Il nostro bisogno di multiculturalismo - Luzappy.eu
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10<br />
Chichibìo<br />
Numero 21/22 – anno V, gennaio-aprile 2003<br />
Rie<strong>di</strong>zione elettronica a cura <strong>di</strong> Palumbo multime<strong>di</strong>a<br />
Intelligenza Artificiale,<br />
multime<strong>di</strong>alità e <strong>di</strong>dattica<br />
<strong>Il</strong> paradosso della corporeità<br />
Sergio Guarente<br />
Artificiale (IA)<br />
si è affermata come <strong>di</strong>sci-<br />
L’Intelligenza<br />
plina tecnico-scientifica<br />
autonoma a partire dal 1956, proponendosi<br />
quale obiettivo fondamentale<br />
l’imitazione o riproduzione,<br />
attraverso la costruzione <strong>di</strong><br />
macchine elettroniche, dell’attività<br />
mentale umana. Infatti, le ambizioni<br />
iniziali dell’IA non si sono<br />
in<strong>di</strong>rizzate all’impresa, ingenua<br />
e impossibile, <strong>di</strong> ricostruire una<br />
creatura simile all’uomo nel suo<br />
complesso, quanto piuttosto alla<br />
simulazione <strong>di</strong> una sola parte del<br />
<strong>nostro</strong> essere: la mente, o meglio<br />
l’intelligenza computante, considerata<br />
l’aspetto più importante e<br />
caratteristico dell’uomo. <strong>Il</strong> computer<br />
è stato pertanto innalzato<br />
dall’IA degli inizi a “metafora della<br />
mente”, in grado <strong>di</strong> illuminare<br />
i vari aspetti del pensiero, compresi<br />
quelli più complessi e flessibili.<br />
In particolare, l’IA classica<br />
ha cercato <strong>di</strong> esprimere in forma<br />
algoritmica tutte le conoscenze e<br />
tutte le abilità, comprese quelle<br />
legate al senso comune che ci<br />
guidano nell’agire quoti<strong>di</strong>ano,<br />
per poi tradurle in programmi<br />
<strong>di</strong> computer. In realtà, dopo gli<br />
entusiasmi iniziali, questa trasposizione<br />
si è rivelata assai problematica:<br />
mentre il livello del pensiero<br />
logico-formale (considerato<br />
il più alto) è stato raggiunto in<br />
tempi abbastanza rapi<strong>di</strong>, il livello<br />
del senso comune (considerato<br />
il meno importante) si è rivelato<br />
il più <strong>di</strong>fficile da programmare.<br />
Le realizzazioni dell’IA degli ultimi<br />
quarant’anni hanno condotto<br />
a notevoli successi (abbiamo<br />
a esempio dei computer ottimi<br />
giocatori <strong>di</strong> scacchi), ma anche<br />
a cocenti delusioni (si pensi all’incapacità<br />
dei sistemi esperti <strong>di</strong><br />
padroneggiare il linguaggio naturale<br />
o <strong>di</strong> reagire adeguatamente a<br />
situazioni nuove ed impreviste).<br />
Molti ricercatori hanno ormai<br />
maturato la convinzione che, al<br />
fine <strong>di</strong> replicare compiutamente<br />
l’intelligenza umana (ammesso<br />
che questo sia lo scopo dell’IA),<br />
anche le macchine intelligenti<br />
non possano fare a meno dell’equivalente<br />
<strong>di</strong> un corpo con tutta<br />
la sua attività cognitiva profonda<br />
ed almeno in parte probabilmente<br />
non algoritmica. Se infatti<br />
un’intelligenza <strong>di</strong>sincarnata è da<br />
considerare limitata ed incompleta,<br />
una simulazione sod<strong>di</strong>sfacente<br />
dell’intelligenza naturale potrà<br />
forse realizzarsi soltanto andando<br />
oltre la riproduzione degli aspetti<br />
simbolici e formali della cognizione<br />
umana, attraverso l’aggiunta al<br />
“calcolatore-cervello” <strong>di</strong> un “robot-corpo”<br />
che possa immergersi<br />
nell’ambiente.<br />
La “rivalutazione del corpo”,<br />
che accomuna alcune delle principali<br />
critiche filosofiche dell’IA<br />
classica, può dunque in<strong>di</strong>rizzare<br />
verso nuovi orizzonti le realizzazioni<br />
nel campo dei calcolatori<br />
<strong>di</strong>gitali, nella prospettiva dell’acquisizione,<br />
da parte delle future<br />
macchine intelligenti, <strong>di</strong> una<br />
maggiore flessibilità ed adattabilità<br />
alle situazioni attraverso un<br />
corpo artificiale. E tuttavia, le<br />
o<strong>di</strong>erne tecnologie multime<strong>di</strong>ali<br />
