Etiopia, 1935 Era febbraio al dodici arrivato Dell'anno ... - akinu.it

Diario del mio richiamo per la Guerra d’Africa
Francesco Congia
Etiopia, 1935
Era febbraio al dodici arrivato
Dell’anno trentacinque e chiaro ancora
Non s’era fatto il dì quando commiato
Presi dai miei e dalla mia dimora.
Per Cagliari partivo richiamato
Con quel timor che affligge e che divora.
Fu la guerra e la morte a spaventarmi
Ma più il pensiero d’invecchiar nell’armi.
(manca il n°2)
S’era levato il sol quando al distretto
Fummo in drappel da un caporal guidati
Non ero ormai più sol ma più il sospetto
Ravvisai d’una guerra e a tal chiamati.
Silenziosi arrivammo e con l’aspetto
Che non hanno i borghesi né i soldati.
Grave fu ogni un dai suoi pensieri avvolto
E pochi quelli a mostrar lieto il volto.
Ma fosser tristi o fossero contenti:
rozzi, eleganti od umili o blasoni,
semplici, astuti, magri o corpulenti,
ladri, onesti, sinceri o mascalzoni,
furon sopposti a uguali trattamenti
e messi a parità servi e padroni.
Così il Fascio dettò ma non durava
Che sotto ogni apparir tutti ingannava.
Solingo in un canton m’ero seduto
Non di lupo o leon mostravo l’ira
Ma sospiravo languido e perduto.
Tale è colui che libertà sospira.
1

Ma mi destò una tromba e ricevuto
Che ebbi il poco corredo e la mia lira
Fui messo fra la schiera ormai partente
Che salpare dovea pel Continente.
Pendeva il mezzodì quando briosa
Una banda intonò marcia gentile
Quindi si diede il passo e numerosa
Uscì la gente a riguardar le file.
E chi incontrò la mamma e chi la sposa
O fratello o sorella o di simìle
Tanto s’era scomposto il fier drappello
c’or si spezzò per questo ed or per quello.
Il porto raggiungemmo ove modesto
All’ancora restava un vaporetto.
Salimmo, ma non prima che un molesto
Reiterato avviso a noi diretto,
non riuscisse a svincolar dal mesto.
E caro abbraccio il parentale affetto
Io quel saluto insieme dolce e straziante
Non feci lì ma l’aveo fatto innante.
Ed ecco alfin dall’apice tonante
Un fischio aprirsi avvisator dolente.
Qual gemito s’infranse e alla tremante
Voce scoppiava in pianto ogni presente.
Mio padre era arrivato in quell’istante;
sol con la man gli salutati piangente.
Piano scomparve agli occhi ogni sostegno
Né vidi più dei fazzoletti il segno.
Schirru, Puddu, Garau, Lai e Mattana
Mura Demetrio ed altri autisti e tanti
Volti osservai di gioventù nostrana
Fatti genieri ed artiglieri e fanti.
Così scendea la sera e non lontana
2

l’ira del mar, turbando i naviganti,
con l’impeto del vento a increspar l’onda
incominciava e a flagellar la sponda.
Fatto pietoso io soccorrendo andai
Da prora a poppa e i più depressi miro.
Color di morte aveva Livio e Lai.
Ma nella stiva era il maggior martiro.
Io non so dir perché non vomitai
Né mi sentivo un solo capogiro.
La bufera cessò quando vicina
Era a venir la brezza mattutina.
Poi il gran velario della notte oscura
Sparve e levossi il sole e avanzò l’ora
Quando apparì la bocca mai sattura
Di quel Vesuvio che Pompei affiora
Quindi gli scogli e le ben chiare mura
Vidi apparir della città canora.
Mancava poco al mezzodì che scorto
Già non si fosse e messo il piede in porto.
La via prendemmo faticosa e lenta
Per giunger quindi ad una scuola antica
Dove della città la più scontenta
Parte rimane e più del vizio amica.
Là fummo chiusi e là Puddu diventa
Ardito e in gioco pon rischio e fatica
Alfin che evader possa ed io con lui
Condividendo il rischio uscito fui.
Molto girammo e poco ristorati
Da locanda si uscì poco accogliente.
Quando alla base fummo rientrati
Il duo fuggiasco era segnato assente.
Sì, poiché i nostri in gruppo ormai guidati
Furono alla stazione e già scadente
3

Era l’orario che partisse il treno
Decisimo che fare in un baleno.
Ratto più che il pensier si mosse il piede
Che per niente o legger premeva il suolo
Meravigliato ogni un che guarda vede
Il nostro uguale irrefrenabil volo
Si raggiunse però che non si crede
Sudando tal come di fonte è scolo
Viepiù quel treno allora allor partiva
Ma ad aggrapparsi ogni un di noi arriva.
Così lasciammo Napoli e il velario
Sceso già della notte e il rumor spento
Quando scendemmo a Foggia e non contrario
S’avviava ogni un cercando alcun contento
Rientriam compatti e sovra altro binario
La via prendemmo e all’or che il firmamento
Il bel chiarore al nuovo die prepara
Noi giunsimo alla volta di Pescara.
Breve sosta a Pescara, ahi troppo breve
Sol per voler mirar cos’altre e nuove
E come accade a chi mai stanco deve
Muovere il pie’ per goder meglio altrove
Così partimm’ ma quella sosta lieve
Altro desìo non è che la rimuove
Male facemmo allor che potea farci
Andarne presto via e non fermarci.
Un’ora passò appena e al guardo nostro
Chieti appariva non ancora attesa
E qui iniziava il sanlurese inchiostro
Il diario in rima a por con dura impresa
Ch’oltre al talento ch’io non ho e dimostro
Fia per coltura la mia mente offesa
Ma piaccia il canto che dal vero è attinto
4

