Giovanni Piana, Filosofia della musica
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GIOVANNI PIANA<br />
FILOSOFIA DELLA MUSICA<br />
(Scheda a cura di Andrea Garbuglia)<br />
Angelo Guerini e Associati, Milano 1991
INDICE DEI CAPITOLI<br />
0. Introduzione p. 9<br />
1. Breve riflessione sulla <strong>musica</strong> del secolo scorso; 2. Prospettiva semiologica e filosofia empiristica dell’esperienza; 3.<br />
Musica e linguaggio; 4. Abitudini uditive e sentimento <strong>della</strong> tonalità. Primi sviluppi critici; 5. Digressione sulla <strong>musica</strong><br />
degli altri. Le ultime parole di Curt Sachs; 6. Ripresa delle considerazioni critiche. Inconsistenza degli argomenti<br />
convenzionalisti. Elogio dei preconcetti; 7. Tempo, senso e struttura. Il passo indietro da cui una filosofia <strong>della</strong> <strong>musica</strong><br />
può avere inizio. Tematica <strong>della</strong> possibilità e <strong>della</strong> scelta. Fenomenologia e dialettica dell’espressione; 8. Nuova<br />
riflessione sulla <strong>musica</strong> novecentesca. L’esperienza del suono.<br />
I. Materia p. 65<br />
1. I due aspetti del silenzio; 2. La voce in eco; 3. I suoni senza mondo; 4. Suoni e segnali; 5. La cosa sonora; 6. Origine<br />
<strong>della</strong> voce; 7. Il suono nell’immaginazione mitica; 8. La <strong>musica</strong> e il suo significato perduto; 9. Rumori e suoni; 10.<br />
Masse sonore, suoni-oggetti e suoni inoggettivi; 11. Timbro; 12. La macchina sonora.<br />
II. Tempo p. 125<br />
1. La <strong>musica</strong>, il tempo e i vissuti; 2. Nozioni <strong>della</strong> durata. Il suono come fenomeno di evenienza; 3. La forma del trascorrere<br />
e le dinamiche dell’articolazione materiale; 4. Ritmo; 5. Cenni sulla storia <strong>della</strong> parola; 6. Teoria del suonoevento;<br />
7. Scandire il tempo; 8. Temporalità del flusso e temporalità del cammino; 9. Schema; 10. Schematizzazione<br />
temporale e forma dell’accadere; 11. Il ritmo sta tra lo schema e l’evento.<br />
III. Spazio p. 179<br />
1. I suoni che cantano; 2. Suoni giusti e suoni sbagliati; 3. L’unità del suono-processo: lo spazio sonoro; 4. Sue caratteristiche<br />
notevoli: progressività e chiusura; 5. Ciclicità; 6. Tematica dell’alterazione. La differenza tra il grande e il<br />
piccolo intervallo. Continuità e discontinuità. Cromatismo; 7. Avviamento di uno studio filosofico sulla consonanza e<br />
sulla dissonanza; 8. Le indeterminatezze <strong>della</strong> sensibilità e il problema <strong>della</strong> giustificazione uditiva di questa distinzione;<br />
9. Somiglianza e dissimiglianza tra suoni; 10. Interpretazione <strong>della</strong> consonanza e <strong>della</strong> dissonanza come caratteristica<br />
strutturale dello spazio sonoro; 11. Considerazioni conclusive; 12. La questione di una teoria generale <strong>della</strong><br />
<strong>musica</strong>.<br />
IV. Simbolo p. 255<br />
1. La <strong>musica</strong> basta a se stessa; 2. Dubbi se ciò sia vero; 3. La <strong>musica</strong> e la forma del sentimento; 4. La <strong>musica</strong> e<br />
l’ineffabile; 5. Nuovo avviamento del problema: la scoperta ontologica che sta all’origine <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. La <strong>musica</strong> ha<br />
molte origini; 6. Senso e direzione immaginativa; 7. L’immaginazione <strong>musica</strong>le e il piacere <strong>della</strong> struttura sensibile. La<br />
<strong>musica</strong> consta di suoni risonanti; 8. La <strong>musica</strong> è un serbatoio di immagini inesplose; 9. L’immaginazione <strong>musica</strong>le e la<br />
memoria del mondo.<br />
INTRODUZIONE<br />
1. Il nuovo come elemento caratteristico e fondamentale <strong>della</strong> <strong>musica</strong> del ventesimo secolo. Esso<br />
consiste nel superamento del linguaggio tonale e nell’assimilazione di generi <strong>musica</strong>li diversi, come<br />
la <strong>musica</strong> africana, orientale o <strong>della</strong> tradizione popolare. La novità è basata anche sulla ricerca<br />
<strong>della</strong> sonorità inusitata, del suono mai sentito prima, o meglio, mai usato come materiale <strong>musica</strong>le<br />
(è il caso dei suoni <strong>della</strong> vita quotidiana). Questa ricerca del mai udito porta ad un superamento<br />
degli strumenti <strong>musica</strong>li tradizionali (umani) sotto due aspetti: rivalutazione di strumenti che<br />
prima erano sottovalutati (percussioni), adozione di computer e amplificazioni.<br />
2. Si potrebbe dire che la <strong>musica</strong> manca di una sua essenza. Spesso, con riferimento ad essa, si usa<br />
il termine linguaggio in un’accezione metaforica che si basa essenzialmente sul concetto di convenzione,<br />
visto come principio fondante del linguaggio parlato. La distinzione tra suono e rumore<br />
2
è proprio il frutto di questa convenzionalità. Nel presente lavoro, infatti, <strong>Piana</strong> sceglie di usare il<br />
termine generico di suono per indicare qualsiasi manifestazione fisico-acustica. Dunque i concetto<br />
di maggiore e minore, di consonanza e di dissonanza hanno una valenza puramente intralinguistica.<br />
Ogni pezzo <strong>musica</strong>le è un «oggetto culturale» e il materiale sonoro è di per sé amorfo. La<br />
prospettiva che viene adottata è quella semiologica. Il senso <strong>della</strong> <strong>musica</strong> è un elemento estrinseco<br />
ad essa, come del resto accade per il linguaggio verbale, e la sua comprensione è determinata dalle<br />
abitudini.<br />
3. L’uso del termine ‘linguaggio’ con riferimento alla <strong>musica</strong> può avere dei vantaggi ma anche degli<br />
svantaggi: non è possibili ad esempio ritrovare nella <strong>musica</strong> lo stesso rapporto designativo tra<br />
nome e oggetto, dato che in <strong>musica</strong> non esistono i nomi. Ma il termine linguaggio può essere usato<br />
anche in un altro senso: non si usa più la sua immagine, legata all’idea del linguaggio verbale,<br />
ma il suo concetto. La <strong>musica</strong> è in questo senso un linguaggio al pari del linguaggio verbale ma<br />
con caratteristiche diverse. Si assume come concetto in genere che i linguaggi sono dei sistemi segnici<br />
(prospettiva semiologica).<br />
4. La risoluzione <strong>della</strong> dissonanza nella consonanza è un gioco intralinguistico: tra esse no esiste<br />
una relazione intrinseca ma semplicemente una relazione di contingenza. La frequenza <strong>della</strong> ripetizione<br />
<strong>della</strong> risoluzione <strong>della</strong> dissonanza nella consonanza genera un’attesa: si ha quindi<br />
un’abitudine uditiva. L’insieme delle abitudini legate ad un certo tipo di linguaggi <strong>musica</strong>le generano<br />
il sentimento di quel determinato linguaggio (i.e. sentimento <strong>della</strong> tonalità). Dissonanza e<br />
consonanza sono fisicamente diverse ma non c’è nessuna regola che le lega in un rapporto determinato<br />
