<br />

dell’equipe e mediatore delle esigenze del malato; 3. facilitatore nella comunicazione fra<br />

malato e familiari e fra malato ed operatori.<br />

Un aspetto particolare è legato alla particolarità di rapporto che s’instaura tra gli operatori<br />

ed il malato nella specifica fase di vita in cui il malato si trova. Si tratta di un incontro<br />

spesso molto profondo, che raggiunge un elevato livello d’intimità anche in breve tempo e<br />

che mette in gioco il professionista e soprattutto la sua persona in modo forte. La vicinanza<br />

della morte rende spesso il malato molto consapevole delle sue difficoltà, lo mette a<br />

confronto con i suoi sospesi e le sue emozioni più profonde ed intense e lo porta a superare<br />

più frequentemente di altri contesti ogni livello di formalismo cui siamo generalmente<br />

abituati. La relazione si snoda anche su un canale corporeo cosicché il professionista<br />

rimane sostanzialmente “nudo” davanti al malato con il quale sta interagendo in una<br />

relazione intensa ed intima.<br />

L’inevitabilità della morte per ciascuno di noi, inoltre, mette il professionista anche davanti<br />

10 Nei “luoghi di cura l’attività dello Psicologo con expertise in Cure Palliative si svolge in sinergia e intesa<br />

con l’équipe di CP, portando le sue competenze specifiche nella valutazione multidimensionale e<br />

nell’intervento multidisciplinare in ottemperanza a linee guida riconosciute ed evidenze” da LO<br />

PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE. WORKSHOP pre-congressuale della Società Italiana di Cure<br />

Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010


alle proprie paure più recondite e lo costringe a misurarsi quotidianamente con le proprie<br />

fantasie e perplessità legate alla propria morte e quella dei suoi cari. In questa fase anche le<br />

identificazioni appaiono più intense e potenzialmente coinvolgenti.<br />

Il lavoro dello psicologo a fianco dei malati terminali si svolge prevalentemente in due<br />

contesti molto diversi tra loro: il domicilio del malato oppure l’hospice. Tuttavia, come<br />

ipotizziamo in un volume pubblicato nel maggio 2011 11 , se possibile, ovunque siano i<br />

malati che abbiano bisogno di un particolare atteggiamento di “Care”. Per esempio negli<br />

ospedali con i malati che passano dalle cure attive alle Cure Palliative od in presenza di<br />

acuzie oppure nelle residenze assistite che possono diventare luoghi di accompagnamento<br />

al morire se si riescono a creare specifici protocolli di accompagnamento e si interagisce<br />

con l’equipe abituale di cura. I contesti prevalenti sono l’hospice e/o il domicilio anche<br />

perché sono luoghi in cui è più facile stare ai tempi e alle necessità del malato e della sua<br />

famiglia.<br />

Chi è soggetto di cura?<br />

Nel lavoro con i malati terminali si opera spesso in stretto contatto con diversi familiari<br />

oltre che, quando ciò è possibile, con il malato. Quest’ultimo tuttavia costituisce sempre il<br />

fulcro dell’attenzione ed il punto nodale attorno a cui ruotano tutti i progetti di cura.<br />

Un chiaro quadro viene fornito dal documento elaborato dal Comitato Etico presso la<br />

Fondazione Floriani nel maggio 1999 che costituisce il punto di partenza per tutti coloro<br />

che si occupano di accompagnamento ai morenti: la Carta dei Diritti dei Morenti.<br />

La persona che sta morendo ha diritto:<br />

• Ad essere considerata persona sino alla morte;<br />

• Ad essere informata sulle sue condizioni, se lo vuole;<br />

• A non essere ingannata ed a ricevere risposte veritiere;<br />

• A partecipare alle decisioni che lo riguardano ed al rispetto della sua volontà;<br />

• Al sollievo del dolore e della sofferenza;<br />

• A cure ed assistenza continue nell’ambiente desiderato;<br />

• A non subire interventi che prolunghino il morire;<br />

• Ad esprimere le sue emozioni;<br />

• All’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua<br />

fede;<br />

11 Roncaglia, M.; Biancat, R.; Bidogia, L.; Bordin, F.; Martucci, M. (2011).


• Alla vicinanza dei suoi cari;<br />

• A non morire nell’isolamento e in solitudine;<br />

• A morire in pace e con dignità.<br />

Di cosa ci si occupa in Cure Palliative?<br />

In Cure Palliative ci si occupa di DOLORE, ossia di un’esperienza fisica alla quale il<br />

malato dà un particolare significato. Pare importante rilevare che il significato e la<br />

sensazione sono assolutamente soggettivi e possono cambiare nell’arco della vita, per<br />

esempio sulla base dell’esperienza, del momento di vita, del valore che viene conferito ad<br />

una medesima sensazione.<br />

In Cure Palliative ci si occupa anche di SOFFERENZA ossia di una condizione di dolore<br />

che può riguardare sia il corpo sia il vissuto emotivo del malato e che può derivare<br />

direttamente da un trauma, fisico o emotivo, oppure può essere espressione di un’afflizione<br />

interiore più profonda di cui può essere difficile o impossibile individuare un fondamento<br />

oggettivo.<br />

La sofferenza è anche parte dell’esperienza dei familiari che osservano un proprio caro<br />

avvicinarsi alla morte ed allontanarsi pian piano dalla vita e da loro stessi.<br />

La sofferenza entra anche nell’esperienza dei professionisti che accompagnano il malato ed<br />

i familiari perché possono identificarsi con loro, semplicemente com-patire (patire<br />

insieme) oppure sperimentare un profondo senso d’impotenza legato all’ineluttabilità della<br />

morte ed all’inadeguatezza dei mezzi a disposizione per lenire le sofferenze di quel malato<br />

e di quei familiari.<br />

La sofferenza psicologica del malato nasce da una doppia consapevolezza:<br />

1. Senso del limite mancanza della piena disponibilità di: autonomia, autosufficienza,<br />

autodeterminazione, tempo, progettualità, ..., vita;<br />

2. Senso della perdita assenza o modifica: della propria immagine, di progettualità, del<br />

proprio ruolo, di fiducia, di alcune relazioni, ...<br />

Chi sta accanto alla persona con dolore può ascoltare ed accogliere; non può essere giudice<br />

e misura del dolore altrui; deve prima osservare, poi intervenire ed, infine, può aiutare a<br />

costruire nuovi significati personali, psicologici, e spirituali (di valore!).


2. Il modello A.T. con persone alla fine della vita<br />

S’instaura una “speciale” relazione<br />

Il tipo di relazione 12 che s’instaura tra malato e terapeuta potrebbe riconoscersi nella<br />

definizione berniana di “condivisione di realtà spontanea e naturale 13 ” e coinvolgere<br />

particolarmente il Bambino del malato ed il terapeuta con tutti gli Stati dell’Io. Il<br />

particolare incontro che si realizza tra malato e terapeuta avviene in un momento specifico,<br />

quindi non è facilmente generalizzabile a momenti differenti. Quando il professionista<br />

entra nella stanza di un malato 14 accede spesso al suo mondo: nella maggior parte dei casi<br />

gli chiede il permesso (bussa) e, comunque, deve ottenere il consenso, più o meno<br />

informale, di intraprendere con lui, in quel preciso momento, un lavoro terapeutico.<br />

Mi sento di poter affermare che per essere efficaci nella terapia prima di tutto si deve<br />

riuscire a creare una sorta di sintonia “di pelle” che permette alle due persone di incontrarsi<br />

autenticamente. Non è sempre facile creare questa sintonia e possono sorgere difficoltà di<br />

natura emotiva ed etica, soprattutto se il terapeuta opera da solo in un dato contesto<br />

(hospice o domicilio) ed è chiamato ad incontrare tutti i malati di quella realtà. L’incontro<br />

avviene tra due persone con i propri bagagli emotivi ed i propri valori oltre che tra un<br />

12 Edoardo Giusti nella presentazione del libro di Petruska Clarkson (1995) afferma che: “l’ingrediente base<br />

della psicoterapia risiede nella relazione terapeutica poiché il legame e l’alleanza sono la condizione che si<br />

deve stabile tra utente e operatore per procedere proficuamente in questo importante viaggio che diventa<br />

informativo, formativo e trasformativo”. Con questa definizione, a mio avviso, fornisce un’idea quanto mai<br />

chiara e completa del senso della relazione ed abbozza una prassi operativa basata su fiducia, coinvolgimento,<br />

collaborazione, cooperazione e compatibilità motivazionale. Zetzel (1956) introduce il concetto di alleanza<br />

per indicare l’aspetto della relazione fra paziente e terapeuta basato sulla realtà e orientato agli scopi della<br />

terapia. Bordin (1994) definisce il legame “un mutuo accordo riguardo alle Mete del cambiamento e ai Compiti<br />

necessari per andare verso quelle Mete, insieme allo stabilirsi di Legami che mantengono la collaborazione<br />

tra i partner”. Freud 1912, Greenson 1967, Gelso e Carter 1994 suddividono gli aspetti di relazione in<br />

Relazione Reale, Relazione Transferale; Alleanza Terapeutica e ne considerano l’aspetto di reciprocità ed interattività<br />

fra le parti. Il modello di Gaston (1990) integra le definizioni esistenti e le riorganizza in quattro dimensioni<br />

che interagiscono tra loro: l’Alleanza terapeutica (la dimensione affettiva); l’Alleanza di Lavoro (la<br />

capacità di lavorare in modo mirato); la componente empatica ed il coinvolgimento del terapeuta; l’accordo<br />

fra Terapeuta e cliente su mete e compiti. Orlinsky e Howard (1986) con il Modello Generico individuano<br />

quattro dimensioni che riguardano il terapeuta ed il cliente: Contratto Comunicativo (l’espressività del cliente<br />

e l’empatia del terapeuta); Affetto Reciproco (cliente e terapeuta si confermano reciprocamente); Investimento<br />

nel Ruolo (motivazione del cliente e impegno e sicurezza del terapeuta) e Coordinamento Interattivo (il<br />

terapeuta collabora e non dirige, il cliente collabora non dipende passivamente).<br />

13 Berne, 1961.<br />

14 Condizione più tipica del lavoro psicoterapeutico in Cure Palliative, che differenzia profondamente l’incontro<br />

clinico tradizionale che vede il paziente entrare nello studio di un terapeuta. Le caratteristiche del<br />

setting in quest’area particolare possono essere molto diverse da quelle tipiche del contesto clinico<br />

tradizionale per durata (può variare da alcuni minuti a qualche ora); frequenza del colloquio (può essere<br />

settimanale oppure giornaliera) ed anche per l’ambiente nel quale si svolge la seduta (stanza del malato,<br />

studio e persino ambienti informali quali cucina o giardino). Ho già accennato al fatto che la presa in carico<br />

di un malato può anche avvenire simultaneamente alla presa in carico di uno o più dei suoi familiari.


malato ed un professionista.<br />

Talvolta le difficoltà possono risiedere su un piano emotivo per cui un particolare malato<br />

non riesce ad essere accolto in quel momento specifico dal terapeuta perché suscita nel<br />

profondo di quest’ultimo forti emozioni ed attiva “pericolose” identificazioni con figure<br />

del passato.<br />

Altre volte la difficoltà si situa su un piano spirituale cosicché una persona che si riconosce<br />

in valori profondamente diversi, non può essere profondamente capita da quel terapeuta.<br />

Non è superfluo ricordare che, nel caso in cui sia necessario operare comunque con tutti i<br />

malati, è assolutamente indispensabile una supervisione assidua ed eventualmente un<br />

lavoro personale per rimuovere le condizioni che ostacolano l’incontro.<br />

Ricordo a questo proposito l’incontro con Anna, una ragazza di 32 anni (due meno di me al<br />

momento del ricovero!). L’impatto, al momento dell’accoglienza è stato molto forte per<br />

me, ma anche per il resto dell’equipe che vedeva il lei un’amica o una figlia. Mano a mano<br />

che il tempo passava, è stato necessario lavorare spesso sulle paure che Anna risvegliava in<br />

tutti noi con la sua malattia ormai giunta ad uno stadio molto avanzato. Ancor più difficile<br />

è stato aiutare Anna a salutare Paola, la sua bimba di soli 8 anni. Tuttavia, la soddisfazione<br />

che abbiamo sperimentato nel vedere gli occhi gioiosi di Anna quando si è vista tutta in<br />

ordine (smalto alle unghie, messa in piega e un abito comodo, ma diverso dal pigiama) per<br />

accogliere Paola che veniva a passare un po’ di tempo del week end con la sua mamma, ci<br />

ha ripagato di tutti gli sforzi.<br />

Per creare la sintonia necessaria a compiere un buon lavoro terapeutico in questo contesto<br />

è, a mio avviso, importante mantenere un atteggiamento di accoglienza ed accettazione del<br />

malato nella sua complessità. Dopo aver creato questa sintonia, il terapeuta comincia a<br />

farsi un’idea delle criticità che il malato sta sperimentando in quel momento, o di quelle<br />

che lo aspettano per le sue caratteristiche psicologiche o per il tipo di patologia dal quale è<br />

afflitto. Il Piccolo Professore (A1) in questo processo riveste un ruolo certamente prezioso<br />

poiché il terapeuta agisce energizzando tutti i suoi Stati dell’Io per essere capace di<br />

diventare Genitore Affettivo per consolare l’eventuale Bambino disperato del paziente, ma<br />

deve essere capace anche di lasciarsi guidare da un processo intuitivo per cui riesce ad<br />

essere “abbastanza curioso, senza farsi sopraffare da una sensazione di onnipotenza ed<br />

onniscienza 15 ”.<br />

In Cure Palliative, quindi, la relazione terapeutica è efficace se è anche una relazione<br />

15 Berne, 1992.


profondamente umana, poiché il terapeuta è chiamato a farsi “prossimo” ed è coinvolto<br />

anche attraverso il suo corpo: infatti è chiamato ad utilizzare il tocco, lo sguardo e più in<br />

generale la comunicazione non verbale per trasmettere al malato accoglienza ed<br />

accettazione incondizionate molto più che in altri contesti clinici. Malato e terapeuta sono<br />

spesso molto vicini durante una seduta, soprattutto nello stadio avanzato della terapia e<br />

della malattia: durante la seduta può capitare, infatti, che si usi un tono di voce basso, che il<br />

terapeuta tenga la mano, accarezzi o massaggi il malato. Lo sguardo del malato spesso<br />

“trapassa” il terapeuta e lo “mette a nudo”, poiché l’autenticità dell’incontro annulla tutte<br />

le sovrastrutture cui siamo spesso abituati; talvolta supera anche la differenza di ruoli fra<br />

curante e curato poiché si instaura, prima di tutto, una relazione fra due esseri umani.<br />

Potrei affermare che la relazione con i malati terminali è sempre trasformativa 16 . L’intensità<br />

ed il coinvolgimento della relazione in questo contesto risultano assolutamente superiori a<br />

quelli sperimentati durante l’intervento psicologico o psicoterapico in altri contesti clinici.<br />

Penso ad esempio all’incontro con Vittoria, una simpatica signora di poco più di<br />

novant’anni che con la sua saggezza ha cambiato il mio modo di pensare riguardo alla<br />

speranza e al valore del tempo. Dopo una vita movimentata che ha attraversato ben due<br />

guerre, la signora Vittoria, proprio non ne voleva sapere di lasciare questo mondo e di<br />

“cambiare vita”... almeno finché non fosse giunto il suo momento! Raccontava spesso<br />

delle sue passeggiate, fatte su invito del medico che aveva raccomandato movimento! In<br />

una di queste passeggiate, solo la settimana precedente al ricovero, aveva notato che il<br />

vialetto davanti alla sua vecchia casa aveva bisogno di alcuni nuovi tigli. Svelta svelta ha<br />

chiamato il maggiore dei figli, Gianni e ha chiesto di comprare alcune piantine e di<br />

piantarle ad almeno due metri l’una dall’altra percorrendo il tratto del viale ancora spoglio.<br />

Gianni sbigottito non poteva credere ai suoi orecchi, lamentava che si trattava di una fatica<br />

inutile e che nessuno di loro avrebbe potuto vedere crescere quei tigli. Svelta l’arzilla<br />

nonnina, ha ribattuto di non fare lo scansafatiche, perché aveva poca importanza chi<br />

vedeva crescere quegli alberi, anche se c’erano sempre i nipoti, e che se lui pensava che la<br />

morte gli fosse così vicina, forse avrebbe fatto meglio a stendersi nel suo bel letto ad<br />

aspettare che la nera signora venisse a prenderlo! Gianni aveva finalmente compreso quel<br />

che l’anziana madre gli aveva voluto comunicare: “la fine della mia vita, non è la fine di<br />

16 Holmes & Lindley, 1989 e Clarkson, 1995: “l’uso sistematico di una relazione per produrre cambiamenti<br />

nelle cognizioni, nelle emozioni e nel comportamento” e Klauber (1986): “la caratteristica più trascurata di<br />

una relazione psicoanalitica mi sembra il fatto che sia una relazione: una relazione assai particolare, ma ben<br />

definita. Paziente ed analista hanno bisogno l’uno dell’altro…”.


tutto se qualcuno dopo di me continua a portarmi nel suo cuore”.<br />

Se è vero che l’incontro avviene in un momento specifico, lo è altrettanto che fino<br />

all’incontro successivo potrebbe mantenersi una sorta di “riconoscimento” tra malato e<br />

terapeuta, ma non necessariamente un’alleanza di lavoro utile al lavoro clinico. Potrebbe<br />

quindi rendersi necessario costruire una nuova alleanza di lavoro e concordare nuovi<br />

obiettivi terapeutici (stipulare un nuovo contratto). Anche solo alcuni giorni in questo<br />

senso possono cambiare radicalmente la situazione psicologica del malato. Questi<br />

cambiamenti sono spiegati, oltre che dal passare del tempo, dall’effetto del cambiamento<br />

della condizione clinica, dalle relazioni intercorse con i familiari e/o con gli operatori o<br />

semplicemente dall’affiorare di nuove consapevolezze nel malato che modificano la sua<br />

realtà psicologica.<br />

Il Setting<br />

Si può dire che il setting in Cure Palliative è spesso molto diverso da quello del contesto<br />

clinico tradizionale. Spesso è il terapeuta che entra nella stanza del malato e non viceversa;<br />

e se si parla di lavoro a domicilio, ciò è sempre vero. Se ci si riferisce al lavoro in hospice,<br />

nella maggior parte dei casi, il malato ha una condizione clinica per cui non gli è possibile<br />

spostarsi nello studio del terapeuta e non è sempre scontato che questi ne abbia uno. Spesso<br />

si tratta piuttosto di un luogo polivalente utilizzato a rotazione dai vari professionisti.<br />