sembrano prefigurare un tale scenario,<br />
nel senso <strong>di</strong> favorire processi<br />
<strong>di</strong> pensiero in qualche modo<br />
legati alla sensorialità, anche<br />
se filtrata, raffreddata e trasmessa<br />
dalla virtualità dei me<strong>di</strong>a elettronici.<br />
Ci troviamo <strong>di</strong> fronte ad un<br />
nodo importante della riflessione<br />
più recente sull’IA e le sue implicazioni<br />
pedagogico-<strong>di</strong>dattiche,<br />
ossia al vero e proprio paradosso<br />
del modello computazionale<br />
che per così <strong>di</strong>re “tra<strong>di</strong>sce” se<br />
stesso e si propone come “immersione”<br />
nel sensorio globale,<br />
nella corporeità<br />
sia pure tradotta<br />
dalla tecnologia<br />
informatica. In<br />
altri termini, la<br />
recente <strong>di</strong>scussioneconcernente<br />
le potenzialità<br />
dell’IA<br />
sul piano pedagogico-<strong>di</strong>dattico<br />
si è in<strong>di</strong>rizzata<br />
ad un chiaro e<br />
paradossale collegamento<br />
tra il<br />
computer – inteso<br />
come strumentomultime<strong>di</strong>ale<br />
– e i processi <strong>di</strong> conoscenza<br />
e <strong>di</strong> appren<strong>di</strong>mento riconducibili<br />
al vissuto. Sulla scorta dell’in<strong>di</strong>rizzo<br />
teorico definito teoria della<br />
complessità (che annovera autori<br />
come Edgar Morin, <strong>Il</strong>ya Prigogine,<br />
Francisco J. Varela), è possibile<br />
parlare <strong>di</strong> una vera e propria<br />
conversione a livello pedagogico<strong>di</strong>dattico<br />
del modello computazionale,<br />
tipico della tecnologia<br />
informatica ed elettronica, in modello<br />
dell’apertura al corporeo.<br />
Una <strong>di</strong>dattica rinnovata dovrebbe<br />
infatti, secondo alcuni stu<strong>di</strong>osi,<br />
puntare al superamento – o quanto<br />
meno all’integrazione – del<br />
tra<strong>di</strong>zionale appren<strong>di</strong>mento cerebrale<br />
(fondato sull’astrazione)<br />
« le nuove<br />
frontiere dell’IA<br />
permetterebbero<br />
la realizzazione <strong>di</strong><br />
una nuova <strong>di</strong>dattica<br />
centrata sulla<br />
valorizzazione<br />
del corporeo »<br />
in favore <strong>di</strong> un appren<strong>di</strong>mento<br />
corporale (fondato sull’immersione).<br />
È questa la tesi <strong>di</strong> fondo<br />
<strong>di</strong> Roberto Maragliano, tra i più<br />
entusiasti sostenitori <strong>di</strong> una sorta<br />
<strong>di</strong> scompaginamento dei processi<br />
dell’educazione e dell’istruzione<br />
legati al testo scritto ad opera delle<br />
tecnologie au<strong>di</strong>ovisuali e multime<strong>di</strong>ali.<br />
Secondo Maragliano,<br />
andrebbe in primo luogo combattuta<br />
la pretesa<br />
che l’unica<br />
forma <strong>di</strong> conoscenza<br />
“valida”<br />
sia rappresentata<br />
dalla comunicazione<br />
scritta o<br />
monome<strong>di</strong>ale. <strong>Il</strong><br />
prevalere <strong>di</strong> una<br />
concezione “gutenberghiana”<br />
nella definizione<br />
delle caratteristichedell’app<br />
r e n d i m e n t o<br />
avrebbe infatti<br />
comportato una<br />
formalizzazione<br />
ed astrazione della conoscenza,<br />
una sorta <strong>di</strong> scissione tra la componente<br />
epistemica dell’uomo e<br />
le sue <strong>di</strong>mensioni psico-sensoriali.<br />
L’opportunità offerta da una<br />
<strong>di</strong>dattica multime<strong>di</strong>ale, centrata<br />
sull’uso del computer, è appunto<br />
l’immersione del soggetto che<br />
apprende in una esperienza globale,<br />
in cui il sensoriale non sia<br />
più sacrificato al primato del pensiero<br />
astratto. Le nuove frontiere<br />
dell’IA permetterebbero proprio<br />
la realizzazione <strong>di</strong> una nuova <strong>di</strong>dattica<br />
centrata sulla valorizzazione<br />
del corporeo, in quanto il<br />
computer è una macchina in grado<br />
<strong>di</strong> attivare processi mentali e<br />
sensoriali <strong>di</strong> tipo reticolare e non<br />
sequenziale, quin<strong>di</strong> non riconducibili<br />
semplicemente alla logica<br />
formale e “calcolante”.<br />