di risoluzione (potrebbe essere che la consonanza si risolva nella dissonanza, se avessimo<br />
questa abitudine). Non è possibile avere due abitudini opposte.<br />
5. Non è possibile giudicare la <strong>musica</strong> di un’altra cultura (p.e. quella esquimese) sulla base <strong>della</strong><br />
cultura europea e dire che essa è qualcosa di meno progredito: è semplicemente diversa. Non è<br />
possibile comprendere a pieno una <strong>musica</strong> albanese (come l’albanese non comprende la Nona<br />
Sinfonida di Beethoven) ma forse non è neppure possibile farlo con la Nona Sinfonida di Beethoven.<br />
La cultura ci condizione nelle nostre abitudini uditive ma questo non vuol dire che ciò che<br />
udiamo non sia effettivamente presente nell’opera: p.e. la nona è troppo semplice, se vista dal<br />
punto ritmico, quindi io posso far mio e, in un certo senso capire, il giudizio di un albanese.<br />
6. Idea che il senso nasca componendo un materiale che è di per se amorfo è errata.<br />
L’interpretazione è inseparabile dall’oggetto interpretato. Ma tale inseparabilità non significa che<br />
non è possibile fare la distinzione tra le due cose, anzi proprio tale possibilità ci permette di affermare<br />
la loro inseparabilità, altrimenti non sarebbe possibile neppure dire cosa è inseparabile<br />
da cosa. L’interpretazione non è puramente proiettiva ma ha bisogno di presupposti sia dal punto<br />
di vista soggettivo che da quello oggettivo. La necessità di un apprendimento non implica<br />
l’amorfità del materiale. Gli argomenti relativisti mettono solo in evidenza la presenza <strong>della</strong> molteplicità.<br />
Limitarsi a prendere atto dell’esistenza <strong>della</strong> molteplicità non ci dice nulla sui motivi <strong>della</strong><br />
sua esistenza. Ad esempio le espressioni facciali sono acquisite ma non sono delle smorfie del<br />
tutto scollegate con i sentimenti che esprimono. Il riso sardonico non è semplicemente un modo<br />
con cui i Sardoni accompagnavano l’uccisione dei loro vecchi ma era un atto di pietà: il riso trasformava<br />
il delitto nella nascita di una nuova vita.<br />
7. Il materiale sonoro, così come gli oggetti che compongono qualsiasi altro elemento artistico, ha<br />
in se una «molteplice latenza espressiva» e acquista un senso determinato quando entra in rapporto<br />
con la potenza dell’abitudine di un individuo. Distinzione tra piano linguistico e piano prelinguistico:<br />
viene utilizzato nuovamente in senso metaforico il termine “linguaggio”. Il punto di<br />
partenza di una filosofia <strong>della</strong> <strong>musica</strong> è relativo al piano prelinguistico cioè il suono (materiale sonoro).<br />
Il senso è dato dall’incontro del tempo, cioè <strong>della</strong> cultura (intesa nel senso di appartenenza<br />
etnica), delle conoscenze, delle aspettative del soggetto interprete-ascoltatore, e la struttura stessa<br />
del pezzo. In sostanza quando l’albanese dice “Bello, ma troppo semplice” riferendosi alla Nona<br />
3
Sinfonia di Beethoven, non da un giudizio che cade al di fuori <strong>della</strong> struttura dell’opera: se consideriamo<br />
solo l’aspetto ritmico anche noi potremmo dire che la Nona è troppo semplice.<br />
8. Un musicista del Novecento non è meno libero da pregiudizi di uno del Seicento o del Settecento,<br />
solo per il fatto che utilizza suoni diversi. È semplicemente che in epoche diverse sono state<br />
fatte scelte diverse, su uno stesso materiale sonoro. Nella <strong>musica</strong> del Novecento si è andati<br />
sempre più verso il prelinguistico: al suono costruito e voluto è stato sostituito quello trovato e<br />
casuale.<br />
MATERIA<br />
1. La materia <strong>della</strong> <strong>musica</strong> è il suono, ma che cos’è il suono? Come definirlo? <strong>Piana</strong> fa l’esempio di<br />
un foglio di carta che viene tagliato da una lama: la superficie uniforme del foglio è il silenzio che<br />
viene rotto, lacerato, dal suono. Ma il silenzio è una pura assenza di suono, o è qualcos’altro? <strong>Piana</strong><br />
distingue tra due tipi di silenzio: a) il silenzio brulicante, dato da un’infinità di suoni che sono<br />
tra la presenza cosciente e quella incosciente; b) silenzio profondo (detto anche silenzio mortale).<br />
La differenza tra i due tipi di silenzio può essere esemplificata dal seguente esempio: io sto scrivendo<br />
su di un foglio, la mia penna produce nell’atto di scrivere un suono dato dal suo sfregamento<br />
con la carta, ma io non sono cosciente <strong>della</strong> sua presenza (silenzio brulicante), se ad un<br />
tratto la penna cessasse di far rumore pur non cessando di sfregare sulla carta io mi accorgerei<br />
<strong>della</strong> sua assenza (silenzio profondo). Il silenzio profondo si ha quindi quando lo sfondo viene<br />
spostato e reso non percepibile dall’orecchio umano (gli ultrasuoni, pur essendo fisicamente presenti<br />
non sono da noi percepiti; sono silenzio).<br />
2. Se prestiamo più attenzione al silenzio che ci circonda compaiono dei suoni; è la scoperta del<br />
silenzio brulicante: io odo dei suoni intorno a me. Ma attenzione tra questi suoni c’è anche la mia<br />
voce <strong>della</strong> quale ho un’esperienza particolare. Io non posso oggettivizzare la mia voce perché essa<br />
è l’espressione <strong>della</strong> mia soggettività: quando emetto un urlo di gioia o di dolore non penso di<br />
emettere un suono, ma semplicemente do sfogo alla mia soggettività. La mia voce non è mai alla<br />
mia presenza, manca quella dimensione particolare dell’ascolto. Si può ipotizzare che nel canto stia<br />
l’origine <strong>della</strong> <strong>musica</strong>; infatti, come gli uomini prima usavano le proprie mani per fare determinati<br />
lavori e poi hanno costruito utensili, così è lecito supporre che prima il suono sia stato prodotto<br />
con la voce (canto), poi siano comparsi gli strumenti. Ma perché l’uomo primitivo scopra il canto<br />
è necessario che ascolti la sua voce e ciò è possibile solo in eco, dentro qualche grotta. Grazie<br />
all’eco la voce viene desoggettivizzata, e non viene più percepita come voce, ma come suono che<br />
posso ascoltare. Curt Sachs ipotizza che le prime melodie abbiano una struttura a “picco”, cioè<br />
simile all’urlo.<br />
3. Si è parlato sopra di udire suoni, ma cosa significa quest’espressione? Che cos’è quest’udire e<br />
ciò che viene udito? Una risposta potrebbe essere trovata appellandosi alla fisiologia per l’udire e<br />
alla fisica per il suono. Ma si potrebbe intendere la domanda in un’altro modo, cioè quali sono le<br />
caratteristiche del suono inteso come concreto fenomeno uditivo? La prima constatazione è la seguente:<br />
il suono è di una natura diversa rispetto agli oggetti che noi possiamo vedere e toccare. Il<br />