Resti il ricordo e l’altro vada estinto.
Chieti dunque in due parti divisa
Una sovra d’un colle, una nel piano
La miglior parte sta sull’alto assisa,
l’altra ai suoi pie’ tre miglia sol lontano
i più abitanti ha sopra e giù ravvisa
vasta pianura coltivata a grano
mandorli e prati e rari greggi e rivi
pochi frutteti vedi e pochi ulivi.
Giù la stazione: lo Scalo era nomato.
Tal come fia Sanluri Stato eretto
Di circa settecento era abitato
Con un sol bar un sol v’era alberghetto
Senza pretese vedi in ogni lato
Gente che tratta con sincero affetto
Strano fu sì che gli abitanti alpini
Di questi non sembrar neanche cugini.
Or torno a me per dir che in quella via
Che alla città conduce ero pedone
E mille fur della lentezza mia
Passi scontati dopo la stazione
Un cancello incontrai e qual magia
Dentro mi spinse e mi rendea prigione
Volente ormai né gioia più né oblio
Né più padrone ero del pensier mio.
Quadriforme preciso era il locale
Mal difeso di tetti ed aperture
Per cui la brina di color letale
Tinse ogni volto e fur le notti dure.
Selciato il suolo e fetido e brutale
Quel poco fien pieno d’urinature
E litigammo per quel po’ di fieno
Che ne avea poco l’uno e l’altro meno.
5

Fredde ed insonni qui le notti andaro
E i dì seguian con duplice tormento
Medicina era l’acqua e più che raro
Pessimo e scarso ne era il nutrimento.
In cotal modo e più insensato e amaro
Fummo trattati in quel distaccamento.
Natal chiamossi il capitano egregio
Che solo avea di ladronare il pregio.
Già del sedici aveva il mattutino
Dì atteso sole i dolci rai concesso
Quando passò il cancel Carta Gavino
E Fadda e Manda insieme fecero ingresso.
Pais ed Angioni non mutar destino
Ma venner qui degli altri poco appresso.
Pallidi furo e dubbiosi e frali
Chiedendomi di tutto e beni e mali.
Così risposi: o cari amici, avrei
Nel tenebroso regno anche goduto
Poscia che accanto a voi io non potrei
Negar la gioia a cui or son caduto.
Ma non so dir di quale error siam rei
Per quanto qui sia i vivere temuto
Audacia occorre e resistenza e freno
Molta sopportazione e cuor sereno.
E di quanto bramate or la risposta
Mirando sol dai vostri lumi avrete
Io vi ripeto è ogni cosa e tosta
Se voi temprati a sofferir non siete
Sol fratellanza qui non si discosta
Conforto umano a cui spirar potrete
Il resto a Dio che Sua bontà fia solo
Se resistiamo e non moriam di duolo.
6

Esultando il passato e la speranza
Dell’avvenir, tolto da rio destino
Passammo il tempo e più la lontananza
Dai cari affetti prolungò il cammino.
Fummo borghesi ancor ma l’eleganza
Mancava a noi e più mancò il soldino
Ridotti i panni fetidi e molesti
Il cinque marzo ci cambiar le vesti.
Quindi, ad ogni un la branda consegnata
E due coperte da gran tempo attese,
Men dolente passava ogni serata.
Così passò, passò di marzo il mese.
April entrava e Pasqua era aspettata
Poiché licenza a ogni un di noi cortese
Desse il comando e la rendea a coloro
Che ben dall’urna sorteggiati foro.
Infatti l’urna s’apprestò immettendo
Tanti biglietti quanti fummo in lista
Poi se ne trasser soli dieci essendo
Licenza a dieci in numero prevista
Fu proprio qui che il nome altrui sentendo
Scelto dalla fortuna altri s’attrista
Lesser l’ottavo e fui tremante anch’io
Ma prima uscì di Livio il nome mio.
Precipitando dalla gioia vinti
Partimmo a Roma coi quattrin contati
Da molti fummo desideri avvinti
Ma fu forza da tutto esser privati
Cercando alloggio c’eravam sospinti
Fino ad un loco ostello di soldati
Dormimmo della guardia in un lettino
Privo di materasso e di cuscino.
7

‘Dormimmo’, ho detto? No, sonno non era
Né fu riposo e né saria capace
Qui a riposar poco nutrita fera
Od orso bruno o abitator mordace.
Tarda l’alba spuntò ma men severa
Ci trova in piè per la città loquace.
Per ultimo lo zoo fu visitato
E fu per l’una il mezzodì passato.
Da sedici ore a reclamare il vuoto
Sacco sentimmo e indebolirsi il piede
Sol bevend’acqua l’intestino a nuoto
Non regge l’anca e più la gamba cede.
Io più d’un pane comperar non puoto
Né Livio il può, che di qualcosa eccede.
Giusto mi disse: il prezzo del biglietto
Prima paghiamo e poi farem banchetto.
Qui ricordar l’egregio capitano
M’è doveroso e sono a farlo grato.
Parlo di un tal che con gentile mano
Capendo pria, s’era di noi curato.
Egli fia sardo e non fu no romano:
Mura il cognome e Giuseppin nomato.
Tanto prestossi e fu per lui che il treno
Prendemmo direttissimo ed ameno.
Quindi Civitavecchia e quindi a bordo
Di picciol nave ci imbarcammo in fretta
Col suono dei motori al sommo accordo
L’eco del caldo in armonia perfetta
Il fischio mi svegliò profondo e sordo
Al giunger della terra mia diletta
Mi sciolsi e sollevai, corsi sul ponte
E vidi gaio sì d’Olbia la fronte.
Sbarcammo ad Olbia e in telegramma avviso
8