Lo strumento fondamentale <strong>di</strong><br />
tale rinnovamento sembra essere<br />
l’oralità secondaria della nostra<br />
era elettronica, che al tempo stesso<br />
rimanda e si oppone all’oralità<br />
primaria precedente la scrittura.<br />
<strong>Il</strong> <strong>di</strong>battito che si è aperto negli<br />
ultimi anni in Italia, relativamente<br />
all’introduzione delle nuove<br />
tecnologie informatiche ed elettroniche<br />
nella scuola, si è incentrato<br />
in buona misura proprio<br />
sulla nozione <strong>di</strong> oralità secondaria<br />
in rapporto alla scrittura ed<br />
alla testualità del libro a stampa.<br />
Da un lato, i sostenitori più o meno<br />
entusiasti – a partire appunto<br />
da Maragliano – delle opportunità<br />
connesse alla “tecnocomunicazione”<br />
intendono l’esperienza<br />
multime<strong>di</strong>ale (ed iperme<strong>di</strong>ale)<br />
come luogo della flui<strong>di</strong>tà e dell’interattività,<br />
come privilegiamento<br />
dell’affettività del vissuto,<br />
troppo spesso <strong>di</strong>sconosciuta dalla<br />
modalità epistemica del pensiero<br />
rappresentata dalla scrittura; le<br />
immagini e i suoni, proponendo<br />
la possibilità <strong>di</strong> nuove pratiche <strong>di</strong>dattiche<br />
legate all’“immersione”<br />
nel contesto, valorizzerebbero<br />
il ruolo attivo del fruitore, non<br />
più passivo utente del messaggio<br />
monome<strong>di</strong>ale e uni<strong>di</strong>rezionale<br />
(autore-lettori) del libro a stampa.<br />
Dall’altro, abbiamo coloro<br />
che invece tendono a sottolineare<br />
i rischi e gli svantaggi sul<br />
piano educativo <strong>di</strong> una adesione<br />
acritica alla <strong>di</strong>mensione multime<strong>di</strong>ale<br />
dell’IA: se infatti il computer<br />
è, in misura crescente, uno<br />
strumento utilizzato per vedere<br />
immagini e una parte essenziale<br />
della multime<strong>di</strong>alità consiste<br />
nella sostituzione del testo scritto<br />
con immagini, non è affatto scontato<br />
che tale sostituzione implichi<br />
un effettivo arricchimento delle<br />
modalità comunicative; paradossalmente,<br />
proprio la “cultura<br />
delle immagini” comporterebbe<br />
una forma <strong>di</strong> comunicazione uni<strong>di</strong>rezionale<br />
(mentre, come si è<br />
visto, i fautori “entusiasti” della<br />
<strong>di</strong>dattica multime<strong>di</strong>ale imputano<br />
piuttosto al testo scritto il carattere<br />
dell’uni<strong>di</strong>rezionalità). Queste<br />
in<strong>di</strong>cazioni – espresse ad esempio<br />
da stu<strong>di</strong>osi come Lucio Russo<br />
e Tomás Maldonado – hanno<br />
senz’altro il merito <strong>di</strong> introdurre<br />
nel <strong>di</strong>battito in corso un appello<br />
a non <strong>di</strong>menticare l’importanza<br />
della razionalità formale-scientifica<br />
come strumento fondamentale<br />
<strong>di</strong> analisi ed interpretazione<br />
della realtà, da non abbandonare<br />
in favore <strong>di</strong> una approssimativa<br />
e acritica adesione al messaggio<br />
sensoriale trasmesso dalla comunicazione<br />
elettronica.<br />
In conclusione, se è certamente<br />
con<strong>di</strong>visibile l’esigenza <strong>di</strong><br />
un’apertura alla multi<strong>di</strong>mensionalità<br />
dell’esperienza, che può<br />
essere favorita dalle nuove tecnologie<br />
legate all’IA, è altrettanto<br />
auspicabile non perdere <strong>di</strong> vista<br />
nell’azione <strong>di</strong>dattica le abilità logico-astratte<br />
proprie del pensiero<br />
scientifico e storicamente legate<br />
all’alfabetizzazione tipografica,<br />
ricordando la <strong>di</strong>fesa della ragione<br />
che ha caratterizzato gli esor<strong>di</strong><br />
dell’Intelligenza Artificiale. •<br />
Le paRoLe<br />
deL NostRo<br />
scoNteNto<br />
La rubrica ha due sole regole del gioco:<br />
partire da un sostantivo, un aggettivo,<br />
un avverbio, un verbo, una frusta parola<br />
che non amiamo; chiudere nel giro <strong>di</strong><br />
1500/2000 battute.<br />
professionalità<br />
