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GEOLOGIA Floriana Pergalani

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<strong>GEOLOGIA</strong><br />

<strong>Floriana</strong> <strong>Pergalani</strong><br />

59


INDICE<br />

ELEMENTI DI <strong>GEOLOGIA</strong><br />

LE ROCCE E LE TERRE<br />

ROCCE IGNEE<br />

Classificazione delle rocce ignee<br />

ROCCE PIROCLASTICHE<br />

GIACITURA DELLE ROCCE IGNEE<br />

Giacitura delle rocce effusive<br />

Attività di emissione di gas e acque termali<br />

Attività di emissione di lave e materiali solidi<br />

Eruzioni sottomarine<br />

Giacitura delle rocce intrusive<br />

Giacitura dei filoni<br />

ROCCE SEDIMENTARIE E TERRE<br />

Rocce clastiche e terre<br />

Brecce e Conglomerati<br />

Ghiaie e Ciottoli<br />

Arenarie e sabbie<br />

Argilliti e Argille<br />

Rocce carbonatiche<br />

Rocce silicee<br />

Rocce evaporitiche<br />

Rocce ferrifere<br />

Rocce fosfatiche<br />

Rocce combustibili<br />

Diagenesi dei sedimenti<br />

GIACITURA DELLE ROCCE SEDIMENTARIE<br />

ROCCE METAMORFICHE<br />

FACIES, GIACITURE E STRATIGRAFIA<br />

LA TETTONICA<br />

LE FAGLIE<br />

Associazioni di faglie distensive<br />

LE PIEGHE<br />

LE PIEGHE-FAGLIE E SOVRASCORRIMENTI<br />

LA TETTONICA A PLACCHE<br />

ELEMENTI DI GEOMORFOLOGIA<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI GRAVITATIVI<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI DELLE ACQUE<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI CARSICI<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI GLACIALI<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI CRIONIVALI<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI EOLICI<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI ORIGINE MARINA, LAGUNARE E<br />

LACUSTRE<br />

FORME ANTROPICHE<br />

60


ELEMENTI DI GEOTECNICA<br />

CARATTERISTICHE FISICHE<br />

PROVE IN SITU ED IN LABORATORIO<br />

PROVE IN SITU<br />

PROVE DI LABORATORIO<br />

ELEMENTI DI GEOFISICA<br />

INDAGINI SISMICHE<br />

PERTURBAZIONI ELASTICHE<br />

APPARECCHIATURE SISMICHE<br />

ONDE SISMICHE - DROMOCRONE<br />

SISMOGRAMMI<br />

METODO SISMICO A RIFLESSIONE<br />

METODO SISMICO A RIFRAZIONE<br />

MISURE SISMICHE IN FORO<br />

PARAMETRI ELASTICI<br />

ANALISI DI STABILITA’ DEI VERSANTI<br />

PREMESSA<br />

ANALISI AREALI<br />

ANALISI PUNTUALI<br />

BIBLIOGRAFIA<br />

61


ELEMENTI DI <strong>GEOLOGIA</strong><br />

LE ROCCE E LE TERRE<br />

Una delle parti fondamentali della geologia è il riconoscimento e la<br />

classificazione delle rocce e delle terre. Le rocce sono i materiali dotati di elevata<br />

coesione, per cui restano compatte anche se sottoposte ad una serie di cicli di<br />

immersione in acqua ed essiccamento, le terre sono i materiali del tutto incoerenti o<br />

dotati di coesione tanto modesta per cui si disgregano se sottoposte ad una serie di cicli<br />

di immersione in acqua ed essiccamento.<br />

La classificazione più generica che viene generalmente utilizzata si base sul<br />

criterio dell’origine; si possono distinguere tre grandi categorie: rocce ignee, rocce<br />

sedimentarie e terre, e rocce metamorfiche.<br />

Le rocce ignee derivano dal consolidamento per raffreddamento di masse<br />

totalmente e parzialmente fuse (magmi o lave) di origine profonda.<br />

Le rocce sedimentarie e le terre hanno origine da processi che si hanno sulla<br />

superficie terrestre, per effetto di agenti dinamici esterni e si formano dal<br />

disgregamento, alterazione o scioglimento di rocce preesistenti, o da sostanze che hanno<br />

attraversato il ciclo biologico.<br />

Le rocce metamorfiche derivano da rocce ignee o sedimentarie che hanno subito<br />

trasformazioni chimico-fisiche più o meno accentuate, allo stato solido, per effetto di<br />

variazioni di temperature o pressioni.<br />

ROCCE IGNEE<br />

Le rocce ignee sono quelle che provengono dal consolidamento di una massa più<br />

o meno fluida, che può contenere anche una fase gassosa.<br />

I minerali principali contenuti in queste rocce sono i minerali sialici in cui<br />

predominano la silice e l’alluminia (feldspati, feldspatoidi, silice) e i minerali ferromagnesiaci<br />

o femici, caratterizzati dalla presenza di ferro e magnesio (olivina, pirosseni,<br />

anfiboli, miche).<br />

Il magma contiene anche dei componenti volatili che, in seguito alla<br />

consolidazione, vengono allontanati. La parte volatile è costituita, per la maggior parte<br />

da vapore d’acqua, ed ha il potere di abbassare la viscosità del magna stesso con<br />

influenze sulle modalità di consolidazione.<br />

Classificazione delle rocce ignee<br />

Una prima classificazione delle rocce ignee è data dalle modalità di<br />

raffreddamento del magma, alle quali corrispondono strutture diverse, differenti<br />

dimensioni dei minerali e differenti gradi di cristallinità. Le rocce ignee possono, infatti,<br />

consolidare o all’interno (plutoniti) o all’esterno (vulcaniti) della crosta terrestre.<br />

In una massa fusa in via di solidificazione la forma e la dimensione dei cristalli<br />

sono condizionate sia dal numero dei centri di cristallizzazione, sia dalla velocità di<br />

cristallizzazione.<br />

Nelle plutoniti (o rocce intrusive) il raffreddamento è lento, in quanto la perdita di<br />

calore è limitata dalle rocce circostanti. I centri di cristallizzazione sono pochi e il loro<br />

accrescimento è lento: si forma così un piccolo numero di cristalli di dimensioni<br />

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elativamente grandi, la roccia sarà olocristallina più o meno equigranulare (struttura<br />

granulare).<br />

Nelle vulcaniti (o rocce effusive) il raffreddamento è rapido, in conseguenza di<br />

una rapida caduta della temperatura. Si formano un gran numero di centri di<br />

cristallizzazione che rimangono di piccole dimensioni, a causa della velocità del<br />

raffreddamento. La roccia sarà costituita da una massa microcristallina o vetrosa che<br />

può inglobare cristalli formati prima dell’eruzione vulcanica (struttura porfirica). In<br />

questa fase è importante la presenza dei gas nel magma che producono un abbassamento<br />

della viscosità della massa fusa aumentando l’accrescimento dei centri di<br />

cristallizzazione.<br />

Le strutture granulari caratterizzano, quindi le rocce intrusive, mentre le strutture<br />

porfiriche caratterizzano le rocce effusive e le rocce che consolidano in vicinanza della<br />

superficie terrestre (laccoliti, filoni, ecc.).<br />

Quando si parla di plutoniti e vulcaniti si fa riferimento ad una prima suddivisione<br />

delle rocce ignee basata su un criterio che tiene in conto la profondità dell’ambiente in<br />

cui è avvenuta la solidificazione, se si tiene in conto anche della giacitura si deve<br />

considerare anche un ulteriore tipo di rocce che sono quelle filoniane, quelle che si sono<br />

formate in fessure di altre rocce dando luogo ai filoni.<br />

Una ulteriore classificazione delle rocce ignee si basa su un criterio mineralogico<br />

e chimico. In particolare sulla quantità della silice (SiO2) presente, si possono<br />

classificare le rocce ignee in acide e basiche: si chiamano rocce acide quelle in cui la<br />

silice è abbondante, basiche quelle in cui la silice è scarsa. La famiglia dei graniti (rocce<br />

intrusive) comprende le rocce più acide (quantità della silice intorno al 70%). La grande<br />

quantità della silice presente è testimoniata dalla presenza di quarzo, infatti quando la<br />

silice è in eccesso si formano prima tutti i minerali saturi in silice (feldspati, miche,<br />

anfiboliti e pirosseni) e poi si forma il quarzo. Se la silice è meno abbondante si possono<br />

formare rocce senza quarzo, ma con minerali saturi in silice, come nella famiglia delle<br />

dioriti (rocce intrusive); se la presenza della silice non è molto forte si formano minerali<br />

non saturi in silice (felspatoidi, olivine, corindone, ecc.) tipici di rocce basiche come le<br />

peridotiti, essexiti, teraliti (rocce intrusive) e picriti, basalti, monoliti nefriti (rocce<br />

effusive).<br />

In sintesi si riporta la classificazione di Streckeisen (Fig. 1) che si basa sul<br />

contenuto dei costituenti sialici (nei diagrammi Q), dei felpati alcalini (nei diagrammi<br />

A), dei plagioclasi (nei diagrammi P) e dei felspatoidi (nei diagrammi F). Questa<br />

classificazione racchiude tutte le rocce che hanno un contenuto di minerali ferromagnesiaci<br />

minore del 90%, rimangono quindi escluse da questa classificazione le rocce<br />

ultrabasiche che contengono una quantità di minerali di ferro e magnesio maggiore del<br />

90% (pietre verdi o ofioliti).<br />

ROCCE PIROCLASTICHE<br />

Le rocce piroclastiche sono costituite da materiale vulcanico lanciato in aria<br />

durante le eruzioni con carattere esplosivo, che poi sedimentano con aspetto stratificato.<br />

Possono depositarsi in ambiente subaereo oppure in laghi o nei mari.<br />

Si chiamano genericamente brecciole quando contengono brandelli di lava e di scorie<br />

con dimensioni superiori ai 3 cm; tufi quando si tratta di materiali più minuti, come i<br />

lapilli (da 3 cm a 2 mm); cineriti quando risultano costituite in prevalenza da ceneri<br />

vulcaniche (< 2 mm).<br />

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Il loro aspetto è stratificato e deriva dalle varie esplosioni che si sono succedute e<br />

dal fatto che il materiale durante ogni singola esplosione viene classato durante la<br />

caduta, cioè i materiali più fini cadono per ultimi e possono essere trasportati anche<br />

lontano dalla loro origine.<br />

Altri tipi di eruzioni sono le cosiddette “nubi ardenti”, che sono delle sospensioni<br />

molto dense di lapilli e ceneri che ricadono al suolo scorrendo verso il basso lungo il<br />

pendio del vulcano. Le gocce di lava liquida ed i gas contenuti permangono per un certo<br />

tempo dopo la deposizione formando una roccia che ha la compattezza simile a quelle<br />

formate dalla lava che prende il nome di ignimbrite.<br />

Fig. 1 – Diagrammi doppio-triangolari di Streckeisen per la classificazione delle rocce<br />

ignee intrusive ed effusive (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

GIACITURA DELLE ROCCE IGNEE<br />

Giacitura delle rocce effusive<br />

I diversi tipi di giacitura delle rocce effusive dipendono dal tipo di eruzione<br />

vulcanica, dalla natura e quantità dei materiali emessi e dalla durata dell’attività<br />

vulcanica.<br />

I vulcani odierni ci permettono di osservare le modalità delle eruzioni vulcaniche<br />

e le forme degli apparati vulcanici. I vari tipi di attività vulcanica, le forme e le strutture<br />

dei vulcani attuali, che verranno di seguito illustrate, ci permettono, anche, di<br />

interpretare la giacitura delle vulcaniti del passato.<br />

Attività di emissione di gas e acque termali<br />

Si possono distinguere quattro tipi di attività:<br />

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− fumarolica (emissione di vapori caldi da crepacci del terreno);<br />

− solfatarica (emissione di vapori con idrogeno solforato);<br />

− geyser (lancio di acqua bollenti e vapori);<br />

− idrotermale (emissione di acqua calda).<br />

Queste attività corrispondono alla fase idrotermale del ciclo vulcanico, quando la<br />

solidificazione del magma è quasi completamente avvenuta e solo l’acqua o altri fluidi<br />

possono venire a giorno.<br />

In altri casi questa fase può essere legata a plutoni non affioranti ed in via di<br />

raffreddamento.<br />

Attività di emissione di lave e materiali solidi<br />

L’attività di emissione di lave è accompagnata da fuoriuscita di gas e possono<br />

avvenire in modo continuo oppure con fasi più o meno violente di tipo esplosivo. Le<br />

lave nel momento della fuoriuscita possono essere più o meno fluide: generalmente le<br />

lave basiche sono più fluide, presentando meno componenti di silice e allumina, che<br />

rendono la massa meno viscosa e generalmente presentano una temperatura più elevata<br />

di quelle acide.<br />

Alla fluidità della lava è connesso anche il tipo di emissione di gas: più tranquilla<br />

e continua nelle lave più fluide, con esplosioni nelle lave più viscose.<br />

Alla fluidità o viscosità è connessa anche in parte la forma degli edifici vulcanici,<br />

dipendendo anche dal rapporto tra lava e materiali incoerenti emessi allo stato solido. I<br />

vari tipi di apparati vulcanici possono essere raggruppati in:<br />

− coperture di lava (Fig. 2) – si tratta di espandimenti di lave molto fluide per zone<br />

molto vaste, senza formazioni di coni vulcanici, generalmente si ha fuoriuscita di<br />

lava attraverso spaccature della superficie terrestre. Possono essere a copertura<br />

semplice cioè una unica colata con un unico tipo di roccia, o a copertura composta<br />

cioè più colate sovrapposte. La giacitura a copertura lavica è nota soltanto per rocce<br />

di tipo basaltico (esempi: Dekkan, Siberia, Mongolia, Groenlandia, Arabia, Etiopia);<br />

Fig. 2 – Copertura di lava in Arabia Saudita; sopra ricostruzione dell’aspetto al tempo<br />

dell’effusione, sotto: aspetto attuale (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

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− vulcani a scudo – sono edifici con una larga base e fianchi con bassa pendenza,<br />

anche in questo caso si ha la presenza di lave basiche (esempi: Manua Loa nelle<br />

Hawai, Islanda);<br />

− cupole di ristagno (Fig. 3) – sono lave che a causa delle loro viscosità non possono<br />

espandersi e si accrescono a cupola, le loro dimensioni non sono notevoli (esempi:<br />

Ischia, Colli Euganei);<br />

Fig. 3 – Cupola di ristagno nel cratere del vulcano di Santa Maria del Guatemala (da:<br />

Trevisan e Giglia, 1974)<br />

− protusioni solide (Fig. 4) – sono obelischi di lava quasi interamente solida che viene<br />

estrusa in blocco (esempi: Monte Tabor a Ischia);<br />

Fig. 4 – Protusione solida delle Montagne Pelée nell’isola di Martinica, alta quasi 300 m<br />

(da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

− vulcani strati – sono formati da depositi alternati da colate laviche e materiali<br />

incoerenti (piroclastici), possono presentare varie forme a seconda dei rapporti tra i<br />

due tipi di materiali (esempi: Vesuvio, Etna, Stromboli);<br />

− vulcani a bastione – si formano in conseguenza di una violenta fase esplosiva, che<br />

apre un vasto cratere, circondato da un bastione che è il residuo di un precedente<br />

cono, oppure rappresenta il deposito di materiali espulsi dall’esplosione;<br />

− crateri di esplosione – corrispondono ad una attività di tipo puramente esplosivo,<br />

sono formati da materiali piroclastici che riempiono i camini vulcanici (esempio:<br />

Dolomiti, Berici).<br />

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L’attività di un vulcano è spesso intermittente, con periodi di riposo e riprese di<br />

attività, che possono essere caratterizzate da materiali diversi dai precedenti: si hanno<br />

così i vulcani composti. I vulcani composti possono essere a successione normale, nei<br />

quali l’attività evolve da tipi di lave più basiche a tipi con lave più acide; o a<br />

successione inversa che sono quelli nei quali a emissioni acide seguono emissioni<br />

basiche (esempio: Campi Flegrei, Somma-Vesuvio).<br />

Eruzioni sottomarine<br />

Tipiche manifestazioni di colate laviche sottomarine sono le lave a cuscino. Si<br />

presentano con aspetto sferoidale irregolare di qualche decimetro di diametro. Questo<br />

fenomeno è dovuto a scivolamenti di blocchi lavici non del tutto consolidati lungo i<br />

pendii sottomarini ed accumulo al piede dei pendii stessi. Presentano un particolare<br />

colore verdastro dovuto alla lava con il contatto con le acque marine che produce un<br />

silicato di colore verde (caladonite).<br />

Giacitura delle rocce intrusive<br />

Le giaciture delle rocce intrusive possono essere distinte in:<br />

− laccoliti (Fig. 5) – quando le rocce vulcaniche presentano una giacitura lenticolare e<br />

sono ricoperte da rocce con segni di metamorfismo di contatto, generalmente sono<br />

molto estese e conservano per vaste estensioni spessori pressoché costanti (esempi:<br />

Vicentino);<br />

Fig. 5 – Laccolite del monte Cornetto in provincia di Vicenza (da: Trevisan e Giglia,<br />

1974)<br />

− plutoni (Fig. 6) – sono masse di roccia a struttura granulare, olocristallina talora di<br />

dimensioni notevoli (alcune decine di Km), consolidati a profondità notevoli, con un<br />

estesa aureola di metamorfismo (esempi: Alpi Centrali, Trentino, Toscana).<br />

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Fig. 6 – Sezioni di plutoni : 1 - Elba, 2 – Haute-Garonne, 3 – Grosseto (da: Trevisan e<br />

Giglia, 1974)<br />

Giacitura dei filoni<br />

I filoni sono propaggini di masse magmatiche insinuate in fenditure di rocce<br />

qualsiasi. Talvolta tagliano la roccia con un andamento rettilineo, in altri casi<br />

l’andamento può essere vario e con spessori variabili da punto a punto.<br />

I filoni possono essere intrusi in una roccia magmatica oppure in rocce estranee<br />

stratificate, che possono presentare un metamorfismo di contatto. Nel caso di rocce<br />

stratificate si hanno due tipi di giacitura: il filone-strato quando corre parallelamente<br />

alla stratificazione ed il filone comune, che corre indipendentemente dalla<br />

stratificazione e che taglia gli strati con angoli diversi (Fig. 7).<br />

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Fig. 7 – Filoni paralleli alla stratificazione (A), filoni indipendenti dalla stratificazione<br />