suono sembra essere più simile al colore più che agli oggetti: come il colore il suono è una “qualità<br />
secondaria”. Ma anche tra suono e colore ci sono delle differenze profonde: se è possibile parlare<br />
di una cosa colorata, non è altrettanto possibile parlare di una cosa sonora nello stesso senso di cosa<br />
colorata. Il colore non può essere percepito senza la cosa, ma può essere solo pensato, mentre il<br />
suono può essere anche percepito. Il suono non appartiene alla cosa, è solo una potenzialità <strong>della</strong><br />
cosa. Per le cose, inoltre, c’è la possibilità di avere reciproche conferme; una cosa intravista in lontananza<br />
si può fare sempre più concreta mano a mano che si avvicina fino a che non si ha la conferma<br />
<strong>della</strong> sua esistenza toccandola. Per il suono non ho nessun altro elemento fenomenico che<br />
4
mi possa confermare la sua presenza. Il suono non è legato alla cosa che lo produce. Questo potrebbe<br />
far pensare che il suono abbia una maggiore concretezza rispetto al colore, ma non è così,<br />
anzi il suono è sempre sul punto di svanire. Questa sua natura aerea, ha sempre fatto si che sul<br />
suono si siano create delle ipotesi metafisiche: se il suono è staccato dalla cosa, è possibile avere<br />
un suono senza “cosa”? Se il mondo finisse non è detto che anche il suono finisca! “il suono potrebbe<br />
esserci anche se il mondo non ci fosse”.<br />
4. Il rapporto tra il suono e la cosa che lo produce deve essere maggiormente analizzato. Spesso il<br />
suono viene visto da noi come segno <strong>della</strong> cosa stessa; quando sentiamo una porta che si apre, o<br />
una macchina per la strada, non pensiamo tanto al suono che viene prodotto quanto a ciò di cui è<br />
segno (la porta che si apre e la macchina). Se noi udiamo un suono e non vediamo nella realtà la<br />
cosa di cui esso è segno in noi nasce una certa inquietudine, quasi che i suoni assoluti non esistano.<br />
Questo sembra contraddire quanto detto sopra ma non è così. Il suono per acquistare valore<br />
in sé deve essere reso indipendente, si deve acquistare la dimensione dell’ascolto: come non percepiamo<br />
oggettivamente la voce da noi emessa, perché inglobata alla soggettività, così un suono<br />
non lo sentiamo oggettivamente perché assorbito dalla cosa che lo produce. Per arrivare al suono<br />
assoluto è necessario che il mondo scompaia, che il suono venga svincolato dal suo essere segnale.<br />
Si pensi a questo proposito al ruolo svolto dall’udito nel momento in cui non c’è la possibilità di<br />
vedere: al buio i rumori sono per eccellenza segno di cose, ma quando noi vogliamo ascoltare la<br />
<strong>musica</strong> per ottenere un effetto maggiore chiudiamo gli occhi.<br />
5. Noi abbiamo parlato del legame esistente tra la cosa ed il suono, ma è possibile vedere tale legame<br />
in termini di causalità? E’ possibile percepire tale causalità? Prima di tutto bisogna dire che<br />
la “causa” deve essere data da un rapporto tangibile tra la cosa e il suono « E’ necessario [...] che<br />
si dia anzitutto uno stato di cose nel quale la stessa manifestazione sonora si mostri come un prodotto<br />
mostrando nello stesso tempo il modo <strong>della</strong> propria produzione » [p.78]. In questo senso non è<br />
possibile vedere la causalità esistente tra il percuotere un tavolo e il suono prodotto dal tavolo<br />
stesso. Ad esempio per dimostrare il rapporto di causalità, è possibile prendere il caso in cui si<br />
pizzica una corda di una chitarra: la mano esercita un atto (quello del pizzicare) sulla corda che si<br />
mette in movimento (vibra) ed emette un suono. Questi fattori, pizzicare, vibrare e suono, non<br />
sono tra loro in un semplice rapporto di contiguità, ma c’è un vero e proprio rapporto causale: la<br />
mia mano è la causa delle vibrazioni e le vibrazioni sono la causa del suono. Ora, partendo da<br />
quest’esemplificazione è possibile fare una generalizzazione per quanto riguarda i rapporti causali<br />
esistenti tra altri suoni e altri oggetti. Ma per fare questo è necessario fare un’astrazione che comporta<br />
il risalire a concetti autentici, cioè non estremamente vincolati all’esempio sopra visto. Prima<br />
di tutto bisogna fare tale operazione per il concetto vibrare. La mano mette in movimento la corda<br />
pizzicandola, ma in che cosa consiste questo movimento? La vibrazione non rientra nel tipo di<br />
movimento inteso nell’accezione di spostamento da luogo a luogo, infatti la corda che vibra in<br />
questo senso non si muove. La vibrazione non è « il percorso <strong>della</strong> cosa che attraversa lo spazio, ma<br />
è piuttosto il movimento stesso che attraversa la cosa e la percorre scotendola nelle sue fibre ».<br />
Quindi il suono comincia dalla cosa ed in essa è tutt’altro che evanescenza, è pienezza. « non è<br />
stata in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intera<br />
sua essenza; essa ha infatti sentito paura <strong>della</strong> morte, signora assoluta. È stata, così, intimamente<br />
dissolta, ha tremato nel profondo di sé, e ciò che in essa vi era di fisso ha vacillato ».<br />
6. La creazione di strumenti <strong>musica</strong>li ci da la possibilità di possedere il suono; noi, infatti, mediante<br />
questi siamo capaci di riprodurre a nostra volontà i suoni desiderati. Ma che rapporto c’è<br />
tra il suono prodotto dalla voce e quello prodotto da uno strumento? Appare subito un prima differenza:<br />
il suono strumentale nasce da una pienezza (una pienezza che vibra) mentre quello vocale<br />
nasce da una vuotezza, la cavità <strong>della</strong> bocca. Ma proprio da questa differenza nasce una somiglianza:<br />
il suono strumentale ha bisogno di una cavità per risuonare, altrimenti risulta sordo. Un<br />
altro avvicinamento si ha dalla parte <strong>della</strong> voce: il suono vocale che proviene dal corpo richiede<br />
5
che si prenda coscienza del corpo come corpo-strumento, cioè come cosa capace di emettere suoni.<br />
7. – 8. Digressione mitologica: «... origine del mondo dal suono ...». Suono come canto del dio morente.<br />
9..Suoni e rumori. Nel linguaggio corrente questi due termini vengono usati in contesti diversi e<br />
con significati diversi: mentre il primo termine può essere usato per indicare qualsivoglia fenomeno<br />
sonoro lo stesso non accade con il secondo. Ai due spettano «aree di senso differenti.» Al termine<br />
suono si da un’accezione positiva mentre a rumore una negativa: il rumore genera fastidio ed<br />
è sgradevole. Se si continua su questa linea ci si accorge come tale distinzione diventa soggettiva e<br />
relativa. Infatti la piacevolezza ha una valenza psicologica che non solo cambia da individuo a individuo<br />
ma anche all’interno di uno stesso individuo in momenti e situazioni diversi. La gradevolezza<br />
e la sgradevolezza fanno senz’altro parte del nostro problema ma non ne sono alla base. Si<br />