<strong>Il</strong> culto della professionalità non<br />
è nato ieri: è nato anche prima<br />
del capitalismo; il capitalismo ha<br />
tenuto sempre la professionalità in alta<br />
considerazione; ma è salita alle stelle<br />
grazie all’ondata del neoliberismo. È<br />
evidente che il culto ha buone ragioni<br />
dalla sua parte: chiunque svolga un<br />
lavoro, chiunque assolva una funzione,<br />
deve possedere competenza e<br />
mirare all’efficienza. Ma modello <strong>di</strong><br />
professionalità si possono considerare<br />
le formiche. Valorizzando senza<br />
limiti la professionalità, si finisce per<br />
valorizzare la me<strong>di</strong>ocrità impeccabile<br />
e per deprimere l’originalità, la ricerca<br />
del nuovo, la capacità <strong>di</strong> iniziativa,<br />
l’estro. Meglio seguire l’autore del<br />
trattato Sul sublime, uno dei massimi<br />
critici letterari dell’antichità: meglio il<br />
poeta sublime, che qualche volta cade,<br />
del poeta me<strong>di</strong>ocre, che non spicca<br />
mai il volo. <strong>Il</strong> culto della professionalità<br />
è molto <strong>di</strong>ffuso nelle Università, e ciò<br />
contribuisce ad accrescerne il grigiore.<br />
Antonio La Penna<br />
(«l’immaginazione», 192, novembre 2002)<br />
progettualità<br />
<strong>Il</strong> culto della professionalità ha molti<br />
adepti (catecumeni e presbiteri<br />
e profeti) anche a scuola. Una<br />
delle sue più invadenti liturgie è<br />
quella che viene quoti<strong>di</strong>anamente<br />
officiata sull’altare della progettualità.<br />
L’imperativo categorico della<br />
scuola postmoderna è: progettare.<br />
La progettualità progettante ha<br />
prodotto uno zampillare <strong>di</strong> iniziative,<br />
alcune <strong>di</strong> ineffabile incongruità. C’è<br />
chi malinconicamente si attarda a<br />
sostenere che la scuola a furia <strong>di</strong><br />
progettarla si finisce col non farla. Ma<br />
è una tesi retriva, che apertamente<br />
sconfessiamo. La nostra, infatti, non<br />
è nostalgia del buon tempo andato –<br />
nessuno vuole tornare all’età dell’oro<br />
(o similoro) dell’approssimazione e del<br />
fai-da-te –, è piuttosto una reazione<br />
dettata dall’istinto <strong>di</strong> sopravvivenza.<br />
Si progetti dunque, con juicio. Ma se<br />
per avere in classe un arma<strong>di</strong>o dove<br />
riporre libri, vocabolari, videocassette,<br />
una mela, si deve re<strong>di</strong>gere un progetto,<br />
allora qualcosa nel sistema-scuola è<br />
impazzito. Rinunzieremo all’arma<strong>di</strong>o;<br />
ci arrangeremo, come al solito in<br />
maniera preprogettuale.<br />
Chichibìo ha un legittimo sospetto<br />
sugli attuali fasti della progettualità:<br />
che eserciti una funzione <strong>di</strong> supplenza,<br />
che sia la spia <strong>di</strong> un’assenza. In tempi<br />
grami si può surrogare il caffè con la<br />
cicoria, si può perfino magnificare la<br />
cicoria autarchica, argomentare che è<br />
meglio del caffè <strong>di</strong> dubbia provenienza<br />
oltramontana. Resta il fatto che il<br />
caffè è caffè e la cicoria è cicoria. Alias:<br />
che una progettazione ineccepibile e<br />
à la page da sola non basta a gettare<br />
un ponte tra cattedra e banchi.<br />
Occorre qualcos’altro. Purtroppo<br />
questo qualcos’altro è <strong>di</strong>fficilmente<br />
progettabile.<br />
Una cosa però ci convince nella<br />
progettualità: l’etimologia. L’idea <strong>di</strong><br />
un gettare (gettarsi) avanti. Non alla<br />
Enrico Toti: mantenendo la stampella,<br />
il cuore e soprattutto la testa sempre<br />
al <strong>di</strong> qua dello steccato. Se si riuscirà<br />
a salvare questo versante avventuroso<br />
e illuministico della progettualità e a<br />
oscurare quello burocratico e paraaziendale,<br />
ci stiamo. Altrimenti rinunziamo<br />
ai progetti e alle loro pompe.<br />
F.M.<br />
LEttERE<br />
A CHICHIBìO<br />
Chichibìo sottoscrive la lettera<br />
degli insegnanti dell’ITIS «A.<br />
Volterra» <strong>di</strong> San Donà <strong>di</strong> Piave<br />
(VE) e anzi, nella convinzione che<br />
davvero il controllo dai libri alle<br />
persone abbia passo breve, si augura<br />