Quando si lavora nello spazio del malato, si chiede il suo consenso ed entrare, ci si aspetta<br />

di trovare nella stanza un piccolo mondo dove soltanto il malato può e vuole gestire lo<br />

spazio. Naturalmente non tutti i professionisti fanno attenzione a quest’aspetto nello stesso<br />

modo, ma lo psicologo può trarre molte informazioni dall’ambiente ed è tenuto ad<br />

utilizzare il suo bagaglio di conoscenze in quest’ambito e ad informare anche gli altri<br />

professionisti nel caso in cui rilevi dati di particolare significato o utilità.<br />

Se penso alla stanza del signor Paolo, ricordo che c’era sempre un fiore fresco che ogni<br />

due o tre giorni veniva cambiato e che Sara, la moglie, portava e rinfrescava con tanta cura.<br />

Ella, raccontava spesso, quando il marito era sopito, che fin da quando aveva conosciuto<br />

Paolo, egli aveva manifestato una passione speciale per i fiori e per i libri. Nel suo lavoro,<br />

infatti, era sempre attorniato di libri, qualche volta anche antichi e preziosi, ed in effetti<br />

nella stanza spiccavano varie foto con i personaggi importanti che aveva avuto modo di<br />

incontrare negli anni di lavoro. Nel suo tempo libero, invece prediligeva i giardini, gioiva<br />

nel vedere un bel prato verde, curato e irrigato per benino. I colori dei fiori, poi lo


incantavano, non si stancava mai di inventare nuove combinazioni. Sul comodino<br />

svettavano i pensierini dei nipotini, i disegni o i lavoretti che avevano preparato e dedicato<br />

al loro nonnino. Ogni tanto comparivano le coppette dei gelati che Carla, la figlia minore,<br />

portava al papà per consolarlo. Si trattava insomma di una stanza sempre piena di voci, di<br />

gesti e di attenzioni, anche nella penombra dei pomeriggi estivi, mentre tutti stavano<br />

riposando e anche il signor Paolo si stava pian piano allontanando da questa vita.<br />

In questo caso si può affermare che la stanza del signor Paolo raccoglieva tutta la sua vita e<br />

raccontava i suoi affetti. Pian piano tutti i professionisti che operavano intorno al signor<br />

Paolo hanno imparato a comprendere ed accogliere questo linguaggio. Hanno capito che<br />

lasciare che fiori e disegnini arricchissero quella stanza, non era un dettaglio o una<br />

complicazione a chi doveva curarne la pulizia, ma un modo per prendersi cura del signor<br />

Paolo.<br />

La durata della seduta dipende da vari fattori: 1. la condizione clinica del malato, 2. la<br />

possibilità di non essere interrotti per un tempo più o meno lungo, 3. la natura del contratto<br />

stipulato in quello specifico incontro, 4. la condizione emotiva del malato, 5. la possibilità<br />

del terapeuta di gestire più o meno autonomamente il proprio tempo.<br />

Quel che ho avuto modo di imparare, è che il terapeuta è chiamato a gestire il proprio<br />

tempo secondo diversi criteri: 1. i bisogni emergenti, 2. l’urgenza di una particolare<br />

condizione, 3. la condizione di altri malati che possono essere particolarmente prossimi<br />

alla morte, 4. la situazione familiare che circonda il malato, 5. le necessità espresse da altri<br />

professionisti e molte altre variabili, per cui è facilmente immaginabile che, pur avendo più<br />

flessibilità che in altri contesti, il terapeuta deve sempre tenere presente la situazione<br />

globale e lasciare ciascun malato con il minor numero di sospesi possibili al termine di<br />

ciascun incontro.<br />

La complessità generata dall’accavallarsi di questi diversi elementi nella situazione clinica<br />

coinvolge lo psicologo non solo sul piano tecnico, ma anche su quello etico. Per esempio<br />

egli è chiamato a gestire il proprio tempo tra i vari malati secondo un criterio di equità, egli<br />

quindi deve suddividere il tempo in modo da non penalizzare nessun malato.<br />

Per quel che concerne la cadenza delle singole sedute, ho osservato che può dipendere 1.<br />

dal terapeuta, 2. dall’esigenza del contesto organizzativo, 3. dalla disponibilità del<br />

paziente, 4. dall’avvicendarsi degli eventi per il singolo malato o per il gruppo di malati a<br />

lui affidati.<br />

In generale, però, in Cure Palliative, è sempre opportuno pensare ciascun incontro come


l’ultimo possibile, poiché non è mai garantito che la situazione non precipiti in modo<br />

imprevisto o che vi siano altre emergenze per cui non è possibile re-incontrare il malato.<br />

Una particolarità delle Cure Palliative sta nel fatto che nella maggior parte dei casi il<br />

pagamento delle sedute non viene effettuato dal malato né dai familiari, ma è parte di una<br />

presa in carico globale di una situazione specifica. La valenza simbolica dell’aspetto del<br />

pagamento va messa in conto nel lavoro con i malati e con i familiari. Sul pagamento del<br />

compenso c’è anche da dire che l’erogante può prevedere un intervento che comprende<br />

solo il tempo di malattia oppure può estendersi anche al tempo del lutto: questo dettaglio<br />

per i familiari non è certo irrilevante, soprattutto quando vengono seguiti ed accompagnati<br />

pressoché quotidianamente fino al momento della morte del proprio caro e poi, di fatto, si<br />

vedono privati di ogni supporto per superare la fase di distacco. Sull’opportunità o meno di<br />

proporre soluzioni alternative (per esempio gruppi di supporto o sedute individuali) in altri<br />

contesti (soprattutto se privati) c’è poco accordo fra i colleghi che operano nel settore. Di<br />

fatto quel che spesso accade, se il professionista dà la sua disponibilità, è che i familiari di<br />

tanto in tanto contattano il professionista oppure passano a salutare gli operatori che si<br />

sono occupati del proprio caro per aiutarsi nel lavoro di elaborazione.<br />

Il tempo<br />

Da un lato si potrebbe affermare che quando cominciano le Cure Palliative, il malato<br />

ritorna ad essere padrone del proprio tempo, dopo i mesi o gli anni di battaglia contro il<br />

tempo per trovare cure efficaci o contrastare l’evoluzione di una malattia. Il tempo in<br />

questa fase, infatti, è quasi un tempo di pace, un tempo, in cui si comincia a pensare al<br />

tempo di vita che il malato può ancora vivere. Dovrebbe finire il tempo delle corse e<br />

cominciare quello dei piccoli gesti e dell’attenzione ai dettagli. Da un altro lato però questo<br />

potrebbe essere anche un tempo fatto di possibili complicazioni, d’infinite variabili che<br />

possono modificare da un momento all’altro la situazione, quindi un tempo fatto solo di un<br />

adesso.<br />

Sul tempo, è stato un maestro certamente il signor Luigi. Per tutta la vita si era dato da fare<br />

per aiutare le persone care a stare meglio e, anche ora che la malattia si era impossessata di<br />

lui, faceva in modo che i suoi cari vivessero meglio possibile ciò che c’era. Innanzitutto, il<br />

signor Luigi aveva sempre un buon motivo per restare in vita fino al compleanno del figlio,<br />

poi quello della mamma, o alla nascita del nipotino... insomma sceglieva sempre il<br />

momento da aspettare, senza però farsi un cruccio e farsi incastrare dal tempo. Appena i


dolori lo lasciavano, aveva subito un piccolo desiderio da mettere in campo: andiamo a<br />

casa e torniamo quando sarà necessario, andiamo al mare con i bambini, andiamo a<br />

prendere un gelato solo io e te Lara (la moglie) per farci accarezzare le guance dal vento.<br />

Fin dal momento in cui la malattia si era fatta più grave, aveva capito che il tempo che gli<br />

restava non era molto e pian piano aveva voluto programmare i vari aspetti in modo che<br />

nessuno avesse problemi nell’occuparsi di lui dopo la sua morte (aveva chiesto perfino di<br />

suonare le campane a festa per il suo funerale, perché finiva per lui un tempo di prova e<br />

sofferenza!). Aveva seminato in giro per casa un sacco di lettere alla moglie, ai figli ed ai<br />

nipotini per raccontare le sue emozioni, per ringraziarli dei doni ricevuti, per istruirli su<br />

precisi impegni reciproci. Sapeva che la morte era dietro l’angolo e non lo spaventava, era<br />

pronto ad accoglierla, ma non si lasciava sfuggire nemmeno un istante per vivere<br />

intensamente ciò che c’era.<br />

Compito dello psicologo in questo senso può essere quello di mettere insieme i diversi<br />

aspetti di questo tempo che può essere giunto troppo presto per alcuni malati o familiari<br />

(che ritengono troppo presto per lasciare le speranze), che può essere eterno per le<br />

situazioni in cui le cose sembrano sospese (quasi appese ad un filo ed apparentemente<br />

immutabili). Il professionista ha il compito di raccogliere alcuni fili del passato per non<br />

lasciare che vi siano sospesi che impediscono al malato di lasciare la vita terrena in<br />

serenità. Ha anche il compito di offrire un futuro, seppure prossimo, utile per realizzare<br />

alcuni sogni o desideri. Ancora egli ha la funzione complessa ma fondamentale, di far sì<br />

che il tempo del malato, dei familiari e degli operatori sanitari sia vissuto in modo affine.<br />

Quando la morte arriva prima che il malato o i familiari abbiano compreso la gravità della<br />

situazione e siano pronti ad accoglierla, si pongono spesso le basi per un lutto<br />

problematico. Anche gli operatori dovrebbero avere presente il quadro della situazione e<br />

riuscire ad immaginare ciò che sta per accadere, altrimenti essi sperimentano un forte senso<br />

di impotenza o pesanti sensi di colpa. Qualche volta quest’operazione può essere una corsa<br />

contro il tempo, se vi sono malati in condizioni molto gravi e familiari, o malati stessi,<br />

ancora convinti di avere a disposizione tutto il tempo necessario per chiudere ogni sospeso.<br />

Il tempo delle Cure Palliative insegna a chi non muore a: 1. vivere sempre pienamente e<br />

intensamente il proprio tempo; 2. dire sempre ciò che si ritiene davvero significativo alle<br />

persone care; 3. non lasciare che nulla d’importante vada perduto; 4. salutare ogni incontro<br />

lasciando buone tracce del proprio passaggio; 5. evitare di lasciare a domani le cose che<br />

potremmo non avere più il tempo di fare; 6. non diventare preda del tempo che fugge, ma


ad utilizzare il tempo nel miglior modo possibile.<br />

La cosa che ho imparato sul tempo in Cure Palliative è che quello che conta davvero è che<br />

se pensi al tempo come un compagno di viaggio, come uno strumento da valorizzare e<br />

nutrire, il tempo sarà carico di valore, di esperienza e di significato (Kairos); se invece lo<br />

pensi come un nemico, come un’entità che sta aspettando la tua fine, che ti sta rubando la<br />

terra da sotto ai piedi che spesso sfugge al controllo umano ed ha regole proprie alle quali<br />

bisogna soltanto adeguarsi (Kronos) allora sarà un tempo di fatica.<br />

S’identificano e si prendono in carico i conflitti<br />

Capita che l’intervento psicologico sia richiesto dagli operatori sanitari nel caso in cui si<br />

rendano evidenti conflittualità problematiche fra il malato ed i suoi familiari o fra il malato<br />

ed alcuni o degli operatori che operano al suo fianco. Altre volte sono demandate al<br />

“professionista della psiche” anche situazioni in cui si evidenzino particolari disagi nel<br />

malato, ad esempio alcuni invii avvengono dopo che gli operatori, durante le riunioni,<br />

riferiscono che l’ospite piange e si lamenta spesso; oppure il medico dice che il malato<br />

sembra indifferente alla comunicazione della comparsa di alcune nuove metastasi, oppure<br />

reagisce in modo aggressivo quando gli chiedono se vada meglio con le mani dopo che è<br />

iniziato il trattamento con il fisioterapista; altre volte gli infermieri chiedono supporto alla<br />

psicologa perché il malato rifiuta le iniezioni, anche se si tratta di antidolorifico, perché<br />

non vuole essere disturbato a tutte le ore pur, sapendo che la terapia deve essere regolare<br />

per evitare l’insorgere di nuovi episodi di dolore intollerabile.<br />

A volte è la specifica competenza dello psicologo che riesce a cogliere 17 la presenza di nodi<br />

e sospesi che potrebbero risultare evidenti in passaggi complessi della malattia, ma che, se<br />

presi in carico anticipatamente, possono evitare criticità nelle interazioni o nell’esperienza<br />

emotiva e relazionale di malattia.<br />

Lo psicoterapeuta raccoglie indizi capaci di fornire informazioni essenziali sul quadro<br />

globale del malato e sa farsi guidare da questi per cogliere le difficoltà emergenti nello<br />

specifico momento 18 .<br />

Nel momento di vita del malato non sarà importante metterlo davanti al proprio quadro<br />

17 “Lo psicologo individua e/o gli viene segnalato, un bisogno emotivo, anche quando la domanda non è<br />

esplicitamente espressa dall’utente” da LO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE. WORKSHOP precongressuale<br />

della Società Italiana di Cure Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010.<br />

18 “Lo Psicologo esperto in Cure Palliative effettua l’analisi della domanda e del bisogno sotteso, sviluppa<br />

un programma di intervento condiviso con l’équipe curante” da LO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE.<br />

WORKSHOP pre-congressuale della Società Italiana di Cure Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010.


psicopatologico complessivo, sarà invece necessario aiutarlo ad integrare i contenuti non<br />

armonizzati e sanare i conflitti ancora presenti. Per esempio il professionista può rilevare<br />

ed intervenire su impasse che bloccano il malato che rimane sospeso fra un desiderio che<br />

non riesce ad esprimere ed un dovere che sente di avere verso di sé o verso coloro che lo<br />

affiancano. L’obiettivo generale sarà sempre quello di chiudere la parentesi con la vita nel<br />

modo più delicato possibile, evitando di aprire parentesi che potrebbe non essere possibile<br />

richiudere.<br />

Protezione, Permesso e Ridecisione<br />

Il caso di seguito riportato esprime bene come il terapeuta possa misurarsi con questi<br />

elementi.<br />

Il signor Giovanni, da alcuni giorni era ospite presso la struttura, ma non aveva manifestato<br />

la necessità di essere preso in carico dalla terapeuta, dato che, non aveva alcuna difficoltà:<br />

comprendeva perfettamente ciò che gli veniva comunicato, non aveva problemi<br />

nell’interazione con i diversi professionisti che si occupavano di lui. Un dubbio sulla sua<br />

serenità è stato segnalato quando il medico gli ha comunicato la comparsa di alcune<br />

metastasi ossee che avrebbero comportato, probabilmente, nel giro di poco tempo, la<br />

comparsa di forti dolori e quindi potevano richiedere dosi di analgesici tali da<br />

compromettere la sua piena consapevolezza. Il signor Giovanni, in effetti, non ha<br />

manifestato alcuna emozione, si è limitato a chiedere delucidazioni sulle procedure e sui<br />

dosaggi degli analgesici.<br />

È stata, quindi, chiesta una valutazione psicologica per comprendere la capacità del malato<br />

di comprensione e di valutazione.<br />

Il signor Giovanni parla delle sue metastasi senza una particolare coloritura emotiva,<br />

sembrava quasi si aspettasse il loro arrivo. Racconta delle terapie che allevieranno il suo<br />

dolore e di come se si trattasse di un’aspirina per il raffreddore. Nient’altro che un fatto,<br />

questo sembravano essere per lui, una realtà sulla quale non aveva nessun potere e quindi<br />

non degna di nota.<br />

Dicendo “le emozioni non cambiano i fatti, ma qualche volta aiutano a viverli meglio”, ho<br />

accolto il suo punto di vista, ma allo stesso tempo ho cercato di sondare l’impatto emotivo<br />

che “i fatti” avevano per lui. Ne è uscito un racconto molto forte sull’infanzia difficile e<br />

dolorosa che il malato ha avuto durante la quale aveva dovuto imparare che le emozioni<br />

non sono un lusso da potersi permettere. Doveva fare l’ometto di casa fin da quando papà è


morto quando lui aveva solo sei anni. Aveva visto la mamma piangere e disperarsi, ma le<br />

cose non cambiavano, quindi piangere, non serviva. Poi, se papà fosse vivo, cos’avrebbe<br />

detto vedendolo piangere. Aiutare il signor Giovanni a valutare nuove opzioni, è stato il<br />

lavoro successivo. La mattina dopo il signor Giovanni mi accoglie con un bel sorriso e mi<br />

dice: “Grazie perché mi ha insegnato a vedere i colori del mondo. Questa notte, ho pensato<br />

alle cose che mi sono capitate nella mia vita e ho pianto molto. Poi un’operatrice, mi ha<br />

sentito respirare affannosamente, si è avvicinata e, senza accendere la luce, mi ha<br />

accarezzato una mano… credo di non essermi mai sentito così in pace in tutta la mia vita”.<br />

Si lavora con malati, familiari ed operatori, contemporaneamente<br />

In Cure Palliative non si lavora solo con il malato, ma spesso anche con familiari nello<br />

stesso arco temporale. Nello stesso momento in cui si è chiamati ad un’intensa relazione<br />

con il malato, si è spesso chiamati anche ad una relazione più Adulta con diversi familiari,<br />

che non sempre sono in accordo tra loro e che, a seconda del luogo in cui si opera (hospice<br />

o domicilio), possono avere più o meno peso nella relazione. Talvolta le esigenze dei<br />

familiari sono in relativo accordo con quelle del malato, in alcune occasioni lo sono di<br />

meno, in altre si tratta di contrasti fra diversi familiari rispetto alle strategie di gestione e di<br />

cura del malato e alle priorità per lui. In questi casi il lavoro del professionista risulta ben<br />

più complesso, anche perché egli è chiamato ad una neutralità, fra i familiari, che non<br />

sempre è facile da tenere. Nelle fasi critiche della malattia o quando si è chiamati a<br />

decidere sulle sorti del malato, perché questi non è più in grado di farlo da solo, le<br />

problematiche, anche sul piano etico, si fanno spinose.<br />

È il caso di Roberta, un’anziana signora, madre di due figli ormai adulti e “indipendenti”.<br />

La signora ha passato parecchio tempo in hospice perché oltre alle difficoltà legate alla sua<br />

malattia, c’era il problema della sua vecchia casa, priva di ascensore, che non avrebbe più<br />

potuto ospitarla in modo sicuro, ora che non era autonoma negli spostamenti. I figli erano<br />

molto diversi: la figlia, Rita, sposata e a sua volta madre di una bimba di sei anni,<br />

abbastanza serena, veniva a trovare la madre ogni volta che aveva un attimo libero, ma<br />

abitava e lavorava distante; il figlio, abitava con la madre fino al momento del ricovero,<br />

veniva tutti i giorni, ma era spesso arrabbiato ed aggressivo con gli operatori. Qualche<br />

volta metteva a soqquadro il reparto perché non si faceva trovare al telefono e la mamma<br />

andava in ansia e faceva preoccupare tutti. Poi arrivava pacifico raccontando di essersi<br />

addormentato. Non gli riusciva di farsi volere bene dal personale. Quando la signora