potrebbe tentare di risolverlo facendo riferimento alla <strong>musica</strong>. Da questo punto di vista si potrebbe<br />
dire che la <strong>musica</strong> distingue tra suoni e rumori nel senso che i primi sono <strong>musica</strong>lmente utilizzabili<br />
mentre i secondi no lo sono. Ma anche qui sorge un problema: la <strong>musica</strong>, al singolare, è<br />
una pura astrazione. Si può parlare piuttosto di musiche che appartengono a popoli e culture diverse,<br />
di epoche diverse, che hanno modi di selezionare materiale sonoro utilizzabile completamente<br />
diversi. In questo modo si può ben capire come non sia possibile distinguere oggettivamente<br />
tra suono e rumore, soprattutto se si fa riferimento alla <strong>musica</strong> contemporanea.<br />
10. La distinzione che nell’uso si fa tra il termine «suono» e il termine «rumore», deve servire<br />
come spunto per una riflessione propriamente filosofica, che non si soffermi, ad esempio, a verificare<br />
tutti gli usi circostanziali dei suddetti termini. Non è possibile, inoltre, liquidare la questione<br />
utilizzando come prova la <strong>musica</strong> novecentesca. Per procedere con un’analisi più approfondita<br />
<strong>della</strong> questione è interessante tornare al discorso dell’evanescenza dei suoni (il termine viene inteso<br />
qui come manifestazione sonora in genere). L’evanescenza del suono viene messa in contrapposizione<br />
con la materialità di un oggetto. Ma la materialità di un oggetto è resa tale dalla possibilità<br />
che si ha di toccarlo. Sono quindi i momenti «pratico-tattili» che danno la materialità. Ora se<br />
facciamo riferimenti ai suoni ci si rende conto che spesso per definirli vengono usati aggettivi che<br />
fanno riferimento alla materialità: un suono è pastoso, ruvido, aspro, morbido, vellutato, levigato,<br />
ma non quadrato o rettangolare. I suoni si manifestano come trasposizioni uditive di sostanze materiali.<br />
Ora ci sono dei suoni che si avvicinano maggiormente a questa materialità ed altri che se<br />
ne allontanano. I secondi possono essere chiamati suoni oggetti in quanto hanno in se una certa<br />
individualità, mentre i primi possono essere chiamati suoni inoggettivi. I suoni inoggettivi sono<br />
quelli che vengono detti comunemente rumori: essi vengono indicati nella loro tipicità (scricchiolio)<br />
e con espressioni metaforiche (fruscio). I suoni oggetti sono quelli che specificamente vengono<br />
detti suoni, cioè ad esempio il suono di un flauto. Questi non vengono indicati nella loro tipicità<br />
ma con un nome (do2, la3, etc) che li designa non in modo assoluto ma relativo. Tali suoni<br />
sono dei punti e tra essi è possibile stabilire degli intervalli.<br />
11. La discussione precedente sulla distinzione tra suoni e rumori porta a due basilari elementi<br />
nell’ambito <strong>musica</strong>le: l’altezza e il timbro. È chiaro come quando si parla di suoni-oggetti sia implicata<br />
la nozione di altezza. Essi, infatti, possono essere serializzati: uno è più alto di un altro. Più<br />
complesso, invece, è il rapporto esistente tra rumore e timbro. Vi sono due impieghi fondamentali<br />
<strong>della</strong> parola timbro. Il timbro è la differenza che si può riscontrare suonando una stessa nota con<br />
due strumenti diversi. Ma nel linguaggio corrente si parla anche di una graduatoria a livello timbrico,<br />
come se si potesse parlare di un suono meno timbrato di un’altro. Il timbro può essere visto<br />
come carattere del suono. Se prendiamo i suoni-oggetti il timbro sarà l’intorno sonoro, il corpo<br />
del suono, tutto ciò che conferisce al suono carattere. Questo è valido non solo per i suoni che<br />
hanno un nucleo oggettivo, ma anche per quelli che non ce l’hanno. Il timbro può essere definito<br />
6
usando una parola tedesca Klangfarbe cioè, colore del suono. Si potrebbe anche dire che il timbro<br />
è influenzato anche dall’altezza, l’intensità e dagli accordi (considerati come agglomerati sonori).<br />
12. Ma i problemi sopra esposti come potrebbero essere trattati se si prende in considerazione<br />
anche la <strong>musica</strong> elettronica?<br />
TEMPO<br />
1. Il suono sembra trovare nella temporalità la sua caratteristica distintiva, ciò che lo differenzia<br />
<strong>della</strong> cose materiali e dall’organizzazione di queste. Il suo legame con la temporalità stabilisce una<br />
particolare relazione tra la <strong>musica</strong> e la soggettività. La soggettività come la <strong>musica</strong> è vista come<br />
un processo. Ma il tempo sembra essere anche un limite per la <strong>musica</strong>: infatti essa non si mostra<br />
mai totalmente ma in fasi successive (come vedere un bel viso membro per membro). La temporalità<br />
sembra essere l’elemento che accomuna il vissuto ed il suono, per questo la <strong>musica</strong> sembra<br />
essere l’arte <strong>della</strong> vita interiore. Ma la successione dei suoni non sono casuali ma si integrano,<br />
come fanno i vissuti, e come questi vanno a formare una soggettività così i suoni formano una certa<br />
totalità. Si parte, quindi, dal fatto che i suoni sono oggetti temporali.<br />
2. Anche gli oggetti materiali sono in un senso temporali, cioè esistono in un determinato tempo e<br />
sono destinati a scomparire. Il termine tempo viene usato in un’accezione comune così come il<br />
termine durata (tratto di tempo). Gli oggetti materiali nel tempo invecchiano, si consumano fino a<br />
non essere più utilizzabili, mentre i suoni non invecchiano, non si consumano, semplicemente finiscono;<br />
a consumarsi è solo la loro durata. Il loro esserci è fatto di tempo. Questo è applicabile<br />
per le parole, per il movimento in genere ma non per le cose materiali. Alla temporalità del suono<br />
si può contrapporre l’intemporalità delle cose. Ma sia la temporalità del suono che l’intemporalità<br />
delle cose sono legate alla percezione. Un oggetto viene percepito come intemporale. Io posso<br />
mostrare un quadrato in fasi successive ma questo non è pertinente alla cosa stessa: non le appartiene.<br />
Mentre il tempo è un elemento essenziale nella percezione <strong>della</strong> <strong>musica</strong>: durata fenomenologica.<br />
Il tempo non può essere percepito in sé, così come non può darsi una percezione pura dello<br />
spazio. I suoni permettono di percepire la temporalità (questo spiega i numerosi riferimenti fatti<br />
dai filosofi alla <strong>musica</strong> per spiegare il tempo). L’esserci del suono appare sotto la forma del trascorrere.<br />
Importante è il concetto di continuità intesa come venire-da-andando-subito-oltre. Il suono<br />
attrae l’attenzione.<br />
3. Una cosa statica può essere osservata ma questo richiede una volontà dell’osservatore. È lui che<br />
in prima persona decide di seguire i contorni di una figura. Mentre una sequenza di suoni si fa seguire.<br />