Fu dato ai nostri e poi prendemmo il treno
E a San Gavin Livio da me diviso
Io con i miei tornai felice appieno
Ma un profondo pensiero ed improvviso
Venne a turbar lo stato mio sereno
E fu il dolor che separarmi ancora
Doveo dai miei e soffrir pria dell’ora.
E intensamente uguali a me d’affanno
Fur presi i miei che non tornai congedo
Né sanno il pianto trattener né sanno
Fingere in volto e come io lor vedo
Non valse sforzo né tentato inganno
Né io perdono a quel umor concedo
Sebben fu certo che alla guerra andassi.
C’è vita e morte ovunque ogni un si trassi.
In cotal mo’ la Pasqua ebbi trascorso.
Meglio per me non fossi allor venuto!
Ma più pensai che tosto nel rimorso
Non rivedendo i miei cari caduto
Con Livio riprendemmo ugual percorso
Sol più veloce l’avevam compiuto
Mal volentieri tornando e l’esser tali
Anche sembrò che il treno avesse l’ali.
Mesti il cancel passammo e più che muti
Trovammo i nostri amici al paragone.
Sotto i più gravi insulti i più molesti
Voi sopportate, dissi, e niun s’oppone?
Tu fosti o penna mia che allor facesti
L’esposto al comandante di plotone
E fu per te che il mutamento avvenne
Libera uscita e rancio buon s’ottenne.
Ma a fabbricar latrine e alzarmi presto
E far la guardia e correre in cortile
9

A me non piacque e perciò io mi arresto
E il male accuso al fondo del sedile
Né dalla branda io più mi muovo o desto
Né riesce alcuno a rendermi servile
Sergente Buffo e capitan Natale
Con la vostra arte non curo il mio male.
S’udiva intanto il solito bisbiglio
Intorno all’Etiopia, e più frequente
S’era avvertito che a trattar conciglio
Già rinunciò l’Italia all’oriente
Noi da Chieti il volontario esiglio
Chiedemo all’ora e non negò un tenente
Che vol comporre una sezione e poi
Pronti a partir fummo pei liti Eoi.
L’alba del dieci giugno ancora non era
Ben chiara e meno del Gran Sasso al monte
Apparve il sole a mitigar l’altera
Aura di gelo che tien sempre in fronte
Quando avvisò una tromba e nostra schiera
Venne guidata ver nuovo orizzonte.
Il tren prendemmo e un’ora sol mancava
Al mezzodì che a Napoli s’entrava.
Lungi della città ci avean portati
Loco che fu di palafren magione
Qui da pidocchi e cimici assaltati
Fummo e da pulci e topi a profusione
Sul duro suol dormendo ed affiaccati
Da cotal peste, chi può mai campione
Trovar che provi e vinca gli aspri duelli
E san se n’esca e non fatto a brandelli?
Tal sofferenza per due giorni atroce
La nostra schiera sopportar non volle
Ma invan levossi a protestar feroce
10

Il nostro grido appo il parlar si molle
Poi decidemmo e con men chiara voce
Le vie prendemmo del fugar satolle
Sol del partir per la notizia sola
Un rimase di guardia ed un di spola.
Passarono i due giorni e le due notti
E il terzo all’ora dieci era arrivato
Quando la spola a noi ormai condotti
Fummo nel porto al fanfarrin latrato
Da un generale in quel piazzale edotti
Venimmo sì che ogni un ormai soldato
Forte divenne e seppe che la guerra
Potea, dovea onorar la nostra terra.
Poi una nave: Urania era nomata
Crocerossina candida e diletta
S’era del nostro carico gravata
Pronta a salpar per l’Africa diretta
Fu già dal fondo l’ancora levata
E l’ora nona a rintoccar fu stretta
Ch’io come il cor con una lama aprissi
Della nave al partir piangendo dissi:
O dolce lenimento o gioia mia
Patria adorata, Italia bella e forte
Il miserabil poeta or da te via
Sen va drizzando alle nemiche porte
Ma pien d’amor lui questo addio t’invia
L’ultimo addio se questo addio vuol sorte
Addio Sardegna addio Sanluri addio
Bianco mio casolar nido natio.
Chi sa se un giorno io tornerò a vedere
L’altera fronte tua d’allori cinta?
Poiché distrutte le nemiche schiere
Saranno in armi e la battaglia vinta.
11

Ma se destino il mio tornar non chere
Sano però o sia mia vita estinta
Nel marmo in cui sarò sia messo e scorto
Dio e famiglia e patria amando è morto.
Così dicevo e già il naviglio aveva
Lo stretto di Messina già passato
Calò il meriggio e più non sorrideva
Sull’acque il sole e s’era il mar mutato
Alta era l’onda e più si dibatteva
Contro la sponda il vento incontrastato
L’ira si dileguò quando al mattino
L’isola d’Itria si vedea vicino.
S’era del quarto giorno il sol già spento
E coi suoi rai la luce ormai fugata
Quando la nave a far rifornimento
In Porto Said un po’ s’era ancorata
Alessandria d’Egitto in quel momento
S’era di mille luci illuminata
Quando la bella prora inver la mista
Acqua di Suez drizzar fu vista.
Canal che sotto i Lagidi compiuto
Rimane ancor grande opera e gioconda
Tra il suolo Egizio e l’Arabo è seduto
E di due mari l’acqua mesce e l’onda
Centoventi chilometri ho creduto
Che avesse in lungo e bass’è assai la sponda
Dieci o quindici metri ha il fondo basso
E a sol due navi apre e riapre il passo.
Stando le cose ad osservare intento
Vidi le acque ad ora ad or cangiate
E rosse e nere e di colori cento
N’avea nel fondo l’elica frugate
E notai pur l’ardito inseguimento
12