Roberta si è aggravata e, nonostante le sollecitazioni del medico e dello psicologo, il figlio,<br />

che continuava a chiedere nuovi trattamenti perché vedeva la mamma poco curata, ha<br />

persino minacciato di denunciare tutti perché se avessimo continuato così avremmo finito<br />

per lasciar morire sua madre. È stato complesso gestire l’ansia della signora Roberta ed<br />

allo stesso tempo l’aggressività indifferenziata del figlio minore. Il momento di maggiore<br />

difficoltà è iniziato quando la signora Roberta diceva che non ce la faceva più e che forse<br />

era ora di lasciare questo mondo ed il figlio non voleva sentir nemmeno parlare di smettere<br />

con la fisioterapia, con le trasfusioni e tutto il resto che forse non era più così necessario.<br />

Questo esempio rende immagine di quanto peculiare sia il lavoro dello psicologo in Cure<br />

Palliative. Talvolta, infatti, non è così facile tenere insieme le esigenze del malato e quelle<br />

dei suoi familiari. La situazione si complica se si pone un dubbio etico sull’opportunità o<br />

meno di proseguire con un determinato trattamento (accanimento VS abbandono<br />

terapeutico). Certo, dev’esser sempre chiaro qual è il fulcro intorno al quale ruotano gli<br />

interventi dello psicologo e del resto dell’equipe: e, infatti, quando possibile si opera e si<br />

progetta l’intervento con il malato ma alle volte è impossibile per la gravità della sua<br />

condizione e diventa necessario intervenire sul malato e comunque per il malato: in questi<br />

casi si può porre un dubbio etico nel quale lo psicologo non può restare estraneo e<br />

difficilmente riesce ad essere “neutro”.<br />

A domicilio il professionista può avere maggiori difficoltà perché spesso interviene da solo<br />

(senza la contemporanea presenza di altri operatori) ma con la “supervisione” del familiare<br />

di riferimento, che costituisce, di fatto, nella maggior parte dei casi, una sorta di gerarchia<br />

fra i familiari che ruotano intorno al malato (e talvolta ne esclude qualcuno) e non sempre<br />

questa “lista” coincide con i desideri del malato!<br />

Le informazioni<br />

Una particolarità è data dal fatto che nel contesto delle Cure Palliative, nessun<br />

professionista opera da solo e alcune informazioni rilevanti devono essere messe a<br />

disposizione dai singoli professionisti all’equipe che insieme progetta un trattamento<br />

globale e un intervento multi-professionale 19 . In questo senso si esce dalla prassi del lavoro<br />

clinico tradizionale (ed anche di quella di alcuni altri contesti in cui si lavora in equipe) per<br />

19 “L’attività di documentazione deve essere effettuata attraverso la compilazione ed aggiornamento degli<br />

strumenti comuni che aiutino a rendere visibile e comunicabile parte del lavoro clinico e organizzativo svolto<br />

dagli psicologi con expertise in Cure Palliative” da LO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE.<br />

WORKSHOP pre-congressuale della Società Italiana di Cure Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010.


cui le informazioni rimangono segrete fra il malato e lo psicoterapeuta: vi sono infatti<br />

alcune informazioni, che, con il consenso del malato, vengono divulgate al resto<br />

dell’equipe che, a sua volta, è chiamata al segreto professionale e ne fa un uso strettamente<br />

clinico per progettare un migliore intervento per il malato.<br />

Rilevare o riferire in equipe conflitti aperti con alcuni familiari o specifici desideri del<br />

malato, permette agli operatori di leggere la dinamica complessiva degli avvenimenti ed al<br />

professionista di raccogliere ulteriori informazioni sull’andamento di uno specifico<br />

problema dagli operatori che passano molto tempo al fianco del malato e che possono<br />

integrare la sua visione del problema ed aggiungere informazioni utili ad un’inter-<br />

pretazione globale della situazione.<br />

Il confronto con lo psicologo permette anche agli altri membri dell’equipe di comprendere<br />

specifiche reazioni del malato e codificarle in maniera differente dalla prima impressione:<br />

per esempio quando il malato manifesta rabbia o aggredisce gli operatori, può essere<br />

difficile mantenere un atteggiamento distaccato e comprendere che non si tratta di un<br />

attacco personale, ma di una reazione ad un particolare disagio.<br />

È il caso del signor Pietro, sposato con Ada per vent’anni e padre di Luigi e Carlo, ma<br />

anche divorziato da Ada da quindici anni. Da dodici convive con Maria. Carlo e Luigi non<br />

vogliono nemmeno sentir nominare Maria. Il signor Pietro però vuol bene ai figli, ma vuol<br />

bene anche a Maria che con lui ha trascorso gli anni della malattia. Come mettere insieme<br />

le due posizioni? I figli hanno certo il diritto di stare al capezzale del padre morente, ma<br />

anche Maria desidera stare al fianco dell’uomo che ama e con il quale ha condiviso molti<br />

anni della sua vita. Per lei i figli di Pietro sono dei cari ragazzi, ma non ha molta<br />

confidenza con loro e non saprebbe come avvicinarsi, non ha mai avuto modo di interagire<br />

con nessuno dei due. Sa che sta perdendo l’uomo che ama, sa che anche i figli hanno<br />

capito la gravità della malattia e vogliono stare vicino al papà, anche se negli ultimi anni,<br />

non si sono visti molto in giro, se non il tempo di scucire al paparino qualche soldo e poco<br />

più. Ma se questa vicinanza serve a riconciliarli con il padre ben venga. Il signor Pietro poi<br />

vorrebbe la sua compagna vicino, vorrebbe dirgli come stanno le cose, perché non sa se i<br />

medici le hanno detto qualcosa e non vuole lasciarla sola.<br />

Gli operatori non riuscivano a comprendere l’aria pesante che si respirava nella stanza<br />

quando i figli del signor Pietro venivano a trovarlo ed in effetti si chiedevano se per caso ci<br />

fosse anche una donna nella vita del signor Pietro e se la madre dei ragazzi fosse morta o<br />

semplicemente i genitori fossero separati. Spesso non comprendevano la poca disponibilità


che qualche volta manifestava verso i figli e l’aggressività immotivata che il signor Pietro<br />

manifestava nei confronti degli operatori che le visite dei figli lo visitavano o<br />

s’informavano sull’andamento dei sintomi. Quando hanno compreso la complessità del<br />

quadro familiare, si sono detti: “meno male che il signor Pietro non è a casa, altrimenti da<br />

questo groviglio non se ne usciva!”<br />

Il lavoro dell’equipe, nel contesto domiciliare, dev’essere sempre coordinato, ma può<br />

essere più complesso avere e dare informazioni rapidamente sull’evoluzione del quadro di<br />

malattia. Nel caso dell’intervento in hospice risulta più agevole il flusso di informazioni e<br />

la gestione delle relazioni problematiche fra i familiari poiché si tratta di un terreno neutro;<br />

al contrario il malato non sempre riesce ad adattarsi al nuovo ambiente e talvolta sui<br />

familiari pesa un forte senso di colpa per aver abbandonato il proprio caro a mani estranee.<br />

Si aiuta il malato a salutare la vita ed i familiari e gli operatori a<br />

salutare il malato<br />

I bisogni dei malati possono essere molteplici e spesso assolutamente personali. Uno degli<br />

elementi frequentemente presenti nell’esperienza clinica tuttavia è la necessità del malato<br />

di sapere che tutto è sistemato e che le cose, dopo di lui, andranno come lui ha stabilito. Si<br />

parla in qualche modo di un “saluto alla vita” per cui il malato può chiedere di sistemare i<br />

propri averi fra gli eredi, chiudere cose lasciate in sospeso e, aspetto sempre rilevante, salu-<br />

tare le persone che ritiene importanti o che non gli danno pace per qualche vecchio attrito.<br />

In questa fase, spesso i malati chiedono di incontrare parenti o amici con i quali sono in<br />

disaccordo da anni. Qualche volta si possono coordinare incontri protetti in modo da<br />

liberare il malato o i familiari da questi sospesi. Altre volte ciò non è possibile e si<br />

utilizzano espedienti narrativi, per esempio lettere, capaci di dare la sensazione al malato di<br />

aver completato il suo compito, e allo stesso tempo di lasciare ai familiari la possibilità di<br />

mantenere i propri rancori intatti.<br />

Qualche volta in questa fase s’incontrano bisogni contrastanti da parte dei malati e dei<br />

familiari e ci si trova davanti a quella che viene definita la “congiura del silenzio” in cui<br />

nessuno vuole che si parli con l’altro della condizione reale della malattia, ma tutti, di fatto,<br />

ne sono a conoscenza.<br />

Ad esempio per la signora Adele dal giorno dell’ultimo intervento le cose erano cambiate,<br />

l’oncologo non si era più visto molto in giro, era comparso un nuovo medico che le<br />

chiedeva sempre se avesse dolore, se avesse sintomi particolari e come si sentisse. Nessuno


le parlava più di una nuova linea di chemio, o di radio. Le hanno proposto il cambio di<br />

reparto perché lì c’era più personale e le infermiere erano più gentili. Le facce dei suoi figli<br />

si erano fatte strane e scappavano sempre troppo presto quando andavano a trovarla, non<br />

aveva nemmeno il tempo di chiedere loro cosa stesse succedendo. Fatto il trasferimento,<br />

tutti si erano raccomandati di mantenere il riserbo sul fatto che si trattasse di un hospice.<br />

La signora Adele non poteva certo dire di stare male, tutti erano gentili e premurosi e non<br />

serviva pregare tanto per avere l’antidolorifico ma qualcosa non le tornava. Una notte ha<br />

aspettato di essere sola in stanza con Susanna, e mentre le cambiava la flebo le ha detto<br />

tutto... ormai so tutto, so che il mio corpo mi sta tradendo, so che sto per morire e che<br />

ormai tutte le mie speranze sono svanite, ma non capisco perché nessuno me ne abbia<br />

parlato (un pianto singhiozzante che non riusciva più a fermare). Non serve che tu mi dica<br />

nulla, il mio corpo mi dice esattamente quel che succede, quelle gambe che non rispondono<br />

più ormai lo so, ma non credo che i miei figli sappiano come stanno le cose, forse sarebbe<br />

meglio se continuassero a restare all’oscuro, non vorrei mi venissero a trovare perché gli<br />

faccio pena.<br />

L’abilità del terapeuta sta qui nel districarsi fra le diverse esigenze, tenendo presente che la<br />

parte più fragile e quindi da tutelare maggiormente è spesso il malato e che aiutando i<br />

familiari in un graduale processo di consapevolezza, si riescono a liberare emozioni<br />

altrimenti bloccate che faciliteranno, poi, anche l’avvento di un lutto non patologico in chi<br />

resta.<br />

Con l’approssimarsi della morte, oltre alla gestione dei sintomi vanno messe in atto alcune<br />

attenzioni verso il malato ed alla sua famiglia legate al particolare momento (per esempio<br />

chiedere se vuol essere accompagnato da un pastore appartenente alla sua confessione<br />

religiosa; verificare che i familiari abbiamo compreso la natura del momento; creare un<br />

clima di serenità e accoglienza adatto ad accogliere l’approssimarsi della morte<br />

imminente,...).<br />

3. Perché l’Analisi Transazionale? Perché la responsabilità<br />

del trattamento è condivisa fra curato e curante<br />

Una prima peculiarità delle Cure Palliative è di considerare il malato come un’unità<br />

piuttosto che una serie di processi patologici: ciò permette di progettare interventi globali


che tengano conto dei suoi bisogni fisici, psicologici e spirituali. Una seconda particolarità<br />

è di coinvolgere il malato come parte essenziale del processo di cura e quindi definire gli<br />

interventi con il paziente malato piuttosto che su di lui. In questo senso pensare al<br />

trattamento psicologico dei malati gravi secondo l’approccio contrattuale, fulcro del<br />

modello Analitico Transazionale, garantisce la possibilità di coinvolgere il più possibile il<br />

malato nelle decisioni che lo riguardano.<br />

Per esempio nel lavoro con la signora Giulia, sempre scontrosa e imbronciata, è stato<br />

complesso entrare nella stanza per diversi giorni, salutarla e chiederle come andava,<br />

sentendo sempre le solite risposte brusche ed evasive. La tentazione sarebbe stata quella di<br />

passare oltre la sua stanza e lasciare che sfogasse con altri il suo disagio.<br />

Finalmente un giorno la paziente chiede: “Perché ogni giorno torni da me, anche se io ti<br />

mando via e non ti lascio nemmeno finire quel che hai da dire?”.<br />

Quel giorno non ha chiuso la sua porta e mi ha lasciato entrare in punta di piedi, mi ha<br />

raccontato il suo desiderio più grande: incontrare la sorella con la quale da dieci anni non<br />

ha più rapporti.<br />

Colgo il momento e le propongo di scrivere una lettera alla sorella per dire le cose che<br />

riempiono il suo cuore, prima ancora di poter verificare la disponibilità ad un incontro da<br />

parte della sorella, meglio non correre il rischio di lasciare sospesi!<br />

Dopo il colloquio ho contattato la sorella per verificare la sua disponibilità all’incontro. Il<br />

giorno dopo entrando nella stanza ho trovato Giulia tutta sorridente, felice di vedermi e<br />

soddisfatta della lettera che avevamo scritto e che aveva riletto per tutta la notte.<br />

Quel che ho potuto osservare è che il tipo di contratti che vengono stipulati in questo<br />

contesto, sono atipici rispetto a quelli stipulati in altri contesti clinici: nello specifico si<br />

tratta di contratti brevi e continui. Gli obiettivi sono concordati con il malato nel “qui ed<br />

ora”, e riguardano un tempo relativamente breve. Si tratta di contratti di cambiamento atti<br />

a: 1. migliorare la condizione attuale del malato; 2. sanare aree critiche; 3. cambiare<br />

comportamenti o decisioni prese su aspetti specifici. Può trattarsi ad esempio di superare<br />

un sospeso con un familiare che dura da diversi anni, ma che ora, in previsione della morte,<br />

acquista un valore ed un significato particolare. Altre volte può riguardare desideri o sogni<br />

che il malato non ha mai avuto il coraggio o la possibilità di realizzare e che ora vuol<br />

portare a compimento. In altre occasioni si tratta di “perdonare” dei sospesi che si ritiene di<br />

aver trascurato e che non sono più sanabili sul piano di realtà, perché riguardano eventi<br />

passati che hanno prodotto specifiche conseguenze e che hanno bisogno di trovare una


pacificazione per non costituire più un peso emotivo gravoso. Spesso, si tratta di esternare<br />

e chiarificare emozioni che sono state mascherate o trattenute per molto tempo, ma che, nel<br />

momento presente possono trovare un loro sfogo ed avere una precisa identificazione.<br />

I contratti vengono in genere stipulati all’inizio di ogni incontro e possono costituire<br />

un’evoluzione di contratti precedenti, oppure esserne il naturale proseguimento o<br />

addirittura essere del tutto indipendenti. Qualche volta si tratta di contratti espliciti, quindi<br />

formalmente concordati, altre volte sono piuttosto impliciti e nascono da una priorità che il<br />

terapeuta vede in quel momento del lavoro. Il terapeuta ha il compito di: 1. facilitare la<br />

chiarificazione dei contenuti emotivi, talvolta resi incomprensibili da anni di cattiva<br />

“educazione” emotiva, oppure di 2. indicare possibili difficoltà relazionali emerse anche<br />

durante i colloqui con i familiari o di 3. ancora aiutare il malato a costruire una prospettiva<br />

costruttiva in termini di progettazione del futuro, seppure prossimo. Nel far ciò il terapeuta<br />

è guidato anche dalle informazioni fornite dagli altri operatori e dai familiari per evitare di<br />

progettare “sogni” irrealizzabili che rischierebbero di risultare più frustranti che costruttivi.<br />

Se, per esempio, il terapeuta è a conoscenza del rifiuto di un particolare familiare di<br />

incontrare il malato per un chiarimento, sceglierà una modalità indiretta per risolvere un<br />

confitto, come, nell’esempio appena citato, quella di scrivere una lettera immaginando di<br />

indirizzarla ad una persona precisa per dichiarare tutte le proprie emozioni. Talvolta la<br />

modalità indiretta ha anche la funzione di proteggere le persone che sopravviveranno al<br />

malato da contenuti emotivi eccessivamente intensi, se ciò non ha per loro alcun beneficio.<br />

Un carattere particolare di questi contratti brevi e continui è che ciascuno di essi dovrebbe<br />

sempre essere pensato come quello che potenzialmente termina la terapia. Di fatto la<br />

possibilità di incontrare nuovamente il malato non è mai certa. Dal punto di vista<br />

strategico, quest’aspetto ha una valenza molto importante perché richiede al terapeuta la<br />

consapevolezza di lasciare il malato dopo ogni incontro in una condizione buona, evitando<br />

che restino canali emotivi aperti o sospesi. Oltre a chiudere parentesi emotive aperte<br />

durante l’incontro, il terapeuta può aver bisogno di informare i colleghi di eventuali<br />

progetti che possano essere realizzati in un tempo diverso da quello in cui il professionista<br />

è fisicamente presente (come nell’esempio appena citato organizzare una festa di<br />

compleanno con i familiari o un pranzo speciale per una ricorrenza). Talvolta il terapeuta<br />

può dover informare i colleghi che operano nello stesso contesto anche dei casi in cui sia<br />

possibile prevedere reazioni emotive intense per effetto di un particolare evento o incontro.<br />

I diversi contratti che si susseguono nel corso della terapia seguono un criterio di urgenza e


d’insorgenza della consapevolezza piuttosto che una graduale linearità tipica del lavoro<br />

clinico tradizionale. Proprio perché il criterio di scelta delle priorità di cura è dato<br />

dall’urgenza, può capitare che si concordi prima di lavorare su aspetti molto intimi e<br />

profondi del malato e solo più tardi su elementi più superficiali quali la scelta di strategie<br />

più funzionali per manifestare le proprie emozioni.<br />

Nella maggior parte dei casi, nella pratica clinica in Cure Palliative, non si ha una vera e<br />

propria conclusione della terapia, o meglio questa si conclude nel momento in cui: 1.<br />

subentra la morte; 2. il malato non è più in grado di interagire efficacemente (anche solo<br />

per effetto di trattamenti farmacologici, che gestiscono i sintomi ma che offuscano la sua<br />

possibilità di interagire in modo consapevole). L’interazione non consapevole del malato<br />

può essere condizione per cui non vi sia più un coinvolgimento attivo di quest’ultimo, ma<br />

l’intervento del terapeuta al fianco del malato può continuare nelle relazioni con i familiari;<br />