I suoni non possono essere contemplati come forme e colori. I suoni devono essere seguiti<br />
come nel caso del movimento puro. Ma in una successione di suoni non si ha solamente una loro<br />
giustapposizione.Un discorso orale potrebbe essere paragonato ad una successione di suoni. Ma<br />
se un oratore si interrompe per un’amnesia è possibile, per chi lo ha seguito attentamente, almeno<br />
entro un certo margine, suggerire la parola che deve seguire. Questo è dovuto al fenomeno di ritenzione-protenzione<br />
delle parole: ogni parola è al tempo stesso conseguenza <strong>della</strong> parola che l’ha<br />
preceduta e conseguenza di quella che la seguirà. La stessa cosa si può dire per una melodia.<br />
Quindi i suoni non sono fatti di tempo. Ma non si vuole parlare di una sequenza di suoni come<br />
una melodia piuttosto come una semplice giustapposizione di suoni, che possono avere tra loro<br />
vari tipi di relazioni determinate dallo staccato, dal legato, dall’introduzione di pause, ecc. Ecco<br />
che la continuità diventa un elemento puramente soggettivo (si potrebbe dire “oggettivo” se si<br />
parla di “melodia” ma anche qui non è tale se si pensa alle diverse culture <strong>musica</strong>li), e oggettivamente<br />
è data soltanto la forma del trascorrere che però deve misurarsi con le dinamiche <strong>della</strong> materia.<br />
Si ritorna al rapporto tempo/struttura. A volte si è parlato dell’architettonica di un brano<br />
per mettere in secondo piano la componente temporale. Il brano allora è stato visto come un di-<br />
7
segno rivelato in fasi successive e che può essere capito solo alla sua completa rivelazione. A questo<br />
è sufficiente opporre la critica che non è possibile pensare che in un certo punto del brano<br />
qualcosa sia nascosto e qualcos’altro rivelato, e che quindi il brano si mostri nella usa pienezza<br />
soltanto quando è finito.<br />
4. Interessante è il rapporto tra la <strong>musica</strong> e la danza. Parlando <strong>della</strong> danza diventa centrale il problema<br />
del ritmo. Trovare una definizione di ritmo non è facile: vi sono moltissime definizioni che<br />
però colgono tutti aspetti differenti. La maggiore difficoltà che si incontra è trovare l’elemento<br />
che differenzia una semplice successione di eventi da una successione ritmica. Il ritmo legato alla<br />
vitalità (il ritmo cardiaco). In esso sono centrali due momenti, quello del battere e quello del levare,<br />
intesi come un susseguirsi di slancio e riposo. Il ritmo dal punto di vista <strong>della</strong> danza è «... suddivisione<br />
e articolazione <strong>della</strong> durata, ...» esso può essere considerato come parte, componente<br />
<strong>della</strong> <strong>musica</strong>. Il ritmo ha a che fare con la <strong>musica</strong> intera e non è semplicemente una sua parte. Per<br />
definirlo è necessario concentrarsi sul dinamismo del battere e del levare, ecco che allora questo<br />
dinamismo acquista una molteplicità di significati. Da questo punto di vista la <strong>musica</strong> risulta essere<br />
permeata di ritmo: è ritmo il succedersi dei forti e dei piani, dei motivi, è ritmo il risolversi <strong>della</strong><br />
dissonanza nella consonanza. In base a questo il ritmo può diventare il principio di unità e di organizzazione<br />
e quindi incontrarsi e sovrapporsi al concetto di forma.<br />
5. La radice etimologica <strong>della</strong> parola ritmo sta nella parola greca scorrere, fluire. Ma è altrettanto<br />
valido parlare di ritmo nel susseguirsi delle sbarre di una cancellata, o di un rumore meccanico o<br />
<strong>della</strong> struttura di una casa o di una statua. Questi sono tutti elementi che fanno riferimento alla<br />
fissità, monotonia, ripetizione e non hanno nulla a che vedere con il fluire. Benveniste mette in evidenza<br />
quello che viene implicitamente detto nel luogo comune che vede il ritmo nelle onde del<br />
mare: il mare non scorre, se mai a scorrere sono i fiumi. Prima di lui Jaeger aveva sottolineato che<br />
la parola ritmo era stata più volte utilizzata nel senso di vincolo, freno, quindi non come flusso ma<br />
come barriera al flusso. Inoltre Benveniste mette in evidenza, commentando alcuni testi, che il<br />
ritmo potrebbe essere inteso come tratto distintivo, o come disposizione degli elementi all’interno<br />
di un tutto. Ma da questo punto di vista non si è del tutto lontani dal fluire. Ecco che allora il ritmo,<br />
la forma, non sarebbe altro che movimento rappreso.<br />
6. Bisogna vedere ora come impostare, secondo la nostra teoria, il problema del ritmo. Innanzi<br />
tutto, si deve rinunciare ad analizzare tutti gli impieghi del termine ritmo che sono al di fuori del<br />
campo <strong>musica</strong>le. Nella <strong>musica</strong> gli strumenti ritmici per eccellenza sono le percussioni.<br />
Quest’affermazione non deve essere intesa come pregiudizio nei confronti di questi strumenti,<br />
che hanno anche delle differenze ritmiche notevoli, ma solo un modo per spostare l’attenzione sul<br />
fatto che i suoni prodotti da questi strumenti sono essenzialmente battito e colpo. A questo è connesso<br />
il concetto di istantaneità. Fino ad ora si è parlato di tempo come durata e di suoni evenienti.<br />
Ma possiamo prendere in esame il silenzio dicendo che è la matrice negativa del suono eveniente<br />
e nel silenzio non c’è ritmo come non c’è ritmo nella continuità di un suono: ciò che da il ritmo<br />
è la discontinuità. Nel colpo vediamo l’accadere del suono che comincia e finisce. Anche i suoni evenienti<br />
hanno questa caratteristica ma il colpo «appena cominciato è subito finito». Suono e silenzio<br />
non sono tra di loro puramente giustapposti: nei movimenti del percussionista che preparano<br />
il colpo si ha l’eccitazione del silenzio che dopo il rumore torna in quiete.<br />
7. Il concetto di battere il tempo o scandire il tempo, è noto hai musicisti. Ma che cosa significa<br />
scandire il tempo. Bisogna prima di tutto distinguere tra scansione e misurazione. Anche se la scansione<br />
può servire come unità di misura, ma scansione e misurazione sono due cose differenti. La<br />
misurazione consiste nel determinare quante volte una unità di tempo data viene ripetuta in un<br />
tempo chiuso. Quindi il suo scopo è una determinazione quantitativa. Ma qual’è lo scopo <strong>della</strong><br />
scansione: cosa distingue il direttore d’orchestra con il suo gesto di scandire il tempo prima<br />
dell’inizio di un opera?<br />
8
8. Appare chiaro come il tempo <strong>della</strong> <strong>musica</strong> sia più vicino ad un tempo «ontologico», degli affetti<br />
e <strong>della</strong> vita interiore. Un maestro chiede al suo allievo di suonare un pezzo ad un tempo più veloce.<br />
Questo è abbastanza chiaro per l’allievo che esegue. Secondo quanto detto sembra che il<br />
tempo <strong>musica</strong>le possa variare a piacimento. Seguendo un analisi più razionale è chiaro che<br />