(B) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Dal punto di vista della diffusione delle rocce ignee è da notare che i basalti sono<br />

più frequenti dei gabbri, quindi nel caso di magmi basici predominano le rocce effusive;<br />

mentre i graniti e le granodioriti predominano sui porfidi quarziferi, rioliti, daciti, quindi<br />

nel caso di magmi acidi predominano le rocce intrusive.<br />

ROCCE SEDIMENTARIE E TERRE<br />

Una prima definizione delle rocce sedimentarie, come già detto, riguarda la genesi<br />

che le hanno prodotte: tali rocce derivano dalla disgregazione o, alterazione o<br />

scioglimento di rocce preesistenti, o da sostanze che hanno attraversato il ciclo<br />

biologico. Per meglio comprendere il percorso formativo di tali materiali è però<br />

necessario considerarlo nella sua integrità. Il percorso risulta composta da quattro azioni<br />

distinte nel tempo: azione erosiva, cioè quella che forniscono la materia prima per le<br />

rocce sedimentarie; azione di trasporto e di deposito (o sedimentazione in senso stretto);<br />

azione di trasformazione (o diagenesi) che determinano una lenta trasformazione dei<br />

sedimenti originali, spesso sciolti o mobili, in roccia.<br />

Le azioni di erosione: le parti superficiali delle rocce si trovano sempre in una<br />

situazione instabile e si hanno costantemente fenomeni più o meno forti di erosione, che<br />

possono essere preceduti da alterazione chimica.<br />

L’alterazione chimica è dovuta ad alcuni componenti presenti nell’atmosfera quali<br />

acqua, acidi, sostanze organiche, radici e animali. Generalmente la roccia alterata è più<br />

friabile della roccia sana e la variazione di colore mostra, spesso, la profondità<br />

dell’alterazione.<br />

Altre azioni erosive hanno una causa meccanica e sono dovute al movimento delle<br />

acque dei torrenti, dei fiumi e del mare. In questi casi agiscono anche i materiali solidi<br />

trascinati dal moto delle acque.<br />

Anche i ghiacciai producono un’erosione, dovuta non solo al movimento dei<br />

ghiacciai sotto la pressione data dallo spessore del ghiacciaio, ma anche dalla presenza<br />

del materiale morenico di fondo che agisce come un abrasivo.<br />

Il vento produce un’erosione che può essere intensa in modo particolare nelle<br />

regioni aride e deserte, anche a causa dell’abrasione effettuata dalla sabbia.<br />

69


Si ricorda infine l’azione termoclastica dovuta alle variazioni rapide della<br />

temperatura, che possono dilatare in modo selettivo le parti più superficiali delle rocce<br />

rispetto a quelle più interne, formando fessure e distacco di frammenti. Le fessure<br />

inoltre favoriscono le azioni erosive in profondità, in modo particolare se nelle fessure<br />

entra l’acqua che può subire frequenti cicli di gelo e disgelo, come nei climi di alta<br />

montagna.<br />

Le azioni di trasporto: gli agenti principali del trasporto sono le acque correnti, i<br />

ghiacciai ed i venti.<br />

Le acque correnti possono trasportare materiale in soluzione, in sospensione e<br />

mediante rotolamento sul fondo. I materiali sospesi e rotolati subiscono un logoramento,<br />

nel senso che i frammenti angolosi diventano rotondeggianti e i materiali più a lungo<br />

trasportati sono i più sottili, a parità di altre condizioni. L’acqua quindi seleziona i<br />

materiali secondo la granulometria, ma produce anche una selezione chimica, nel senso<br />

che i materiali vengono impoveriti dai minerali più instabili, questo vuol dire che i<br />

materiali si arricchiscono indirettamente di minerali meno attaccabili dagli agenti<br />

esterni. Tra questi si ricorda il quarzo.<br />

Il trasporto dovuto ai ghiacciai avviene senza che si producano smistamenti di<br />

grandezza dei materiali, infatti il ghiacciaio trasporta ugualmente sia grossi massi che<br />

sottili polveri. Durante il trasporto i frammenti che si trovano in fondo al ghiacciaio<br />

presentano una particolare striatura dovuta alla frizione che subiscono tra loro e contro<br />

il fondo roccioso, ma mantengono il loro aspetto angoloso originario.<br />

I venti possono trasportare solo i materiali più fini ed assume importanza quando<br />

si tratta di zone aride e quindi senza vegetazione.<br />

Anche le acque marine possono produrre un’azione di trasporto, che può portare i<br />

materiali al largo o sedimentarli presso la riva. Una particolare azione di trasporto, in<br />

ambiente marino, è dovuta alla presenza di scarpate che si possono formare per<br />

accumulo di sedimenti costieri. Tali scarpate possono essere instabili a causa delle<br />

pendenze che si possono formare per tali accumuli (Fig. 8), che possono produrre un<br />

franamento del materiale, che produce un’onda torbida che si può propagare anche per<br />

grandi distanze tenendo in sospensione i materiali più fini.<br />

Fig. 8 – Formazione di scarpate per accumulo di sedimenti costieri (da: Trevisan e<br />

Giglia, 1974)<br />

Le azioni di deposito: queste rappresentano la sedimentazione in senso stretto,<br />

cioè la deposizione del materiale. Tali materiali hanno di solito un aspetto stratificato,<br />

che è facilmente visibile quando si tratta di materiali con diversa composizione. La<br />

deposizione dei materiali trasportati avviene quando rallenta o cessa la velocità delle<br />

70


acque che ne determinano il trasporto; analogamente avviene per i materiali trasportati<br />

dai venti, che si possono fermare anche quando si incontrano ostacoli. La deposizione<br />

dei ghiacciai avviene in corrispondenza del fronte e sui fianchi dello stesso e si<br />

originano i depositi morenici.<br />

I depositi di origine chimica si formano soprattutto per evaporazione delle acque,<br />

con conseguente precipitazione di sostanze disciolte.<br />

La sedimentazione in ambiente marino di materiali di origine organica è di tipo sia<br />

passivo, nel senso di accumulo di spoglie di organismi sul fondo, sia attivo nel caso di<br />

costruzioni operate da organismi diversi come le scogliere coralline.<br />

La sedimentazione in ambiente continentale di materiali di origine organica è<br />

composta da accumuli vegetali: quelli di origine passata si presentano come giacimenti<br />

di rocce combustibili.<br />

In generale la classificazione delle rocce sedimentarie avviene adottando sia un<br />

criterio genetico, sia un criterio chimico, sia un criterio descrittivo.<br />

In questo senso quindi si individuano le seguenti categorie di rocce sedimentarie:<br />

− rocce clastiche e terre<br />

− rocce carbonatiche<br />

− rocce silicee<br />

− rocce evaporitiche<br />

− rocce ferrifere<br />

− rocce fosfatiche<br />

− rocce combustibili<br />

Fra i caratteri descrittivi, in particolare per le rocce clastiche, assume particolare<br />

importanza la tessitura di una roccia, che è intesa come la forma, la disposizione e la<br />

dimensione degli elementi che la costituiscono.<br />

Rocce clastiche e terre<br />

Questo tipo di rocce si formano per accumulo meccanico di particelle preesistenti.<br />

Una prima classificazione si può quindi basare sulla grandezza di queste particelle o<br />

elementi, che le costituiscono. Una seconda suddivisione può essere effettuata in<br />

relazione alla consolidazione che tali materiali presentano, quindi ad una grossa<br />

distinzione tra rocce clastiche e terre.<br />

Per quanto riguarda la granulometria si possono distinguere diverse classi:<br />

− dimensioni dei granuli maggiori di 2 mm<br />

− dimensioni dei granuli compresi tra 2 mm e 20 micron<br />

− dimensioni dei granuli compresi tra 20 micron e 2 micron<br />

− dimensioni dei granuli inferiori ai 2 micron<br />

A queste suddivisioni corrispondono termini quali, per le rocce, rispettivamente,<br />

brecce (se i granuli presentano spigoli vivi) e conglomerati (se i granuli presentano<br />

spigoli arrotondati), arenarie, siltiti ed argilliti; per le terre o depositi, rispettivamente,<br />

ghiaie, sabbie, limi ed argille; all’interno del campo delle ghiaie per clasti maggiori di<br />

60 mm si hanno i ciottoli.<br />

Brecce e Conglomerati<br />

Sono le rocce clastiche più grossolane: i granuli si riconoscono ad occhio nudo e<br />

sono immersi in una matrice di natura variabile. Se i granuli presentano spigoli vivi si<br />

71


parla di brecce, se i granuli presentano spigoli arrotondati si parla di conglomerati. Se i<br />

granuli sono costituiti da un solo tipo di roccia si parla di brecce e conglomerati<br />

monogenici, se i granuli sono costituiti da frammenti di rocce diverse si parla di brecce<br />

e conglomerati poligenici. Le brecce e i conglomerati monogenici sono generalmente<br />

costituite da clasti derivanti da rocce molto resistenti sia all’azione meccanica che<br />

chimica: quarzo, selci ecc.; mentre le brecce ed i conglomerati poligenici presentano<br />

clasti che sono sensibili all’alterazione.<br />

Il tipo di cemento è importante, i cementi più frequenti sono quelli calcarei, silicei<br />

ed argillosi, generalmente esiste una stretta relazione tra composizione dei clasti e<br />

quella della matrice.<br />

In generale si può affermare che questi tipi di rocce ed i corrispondenti depositi<br />

sono quelli che hanno subito un minor trasporto, nel caso delle brecce, la presenza di<br />

spigoli vivi testimonia che il trasporto è stato praticamente nullo.<br />

Ghiaie e Ciottoli<br />

Anche in questo caso sono i depositi più grossolani, se i granuli presentano<br />

dimensioni maggiori di 60 mm si parla di ciottoli, tra i 60 mm e 2 mm si parla di ghiaie.<br />

Il grado di arrotondamento del clasto si aggiunge come aggettivo al nome (arrotondato,<br />

subarrotondato, subangolare, angolare).<br />

La disposizione dei granuli in un deposito ha un significato notevole, quando<br />

manca la stratificazione e si trovano mescolati senza ordine ghiaie e ciottoli di<br />

dimensioni eterogenei, insieme a materiali fini si deve escludere l’azione classatrice<br />

delle acque correnti e si deve prendere in considerazione il trasporto glaciale, viceversa<br />

si avrà un aspetto stratificato del deposito che dimostrerà l’azione classatrice del<br />

trasporto fluviale (Fig. 9).<br />

Fig. 9 – Schema della disposizione e delle varie dimensioni dei ciottoli in un deposito<br />

morenico (a sinistra); schema dell’aspetto stratificato di un deposito ciottoloso fluviale<br />

(a destra) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Arenarie e sabbie<br />

Le arenarie sono rocce clastiche coerenti a grana media e tra i vari granuli si ha un<br />

riempimento o di materiale più fino, o un cemento di precipitazione secondaria.<br />

Le sabbie sono i depositi incoerenti a grana media e sono costituite da uno<br />

scheletro di frammenti più o meno strettamente in contatto tra loro.<br />

Gli elementi clastici possono provenire da rocce intrusive, effusive e<br />

metamorfiche o da sedimenti preesistenti. Il contributo delle rocce intrusive consiste<br />

principalmente in quarzo e feldspati.<br />

72


Dal punto di vista tessiturale un deposito o una roccia mal selezionata non indica<br />

sempre un trasporto breve: nel caso di un’onda di torbida in conseguenza di crollo di<br />

scarpate subacque possono esistere granulometrie diverse con scarsa selezione dei<br />

materiali, anche se il trasporto è notevole.<br />

Nel caso invece di un deposito o roccia ben selezionata il cemento è di origine<br />

secondaria e cioè introdotto in un momento successivo alla deposizione o per<br />

infiltrazione meccanica o per precipitazione da soluzione.<br />

Quando i grani sono compresi tra 20 e 2 micron si parla di Siltiti e Limi.<br />

Argilliti e Argille<br />

Le argilliti sono le rocce clastiche coerenti a grana fine, le argille sono i depositi<br />

incoerenti a grana fine.<br />

Le argille possiedono alcune proprietà particolari quali la plasticità, l’attitudine a<br />

rigonfiare in presenza di acqua.<br />

Sia le argilliti che le argille possono essere distinte in residuali e trasportate,<br />

queste ultime possono essere suddivise in continentali e marine in relazione<br />

all’ambiente di deposizione. Le residuali sono le argille dei suoli continentali e la loro<br />

natura è condizionata dal tipo di roccia madre e dal clima e morfologia, le trasportate,<br />

come tutte le rocce clastiche, dipendono dalla costituzione del bacino di alimentazione e<br />

dal clima che vi predominava all’epoca della sedimentazione e possono essere<br />

continentali e marine. I minerali argillosi sono sensibili agli ambienti e quindi possono<br />

evolvere durante il trasporto. Le argille trasportate continentali sono prevalentemente<br />

dei depositi fluviali, lacustri e lagunari; un tipo di argille trasportate continentali sono i<br />

Loess, un deposito eolico di aspetto non stratificato, friabile, che può mantenere anche<br />

pareti verticali. Le argille trasportate marine indicano un ambiente di deposizione con<br />

acque poco agitate e con scarse correnti.<br />

Rocce carbonatiche<br />

Con il termine di rocce carbonatiche si intendono tutti i tipi litologici nei quali i<br />

due carbonati più comuni, la calcite e la dolomite, costituiscono almeno il 50% del<br />

totale della roccia.<br />

Esiste tutta una serie di termini di transizione dalle rocce costituite interamente da<br />

CaCO3 (calcari) e da CaMg(CO3)2 (dolomie): calcari, calcari dolomitici, dolomie<br />

calcaree, dolomie.<br />

La formazione di tali rocce può avvenire o per dissoluzione del carbonato di<br />

calcio di un sedimento originariamente costituito da calcio Ca e magnesio Mg o per<br />

sostituzione da parte del Mg dal Ca.<br />

Esistono termini di miscela anche tra le rocce carbonatiche pure e le rocce<br />

clastiche a granulometria più fine (sabbia e soprattutto argilla): quando calcare ed argilla<br />

sono mescolati in proporzioni poco diverse dal 50% la roccia corrispondente si chiama<br />

marna.<br />

In generale i calcari possono essere distinti in autoctoni ed alloctoni: il primo<br />

gruppo (calcari organogeni, biochimici e chimici) comprende i calcari formati sul luogo<br />

stesso della deposizione, sia dagli organismi viventi (per accrescimento ad opera di<br />

organismi costruttori, per accumulo passivo di gusci calcarei), sia i calcari di<br />

precipitazione chimica, come travertini, alabastri, ecc.<br />

73


Quando si parla di precipitazione chimica deve essere ricordato l’equilibrio tra<br />

carbonato insolubile e bicarbonato solubile:<br />

CaCO3 + CO2 + H2O = Ca(HCO3)2<br />

qualunque causa sottragga CO2 all’acqua favorisce la deposizione del carbonato. Le<br />

cause possono essere la diminuzione parziale della pressione atmosferica, agitazione<br />

delle acque, aumento della temperatura, diminuzione della pressione idrostatica.<br />

Si formano così i travertino e gli alabastri, in ambiente continentale, allo sbocco di<br />

sorgenti di acque calcaree in conseguenza della perdita di pressione che favorisce la<br />

dispersione dell’anidride carbonica e la precipitazione di carbonato, nel primo caso; o,<br />

con analogo meccanismo, in grotte e fessure carsiche, nel secondo caso.<br />

Il secondo gruppo (calcari alloctoni) comprende i calcari di origine detritica i cui<br />

elementi hanno subito un trasporto prima della deposizione.<br />

Gli elementi clastici calcarei devono costituire almeno il 50% della roccia. Il<br />

cemento originario è generalmente calcareo, la calcite del cemento si distingue da quelle<br />

degli elementi per la maggior purezza.<br />

Rocce silicee<br />

Le rocce silicee rappresentano il prodotto della sedimentazione nei fondi marini o<br />

lacustri di gusci silicei di microrganismi, di silice colloidale ed in minor misura di silice<br />

in soluzione ionica.<br />

Alcuni esempi di rocce silicee sono le diatomiti (depositi silicei a diatomee) che in<br />

genere sono coerenti, restando però friabili e i diaspri, dove parte della silice si<br />

trasforma in opale o in una microquarzite, dando origine a rocce compattissime. I<br />

diaspri sono sempre stratificati talora con interstrati argillosi.<br />

Rocce evaporitiche<br />

Sono quelle rocce che si formano per precipitazione di minerali dall’acqua di mare<br />

per evaporazione. I primi minerali che precipitano sono la calcite e la dolomite, seguono<br />

poi il gesso e l’anidrite e poi il salgemma.<br />

In generale i depositi evaporitici si susseguono aritmicamente e con irregolarità,<br />

ciò significa che la successione tipica viene frequentemente interrotta, sia per nuovi<br />

apporti di acqua marina con salinità normale, sia per apporto di acque dolci da parte di<br />

corsi di acqua. Le serie evaporitiche possono essere costituite da depositi di sola<br />

evaporazione o con intercalazioni di materiali detritici come argille e sabbie.<br />

Rocce ferrifere<br />

Non considerando i giacimenti di ferro che sono associati alle rocce ignee, una<br />

roccia sedimentaria può dirsi ferrifera quando contenga più del 10% di ferro. Il ferro<br />

affluisce al mare con le acque fluviali, qui può flocculare e precipitare sostituendo il<br />

calcare dei gusci di organismi. In un ambiente ossidante, come quello dei fondi marini<br />

in cui l’acqua si ricambia rapidamente, si formano i minerali ferrici, che danno una<br />

colorazione rossastra alla roccia; in ambiente riducente, come quello di lagune o<br />

depressioni chiuse dei fondi marini, dove non arriva acqua areata, si formano i minerali<br />

ferrosi, che danno una colorazione grigiastra o nerastra alla roccia.<br />

74


Rocce fosfatiche<br />

Le rocce fosfatiche traggono la loro origine da meccanismi diversi: nell’acqua di<br />

mare il fosfato di calcio può precipitare per variazioni di temperatura e diminuzione di<br />

anidride carbonica, in ambiente subaereo (grotte e fessure) si formano le fosforiti per<br />

precipitazione dopo il dilavamento e dissoluzione di rocce fosfatiche di origine marina.<br />

Rocce combustibili<br />

Le rocce combustibili sono quelle formate da resti vegetali in diversi stadi di<br />

trasformazione dalle torbe all’antracite.<br />

Il processo di carbonizzazione è un processo lento ed è dovuto ad un<br />

arricchimento indiretto di carbonio a spese di altri componenti che può avvenire quando<br />

il processo di ossidazione è molto scarso, in ambiente di acque non aerate.<br />