3. nella fase finale del trattamento il lavoro del terapeuta può anche assumere una valenza<br />

rassicurante richiedendo maggiormente una sorta di “accudimento” corporeo che fa sentire<br />

il malato al sicuro e crea le condizioni fisiche ed ambientali adeguate al sopraggiungere<br />

della morte.<br />

La formazione A.T. prevede una supervisione continua ed un<br />

lavoro personale<br />

Proprio perché il contesto delle Cure Palliative è così particolare, non può essere uno dei<br />

settori clinici nei quali ci si immette per una serie di coincidenze, senza aver prima<br />

verificato alcuni aspetti: 1. Un buon lavoro psicoterapico personale; 2. Una supervisione<br />

clinica abbastanza assidua; 3. un’accurata riflessione su se stessi e sui propri obiettivi<br />

professionali.<br />

Verificati questi prerequisiti, alcuni dei quali sono comunque previsti nel nostro training<br />

formativo, che a differenza di altri approcci rendono obbligatori il lavoro personale e la<br />

supervisione clinica potrebbe essere opportuno, a mio avviso, valutare il momento di vita,<br />

dato che si tratta di un’attività da svolgere preferibilmente: 1. in momenti di vita<br />

relativamente sereni; 2. accompagnata da una supervisione clinica costante 20 ; 3. supportata,<br />

20 “Lo Psicologo esperto in Cure Palliative s’impegna a perseguire una supervisione clinica personale” da<br />

LO PSICOLOGO IN CURE PALLIATIVE. WORKSHOP pre-congressuale della Società Italiana di Cure<br />

Palliative. Roma, 30/11 - 1/12/2010.


nei momenti di necessità, da percorsi di terapia individuale o di gruppo per elaborare i<br />

contenuti emotivi emersi durante il lavoro con i malati che hanno maggiore risonanza; 4.<br />

con una formazione etica adeguata che renda capaci di aiutare malati e familiari a<br />

decodificare e comprendere i propri valori etici per compiere scelte rilevanti per la vita<br />

propria o dei propri cari.<br />

4. Riflessioni conclusive<br />

Nel corso della relazione è stata descritta la particolare relazione necessaria per operare in<br />

questo ambito ed è stato sottolineato come il coinvolgimento del terapeuta coinvolga la sua<br />

competenza tecnica e la sua fisicità, ma anche i suoi valori etici.<br />

È stata osservata la particolarità del setting che appare abbastanza atipico sia per durata e<br />

cadenza delle sedute, ma soprattutto perché nella maggior parte dei casi avviene nello<br />

spazio di vita del malato.<br />

Si è visto come in Cure Palliative, vi sia un modo particolare di considerare il tempo che,<br />

se da un lato costringe a sperimentare l’urgenza di chiudere canali emotivi, dall’altro è<br />

fatto di essenzialità capace di cogliere le cose davvero importanti.<br />

La complessità di questo contesto, come si è potuto vedere, nasce anche dalla molteplicità<br />

di relazioni che contemporaneamente si instaurano intorno ad un singolo malato (familiari,<br />

operatori...).<br />

Il momento particolare della vita del malato costringe tutti coloro che vi interagiscono a<br />

misurarsi con la fine della propria vita e con le proprie paure connesse a questo delicato<br />

aspetto della vita. Compito del professionista tuttavia, è di tenere sempre presente il malato<br />

e le sue esigenze ed offrire una visione d’insieme necessaria a garantire un buon equilibrio<br />

di tutte le parti coinvolte.<br />

È stato sottolineato come l’operare in Cure Palliative, per uno psicoterapeuta con una<br />

formazione Analitico Transazionale ed un certo grado di esperienza clinica alle spalle,<br />

possa essere molto stimolante ed il suo contributo possa aiutare efficacemente i malati ed i<br />

familiari che gli vengono affidati.<br />

Lo psicoterapeuta con questa formazione, infatti, è in grado di aiutare gli altri perché:<br />

1. Sa essere flessibile fra diversi livelli di relazione e può condurre un lavoro in base a


contratti “soffici” (di controllo sociale) ed a contratti “duri” (di cambiamento verso<br />

l’autonomia) riuscendo a passare anche rapidamente da un livello all’altro. Altri approcci<br />

ne prediligono generalmente l’uno o l’atro (per esempio Psicoanalitico o<br />

Comportamentale).<br />

2. Gestisce dinamiche di gruppo su diversi livelli poiché sa agire con e nel gruppo così da<br />

poter coordinare ciò che accade in un’equipe, condurre gruppi di elaborazione del lutto e<br />

gestire diversi familiari o caregivers che ruotano contemporaneamente intorno al<br />

medesimo malato.<br />

3. Considera il malato parte attiva di cura ed instaura con lui un rapporto OK-OK che<br />

rende quest’ultimo protagonista della stesura del proprio piano terapeutico.<br />

4. Come terapeuti di altri approcci teorici, conosce ed utilizza la comunicazione non<br />

verbale, ma può avere nel suo bagaglio formativo, od integrarlo successivamente, alcune<br />

tecniche corporee utili in alcuni lavori con persone alla fine della vita.<br />

Come anticipato nelle prime battute della relazione si tratta di un lavoro in continua<br />

evoluzione, quindi anche le riflessioni presentate oggi sono in continua evoluzione e spero<br />

saranno oggetto di confronto e di dibattito.


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Atti del Convegno Nazionale di Analisi Transazionale SIAT 1996. Roma, 11-13 aprile. pp.<br />

19-25. Roma: SIAT.<br />

Vella, E. (1994) Il contratto di responsabilità, strumento terapeutico per il malato in fase<br />

terminale. In A.T. 26-27.<br />

Ringrazio coloro che più mi hanno insegnato in quest’ambito: le persone che ho<br />

accompagnato alla fine della loro vita, tutti i morenti che sono stati miei veri maestri; il<br />

dott. Martucci, che mi ha stimolata ed incoraggiata nel realizzare quest’intervento e le<br />

persone che sono al mio fianco ogni giorno e che mi offrono il loro amore.<br />

Ringrazio sin d’ora tutti coloro che vorranno offrirmi commenti e suggerimenti e sarò<br />

felice di aprire un confronto sulle diverse tematiche affrontate nella mia relazione.<br />

Potere contattarmi telefonicamente al n. 348-28.42.656 oppure via e-mail all’indirizzo:<br />

contatti@martaroncaglia.it


Sessualità, emozioni ed immagine di sé in<br />

donne con diagnosi di tumore al seno<br />

S. Marredda, V. Sanna, A. Cuccu, M. G. Alicicco, T. Scotto, G.<br />

Baldino, N. Olmeo, A. Contu<br />

Introduzione e obiettivo dello studio<br />

È ampiamente riconosciuto che il cancro al seno e il suo trattamento determinano un<br />

impatto negativo sulla sessualità, solitamente valutato in termini di disturbi nella funzione<br />

sessuale, così come di interruzione dell’eccitazione, della lubrificazione, dell’orgasmo, del<br />

desiderio e del piacere sessuale. I bisogni delle donne con diagnosi di carcinoma<br />

mammario sono poco studiati in ambito medico. Inoltre gli studi sulla sessualità volti ad<br />

indagare il mondo interiore delle donne con diagnosi di tumore al seno sono non specifici,<br />

limitati ad un approccio qualitativo e gran parte non utilizzano una cornice teorica di<br />

riferimento.<br />

Pertanto lo scopo di questo studio è descrivere, in donne con diagnosi di tumore al seno, gli<br />

aspetti della sessualità con particolare attenzione ai risvolti psicologici utilizzando la<br />

cornice teorica dell’Analisi Transazionale Socio-Cognitiva che fornisce una struttura<br />

organizzata al disegno di ricerca e permette di dare senso e organicità ai risultati.<br />

Metodi utilizzati nello studio<br />

61 pazienti con carcinoma mammario, di età compresa tra 30-65 anni, sono state invitate a<br />

compilare i seguenti questionari: i) un’intervista semi-strutturata (IS) per valutare la vita<br />

sessuale; ii) un questionario sulle emozioni (QE) per indagare la presenza di paura, rabbia,<br />

tristezza e gioia; iii) un questionario autodescrittivo ANINT (Benjamin-Scilligo 2003) per<br />

rilevare le modalità di rapporto con se stesse nella propria vita quotidiana, secondo due<br />

dimensioni: affiliazione (amore e odio verso di sé), interdipendenza (autocontrollo e<br />

spontaneità verso di sé).


L’intervista semistrutturata (IS) sul funzionamento sessuale è stata costruita in parte, sulla<br />

base del Sexual Activity Questionnaire (SAQ) modificato ad hoc con l’introduzione di<br />

nuove domande maggiormente informative riguardo al tipo di trattamenti effettuati, al<br />

cambiamento della sessualità e alla direzione del cambiamento della vita sessuale.<br />

Il questionario (QE) indaga 4 emozioni: paura, rabbia, tristezza e gioia; è stato costruito<br />

sulla base del DT (Distress Thermometer), strumento di collaudato uso elaborato dal<br />

NCCN (National Comprehensive Cancer Network), per misurare su una scala analogico-<br />

visiva (da 0 a 10) il livello di distress sperimentato . Essendo il distress una multifattoriale<br />

spiacevole esperienza che può interferire con la efficace capacità di adattamento al cancro<br />

abbiamo ipotizzato che il disagio contenga una componente emotiva non specificatamente<br />

indagata dal questionario DT, per cui abbiamo ideato un termometro delle emozioni che<br />

indaga per ciascuna emozione (paura, rabbia tristezza e gioia) l’intensità sperimentata nelle<br />

ultime due settimane secondo un continuum che va da 1 = nulla a 10 = massima intensità.<br />

L’ANINT-A-36 è uno dei numerosi questionari del sistema INTREX che misura<br />

autodescrittivamente il mondo interiore di chi lo compila. La persona legge gli item ed<br />

esprime quanto ritiene di essere nella prossimità delle descrizioni. La natura del profilo che<br />

emerge permette di fare delle ipotesi sui modelli operativi interni più accessibili nel gestirsi<br />

della vita quotidiana, definita in questo specifico caso, dalla diagnosi di avere un tumore al<br />

seno. Abbiamo deciso di utilizzare l’ANINT perché riflette la condizione particolare del<br />

momento che la persona sta vivendo e quindi ci permette di individuare gli Stati dell’Io che<br />

la persona con diagnosi di tumore tende ad esemplare.<br />

A partire dal modello dell’ATSC abbiamo ipotizzato che, per abbandonarsi ad un incontro<br />

sessuale con il proprio partner, la donna deve attivare stati dell’Io Sé Liberi e Protettivi<br />

permeati di affettività positiva che invitano all’incontro e al collegamento amorevole e<br />

deve avere anche la capacità di danzare tra attiva e creativa esplorazione e adattarsi e<br />

ritirarsi strategicamente.<br />

Nello specifico ha da sperimentarsi spontanea nel fare ciò che desidera (Stato dell’Io Sé<br />

Genitore Libero) accettarsi e riflettere individuando le sue emozioni (Stato dell’Io Sé<br />

Adulto Libero), apprezzarsi (Stato dell’Io Sé Bambino Libero), accettare attenzioni e<br />

affetto (Stato dell’Io Sé Bambino Protettivo) e regolarsi in modo protettivo nella relazione<br />

(Stato dell’Io Sé Adulto Protettivo). Al contrario difficoltà nella vita sessuale sono<br />

maggiormente associate all’attivazione di Stati dell’Io del II (Stati dell’Io Sé Ribelli) e III<br />

quadrante (Stati dell’Io Sé Critici) caratterizzati da comportamenti di darsi e togliersi


potere in modo ostile.<br />

Composizione del campione<br />

Sono stati esclusi dallo studio persone con precedenti problemi sessuali, sottoposte a<br />

trattamenti diversi da chemioterapia e ormonoterapia, e questionari incompleti. Lo studio è<br />

stato condotto elaborando 61 questionari.<br />

Il campione è suddiviso omogeneamente in tre fasce d’età (35-45; 46-55; 56-65 anni). La<br />

stragrande maggioranza del nostro campione è sposata (90%) e ha almeno un figlio (78%).<br />

Quasi il 60% è stato sottoposto a un intervento chirurgico conservativo come la<br />

quadrantectomia (QUART), il restante 41% ha subito un intervento radicale demolitivo<br />

come la mastectomia di cui solo il 7% non ha avuto una ricostruzione contestuale.<br />

Risultati<br />

1. Dimensione sessuale<br />

Il primo aspetto che abbiamo voluto indagare è se la sessualità delle donne con diagnosi di<br />

tumore e sottoposte a trattamento è cambiata e se esiste una variazione sessuale rispetto al<br />

tipo di chirurgia o terapia a cui sono sottoposte.<br />

Dai risultati emerge che il 68% delle donne intervistate sostiene di avere dei problemi<br />

sessuali da quando si è ammalata e vive delle difficoltà legate alla componente psicologica<br />

piuttosto che fisica.<br />

Non emerge una differenza statisticamente significativa tra il tipo di chirurgia e di terapia e<br />

il cambiamento o meno della propria sessualità. A riguardo la letteratura riporta risultati<br />

contrastanti.<br />

2. Dimensione emozionale<br />

Il secondo aspetto indagato da questo studio ha riguardato l’esame delle emozioni.<br />

Abbiamo preso in considerazione il gruppo delle emozioni “negative” (paura, rabbia e


tristezza) e l’emozione “positiva” (gioia) e abbiamo voluto vedere se esiste una diversa<br />

attivazione emotiva in base al tipo di trattamento effettuato.<br />

Per quanto riguarda la chirurgia, dal test t di Student, non emerge nessuna differenza<br />

significativa tra il tipo di intervento e il livello di emozioni negative e positive sperimen-<br />

tate. Ipotizziamo che la stragrande maggioranza delle persone che hanno subito mastecto-<br />

mia ha ricevuto contestualmente la ricostruzione del seno, ciò può aver bilanciato il<br />

maggiore impatto sulla qualità della vita che un intervento di mastectomia ha rispetto ad un<br />

intervento di chirurgia conservativa (quadrante).<br />

Mentre emerge, per quanto riguarda l’emozione di paura, una differenza di media statisti-<br />

camente significativa (P= 0,046) tra il gruppo che fa chemioterapia rispetto a chi fa<br />

ormonoterapia. Questo dato può essere connesso ad una condizione clinica peggiore e ad<br />

effetti collaterali più pesanti come ad esempio la perdita dei capelli solitamente associata<br />

ad una presa di coscienza della gravità della malattia a cui fanno seguito pensieri negativi<br />

di morte. Anche la letteratura rileva maggiori stati di ansia e depressione in chi è sottoposto<br />

a chemioterapia. Viceversa chi è sottoposto ad ormonoterapia sperimenta la gioia in misura<br />

maggiore rispetto a chi è sottoposto a chemioterapia. È risaputo come l’ormonoterapia sia<br />

meglio tollerata. Tenendo conto del fatto che ad un intervento chirurgico è associato un<br />

periodo di terapia farmacologica abbiamo voluto analizzare le medie di tutte le diverse<br />

combinazioni possibili di terapia e chirurgia.<br />

La combinazione statisticamente significativa che comporta una media delle emozioni<br />

negative più alta sembra essere mastectomia con chemioterapia. Quest’ultima è<br />

maggiormente correlata ad uno stato emozionale negativo in cui prevale statisticamente la<br />

componente della tristezza, e il suo effetto in termini emotivi sembra essere più<br />

pronunciato quando abbinata alla mastectomia. Tutti gli altri rapporti per quanto riguarda<br />

le medie delle emozioni sono risultati non statisticamente significativi. Compatibilmente a<br />

questi dati la gioia è presente in misura minore in coloro che hanno fatto mastectomia e<br />

chemioterapia rispetto a coloro che hanno fatto quadrante + ormonoterapia e mastectomia<br />

+ ormonoterapia.<br />

Infine dal test t di Student non emerge una differenza significativa tra il cambiamento o<br />

meno della sessualità e le emozioni sperimentate. Va verso la significatività la differenza di<br />

media per la tristezza. Quindi potrebbe sembrare che coloro che affermano che la loro<br />

sessualità è cambiata sono più tristi rispetto a coloro che affermano il contrario.


3. Dimensione intrapsichica<br />

Abbiamo creato due gruppi (alta e bassa sofferenza) e abbiamo voluto verificare se esisteva<br />

una differenza di profilo che emerge dall’ANINT.<br />

Il gruppo alta sofferenza è composto da persone che ritengono (1) che la propria sessualità<br />

è cambiata e (2) che sperimentano un livello delle emozioni negative al di sopra della<br />

media delle emozioni sperimentate dal campione. Chi non aveva tali caratteristiche è stato<br />

inserito nel gruppo a bassa sofferenza.<br />

I dati ottenuti evidenziano una differenza di profilo significativa: coloro che rientrano nel<br />

gruppo ad alta sofferenza attivano Stati dell’Io Sé del II e III quadrante (Ribelli e Critici)<br />

caratterizzati da affettività distruttiva e da autocontrollo verso di sé. In particolare tendono<br />

ad attivare: Adulto Critico (AC), Bambino Critico (BC), Adulto Ribelle (AR) con un valore<br />

P


In conclusione chi vive un cambiamento in peggio nella propria vita sessuale tende ad<br />

avere un rapporto con se stessa caratterizzato da affettività negativa e da un togliersi e darsi<br />

potere in modo distruttivo (AC e AR).<br />

Infine abbiamo voluto verificare se esiste una differenza di profilo nell’ANINT in base al<br />

tipo e al livello di emozione sperimentato.<br />

Abbiamo preso in considerazione separatamente emozioni negative ed emozioni positive.<br />

Tenendo conto delle sole emozioni negative abbiamo creato due gruppi: alta e bassa<br />

sofferenza emozionale. Il gruppo di alta sofferenza è costituito da soggetti che vivono un<br />

livello di emozioni al di sopra della media del campione, viceversa chi vive un livello delle<br />

emozioni inferiore alla media del campione fa parte del gruppo a bassa sofferenza.<br />

Dal test t di Student emerge una differenza significativa: dal confronto delle medie di alta e<br />

bassa sofferenza emozionale per gli Stati dell’Io Sé AC, BC, BR e AR sono attivati<br />

nell’alta sofferenza emozionale e d’altra parte le persone che hanno medie delle emozioni<br />

negative più basse, e che quindi soffrono meno, attivano AL, BL suggerendo una rapporto<br />

con sé accettante e benevolo nei propri confronti.<br />

Infine abbiamo confrontato i profili dell’ANINT dei due gruppi ad alta e bassa gioia.<br />

Fanno parte del gruppo ad alta gioia tutti coloro che sperimentano un livello di gioia<br />

superiore alla media del campione viceversa tutti coloro che sperimentano la gioia al di<br />

sotto della media del campione fanno parte del gruppo a bassa gioia.<br />

MGL MAL MBL MBP MAP MGP MGC MAC MBC MBR MAR MGR<br />

anint vs sofferenza<br />

medie alta sofferenza 61,1 61,1 53,8 71,9 70,9 55,0 54,5 37,6 28,2 29,1 40,7 39,2<br />

media bassa sofferenza 64,8 74,6 68,3 71,7 68,6 53,8 54,0 22,7 16,5 18,1 25,8 31,6<br />

anint vs qualità sessuale<br />

media sessualità cambiata indice >3 69,4 72,2 65,0 69,2 76,1 65,8 61,7 43,9 28,3 39,4 47,8 47,5<br />

media sessualità non cambiata 62,6 77,2 69,6 71,8 66,1 52,4 52,6 24,0 18,6 19,1 25,3 29,2<br />

anint vs emozioni negative<br />

media emozioni negative alta 61,9 64,8 55,1 69,7 68,1 53,7 51,6 36,0 27,8 28,4 38,2 36,6<br />

media emozioni negative bassa 65,0 74,4 70,9 73,9 70,8 54,8 56,9 20,3 13,4 16,8 24,3 32,2<br />

anint vs gioia<br />

media gioia bassa 62,8 65,2 58,3 69,6 66,6 55,1 54,2 32,9 24,1 26,3 35,6 35,2<br />

media gioia alta 64,7 77,3 71,1 75,6 74,4 52,7 54,2 20,0 14,7 16,1 23,8 33,0<br />

Tabella Riassuntiva dei risultati dell’ANINT: la tabella riporta le medie di attivazione degli Stati dell’Io, le<br />

caselle evidenziate in colore mostrano i risultati significativi al T-test. Rosso: Stati dell’Io attivati nei<br />

quadranti della patologia con p


Dal test t di Student emergono delle differenze significative. Le persone con livelli elevati<br />

di gioia tendono ad attivare maggiormente Stati dell’Io AL e BL caratterizzati da affettività<br />

positiva e spontaneità verso di sé, comprensibilmente tendono ad attivare meno l’AC.<br />

Conclusioni<br />

I risultati ottenuti evidenziano come le problematiche nella vita sessuale siano inficiate non<br />

solo da una componente fisica ma, sembrerebbe, soprattutto da un disagio psicologico.<br />

Livelli elevati di sofferenza comportano un’attivazione di Stati dell’Io Sé della quaterna<br />

della patologia pertanto la psicoterapia individuale potrebbe essere efficace e perciò<br />

indicata al fine di stimolare l’attivazione di Stati dell’Io Sé della quaterna del benessere e<br />

quindi diminuire il disagio psicologico e migliorare la qualità della vita sessuale di tali<br />

pazienti. Inoltre il questionario ANINT usato con persone con diagnosi di tumore al seno si<br />

è dimostrato sensibile all’analisi della sofferenza sia emozionale che sessuale.<br />

Prospettive future<br />

Riteniamo interessante proseguire lo studio e somministrare l’ANINT allo stesso campione<br />

alla fine dei trattamenti e vedere se esiste una differenza di profilo. Come prospettive<br />

future si potrebbe pensare di somministrare il questionario a coloro che si sottopongono a<br />

screening mammografico e/o consulenza genetica al fine di fare un paragone tra<br />

l’attivazione di Stati dell’Io pre e post-diagnosi. Infine un ulteriore ambito di applicazione<br />

del questionario ANINT è il rapporto di coppia ancora poco indagato in ambito oncologico.