che l’iniziativa sollevi lo sdegno e la<br />
protesta <strong>di</strong> tutti i docenti italiani.<br />
Contro ogni censura<br />
Caro Chichibìo,<br />
come docenti inten<strong>di</strong>amo manifestare<br />
la nostra forte preoccupazione e il<br />
fermo <strong>di</strong>ssenso, in merito alla risoluzione<br />
approvata dalla Commissione<br />
Cultura della Camera, con cui si sollecita<br />
l’esecutivo a controllare l’insegnamento<br />
della Storia nella scuola<br />
italiana. Non ci riteniamo pacificati<br />
dalle <strong>di</strong>chiarazioni del Ministro per<br />
i rapporti col Parlamento – che pur<br />
saggiamente, ha <strong>di</strong>chiarato “irricevibile”<br />
per il governo tale risoluzione<br />
– perché leggiamo la vicenda come<br />
passo ulteriore, e più alto, sulla strada<br />
già aperta qualche anno fa dalla Regione<br />
Lazio. La scelta <strong>di</strong> sollevare la<br />
questione dell’imparzialità dei testi <strong>di</strong><br />
Storia, nelle forme decise oggi dalla<br />
Commissione Cultura della Camera,<br />
appare con tutta evidenza pretestuosa.<br />
Perché si comincia controllando<br />
i libri, si continua controllando le<br />
persone. Se il governo intendesse<br />
assumere la tutela dell’insegnamento<br />
della Storia, si metterebbe nella<br />
con<strong>di</strong>zione <strong>di</strong> «assicurarsi che gli insegnanti<br />
obbe<strong>di</strong>scano al ruolo loro<br />
assegnato» (M. Salvadori, «la Repubblica»,<br />
12.12.02). Questa prospettiva<br />
liberticida fa una cosa sola con la<br />
tendenza evidente a ignorare l’opinione<br />
degli insegnanti – autonoma<br />
da quella espressa nei libri, qualsiasi<br />
essa sia! – in questioni così nevralgiche<br />
per la formazione dell’identità<br />
collettiva dei citta<strong>di</strong>ni, com’è quella<br />
dell’insegnamento della storia. Anche<br />
in questa vicenda, come nella<br />
precedente iniziativa della Regione<br />
Lazio si ignora totalmente l’esistenza<br />
degli insegnanti e vale il giu<strong>di</strong>zio<br />
dato a suo tempo dallo storico Enzo<br />
Collotti: «Ciò si può interpretare in<br />
vari mo<strong>di</strong>: come ignoranza del ruolo<br />
che essi svolgono nella scuola e come<br />
sopravvalutazione invece della parte<br />
dei manuali della <strong>di</strong>dattica; o come<br />
nostalgia <strong>di</strong> un pensiero unico da<br />
imporre in primo luogo agli insegnanti<br />
attraverso il libro <strong>di</strong> testo. In<br />
ogni caso il ruolo ad essi assegnato<br />
si configura come un ruolo passivo,<br />
quasi che essi non avessero né la capacità<br />
<strong>di</strong> operare la scelta dei testi né<br />
quella <strong>di</strong> usare, integrare e criticare i<br />
testi stessi».<br />
Noi riteniamo che in una società<br />
democratica, l’unica istanza abilitata<br />
a dare una valutazione dei libri <strong>di</strong><br />
testo, o <strong>di</strong> qualsiasi altro prodotto<br />
letterario, o documentario, è costituita<br />
dalla libera lettura critica. Ogni<br />
interferenza del potere politico altro<br />
non è che censura e non può non<br />
avere, quali che ne fossero le intenzioni,<br />
una valenza intimidatoria. Riteniamo<br />
altresì un dovere, civile e<br />
politico, dare una risposta energica<br />
alla permanente volontà antidemocratica<br />
<strong>di</strong> controllo sugli strumenti<br />
della <strong>di</strong>dattica liberamente scelti. Un<br />
dovere <strong>di</strong> tutti, ma in primo luogo <strong>di</strong><br />
quei docenti che vogliano tutelare<br />
non il semplice “posto <strong>di</strong> lavoro”, ma<br />
il loro specifico ruolo professionale,<br />
ribadendo il carattere costituzionale<br />
della libertà d’insegnamento, a prescindere<br />
dalle maggioranze <strong>di</strong> governo<br />
al potere.<br />
Gli insegnanti dell’ItIS «A. Volterra»<br />
<strong>di</strong> San Donà <strong>di</strong> Piave (VE)<br />
<strong>Il</strong> titolo del presente intervento<br />
potrebbe far sobbalzare sulla<br />
se<strong>di</strong>a qualche lettore. Non è<br />
contrad<strong>di</strong>ttorio associare la laicità<br />
alla religione? È forse compito<br />