I tipi principali sono: le torbe, originata da piante erbacee, il processo di<br />

carbonizzazione è agli stati iniziali; le ligniti, che hanno un contenuto di carbonio che si<br />

aggira al 70%; i litantraci, con contenuto di carbonio dell’80%; le antraciti che hanno un<br />

contenuto di carbonio che si aggira al 90%.<br />

Diagenesi dei sedimenti<br />

Con il termine di diagenesi si intende un insieme di cambiamenti chimici e fisici<br />

subiti da un sedimento dopo la sua deposizione, che trasformano il deposito o terreno in<br />

roccia, a causa del suo seppellimento e quindi dalla pressione esercitata dai sedimenti<br />

sovrastanti. La diagenesi comprende essenzialmente: neoformazione di minerali,<br />

ridistribuzione e ricristallizzazione di materia nei sedimenti, litificazione. In questi<br />

processi può avvenire che i frammenti di dimensioni più piccole possono disciogliersi e<br />

rideporsi formando un cemento tra i granuli più grossi. Il tutto è accompagnato da una<br />

compattazione, che consiste in una riduzione del volume originario del sedimento, con<br />

espulsione dell’acqua.<br />

Per esempio la porosità di una argilla, che prima del seppellimento può<br />

oltrepassare l’80% del volume totale, già sotto un carico di 500 m si riduce al 30% del<br />

sedimento già quasi trasformato in argillite, con una riduzione rispetto al volume<br />

iniziale del 50%.<br />

GIACITURA DELLE ROCCE SEDIMENTARIE<br />

Il carattere strutturale più importante delle rocce sedimentarie è dato dalla<br />

stratificazione che si manifesta attraverso l’esistenza di livelli ad andamento tabulare o<br />

lenticolare. Per esempio sono frequenti strati alternati di arenarie ed argilliti; calcari e<br />

marne; conglomerati, arenarie ed argilliti (Fig. 10).<br />

L’accumulo di materiali sedimentari nei mari o nei bacini lacustri, tende a formare<br />

superfici piane, di conseguenza gli strati all’atto della loro formazione si possono<br />

considerare per lo più in posizione orizzontale; in alcuni casi però la stratificazione è<br />

originariamente inclinata, perché i materiali si adagiano su un pendio inclinato, in modo<br />

particolare nei depositi più vicini alla superficie. Possono anche esistere alcuni disturbi<br />

delle superfici di stratificazione molto accentuate come i cosiddetti “slumping”, dove la<br />

stratificazione è obliterata e i materiali si presentano totalmente pieghettati (Fig. 11), dal<br />

75


punto di vista genetico in questo caso si sono verificate delle frane di materiali plastici,<br />

nel bacino di sedimentazione.<br />

Fig. 10 – Esempi di sequenze litologiche (da: Travisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 11 – Un esempio di “slumping” (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Nei depositi di ambiente fluviale (alluvioni) gli strati hanno generalmente la<br />

pendenza dell’alveo del corso d’acqua, spesso si tratta di pendenze minime (Fig. 12).<br />

In ambiente aereo i casi di stratificazione inclinata dall’origine sono frequenti: le<br />

sabbie di deposizione eolica hanno spesso superfici ondulate (dune), fino ad arrivare al<br />

76


caso in cui gli strati sono variamenti inclinati in tutti i sensi (stratificazione incrociata,<br />

Fig. 13).<br />

Fig. 12 – Aspetto in sezione di depositi ciottolosi e sabbiosi fluviali (da: Trevisan e<br />

Giglia, 1974)<br />

Fig. 13 – Esempio di stratificazione incrociata (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

ROCCE METAMORFICHE<br />

Le rocce dopo la loro formazione sono soggette a trasformazioni di vario tipo e<br />

per cause diverse: le rocce che sono dovute a temperature elevate, accompagnate o no<br />

da pressioni molto forti, si definiscono come rocce metamorfiche. Il metamorfismo<br />

consiste quindi nell’adattamento mineralogico e strutturale delle rocce solide a<br />

condizioni fisico-chimiche diverse da quelle in cui si trovavano originariamente. I<br />

fattori del metamorfismo sono la temperatura e la pressione; in alcuni tipi di<br />

metamorfismo influiscono anche gli apporti fluidi di origine estranea alla massa che si<br />

sta metamorfosando. La diversa combinazione di questi fattori provocano<br />

ricristallizzazioni e neoformazioni di entità diversa e quindi diversi tipi di<br />

metamorfismo.<br />

77


Dal punto di vista dell’estensione areale del fenomeno si possono distinguere due<br />

tipi di metamorfismo: metamorfismo di contatto e metamorfismo regionale. Il<br />

metamorfismo di contatto si produce nelle rocce situate ai margini di un corpo<br />

magmatico. La temperatura che è molto elevata nelle vicinanze del corpo magmatico<br />

decresce rapidamente all’allontanarsi del corpo magmatico, per queste ragioni il<br />

metamorfismo di contatto è limitato alla adiacenze del corpo intrusivo. Il metamorfismo<br />

regionale, invece, può interessare anche centinaia o migliaia di chilometri quadrati ed è<br />

dovuto a forti pressioni e forti temperature: il metamorfismo regionale viene<br />

ulteriormente diviso in metamorfismo di seppellimento e metamorfismo regionale in<br />

senso stretto. Generalmente le temperature del metamorfismo regionale in senso stretto<br />

sono più elevate di quelle dovute al metamorfismo di seppellimento.<br />

Come si può intuire esistono diversi gradi di metamorfismo dovute alle diverse<br />

condizioni nelle quali le rocce si formano. In modo schematico la classificazione delle<br />

rocce metamorfiche può essere effettuata considerando la classificazione delle rocce<br />

originarie, in modo sintetico può essere adottata questa classificazione:<br />

− Rocce pelitiche – argilliti danno origine a scisti, micascisti, gneiss;<br />

− Rocce basiche, arenarie danno origine a scisti verdi, anfiboliti, quarziti, granuliti;<br />

− Rocce carbonatiche e dolomitiche danno origine a marmi.<br />

FACIES, GIACITURE E STRATIGRAFIA<br />

Dopo aver effettuato il riconoscimento delle rocce si passa all’interpretazione dei<br />

vari tipi litologici che tende a ricostruire l’ambiente in cui si sono formati. Con il<br />

termine di ambiente si intende l’insieme delle condizioni locali dominanti nel tempo e<br />

nel luogo dove le rocce si formavano, per indicare questo concetto si usa il termine di<br />

facies. Risulta chiaro come tale concetto di facies assume particolare importanza quando<br />

si parla di rocce sedimentarie: si parla di litofacies quando si prendono in<br />

considerazione gli aspetti petrografici e strutturali, si parla di biofacies quando si<br />

considerano i resti degli organismi e le loro associazioni.<br />

L’unità litostratigrafia fondamentale è rappresentata dalla formazione, che può<br />

essere suddivisa in unità litostratigrafiche minori, e che rappresenta una unità di<br />

paesaggio del passato. Si possono avere variazioni di facies nel tempo, per esempio la<br />

Fig. 14 riporta schemi di cambiamento di facies nel tempo: ad un deposito avente una<br />

certa facies sta sovrapposto un deposito di facies diversa, le due colonne di sinistra<br />

mostrano cambiamenti di facies improvvisi, le due colonne di destra mostrano<br />

cambiamenti graduali. Nella Fig. 15 e 16 sono schematizzati cambiamenti di facies<br />

avvenuti nello spazio con passaggio più o meno graduale, in questo caso i depositi sono<br />

coevi e si parla di facies eteropiche.<br />

Diversi possono essere gli ambienti di deposizione: ambienti continentali, lacustri,<br />

glaciali, marini e misti.<br />

Negli ambienti continentali l’erosione domina per vaste aree, tuttavia in alcuni<br />

ambienti si possono avere depositi sedimentari anche di grande spessore; tra questi si<br />

ricordano gli ambienti fluviali dove i depositi sono generalmente discontinui per il<br />

carattere del trasporto e del deposito fluviale che segue l’andamento delle piogge. Altro<br />

ambiente continentale di deposizione è l’ambiente desertico, dove si formano gli<br />

accumuli di sabbia eolica, anche questi depositi sono generalmente discontinui e con<br />

stratificazione incrociata. Altri depositi sono quelli salini che si formano in depressioni<br />

soggette ad inondazioni ed evaporazione.<br />

78


Negli ambienti lacustri, alimentati da corsi d’acqua possono formarsi depositi<br />

grossolani vicino alla riva che passano lateralmente a depositi sabbiosi e argillosi,<br />

spesso finemente stratificati.<br />

Negli ambienti glaciali i tipici depositi sono le morene, alle quali possono<br />

associarsi anche depositi fluviali e lacustri.<br />

Negli ambienti marini si possono distinguere diversi ambienti: la zona neritica che<br />

si estende dal limite della marea più bassa fino alla rottura di pendio che limita verso il<br />

mare aperto la piattaforma continentale (Fig. 17), è soggetta ad avere acque agitate,<br />

correnti e variazioni di temperatura che sono capaci di muovere e smistare i sedimenti.<br />

In questo ambiente la distribuzione granulometrica dei sedimenti non è univoca,<br />

dipende da molti fattori, che variano da regione a regione nei diversi continenti e non è<br />

sempre vero quello che intuitivamente ci si potrebbe attendere cioè quello di avere<br />

sedimenti più grossolani vicino alla riva e sedimenti più fini allontanandosi dalla riva. I<br />

depositi formatisi in questo ambiente presenteranno lacune stratigrafiche, cioè<br />

mancanza di sedimentazione, a causa degli episodi di erosione. La zona pelagica è<br />

importante come sorgente di fanghi organogeni, che si depositano nella zona batiale e<br />

abissale. I fanghi di origine organica sono dovuti all’accumulo sul fondo dei resti di<br />

organismi che vivono nella zona pelagica e sono costituiti da un guscio calcareo o<br />

siliceo. Nella zona batiale e abissale si possono trovare anche i depositi da onde di<br />

torbida, provenienti da frane della scarpata della piattaforma continentale.<br />

Gli ambienti misti sono le zone di litorale dominate dai movimenti dei materiali<br />

dovuti al moto ondoso, gli estuari e le lagune dove le maree determinano movimenti<br />

delle acque che si invertono, gli ambienti di delta e quello delle scogliere coralline che<br />

comprende le lagune interne agli atolli.<br />

Fig. 14 – Schemi di cambiamenti verticali di Facies (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

79


Fig. 15 – Schemi di cambiamenti laterali di Facies con passaggio graduale (da: Trevisan<br />

e Giglia, 1974)<br />

Fig. 16 - Schemi di cambiamenti laterali di Facies con passaggio non graduale (da:<br />

Trevisan e Giglia, 1974)<br />

80


Fig. 17 – Zone di sedimentazione dell’ambiente marino (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

LA TETTONICA<br />

Analizzando le stratificazioni di un ammasso roccioso è possibile notare che a<br />

volte gli strati hanno un andamento orizzontale e monotono, in altre appaiono alquanto<br />

movimentati, inclinati, quindi dislocati dallo loro giacitura orizzontale. Con questo<br />

elemento è possibile fare una grossa distinzione e classificazione delle strutture della<br />

crosta terrestre: strutture tabulari, caratterizzate dalla orizzontalità o quasi degli strati, e<br />

strutture corrugate, caratterizzate da indizi di dislocazioni e movimenti intensi, questi<br />

tipi di strutture possono variamente presentarsi sia in senso orizzontale che in senso<br />

verticale come mostrato nella Fig. 18. Nelle strutture corrugate gli strati sono stati<br />

dislocati dalla loro originaria giacitura e si presentano con piegamenti o con<br />

associazioni di piegamenti e fratture.<br />

E’ da sottolineare che quando si parla di struttura ci si riferisce alla posizione<br />

degli strati e non alla forma del terreno: infatti una struttura tabulare può presentare una<br />

superficie topografica irregolare e viceversa (Fig. 19).<br />

Generalmente uno strato viene identificato con i valori di inclinazione cioè<br />

l’angolo che la superficie dello strato forma con il piano orizzontale, il valore<br />

dell’immersione cioè l’angolo compreso tra la direzione del Nord e la linea di massima<br />

pendenza dello strato e con la direzione cioè l’orientazione rispetto ai punti cardinali<br />

della retta perpendicolare all’immersione (Fig. 20). Il valore dell’angolo di inclinazione<br />

può essere misurato con un clinometro, mentre il valore dell’angolo di immersione può<br />

essere misurato con una bussola.<br />

81


Fig. 18 – Strutture tabulari e corrugate (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 19 – Rapporto tra strutture e morfologia (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 20 – Caratteristiche geometriche di uno strato (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

82


LE FAGLIE<br />

Con il termine di faglia si intende una frattura in una massa rocciosa ai lati della<br />

quale siano avvenuti scorrimenti che hanno spostato l’uno rispetto all’altro i blocchi<br />

situati da parti opposte alla frattura. In una sezione naturale, come una parete rocciosa,<br />

questa dislocazione può presentarsi come quelle della Fig. 21 e l’entità dello<br />

spostamento può essere minimo o grandissimo (fino a qualche migliaio di metri).<br />

Il movimento tra i blocchi può essere verticale, orizzontale sia verticale che<br />

orizzontale. Il dislivello verticale tra i blocchi prende il nome di rigetto ed è facilmente<br />

calcolabile, mentre la componente orizzontale del movimento non è sempre misurabile<br />

(Fig. 22). Il rigetto di una faglia avrà un valore massimo che degraderà fino ad<br />

annullarsi nel punto in cui la faglia termina, oppure potrà avere un valore costante per<br />

tutta la lunghezza della faglia se questa finisce bruscamente in un’altra faglia (Fig. 23).<br />

Altri elementi geometrici di una faglia sono il muro (la faccia rivolta verso l’alto) ed il<br />

tetto (la faccia rivolta verso il basso) (Fig. 24).<br />

La classificazione delle faglie rispetta un criterio genetico: osservando la Fig 24 si<br />

può vedere che in C e D il tetto si è abbassato rispetto al muro, mentre in A e B il tetto<br />

si è sollevato rispetto al muro. Le dislocazioni in C e D si dicono faglie dirette o<br />

normali, quelle in A e B si chiamano faglie inverse. Tra questi due tipi di faglie esistono<br />

delle differenze sostanziali, infatti nel primo caso si è in presenza di un fenomeno di<br />

distensione (i blocchi risultano allungati rispetto alla posizione originaria), nel secondo<br />

caso si è in presenza di compressioni (i blocchi presentano un raccorciamnento rispetto<br />

alla posizione originaria) (Fig. 25). Esiste anche un terzo tipo di faglie dove il<br />

movimento è orizzontale: tali faglie prendono il nome di faglie trascorrenti (Fig. 26),<br />

queste, a seconda del movimento relativo tra i due blocchi, si possono suddividere in<br />

destre o sinistre: ponendosi su un blocco, con lo sguardo rivolto verso il piano di faglia<br />

e guardando il movimento relativo del blocco opposto se questo va verso destra la faglia<br />

sarà destra e viceversa.<br />

Nelle rocce stratificate le faglie possono suddividersi in conformi e contrarie: si<br />

chiamano conformi quando l’immersione degli strati è nello stesso senso del piano di<br />

faglia, contrarie nel caso opposto.<br />

Se si tiene conto dell’angolo formato dal piano di faglia con l’orizzontale le faglie<br />

possono classificarsi in: verticali, inclinate, suborizzontali. In genere si verifica che i<br />

piani di faglia più inclinati si hanno nelle faglie dirette che nelle faglie inverse dove i<br />

piani di faglia posso avvicinarsi all’orizzontale.<br />

Se non esistono differenze di età tra le rocce situate al tetto e al muro, può<br />

diventare difficile riconoscere se una faglia è diretta o inversa, a volte si utilizzano le<br />

piegature che gli strati hanno subito a causa del movimento di scorrimento, come<br />

mostrato nella Fig. 27.<br />

Associazioni di faglie distensive<br />

Le faglie generalmente non sono mai isolate ma associate a sistemi. Le grandi<br />

associazioni di faglie distensive costituiscono alcuni tratti strutturali significativi. Visti<br />

in sezione i aggruppamenti di faglie distensive si presentano come gradinate di faglie<br />

(Fig. 28), che delimitano alternativamente zolle rialzate (pilastro tettonico - Horst) o<br />

ribassate (fossa tettonica - Graben). La profondità di tali faglie dipenderà dai materiali<br />

che la faglia stessa incontrerà in profondità: si estingueranno quando si troveranno ad<br />

83


incontrare una zona plastica capace di ammortizzare lo scorrimento, oppure come per<br />

esempio in alcune fosse tettoniche un gruppo di faglie si smorzeranno contro quelle del<br />

gruppo principale, come mostrato in Fig. 29. In questi graben le faglie con immersione<br />

conforme a quelle principali si dicono sintetiche, faglie antitetiche quelle con<br />

immersione opposta.<br />

Uno dei più grandiosi sistemi di fosse tettoniche è quello dell’Africa orientale che<br />

si estende per oltre 3000 Km dall’Africa del sud al Mar Rosso (rift valley). In Europa<br />

esempi si hanno nell’Alta Valle del Reno, in Italia alcuni esempi si trovano a Cagliari,<br />

nell’Alta e Media Valle del Serchio, nel Medio corso del Tevere.<br />

Fig. 21 – Modi di presentarsi delle faglie (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 22 – Schema di una faglia (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

84


Fig. 23 – Terminazioni di faglie (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 24 – Stereogrammi di faglie: A, B faglie inverse; C D faglie dirette (da: Trevisan e<br />

Giglia, 1974)<br />

85


Fig. 25 – Stereogrammi che mostrano la differenza tra faglie dirette (A) e faglie inverse<br />

(C) rispetto alla posizione originale (B) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 26 – Faglie trascorrenti: D destra; S sinistra (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

86


Fig. 27 – Esempi di faglie con diversa inclinazione del piano di scorrimento (da:<br />

Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig 28 – Schema di pilastro tettonico a sinistra (Horst) e di fossa tettonica a destra<br />

(Graben) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

87


Fig. 29 – Meccanismo di formazione delle faglie antitetiche (da: Trevisan e Giglia,<br />

1974)<br />

LE PIEGHE<br />

Le pieghe sono il tipo di deformazioni più comuni nelle rocce stratificate<br />

sottoposte a compressioni. Una prima classificazione delle pieghe le divide in anticlinali<br />

e sinclinali: le anticlinali sono delle pieghe semplici nelle quali il nucleo, cioè la parte<br />

concava, è costituito da terreni più antichi, le sinclinali sono quelle nelle quali il nucleo<br />

è costituito da terreni più recenti (Fig. 30).<br />

In una piega si chiama cerniera la zona dove la curvatura degli strati appare<br />

massima, fianchi sono i due versanti degli strati che convergono nella cerniera, i punti<br />

che uniscono la massima curvatura si dice linea di cerniera, la superficie che contiene<br />

tutti i punti da massima curvatura si dice superficie assiale se essa è piana si parlerà di<br />

piano assiale (Fig. 31).<br />

Sulla base di questi caratteri geometrici si possono raggruppare le pieghe in<br />

diversi tipi: flessura o monoclinale è rappresentata da un’improvvisa piegatura, gli strati<br />

hanno una lieve pendenza (Fig. 32 A), ma possono essere anche raddrizzati fino alla<br />

verticale, in questi casi si parlerà di pieghe a ginocchio (Fig. 32 B). In dipendenza del<br />

piano assiale le pieghe si possono dividere in simmetriche e asimmetriche, si definisce<br />

una piega simmetrica quella in cui il piano assiale è verticale (Fig. 33 A), mentre le<br />

pieghe il cui piano assiale non è verticale si dicono asimmetriche (Fig. 33 B). Se il<br />

fianco più ripido oltrepassa la verticale si ha una piega rovesciata (Fig. 33 C), se il piano<br />

assiale è suborizzontale la piega si dice coricata (Fig. 33 D).<br />

Se si considerano un pacco di strati sottoposti a compressione si possono avere<br />

due meccanismi di formazione delle pieghe: nel caso in cui ogni strato scorrerà<br />

sull’altro senza grosse variazioni di spessore si parlerà di pieghe concentriche (Fig. 34<br />