Bibliografia<br />

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Scilligo, P. (Ed.). (1987). La sinfonia dei molti sé. Roma: IFREP.<br />

Scilligo, P. (Ed.). (2009). Analisi Transazionale socio-cognitiva. Roma: LAS.<br />

Sara Marredda, Valeria Sanna, Angelo Cuccu, Maria Grazia Alicicco, Tiziana Scotto,<br />

Gianni Baldino, Nina Olmeo, Antonio Contu<br />

Struttura Complessa di Oncologia Medica - ASL n°1<br />

Ospedale Civile «Santissima Annunziata», Sassari


PARTE II<br />

SESSIONE <strong>VII</strong>I - Moderatore Laura Quagliotti


Evoluzione e Cambiamento<br />

nella dimensione educativa<br />

Il lavoro con il gruppo classe e i bisogni relazionali<br />

dell’A.T. Integrativa<br />

M. G. Pagni<br />

Il lavoro da me presentato al Primo Convegno Nazionale delle Associazioni Italiane di A-<br />

nalisi Transazionale tenutosi a Roma, ha posto l’accento su di un modello di apprendimen-<br />

to relazionale, sperimentato con una classe di seconda media particolarmente “problema-<br />

tica”, declinato secondo le strategie ed alcuni strumenti dell’A.T. Classica ed Integrativa.<br />

Il lavoro, di natura essenzialmente pratica, ha alla base una serie di costrutti teorici che<br />

fanno riferimento sia alle teorie di natura psicopedagogica, che alla specifica teoria<br />

dell’Analisi Transazionale. Nello specifico si è tentato di operare una correlazione tra<br />

l’Analisi Transazionale e gli sviluppi apportati dall’Analisi Transazionale Integrativa, nel<br />

lavoro con l’età evolutiva, con il focus sulla preadolescenza, valutando questa in relazione<br />

ai bisogni e permessi specifici che la caratterizzano.<br />

La presentazione del lavoro con un gruppo di preadolescenti all’interno della classe, ha<br />

permesso di evidenziare nella pratica, l’efficacia dell’approccio dell’Analisi Transazionale<br />

Integrativa, soprattutto negli aspetti correlati ai bisogni relazionali, al contatto interno ed<br />

esterno, inerenti lo sviluppo delle capacità relazionali.<br />

Il lavoro svolto con questo gruppo classe è stato centrato sullo sviluppo delle abilità e delle<br />

competenze relazionali, al fine di intraprendere azioni positive per la propria salute e il<br />

proprio benessere. La scuola nel suo ruolo di Istituzione educativa e socializzante, ha<br />

anche il compito di promuovere il benessere individuale e l’efficacia collettiva, attraverso<br />

l’osservazione e l’analisi di aspetti critici della salute e l’acquisizione di competenze<br />

psicosociali, al fine di contribuire in maniera determinante alla nascita e allo sviluppo di<br />

cittadini dotati di autoefficacia.<br />

Il concetto di benessere è strettamente legato ai concetti di qualità della vita e di salute,


soprattutto nella sua accezione soggettiva, intesa come soddisfazione personale, autostima,<br />

senso di fiducia e senso di appartenenza. La promozione del benessere nel contesto<br />

scolastico si inserisce nell’ottica della promozione alla socializzazione attraverso lo<br />

sviluppo della competenza comunicativa, della comprensione dell’altro, della capacità di<br />

ascolto, di collaborazione costruttiva, di cooperazione e gestione dei conflitti.<br />

Alla luce delle raccomandazioni dell’O.M.S. in merito alle competenze psicosociali<br />

indispensabili alle nuove generazioni, sono stati approntati, a livello nazionale, interventi<br />

nel contesto scolastico, attraverso il programma Life Skills Education, che è volto alla<br />

promozione del benessere e alla prevenzione del disagio attraverso l’insegnamento di<br />

capacità di gestione dell’emotività e delle relazioni sociali. L’educazione alle Life Skills è<br />

molto di più di una strategia di prevenzione, rappresenta il diritto dovere d’intraprendere<br />

azioni positive per sé e per gli altri, promuovendo relazioni sociali costruttive ed efficaci.<br />

Le Life Skills che si possono ricondurre all’area relazionale sono: il problem solving, il<br />

pensiero critico ed il pensiero creativo, la comunicazione efficace, l’empatia, la gestione<br />

delle emozioni e dello stress, l’efficacia personale e l’efficacia collettiva.<br />

La richiesta del mio intervento è nata dal fatto che la classe, una seconda media di 22<br />

alunni, a prevalenza maschile, presentava notevoli difficoltà relazionali, difficoltà emotive,<br />

disagi di natura familiare, e, conseguentemente, uno scarso rendimento scolastico. Tutto<br />

ciò aveva determinato la strutturazione di comportamenti inadeguati al contesto scolastico,<br />

con una marcata compromissione dell’autostima ed un apprendimento rallentato. È stato<br />

molto importante il lavoro preparato a monte con il Consiglio di Classe e soprattutto la<br />

collaborazione con la docente coordinatrice, che si è rivelata una risorsa preziosa. In un<br />

secondo momento è stato presentato il lavoro ai ragazzi, focalizzando l’attenzione sull’a-<br />

scolto dei loro bisogni, per poter procedere alla formulazione di un contratto formativo. A<br />

questo proposito i ragazzi hanno espresso la necessità di avere rapporti migliori tra<br />

compagni e più fiducia in se stessi.<br />

Il lavoro, proposto sotto forma di progetto, ha avuto la finalità di aiutare i ragazzi a miglio-<br />

rare la conoscenza di se stessi e la capacità di stabilire relazioni soddisfacenti con i coeta-<br />

nei e con gli adulti, attraverso la costruzione di un percorso basato su esercitazioni, giochi<br />

di ruolo e tecniche di consapevolezza e comunicazione, volti a promuovere quel senso di<br />

autostima indispensabile per dare il meglio di sé nelle situazioni impegnative che la vita<br />

riserva.<br />

Gli obiettivi quindi si sono centrati sulla possibilità di creare un senso di coesione sociale,


migliorando le relazioni interpersonali, sul riconoscere ed esprimere adeguatamente le<br />

emozioni, sviluppare una congruenza tra emozioni, pensieri e comportamenti, riconoscere<br />

il valore dell’altro come persona, prendere coscienza dell’esistenza di un mondo sociale.<br />

Per arrivare a questo è stato necessario che i ragazzi attraversassero un percorso di<br />

alfabetizzazione emozionale per facilitare il loro processo di autovalutazione, che a sua<br />

volta ha permesso lo sviluppo di un maggior senso di autonomia e di responsabilità, sia a<br />

livello personale che sociale. L’obiettivo finale è stato quello di aiutare i ragazzi a “vedere”<br />

le proprie modalità relazionali e costruire un processo comunicativo più funzionale e più<br />

consapevole, utilizzando alcune griglie di lettura teoriche e pratiche.<br />

I contenuti principali del lavoro hanno posto l’accento soprattutto sui vari linguaggi<br />

(parole, corpo e comportamenti), sulla differenza tra istinti, emozioni e sentimenti, sui<br />

bisogni relazionali, sul valore dei gesti (veri, vuoti, falsi), sul rapporto con se stessi, con gli<br />

amici e con gli adulti, e soprattutto sulle dinamiche del gruppo classe.<br />

Dal punto di vista metodologico si è cercato di presentare il lavoro attraverso brevi<br />

comunicazioni teoriche, favorendo soprattutto le attività esperienziali, attraverso l’analisi<br />

del quotidiano presentato dai ragazzi e attraverso storie, racconti e metafore che possono<br />

offrire utili spunti di riflessione. Queste modalità operative (tecniche di simulazione, role-<br />

playing, fantasia guidata, circle time...), hanno stimolato il coinvolgimento personale, e<br />

sono state utili per concretizzare e filtrare, tramite l’esperienza diretta, i contenuti proposti.<br />

Attraverso la stimolazione dei processi interattivi è stata rinforzata nei ragazzi un’immagi-<br />

ne positiva di sé, che ha permesso di stabilire un rapporto più adeguato con il mondo<br />

adulto.<br />

L’intervento, strutturato all’interno di un quadrimestre scolastico, ha previsto incontri<br />

settimanali di due ore consecutive in orario scolastico, con lo stesso gruppo classe.<br />

Paradigmi epistemologici di riferimento<br />

Considerando il lavoro all’interno del gruppo classe come un apprendimento relazionale, le<br />

teorie di riferimento hanno tenuto conto di questo costrutto, declinato secondo il pensiero<br />

di alcuni autori significativi come Vygotskij, Bruner; Piaget, Lave e Wenger, e secondo<br />

l’approccio Analitico Transazionale a partire da Berne, Erskine e altri autori che hanno


approfondito lo studio sull’età evolutiva come Pam Levin, Romanini, Giusti, Munari Poda.<br />

L’apprendimento viene inteso, secondo questi paradigmi, come un processo dialogico<br />

sociale e culturale, di natura bidirezionale, nel quale la creazione di significati non è<br />

individuale, ma avviene nell’interazione con l’altro e all’interno di un contesto necessario<br />

allo sviluppo della conoscenza.<br />

L’individuo non è avulso dal contesto relazionale di appartenenza e, all’interno di esso,<br />

attiva il processo di conoscenza.<br />

Secondo Vygotskij la conoscenza si configura come “una mediazione di significati che si<br />

attua nella relazione e che porta a modificazioni e condivisioni reciproche di senso. La<br />

dimensione sociale e la partecipazione allo scambio cognitivo con l’altro è fondamentale<br />

per lo sviluppo del pensiero e della conoscenza.” L’apprendimento assume quindi una<br />

dimensione collaborativa e di interazione sociale che Vygotskij aveva definito “zona di<br />

sviluppo prossimale”, intendendo quell’area di apprendimento che si viene a creare tra ciò<br />

che sappiamo fare singolarmente, in termini di conoscenza ed abilità, e quello che siamo in<br />

grado di fare con l’aiuto di qualcuno competente (adulto o pari più capaci). Sulla stessa<br />

scia Bruner, attraverso il concetto di “scaffolding” (nel significato di impalcatura di<br />

sostegno), mette a punto una modalità relazionale che permette al bambino una nuova<br />

costruzione cognitiva, che l’interazione con un adulto o con un partner più esperto gli<br />

fornisce.<br />

Le teorizzazioni di Piaget prevedono la costruzione della conoscenza come una dinamica<br />

continua di “assimilazione”, da parte della persona, di contenuti provenienti<br />

dall’interazione con “l’esterno” nei propri schemi mentali, e di “accomodamento” di questi<br />

ultimi per permettere all’individuo di adattarsi all’ambiente esterno. Anche Bandura,<br />

attraverso il concetto di “apprendimento sociale”, definisce l’apprendimento come un<br />

processo attraverso il quale l’individuo è in grado di apprendere nuovi comportamenti<br />

osservandoli negli altri.<br />

Appare chiara quindi l’importanza della relazione nei processi di apprendimento, a<br />

maggior ragione quando poniamo attenzione sulle dinamiche di gruppo, e, nello specifico,<br />

di ragazzi in formazione, in cui i processi cognitivi, emotivi e relazionali hanno<br />

maggiormente bisogno di stimoli, di riconoscimento e di conferme.<br />

Lewin aveva identificato nell’interazione e nell’interdipendenza un elemento fondante<br />

nella formazione e nel funzionamento dei gruppi: le esperienze, le azioni e i risultati di un<br />

individuo sono legati in qualche modo alle esperienze, alle azioni e ai risultati degli altri


membri del gruppo. Egli individua nell’interdipendenza del “compito”, ossia degli scopi, la<br />

forma più vigorosa del legame di gruppo e suddivide il concetto in:<br />

- Interdipendenza negativa - conosciuta come competizione, il successo dell’individuo è<br />

l’insuccesso dell’altro<br />

- Interdipendenza positiva - il successo di un individuo facilita direttamente il successo<br />

degli altri, ed è necessario affinché gli altri abbiano successo<br />

Le caratteristiche principali dei gruppi sociali fortemente coesi e cooperativi possono<br />

essere sintetizzate nei seguenti elementi:<br />

• Interazione integrata e orientata al raggiungimento di uno scopo comune<br />

• Percezione di appartenenza ad uno stesso gruppo<br />

• Sentimenti positivi nei confronti degli altri membri e verso l’attività comune<br />

• Consapevolezza del fatto che l’insieme costituisce uno strumento utile, se non<br />

indispensabile, per il raggiungimento di obiettivi comuni<br />

• Identificazione reciproca<br />

In questa visione l’interdipendenza che si crea tra i membri è positiva, in quanto la<br />

possibilità che ognuno ha di perseguire il proprio obiettivo dipende dalla possibilità che gli<br />

altri hanno di conseguire i propri.<br />

Lave e Wenger hanno sviluppato il concetto di forme di apprendimento collaborativo<br />

attraverso la definizione di “comunità di pratica”, in cui in primo piano sono poste le<br />

problematiche radicate nel reale, tanto che il “fare” trae il proprio significato dall’essere<br />

situato in un determinato contesto storico e sociale, e dalla quale emerge fermamente il<br />

concetto di identità inteso come sviluppo e costruzione del sé attraverso la partecipazione<br />

alla comunità.<br />

I temi significativi di questa teoria prevedono una revisione critica del concetto di<br />

apprendimento, da fenomeno individuale a fenomeno sociale, come costruzione sociale e<br />

situato, dipendente dal contesto di riferimento. Nella comunità di pratica la questione cen-<br />

trale dell’apprendimento è diventare un “praticante” e non imparare cose “sulle pratiche”.<br />

Allo stesso modo il sistema dell’apprendistato permette una progressiva partecipazione<br />

sempre meno periferica dei novizi alla comunità di riferimento.<br />

Alla luce di tutto ciò, considerando la scuola come un sistema organizzativo a tutti gli<br />

effetti, in quanto insieme di persone tra loro in relazione ed interdipendenti, appare<br />

evidente che un cambiamento che avviene a livello individuale tende sempre a riflettersi<br />

sugli altri e sul sistema come totalità, modificandone in qualche modo la struttura. Quindi


attraverso il miglioramento delle competenze comunicativo relazionali si avvia un processo<br />

che coinvolge più profondamente il sistema delle relazioni tra pari, e tra questi e gli adulti<br />

di riferimento.<br />

Già Piaget analizzando la psicologia dell’apprendimento aveva riscontrato come fosse<br />

possibile individuare un avvenuto apprendimento se ad esso consegue una modificazione<br />

del comportamento. Per Berne il “bisogno-fame” di stimolo, di relazione e di riconosci-<br />

mento rappresentano spinte evolutive che forniscono la chiave per orientare lo stile relazio-<br />

nale individuale. Per Gordon l’importanza di alcuni strumenti all’interno dell’interazione<br />

scolastica facilitano la comunicazione e la comprensione tra alunni e tra docente e alunno.<br />

L’ascolto attivo, ad esempio, oltre lasciare all’allievo la completa gestione rispetto alla<br />

presa di decisioni per risolvere i problemi che lo coinvolgono, consente di evitare<br />

fraintendimenti ed incomprensioni. Anche per Maslow l’autorealizzazione della persona,<br />

che rappresenta il bisogno al più alto livello della sua scala, avviene grazie alla capacità di<br />

creare intorno all’individuo un clima di fiducia e di libertà.<br />

Le relazioni interpersonali determinano all’interno della classe la cosiddetta atmosfera<br />

socio-emotiva; il tono emotivo è di grande importanza perché favorisce un clima di<br />

apprendimento, conseguenza della crescita della motivazione. Un miglior apprendimento si<br />

verifica se l’alunno ha la possibilità di soddisfare i propri bisogni emotivi; quanto più<br />

questi bisogni sono soddisfatti, tanto più è capace di partecipare al suo apprendimento.<br />

L’insegnante naturalmente ha un ruolo determinante per il clima emotivo della classe,<br />

grazie alla sua personalità, al suo stile, e alle modalità comunicative che adotta.<br />