l’allievo non fa altro che eseguire le note facendole durare di meno: quella che durava 1 secondo<br />
ora dura ½ secondo, quello che veniva eseguito in 12 secondi ora viene eseguito in 6. Ma quando<br />
seguo una sequenza di note non sto li a contare quante ne sono, così come quando sento una nota<br />
prolungata non mi rendo conto se dura 1 secondo o la sua metà. Qui, infatti, non si tratta di misurare<br />
il tempo in cui una esecuzione avviene. Quando il maestro parla di un tempo più veloce è<br />
nel giusto: egli fa riferimento allo scandire.<br />
9. Ripetendo i colpi dati allo strumento percussivo mantenendo sempre lo stesso intervallo, si<br />
scandisce il tempo e si da una vera e propria schematizzazione <strong>della</strong> temporalità. Ci troviamo qui<br />
in presenza dei due parametri del discorso: da una parte c’è l’evento, cioè il singolo colpo, da<br />
quell’altra c’è lo schema dato dalla sua ripetizione. Ad uno schema semplice e monotono si può<br />
sovrapporre una schematizzazione più complessa. La scansione è qualsiasi modo di schematizzare<br />
la temporalità.<br />
10. Le forme di schematizzazione sono riconducibili al duplice aspetto del suono come evenienza<br />
e come evento. Se prendiamo una successione di suoni di varia durata questi daranno uno schema<br />
che è basato sul rapporto delle loro durate; su un’unità di misurazione data. Per il rapporto con il<br />
concetto di evento bisogna fa riferimento al concetto di battere e levare. La differenza che c’è tra<br />
questi due momenti sta nella presenza dell’accento nel primo di essi. Ma che cosa si intende per<br />
accento? L’accento non è puramente collegato con l’aumento di intensità infatti si può parlare di<br />
accento intensivo e di accento ritmico. Ma non è neppure giusto parlare di completa differenza<br />
tra accento e aumento di intensità, infatti l’aumento intensivo può andare a rinforzare quello ritmico<br />
o si può contrapporre ad esso. Nell’accento ritmico è sicuramente centrale il concetto di<br />
forza che contraddistingue il battere dal levare, il suono forte da quello debole. Ma tale concetto<br />
di forza non si rappresenta soltanto con l’aumento del volume ma anche nella sua pura idea (nella<br />
sua rappresentazione). Questo rapporto può essere visto anche nel movimento ideale del percussionista:<br />
movimento che mette in dinamica relazione il momento del suono e quello del silenzio,<br />
che si susseguono in modo sopravanzante.<br />
11. Per parlare <strong>della</strong> temporalità scandita abbiamo posto la differenza tra la temporalità del flusso e<br />
la temporalità del cammino divise dal gesto del direttore d’orchestra. Ma non bisogna pensare che<br />
solo la temporalità scandita faccia parte del tempo <strong>musica</strong>le. Se ci poniamo dal punto di vista del<br />
puro ascoltare, un suono tenuto viene percepito nel suo fluire: anche se il musicista conta il suo<br />
contare non è una scansione ma semplicemente un determinare quantitativamente la durata del<br />
suono. La stessa cosa accade per la <strong>musica</strong> composta con il calcolatore: la scansione può essere o<br />
non essere percepita. La scansione sta alla base dello schema per questo bisogna estendere le<br />
suddette osservazioni alla tematica dello schema. Bisogna dire che la schematizzazione è una possibilità<br />
<strong>della</strong> <strong>musica</strong> che può essere realizzata in molti modi.<br />
SPAZIO<br />
1. Nella <strong>musica</strong> moderna si ha il passaggio da un’attenzione rivolta alle altezze dei suoni, alla materialità<br />
dei suoni, senza curarsi <strong>della</strong> presenza di un nucleo oggettivo. Se questa posizione si fosse<br />
assunta sin dalle origini (attenzione a tutti i fenomeni sonori) non si avrebbe avuto nessun tipo di<br />
<strong>musica</strong>. La <strong>musica</strong> nasce dalla selezione e dalla scelta dei suoni «oggetti» come materiale da utilizzare.<br />
I suoni «oggetti» hanno varie caratteristiche: 1) hanno un centro puntuale che li accomuna,<br />
si può parlare, quindi, di uno stesso suono anche se prodotto da diversi strumenti); 2) dati due<br />
9
suoni oggetti è possibile stabilire un intervallo, cioè la linea di suoni che unisce i due punti; 3) i<br />
suoni possono essere ordinati in modo scalare. Se colleghiamo il discorso <strong>della</strong> puntualità dei<br />
suoni con la temporalità si potrebbero avere dei fraintendimenti, quindi è meglio distinguere due<br />
modi di intendere la puntualità: a) puntualità come nucleo oggettivo del suono e b) puntualità<br />
come istantaneità dell’accadere del suono. La ripetizione di un suono puntuale dà una linea sonora.<br />
Se vengono ripetuti suoni puntuali diversi (di varia altezza) la linea sonora acquista mobilità.<br />
Fino a questo punto si è parlato di suoni che hanno come possibilità la melodia. Questi sono suoni<br />
che cantano, ed è forse questo cantare che ha dato origine alla loro scelta e alla nascita <strong>della</strong><br />
<strong>musica</strong>. Oltre a cantare questi suoni sono anche incantevoli, nel senso che incantano e obbligano<br />
ad ascoltarli.<br />
2. Studiando <strong>musica</strong> si apprende che le note sono sette, che ci sono note importanti e note secondarie<br />
(le alterazioni), che ci sono suoni intonati e stonati. Ma non vi è nulla nella natura del suono<br />
che ci fa dire che tutto questo sia effettivamente così. In base a che cosa posso dire che esistono<br />
suoni importanti e suoni secondari? Non esiste nessuna giustificazione naturalistica. L’orecchio<br />
che percepisce le classificazioni sopra dette come naturali è un orecchio determinato dalla cultura.<br />
In questo senso si può parlare di linguaggio <strong>musica</strong>le come una vera e propria lingua che differisce<br />
da cultura a cultura, che richiede un apprendimento e che una volta appresa risulta naturale.<br />
Si hanno quindi due posizioni: una relativistica e l’altra naturalistica. Seguire la seconda sembra<br />
impossibile, ma l’intera problematica potrebbe essere ripensata in termini diversi.<br />
3. Partire dal punto di vista in cui esistono una costellazione di suoni oggetti non ci può portare<br />
alla risoluzione del nostro problema. Si deve dire quindi che i suoni-oggetti non ci sono fin<br />
dall’inizio. All’inizio c’è soltanto lo spazio sonoro. Lo spazio sonoro può essere inteso in due modi.<br />
Il primo è un’accezione ampia e comprende tutti i fenomeni uditivi in genere. Questo è determinato<br />
da due caratteristiche: è aperto verso l’esterno, infatti è destinato ad espandersi e a comprendere<br />
nel suo interno tutti i fenomeni uditivi, ed è aperto verso l’interno, nel senso che è privo<br />
di un ordinamento. Infatti dati due suoni di questo insieme non sempre è possibile disporli gerarchicamente,<br />
e parlare di un suono più acuto e di uno più grave. Ma lo spazio sonoro può essere<br />