B), nel caso in cui i vari strati rimarranno uniti con variazioni di spessore e forma si<br />

parlerà di piega simile (Fig. 34 C), in questo caso gli strati subiranno una laminazione<br />

nei fianchi, fino ad arrivare ad una rottura del materiale in senso verticale che viene<br />

chiamato clivaggio (Fig. 34 D).<br />

LE PIEGHE-FAGLIE E SOVRASCORRIMENTI<br />

Tra una piega rovesciata ed una faglia inversa esiste tutta una serie di gradazioni<br />

che vanno dallo stiramento, alla laminazione sino alla rottura del fianco inverso di una<br />

piega, con trascinamento delle rocce situate sui due lati della faglia; queste<br />

deformazioni nelle quali sono associati i caratteri delle pieghe e delle faglie vengono<br />

indicati con il nome di pieghe-faglie (Fig. 35). La formazione di una piega-faglia può<br />

88


avvenire in due modi diversi: inizialmente si può formare una piega che può evolvere<br />

con una rottura in una faglia; altra spiegazione può essere: la faglia è la deformazione<br />

iniziale, durante il trascinamento dei due blocchi della faglia, gli strati vengono piegati.<br />

In questa ultima ipotesi quando siamo in presenza di faglie dirette con piano su<br />

orizzontale si parlerà di sovrascorrimento (Fig. 36).<br />

Fig. 30 – Schemi di anticlinali (a e a’) e sinclinali (b e b’) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 31 – Caratteristiche geometriche di una piega (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

89


Fig. 32 – Schema di monoclinale (A) e di piega a ginocchio (B) (da: Trevisan e Giglia,<br />

1974)<br />

Fig. 33 – Classificazioni delle pieghe (da: Trevisan e Giglia, 1974):<br />

A - piega simmetrica<br />

B - piega asimmetrica<br />

C - piega rovesciata<br />

D – piega coricata<br />

90


Fig. 34 – Schema di piega concentrica (B), piega simile (C) e meccanismo di<br />

formazione del clivaggio (D) (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 35 – Schemi di piega-faglia: a sinistra piega-faglia diretta; a destra piega-faglia<br />

inversa (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

91


Fig. 36 – Due possibili modalità di formazione di sovrascorrimenti (da: Trevisan e<br />

Giglia, 1974)<br />

LA TETTONICA A PLACCHE<br />

Secondo la teoria della tettonica a placche la superficie terrestre può essere<br />

suddivisa in un certo numero di placche in continuo movimento relativo. I limiti di tale<br />

placche che possono comprendere aree continentali ed oceaniche sono rappresentate da<br />

un lato dalle dorsali oceaniche dove si forma nuova crosta, attraverso continue iniezioni<br />

basaltiche (Fig. 37) e dall’altro dalle fosse oceaniche, dove i lembi di una placca si<br />

immergono al di sotto di un’altra e dove in definitiva si ha consunzione di crosta (Fig.<br />

38). Lungo questi allineamenti si hanno gli esempi dei più forti terremoti e vulcani. Il<br />

motore principale di questi movimenti, secondo la teoria, è dovuto alla presenza di<br />

cellule convettive poste nella parte superiore del mantello (astenofera) che produrrebbe<br />

tali spostamenti della crosta e di parte del mantello (litosfera).<br />

Queste placche non si muoverebbero solo allontanandosi o avvicinandosi, ma si<br />

sposterebbero anche le une rispetto alle altre a causa di faglie dette trasformi (esempio<br />

tipico nella dorsale medio-atlantica, Fig. 39).<br />

Questa teoria spiegherebbe l’attuale posizione dei continenti: una possibile<br />

evoluzione e riportata in Fig. 40. Inoltre si spiegherebbero anche le orogenesi<br />

(formazione delle catene montuose) avvenute.<br />

In particolare placche convergenti producono la formazione di catene montuose,<br />

se siamo in presenza di una placca con crosta oceanica e una con crosta continentale<br />

(montagne rocciose in America, catena alpina-Himalayana), producono fosse oceaniche<br />

e consunzione della crosta se siamo in presenza di due placche con crosta oceanica (arco<br />

giapponese); placche divergenti producono dorsali oceaniche e formazione di nuova<br />

crosta (dorsale medio-atlantica).<br />

92


Fig. 37 – Schema di dorsale oceanica con formazione di nuova crosta e cellule<br />

convettive (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 38 – Schema di fossa tettonica con consunzione di crosta (da: Trevisan e Giglia,<br />

1974)<br />

93


Fig. 39 – Schema di faglia trasforme (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

Fig. 40 – Diversi momenti dell’evoluzione della crosta: sono mostrati le dorsali<br />

oceaniche, le faglie trasformi, le fosse oceaniche; le frecce indicano i movimenti delle<br />

placche (da: Trevisan e Giglia, 1974)<br />

94


ELEMENTI DI GEOMORFOLOGIA<br />

La geomorfologia studia le forme della superficie terrestre e le cause fondamentali<br />

che le hanno create, nelle quali possiamo citare: il clima, la litologia, le neotettonica,<br />

l’uomo, ecc.<br />

In generale si possono individuare diverse fasi temporali che costituiscono il<br />

processo geomorfologico: la fase di erosione, di trasporto e di accumulo. Tali fasi sono<br />

caratterizzate da diversi agenti, che schematicamente possono essere individuati in:<br />

− agenti di erosione: acqua, temperatura, vento, ghiacciai, gravità, uomo, organismi,<br />

radici, ecc.;<br />

− agenti di trasporto: gravità, vento, acqua, ghiacciai, ecc.<br />

In considerazione dei diversi agenti che influiscono sui processi geomorfologici,<br />

nel seguito si illustreranno le forme, i processi ed i relativi depositi formati dai vari<br />

agenti ed in particolare verranno trattati:<br />

− forme, processi e depositi gravitativi;<br />

− forme, processi e depositi delle acque;<br />

− forme, processi e depositi carsici;<br />

− forme, processi e depositi glaciali;<br />

− forme, processi e depositi crionivali;<br />

− forme, processi e depositi eolici;<br />

− forme, processi e depositi di origine marina, lagunare e lacustre;<br />

− forme antropiche.<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI GRAVITATIVI<br />

In questo ambito vengono studiati i movimenti franosi: per analizzare un evento<br />

franoso è necessario tener conto di alcuni fattori, che sono la causa dell’evento stesso. I<br />

fattori sono sostanzialmente di tre tipi, che possono essere riscontrati in ogni forma<br />

della superficie terrestre.<br />

Primo fattore sono gli agenti del modellamento, che sono gli elementi propri delle<br />

forze esogene. Sono agenti del modellamento la forza di gravità, l’acqua, il ghiaccio, il<br />

vento, l’azione dell’uomo; ogni morfologia della superficie terrestre risulta più o meno<br />

modificata da essi.<br />

Le condizioni climatiche, tra cui l’umidità dell’aria, la pressione atmosferica, le<br />

radiazioni solari, le precipitazioni, la temperatura che sono in diversa misura<br />

responsabili del modellamento della superficie terrestre. Il clima inoltre ha anche<br />

un’influenza indiretta attraverso la vegetazione.<br />

Ultimi sono i fattori strutturali che comprendono la tettonica (ivi compresi gli<br />

eventi sismici) e la litologia. La Fig. 41 rappresenta sinteticamente tutti i fattori che,<br />

direttamente o indirettamente, possono essere causa di eventi franosi.<br />

95


Fig. 41 - Fattori che possono causare eventi franosi<br />

La Fig. 42 illustra schematicamente un esempio di fenomeno franoso, la sua<br />

suddivisione ed i suoi riferimenti fondamentali:<br />

Fig. 42 - Esempio schematico di un fenomeno franoso<br />

1) punto sommitale del coronamento:<br />

punto più alto del contatto fra coronamento e<br />

scarpata principale<br />

2) coronamento:<br />

materiale rimasto in posto e quasi indisturbato, adiacente alle parti più<br />

alte della scarpata principale<br />

3) scarpata principale:<br />

superficie, generalmente ripida, che delimita l’area quasi<br />

indisturbata circostante la parte sommitale della frana, generata dal movimento del<br />

materiale spostato. Rappresenta la parte visibile della superficie di distacco<br />

4) zona di distacco:<br />

parte della frana dove il materiale spostato giace al di sotto della<br />

superficie originaria del versante<br />

5) fianco:<br />

materiale non spostato adiacente ai margini del corpo di frana<br />

6) zona di accumulo:<br />

zona dove si accumula il materiale franato<br />

96


7) testata:<br />

parti più elevate del corpo di frana, lungo il limite fra questo e la scarpata<br />

principale<br />

8) punto sommitale della testata:<br />

punto più alto del contatto fra scarpata principale e<br />

testata<br />

9) scarpata secondaria:<br />

ripida superficie presente nel materiale spostato della frana,<br />

prodotta da movimenti differenziali all’interno del materiale spostato stesso<br />

10) unghia:<br />

margine inferiore, generalmente curvo, del materiale spostato della frana,<br />

situato alla maggior distanza dalla scarpata principale<br />

11) piede:<br />

porzione della frana che si trova a valle della superficie di distacco<br />

12) superficie di distacco:<br />

superficie che forma il limite inferiore del materiale spostato<br />

sotto la superficie originaria del versante<br />

13) materiale sposato:<br />

materiale spostato dalla sua posizione originaria sul versante a<br />

causa del movimento della frana<br />

14) superficie originaria del versante:<br />

superficie del versante che esisteva prima che<br />

avvenisse il movimento franoso<br />

15) corpo di frana:<br />

parte del materiale spostato che ricopre la superficie di distacco<br />

A seconda delle caratteristiche del terreno e dei fattori che contribuiscono a darne<br />

origine, le frane possono essere suddivise in cinque gruppi:<br />

- CROLLI (Fig. 43)<br />

Si definisce crollo una frana nella quale la massa coinvolta compie il suo<br />

movimento prevalentemente in aria. Tale fenomeno consiste nella caduta libera,<br />

nel movimento a salti e rimbalzi e nel rotolamento di frammenti di roccia o di<br />

terreno.<br />

Fig. 43 - Crollo<br />

- RIBALTAMENTI (Fig. 44)<br />

Il movimento è dovuto a forze che causano un moto ribaltante attorno ad un<br />

punto di rotazione situato al di sotto del baricentro della massa interessata.<br />

Qualora il fenomeno non venga frenato, può evolvere in un crollo o in uno<br />

scorrimento.<br />

97


Fig. 44 – Ribaltamento<br />

- SCIVOLAMENTI O SCORRIMENTI (Fig. 45)<br />

Il movimento comporta uno spostamento per taglio lungo una o più superfici.<br />

Le frane di scorrimento si suddividono in<br />

a) rotazionali:<br />

movimento rotatorio attorno ad un punto posto al di sopra del<br />

centro di gravità della massa. La superficie di rottura si presenta concava<br />

verso l’alto;<br />

b) traslativi:<br />

il movimento si verifica in prevalenza lungo una superficie più o<br />

meno piatta o debolmente ondulata, corrispondente frequentemente a<br />

discontinuità strutturali, passaggi tra strati di diversa composizione<br />

litologica, contatto tra roccia in posto e terreni sovrastanti.<br />

Fig. 45 - Scivolamento rotazionale (a), scivolamento traslativo (b)<br />

- COLATE (Fig. 46)<br />

Il fenomeno si produce con movimenti entro la massa spostata. Le superfici di<br />

scorrimento nella massa che si muove non sono generalmente visibili, oppure<br />

hanno breve durata. Il movimento varia da estremamente rapido a estremamente<br />

lento.<br />

98


Fig. 46 - Colata<br />

- ESPANSIONI LATERALI (Fig. 47)<br />

I movimenti di espansione laterale, diffusi in una roccia fratturata, possono<br />

verificarsi secondo due modalità:<br />

a) non si riconosce né una superficie basale di scorrimento, né una zona di<br />

deformazioni plastiche ben definite;<br />

b) l’espansione laterale della roccia è dovuta alla liquefazione o alle<br />

deformazioni plastiche del terreno incoerente sottostante.<br />

Fig. 47 - Espansione laterale<br />

I cinque casi di fenomeni franosi citati sono esempi di frane dette non complesse.<br />

Vi sono inoltre altri fenomeni (detti complessi) il cui movimento risulta dalla<br />

combinazione di due o più frane non complesse. In questi casi, però, generalmente un<br />

tipo di movimento tende sempre a predominare, spazialmente e/o temporalmente, sugli<br />

altri.<br />

I movimenti franosi possono essere classificati anche in base allo loro attività: in<br />

particolare si possono avere frane attive, quiescenti ed inattive.<br />

Vengono definite frane attive quelle nelle quali i processi che le hanno generate<br />

risultano in atto al momento del rilevamento o ricorrono con un ciclo il cui periodo<br />

massimo non supera quello stagionale, si definiscono frane quiescenti quelle forme non<br />

attive al momento del rilevamento e prive di periodicità stagionale, per le quali però<br />

esistono dati che ne dimostrino l’attività passata nell’ambito dell’attuale sistema<br />

morfodinamico e che abbiano oggettive possibilità di riattivazione, infine si definiscono<br />

99


inattive le frane che hanno esaurito il corso della loro evoluzione e non hanno la<br />

possibilità di potersi riattivare nel presente contesto morfoclimatico.<br />

Nella Tav. 1 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme di versante<br />

dovute alla gravità, nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico<br />

Nazionale, 1994.<br />

100


Tav. 1 - Forme di versante dovute alla gravità<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI DELLE ACQUE<br />

In questo ambito vengono studiate le azioni prodotte dalle acque, principalmente<br />

dalle acque superficiali e quindi sia dai fiumi sia dalle acque che scorrono non<br />

incanalate lungo i versanti.<br />

Le acque producono sia un’azione di erosione, sia una azione di trasporto e quindi<br />

un’azione di deposito: l’erosione può essere di tipo chimico, in quanto l’acqua può<br />

dissolvere alcuni minerali; di tipo corrosivo, a causa del materiale trasportato; di<br />

cavitazione, a causa delle pressioni dell’acqua sulle pareti attraversate ed infine di<br />

ruscellamento, dovuto alle acque che scorrono liberamente sui versanti.<br />

Importanti sono le azioni di trasporto, che possono produrre sia un modellamento<br />

dei materiali trasportati (arrotondamento dei granuli), sia una selezione granulometrica<br />

dei materiali stessi in dipendenza della velocità delle acque.<br />

Le azioni di deposito sono quelle che formano i depositi stessi, che vengono<br />

catalogati in base allo loro granulometria (argilla, sabbia, ghiaia, ciottoli e blocchi) o in<br />

base alla loro forma (conoide alluvionale, ventaglio di esondazione).<br />

Nella Tav. 2 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme fluviali, fluvioglaciali<br />

e di versante dovute al dilavamento, nelle carte geomorfologiche, tratta da<br />

Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

101


102


103


Tav. 2 - Forme fluviali, fluvio-glaciali e di versante dovute al dilavamento<br />

104


FORME, PROCESSI E DEPOSITI CARSICI<br />

Il fenomeno carsico si manifesta in presenza di rocce calcaree ed è dovuto<br />

all’azione erosiva che le acque possono avere su tali materiali.<br />

L’equilibrio chimico che regola tale meccanismo, come già detto nel caso di rocce<br />

carbonatiche è legato da:<br />

CaCO3 + CO2 + H2O = Ca(HCO3)2<br />

quindi un arricchimento di anidride carbonica nelle acque favorisce la formazione di<br />

bicarbonato di calcio solubile e di conseguenza lo scioglimento del carbonato di calcio.<br />

Come si è visto è possibile anche il fenomeno opposto: qualunque causa sottragga CO2<br />

all’acqua favorisce la deposizione del carbonato. Le cause possono essere la<br />

diminuzione parziale della pressione atmosferica, agitazione delle acque, aumento della<br />

temperatura, diminuzione della pressione idrostatica.<br />

Si formano così i travertini e gli alabastri, in ambiente continentale, allo sbocco di<br />

sorgenti di acque calcaree in conseguenza della perdita di pressione che favorisce la<br />

dispersione dell’anidride carbonica e la precipitazione di carbonato, nel primo caso; o,<br />

con analogo meccanismo, in grotte e fessure carsiche, nel secondo caso.<br />

L’erosione chimica produce forme sia superficiali che profonde: tra le prime si<br />

ricordano le doline che sono delle cavità superficiali, generalmente rotondeggianti; i<br />

polje che sono un’insieme di doline e i canyon, che hanno l’aspetto di profonde<br />

depressioni. Tra le forme profonde si ricordano le grotte e i pozzi.<br />

Nella Tav. 3 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme carsiche, nelle<br />

carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

105


106


Tav. 3 – Forme carsiche<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI GLACIALI<br />

I ghiacciai possono essere classificati, a seconda delle loro dimensioni, a partire<br />

da dimensioni maggiori a quelle inferiori, in inlandis o ghiacciai a calotta, calotte minori<br />

(es: Islanda), ghiacciai pedemontani (es: Alaska), e ghiacciai vallivi (es: Italia).<br />

I ghiacciai producono un’attività di erosione, di trasporto e di deposito. In<br />

particolare la loro azione erosiva è concentrata nel fondo del ghiacciaio o nelle pareti<br />

laterali se il ghiacciaio è incanalato, la loro azione di trasporto avviene sia nel fondo, sia<br />

nel corpo, sia in superficie e l’azione di deposito si produce durante il ritiro o lo<br />

scioglimento del ghiacciaio stesso.<br />

I depositi dovuti ai ghiacciai, a differenza di quelli fluviali, non sono classati ed i<br />

granuli non presentano arrotondamenti, in quanto il ghiacciaio trasporta e deposita il<br />

materiale senza produrre cambiamenti.<br />

Questi depositi sono classificati in: morene superficiali, se il materiale è stato<br />

trasportato dal ghiacciaio nella sua parte superiore; morene interne, se il materiale è<br />

stato trasportato dal ghiacciaio nella sua parte interna; massi erratici, quando si ha la<br />

presenza di blocchi isolati.<br />

Nella Tav. 4 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme glaciali, nelle<br />

carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

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Tav. 4 – Forme glaciali<br />

FORME, PROCESSI E DEPOSITI CRIONIVALI<br />

Vanno sotto il termine di forme, processi e depositi crionivali quelli prodotti dal<br />

gelo e dalla presenza della neve. In questo caso si può parlare di fasi di erosione e di<br />

deposito: l’erosione può essere sia di tipo meccanico sia di tipo chimico, ed è<br />

generalmente accentuata dalla mancanza di vegetazione. Fattori particolarmente<br />

importanti, nella fase di erosione, sono i processi di gelifrazione, che si possono avere<br />

nelle fratture delle rocce e che portano a fenomeni di gelo e disgelo delle acque, che<br />

aumentando di volume producono pressioni alle pareti che favoriscono la rottura dei<br />

materiali. Altro fenomeno importante è il ruscellamento delle acque, derivanti dallo<br />

scioglimento delle nevi, che produce un dilavamento dei versanti e relative erosioni.<br />