Un aspetto da non trascurare nel lavoro in classe con preadolescenti, è quello di<br />

considerare la classe come gruppo e, come tale, considerarla come qualcosa di più della<br />

somma delle parti; il gruppo infatti soggiace a dinamiche complesse, di tipo emotivo-<br />

relazionali talvolta molto difficili da gestire anche per gli insegnanti.<br />

Gli stadi di funzionamento di un gruppo attraversano varie fasi: formazione, scontro,<br />

regolamentazione, azione. Nel primo stadio vi è la necessità di creare la situazione di<br />

gruppo, facilitare il contatto tra i membri del gruppo classe aiutandoli a conoscersi tra loro<br />

rapidamente e in modo vivace. Il secondo stadio è caratterizzato dalla tendenza del gruppo<br />

a prediligere relazioni orizzontali tra i membri: è questa la fase dello scontro, in cui il<br />

gruppo trova difetti nel leader, nel suo lavoro, negli esercizi da svolgere. Lo stadio<br />

dell’azione è quello in cui si è superata la resistenza del gruppo e si sono sviluppate la<br />

fiducia e la coesione; il gruppo esprime una certa autonomia nel funzionamento e vive


l’adulto come un facilitatore dei processi di apprendimento. Questo stadio è il più alta-<br />

mente produttivo, in cui il gruppo può esprimere al meglio le proprie potenzialità e si<br />

ritrova in un clima di fiducia che facilita la partecipazione attiva e la comunicazione diretta<br />

tra i membri.<br />

La classe è quindi un gruppo con regole che vanno riconosciute per un agire più consono<br />

alle esigenze degli alunni e per aumentare l’efficacia dell’apprendimento.<br />

Il gruppo aiuta l’allievo a crescere, così come alla crescita del singolo corrisponde anche la<br />

crescita del gruppo di cui fa parte. Tale crescita segue fasi di sviluppo simili a quelle della<br />

crescita dell’individuo.<br />

Se da un lato appare fondamentale comprendere e valorizzare, nella relazione educativa,<br />

ciascun soggetto e la sua particolare storia, il suo tipo di intelligenza, le sue diversità e la<br />

sua unicità, ma anche ciò che lo accomuna agli altri allievi, favorendo percorsi di<br />

apprendimento individualizzato, dall’altro risulta altrettanto importante considerare che<br />

all’interno della classe ogni allievo desidera appartenere al gruppo e sentirsi accettato e<br />

stimato dai suoi membri, ma prova certamente anche il bisogno di distinguersi<br />

positivamente da esso, guidato dal sentimento di autorealizzazione (Genovese, Kanizsa,<br />

1998).<br />

Esiste una differenza sostanziale tra “essere in gruppo” ed “essere un gruppo”, perché un<br />

insieme di individui si trasformi in un gruppo bisogna che condividano un obiettivo e che<br />

ci sia un rapporto di interdipendenza tra i membri del gruppo stesso, e cioè la consape-<br />

volezza che il successo del singolo individuo dipende strettamente dal successo collettivo.<br />

Quindi è indispensabile tener presente le leadership interne al gruppo con le specifiche<br />

dinamiche, al fine di favorire le strategie migliori per un buon clima relazionale e<br />

comunicativo, condizione indispensabile perché gli studenti possano crescere e apprendere<br />

in modo efficace. Molto spesso le “identità negative” assunte dagli allievi derivano dal<br />

rapporto con il gruppo dei pari, e può essere opportuno, per affrontarle costruttivamente,<br />

attivare le risorse di quest’ultimo, ad esempio attraverso la creazione di regole condivise,<br />

in modo da disinnescare comportamenti aggressivi o trasgressivi.<br />

Il gruppo classe è un gruppo un po’ anomalo perché la sua composizione è decisa a<br />

“tavolino”, in base a criteri di compatibilità, di vicinanza geografica, di rapporto maschi-<br />

femmine e di pari età. Inoltre è “obbligato” ad esserci, ed è guidato da insegnanti attraverso<br />

rapporti rigorosamente determinati, per raggiungere obiettivi prefissati dall’Istituzione.<br />

Risulta chiaro, quindi, che quella che viene costituita sulla carta dall’Istituzione non ha


ancora le peculiarità proprie di un gruppo classe, ma rappresenta per lo più una “classe<br />

burocratica”, un entità cioè che precede la costituzione del vero e proprio gruppo classe,<br />

visibile nella complessità e profondità delle relazioni solo dopo un certo periodo di tempo-<br />

scuola. La coesione è la prima colla, il legame di base della formazione del gruppo, della<br />

condizione delle regole, del sentimento di piacere che deriva dall’essere insieme agli altri,<br />

supportati e confortati dalla loro presenza.<br />

Il lavoro con il gruppo classe<br />

Dopo questa panoramica sui costrutti psicopedagogici e relazionali inerenti il gruppo<br />

classe e le modalità di apprendimento, è necessario porre l’accento sulla linea guida,<br />

oggetto proprio dell’intervento, che è rappresentata dall’Analisi Transazionale Integrativa.<br />

Utilizzando il concetto di contatto interno ed esterno, specifico dell’A.T. Integrativa, come<br />

il mezzo attraverso il quale viene soddisfatto il bisogno di relazione, possiamo evidenziare<br />

che il gruppo, attraverso il contatto interno ha mosso il primo passo verso una maggiore<br />

conoscenza di sé, dei propri bisogni relazionali, ha soddisfatto la fame di riconoscimento e<br />

di relazione ed ha posto attenzione al rispetto del confine e alla giusta distanza necessaria<br />

alla riapertura del contatto. Attraverso il contatto esterno, secondo passo del lavoro, i<br />

ragazzi hanno imparato a pensarsi attraverso le esperienze relazionali, a sentirsi pensati<br />

dall’altro e a poter pensare l’altro.<br />

Come ho specificato all’inizio, il lavoro con il gruppo è stato strutturato attraverso una<br />

modalità interattiva e coinvolgente, come i giochi relazionali, regolati attraverso la<br />

sintonizzazione e il contatto ai canali aperti dei ragazzi utilizzando gli strumenti di matrice<br />

psicoeducativa dell’A.T., come il riconoscimento e le carezze, e quelli dell’A.T. Integrativa<br />

come la sintonizzazione e il contatto con i domini aperti e i bisogni relazionali.<br />

L’approccio dell’A.T. Integrativa permette una modalità di lavoro con i ragazzi, in cui<br />

avviene una sintonizzazione ai domini affettivo, cognitivo, comportamentale e fisiologico,<br />

tale da favorire la realizzazione dei compiti di sviluppo e dei bisogni relazionali specifici<br />

dell’età.<br />

I domini aperti con i ragazzi sono stati soprattutto quello cognitivo, espresso attraverso i<br />

racconti, i giochi e i disegni, e solo in un secondo momento quello affettivo, espresso


attraverso il contatto fisico e il riconoscimento (vedersi in modo diverso attraverso lo<br />

sguardo dell’altro). Altro elemento significativo della metodologia di contatto dell’A.T.<br />

Integrativa è la sintonizzazione, che nello specifico è stata rivolta ai bisogni relazionali, al<br />

ritmo, all’età evolutiva e, come detto, ai canali cognitivo, affettivo e comportamentale.<br />

Operando una correlazione, non ovviamente esaustiva, tra gli autori che hanno affrontato le<br />

tematiche dell’età evolutiva in A.T. e non, oltre a quelli che sono già stati citati, e che<br />

hanno rappresentato il riferimento pratico-operativo dell’intervento, è fondamentale citare<br />

le utili indicazioni di Pam Levin, attraverso il Ciclo di Sviluppo. L’autrice evidenzia,<br />

attraverso la sua teorizzazione, che la crescita umana procede per stadi e che ogni stadio<br />

presenta temi, bisogni, transazioni e permessi specifici dell’età presa in oggetto. I tredici<br />

anni rappresen-tano il sesto stadio, definito “potere della rigenerazione”, in cui avviene una<br />

unificazione degli Stati dell’Io attraverso i cambiamenti del corpo, l’emergere di una<br />

filosofia personale, la conquista di nuovi spazi nel mondo degli adulti ed una progressiva<br />

integrazione e nuova posizione adulta con la quale ci si relaziona con il mondo. I permessi<br />

individuati in questa fase sono relativi all’essere come più piace, all’avere un’identità sia<br />

personale sia sessuale e all’esplorazione, alla conoscenza e alla sperimentazione dei nuovi<br />

modi di essere.<br />

Per quanto riguarda i bisogni relazionali dell’A.T. Integrativa, definiti da R. Erskine, sono<br />

stati individuati nello specifico, relativi all’età, il bisogno di sicurezza, per favorire una<br />

relazione di fiducia nei confronti dell’altro; il bisogno di avere impatto, per riconoscersi<br />

attraverso la relazione con gli adulti e con il gruppo dei pari; il bisogno di esprimere<br />

amore, fondamentale per costruire legami di amicizia; il bisogno di definizione di sé,<br />

fondamentale per riconoscersi nel cambiamento; il bisogno di essere accettati nella nuova<br />

identità. M. A. Giusti ha aggiunto a questi il bisogno relazionale di appartenenza, necessa-<br />

rio per favorire lo svincolo familiare e l’inizio della costruzione dell’identità adulta. Anche<br />

autori non strettamente legati all’A.T. definiscono questa particolare fase evolutiva connes-<br />

sa alla costruzione dell’identità, come Erikson, che nella sua tassonomia inscrive questa età<br />

nel quinto stadio, definito proprio di costruzione dell’identità, con il preciso compito<br />

evolutivo di capire chi si è e chi si vuole essere, sperimentando nuovi ruoli e cercando di<br />

integrarli con l’immagine di se stesso costruita negli stadi precedenti.<br />

Il focus dell’intervento è stato individuato nel metodo di contatto, favorendo una sintoniz-<br />

zazione all’età evolutiva, e ai bisogni relazionali tipici della preadolescenza, oltre che una<br />

sintonizzazione sui bisogni della classe di fare contatto.


Il lavoro nel gruppo ha utilizzato strumenti (attività e giochi) che hanno permesso il<br />

coinvolgimento di tutti i ragazzi, attraverso il contatto con i canali visivo uditivo, grafico, e<br />

cinestesico-corporeo.<br />

Le attività proposte sono state le seguenti:<br />

- Esercizi e giochi di contatto corporeo, percezione di sé, percezione dell’altro<br />

- Esercizi spazio personale, prossemica, giochi relazionali<br />

- Esercizi con la musica, visulizzazioni guidate<br />

- Disegno ed espressione grafica emozioni<br />

- Esercizi sull’ascolto e sulla comunicazione verbale e non verbale<br />

- Carta d’identità interiore ed esercizi relazionali<br />

- Esercizi sulla comprensione del punto di vista dell’altro e sulla gestione del conflitto<br />

- Esercizi sul riconoscimento e carezze<br />

Il tutto sempre preceduto da esercizi di rilassamento e condivisione in circle-time.<br />

I passi significativi dell’intervento sono stati: l’ascolto ed il confronto all’interno del<br />

gruppo che hanno permesso la costruzione di una maggiore responsabilità nella relazione<br />

con l’altro, parallelamente all’espressione delle emozioni, attraverso il permesso di sentire<br />

e di esprimere ciò che si sente; la sintonizzazione ai bisogni relazionali che ha permesso la<br />

riapertura del contatto interno consentendo ai ragazzi di sentire le proprie emozioni, stimo-<br />

late dagli esercizi, e poterle condividere con il gruppo, (contatto esterno); la consapevo-<br />

lezza del cambiamento, evidente all’interno dei processi di relazione interpersonale, (sod-<br />

disfazione bisogni relazionali), prima che in quelli intrapersonali (quadro di riferimento); il<br />

permesso interno di accogliere parti di sé che solo nel contatto con l’altro possono acqui-<br />

sire nuovi significati, come essere accettati, essere ascoltati ed essere apprezzati, con una<br />

evidente ricaduta sull’autostima.<br />

L’intervento con la classe ha attraversato dei momenti critici che si potrebbero così<br />

riassumere:<br />

- Difficoltà nel costruire alleanza (numero elevato di ragazzi e difficoltà all’ascolto)<br />

- Difficoltà nella sintonizzazione al ritmo (conflitto interno tra la necessità del fare e il<br />

tempo che mancava, a volte, per chiudere bene il gruppo)<br />

- Interruzione di contatto nel momento in cui alcuni esercizi evidenziavano le difficoltà<br />

personali legate all’incontro con l’altro (imbarazzo)<br />

- Manifestazioni di rigidità e resistenza nel mettersi in gioco<br />

La consapevolezza del cambiamento rispetto agli stimoli ricevuti e alle sollecitazioni


emerse nel lavoro di gruppo confermano, (con la sintonizzazione e le transazioni A-A), il<br />

riconoscimento di sé attraverso l’interazione con gli altri e le nuove possibilità (nuovi<br />

permessi) relazionali che questo cambiamento offre. Nei lavori riportati, oltre che negli<br />

scambi verbali emersi, viene evidenziato un nuovo riconoscimento di sé elaborato attra-<br />

verso il confronto con il gruppo, ed un maggior coinvolgimento favorito dalla relazione<br />

sintonizzata. Sono stati messi in discussione vecchi quadri di riferimento, permettendo il<br />

contatto con nuove emozioni. Il nuovo modo di pensare e di sentire ha permesso loro di<br />

stare meglio nella relazione con gli altri.<br />

Nell’ultimo incontro i ragazzi hanno scritto una cartolina di saluto e di ringraziamento al<br />

gruppo per ciò che sentivano di aver raggiunto, in cui sono stati espressi sentimenti spon-<br />

tanei e autentici di riconoscenza. Le tematiche più sentite: aver stretto legami più saldi;<br />

aver capito, conosciuto e aiutato meglio gli altri; più contatti e unione tra maschi e<br />

femmine, aspetto molto importante a questa età; aver capito e conosciuto meglio se stessi.<br />

Riporto a titolo esemplificativo una lettera, tra quelle scritte dai ragazzi al preside, per<br />

chiedere di ripetere questa esperienza anche l’anno successivo. La modalità di scrivere una<br />

lettera, decisa dall’insegnante, è stata utilizzata anche come esercizio stilistico.<br />

“Egregio Signor Preside,<br />

non le volevo chiedere di promuovermi o di farmi un favore, ma le volevo chiedere una<br />

cosa molto importante per tutti noi: rifare il progetto “Star bene a scuola” con Giulia,<br />

perchè attraverso lei abbiamo imparato a confidarci, a guardarci negli occhi ed anche a<br />

giocare con le femmine.<br />

Se fosse costoso, non “ci mandi a quel paese”, perchè non le chiediamo di spendere per<br />

comprare un nuovo campo da calcio, ma per educarci di più.<br />

Aspetto la sua risposta in classe 2° B”<br />

Nell’ultimo incontro l’insegnante mi informa che i ragazzi avevano organizzato una<br />

sorpresa per me, avevano preparato pane e nutella, come significato della loro riconoscen-<br />

za, connotato da un aspetto affettivo non indifferente, il nutrimento dell’altro. La mia<br />

commozione in quel momento è stata grande.<br />

Nel processo trasformativo la fiducia nell’altro e il contatto nella relazione divengono<br />

principi, strumenti e mete che invitano ad affrontare e superare le paure e quindi a<br />

diventare grandi, loro con me ed io con loro.


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Neurobiologia dello stress cronico<br />

e del trauma acuto e la cura dei disturbi<br />

psichici attraverso l’A.T. Integrativa<br />

Introduzione<br />

M. Turianelli<br />

Secondo i principi dell’A.T. Integrativa, fin dalla nascita, c’è la necessità che i Bisogni<br />

Relazionali, stimoli interni e contemporaneamente esterni, trovino la possibilità di essere<br />

soddisfatti nella relazione primaria con il caregiver, una relazione diadica cui prendono<br />

parte il neonato e poi il bambino, ma che necessita, inizialmente, di una spinta emotiva<br />

della madre verso l’infante.<br />

Se, nella crescita, si verificano traumi acuti (abusi, violenza sessuale, guerra o catastrofi<br />

naturali), o, come dice R. Erskine (9), negligenza, trascuratezza cumulativa, nel tempo, dei<br />

Bisogni di base, o stress cronico (vivere esperienze traumatiche critiche con vergogna<br />

irrisolte), si verificano instabilità emotiva, cognitiva e insicurezza.<br />

La mancata rispondenza ai Bisogni Relazionali di base, conduce ad elaborare strategie di<br />

autoprotezione per sentire un senso di stabilità e di relazionalità.<br />

“Tali strategie” per Erskine “includono: formare credenze copionali su di sé, gli altri e la<br />

qualità della vita, disconoscere l’affetto, desensibilizzarsi a livello fisiologico, dissociarsi<br />

dal senso di sé, o mettere distanza nella relazione con gli altri”. Il contatto interno e con<br />

l’esterno si interrompe.<br />

L’insieme di tali strategie sono i Copioni di vita, “sistemi inconsci di organizzazione e di<br />

autoregolazione sviluppati come risultato” ma non solo “dei fallimenti cumulativi nelle<br />

relazioni significative di dipendenza” (8).<br />

La persona, inconsciamente si impegna in modelli relazionali “basati su reazioni<br />

fisiologiche di sopravvivenza, conclusioni esperenziali implicite e/o decisioni di copione<br />

(...) prese sotto stress ad ogni stadio dello sviluppo...”(7).<br />

Purtroppo il trauma e lo stress cronico diventano esperienze fissate, ed il motivo principale,


è che quelle persone che erano fondamentali nella esistenza non sono state in grado di<br />

nutrire o fornire le necessarie capacità riparative e di modulazione necessarie alla vita con<br />

sé e con gli altri.<br />

Il trauma acuto e lo stress cronico sono contemporaneamente dannosi per la funzione e<br />

l’integrità delle strutture cerebrali. Tali danni stanno alla base della possibile evoluzione<br />

psicopatologica funzionamento mentale. E questo perché, come affermato da Kandell,<br />

l’attività mentale dipende comunque dal cervello.<br />

Gli studi legati alle Neuroscienze stanno infatti sempre di più dimostrando l’intercon-<br />

nessione mente corpo.<br />

Corpo-Mente-Relazione: un incessante scambio esistenziale<br />

Il neonato fin dalla nascita presenta una propria struttura nervosa sia centrale che periferica<br />

e connessioni tra questa ed altri sistemi organici. Possiede una personale struttura genetica<br />

e quindi un DNA già dato con un specifica sequenza di geni.<br />

Allo stesso tempo egli si impegna nella relazione con il caregiver, di solito la madre, in un<br />

processo di attaccamento attraverso cui avverrà il suo sviluppo neuropsicologico.<br />

Il grado di salute mentale, ma anche fisica, dipenderanno molto dal sistema di<br />

attaccamento e dalla<br />

espressività del DNA, espressività che potrà portare alla compromissione di strutture e<br />

funzioni del sistema nervoso e a conseguenti disturbi psichici o psicosomatici.<br />

Quanto dipenda dalla relazione diadica madre-bambino o da vulnerabilità genetica, questo<br />

non è ancora chiaro.<br />

Alcuni Autori (2), ritengono che ci sia un’interazione tra vulnerabilità genetica ed eventi<br />

stressanti e considerano che proprio da questo tipo di interazione possano essere gettate le<br />

basi per lo sviluppo di disturbi psicopatologici e del disagio psicologico.<br />