Che fero i pesci cani a grandi ondate
Nessun mai cada o qui a finire i lagni:
Va in bocca ai mostri pria che il mar lo bagni.
Sempre la nave infaticabil giva
Or sulle coste ed or sull’acque fonde
Sì che la prora il varco a lei n’apriva
Quando eran basse e quando alte le sponde
E più del sole il caldo si sentiva
E l’aure meno fresche e men gioconde
La meta ormai s’avvicinava e chiaro
Io la sentiva e niun rimase ignaro.
E infatti era di giugno il giorno venti
All’ora che il tramonto è più vicino
Che a Massaua la nave a lumi spenti
Entrò finito il lungo suo cammino.
Io girai gli occhi ad osservare attenti
E vidi cose a cui restai supino
Che se non sono in queste rime espresse
Nella memoria mia restano impresse.
Due giorni in porto stammo e poi lo sbarco
Si fece a mezzo di scialuppe e lento
Tanto di navi e merci il porto carco
Era che non entrò piede né vento
Qui con la scusa di trovarsi un varco
Fu visto il ladro a rapinare intento
Molti furo a seguir cotal mestiere
E ne combinar grosse e non leggere.
Scavalcando passammo e con meno arte
Attratti fummo a far coi ladri i folli
Presa una cassa e messici in disparte
Trovammo poi ch’eran cravate e colli
Delusi quindi verso campo marte
Andammo e del bottin non più satolli.
13

E tutto per la via lasciammo in terra
Poiché coi colli non si fa la guerra.
Ben campo di Marte il loco era nomato
Che a noi fu quinci destinato ostello
Lui di mosche e zanzare era infestato
E più di sterco e d’ogni uman flagello
Dalle bollenti sabbie e il suol brucciato.
E di febbre si bruccia ogni cervello
Invan qui trovi alcun che non deliri
Per cento crudi ed arridi martiri.
Centoventiquattresimo reparto,
centoventesima sezione autisti!
Or vi rammento e qualche rima incarto
Per nomar quanti in seno a voi vi ho visti
Ma dirò i più vicini e gli altri scarto
Ch’eran con noi meno frequenti e misti
Quelli dirò della sezione a cui
Eran devoti lor come io lo fui.
Prima i Sardi dirò che in compagnia
Furon partiti e poi farò presenti
Quelli che per la loro region natia
Son per amor di patria a noi parenti
E ciò non faccio sol per simpatia
Ma perché in vero furo i più valenti
Che in ogni caso meritaron tosto
Come dò io a loro il primo posto.
Salis, Urraci, Pais, Cossu e Mattana
Cabras e Schirru e Cambilargiu e Pala
Ed infine Garau che la lontana
Gloriosa terra di Sardegna esala
Forti di corpo e di memoria sane
Ferro direi che mai rugge e s’amala
Io gli stimai sì cari e in cor tesoro
14

Ne ho sì degli altri ma ne ho più di loro.
Segni D’angelo, Trazzi, Osle, Monini
Trasati, Cavichiol, Loddi e Murari
Del Giudice, Spazian, Buono e Savini
Pifer, Di Federico e Margonari
Peratoner, Cadrobi ed Avancini
E Rossi e Viceconte e Tavernari
Fiorini e Braut e Bronzo era il sergente
Comandante Dalò, sottotenente.
Questi gli uomini fur che la sezione
Formarono e raggiunser l’Eritrea
Per combattere a torto od a ragione
Una conquista che di tutto è rea
Ma in campo martedì a far scontro e tenzone
Contro quei mal nessun di noi credea
E benché forti fossimo e decisi
Fummo cedendo ad ora ad or divisi.
Mente, dì tu quante sorgenti e rivi
Di fresche acque sognasti in quelle arsure
Quante tua fantasia dov’eran privi
Portò sognando dolci ombre e verdure.
Ma non potesti in quelle valli e clivi
Saziar le brame o renderle men dure
Che più grande è l’imago e men sincera
Sempre nei sogni resta e mai s’avvera.
Tu stessa a dissetarmi unica fonte
Fosti sebben trovassi una fontana
Per rinfrescar la martellata fronte
Ch’è tua virtù s’ella è rimasta sana
Con le bollenti acque stagnanti impronte
Rimasta non sarìa morte lontana
Né l’intestin vuoto di cibo in piede
Sarìa rimasto senza tua mercede.
15

Qual cade infermo quando urgente aspetta
Contro il suo male il medical conforto
Se non pietosa e dotta man s’affretta
Van’è inietar salute ond’egli è morto
Tale in campo di Marte or si sospetta
Che circolar cadaveri fu scorto.
Morir di piombo o d’arco avrei ben certo
Voluto e non soffrir quel che ho sofferto.
Il tre di luglio allo spuntar del sole
Dei nostri mezzi ebbe lo sbarco inizio
Fummo noi pronti e come il caso suole
Ogni un si scelse il proprio a suo giudizio
Ma prender l’autobotte a tanti duole
Che impresa par di troppo pregiudizio
E fu il tenente che per farmi un tiro
Dell’autobotte m’obbligò il ritiro.
Ben presto al suo voler io m’accordai
Né della mal rivolta ebbi paura
Né i tristi parafanghi io paventai
Ma sol mirai dell’intestin la cura.
E, sia fortuna o sia quel che vorrai
Quella macchina fu la più sicura.
Altre lei ne passava e far di spetro
Sempre fu vista e mai lasciata indietro.
Verso Asmara il viaggio allor si prese
Giungendo a Ghinda all’or che il ciel fa bruno
Per ripide salite e vie scoscese
Passammo sì ma mai senza infortuno
Infatti Livio fu investito e rese
Gli fur le cure in sette giorni ed uno
Mentre noi proseguimmo appo la notte
Sempre per vie più dure e mal ridotte.
16