Questi processi producono sia forme particolari di accumuli, sia depositi, come le<br />

colate di blocchi, le nivomorene e i coni da valanga di detriti.<br />

109


Nella Tav. 5 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme crionivali,<br />

nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

Tav. 5 – Forme crionivali<br />

110


FORME, PROCESSI E DEPOSITI EOLICI<br />

Le forme, i processi e i depositi eolici sono causati dal vento, che opera sia una<br />

erosione, sia un trasporto e sia un deposito. Questi processi assumono particolare<br />

rilevanza in zone desertiche o in aree costiere.<br />

Nella Tav. 6 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme eoliche, nelle<br />

carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

Tav. 6 – Forme eoliche<br />

111


FORME, PROCESSI E DEPOSITI DI ORIGINE MARINA, LAGUNARE E<br />

LACUSTRE<br />

In questo ambito vengono prese in considerazione le forme legate alle linee di<br />

costa, alle spiagge, alle lagune costiere, considerando sia le azione di erosione delle<br />

acque, sia i depositi presenti. Anche in questo caso i depositi sono distinti per<br />

granulometrie: argille, sabbie, ghiaie, ciottoli e blocchi.<br />

Nella Tav. 7 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme di origine<br />

marina, lagunare e lacustre e relativi depositi, nelle carte geomorfologiche, tratta da<br />

Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

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114


Tav. 7 - Forme di origine marina, lagunare e lacustre e relativi depositi<br />

FORME ANTROPICHE<br />

In questo settore si prendono in considerazione le forme di modellamento<br />

morfologico effettuate da attività umane, come ad esempio i muri di sostegno, le cave e<br />

miniere, le discariche, i terrapieni, le opere fluviali, le dighe, i canali, le opere<br />

marittime.<br />

Nella Tav. 8 viene riportata la legenda utilizzata, inerente le forme antropiche,<br />

nelle carte geomorfologiche, tratta da Servizio Geologico Nazionale, 1994.<br />

115


116


117


Tav. 8 – Forme antropiche<br />

118


ELEMENTI DI GEOTECNICA<br />

La geotecnica considera il comportamento delle terre nella sede naturale e delle<br />

terre utilizzate come materiali da costruzione nella realizzazione dei rilevati.<br />

Nelle terre la fase solida (particelle o grani) è discontinua ed i pori possono essere<br />

occupati o da una fase liquida (in genere acqua), in questo caso si parlerà di mezzo<br />

bifase, oppure da una fase liquida e gassosa (in genere aria) e si parlerà di mezzo trifase<br />

(Fig. 48).<br />

Nelle terre i fattori preponderanti sono la granulometria e la consistenza,<br />

parametri che possono essere valutati utilizzando sia le prove in situ, sia le prove in<br />

laboratorio.<br />

Fig. 48 – Sezione schematica e fasi costituenti di un elemento di una terra (da:<br />

Lancellotta, 1987)<br />

CARATTERISTICHE FISICHE<br />

Al fine di effettuare una prima caratterizzazione delle terre si adottano i seguenti<br />

parametri, che dipendono dalle tre fasi presenti (solida, liquida e gassosa):<br />

− il volume totale V che è la somma dei volumi delle singole fasi, con Vs volume delle<br />

particelle, Vw volume dell’acqua, Vg volume dell’aria:<br />

V = Vs + Vw + Vg<br />

− la porosità n che si esprime in percentuale ed è pari al rapporto tra il volume dei<br />

vuoti (Vv = Vg + Vw) ed il volume totale:<br />

n = (Vv / V) 100<br />

− l’indice dei vuoti e che è definito dal rapporto tra il volume dei vuoti ed il volume<br />

della fase solida:<br />

e = Vv / Vs<br />

− la densità relativa D che si esprime in percentuale ed è data dal rapporto tra l’indice<br />

dei vuoti e, l’indice dei vuoti nelle condizioni massime emax e l’indice dei vuoti<br />

nelle condizioni minime emin:<br />

119


D = (emax – e) / (emax – emin) 100<br />

− il grado di saturazione S che si esprime in percentuale ed è pari al rapporto tra il<br />

volume occupato dall’acqua Vw ed il volume dei vuoti Vv:<br />

S = (Vw / Vv) 100<br />

con S = 100% si ha un terreno saturo, con S = 0% si ha un terreno asciutto<br />

− il contenuto di acqua w che si esprime in percentuale ed è definito come il rapporto<br />

tra il peso dell’acqua Ww e quello delle particelle Ws:<br />

w = (Ww / Ws) 100<br />

− peso specifico dell’acqua che si esprime in kN/m 3 :<br />

γw<br />

− peso unità di volume che si esprime in kN/m 3 :<br />

γ = W / V<br />

− peso specifico dei grani che si esprime in kN/m 3 :<br />

γs = Ws / Vs<br />

− peso specifico secco che si esprime in kN/m 3 :<br />

γd = Ws / V<br />

− peso volume saturo che si esprime in kN/m 3 :<br />

γsat = γs (1 – n) + n γw<br />

PROVE IN SITU ED IN LABORATORIO<br />

La caratterizzazione geotecnica di una terra comprende la definizione della<br />

stratigrafia di dettaglio e l’individuazione delle caratteristiche strutturali, la<br />

determinazione delle condizioni della falda, la determinazione delle caratteristiche di<br />

permeabilità, la determinazione delle caratteristiche meccaniche.<br />

A tal fine ci si avvale di prove in situ ed in laboratorio su campioni indisturbati. I<br />

vantaggi delle prove in situ rispetto a quelle di laboratorio risiedono in una maggior<br />

rapidità ed economicità, nell’ottenere un andamento continuo delle caratteristiche<br />

geotecniche con la profondità, nell’investigare un volume maggiore di terreno, nella<br />

maggiore attendibilità dei parametri di deformabilità e di permeabilità. Di contro però è<br />

da sottolineare che alcuni parametri possono essere desunti sola da prove di laboratorio,<br />

si può concludere che le prove in situ ed in laboratorio devono essere viste come due<br />

procedure complementari e solo se praticate in parallelo possono accrescere in modo<br />

sostanziale la conoscenza del comportamento delle terre.<br />

120


PROVE IN SITU<br />

Rientrano nelle prove in situ gli scavi , che possono essere distinti in:<br />

− trincee: scavo a mano o con mezzi meccanici, generalmente si investiga una<br />

profondità di 2-4 m, massimo 8 m;<br />

− gallerie e cunicoli: generalmente con scavo a mano, con armature o murature di<br />

sostegno;<br />

− pozzi: generalmente con scavo a mano, con armature o murature di sostegno.<br />

Gli scavi hanno lo scopo di consentire l’osservazione diretta della struttura del<br />

sottosuolo, di determinare le proprietà geotecniche del sottosuolo anche mediate<br />

l’esecuzione di prove in situ, di fornire informazioni sulle acque del sottosuolo,<br />

di consentire il prelievo di campioni. Gli svantaggi di queste prove sono dovuti<br />

alle difficoltà di esecuzione che crescono molto rapidamente con la profondità,<br />

alla necessità di armature e muri di sostegno, ai tempi di esecuzione lunghi, al<br />

pericolo di cedimenti e di inquinamento di falde, alla difficoltà di ripristino delle<br />

condizioni originarie.<br />

Altre prove in situ sono le perforazioni di sondaggio o sondaggi che possono<br />

essere classificati in:<br />

− perforazione a percussione: l’utensile di perforazione viene infisso nel terreno o per<br />

caduta dello strumento o per mezzo di una massa battente, l’impiego di questo<br />

metodo è in genere limitato alle perforazioni nelle terre a grana grossa, la<br />

profondità massima usuale è di 60 m, date le modalità di perforazione è impossibile<br />

prelevare campioni indisturbati;<br />

− perforazione a rotazione: la perforazione è eseguita mediante un utensile che ruota<br />

sul fondo del foro, può essere adottato su qualsiasi tipo di terreno escluse le terre a<br />

grana grossa, per eseguire il foro è spesso indispensabile la circolazione di un<br />

fluido, le profondità raggiunte possono essere di 150 m, l’utensile di perforazione<br />

più semplice è il carotiere semplice che è costituito da un tubo di acciaio con una<br />

corona tagliente alla estremità e la qualità dei campioni è generalmente discreta,<br />

altro utensile di perforazione è il carotiere doppio, costituito da due tubi concentrici<br />

di cui solo il tubo esterno ruota, il tubo interno raccoglie il campione evitando che<br />

esso venga a contatto con la parete rotante e proteggendolo dall’azione dilavante<br />

del fluido (Fig. 49), per questo motivo la qualità dei campioni raccolti è buona, nel<br />

caso non sia necessario recuperare campioni, si può ricorrere alla perforazione a<br />

distruzione utilizzando scalpelli o triconi;<br />

− perforazione a trivella: l’utensile di perforazione consiste in una vite senza fine che<br />

avanza per rotazione, questo metodo è limitato nelle terre di media resistenza o in<br />

strati cementati, le profondità massime raggiungibili sono dell’ordine di 40 m, i<br />

campioni raccolti sono fortemente disturbati.<br />

I sondaggi hanno lo scopo di ricostruire il profilo stratigrafico, di consentire il<br />

prelievo dei campioni, di consentire le misurazioni delle acque sotterranee, di<br />

determinare le proprietà geotecniche del sottosuolo anche mediate l’esecuzione di<br />

prove in situ.<br />

I vantaggi di tali prove risiedono nella possibilità di attraversare qualunque<br />

terreno, anche a grande profondità, nei tempi di esecuzione relativamente brevi, nella<br />

facilità delle operazioni di occlusione e ripristino del terreno. Gli svantaggi sono nel<br />

pericolo di non riconoscere eventuali strati di terreno di piccolo spessore, nella difficoltà<br />

di campionamento in terreni incoerenti a grana grossa, nella possibile caduta di detriti<br />

121


sul fondo, nella possibile penetrazione nel terreno del fluido di perforazione, nel<br />

possibile dilavamento del terreno a causa dell’acqua immessa nel foro,<br />

nell’impossibilità di eseguire tali prove a grande scala.<br />

Fig. 49 – Schema di funzionamento di un campionatore (da: AGI, 1977)<br />

122


Per ottenere le proprietà fisiche e meccaniche delle terre devono essere prelevati<br />

campioni il più possibile indisturbati. Esiste una classificazione che suddivide i<br />

campioni in classi di qualità: Q1, Q2, Q3 sono campioni disturbati o rimaneggiati; Q4<br />

sono campioni a disturbo limitato; Q5 sono i campioni indisturbati. E’ chiaro che in<br />

base al disturbo dei campioni diverse possono essere le informazioni che si possono<br />

ottenere: una sintesi di tali rapporti è mostrata in Fig. 50.<br />

Fig. 50 – Grado di qualità dei campioni e caratteristiche geotecniche determinabili (da:<br />

AGI, 1977)<br />

Altre prove in situ sono le prove penetrometriche statiche (CTP), queste prove<br />

consistono nella misura della resistenza alla penetrazione di una punta conica, infissa a<br />

velocità costante nel terreno. In base al dispositivo di misura dello sforzo si distinguono<br />

i penetrometri elettrici nei quali lo sforzo è misurato mediante dispositivi elettrici<br />

montati sulla punta e i penetrometri meccanici per i quali lo sforzo per l’infissione della<br />

punta (Fig. 51) è misurato mediante manometri collegati al martinetto che esercita la<br />

spinta. Queste prove di norma non vengono spinte oltre una profondità di 60 m dalla<br />

superficie. Le terre che possono essere investigate da tali prove sono tutte quelle<br />

comprese tra le argille e le sabbie. I risultati sono espressi sottoforma di resistenza<br />

all’avanzamento della punta (Rp), resistenza all’avanzamento laterale (Rl) e resistenza<br />

totale (Rt). Da questi dati si possono ricavare alcuni parametri importanti per la<br />

caratterizzazione geotecnica delle terre ed in particolare:<br />

F = Rp / Rl<br />

valore che dipende dalla composizione granulometrica, schematicamente si possono<br />

utilizzare tali valori per fornire una prima classificazione granulometrica:<br />

Terre F<br />

Torbe ed argille organiche < 15<br />

Limi ed argille 15 - 30<br />

Limi sabbiosi e sabbie limose 30 - 60<br />

Sabbie e sabbie con ghiaie > 60<br />

123


E’ possibile anche avere informazioni della resistenza al taglio (cu) in condizioni non<br />

drenate delle terre coesive (limi ed argille) applicando la formula:<br />

cu = Rp / Ncp<br />

dove Ncp è un coefficiente adimensionale compreso tra 15 e 25.<br />

Fig. 51 – Punta di un penetrometro (da: AGI, 1977)<br />

124


Altre prove in situ sono le prove penetrometriche dinamiche (SPT) che consistono<br />

nell’infissione a percussione di un campionatore che, penetrando nel terreno, consente<br />

di valutarne la resistenza meccanica alla penetrazione espressa come N numero dei colpi<br />

di un apposito maglio per un dato avanzamento e di prelevare piccoli campioni. Tale<br />

prova risulta significativa nelle terre prevalentemente sabbiose, meno significativa nelle<br />

terre limo-argillose ed ha uno scarso significato in terreni ghiaiosi.<br />

Le prove penetrometriche dinamiche continue con punta conica, invece, possono<br />

essere applicate a tutti in tipi di terreno sia coesivo, sia granulare (dalle argille alle<br />

ghiaie). La prova consiste nella misura della resistenza alla penetrazione di una punta<br />

conica, infissa per battitura nel terreno, per mezzo di un idoneo dispositivo di<br />

percussione. Queste prove vengono chiamate continue in quanto le misure vengono<br />

effettuate durante tutta l’infissione. La prova consiste nell’infiggere la punta conica nel<br />

terreno per tratti consecutivi di 30 cm misurando il numero di colpi necessari (Np), dopo<br />

30 cm di penetrazione della punta deve essere infisso il rivestimento rilevando ancora il<br />

numero di colpi (Nr).<br />

Anche le prove scissiometriche sono considerate prove in situ. In questo caso la<br />

finalità è quella di ottenere valori di resistenza al taglio non drenata dei terreni coesivi<br />

saturi, questa prova viene eseguita nei terreni coesivi da teneri a mediamente compatti,<br />

la profondità che può essere raggiunta non supera in genere i 30 m dal piano campagna.<br />

La prova consiste nell’infiggere nel terreno una paletta-scissiometro costituita da 4<br />

rettangoli di lamiera (Fig. 52), applicare una torsione fino alla rottura del terreno e<br />

misurare gli sforzi necessari. Con queste informazioni è possibile valutare la resistenza<br />

al taglio o coesione non drenata (cu) mediante:<br />

cu = 6T / 7πd 3<br />

dove T è il momento torcente e d sono le dimensioni del cilindro creato dalla paletta.<br />

Nel caso in cui si voglia misurare la distribuzione dei valori della pressione<br />

dell’acqua contenuta nei vuoti di una terra si devono utilizzare apparecchiature quali i<br />

piezometri (Fig. 53). Questi sono costituiti da tubi di metallo o di materiale plastico<br />

posti in fori nel terreno. Per la misura del livello dell’acqua nel tubo piezometrico si<br />

usano scandagli elettrici. Queste apparecchiature sono valide nel campo di terre<br />

permeabili o molto permeabili.<br />

Nel caso in cui si voglia misurare il coefficiente di permeabilità di un terreno si<br />

devono effettuare prove di emungimento, dove, utilizzando un sondaggio, si emunge,<br />

con pompe o altri sistemi, una portata di acqua costante. Durante il pompaggio si<br />

misurano il livello dell’acqua nel foro ed i livelli della falda nella zona adiacente il foro<br />

stesso. La prova deve essere eseguita in condizioni di regime, per cui la durata delle<br />

prove è sempre di alcuni giorni. Il valore del coefficiente di permeabilità può essere<br />

ottenuto anche utilizzando prove di immissione, dove, sempre in un sondaggio, si può<br />

riempire il foro di acqua per un’altezza nota e si misura la velocità di abbassamento del<br />

livello dell’acqua.<br />

125


Fig. 52 – Esempio di scissiometro (da: AGI, 1977)<br />

126


Fig. 53 – Esempio di piezometro (da: AGI, 1977)<br />

PROVE DI LABORATORIO<br />

Le prove basilari che vengono eseguite su un campione di terreno consistono nelle<br />

prove di classificazione che sono riassunte nelle analisi granulometriche e nelle analisi<br />

finalizzate alla individuazione dei limiti di Atterberg.<br />

L’analisi granulometrica serve a determinare le dimensioni delle particelle che<br />

compongono un campione di terra e a stabilire le percentuali in peso delle varie frazioni<br />

che rientrano entro i limiti prefissati. L’importanza di conoscere le dimensioni delle<br />

particelle deriva dal fatto che nel caso di terreni a grana grossa il comportamento del<br />

materiale può essere correlato a tale informazione, ad esempio le caratteristiche di<br />

permeabilità, i fenomeni di capillarità, l’angolo di resistenza al taglio sono correlati alla<br />

granulometria del terreno.<br />

Per ottenere le varie frazioni granulometriche si usano dei setacci con<br />

caratteristiche standardizzate e l’analisi granulometrica mediante setacci fornisce la<br />

curva granulometrica, dove in un diagramma semilogaritmico, si riportano in ascisse il<br />

diametro delle particelle ed in ordinate la percentuale in peso delle particelle con<br />

diametro inferiore (Fig. 54).<br />

127


Fig. 54 – Esempio di curva granulometrica (da: Lancellotta, 1987)<br />

La pendenza della curva ottenuta fornisce un’idea dell’uniformità del terreno,<br />

quanto più la curva è verticale tanto più omogeneo è il campione esaminato. Il grado di<br />

uniformità viene caratterizzato da un coefficiente detto coefficiente di uniformità che è<br />

dato da:<br />

C = D60 / D10<br />

dove D60 è il diametro corrispondente al 60% di passante e D10 è il diametro<br />

corrispondente al 10% di passante.<br />

Diversi possono essere i sistemi di classificazione granulometriche, in Fig. 55<br />

riporta alcuni di questi sistemi, come si può vedere i limiti tra ghiaie, sabbie, limi ed<br />

argille non sono omogenei nei vari sistemi, in Italia generalmente viene adottata la<br />

classificazione proposta dall’AGI.<br />

Fig. 55 – Sistemi di classificazione (da: Lancellotta, 1987)<br />

128


Un terreno a grana fine (limi ed argille) può presentarsi in quattro differenti stati<br />

fisici in dipendenza del suo contenuto di acqua, che chiaramente influisce sulle<br />

caratteristiche di compressibilità e resistenza al taglio. La Fig. 56 schematizza i quattro<br />

possibili stati fisici e definisce il contenuto d’acqua corrispondente ai vari passaggi<br />