Quindi, il DNA di ciascuno, potrebbe recare con sé caratteristiche che lo rendono più<br />

vulnerabile allo stress, o alterare la propria espressività genica a seguito di eventi stressanti<br />

di tipo cronico.<br />

Comunque quando si presentano stress cronici o traumi acuti il rischio di sviluppare quadri


clinici di tipo psicopatologico è più alto.<br />

Lo stress cronico coinvolge il SNC, il SNA (simpatico e parasimpatico), la biochimica del<br />

corpo ed il sistema immunitario, nonché il Sistema Neuroendocrino.<br />

In questa sede, visto che ci interessa poter comprendere come, attraverso il lavoro psico-<br />

terapeutico possiamo fare star meglio i nostri pazienti, darò spazio all’importanza della<br />

relazione madre bambino, considerandola, come centrale per lo sviluppo dei programmi di<br />

maturazione neurobiologici determinati geneticamente (5).<br />

Ogni neonato e più in là il bambino, hanno bisogni primari ed un patrimonio genetico<br />

unico.<br />

La non soddisfazione di tali bisogni, l’ipostimolazione, i maltrattamenti, i traumi intensi o<br />

gli abusi reali, il disinteresse cognitivo ed emotivo, danneggiano le strutture cerebrali: ci<br />

potranno essere deficit nella neurogenesi, nel processo di arborizzazione, nella genesi delle<br />

sinapsi, nella mielinizzazione.<br />

In particolare, la deprivazione sensoriale o cognitivo-emotiva, condurrà anche ad un<br />

allargamento dei ventricoli cerebrali e a fenomeni di atrofia corticale.<br />

Una ridotta formazione di neuroni, collegamenti difettosi tra gruppi neuronali, ridotta<br />

formazione di sinapsi e fenomeni di atrofia della corteccia cerebrale, influenzeranno la<br />

comunicazione tra neuroni, la produzione di neuromediatori come le serotonina,la<br />

noradrenalina e la dopamina, le capacità cognitive.<br />

In sintesi il bambino e poi l’adulto avranno minori capacità di sano adattamento all’am-<br />

biente, minori capacità aggregative e competenze sociali, ridotte capacità di autoconserva-<br />

zione. Di questo si deve tener conto, perchè una delle più importanti finalità dello sviluppo<br />

neuropsicologico è di fondo proprio il poter sopravvivere.<br />

Inoltre le interazioni sociali saranno gravemente compromesse, poiché in un attaccamento<br />

insicuro, ci saranno lesioni anche dei Neuroni Specchio, fondamentali per l’imitazione<br />

degli altri e per lo sviluppo di capacità introspettive, nonché per la competenza empatica.<br />

Anche Fonagy dà grande importanza alle relazioni traumatiche, nella genesi di disfunzioni<br />

e alterazioni del sistema mente corpo.<br />

Zanarini (4), sempre a proposito della relazione madre-bambino, sottolinea, oltrechè<br />

l’insensibilità ai bisogni del bambino, anche le separazioni precoci, la trascuratezza,<br />

malattie psichiatriche dei genitori, abusi fisici e sessuali.<br />

Sono considerati traumatici quegli eventi che producono ansia, paura, vergogna e dolore


fisico.<br />

Per A. Shore (1), il sistema dell’attaccamento è essenzialmente un sistema della relazione e<br />

la sua sede è il cervello destro.<br />

Secondo tale autore, nello sviluppo, all’interno della coppia madre bambino, ci sono<br />

transazioni emozionali che facilitano la maturazione dei sistemi cerebrali coinvolti e, di<br />

conseguenza della mente nell’ambito degli affetti e dell’autoregolazione.<br />

Avvengono stimolazioni, comunicazioni e regolazioni dei processi affettivi legati al corpo.<br />

La sintonizzazione psicobiologica e lo stress relazionale influiscono sulla maturazione dei<br />

sistemi di regolazione all’interno del cervello. In base a come saranno le transazioni di<br />

attaccamento si svilupperà il cervello desto, cervello coinvolto nella elaborazione non<br />

conscia dell’emozione, nella modulazione dello stress, nell’autoregolazione e nelle origini<br />

del nucleo del Sè implicito, basato sul corpo.<br />

Le transazioni affettive precoci sono trasmesse nella diade in modo non verbale: esse sono<br />

visive/facciali, uditive/prosodiche, tatto/gestuali. Il caregiver sintonizzato valuta il non<br />

verbale e provvede a regolare gli stati affettivi. A partire dalle emozioni basate sul corpo<br />

regola lo sviluppo del SNC e del SNA.<br />

Il bambino nasce attraverso sintonizzazioni, desintonizzazioni, risintonizzazioni. Dalla<br />

matrice non verbale psicobiologica si forma il nucleo del Sé implicito.<br />

Il bambino prima è regolato dalla madre, poi si impegna gradualmente ad autoregolarsi.<br />

Tutto nasce dalle interazioni tra gli emisferi destri della diade.<br />

L’emisfero destro, sede dei ricordi emozionali inconsci, sarà coinvolto, in modo centrale<br />

nel”mantenere un senso del sé coerente, continuo ed unificato”. Quando nella diade ci sono<br />

stress cronico o trauma acuto,si creeranno stati affettivi duraturi negativi.<br />

Sempre seguendo Shore A. (10), ed entrando più nello specifico delle aree cerebrali di<br />

autoregolazione, vanno considerati: la corteccia orbito-frontale, che si sviluppa tra i 10 e i<br />

18 mesi; il sistema limbico.<br />

La corteccia orbito-frontale sta più in alto rispetto al Sistema Limbico. Regola i<br />

comportamenti sociali ed emotivi e l’omeostasi del corpo; ha un ruolo nella memoria e<br />

nelle interazioni cognitivo emotive; codifica rappresentazioni psicologiche superiori;<br />

modula l’affetto, la comunicazione non verbale ed i processi inconsci. In essa si imprimono<br />

la rappresentazione di sé, dell’oggetto e della relazione. E in essa stanno la competenza<br />

empatica e la percezione degli stati emotivi del Sé.


Essa è connessa con il Sistema Limbico e con i sistemi sottocorticali.<br />

Il Sistema Limbico è responsabile degli aspetti emotivi di eccitazione, ricompensa,<br />

avversione e inibizione. Quando la madre non è capace di regolazione e autoregolazione il<br />

bambino diventerà incapace di modulare gli affetti.<br />

Il sistema orbitofrontale stà all’apice del Sistema Limbico frontale, cioè di aree limbiche<br />

interconnesse tra la corteccia orbitofrontale, del cingolato anteriore e dell’amigdala.<br />

L’emisfero destro nella sua connessione con l’amigdala, permette di compiere scelte di<br />

fronte ad eventi avversi, prima che avvengano.<br />

Il sistema orbitofrontale gestisce anche le informazioni ricevute dal corpo, il sesso e<br />

l’aggressività.<br />

La corteccia orbitofrontale collega pensieri, comportamenti e realtà esterna; elabora stati<br />

affettivi e cognitivi e mnemonici.<br />

Il Sistema del sé lateralizzato a destra è costruito da un sistema orbito frontale limbico<br />

autoregolato che si sviluppa successivamente; un nucleo interno cingolato limbico<br />

autoregolativo che si sviluppa in modo più precoce, ed un altro nucleo ancora più precoce<br />

amigdaloideo limbico.<br />

Queste tre strutture sono il preconscio, l’inconscio e l’inconscio più profondo.<br />

Quando l’attaccamento è insicuro e nella diade madre bambino ci sono stress cronico e<br />

traumi acuti oltre i danni nervosi visti sopra che compromettono le capacità di un sano<br />

adattamento della persona, si attiva un sistema dello stress che provoca un danneggiamento<br />

diffuso organico e fisiopatologico, che si traduce anche in sintomi psicopatologici.<br />

Una visione patogena per organi, funzioni fisiche e mentali elimina qualunque dicotomia<br />

mente-corpo, che, a questo punto diventano equivalenti.<br />

Il sistema dello stress, all’interno del quale entrano in gioco il SNC, il SNA, la biochimica<br />

del corpo, alcune parti del corpo ben specifiche, processi ormonali, mediatori biochimici e<br />

sistema immunitario, coinvolge anzitutto importanti strutture cerebrali come la corteccia<br />

prefrontale, l’amigdala, l’ippocampo, i nuclei del tronco encefalico.<br />

Tra le strutture cerebrali di cui sopra grande importanza viene data all’amigdala, un organo<br />

a forma di mandorla, appartenente al Sistema Limbico. Molto studiata da LeDoux (3), si è<br />

visto che quando ci sono stimoli stressanti pericolosi per l’individuo percepiti dagli organi<br />

di senso, questi arrivano direttamente ad essa cortocircuitando la corteccia cerebrale.


L’amigdala invia segnali all’ipotalamo che rilascia il CRH e la vasopressina, sostanze che<br />

agendo rafforzandosi l’una con l’altra, inducono nell’ipofisi la produzione di ACTH, che a<br />

sua volta stimola la produzione dei glicocorticoidi.<br />

Quando lo stress è cronico livelli elevati di glicocorticoidi diventano tossici per<br />

l’ippocampo.<br />

Danni alle cellule di quest’organo alterano le funzioni cognitive, l’apprendimento e la<br />

memoria.<br />

Altri effetti negativi dello stress cronico sono:<br />

- una riduzione del BDNF,un neuropeptide neurotrofico, con conseguente depressione;<br />

- una riduzione dell’attività dei sistemi noradrenergici, che può portare a stati ansiosi,<br />

depressivi e ossessivi;<br />

- la produzione di citochine, sostanze che segnalano pericolo per l’organismo, e che<br />

possono indurre attività autoimmunitaria, con il rischio di sviluppare patologie autoim-<br />

muni, malattie infettive e patologie oncologiche;<br />

- una riduzione dell’attività serotoninergica, da cui derivano ansia, ostilità e aggressività;<br />

- una riduzione dei neuroni dopaminergici con probabile alterata reazione a stressors<br />

successivi ) (6);<br />

- una iperfunzione dell’amigdala con importanti alterazioni dell’emotività, l’aggravarsi dei<br />

ricordi di eventi traumatici che acquisteranno un maggior peso nella qualità della vita; la<br />

propria storia potrà inoltre apparire frammentata e si potranno avere dissociazioni,<br />

dispercezioni ed identità instabile;<br />

- l’incapacità, come dice Shore, di modulare gli affetti (10). Da cui vergogna, rabbia,<br />

disgusto, eccitazione, euforia, terrore, panico, bassa autostima, costruzione di<br />

rappresentazioni instabili di sé e degli altri, mancanza di empatia, alterazioni delle<br />

percezioni corporee, alterata autorappresentazione e regressione ad oggetti parziali;<br />

- possibile insorgenza di asma bronchiale, malattia coronarica, coliti, ulcere, trombosi,<br />

obesità, diabete, ipertensione, osteoporosi.<br />

L’Analisi Transazionale Integrativa nella cura dello stress cronico<br />

Lo stress cronico ed il trauma acuto determinano, come visto finora, una importante<br />

sofferenza nelle persone, che investe l’intero corpo-mente.


Dal momento che la base dell’insieme di cui sopra stà in un relazione madre-bambino alte-<br />

rata, l’A.T. Integrativa, modello che vede nella relazione paziente-terapeuta, e nell’incontro<br />

intersoggettivo, l’essenza della cura psicologica, può essere un buon modello psicoterapeu-<br />

tico con funzione di riparazione degli aspetti psichici e fisio-organici di un Sé danneggiato.<br />

E questo perché il sistema nervoso, è ormai dimostrato possiede una notevole plasticità e,<br />

secondo, perché i Metodi che vengono usati in AT Integrativa, cioè l’indagine empatica e<br />

rispettosa, la sintonizzazione empatica a livello cognitivo, affettivo, dell’età evolutiva,<br />

ritmica, e ai bisogni relazionali disattesi, ed il coinvolgimento fortemente centrato sulla<br />

presenza, permette al paziente di sperimentare una relazione piena di contatto in accordo<br />

con la ricerca del suo benessere.<br />

In sintesi l’AT Integrativa, attraverso l’uso dei Metodi, Indagine, Sintonizzazione,<br />

Coinvolgimento, si propone di stabilire un contatto pieno tra paziente e terapeuta,<br />

riparatore di una relazione antica che è stata fondata su un attaccamento insicuro.


Bibliografia<br />

1) Modelli nerurobiologici di attaccamento. Psiconanalisi clinica e teoria della regolazione,<br />

Schore J. R., Schore A. N.<br />

2) Stress e disturbi del comportamento: disturbi neurobiologici. Cannizzaro et al., Acta<br />

Medica Mediterranea, 2007, 23: 123.<br />

3) La neurobiologia dello stress. The European Dana Alliance for the Brain.<br />

4) L’azione del trauma e dello stress nella patologia del disturbo della personalità<br />

bordeline: analisi della letteratura. Maccagnoni S., Bollettino della Società Medica di Pavia<br />

123 (6): 621-626.<br />

5) Psichiatria, Psicoterapia e Neuroscienze. Siracusano A. et al., NOOS, 1:2008. Pensiero<br />

Scientifico Editore.<br />

6) NOOS, n.3, 2004, Pensiero Scientifico Editore.<br />

7) Copioni di vita, modelli relazionali inconsci e coinvolgimento terapeutico. Erskine R.<br />

2007.<br />

8) Copioni di vita e modelli di attaccamento: integrazione teorica e coinvolgimento<br />

terapeutico. Erskine R. 2008.<br />

9) Il Gruppo di Psicoterapia relazionale: la guarigione dello stress, della negligenza e del<br />

trauma. 3° Congresso IIPA, 2009.<br />

10) La Regolazione degli Affetti e la Riparazione del sé. Shore A. 2008, Astrolabio.


Introduzione<br />

Consonanze e dissonanze 21<br />

Musica e Terapia<br />

P. Romanelli, L. Scoppola<br />

“La musica è una delle forme di comunicazione in cui la diversità verticale è possibile”.<br />

Con questa frase, affettivamente attraente forse anche per il suo sfuggevole senso, inizia un incontro ed<br />

uno scambio informale tra una musicista ed uno psicoterapeuta, tra la prassi della musica (della<br />

musicista) e la teoria della mente (nella mente) di un clinico.<br />

“In musica note e voci diverse si incontrano e si legano l’un l’altra in un andamento comune. Anche<br />

nell’atto di sfidarsi a vicenda, le voci si incastrano in maniera perfetta, arrivando a completarsi a<br />

vicenda.” (cfr. Barenboin 2007, p. 61).<br />

Nell’intervento terapeutico è la melodia, il ritmo, il cammino ed il suonare insieme che curano (cfr. Di<br />

Petta 2011, De Luca 2011), più che le parole sono i sensi a toccare così nel profondo la nostra mente<br />

(Stern 2011), tanto da riuscire a cambiarla nel proprio Sé più profondo, nei propri toni, finanche nelle<br />

proprie basi neurali (Givon, 2005; Sacks, 2008).<br />

Su queste basi e con queste convinzioni si ricercano parallelismi e differenze tra la teoria e la prassi<br />

della musica e quelle della psicoterapia, tra due linguaggi apparentemente diversi che sotto-intendono<br />

la matrice comune dei mondi affettivi.<br />

L’argomento viene sviluppato affrontando alcuni concetti musicali come quelli di accordatura,<br />

polifonia, consonanza e dissonanza, diversità strumentale, per affiancarli con i concetti psicoterapeutici<br />

di alleanza, omogeneità/disomogeneità, egosintonia/egodistonia, confronto, conflitto 22 .<br />

21 Questo articolo è il frutto di una riflessione comune, tuttavia Pietro Romanelli è autore della parte relativa alla<br />

psicoterapia e Ludovica Scoppola di quella relativa alla musica.<br />

22 Nella presentazione originale al Convegno l’esecuzione dal vivo di alcuni brani, con la descrizione di cosa avviene nella<br />

composizione ed esecuzione musicale, è stata fonte di analisi e di confronto tra le due esperienze relazionali favorendo<br />

intuitivamente ed emotivamente quanto a parole descritto.


L’importanza della musica 23 nell’esperienza terapeutica<br />

Ciò che più profondamente è curativo o trasformativo nell’esperienza psicoterapica non è<br />

tanto l’orientamento teorico del terapeuta, quanto qualcosa che ha a che fare con la<br />

relazione tra cliente e terapeuta 24 , o tra cliente, gruppo e terapeuta negli interventi in<br />

gruppo 25 .<br />

Passando dal generale allo specifico, anche nelle osservazioni delle micro-esperienze<br />

terapeutiche, nelle sequenze di brevi transazioni, risulta evidente che “è l’esperienza<br />

dell’interazione (della relazione, diremmo noi) che viene interiorizzata, non gli ‘oggetti’”<br />

(Stern 2011, pag. 121). Ancora, che “l’attenzione dovrebbe essere rivolta alle forme vitali<br />

con cui il paziente si esprime, più che al senso stretto delle parole” (Ibidem, pag. 104).<br />

Salendo un’immaginaria “scala significante” giungeremmo, di gradino in gradino, in una<br />

zona quindi vicina agli spunti di Taibi Kahler (1975) sul rapporto tra il processo ed il<br />

contenuto, per affermare con lui che il trattamento risulterà efficace principalmente nel<br />

momento in cui l’attenzione si rivolga al processo. Ma saremmo già, quasi senza<br />

accorgercene, nella zona logico-verbale dell’esperienza terapeutica 26 , ad un livello quindi<br />

differente da quello che stiamo affrontando e su cui vogliamo soffermarci.<br />

Restando sul piano iniziale, è comune sostenere che “il non verbale”, nelle relazioni<br />

terapeutiche, abbia un influenza profonda ed insostituibile e che, secondo alcuni, questa sia<br />

la parte principale della psicoterapia.<br />

Ciò appare però più accettato per le “prove dei fatti” che per reale e profonda<br />

consapevolezza. Per esempio ci si ostina a chiamare quest’area con il termine “non<br />

verbale”, pur consapevoli della inconsistenza di una definizione data solo o principalmente<br />

per esclusione. Ancor più evidente in tal senso sembra essere l’ostinazione a “volerne<br />

parlare con le parole”, piuttosto che accettare la bellezza ed il rischio, il fascino e lo<br />

smarrimento, la curiosità e la paura, di utilizzare altre forme di comunicazione per farlo.<br />

23 In questo testo viene utilizzato appositamente lo stesso termine - musica - sia riferendosi all’esperienza<br />

sensoriale di “suoni prodotti da strumenti”, sia riferendosi più metaforicamente a quegli “stati di armonia e di<br />

melodia” presenti in alcuni momenti della relazione terapeutica, come anche in altre relazioni.<br />

Ciò può da una parte suscitare perplessità, specialmente ad una lettura strettamente nozionistica di quanto<br />

scritto. Di contro, può senz’altro favorire una lettura empatica e metaforica, indispensabile per comprendere<br />

il senso profondo di ciò che si è voluto rappresentare.<br />

24 Includiamo, in questa affermazione, anche il setting, che in qualche modo influenza la relazione ma che<br />

meriterebbe un discorso a parte rispetto al focus del presente intervento.<br />

25 Per un approfondimento sull’importanza del gruppo nel percorso terapeutico si veda Dela Ranci (2006).<br />

26 “Ma perché alla parola, alla dimensione simbolica, è stato assegnato uno status tanto elevato ed<br />

intoccabile?” (Stern 2011, pag. 101).<br />

Per esempio, siamo consapevoli delle difficoltà e ancor di più delle vere e proprie “distorsioni” di una<br />

spiegazione, fatta solo con le parole, della differenza tra l’odore della salvia e l’odore del basilico?