Era la via sol per salire aperta
Che per calar fu stabilita altra ara
Molti vid’io di mano meno esperta
Precipitati in valle alla malora
Van rombando i motor pria che s’avverta
Dell’alto monte il fine e la sonora
(manca la 6° notte a Ghinda)
Voce con l’eco giù le valli scende
Poi torna in alto e nuovo ritmo prende.
Già la salita, il bosco e le alte fronde
Fero i motor girar con maggior lena
E a noi tornò il respiro e le gioconde
Montagne furo a far quell’aria amena.
Seguì una lenta pioggia e poi le bionde
Orme del sol furon riviste appena
Quando ebbe fin la lunga ascesa e scorta
Fu d’Asmara e passata la sua porta.
Sta sovra il mar duemila e quattrocento
La bella cittadina in alto assisa
Soffre però lo strepito del vento
Ed è quand’è doppia la pioggia in guisa
Qualche collina al tergo io gli ramento
E arido un rio per cui ella è divisa
E gli abitanti sparsi in due quartieri
Uno ai bianchi appartiene ed uno ai neri.
Quasi di fianco ai due quartieri in giuso
Un campo fu cinto di varie piante
E con filo spinato era rinchiuso
Campo di sport ch’era sportivo innante
Questi fu dato ai militari in uso
Onde albergar le macchine del fante
Dunque a noi destinata in quella sede
Noi ci portammo e lì mettemmo il piede.
17

Fu qui che il paesan Giuseppe Usai
Aveo felicemente allor trovato
Gavino Carta e Anton Cosimo trovai
E il paesano Argiolas non soldato
Sempre con loro e con quell’altri andai
Per ogni loco avendo il piè calcato.
Tutto mi piacque allor mirar felice
Benché scriverle qui non mi sia lice.
Poco in ozio restai pria che disposto
Avesse già il comando al mio dovere
Ed indicandomi una fonte, il posto
Presi dell’acquirole al buon quartiere.
Fu il sardo Urracci caporal preposto
Di quella fonte magno dispensiere
E per lui conquistai fiducia e stima
Portando l’acqua a chi non l’ebbe in prima.
Però non passò molto che il tenente
Invidiando il mio felice stato
Oprando con le astuzie del serpente
Volea vedermi triste ed umiliato.
Mi tolse quel servizio e men clemente
Altro me ne assegnò che poi fu grato.
Il venti luglio a Nefasit scendo
E di acquarol altro servizio prendo.
La division Sabauda ivi incontrai
E fu per me l’incontro assai gradito
Perché di sardi molti ne abbracciai
Benché nel cuor di non so che ferite
In Africa, fra tanti rischi e generi
Era la sete il male più sentito.
Ma tanta è la fortuna in mio favore
Che in trovar l’acqua mi fa donatore
(lett. vedi ricopiato quaderno)
18

(quaderno vecchio, senza copertina, probabilmente originale: ne sono
stati strappati parecchi fogli)
Così il tempo passava e di Natale
La giornata silente era venuta
Turba per me, ciò che mi fu più a cale,
lettera non aver più ricevuta
e piansi amaro il tempo onde fatale
chiusemi in quella vita aspra temuta
solingo andai per la gran valle in giuso
e il pianto in dolce sonno avrò confuso.
Con l’anno che venia nova ogni sorte
Sembrò mutarsi e si mutava invero
Nuovo governatore, emulo e forte
Famoso eroe magnanimo guerriero
Venne costui e riguardò le porte
Ove il fante passar lui condottiero.
Molta astuzia ed ingegno arte si scorse
Nei guardi di costui, ne le risorse.
Sede prendeva onde di fronte intese
Adigrat alberar le poche arene
Spesso andava a veder ne le contese
Se il caro campo andasse o male o bene
E lieto ritornare ogni un lo attese
Che non mostro le luci mai serene
Molta fatica il fero guardo espresse
Quasi che come insonne egli si resse.
Ebbi occasione anch’io d’avvicinarmi
Ove disposte eran le schiere ardite
Ma tutto intorno tacque il suon dell’armi
Sì che udir non poteo dal colle mite
Però alla vista unirsi, e qui né carmi
Deggìo ben dirle, orrende assai ferite
19

Che morte aspra e crudel diedero a molti
E non fur questi, per pietà, sepolti.
Densa l’aria di mosche e di fetore
Diveniva, che il sol poco trasparve
Il respirar percosse e da l’odore
I sensi a ogni un di perdere si parve
Ed alla vista, ahimè, di quel terrore
Onde fur dolorose acerbe larve,
l’anima si scompose e la dormente
paura risvegliar fè pur dolente.
Tosto si ridestò l’aspra tenzone
Che tremarono i morti alla paura
Non trema l’Abissino anzi campione
D’audacia è qui ma cade alla tortura
E se poc’armi han questi al paragone
Mostran però la faccia anco secura
Quale mandra coppiosa egli discese
Come per ristorarsi alle contese.
Il brando adopra e la faretra e l’arco
Ed or la scimitarra in uso afferra
E chi rincontra e sia fiammingo o parco
O l fere almanco o lo costringe o atterra
Apre sicuro ogni suo colpo un varco
E in pratica di stral vinc’egli in guerra
Quasi a grandin però la piovva il caldo
Piombo della mitraglia e lo fa insaldo.
Ma che d’armi inferiore egli si incontra
Di numero di genti or perde il vanto
L’ardimento che usa, ostil rincontra
L’orror del piombo e l fa cadere affranto
Ma non pave giammai ch’anzi riscontra
Viltà fuggendo e s’assicura al canto
Più che temer la morte, ama lo sdegno
20

E vuol morir ove non salvare il regno.
Però, che il mitraglier più che si dica
Largamente di piombo invase il campo
Non valse qui, se fosse, elmo o lorica
Per esser quinci al negucin di scampo
Ratto però, quando potea, nemica
Spada scendea, chè men veloce il lampo
Ma ineguale la perdita si mira
Pari è venuto e l’ardimento e l’ira.
Pari il furor dell’un l’altro non teme
Pari è il nemico al suo nemico ardito
Si spinge l’uno all’altro e il piè gli preme
Col piede, or casca un morto ora un ferito
Il vento sovra i monti e fischia e geme
E risponde il caval col suo nitrito.
Or cade il vinto il vincitore or cade
Sempre s’apron di sangue acerbe strade.
Si vede il vincitor qui sovra il vinto
Giacer pietosamente il corpo esangue
Il cavaliero appo il cavallo estinto
Sotto il morto oppressor l’oppresso langue
E il terreno gemente essere tinto
E correre per fiumi il misto sangue.
Brivido di terrore e di tormento
Tutto ha il color di morte ogni strumento.
Crepita la mitraglia e si ripete
Il ripercoter suo fra l’aure orrende
Gli olmi ed i faggi e le superbe abete
I cedri antichi o abrustolisce o pende
Ma ne l’ore che son più consuete
Al dolce oblio la pugna si sospende
E sospesa restò ch’io men partìo
Dando per prima a quella lotta addio.
21