inteso in un altro modo. Dati due suoni puntuali è possibile riordinarli in modo scalare e determinare<br />
un intervallo esistente tra i due. È stato detto anche che è possibile determinare una serie<br />
di suoni puntuali che partendo dal primo arrivano al secondo. Ora se gli intervalli tra questi<br />
“punti” vengono progressivamente diminuiti quello che si ottiene è una “retta” di suoni dove il<br />
primo suono puntuale non è più un estremo ma è l’inizio di un glissare sonoro, e l’ultimo è semplicemente<br />
la fine del glissato. Questa è una seconda accezione dello spazio sonoro visto in modo<br />
più ristretto. Ora non ci troviamo più di fronte ad una sequenza di punti ma ad una linea vera e<br />
propria: c’è un suono che glissa fino ad diventare un altro suono. Siamo in presenza di un movimento.<br />
Non si ha più un suono-oggetto ma un suono-processo. Alla molteplicità dei suoni subentra<br />
l’unità del Suono. Nello spazio sonoro si manifesta una tensione interna. Si apre così una relazione<br />
tra unità e molteplicità, tra continuità e discontinuità.<br />
4. Dunque i suoni puntuali non esistono sin dal principio, ad esistere è solo lo spazio sonoro ed in<br />
esso non è possibile fare nessuna distinzione. Nello spazio sonoro si possono ritrovare tutte le scale<br />
possibili e tutti gli intervalli possibili. Ma non dobbiamo considerare lo spazio sonoro come<br />
qualche cosa di uniforme e privo di tensione interna. All’interno dello spazio sonoro ci sono delle<br />
differenze che creano una tensione interna. Prima tra tutte è la differenza di altezza: ci sono dei<br />
suoni più alti e dei suoni più bassi. Uno spazio sonoro dato da un suono glissante, quindi, può<br />
scendere verso suoni gravi-bassi o salire verso suoni acuti-alti. Per questo sarebbe più corretto<br />
rappresentare lo spazio sonoro come una retta verticale, dove si ha un sopra e un sotto. Si potrebbe<br />
dire che l’uso di questa terminologia è arbitraria, soggettiva, ma non è così. Prima di tutto il<br />
termine acuto, ad esempio, potrebbe essere impiegato come termine tecnico che si riferisce ad una<br />
parte dello spazio sonoro, nella quale si trovano determinate note, poi l’uso metaforico di tale<br />
10
termine permette di mettere in evidenza alcune caratteristiche del materiale sonoro che viene con<br />
esso indicato. Parlando del timbro si è accennato al paragone con il colore. Ora abbiamo visto<br />
come ci siamo trovati sin da subito a che fare con suoni discreti. Ma se si parla di colori siamo<br />
sempre in presenza di sfumature. Lo spettro cromatico può essere paragonato allo spazio sonoro.<br />
Ecco che nasce un nuovo problema: il flusso sonoro non può procedere infinitamente da una o<br />
dall’altra parte. La chiusura che ci interessa non è una chiusura percettiva, cioè che riguarda il<br />
campo dell’udibile (suoni che non possono essere percepiti dall’orecchio), ma fenomenologica,<br />
cioè che può essere percepita. Inoltre tale chiusura deve poter essere percepita in ogni punto dello<br />
spazio sonoro come un tendere verso un non plus ultra.<br />
5. Si passa ora a considerare lo spazio sonoro nella sua ciclicità. Per questo è centrale parlare del<br />
concetto di ottava. Dato un suono A 0 all’interno dello spazio sonoro, è possibile, procedendo da<br />
ambo i lati, incontrare lo stesso suono più acuto o più grave, A 1 . Andando avanti è possibile trovare<br />
altri suoni dello stesso tipo del primo solo che sono più alti o più bassi: A 2 , A 3 , A 4 , ..., A n , fino<br />
alla fine dello spazio sonoro. Ora è anche possibile dire che dato un suono tra A 0 e A 1 , B 0 , è possibile<br />
ritrovare lo stesso suono, più alto o più basso, B 1 , tra A 1 e A 2 , e così per il resto dello spazio<br />
sonoro. A questo punto bisogna notare che siamo passati a parlare di suoni puntuali. Le lettere A,<br />
B, C, ..., stanno ad indicare specie astratte di suoni. A questo proposito potrebbe essere usato in<br />
una accezione generale il termine nota. L’indice 0, 1, 2, 3, ..., indica la posizione <strong>della</strong> nota nello<br />
spazio sonoro. La differenza che c’è tra A 0 e A 1 potrebbe essere indicata, in termini di sfumature,<br />
come più chiara o più cupa, mentre tra A e B c’è una differenza cromatica, come tra il rosso e il<br />
giallo. Ora nel concetto di ciclicità si prende in considerazione l’intera varietà delle differenze<br />
cromatiche. Quindi è possibile dire che all’interno dell’ottava non si hanno soltanto i due suoni<br />
identici che sono agli estremi, ma, nel glissare da l’uno all’altro, si ha l’intera gamma dei suoni<br />
presenti nello spazio sonoro. Il segmento dell’ottava rappresenta, quindi, l’intero spazio sonoro.<br />
Premesso questo ne seguono altre due cose: prima di tutto questo segmento dell’ottava deve avere<br />
un centro, un punto equidistante dalle due estremità, poi, ricollegandoci al concetto di ciclicità,<br />
il procedere da un estremo all’altro è un procedere verso una fine che è anche un inizio. Da<br />
qui si ha la circolarità dello spazio sonoro che ha la sua svolta nel punto medio tra i due estremi.<br />
La totalità dello spazio sonoro potrà allora essere rappresentata come una spirale risultante dalla<br />
proiezione di un cerchio che rappresenta l’ottava.<br />
Annotazioni: «... con spazio sonoro in una quarta accezione si può intendere ogni struttura modale<br />
intesa come fondamento di un brano e dunque, in particolare, la tonalità stessa. Si può dire così<br />
che enunciare la tonalità di un brano significa propriamente delimitarne lo spazio, mentre i passaggi<br />
modulanti potranno essere considerati come movimenti da uno spazio all’altro.» [p.204]<br />
6. Si è preso l’avvio parlando dello spazio sonoro, concetto che presuppone la non esistenza oggettiva<br />
<strong>della</strong> discretezza dei suoni e che rende tale suddivisione puramente soggettiva e arbitraria.<br />
L’individuazione <strong>della</strong> presenza dell’intervallo di ottava all’interno dello spazio sonoro ha messo<br />
in evidenza il fatto che questo spazio non è indifferenziato ma pieno di tensioni interne. Tuttavia<br />
anche questo non dà nessun fondamento per la suddivisione discreta delle note. C’è una posizione<br />
secondo la quale la suddivisione dello spazio sonoro in note ha un fondamento oggettivo: se si<br />
parte dal presupposto che lo spazio sonoro è un continuo variare, si hanno delle variazioni minime<br />
che non possono essere percepite come tali. Ecco quindi che il fondamento oggettivo per la<br />
divisione del continuum sonoro in note sta nella percezione. Questo si basa sulla fenomenologia<br />
empirica, e quindi sulla psicologia <strong>della</strong> percezione, ma, secondo tali approcci, ciò che distingue un<br />
suono dall’altro viene visto in modo troppo elementare, e si trascurano vari problemi <strong>della</strong> determinazione<br />