La musica, la pittura, il teatro, la danza, il cinema, e tutte le altre forme di espressione<br />

artistica potrebbero insegnare tanto, divenire un valido aiuto ed una valida guida per<br />

migliorare l’interazione con i nostri clienti, individuare i motivi dell’efficacia di singoli<br />

interventi piuttosto che di altri, indicarci cosa e come venga trasmesso nei nostri colloqui,<br />

cosa “registrato” o cosa invece neppure percepito.<br />

Così Stern descrive il rapporto tra il cinema e le forme vitali:<br />

L’inquadratura rappresenta uno di questi mezzi. La cinepresa<br />

può essere più o meno vicina all’azione (campo lungo, piano,<br />

medio, piano ravvicinato o primo piano). L’intensità della scena<br />

è proporzionale alla distanza. Più vicina è la camera, maggiore<br />

sarà il livello di attenzione e arousal. I primi piani hanno un<br />

grande impatto perché violano le convenzioni circa i confini<br />

corporei e le distanze comunemente accettate. Essi inducono un<br />

picco di arousal che prepara il corpo a un qualche genere di<br />

azione (toccare, baciare, colpire, ritirarsi, ecc.). Inoltre, la<br />

camera può ingrandire il soggetto senza alterarne l’aspetto, per<br />

esempio avvicinandosi progressivamente. Questa tecnica è<br />

l’equivalente del ‘crescendo’ in musica, dove le dinamiche<br />

diventano sempre più intense, La rapidità con cui avviene questa<br />

progressione determinerà l’intensità dell’effetto. L’inverso vale<br />

per il ‘decrescendo’ rappresentato da un movimento che si<br />

allontana, che evoca un senso di estraneità e di ‘distacco’<br />

psicologico, un rilassamento della tensione - una forma vitale<br />

distinta.<br />

Da questo brano, per esempio, si potrebbero trarre insegnamenti su quando offrire una<br />

gestalt o quando un approccio solo verbale, quando e quanto concentrarci su di un quadro<br />

generale piuttosto di quando o quanto invece avvicinarci ad un particolare di un racconto<br />

del cliente. O a quale velocità…<br />

A Galimberti, che dedica la sua opera “a Karl Jaspers, psicopatologo e filosofo, che mi<br />

indicò quella zona di confine tra filosofia e psicologia” (Galimberti, 1992), si può<br />

aggiungere un altro punto di vista, che vede la psicologia al centro di saperi anche<br />

profondamente diversi tra loro. Un po’ come i confini di una nazione, la psicologia e ancor<br />

di più la psicoterapia può essere immaginata come uno “spazio” avente un lato che affacci<br />

- confini - verso la filosofia, uno verso la scienza, uno ancora verso le arti. E immaginando<br />

questo insieme di territori come un vero e proprio continente, si potrebbe inserire la<br />

spiritualità e gli aspetti spirituali dell’esistenza, come il mare che questo continente<br />

racchiude.


Anche con questo spirito e con questa impostazione ci si può avvicinare, da psicoterapeuti,<br />

al mondo della musica, per scoprire se e quali regole la governano, e quali prassi, e quali<br />

saperi.<br />

Per scoprire poi se queste regole, queste prassi e questi saperi ci possano in qualche modo<br />

insegnare qualcosa.<br />

Con lo stesso spirito accade spesso che artisti specializzati in diverse discipline si<br />

incontrano e curano opere in cui rappresentano la realtà con diversi mezzi espressivi.<br />

Il suonare insieme, per esempio, ha senz’altro in comune con l’esperienza terapeutica la<br />

continua tensione delle parti di entrare in armonia - incontrarsi - reciprocamente. Come<br />

nell’esecuzione i musicisti attivano tutti i sensi nella ricerca continua di comunione<br />

(tecnica e d’intenti) con gli altri, così terapeuta e cliente/i, desiderosi di aiutare e di essere<br />

aiutati, nell’incontro terapeutico cercano continuamente di attivare nella comunicazione le<br />

stesse “corde” (per Pitagora le corde erano lo strumento di misurazione dei suoni).<br />

Se in terapia la comunicazione si interrompe o non produce comprensione è come se in un<br />

ensemble musicale qualcosa non funzionasse, le corde che devono vibrare alla stessa<br />

andatura inizino a “scontrarsi” producendo non più armonie ma dissonanze 27 .<br />

“Grazie ad Antonio per questa sua vissuta apertura, sulla via che conduce all’altro:<br />

grazia, mistero, dono, gesto sguardo, volto. Incontro” (Callieri 2011, Introduzione a De<br />

Luca).<br />

La musica, al di là di ogni riferimento culturale, ha il potere di suscitare nell’uomo<br />

emozioni profonde. Emozioni che possono andare dal puro godimento estetico a<br />

sentimenti evocati dall’ascolto di un brano musicale. Questo forse spiega perché la musica,<br />

da sempre, fa parte della vita sociale e culturale di gran parte del genere umano.<br />

“Sembra improbabile che la musica possa essere penetrata nel cuore di tante culture<br />

differenti se i suoni organizzati fossero privi di qualche motivo di attrazione fondamentale<br />

per l’uomo, trascendendo i confini tra culture” (Sloboda 1998, 24).<br />

Nella musica, come nella terapia, vi sono diversi aspetti con un notevole “peso educativo”.<br />

La musica porta avanti con la sua pratica un percorso formativo in virtù della<br />

concentrazione, autostima, valutazione delle proprie possibilità e capacità di convivenza<br />

27 Cfr. più avanti per una riflessione sulle consonanze e dissonanze, e sul loro impiego in musica.


con gli altri. La terapia “contiene” questo aspetto educativo nello sviluppo della<br />

reciprocità, del riconoscimento di sé e dell’altro, nell’importanza che al suo interno<br />

assumono gli aspetti etici della relazione.<br />

Ancora, eseguire un brano musicale (con la voce o con uno strumento) implica l’utilizzo<br />

reciproco di pensiero e sentimento, ragione ed emozione. È poco comprensibile e/o<br />

apprezzabile per un ascoltatore un’esecuzione priva di emozione o priva delle abilità<br />

tecniche e conoscenze teoriche dell’esecutore. Non sembra, leggendo questo, che la stessa<br />

cosa la potrebbe esprimere un terapeuta, o un suo cliente, proprio al termine di una seduta?<br />

E non è forse la sofferenza mentale una “prevaricazione” di una tensione sull’altra, troppa<br />

ragione o troppo sentimento?<br />

Con questo spirito ed in questo modo ci si può accostare anche da terapeuti ad alcune<br />

specificità della teoria e della prassi della musica. Mantenendo il proprio intuito aperto<br />

verso il proprio mondo professionale, la propria pratica o la propria teoria. Verso il proprio<br />

studio, i propri clienti. Verso quella singola persona, quel singolo intervento...<br />

Accordatura<br />

Gli strumenti per poter suonare correttamente devono essere “accordati”. Il termine<br />

accordatura deriva da chorda, corda musicale, e presuppone l’operazione di intonare tra<br />

loro (allungare o accorciare) le corde di uno strumento. Per estensione del termine questo<br />

si intende anche per tutti gli altri strumenti musicali la cui produzione sonora avviene<br />

sollecitando altri materiali. L’esecuzione di musica da parte di un ensemble o orchestra<br />

prevede sempre obbligatoriamente che gli strumenti “si accordino” tra loro, cioè tutti gli<br />

strumenti devono fare in modo che ad uguali note corrispondano uguali frequenze. Prima<br />

di una esecuzione uno strumento suona una nota (dare il la) e tutti gli altri strumenti<br />

(accorciando o allungando le corde o i tubi o le membrane) si calibrano su quella altezza in<br />

modo che tutti possano suonare con la stessa frequenza.<br />

Le fasi iniziali dell’incontro musicale sembrano per molti aspetti simili alle fasi iniziali<br />

dell’incontro terapeutico, sia esso individuale che di gruppo. Ancora, il tema rimanda agli<br />

“accordi” che facciamo con i nostri clienti, alla necessità che questi, nel tempo, vengano<br />

rinnovati, rivisti.


Il pensiero va anche all’alleanza terapeutica, definibile qui come disponibilità ad accordarsi<br />

con l’altro, con gli altri.<br />

Oppure, sempre in termini di accordatura, si può descrivere l’impatto emotivo sgradevole<br />

di un suono discrepante, di un accordo non rispettato, di una non accordatura. L’illusione di<br />

alcuni clienti di considerare semplice questa prima fase, o di darla per scontata. Di pensare<br />

che si possa subito o spontaneamente “suonare insieme”, senza prima essersi accordati,<br />

senza dare all’accordo l’importanza di cui necessita.<br />

In una sessione di gruppo il rischio di poter considerare importante l’accordatura con un<br />

solo elemento (il conduttore? altri?), e la non consapevolezza della necessità di un<br />

accordatura anche “comune”.<br />

Polifonia<br />

Per polifonia si intende la musica formata da due o più linee melodiche che suonano<br />

insieme. Una serie di norme 28 assicurano la concordanza delle melodie che suonano<br />

sovrapposte, in un delicato equilibrio tra autonomia e interdipendenza. Nell’ensemble<br />

strumentale e/o vocale vi è una chiara gerarchia tra voci principali e di accompagnamento<br />

con un continuo scambio di ruoli. Chi accompagna sostiene ed esalta la linea principale la<br />

cui melodia risulta più chiara anche grazie alla presenza delle progressioni armoniche. La<br />

maggior presenza di linee melodiche comporta quindi una maggiore potenzialità<br />

espressiva.<br />

Suonare in un ensemble, rispetto al suonare da soli, comporta però una continua attenzione<br />

all’ascolto delle altre linee melodiche per il raggiungimento dell’intonazione con gli altri ,<br />

della precisione degli incastri del ritmo e delle possibilità interpretative (quando accom-<br />

pagnare o essere voce principale).<br />

Immaginando di trasporre queste frasi nel mondo terapeutico quali significati vi si possono<br />

attribuire?<br />

“In un delicato equilibrio tra autonomia e interdipendenza...”,<br />

“Chi accompagna sostiene ed esalta la linea principale...”,<br />

“La maggior presenza di linee melodiche comporta quindi una maggiore potenzialità<br />

28 La parte della teoria della musica che riguarda le regole la sovrapposizione di linee melodiche<br />

indipendenti è il contrappunto (dal latino puntus contra puntum cioè nota contro nota).


espressiva...”,<br />

“Suonare in un ensemble comporta una continua attenzione all’ascolto delle altre linee<br />

melodiche...”.<br />

Sia in termini intrapsichici sia prendendo in considerazione dinamiche relazionali queste<br />

frasi sono facilmente utilizzabili anche nel contesto di un intervento terapeutico: Cosa<br />

succede dentro di noi quando prendiamo in carico un nuovo cliente?, O quando in un<br />

gruppo entra una persona nuova?, O quando scopriamo che possiamo sentire e pensare allo<br />

stesso momento?<br />

Consonanza e Dissonanza<br />

Dal punto di vista lessicale i due termini, derivanti dal latino consonare e dissonare<br />

(suonare insieme e non-suonare insieme), sono in un rapporto di esclusione reciproca e<br />

spiegano la qualità di un accordo e la sua classificazione.<br />

Il fenomeno della consonanza e dissonanza si ha in presenza di due o più suoni che eseguiti<br />

simultaneamente producono all’orecchio un effetto gradevole e di fusione o il suo<br />

contrario. La cultura e l’abitudine giocano un ruolo importante nel valore estetico dato ai<br />

due diversi accordi la cui classificazione corrisponde comunque a un sistema di regole<br />

precise. L’alternanza tra questi due diversi tipi di accordi è alla base della teoria armonica<br />

della cultura occidentale e il dibattito che si è sviluppato su questo tema fin dall’antichità<br />

dimostra che si tratta di un fenomeno legato ad aspetti matematici (rapporti numerici tra i<br />

suoni), fisici (presenza di armonici e battimenti delle onde sonore), fisiologici (abilità<br />

soggettive di discriminazione dei suoni) e psicologici (sentimenti di gradevolezza o meno<br />

prodotti dai due diversi accordi).<br />

Passando al processo terapeutico si può pensare al confronto berniano piuttosto che ad un<br />

assenso. Ed alla dissonanza o consonanza che essi producono. Alla necessità talvolta del<br />

conflitto, ed al progresso o allo sviluppo che esso può favorire. All’egodistonia e<br />

all’egosintonia.<br />

E se non è affatto facile, per un orecchio musicalmente inesperto, riconoscere all’interno di<br />

un brano musicale le consonanze e le dissonanze, è altrettanto difficile all’ascoltatore inge-<br />

nuo percepire e riconoscere consonanze e dissonanze emotive, dentro di sé o nel rapporto


con gli altri.<br />

Strumenti diversi<br />

Un ensemble strumentale può essere formato da strumenti aventi lo stesso registro o<br />

registri diversi, cioè strumenti la cui gamma di suoni appartiene alla stessa tessitura o a<br />

tessiture diverse. Un ensemble che utilizza strumenti con taglie diverse (per esempio una<br />

famiglia di flauti rinascimentali) avrà al suo interno possibilità sonore molto distanti tra<br />

loro (per esempio il do basso del flauto soprano corrisponde a quello centrale del flauto<br />

tenore e via dicendo). Questa diversità di tessitura rende molto chiara la linea melodica<br />

suonata da ogni diverso strumento all’interno del brano: non avremo dubbi se la stessa<br />

melodia fosse suonata da un flauto basso o da un flauto soprano mentre potrebbe risultare<br />

più difficile, per un ascoltatore poco esperto, riuscire a capire lo stesso brano eseguita da<br />

due strumenti con la medesima tessitura (per esempio due tenori). Allo stesso tempo gli<br />

esecutori di un ensemble formato da strumenti diversi dovranno adattare continuamente la<br />

produzione del suono del proprio strumento a quella degli altri componenti del gruppo.<br />

Infatti lo strumento più piccolo ha un transitorio d’attacco del suono (periodo di tempo in<br />

cui l’aria passa dal regime di riposo alla stabilizzazione delle vibrazioni) molto più breve<br />

rispetto a quelli grandi e perché l’esecuzione delle note di un brano risultino sincrone, ove<br />

è necessario che siano, gli esecutori dovranno tenere conto di queste diversità.<br />

Quanto incidono le diversità (di età, di cultura, di credenze, di storia) tra il terapeuta ed i<br />

suoi clienti? Quali conseguenze nell’essere troppo simili o nell’essere troppo diversi?<br />

Come cambia in questi casi il lavoro terapeutico? Quanto e come incidono le differenze?<br />

Come cambia la musica?<br />

Ancora vengono stimolati temi inerenti la scelta, in un senso o nell’altro spesso ancora<br />

molto pregiudiziale, tra la terapia individuale o la terapia in gruppo. O il problema se<br />

proporre gruppi formati da persone diverse piuttosto che simili tra loro. Vi è la tendenza<br />

generale di fare gruppi terapeutici sempre più omogenei (per patologia, sesso, condizione<br />

sociale). Ma lo si fa con quale consapevolezza? Con quale scopo ed a quale prezzo?


Conclusioni<br />

Una frase del famoso neurologo, Oliver Sacks, può essere utilizzata per la conclusione di<br />

queste riflessioni “il pianoforte, uno strumento che al tempo stesso esige e offre una sorta<br />

di integrazione superiore, un’integrazione totale di sensi e muscoli, corpo e mente,<br />

memoria e fantasia, intelletto ed emozione, un’integrazione del proprio sé intero,<br />

dell’essere vivi” (Sacks 2011, 43).<br />

E se provassimo a scambiare la parola pianoforte con terapia?


Bibliografia<br />

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Borio, G., Gentili, C. (a cura di) 2007 Storia dei concetti musicali. Carocci, Roma.<br />

Callieri, B. 2011 A mo’ d’introduzione. in De Luca 2011.<br />

De Luca, A. 2011 Tra le Rovine dell’Esistenza. Sofferenza Psicoterapia Ripresa, Edizioni<br />

Universitarie Romane, Roma.<br />

Di Petta, G. 2011 Ciò che resta: dolore, alterità e speranza, in De Luca 2011,<br />

Presentazione.<br />

Galimberti, U. 1992 Dizionario di Psicologia. UTET, Torino.<br />

Givon, T. 2005 Context as Other Minds: The Pragmatics of Sociality, Cognition and<br />

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Kahler, T. 1975 Script: Process and Contents, T.A. Journ. V, 3, 1975, pp. 277-179, in<br />

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49-52.<br />

Meeùs, N 2002. Scale, polifonia, armonia in Il sapere musicale. Einaudi, Torino.<br />

Ranci, D. 2006 Curare con il Gruppo. La vita felice, Milano.<br />

Sacks, O. 2008 Musicofilia. Milano, Adelphi.<br />

Sacks, O. 2011 L’Occhio della Mente. Milano, Adelphi.<br />

Sloboda, J. A. 1985 The musical mind. Oxford, Oxford University Press.<br />

Stern, D. N. 2011 Le forme vitali. L’esperienza dinamica in psicologia, nell’arte, in<br />

psicoterapia e nello sviluppo. Milano, Raffaello Cortina Editore.<br />

Pietro Romanelli: Psicologo/Psicoterapeuta, PTSTA-P - Presidente SIMPAT, Responsabile del<br />

Servizio di Psicologia Clinica - Casa di Cura SAMADI, Co-fondatore e co-direttore di Physis<br />

at, Centro Romano di Psicologia, Analisi Transazionale e Studi per la Persona.<br />

Via Pietro Tacchini, 13, 00197 - Roma, Tel. 063210926-3387044723<br />

email: p.romanelli@physis.org<br />

Ludovica Scoppola: Socio-fondatore e docente di flauto dolce della Scuola di Musica S.<br />

Ganassi, Roma, Docente ai Corsi Internazionali di Musica Antica di Urbino, Concertista<br />

specializzata nella prassi della Musica Antica, Dottoranda in Pedagogia Sperimentale con una<br />

tesi sull’educazione musicale (Università di Roma - La Sapienza).<br />

Via Tommaso Salvini 2a, 00197 - Roma, Tel. 068070968-3477603089<br />

email: ludoscoppola@libero.it<br />

I brani sono stati eseguiti dall’Ensemble di Flauti dolci degli allievi Scuola S. Ganassi, Roma.

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