Ma le truppe di là mutaron posto
Cercando alla tenzon loco altrimenti
L’Amba Alagi guardato era ben tosto
Di cannoni e mitraglie e poche genti
L’Amba Aradan cercaro e di nascosto
Giunser quivi le truppe e poi i giumenti
Si seppe allora dei dum dum che l’uso
Ne fero quinci e ridestò l’intruso.
Il ventisei gennaio un male acuto
M’assalì che il pensier pur mi scompose
E per la notte intera ebbi perduto
E sonno e pace alle punture afose
Visita il dì seguente ebbi tenuto
E la visita un po’ mi ricompose
Chiesi il favor d’esser curato in chiara
Vicinanza d’amici e ne l’Asmara.
Acconsentiva il medico cortese
Che per curar fossi a l’Asmara andato
Ma per partir dal libero paese
Non avrò nessun camion ancor trovato
Ed allora pel duol che mi si rese
Di chiedere in favor mi fu toccato
Tante macchine ascesi ed, ahimè! Troppo
Soffrivo di dolore ad ogni intoppo.
Giunsi che già la notte era dormente
Ed indarno gli amici ebbi cercati
Pria ad Emanuele ed Emanuele assente
Mi fecero palese i camerati
Poscia dir’io cercai ma inutilmente
Ch’ove dormia non seppero i soldati
Qual uom che in piè più non si regge il male
Solitario ne andai all’ospedale.
22

Era la notte oscura ed il boscato
In silente piacer cupo dormiva
Andai diritto e m’incontrai serrato
In un recinto e niuna uscita offrivo
Non seppi qui d’onde mi fossi entrato
Poiché ne uscìo d’un picciol varco e viva
Di sterco una fossaccia in giù mi mena
E di qua rilevarmi io posso appena
Misto di rabbia e duol girai altronde
Ove lungi alla vista apparve un lume
Parvemi di veder per terra fronde
Secche come ha l’estate in suo costume
Calcai securo il piede e in non profonde
Acque cadeo di un turbolente fiume
Ivi credeo la morte e non volendo
Morir le braccia al presto nuoto estendo.
Mi traggo in salvo e poi salvato al pianto
Totalmente mi diedi e presi lena
Ma riposo non fu mai tanto quanto
Che quindi in piedi io mi reggevo appena
Andai però più che doglioso affranto
E il buio contro una casa ora mi mosse
Presto la riconobbi: un cane urlava
E l’abbaiare il brivido mi dava.
Uscì il padrone e quasi ad ogni aspetto
Pria che parlassi egli comprese appieno
E, che fu uom di massimo rispetto
Pur mi guidava all’ospedale in seno.
Lui sen riede lontano ed io soletto
Pallido entrai ne l’ospedal sereno
Mi addittava una guardia i molti eretti
Cameroni che avean liberi letti.
Entrai in un dei locali e ne le prime
23

Una porta mi piacque aprir securo
Ma non l’apro di già che mi si esprime
Del dentro un tuon di voce ispido e duro
Qui la maledizion uso non opprime
Né de l’onta di questi io qui mi curo
Cambiai di camerata ed indeciso
Non mi fu qui nessun rumore avviso.
La manca porta leggermente aprio
E sull’istante balenò la luce
Quivi una suora, e forse i prieghi a Dio
Spiegava dessa, a un vicin si adduce
E in grazia dell’amor suo poteo ben io
Trovar riposo ov’ella mi conduce
Dormio la notte e all’indomani gli amici
Vennero ad incontrarmi e non felici.
Poscia due giorni all’opera del duolo
La medica sapienza usò sua mano
Qui di strazio non parlo o vi sconsolo
Ma di viva dolenza apro un vulcano.
Giuseppe qui non mi lasciò mai solo
Né disviò ad Emanuel restar lontano
Che l’amicizia a prova seducente
Mi davan questi cari in Oriente.
Passava di gennaio il mese frale
Or febbraio n’enìa misto di cose
Il dodici lasciai quell’ospedale
E a Shinda un dirocato altro m’ascose
Ma qui la vita più che peggio al male
Dei cimici ei pidocchi, in doppia dose
Soffrir di fame mi facea: preffissi
D’andarmene da pria che mi guarissi.
Il quindici ne uscìo: crebbi fortuna.
Diretto ad Adigrat un camion presi
24

Che a Nefasit mi porta e, ma nessuna
Grazia mi riguardo, niuna ne intesi
E con la pancia e l’anima digiuna
Quinci per fare un tratto in treno ascesi,
ma – buon viaggio non val – rapida frana
tragge il tren dal binario e l’allontana.
Un contra l’altro i passeggieri appesta
Che vibrante fu l’urto oltre maniera
Gridaron tanti e in suono di tempesta
Quell’alti gridi infievolir la scena.
Ma per grazia nessun morto si attesta
Nol esse qualche ferita era leggera
Io nessun mal mi riportai per cui
Sovra ad ogni altro uom cascato io fui.
Tosto altro treno al buon soccorso accorse
Che mi guidò all’Asmara e la tard’ora
Non fe’ trovarmi albergo e alle risorse
Messi il pensiero a ripensare ancora
Qui de l’arma reale uno – che forse
Non amo già – mi fie presente allora
Costui mi die’ le sue vestigia ed io
Entrai regale ove lui tenne oblio.
Alla guardia disinvolto il nome
Che fu mio stesso esato, allora diedi
Ma variato però di quale e come
Quinci fossi arrivato o a carro o a piedi
Entrando in cameron drizzai le chiome
Che v’era un marescial d’oscuri chiedi
Esser voleva d’ispezione e chiese
Ma cose ch’io già rispondea cortese.
Non lui risposi già che la menzogna
Sempre nemica acerrima del Nero
Ben ordita di sgombro alla vergogna
25