(limiti di Atterberg).<br />

Fig. 56 – Limiti di Atterberg (da: Lancellotta, 1987)<br />

Il limite liquido (wL) è il contenuto d’acqua in corrispondenza del quale il terreno<br />

possiede una resistenza al taglio così piccola che un solco, praticato in un campione, si<br />

richiude quando il cucchiaio che lo contiene è sollecitato con dei colpi. Il limite plastico<br />

(wP) è il contenuto d’acqua in corrispondenza del quale la terra inizia a perdere il suo<br />

comportamento plastico, viene determinato formando dei bastoncini dello spessore di<br />

3.2 mm che iniziano a fessurarsi in corrispondenza del valore del limite plastico.Il limite<br />

di ritiro (wS) rappresenta il contenuto di acqua al di sotto del quale una perdita di acqua<br />

non comporta alcuna riduzione di volume, e viene determinato essiccando<br />

progressivamente il campione, da cui vengono misurati di volta in volta il volume ed il<br />

contenuto in acqua. Con questi valori è possibile ricavare alcuni indici di consistenza<br />

quali l’indice di plasticità definito:<br />

PI = wL – wP<br />

che indica il campo di variazione del contenuto in acqua entro il quale il terreno ha un<br />

comportamento plastico; l’indice di liquidità definito:<br />

LI = (wN – wP) / PI<br />

dove wN è il contenuto di acqua allo stato naturale, e da un’idea della consistenza di un<br />

deposito; l’indice di consistenza definito come:<br />

IC = (wL – wN) / PI<br />

ad un aumento di IC corrispondono un incremento della resistenza al taglio ed una<br />

riduzione della compressibilità.<br />

129


Avendo a disposizione questi parametri e mettendo in relazione il limite di<br />

liquidità e l’indice di plasticità e possibile effettuare una classificazione dei terre fini,<br />

come mostrato in Fig. 57. Una spiegazione dei simboli presenti nella figura è presentata<br />

in Fig. 58, che riguarda la classificazione unificata di tutte le terre. Queste sono divise in<br />

5 gruppi: due a grana grossa e cioè ghiaie (G) e sabbie (S) e tre a grana fine e cioè i limi<br />

inorganici (M), le argille inorganiche (C), le argille ed i limi organici (O).<br />

Ognuno di questi gruppi è ulteriormente suddiviso in sottogruppi: per le ghiaie e<br />

le sabbie se la percentuale di fino è inferiore al 5% e sono ben assortite si aggiunge il<br />

simbolo W, viceversa se sono poco assortite si aggiunge il simbolo P, se la percentuale<br />

di fine è maggiore del 12% e si ha un indice di plasticità minore del 4% si aggiunge il<br />

simbolo M, se l’indice di plasticità è superiore al 7% si aggiunge il simbolo C.<br />

I terreni a grana fine sono invece distinti in base alla carta di plasticità (Fig. 57) ed<br />

in sottogruppi sulla scorta del valore del limite liquido: se questo valore è maggiore del<br />

50% si aggiunge il simbolo H, se è minore si aggiunge il simbolo L.<br />

Fig. 57 – Carta di plasticità adattata al sistema unificato (da: Lancellotta, 1987)<br />

Fig. 58 – Classificazione del Sistema Unificato (da: Lancellotta, 1987)<br />

130


Altre prove di laboratorio sono finalizzate a valutare le proprietà meccaniche e<br />

quindi le proprietà di resistenza e deformabilità di una terra.<br />

A tal fine i campioni vengono sottoposti a tensioni, che possono essere normali<br />

(σ) o di taglio (τ), e vengono valutate le deformazioni che anch’esse possono essere<br />

normali (ε) o di taglio (γ). Nel caso di tensioni normali questi possono essere applicati<br />

nelle tre direzioni dello spazio e quindi si avranno σ1, σ2, σ3, conseguentemente si<br />

avranno tre deformazione sempre orientate nello spazio ε1, ε2, ε3.<br />

Conoscendo i valori delle tensioni e i valori delle deformazioni si possono<br />

calcolare alcuni parametri significativi del comportamento delle terre, quali:<br />

− modulo di Young o di deformazione logitudinale: E = σ / ε (kPa)<br />

− modulo di deformazione tangenziale: G = τ / γ (kPa)<br />

− modulo di compressibilità: K = σ / (ΔV/V) (kPa)<br />

− coefficiente di Poisson: υ = (ε2 – ε3) / ε1<br />

E’ da sottolineare che il comportamento dei terreni, in presenza di sollecitazioni, è<br />

complicato da fatto che essi sono materiali multifase, e quindi la loro risposta in termini<br />

di compressibilità e di resistenza al taglio dipende dalla interazione che si sviluppa<br />

all’interno della massa tra le varie fasi. In particolare in un terreno saturo si può vale il<br />

principio degli sforzi efficaci se segue la relazione:<br />

σ = σ’ + u<br />

dove σ rappresentano le tensioni totali che sono date dalla somma di u che rappresenta<br />

la tensione che agisce sull’acqua e sui grani in ogni direzione con uguale intensità ed è<br />

chiamata pressione neutra, σ’ è la tensione che è sopportata interamente dalla fase<br />

solida ed è chiamata tensione efficace. Dato che un cambio delle pressioni neutre non<br />

produce un cambio di volume né ha influenza sulle condizioni tensionali che provocano<br />

la rottura e che i materiali porosi reagiscono ad un cambio della u come materiali<br />

incompressibili, ne deriva che gli effetti prodotti da un cambio di tensioni, come una<br />

compressione, una distorsione ed una variazione della resistenza al taglio sono dovute<br />

interamente ad un cambio delle tensioni efficaci. Ne consegue che per valutare il<br />

comportamento di un materiale saturo sotto sollecitazione è necessario conoscere sia le<br />

tensioni totali sia le pressioni neutre.<br />

Diverse possono essere le rappresentazioni tra tensioni e deformazioni, alcuni<br />

esempi sono riportati nelle Fig. 59 e 60, dove in Fig. 59 viene rappresentata la relazione<br />

tra tensioni e deformazioni normali, mentre in Fig. 60 vengono rappresentate le<br />

relazioni, con due prove, tra le tensioni normali e di taglio. Utilizzando questi grafici, ed<br />

in particolare il grafico di Fig. 60 si ottengono due parametri geotecnici importanti quali<br />

l’angolo di attrito φ e la coesione c.<br />

131


Fig. 59 – Relazione tensione-deformazione in una prova di compressione triassiale (da:<br />

Rossi e Salvi, 1985)<br />

Fig. 60 – Stato tensionale e retta di rottura: (a) prova di compressione triassiale; (b)<br />

prova di taglio diretto (da: Rossi e Salvi, 1985)<br />

132


Come precedentemente illustrato particolare importanza assume la presenza di<br />

acqua nel comportamento del terreno e come la valutazione dei parametri in termini di<br />

tensioni efficaci risulta fondamentale. A tal fine le prove di laboratorio sui campioni<br />

vengono eseguite sia in condizioni drenate, sia in condizioni non drenate; nel primo<br />

caso si avranno valori efficaci dei parametri, mentre nel secondo caso si avranno valori<br />

totali dei parametri. La relazione che lega le tensioni, le deformazioni ed i parametri di<br />

angolo di attrito e coesione, in termini di tensioni efficaci, nel caso di prove drenate è<br />

del tipo:<br />

τ = c’ + (σ – u) tan φ’<br />

mentre la relazione che lega le tensioni, le deformazioni ed i parametri di angolo di<br />

attrito e coesione, in termini di tensioni totali, nel caso di prove non drenate è del tipo:<br />

τ = cu + σ tan φu<br />

Di seguito si riporta una descrizione schematica della varie prove di laboratorio<br />

che possono essere eseguite.<br />

La prova più semplice è la prova di compressione monoassiale verticale, in questo<br />

caso al provino viene impressa una tensione verticale. Questa prova può essere<br />

effettuata senza impedimenti laterali e prende il nome di espansione laterale libera ed è<br />

una prova non drenata. I parametri che si ricavano da tale prova sono la coesione non<br />

drenata cu (kPa), il modulo di Young o di deformazione longitudinale in condizioni non<br />

drenate E0 (kPa) ed il coefficiente di Poisson υ.<br />

La prova di compressione monoassiale verticale può essere effettuata anche<br />

imponendo impedimenti laterali, che viene chiamata ad espansione laterale impedita o<br />

prova edometrica, ed è una prova drenata. In questo caso i parametri che si ricavano<br />

sono il modulo edometrico Eed (kPa), il modulo di compressibilità Ked (kPa) ed il<br />

coefficiente di consolidazione cv (m 2 /s) definito come:<br />

cv = K Eed / γw<br />

Sempre utilizzando questa prova si possono ricavare informazioni sui valori di<br />

permeabilità dei materiali.<br />

Tra le prove di taglio si descrive la prova di taglio diretto (Fig. 61). Al provino si<br />

applica prima una tensione normale e successivamente una tensione tagliante e si<br />

incrementa questo sforzo fino alla rottura. I parametri che si possono ricavare sono gli<br />

angoli di attrito φ (°) e la coesione c (kPa). Anche queste prove possono essere<br />

effettuate in condizioni drenate e non drenate.<br />

La prova sicuramente più completa è la prova triassiale, dove si applica dapprima<br />

una tensione di compressione e successivamente si incrementa la tensione verticale fino<br />

a raggiungere la rottura (Fig. 62). La prova viene ripetuta su un certo numero di provini<br />

(almeno tre) con differenti valori della tensione di confinamento e dall’insieme dei<br />

risultati si deduce la curva di rottura. Anche in questo caso è possibile effettuare prove<br />

in condizioni drenate e non drenate. I parametri che si ottengono sono l’angolo di attrito<br />

φ (°), la coesione c (kPa), il modulo di Young o di deformazione longitudinale in<br />

condizioni non drenate E0 (kPa) e in condizioni drenate E’ (kPa).<br />

133


Fig. 61 – Apparecchio per le prove di taglio (da: Rossi e Salvi, 1985)<br />

Fig. 62 – Apparecchio per le prove di compressione triassiale (da: Rossi e Salvi, 1985)<br />

134


ELEMENTI DI GEOFISICA<br />

Diversi sono i metodi geofisici che possono essere utilizzati per caratterizzare il<br />

comportamento dei terreni. Tra i metodi più comunemente utilizzati si ricordano le<br />

analisi elettriche, magnetiche, magnetotelluriche, gravimetriche, radiometriche e<br />

sismiche.<br />

Di seguito si illustreranno le indagini sismiche.<br />

INDAGINI SISMICHE<br />

La più importante applicazione della sismica concerne la prospezione del<br />

sottosuolo al fine di ottenere informazioni sulle strutture geologiche sepolte, ed in<br />

particolare la ricerca del bedrock o roccia sotto coperture di terre. Inoltre con le indagini<br />

sismiche si è in grado di determinare il comportamento meccanico delle rocce e delle<br />

terre.<br />

Il meccanismo fondamentale di una indagine sismica consiste nel produrre una<br />

perturbazione elastica e quindi onde elastiche che vengono registrate ed analizzate al<br />

fine di ottenere informazioni sulle velocità di propagazione nei materiali analizzati e da<br />

queste ricavare informazioni sui parametri di resistenza e deformabilità.<br />

PERTURBAZIONI ELASTICHE<br />

Diversi sono i metodi per produrre perturbazioni elastiche, tra questi si ricordano<br />

quelli più comunemente usati che sono i metodi di scoppio di una carica di esplosivo in<br />

un pozzo appositamente perforato.<br />

Un altro metodo per generare onde elastiche è quello di usare appositi vibratori in<br />

superficie, l’inconveniente più grande rispetto al metodo precedente è quello di generare<br />

basse energie e quindi può essere utilizzato solo nel caso di esplorazioni di piccola<br />

profondità.<br />

Altro metodo è quello della caduta dei un peso, che ha il vantaggio di non<br />

richiedere la perforazione di pozzetti e di poter sommare l’energia di più colpi inferti al<br />

terreno, anche in questo caso però le energie in gioco sono di bassa entità e quindi le<br />

profondità investigate sono limitate.<br />

APPARECCHIATURE SISMICHE<br />

Il primo dispositivo che incontra una perturbazione elastica, artificialmente<br />

generata, è il geofono o sismometro che è uno strumento atto a rilevare i piccoli<br />

spostamenti del terreno a cui è appoggiato e a trasformarli in impulsi elettrici.<br />

I geofoni più usati sono gli elettromagnetici, elettrostatici, meccanici,<br />

piezoelettrici, magnetostrittivi. I geofono elettromagnetici sono quelli più usati per i<br />

rilievi a terra, quelli piezoelettrici e magnetostrittivi sono usati in pozzo ed i presenza di<br />

acqua, mentre i geofoni meccanici attualmente non sono più in uso.<br />

I geofoni elettromagnetici (Fig. 63) sono costituiti da una bobina posta tra le<br />

armature di un magnete, il magnete è collegato all’armatura del geofono e a seguito di<br />

un impulso elastico si muove rispetto alla bobina, il movimento relativo delle due parti<br />

provoca una variazione del flusso magnetico generando una corrente che viene inviata<br />

all’apparecchio di registrazione. I geofoni piezoelettrici sono costituiti da una batteria di<br />

cristalli (quarzo, tormalina, salgemma, ecc.) alternati a piatti metallici, la batteria è<br />

135


sormontata da una massa discoidale. La vibrazione del terreno provoca delle variazioni<br />

di pressione nella batteria dei cristalli che provocano variazioni di voltaggio nei piatti<br />

metallici.<br />

Fig. 63 – Geofono elettromagnetico (1-bobina, 2-magneti, 3-poro, 4-cassa, 5-molle)<br />

Ogni tipo di geofono è provvisto di un dispositivo di smorzamento, al fine di<br />

ridurre le oscillazioni della massa mobile ad impulso cessato. Lo smorzamento è di tipo<br />

elettromagnetico. Caratteristica di ogni geofono è la curva di responso ad un movimento<br />

136


impresso in funzione della frequenza, in Fig. 64 vengono mostrate le curve<br />

caratteristiche di un geofono elettromagnetico.<br />

Fig. 64 – Curve caratteristiche di un geofono elettromagnetico<br />

Gli impulsi elettrici trasmessi dai geofoni vengono amplificati, filtrati ed infine<br />

registrati. Un registratore sismico, che è collegato ai vari geofoni attraverso cavi, è<br />

suddiviso in un complesso di amplificazione ed un complesso di registrazione. Il<br />

complesso di amplificazione è costituito da tutte quelle apparecchiature atte a<br />

trasformare i segnali emessi dai geofoni in segnali amplificati, filtrati e di ampiezza<br />

quasi costante. Il segnale in uscita dall’amplificatore viene poi registrato dal complesso<br />

di registrazione.<br />

DISPOSIZIONE DEI GEOFONI - PUNTO DI SCOPPIO SUL TERRENO<br />

L’allineamento dei geofoni, i quali sono sempre ad uguale distanza tra loro,<br />

prende il nome di stendimento, la lunghezza di uno stendimento può variare tra 200 e<br />

1200 m. I geofoni di uno stendimento sono suddivisi in due semi-basi, ed il punto di<br />

scoppio può essere sia centrale, sia laterale, sia in linea, sia spostato dall’allineamento<br />

dei geofoni (Fig. 65). Generalmente, per una migliore definizione dei risultati si<br />

effettua, su un allineamento sia uno scoppio centrale che due scoppi laterali.<br />

137


Fig. 65 – Disposizione geofoni – punto di scoppio sul terreno<br />

ONDE SISMICHE - DROMOCRONE<br />

L’energia irradiata da una carica esplosiva o da una caduta di un peso si irradia in<br />

tutte le direzioni sotto forma di onde elastiche, che si distinguono tra quelle di volume e<br />

quelle di superficie (Fig. 66). Le onde di volume si dividono ulteriormente in:<br />

- onde P (primarie o longitudinali o di compressione): si propagano con fenomeni di<br />

dilatazione e compressione di masse di terreno, sono le prime che arrivano al<br />

geofono;<br />

138


- onde S (secondarie o trasversali o di taglio): che provocano spostamenti in direzione<br />

ortogonale allo spostamento dell’onda stessa, sono le seconde che arrivano al<br />

geofono.<br />

Le onde di superficie si propagano solo esternamente alla superficie poiché sono<br />

un’interazione delle onde P e S con la superficie, e sono le ultime che vengono<br />

registrate. Si dividono in:<br />

- onde di Love: provocano spostamenti orizzontali in direzione perpendicolare a<br />

quella di propagazione.<br />

- onde di Rayleigh: provocano un moto ellittico nel piano verticale contenente la<br />

direzione di propagazione.<br />

Fig. 66 – Forme di movimento del terreno in corrispondenza dei diversi tipi di onde<br />

139


I vari tipi di onde si propagano con diverse velocità: tale velocità dipende dalle<br />

caratteristiche elastiche e dalla densità del mezzo attraversato. Nel caso di un mezzo<br />

isotropo le onde sono rappresentate da sfere concentriche i cui raggi crescono nel<br />

tempo. Nel sottosuolo difficilmente si ha la presenza di un mezzo isotropo, per cui<br />

quando un’onda sismica incontra la superficie di separazione di due mezzi aventi<br />

differenti velocità di propagazione dell’onda, parte di essa viene riflessa e ritorna in<br />

superficie, e parte viene rifratta passando sotto l’orizzonte di separazione. Si avranno<br />

quindi delle onde riflesse e delle onde rifratte, se nell’analisi si utilizzeranno le onde<br />

riflesse si parlerà di sismica a riflessione, se si utilizzeranno le onde rifratte si parlerà di<br />

sismica a rifrazione. Inoltre in alcune analisi si considerano le onde longitudinali in altre<br />

vengono prese in considerazione le onde trasversali.<br />

Se si considerano due strati sovrapposti (Fig. 67) con velocità V1 e V2 dove V2 ><br />

V1, separati da una superficie di discontinuità posta alla profondità h e considerando il<br />

punto O come il punto di scoppio ed il punto S come posizione del geofono, al punto S<br />

arriveranno 3 tipi di onde ed in particolare:<br />

− le onde dirette, che percorrendo il tragitto OS con velocità V1 arriveranno dopo il<br />

tempo:<br />

t0 = OS / V1<br />

− le onde riflesse, che percorrendo il tragitto OAS sempre con velocità V1 arriveranno<br />

dopo il tempo:<br />

t1 = 1 / V1 (OS 2 + 4h 2 ) ½<br />

− le onde rifratte, che incontrando la superficie di discontinuità sotto l’angolo limite i,<br />

camminano nel secondo strato parallelamente a questa e quindi percorrono il<br />

cammino OBCS arrivando in S dopo il tempo:<br />

t2 = OS / V2 + 2h (1 / V1 2 – 1 / V2 2 ) ½<br />

Fig. 67 – Onde dirette, riflesse e rifratte<br />

140


Riportando in un diagramma i tempi di propagazione di un’onda sismica lungo un<br />

allineamento di geofoni in funzione delle distanze, misurata a partire dal punto origine<br />

della perturbazione elastica, si ottengono le dromocrone (Fig. 68).<br />

Fig. 68 – Dromocrone delle onde dirette, riflesse e rifratte<br />

SISMOGRAMMI<br />

Le tracce delle registrazioni vengono chiamate sismogrammi. In Fig. 69 è<br />

rappresentato un sismogramma ottenuto con l’utilizzo di 24 geofoni e punto di scoppio<br />

centrato e scostato. Sulla traccia 22 è segnato l’istante di scoppio, mentre sulla traccia 3<br />

e segnato l’istante in cui l’onda raggiunge il geofono posto sulla bocca del pozzetto di<br />