della scuola insegnare il fatto religioso?<br />
La religione non è affare<br />
degli addetti ai lavori? Ebbene, se<br />
l’Italia fosse un paese “normale”<br />
un titolo del genere atterrebbe all’ambito<br />
della ovvietà; se in Italia<br />
ci fosse meno laicità proclamata e<br />
più laicità vissuta, si coglierebbe<br />
subito che res de nobis loquitur,<br />
specialmente in relazione al contesto<br />
o<strong>di</strong>erno.<br />
È infatti sotto gli occhi <strong>di</strong> tutti<br />
il fatto che l’Europa (e quin<strong>di</strong><br />
anche l’Italia, anche se qualcuno<br />
fa finta <strong>di</strong> non accorgersene)<br />
presenta ormai uno scenario<br />
post-ideologico e post-cristiano:<br />
da un lato, il bipolarismo <strong>di</strong> ieri<br />
è <strong>di</strong>ventato sempre più evanescente<br />
e al suo posto si assiste ad<br />
un rimescolamento <strong>di</strong> posizioni<br />
<strong>di</strong>verse che faticano a trovare<br />
una sintesi feconda; dall’altro, il<br />
monoconfessionalismo, nelle sue<br />
varianti cattolica e protestante,<br />
ha lasciato il posto al pluralismo<br />
religioso, dovuto non soltanto<br />
all’ondata migratoria, ma anche<br />
allo sgretolamento delle identità<br />
in<strong>di</strong>viduali e collettive che,<br />
nella società postmoderna, non<br />
sono più legate all’appartenenza<br />
religiosa, o perlomeno non solo<br />
a quella. In Europa <strong>di</strong>ventano<br />
sempre più labili le frontiere tra<br />
culture, fe<strong>di</strong>, stili <strong>di</strong> vita, scelte<br />
etiche, identità <strong>di</strong>verse.<br />
Tale scenario pone un interrogativo:<br />
come realizzare una<br />
feconda convivenza civile in cui<br />
le <strong>di</strong>fferenze culturali, etniche e<br />
religiose siano fonte <strong>di</strong> arricchimento<br />
anziché <strong>di</strong> conflitto? La<br />
risposta politically correct mostra<br />
tutti i suoi limiti nel momento<br />
in cui la sacrosanta <strong>di</strong>fesa del<br />
pluralismo delle <strong>di</strong>fferenze genera<br />
una sorta <strong>di</strong> neotribalismo:<br />
l’acritica valorizzazione delle <strong>di</strong>fferenze<br />
conduce al narcisismo<br />
autocontemplativo, alla autoreferenzialità<br />
orgogliosa. La salvaguar<strong>di</strong>a<br />
del pluralismo non deve<br />
generare una pluralità <strong>di</strong> ghetti:<br />
ci troveremmo <strong>di</strong> fronte ad una<br />
società-patchwork alla quale ognuno<br />
si sentirebbe legittimato ad<br />
aggiungere la propria toppa più<br />
o meno colorata.<br />
Una risposta più seria può invece<br />
giungere dal modello della<br />
democrazia laica, in base al<br />
quale, in una società complessa,<br />
le <strong>di</strong>fferenze possono convivere<br />
senza dar luogo a spazi separati<br />
– e quin<strong>di</strong> potenzialmente conflittuali<br />
– solo se vengono fatte interagire<br />
in un <strong>di</strong>battito pubblico,<br />
laico, in cui ciascuno – pur non<br />
ab<strong>di</strong>cando alla propria identità<br />
– possa argomentare le proprie<br />
tesi non nel chiuso <strong>di</strong> una comunità<br />
ghetto ma nell’ambito pubblico,<br />
fino a giungere, attraverso<br />
una negoziazione paziente, ad<br />
una comprensione reciproca. In<br />
questa nuova agorà pubblica ogni<br />
posizione religiosa deve rinunciare<br />
a qualcosa in più per sé: solo<br />
così si può giungere ad un patto<br />
<strong>di</strong> convivenza che fissi regole<br />
comuni, che ognuno poi si deve<br />
impegnare ad osservare. Nessuno<br />
deve rinunciare alla propria identità,<br />
ma, al tempo stesso, nessuno<br />
Chichibìo<br />
Numero 21/22 – anno V, gennaio-aprile 2003<br />
Rie<strong>di</strong>zione elettronica a cura <strong>di</strong> Palumbo multime<strong>di</strong>a<br />
Insegnamento religioso<br />
e laicità della scuola<br />
Una questione aperta<br />
Luciano Zappella<br />
deve pretendere privilegi che derivino<br />
da un’appartenenza religiosa<br />
(chiesa cattolica in testa!) e<br />
accettare i principi democratici <strong>di</strong><br />
convivenza. Così si realizza quella<br />