Fece tutto apparir chiaro e sincero
Alfin che per lei stessa io la rampogna
Feci d’un letto qui benché uom fero.
Per non cader svagato, anzi l’aurora
Fuggìo di là cercando altra dimora.
Livio ritrovo e lui d’offrir s’ingegna
Riposo a me ne la seguente notte
E con Giuseppe Emanuel si degna
Di venirmi a trovar con l’autobotte
Il giorno appoi, che di partir fu degna
L’ora del sol, presi accomiato e rotte.
Le dolci compagnie giunsi in ritardo
Perché il viaggio fu pigro oltre che tardo.
Scese la notte oltre l’usato oscura
Che di bosco o montagna ombra non diede
Ma il buon guerrier, che d’espugnar le mura
Ora le par, calcò il sentiero il piede
E de l’Amba Aradan va più secura
Parte ne toglie e i negri abbatte e fiede
Brilla nella vittoria ed oltre passa
Ma impunito il nemico egli non lassa.
Tornai il ventotto alla cittade altera
E in servizio con Schirru andai compagno
Ma, che felice stato!, aveo maniera
Di fare il buon gagà se altro non piagno.
Restai quindici giorni alla sincera
Lealtà che m’offeriva il furbo ristagno
Mi fecero pianton poi dei sergenti
Poco rimasi e non contavo i venti.
Presi di Schirru il buon servizio e lui
Tornò attendente ove da pria s’elesse
Ma più di vagabondo allora io fui
Che niuno, o pochi, Asmara resse
26

Per la gioia dell’acqua andai la cui
Non mi potea librar de le promesse.
Pasqua s’en venne e quasi ebbri raccolti
Tutti gli amici fummo e i voti sciolti.
Intanto il campo invitto in auto ascese
Gli autisti han qui d’onor fama primiera
Non per strade dirotte e per scoscese
Che portan fino alla città che impera
Sen ofriva April così, Maggio cortese
Entrava e il quarto giorno entrò la schiera
Alla città che si credea potente
Ma che invece non val proprio niente.
Il cinque maggio a sofferente prova
Martellato di febbri io caddi a letto
E non giova riposo e non mi giova
Ch’altro dolor non i percotte il petto
Ma a forza d’iniezioni il venti trovo
Guarito il mal dal quale io fui affetto
Gli amici tutti all’epoca ammalati
L’un dopo l’altro furo e consolati.
Il sedici di luglio altro soffrire
Sovra l’anima mia si poggiò tosto
Di qual mal si trattasse io non so dire
Che fu di cose varie composto
Entro il mese di luglio esso guarire
Volse e sano rientrò il mese d’agosto
Questi il ventun cosa fatal mostrava
Ed è bene si dica in un’ottava.
Allegra mensa si facea in campagna
Onde Urraci pel vin guasto parlava
Rievimo tardi ed io la mia compagna
Anacetina presi e lui mi seguitava
Ma, che passò altrimenti onde si stagna
27

L’acqua giù sempre turba, egli affondava
E tutte de la notte aure, procelle
Egli raccolse e ne restava imbelle.
Io lo salvai ma la salvezza il premo
Col farne e il sacrificio avea pagato
Bugie viepiù che non si dice estremo
Se non son quelle ond’io fui allagato
Tanto feci però che con supremo
Trionfo uscì da quel dolente prato
Al regno del mio cor tornò la pace
Mentre da le bugie tutto si tace.
Sol per capriccio il primo ottobre intesi
Di reparto cambiar con varia scusa
Usai la lingua e poi la lingua presi
La penna e qui si giova ogni un che l’usa
Sempre però bugiardo i vari pesi
Delle bugie tornar veri all’accusa
Che chi sa bene ordir ben si discolpa
Fa cader sovra gli altri ogni sua colpa.
Al reparto giganti onde aspiravo
Con un finto cugin m’ero assestato
Questi fu Pes che come tale amavo
E con lui il tempo un po’ passai beato
Ma di settembre il sei sol mi restavo
Che felice ne andò lui congedato.
Chiesi Emanuel ch’amai già tanto e reso
Venne costui dagli altri acondisceso.
Qui Mele Salvator conobbi e Piano
Qui Falchi e qui Murgioni a me novelli,
qui Sainas conobbi e de la mano
qui sfuggir non mi lasso oltre che quelli
e quinci e quindi a ritrovar lontano
gli amici andai che mi sembrar fratelli
28

Schirru e Dessì rincontro e Cuccu allora
Cosin che ne l’Asmara avea dimora.
Natal sen venne e non mi diè allegria
Che solingo rinchiuso ero rimasto
Più che tristezza il cor malinconia
Mistico pianto mi rendeo di pasto
Del trentasette e l’anno che venìa
Di noia e di malor mi fu sovrasto
S’accomiatava Emanuele e solo
Io non restai ch’aveo compagno il duolo.
Mentre qui mi rinforza il suon dei carmi
Sì che intessa i ricordi ai merti tuoi
Dimmi lo strazio e il duol che puoi mostrarmi
E come ingiusto congedar gli eroi
Pria rimpatriar chi venne dopo a l’armi
Chi venne pria rieder vederlo appoi
Troppa l’ingiuria ogni rimasto udiva
Ch’empio nel cor più d’un dolore apriva.
Tanda, Cosino, Usai preser commiato
Puddu, Carta, Currel sen gìo da pria
Cabras, Urraci, Atzoni e insieme andato
In congedo Campagna allor sen gìa
Schirru de la mia sorte era nomato
E con Schirru Garau non si partìa
Fortuna ugual che d’egual laccio lega
E conforto e speranza al desir niega.
Passò gennaio e di febbraio il mese
Entrava in ogni suon tristo e noioso
Ma pur passava e poi le vilipese
Giornate marzo dischiudea ritroso
Santo giorno di Pasqua acondiscese
Ma il dover di cristian far pur festoso
Lo feci e per chiamar lode e perdono
29