141


scoppio (tempo sul pozzo). Le prime perturbazioni che si notano si riferiscono ai primi<br />

impulsi rifratti, mentre le perturbazioni A e B si riferiscono alle onde riflesse.<br />

Fig. 69 – Esempio di sismogramma<br />

142


METODO SISMICO A RIFLESSIONE<br />

Se nelle analisi si considerano gli arrivi delle onde longitudinali e riflesse il<br />

metodo prende il nome di metodo sismico a riflessione. Come si può vedere dalla Fig.<br />

69 se si considerano le perturbazioni A e B si nota che tali perturbazioni non sono<br />

allineate ma presentano una curvatura denominata freccia della riflessione. Inoltre si<br />

nota come tale freccia presenta una curvatura inferiore con l’aumento della profondità di<br />

indagine. Tale situazione è facilmente spiegabile se si considera che allontanandosi dal<br />

punto di scoppio i geofoni registreranno tempi di arrivo maggiori perché maggiore è lo<br />

spazio percorso, tale differenza sarà meno accentuata andando in profondità. E’ facile<br />

anche intuire che se le frecce di riflessioni sono simmetriche si è in presenza di strati<br />

orizzontali, se le frecce di riflessioni sono asimmetriche si è in presenza di strati<br />

inclinati.<br />

Per poter analizzare i tempi di arrivo delle onde riflesse è necessario effettuare<br />

una serie di correzioni dei sismogrammi. In particolare la prima correzione che deve<br />

essere effettuata è quella di riportare tutti i tempi di arrivo delle onde al tempo<br />

dell’istante di scoppio che rappresenta il tempo zero. Inoltre per poter disporre di<br />

sismogrammi le cui riflessioni siano tra loro confrontabili e correlabili è necessario<br />

ridurre la quota del punto di scoppio e quella dei geofoni ad un unico piano di<br />

riferimento. Questa operazioni è semplice se la topografia è pianeggiante, se si è in<br />

presenza di topografia accidentata si dovrà tener conto delle differenze delle quote e<br />

quindi operare tale riduzione. Altra correzione che deve essere apportata riguarda la<br />

differenza di tempi di arrivo alle tracce estreme. Un’ultima correzione che deve essere<br />

effettuata riguarda il primo strato che viene investigato denominato aerato, che presenta<br />

velocità nettamente inferiori alle successive, in quanto composto da materiale sciolto<br />

con presenza di aria e acqua. La velocità di tale materiale ed il suo relativo spessore<br />

possono essere calcolate utilizzando i primi impulsi rifratti, come si vedrà in seguito o<br />

utilizzando il tempo sul pozzo se si è sicuri che lo scoppio è avvenuto alla base<br />

dell’aerato.<br />

Una volta effettuate le correzioni dei sismogrammi, con i tempi di arrivo delle<br />

onde riflesse ai vari geofoni è possibile valutare sia la velocità dei singoli strati<br />

attraversati, che la loro profondità. Schematicamente si può dire che disponendo del<br />

tempo di arrivo ad un geofono posto vicino al punto di scoppio (Ts) ed il tempo di<br />

arrivo ad un geofono posto ad una certa distanza dal punto di scoppio (Tx) e conoscendo<br />

la distanza tra i due geofoni (x), la velocità dello strato attraversato dall’onda riflessa è<br />

pari a:<br />

V = [x 2 / (Tx 2 – Ts 2 )] ½<br />

Conoscendo le velocità ed i tempi di arrivo è immediato calcolare la profondità<br />

dello strato. Analizzando le tracce di tutti i sismogrammi registrati è possibile<br />

individuare tutte le stratificazioni presenti e le relative velocità.<br />

L’analisi delle onde riflesse comunque non è sempre univoca, infatti in queste<br />

prospezioni, a volte si registrano alcuni segnali anomali, che se non riconosciuti<br />

possono inficiare i risultati ottenuti. Tra questi segnali anomali devono essere<br />

riconosciute le riflessioni multiple (Fig. 70) dove il tempo di arrivo registrato risulta<br />

essere il doppio a causa del fenomeno della doppia riflessione. Altro segnale anomalo<br />

può essere causato da un fenomeno di diffrazione (Fig. 71) dovuto ad un brusco<br />

cambiamento morfologico dell’orizzonte, come per esempio lo spigolo di una faglia che<br />

143


diventa un centro di irradiazione di energia in ogni direzione. Ancora segnali anomali<br />

possono essere causati da riflessioni diffratte (Fig. 72), quando esiste un punto di<br />

discontinuità che viene investito da un onda riflessa ed irradia energia in ogni direzione<br />

o da diffrazioni riflesse (Fig. 73) dovute alla riflessione di energie diffratte da un punto<br />

di discontinuità. Sono infine da ricordare i segnali anomali dovute a rifrazioni riflesse<br />

(Fig. 74), dove anche in questo caso la superficie riflettente può essere costituita da una<br />

faglia.<br />

Fig. 70 – Esempio di riflessione multipla<br />

144


Fig. 71 – Esempio di diffrazione<br />

Fig. 72 – Esempio di riflessione diffratta<br />

Fig. 73 – Esempio di diffrazione riflessa<br />

145


Fig. 74 – Esempio di rifrazione riflessa<br />

METODO SISMICO A RIFRAZIONE<br />

Nel caso in cui nelle analisi si considerino gli arrivi delle onde longitudinali e<br />

rifratte si parla di metodo sismico a rifrazione. Come già visto in Fig. 68 riportando in<br />

un diagramma i tempi di propagazione di un’onda sismica lungo un allineamento di<br />

geofoni in funzione delle distanze, misurata a partire da punto origine della<br />

perturbazione elastica, si ottengono le dromocrone relative alle onde dirette ed alle onde<br />

rifratte. Analizzando tali curve è possibile ottenere informazioni sulle velocità e<br />

profondità degli strati incontrati nell’analisi.<br />

Di seguito si riporta un esempio di interpretazione di un caso a due strati<br />

orizzontali caratterizzati da velocità V0 e V1 con V1 > V0 e profondità z (Fig. 75). Come<br />

già detto i geofoni posizionati dal punto di scoppio alla distanza Xc registreranno come<br />

primo arrivo le onde dirette, i geofoni posizionati dal punto Xc alla fine dello<br />

stendimento registreranno come primo arrivo le onde rifratte. La dromocrona delle onde<br />

dirette forma un angolo ϑ0 con l’asse delle ordinate tale che:<br />

tg ϑ0 = V0<br />

mentre la dromocrona delle onde rifratte si allinea con un angolo ϑ1 sempre con l’asse<br />

delle ordinate tale che:<br />

tg ϑ1 = V1<br />

Il prolungamento della dromocrona delle onde rifratte incontra l’asse dei tempi di<br />

arrivo nel punto ti (tempo intercetto) dove si ha:<br />

ti = 2z (1 / V0 2 – 1 / V1 2 ) ½<br />

che permette di ricavare la profondità z, conoscendo le velocità V0 e V1.<br />

La profondità z può essere ricavata anche considerando il punto P (punto<br />

angolare) dove si ha l’arrivo sia dell’onda diretta che dell’onda rifratta e corrisponde<br />

alla distanza critica Xc attraverso:<br />

z = Xc / 2 [(V1-V0) / (V1+V0)] ½<br />

Analoghi procedimenti possono essere utilizzati in presenza di più strati.<br />

Anche nel caso di utilizzo delle onde rifratte possono sorgere problemi di<br />

interpretazione. Il caso più frequente di interpretazione errata si ha in presenza di uno<br />

strato a velocità più bassa dello strato sovrastante. In questo caso lo strato a velocità più<br />

bassa non può essere messo in evidenza dalle onde rifratte, in quanto l’energia<br />

incidente, al contatto fra la sommità dello strato e la base dello strato sovrastante a più<br />

alta velocità, subisce una flessione verso il basso e non può venire di conseguenza<br />

rifratta. Questo comporta come mostrato in Fig. 76 la mancanza dello strato a velocità<br />

V1 e ciò può trarre in errore anche nel calcolo della profondità. Altri casi di<br />

interpretazione non univoca si ha quando la velocità presenta un aumento lineare con la<br />

profondità, in questo caso i raggi d’onda subiscono una rifrazione continua e la<br />

dromocrona che si ottiene è una curva e non una spezzata. Come nel caso del metodo a<br />

riflessione, la presenza di gradini di faglia può portare ad interpretazioni non corrette.<br />

146


Come mostrato in Fig. 77 un abbassamento di velocità nelle dromocrone indica proprio<br />

la presenza di gradini. Nel caso infine di stratificazioni inclinate, la corretta<br />

interpretazione può essere effettuata solo disponendo di dromocrone derivanti da punti<br />

di scoppio posti in ambedue i lati dello stendimento. Come mostrato in Fig. 78 la non<br />

simmetria delle due dromocrone indica proprio la presenza di stratificazioni inclinate.<br />

Fig. 75 – Onde dirette e rifratte e relative dromocrone in due strati orizzontali<br />

Fig. 76 – Onde e dromocrone nel caso di strato a velocità più basso di quello sovrastante<br />

147


Fig. 77 – Onde e dromocrone nel caso di presenza di una faglia<br />

148


Fig. 78 – Onde e dromocrone nel caso do orizzonte inclinato<br />

MISURE SISMICHE IN FORO<br />

Nel caso in cui si vogliano avere informazioni sulle velocità delle onde trasversali<br />

o di taglio, si possono utilizzare le tecniche precedentemente descritte, ma di gran lunga<br />

migliori e più precise sono quelle che prendono il nome di misure sismiche in foro. La<br />

prova più completa è senza dubbio la prova cross-hole, che necessita di tre o più fori,<br />

uno per la sorgente e gli altri due o più per i ricevitori. La sorgente può essere di varia<br />

natura (meccaniche elettromagnetiche, ecc.) e deve essere in grado di generare onde<br />

elastiche di compressione e/o di taglio, il sistema di ricezione è composto di due o più<br />

ricevitori, costituiti da una terna di trasduttori di velocità orientati secondo le<br />

componenti di una terna cartesiana. La valutazione della velocità delle onde P ed S è<br />

valutata analizzando le tracce dei tempi di arrivo delle onde registrate dai ricevitori, e<br />

dividendo la distanza orizzontale tra sorgente e i ricevitori per tali valori. Altra prova in<br />

foro è il down-hole (Fig. 79), che consiste nel produrre sulla superficie del terreno una<br />

sollecitazione orizzontale mediante una sorgente meccanica in grado di generare onde di<br />

compressione e di taglio. Nel foro sono posti due ricevitori a profondità note, anche in<br />

questo caso, costituiti da una terna di trasduttori di velocità orientati secondo le<br />

componenti di una terna cartesiana e viene valutato l’istante di arrivo delle onde P ed S,<br />

rispetto all’istante in cui vengono indotte le sollecitazioni alla sorgente; dividendo per<br />

tali valori la distanza tra sorgente e ricevitori si ricava la velocità delle onde P ed S. In<br />

questo ultimo caso l’interpretazione può non essere univoca, come nel caso precedente,<br />

in quanto data la posizione della sorgente è necessario correggere i tempi di arrivo<br />

stimati per tener conto dell’inclinazione del percorso effettivo, mentre nel caso<br />

precedente data la posizione tra la sorgente ed i ricevitori la misura è diretta.<br />

149


Fig. 79 – Esempio di down-hole<br />

PARAMETRI ELASTICI<br />

Conoscendo la velocità delle onde P (Vp) ed S (Vs) di un materiale che sono<br />

definite da:<br />

Vp = [(λ + 2 G) / ρ] ½<br />

Vs = (G / ρ) ½<br />

dove G è il modulo di deformazione tangenziale, ρ è la densità (misura della<br />

massa espressa in Kg/m 3 ), e λ è uguale a :<br />

l = (υ E) / (1 + υ) (1 - 2υ)<br />

dove E è il modulo di deformazione tangenziale, υ e il coefficiente di Poisson,<br />

è possibile calcolare alcuni parametri elastici utili alla definizione delle caratteristiche<br />

meccaniche e di resistenza del materiale. In particolare si possono ricavare:<br />

− modulo di Young o di deformazione longitudinale:<br />

E = (9ρVs 2 K / ρVs 2 ) / (3K / ρVs 2 + 1) (kPa)<br />

dove K è il modulo di compressibilità<br />

− modulo di compressibilità: K = ρ (Vp 2 – 4/3 Vs 2 ) (kPa)<br />

K = E / 3(1 - 2υ) (kPa)<br />

− coefficiente di Poisson: υ = 1/2 [(Vp / Vs) 2 – 2] / [(Vp / Vs) 2 – 1]<br />

− modulo di deformazione tangenziale: G = ρ Vs 2 (kPa)<br />

G = E / 2(1 + 2υ) (kPa)<br />

Data la definizione delle velocità delle onde P e S ne consegue che le Vs si<br />

propagano meno velocemente delle Vp, inoltre le onde S non si propagano nell’acqua o<br />

nell’aria, di conseguenza le Vs sono rappresentative dello scheletro solido.<br />

Nel caso delle Vp essendo influenzate dalle diverse fasi (solido, liquido, gassoso)<br />

si può dire che se si è in presenza di due fasi (solido-liquido) e le due velocità sono<br />

diverse, si registrano le velocità del solido, se le velocità delle due fasi sono simili si<br />

registra una velocità intermedia tra le due. In presenza di tre fasi (solido, liquido,<br />

gassoso) la propagazione non avviene solo nel solido e di conseguenza se la fase liquida<br />

è continua si ottiene la velocità del liquido, se la fase liquida non è continua la velocità<br />

che si ottiene si avvicina a quella del gas.<br />

150


ANALISI DI STABILITA’ DEI VERSANTI<br />

PREMESSA<br />

L’analisi di stabilità dei versanti consiste nella valutazione quantitativa di stabilità<br />

di un movimento franoso o di un versante considerando condizioni statiche, quindi<br />

senza nessun intervento che possa modificare la situazione in essere, in condizioni<br />

pseudostatiche, quindi ipotizzando un fattore aggiuntivo (terremoto rappresentato<br />

mediante forze statiche equivalenti, ecc.), ed infine in condizioni dinamiche, quindi<br />

ipotizzando l’influenza di un evento sismico (accelerogramma o parametri caratteristici<br />

di un accelerogramma).<br />

L’accelerogramma è la registrazione di un terremoto attraverso un accelerografo,<br />

dove vengono riportate in un grafico i valori delle accelerazioni rispetto al tempo (Fig.<br />

80).<br />

Fig. 80 – Esempio di accelerogramma<br />

Il primo passo da effettuare è il riconoscimento delle aree instabili, tale<br />

riconoscimento passa attraverso uno studio geologico a scala opportuna il cui risultato<br />

può essere identificato con la predisposizione di:<br />

- una carta geologica, una carta geomorfologia, una carta litotecnica ed in particolare<br />

di una carta delle frane e delle aree potenzialmente franose;<br />

- schedatura di tali aree al fine di immagazzinare i dati caratteristici (tipologia,<br />

attività, geologia, elementi morfologici, ecc.) delle stesse (Scheda IFFI, 2001);<br />

- controlli sull’evoluzione dei movimenti franosi sia con tecniche tradizionali quali in<br />

clinometri, piezometri, ecc. sia con tecniche innovative quali interferometria SAR,<br />

ecc.<br />

In seguito alla caratterizzazione ed identificazione dei movimenti franosi si deve<br />

procedere alla loro quantificazione, intesa come la valutazione degli indici di stabilità in<br />

condizioni statiche, pseudostatiche e dinamiche. In particolare per i movimenti franosi<br />

tipo scivolamenti (rotazionali e traslazionali) e colate, lo studio può comprendere:<br />

- individuazione delle sezioni geologiche e geomorfologiche che caratterizzano il<br />

151


corpo franoso, la sua geometria, l’andamento della superficie di scivolamento,<br />

l’andamento del livello della falda.<br />

- individuazione dei parametri geotecnici necessari all’analisi: il peso di volume (γ),<br />

l’angolo di attrito (φ) nei suoi valori di picco e residuo, e la coesione (c) nei suoi<br />

valori di picco e residuo;<br />

- individuazione degli accelerogrammi di input o dei parametri caratteristici<br />

dell’accelerogramma (picco di accelerazione, magnitudo, intensità di Arias (Arias,<br />

1970), potenziale distruttivo (Saragoni et al., 1989), intensità spettrale (Housner,<br />

1952) nel caso di analisi dinamiche;<br />

- analisi numeriche: diversi sono i modelli numerici che possono essere utilizzati per<br />

il calcolo della stabilità, tali codici, più o meno semplificati (es. metodo del pendio<br />

indefinito, metodo dei conci, metodo ad elementi finiti, ecc.), forniscono la risposta<br />

in termini di valori del fattore di sicurezza (Fs) in condizioni statiche, in termini di<br />

valori del coefficiente di accelerazione orizzontale critica (Kc) in condizioni<br />

pseudostatiche ed in termini di spostamento atteso in condizioni dinamiche.<br />

L’applicazione dei diversi modelli dipenderà chiaramente dalle condizioni<br />

geologiche del sito in analisi e dal tipo di analisi che si intende effettuare (Fellenius,<br />

1936; Bishop, 1955; Janbu, 1954; Janbu et al., 1956; Morgernstern e Price, 1965;<br />

Newmark, 1965; Spencer, 1967; Sarma,1979; Graham, 1984; Cividini et al., 1991;<br />

Cividini e <strong>Pergalani</strong>, 1992; Ambraseys e Srbulov, 1995; Luzi e <strong>Pergalani</strong>, 1996; Jibson<br />

et al., 1998; Crespellani et al., 1998; Romeo, 1998; Luzi e <strong>Pergalani</strong>, 1999; Luzi e<br />

<strong>Pergalani</strong>, 2000).<br />

ANALISI AREALI<br />

In particolare nel caso si debba analizzare un’area vasta potrebbe essere applicato<br />

il metodo del pendio indefinito, dove l’analisi viene condotta in due dimensioni<br />

considerando la sezione longitudinale della frana. Inoltre si assume che le forze sono<br />

presenti soltanto sul piano della sezione (Fig. 81).<br />

Fig. 81 – Forze agenti lungo il pendio<br />

z<br />

W<br />

zw<br />

β<br />

β<br />

Wt<br />

Wn<br />

u<br />

c'<br />

W = peso dell’unità di pendio<br />

z = profondità superficie di<br />

scorrimento<br />

z w = altezza della tavola d’acqua<br />

β = angolo del pendio<br />

u = pressione dell’acqua<br />

c’ = coesione<br />

152


In tal caso il calcolo del fattore di sicurezza, in condizioni statiche, è espresso da:<br />

c + (γ – m γw) z cos 2 β tan φ<br />

Fs= ---------------------------------------<br />

γ z sen β cos β<br />

dove c è la coesione (kPa), γ è il peso dell’unità di volume del terreno (kN/m 3 ), m è il<br />

rapporto fra l’altezza della falda e lo spessore del corpo di frana (zw/z), zw è l’altezza<br />

della falda dalla superficie di scivolamento (m), z è la profondità della superficie di<br />

scivolamento (m), γw è il peso dell’unità di volume dell’acqua (kN/m 3 ), β è<br />

l’inclinazione della superficie di scivolamento (°) e φ è l’angolo di attrito interno (°).<br />