“solidarietà tra estranei” <strong>di</strong> cui<br />
parla J. Habermas.<br />
Questo <strong>di</strong>battito pubblico laico<br />
mette al riparo dal rischio<br />
del buonismo e della genericità,<br />
perché si tratta <strong>di</strong> un confronto<br />
che avviene all’interno <strong>di</strong> un<br />
perimetro ben delimitato qual è<br />
quello della Carta Costituzionale<br />
(alla faccia <strong>di</strong><br />
chi vorrebbe riscriverla!).<br />
Nello<br />
spazio pubblico<br />
garantito dalla<br />
Costituzione<br />
sono ammesse<br />
tutte le <strong>di</strong>fferenze,<br />
salvo quelle<br />
che non riconoscono<br />
i principi<br />
costituzionali:<br />
senza democrazia<br />
infatti le <strong>di</strong>fferenze non esisterebbero,<br />
ma le <strong>di</strong>fferenze lasciate<br />
a se stesse possono mettere a repentaglio<br />
la democrazia.<br />
Occorre quin<strong>di</strong> superare il concetto<br />
<strong>di</strong> laicità tipico dello schema<br />
liberale classico, in base al<br />
quale si poneva l’accento sulla<br />
separazione tra Stato e chiese.<br />
Nell’o<strong>di</strong>erno contesto multiculturale,<br />
il fatto religioso non può<br />
più essere confinato nella sfera<br />
del privato, per la semplice ragione<br />
che, se le <strong>di</strong>fferenze religiose<br />
non si confrontano nello spazio<br />
pubblico, si arriva ad una recrudescenza<br />
dei conflitti. <strong>Il</strong> nuovo<br />
concetto <strong>di</strong> laicità <strong>di</strong>ce che le<br />
visioni <strong>di</strong>verse vanno confrontate<br />
e argomentate (e scontrarsi<br />
con le argomentazioni è meglio<br />
che scontrarsi con le bombe): un<br />
fondamentalismo che deve fare i<br />
conti con le regole del <strong>di</strong>battito<br />
democratico è costretto o a correggere<br />
se stesso oppure a uscire<br />
dalla scena pubblica. Se lo spazio<br />
« un confronto<br />
e la relativa<br />
conoscenza tra culture<br />
non può prescindere<br />
da un confronto<br />
tra le religioni »<br />
pubblico non può più essere n<strong>eu</strong>trale<br />
<strong>di</strong> fronte al fatto religioso,<br />
ne consegue che il principio <strong>di</strong><br />
laicità dello Stato (e della scuola)<br />
non si riduce più alla mera non<br />
interferenza o all’anomalia tutta<br />
italica <strong>di</strong> un insegnamento religioso<br />
confessionale, ma <strong>di</strong>venta,<br />
in positivo, il presi<strong>di</strong>o del pluralismo,<br />
un pluralismo agito e non<br />
solo proclamato.<br />
È su questo versante che la<br />
scuola può e deve offrire un contributo<br />
insostituibile. Essa infatti,<br />
luogo “pubbli-<br />
co” per antonomasia,<br />
è il<br />
laboratorio privilegiato<br />
<strong>di</strong> questo<br />
modello <strong>di</strong><br />
democrazia laica.<br />
Spesso si <strong>di</strong>ce<br />
che la scuola<br />
deve preparare<br />
alla vita i futuri<br />
citta<strong>di</strong>ni, salvo<br />
poi <strong>di</strong>menticare<br />
che essa stessa è già la vita e che<br />
i nostri alunni sono già citta<strong>di</strong>ni.<br />
Ebbene, la scuola è (speriamo<br />
lo rimanga a lungo) la prima<br />
occasione che gli alunni hanno<br />
<strong>di</strong> confrontare e argomentare le<br />
proprie convinzioni (culturali,<br />
etiche, politiche o religiose che<br />
siano) all’interno <strong>di</strong> uno spazio<br />
pubblico in cui vigono le regole<br />
del confronto democratico. La<br />
scuola è l’unico spazio pubblico<br />
in cui si costruisce la citta<strong>di</strong>nanza<br />
democratica. E questo, sia detto<br />
per inciso, vale o dovrebbe valere<br />
anche per le scuole non statali.<br />
Se dunque le <strong>di</strong>fferenze devono<br />
essere argomentate nello<br />
spazio pubblico e se la scuola è lo<br />
spazio pubblico per eccellenza,<br />
ne deriva che la scuola deve porsi<br />
come un laboratorio <strong>di</strong> ricerca<br />
sulle <strong>di</strong>fferenze. Ma affinché le<br />
<strong>di</strong>fferenze siano argomentate,<br />
occorre avere una approfon<strong>di</strong>ta<br />
conoscenza della propria e dell’altrui<br />