Questi versi contai umile in tono.
O Tu, Signor, che all’anima discendi
D’un misero mortal che ti ha piagato
Deh con tutta pietade i prieghi intendi,
ch’io ti sciolgo devoto ora soldato.
Dell’altar de la luce ove risplendi
Deh, mi volgi i tuoi lumi e fammi amato.
Di tua benedizion mi placa il core
Che ti fu sempre ruvido offensore.
Chi, nel silenzio, placida non sente
La Tua voce, o Signor, quando perdoni
Chi con la grazia tua non ha presente
Ne l’anima la pace che Tu doni,
Ma deh!, consola pur chi resta assente
Al mio chiamar di Tue benedizioni,
reggi contro ogni male ogni creatura
e fa che l’alma mia si serbi pura.
Poscia il santo dovere e il cibo preso,
Che fu alimento del distinto giorno,
Partissi in viaggio e qui m’avevo intero
Un mal che, acuto, mi facea discorno
Mi fu forza seguire il corso offeso
Che sol tre giorni eppoi feci il ritorno
Mi visitai: lui non conobbe il male
Malattia rifunesta tropicale.
Coscienza che in alcuni o tutta o quasi
Manca ai visitator dei sofferenti
Questi, non sol uom sa, ma varia i casi
E varie mire medicine e unguenti.
Alfin, che il mal gravossi, io non rimasi
Sotto sua cura e fui ito altrimenti
Riconosciuto allor per l’ospedale
Andai diurno e mi curava il male.
30

La macchina versai ma per dormire
Gramo pensiero mi venne e la coscienza
Di due grulli masnada or diferire
Vo pure in rima con la mia pazienza.
Uno è il nemico primo il cui morire
Volentieri lo guarda in non sapienza
Non ebbe mai pietà pari al secondo
Che comandò il reparto e ne fu immondo.
Molto affetto Gavino a me prestava
E sacrifici fece in mio aiuto
Tanta fu sua pietà che mi inondava
Il cor di comozione e nol rifiuto.
Ch’anzi, fra amici un sol pensier mi dava
Qual che Mattana stessi in lui vedendo
O di Garau ch’abbi prezioso il core
Di Schirru insomma il suo medesmo amore.
Con la partenza ch’ebbe fatta aprile
I miei fisici mali eran fugati
Entrò maggio però poco gentile
Che d’ingiurie i suoi dì furon placati
Pochi accennò congedi, e in atto vile
Tanti il diè però non meritati
Tentavo allor di liberarmi infine
Che dirlo non potrò più ne le ruine.
Mistico tempo d’ingiustizia pieno
Sazio di duolo e di malinconia
Se ti ricordo provo un tal veneno
(nota aggiunta: giorno e notte- sempre in pena Musica che veleno)
Che mi rode nel cor come follia
Tu non sei canto da cantar sereno
Né musica sei tu d’alta armonia
31

Forse parole degne a te preparo
Che se ricordo è il ricordarti amaro.
Maggio il cinque m’offerse ispido male
Che di febbri e di tosse era condito
Duolo a le ossa viepiù che il corpo frale
M’ebbe per vari giorni addolenzito
Ma il nove dolce una novella a cale
Tal mi die’ che per lei m’ero guarito
L’ora fu giunta e dal venir tardiva
Doppia luce di gioia scaturiva.
Ora letizia che al rintocco cedi,
serenissimamente alto consolo
altro ormai non conosci, altro non vedi
ultimo a congedar di questo duolo
e risonando garrula congedi,
chi per primo chiamasti, ultimo e solo
ebben: pari all’altezza, il core pari,
di gaudio e d’allegria tu mi rischiari.
Il ventotto partissi. Ebbero quelli
Drizzati alla stazion gli allegri fanti
Io che fui scritto a gli ultimi drappelli
Ultimo e a piè gito cogli altri innanti
Solo i primi in camion andar: noi felli
A piè restammo e ne restar poi tanti
Ma pensando di porre ora confine
Sì fra festanti l’ultime ruine.
Mele molto piangeva e il suon dal pianto
Fragofer di Schirru lacrime di duolo
L’uno restò della amicizia affranto
L’altro preda al dolor di restar solo
Presi di loro alfin commiato e accanto
Mi riposi a dessi, che il patrio suolo
Cercava anch’egli e Pais insieme in treno
32

Uno sen venne e fummo lieti appieno.
Ott’ore di soffrir, di noia lassa
Richiedeva il viaggio in giuso preso
E non si disse un treno, ma una carcassa
Che peggio mai ha mondo e mondo è intesa
Giunti a Massaua la stazion si lascia
E a piede al porto andammo onde fu altero
Della nave sì bella ogni un diretto
Per il santo congedo al suo distretto.
Mosse la nave e da la prora un grido
Echeggiò nel silenzio all’aria oscura
Mezza notte scoccava e tra lo strido
E il fragor non s’udìa cosa secura
Così partissi e per la notte il fido
Mare fuggimmo e la cittade impura
Ebbe la nave con – Liguria il nome –
E non temea l’onde buffera a doma.
Seguissi il viaggio e men veloci indietro
Altre navi lasciammo al mar sommesso
Io l’aureo ciel che ci facea di spetro
Unico incanto riguardai di spesso
O se non questo ogni altro tempo è retro
Se non col sonno si rimedia desso
Intanto il dì ne ritraea suoi lumi
E la notte seguì dei cieli ameni.
Francesco Congia
Etiopia, 1935
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