In condizioni pseudostatiche la stabilità viene valutata introducendo una forza<br />

orizzontale pari a KcW, dove Kc è il coefficiente di accelerazione critica orizzontale e<br />

W è il peso del materiale. Il fattore di sicurezza assume la seguente forma:<br />

c + (γ z cos 2 β – γ z Kc cos β sen β - γw zw cos 2 β) tan φ<br />

Fs = ------------------------------------------------------------------------<br />

γ z sen β cos β + γ z Kc cos 2 β<br />

Ponendo Fs = 1, è possibile calcolare il valore di Kc che risulta:<br />

c / cos 2 β + (γ – m γw) z tan φ - γ z tan β<br />

Kc = ------------------------------------------------------<br />

γ z + γ z tan β tan φ<br />

Utilizzando un Sistema Informativo Geografico, tali formule possono essere<br />

applicate ad ogni porzione in cui viene diviso il terreno, denominata pixel.<br />

Il limite di questo approccio è che ogni pixel viene considerato indipendente da<br />

quelli vicini, tanto che il i valori di Fs e Kc possono risultare sovrastimati o sottostimati.<br />

Per ovviare a questo inconveniente può essere applicato il metodo ordinario: il corpo di<br />

frana viene suddiviso in diversi blocchi da piani verticali. Il fattore di sicurezza Fs viene<br />

espresso come rapporto fra il momento massimo sopportabile dal corpo di frana ed il<br />

momento applicato:<br />

∑ R [c b sec β + (W cos β – u b sec β) tan φ]<br />

Fs = ------------------------------------------------------------<br />

∑ (R W sen β)<br />

dove u è il valore della pressione neutra e b è la larghezza del blocco.<br />

Questo metodo può essere applicato a tutti i pixel di un’immagine digitale che, in<br />

questo caso, possono essere considerati in tre dimensioni. In ogni pixel le forze attive e<br />

quelle resistenti vengono espresse tramite il criterio di Mohr-Coulomb. Tutte le forze<br />

vengono proiettate lungo le tre direzioni x, y, z in modo tale che si possa ottenere un<br />

valore del fattore di sicurezza Fs per ogni direzione. Il fattore di sicurezza totale è dato<br />

da:<br />

(Fsx 2 + Fsy 2 + Fsz 2 ) 1/2<br />

Fstot = ---------------------------<br />

153


3<br />

dove Fsx, Fsy, Fsz, sono le sommatorie dei rapporti tra le forze resistenti e attive nelle tre<br />

direzioni.<br />

Analogo procedimento può essere applicato per determinare il valore di Kc, la cui<br />

formula diventa:<br />

con:<br />

dove:<br />

Kc tot = (Kcx 2 + Kcy 2 + Kcz 2 ) 1/2<br />

∑ S1x – Fsx ∑ T1x<br />

Kcx = -------------------------<br />

∑ S2x + Fsx ∑ T2x<br />

∑ S1y – Fsy ∑ T1y<br />

Kcy = --------------------------<br />

∑ S2y + Fsy ∑ T2y<br />

∑ S1z – Fsz ∑ T1z<br />

Kcz = -------------------------<br />

∑ S2z + Fsz ∑ T2z<br />

S1 = c sec β + [(γ – m γw) z cos β tan φ]<br />

T1 = γ z sen β<br />

S2 = Kc γ z sen β tan φ<br />

T2 = Kc γ z cos β<br />

Nel caso di analisi in condizioni dinamiche possono essere utilizzate relazioni che<br />

legano le caratteristiche di un evento e gli spostamenti. La relazione di tale legame ha<br />

solitamente la seguente forma:<br />

f (D) = A g(s) + B h(K) + C<br />

dove si è indicato lo spostamento con D, il generico parametro sismico con s, il<br />

parametro di propensione al franamento con K e con A, B, C delle costanti.<br />

Ambraseys e Srbulov (1995) hanno proposto la seguente:<br />

log (Dn) = - 2,41 + 0,47 Ms – 0,01 r + log [(1 – q) 2,64 (q) -1,02 ] + 0,58 p<br />

nella quale Dn è lo spostamento in cm, Ms la magnitudo superficiale, r la distanza<br />

dall’ipocentro in Km, data da (d 2 + h 2 ) 0,5 , dove d è la distanza epicentrale ed h la<br />

profondità dell’ipocentro entrambi in Km, q è il rapporto di accelerazione critica, dato<br />

dal rapporto fra il coefficiente di accelerazione critica orizzontale ed il picco di<br />

accelerazione al suolo (Pga) e p è l’errore.<br />

Jibson et al. (1998), considerando l’intensità di Arias, hanno proposto la seguente:<br />

154


log (Dn) = 1,521 log Ia – 1,9931 log Kc – 1,546<br />

dove Dn è lo spostamento in cm, Ia è l’intensità di Arias in m/s, Kc è il coefficiente di<br />

accelerazione critica orizzontale. In particolare l’intensità di Arias è data da:<br />

Ia =<br />

π<br />

2g<br />

∫<br />

0<br />

tf<br />

a<br />

2<br />

( t ) dt<br />

dove a è l’accelerazione e g è l’accelerazione di gravità.<br />

Recentemente Crespellani et al. (1998), considerando il potenziale distruttivo,<br />

hanno proposto la seguente:<br />

Dn = 0,021 Pd 0,910 Kc -1,202<br />

dove Dn è lo spostamento in cm, Pd il potenziale distruttivo in 10 -3 g s 3 e Kc è ancora il<br />

coefficiente di accelerazione critica orizzontale. In particolare il potenziale distruttivo è<br />

definito da:<br />

Pd =<br />

2π<br />

2g<br />

∫<br />

0<br />

tf<br />

a<br />

2<br />

( t ) dt<br />

n.<br />

a.<br />

dove n.a. sono il numero degli attraversamenti della linea di zero.<br />

Romeo (1998) ha proposto la seguente:<br />

log (Dn) = 0,607 (± 0,020) log Ia – 3,719 (± 0,049) log K + 0,852 (± 0,030)<br />

dove Dn è lo spostamento in cm, Ia è l’intensità di Arias in m/s, K è il rapporto fra la<br />

componente di taglio di Kc e la Pga.<br />

Esistono poi due relazioni proposte da Luzi e <strong>Pergalani</strong> (2000) che pongono in<br />

relazione lo spostamento calcolato utilizzando il metodo di Newmark rispettivamente<br />

con l’intensità di Arias (Ia) e con l’intensità spettrale (SI):<br />

Dn = (0,424 + 0,0818 Ia) 2<br />

Dn = (0,292 + 0,0762 Ia) 2<br />

Dn = (-6,794 + 0,46 Ia) 2<br />

Dn = (-1,09 + 0,07 Ia)<br />

Dn = (-0,07 + 0,0049 Ia)<br />

Dn = (-0,0001 + 0,000012 Ia)<br />

Dn = 0<br />

Dn = (0,477 + 0,0750 SI) 2<br />

Dn = (0,362 + 0,0690 SI) 2<br />

Dn = (-0,001 + 0,0505 SI) 2<br />

Dn = (-0,048 + 0,0190 SI) 2<br />

Dn = (-0,041 + 0,0030 SI)<br />

Dn = (0,00027 + 0,000074 SI)<br />

Dn = 0<br />

se Kc ≤ 0,01 (RMSE = 0,632)<br />

se 0,01 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 1,34)<br />

se 0,03 < Kc ≤ 0,06 (RMSE = 1,09)<br />

se 0,06< Kc ≤ 0,1 (RMSE = 1,8)<br />

se 0,1 < Kc ≤ 0,2 (RMSE = 1,8)<br />

se 0,2 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 0,0014)<br />

se Kc > 0,3<br />

se Kc ≤ 0,01 (RMSE = 0,632)<br />

se 0,01 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 1,05)<br />

se 0,03 < Kc ≤ 0,06 (RMSE = 0,68)<br />

se 0,06< Kc ≤ 0,1 (RMSE = 0,41)<br />

se 0,1 < Kc ≤ 0,2 (RMSE = 0,19)<br />

se 0,2 < Kc ≤ 0,03 (RMSE = 0,013)<br />

se Kc > 0,3<br />

155


Il valore dell’intensità spettrale è definita da:<br />

∫<br />

2.<br />

5<br />

SI = PVRS(<br />

T , μ<br />

0.<br />

1<br />

) dT<br />

dove PVRS è lo spettro di risposta in pseudovelocità e μ è lo smorzamento , T è il<br />

periodo di vibrazione; lo spettro di risposta è definito come la risposta massima in<br />

accelerazione, velocità e spostamento, di un oscillatore elementare, caratterizzato da<br />

diversi periodi di vibrazione, all’applicazione di un accelerogramma.<br />

ANALISI PUNTUALI<br />

Nel caso invece si debba analizzare un singolo movimento franoso, in condizioni<br />

statiche, il metodo più utilizzato è quello dell’equilibrio limite noto come metodo dei<br />

conci. Tale denominazione discende dal fatto che, utilizzando dei piani verticali, il<br />

corpo di frana, di forma generica, viene suddiviso in strisce di spessore non<br />

necessariamente costante, ma comunque sufficientemente piccole da poter ritenere<br />

uniformi, lungo la porzione di superficie di scivolamento appartenente ad ogni striscia,<br />

la distribuzione di tensioni totali e la pressione interstiziale. Con tali metodi si individua<br />

il fattore di sicurezza Fs, dato dal rapporto fra la resistenza a taglio del terreno in esame,<br />

definita dal criterio di rottura di Mohr-Coulomb, e la tensione tangenziale mobilitata. Il<br />

fattore di sicurezza viene assunto costante lungo l’intera superficie di scivolamento<br />

(Fig. 82).<br />

Fig. 82 – Schema di suddivisione in conci di un corpo franoso e forze agenti su un<br />

concio<br />

In particolare il valore del fattore di sicurezza è dato da:<br />

1 (c b + (W - u b) tanφ) secβ<br />

Fs = -------- Σ --------------------------------<br />

Σ W sinβ 1 + tanβ tanφ<br />

--------------<br />

Fs<br />

dove è necessario determinare per via iterativa la soluzione. E' possibile considerare la<br />

presenza di acqua dopo aver determinato la pressione u lungo la superficie di<br />

156


scivolamento oppure è possibile definire la stessa pressione attraverso il coefficiente di<br />

pressione neutra ru.<br />

In condizioni pseudostatiche, i metodi disponibili consentono il calcolo del<br />

coefficiente di accelerazione orizzontale critica Kc: ciò equivale a determinare<br />

l'intensità massima delle azioni statiche orizzontali equivalenti al sisma che comportano<br />

un fattore di sicurezza unitario lungo la linea di scivolamento e alle pareti interconcio<br />

(Fig. 83).<br />

Fig. 83 – Schema di suddivisione in conci di un corpo franoso e forze agenti<br />

Il fattore di sicurezza è definito ancora come rapporto tra resistenza al taglio<br />

disponibile e mobilitata. E' anche possibile estendere l'analisi considerando un<br />

predefinito fattore di sicurezza maggiore di uno al fine di determinare il corrispondente<br />

coefficiente moltiplicativo Kc, dato da:<br />

dove:<br />

a n + a n-1 e n + a n-2 e n e n-1 + ... + a 1 e n e n-1 ...e 3 e 2<br />

Kc = -------------------------------------------------------------------p<br />

n + p n-1 e n + p n-2 e n e n-1 + ... + p 1 e n e n-1 ...e 3 e 2<br />

W i sin(φ i -β i )+R i cosφ i +S i+1 sin(φ i -β i -δ i+1 )-S i sin(φ i -β i -δ i )<br />

a i = --------------------------------------------------------------------------------<br />

cos(φ i -β i +φ * i+1 -δ i+1 )secφ* i+1<br />

W i cos (φ i -β i )<br />

p i = -------------------------------------<br />

cos(φ i -β i +φ * i+1 -δ i+1 )secφ* i+1<br />

cos (φ i -β i + φ * i - δ i ) secφ* i<br />

e i = ------------------------------------------<br />

δ<br />

bi<br />

cos(φ i -β i +φ * i+1 -δ i+1 )secφ* i+1<br />

α<br />

Kc Wi<br />

Ni<br />

Wi<br />

Ti<br />

Xi<br />

Zi<br />

Ei<br />

157


R i = c i b i secβ i - U i tanφ i<br />

S i = c * i d i - PW i tanφ* i<br />

dove U è la risultante delle pressioni neutre alla base del concio, d è la lunghezza della<br />

base del concio e δ è l’angolo di inclinazione della parete interconcio, i parametri<br />

geotecnici con gli asterischi si riferiscono alle caratteristiche di interconcio.<br />

Quando Kc risulta zero, il coefficiente di sicurezza assegnato coincide con quello<br />

calcolato in condizioni statiche.<br />

Anche in questo caso la pressione dell'acqua può essere considerata definendo il<br />

livello della falda o attraverso il coefficiente di pressione ru.<br />

In condizioni dinamiche uno dei metodi che può essere utilizzato è quello<br />

proposto da Newmark (1965) che approssima la frana ad un blocco rigido che scivola<br />

lungo una superficie scabra, con angolo di attrito φ, a causa di una sollecitazione alla<br />

base. Le principali caratteristiche del metodo sono riassunte nei punti seguenti (Fig. 84).<br />

y<br />

M at<br />

z<br />

Fig. 84 – Schema e forze agenti sul blocco<br />

Dato un sistema di riferimento x-y, considerato un blocco di massa M e peso W<br />

posto su di un piano inclinato, le equazioni di equilibrio alla traslazione, in un sistema di<br />

riferimento locale t-n, consentono di esprimere l'azione normale N e tagliante T<br />

all'interfaccia in funzione dell'accelerazione alla base normale an e tangente at e alle<br />

forze esterne applicate Ne e Te come segue:<br />

N - M an - Wn + Ne = 0<br />

T - M at - Wt + Te = 0<br />

Ne<br />

L'interfaccia è caratterizzata da un legame di tipo rigido-plastico (Fig. 85),<br />

comunemente impiegato per determinare il comportamento di giunti in masse rocciose<br />

(Farmer, 1983; Gioda, 1985). Tale legame è definito nel piano N-T da due inviluppi<br />

limite legati uno alla resistenza di picco e l'altro a quella residua. La prima, che<br />

definisce l'azione limite di primo distacco, è caratterizzata da una spezzata bi-lineare<br />

con le seguenti caratteristiche:<br />

Tlim = N tg φpk quando N < Nl<br />

Tlim = Cpk + N tg φr quando N > Nl<br />

x<br />

W<br />

M an<br />

Te<br />

158


dove con φpk è indicato l'angolo di attrito di picco, con φr l'angolo di attrito residuo e con<br />

Cpk la resistenza iniziale. La resistenza residua è data dalla retta di equazione:<br />

Tlim = N tg φr<br />

e valuta la resistenza associata a scorrimenti di grossa entità. L'andamento della<br />

resistenza di taglio T in funzione dello spostamento s, per diversi valori dell'azione<br />

normale, è schematizzato in Fig. 86. Se la resistenza di picco viene raggiunta con<br />

un'azione normale inferiore a Nl, si può produrre uno spostamento relativo<br />

accompagnato da dilatanza che si riduce al crescere dell'azione normale N, fino alla<br />

situazione limite in cui si ha il tranciamento delle asperità. Il tratto che indica questo<br />

tipo di comportamento è orizzontale e la sua lunghezza dipende dallo spostamento<br />

limite di picco spk, definito per mezzo di prove di laboratorio. Il tratto inclinato è<br />

caratterizzato dalla riduzione progressiva della resistenza, che passa dai valori di picco a<br />

quelli residui (raggiunti nel secondo tratto orizzontale), definiti dallo spostamento<br />

residuo s r e dall'angolo β, sempre ricavati da prove di laboratorio.<br />

Fig. 85 - Inviluppo limite Fig. 86 - Azione tagliante rispetto<br />

allo spostamento<br />

I risultati, ottenuti per ogni movimento franoso o per ogni area potenzialmente<br />

franosa, forniranno livelli di pericolosità a cui è sottoposta l’area in esame, in<br />

particolare i valori del fattore di sicurezza danno indicazioni sulla stabilità dell’area non<br />

considerando altre possibili cause (pioggia, terremoto, azioni antropiche, ecc); il<br />

coefficiente di accelerazione orizzontale critica fornirà invece la soglia superata la quale<br />

l’area attualmente stabile diverrà instabile al sopraggiungere di altre possibili cause<br />

(terremoti, ecc.); infine lo spostamento atteso e l’area di influenza del movimento<br />

franoso daranno una misura di quanto l’accadimento di un evento sismico può<br />

modificare la situazione.<br />

Per quanto riguarda i movimenti tipo crolli e ribaltamenti le analisi che possono<br />

essere effettuate sono di tipo statico e pseudostatico. Le fasi dello studio possono<br />

comprendere (Regione Lombardia, 2001):<br />

- predisposizione delle schede di campagna per i rilievi geomeccanici e per la<br />

definizione del fenomeno franoso;<br />

159


- prove in sito sugli affioramenti (martello di Smidth tipo L, pettine di Barton,<br />

spessimetro per apertura giunti etc.) per ogni stesa strutturale e per ogni ambito di<br />

ammasso;<br />

- prelievo di campioni per esecuzione di Point Load Test e di prove di scivolamento<br />

Tilt Test;<br />

- inquadramento geologico di un intorno significativo in scala 1:10.000 e esecuzione<br />

di sezioni geologiche e topografiche in scala 1:10.000;<br />

- classificazione degli ammassi rocciosi (Bieniawski, 1979; Romana, 1991);<br />

- descrizione e se possibile rilievo della pista di discesa e della zona di arrivo, rilievo<br />

geologico e, ove possibile, statistica dei massi al piede (dimensioni e distribuzione);<br />

- esecuzione di modelli di rottura degli ammassi su sezioni tipo;<br />

- definizione di metodi di calcolo in condizioni statiche e pseudostatiche;<br />

- esecuzione di analisi di stabilità dimensionali ed adimensionali in condizioni<br />

statiche e pseudostatiche;<br />

- verifiche di caduta massi con vari metodi e statistiche arrivi.<br />

I risultati, ottenuti per ogni movimento franoso o per ogni area potenzialmente<br />

franosa, forniranno livelli di pericolosità a cui è sottoposta l’area in esame, in<br />

particolare, verranno individuate le possibili piste di discesa e le aree caratterizzate dalle<br />

diverse percentuali di quantità di materiale crollato.<br />

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