identità, pena il rischio <strong>di</strong><br />
Le immagini <strong>di</strong> questo numero <strong>di</strong> Chichibìo sono tratte dal numero 508 <strong>di</strong> “Tex” e da Palestina. Una nazione occupata <strong>di</strong> Joe Sacco.<br />
11<br />
un <strong>di</strong>alogo generico o, peggio ancora,<br />
esotico, tipico, per esempio,<br />
della retorica multiculturalista<br />
che vede la <strong>di</strong>versità come semplice<br />
curiosità.<br />
Ora, un confronto, e la relativa<br />
conoscenza, tra culture non può<br />
prescindere da un confronto tra<br />
religioni. A <strong>di</strong>spetto della presenza<br />
confessionale cattolica e<br />
<strong>di</strong> troppi rimasugli <strong>di</strong> laicismo<br />
veteroliberale (cosa ben <strong>di</strong>versa<br />
dalla laicità!), l’insegnamento del<br />
fatto religioso a scuola mi sembra<br />
assumere sempre più i caratteri<br />
dell’urgenza.<br />
Per esigenze <strong>di</strong> spazio sottolineo<br />
solo due ragioni. Anzitutto,<br />
perché non si possono confrontare<br />
tra<strong>di</strong>zioni <strong>di</strong>verse se si ignora<br />
l’influenza della religione sugli<br />
eventi storici e sulle espressioni<br />
culturali e politiche. Tutti sanno<br />
quanto la storia culturale, sociale<br />
e politica dell’Occidente sia stata<br />
influenzata dalle tre religioni<br />
monoteistiche, ma come si può<br />
argomentare tale influenza se si<br />
ignorano i fondamenti teologici e<br />
l’evoluzione storica dell’ebraismo,<br />
del cristianesimo e dell’islam? In<br />
secondo luogo, uno stu<strong>di</strong>o del<br />
fatto religioso eviterebbe il riproporsi<br />
<strong>di</strong> ciò che spesso le religioni<br />
hanno rappresentato nella<br />
storia in fatto <strong>di</strong> intolleranza e <strong>di</strong><br />
conflitti. Le religioni, e quin<strong>di</strong> le<br />
civiltà, hanno <strong>di</strong>alogato allorché<br />
si sono sforzate <strong>di</strong> conoscersi. Da<br />
ultimo: come insegnare il fatto<br />
religioso? In estrema sintesi: no al<br />
monoconfessionalismo cattolico<br />
(spesso insegnamento <strong>di</strong> varia<br />
umanità); no alla parcellizzazione<br />
degli insegnamenti religiosi (si<br />
correrebbe il rischio <strong>di</strong> un supermarket<br />
delle confessioni in cui si<br />
<strong>di</strong>aloga, infruttuosamente o integralisticamente,<br />
tra uguali); no al<br />
laicismo che confina le religioni<br />
nello spazio privato (la storia ha<br />
<strong>di</strong>mostrato che così non è stato);<br />
sì invece ad un insegnamento <strong>di</strong><br />
tipo curricolare e dalla forte impronta<br />
storico-fenomenologica e<br />
quin<strong>di</strong> aconfessionale.<br />
Dunque: laicità dell’educazione<br />
come educazione alla laicità;<br />
religioni nello spazio dell’agorà<br />
pubblica e non solo nello spazio<br />
della coscienza; dalla tolleranza<br />
ingenua alla conoscenza argomentata;<br />
insegnamento storicofenomenologico<br />
e aconfessionale<br />
delle religioni. Bisogna cioè<br />
mettere in moto il circolo virtuoso<br />
per cui solo uno Stato laico<br />
genera una scuola laica, ma<br />
al tempo stesso solo una scuola<br />
laica genera uno Stato (cioè citta<strong>di</strong>ni)<br />
laico.<br />
È quin<strong>di</strong> veramente triste<br />
che un ministro dell’Istruzione<br />
(pubblica) faccia propria la<br />
richiesta wojtiliana <strong>di</strong> esporre<br />
il crocifisso quale segno identitario<br />
<strong>di</strong> una civiltà in cui la<br />
croce ha sì generato luminosi<br />
esempi <strong>di</strong> apertura, ma anche<br />
tetre immagini <strong>di</strong> intolleranza e<br />
<strong>di</strong> sopraffazione. A parte l’ovvio<br />
invito ad occuparsi dei problemi<br />
seri della scuola, vorrei sommessamente<br />
far notare alla signora<br />
Moratti che, per un cristiano, il<br />
crocifisso è segno <strong>di</strong> scandalo,<br />
<strong>di</strong> infamia e <strong>di</strong> contrad<strong>di</strong>zione,<br />
non un trofeo da esibire gloriosamente<br />
o un marchio etnico in<br />
funzione antislamica. •