puntuale dei suoni. In <strong>musica</strong> si parla di alterazioni di una nota, con questo si intende<br />
che una stessa nota varia in qualche modo pur mantenendo la propria identità. Quindi non è più<br />
possibile parlare <strong>della</strong> stessa nota, così come era accaduto per le due note all’ottava. Questo è un<br />
problema che si presenta non solo nella <strong>musica</strong> occidentale. Se riprendiamo il concetto secondo il<br />
quale la distinzione tra due suoni puntuali si basa sulla capacità, fenomenologica e percettiva, di<br />
11
cogliere la differenza, allora non ha più senso parlare di alterazioni (accidenti), ma ogni semitono<br />
all’interno <strong>della</strong> scala ha una pari dignità. Sarebbe quindi lecito usare nomi diversi. Con il termine<br />
alterazione avevamo inteso il continuo fluire dello spazio sonoro. Basandoci su questo si possono<br />
cogliere alcuni punti essenziali: prima di tutto la divisione in suoni puntuali non è affatto ovvia,<br />
inoltre l’oggettività puntuale coglie solo un aspetto del problema: se la distanza tra due suoni diminuisce<br />
si fa sentire la tensione del continuo. Dal punto di vista oggettivo l’unica differenza che<br />
esiste tra un intervallo grande ed uno piccolo è che, appunto, uno è grande e l’altro è piccolo. Ma<br />
se ci spostiamo dal punto di vista percettivo/soggetivo le cose sono diverse: quando un intervallo<br />
è piccolo si sente il continuo, l’effetto di alterazione. Tale regola è valida per qualsiasi suddivisione<br />
all’interno dello spazio sonoro. Qui si riallaccia il problema del cromatismo, non inteso solo dal<br />
punto di vista <strong>musica</strong>le (scala cromatica = di tutti i semitoni), ma anche con riferimento al colore<br />
vero e proprio, caratterizzando ciò che è un suono e ciò che è solo una sua sfumatura.<br />
Annotazione: «... è più opportuno, secondo Schönberg intendere l’alterazione come passaggio a<br />
una nota effettivamente altra, piuttosto che come modificazione di un suono: ciò significa la stessa<br />
cosa che prendere le distanze dal cromatismo come approssimazione alla continuità, accentuando invece<br />
il tema <strong>della</strong> discretezza.» [p.213]<br />
7. Si prenda ora in considerazione il problema <strong>della</strong> dissonanza e <strong>della</strong> consonanza. In questo libro<br />
non si danno nuove conoscenze ma si discute solo sulla tenuta dei concetti. Nella <strong>musica</strong> contemporanea<br />
la differenza tra consonanza e dissonanza viene eliminata. Bisogna quindi dire che tale<br />
distinzione è inconsistente e diviene consistente solo all’interno di un determinato linguaggio. Però<br />
bisogna anche dire che tale differenze non è puramente soggettiva ma si basa su un’effettiva<br />
differenza interna al suono. I termini ‘dissonanza’ e ‘consonanza’ possono essere applicati sia a<br />
due note, sia ad un intervallo, sia ad un accordo. Alla base, però, c’è sempre il suonare due note<br />
contemporaneamente. Tra le consonanze si devono ricordare l’unisono e la consonanza di ottava,<br />
ove quest’ultima viene considerata la massima consonanza dopo l’unisono. Dire questo sposta i<br />
termini del problema: non si tratta più di dire cosa è consonante e cosa è dissonante ma anche i<br />
gradi di consonanza e dissonanza. Per la consonanza si usano descrizioni come «coerenza interna»,<br />
presenza di un centro, mentre per la dissonanza si usano descrizioni come suoni che divergono<br />
in opposte direzioni. Ora questi modi di descrivere la consonanza e la dissonanza non hanno<br />
un pura valenza psicologica, altrimenti potrebbero essere semplicemente sostituite con i termini<br />
gradevolezza e sgradevolezza, ma fanno riferimento ad una «latenza espressiva» presente<br />
all’interno degli accordi stessi.<br />
8. Sembra naturale, nel momento in cui ci si deve accingere a decidere cosa caratterizzi obbiettivamente<br />
la dissonanza e la consonanza, rivolgersi alle orecchie come mezzo di giudizio. Infatti tramite<br />
l’udito noi possiamo recepire delle differenze che sono proprie dei suoni. Ma l’orecchio<br />
spesso ci può tradire: a volte siamo chiamati a giudicare la dissonanza e al consonanza su differenze<br />
minime che sono a malapena udibili. Questo fa spostare il problema. Infatti i pitagorici dicevano<br />
che la consonanza e la dissonanza potevano essere espresse con numeri: la consonanza di<br />
ottava è data dal rapporto 2/1 mentre quello di quinta da 3/2.<br />
9. Fino a questo punto abbiamo parlato di dissonanza e di consonanza facendo sempre riferimento<br />
a due note suonate contemporaneamente. Ma la consonanza e la dissonanza sono anche proprietà<br />
degli intervalli: cioè possono essere percepite anche se i suoni vengono in successione. In questo<br />
caso però non è possibile “consuonare”. Se noi prendiamo la consonanza per eccellenza dopo<br />
l’unisono, cioè l’ottava ci rendiamo conto, suonando le note una dopo l’altra, che i due suoni sono<br />
<strong>della</strong> stessa specie. La somiglianza può fornire una base d’appoggio per definire la consonanza e<br />
la dissonanza (più due suoni sono simili più essi sono consonanti e viceversa). Si potrebbe dire<br />
che la consonanza si basa sulla presenza di armonici in comune, ma questa teoria risulta priva di<br />
un fondamento fenomenologico. Prendiamo il caso dell’unisono. Ripetendo in successione la<br />
stessa nota si ha l’apprensione percettiva <strong>della</strong> ripetizione. Ma se la ripetizione viene posta<br />
12
all’interno di una sequenza (A B C D E A) probabilmente non viene percepita come tale. Quello<br />
che si ha è una sintesi-retroattiva (la A alla fine richiama la A iniziale che a sua volta rimanda<br />
all’ultima) che genera un effetto di chiusura <strong>della</strong> sequenza. Si può dire quindi che la chiusura<br />
dell’intervallo determina il grado di somiglianza dei suoni. Nell’intervallo dissonante non c’è nessuna<br />
sintesi-retroattiva infatti esso risulterà aperto.<br />
10. Quanto detto fino a qui serve per impostare il problema ma non lo risolve completamente: restano<br />
sospeso sia la misurazione dei gradi di consonanza, sia la relativizzazione linguistica e psicologica<br />
di tutto il discorso (io posso dire che non sento un intervallo consonante come chiuso). Inoltre<br />
qui si è perso di vista un modo di impostare il problema, che avevamo fatto nostro: nei<br />
confronti del suono non ci troviamo alla presenza di note, di suddivisioni discrete, ma dello spazio<br />
sonoro cioè di un continuum. Ora se manteniamo fermo un suono A 0 e vi sovrapponiamo il<br />
movimento dello spazio sonoro che va da A 0 a A 1 , che è l’intervallo di ottava rappresentante di<br />
tutto lo spazio sonoro, si avrà quanto segue: subito dopo l’unisono iniziale c’è una forte dissonanza<br />
che andrà diminuendo fino a passare nella consonanza. A sua volta la consonanza dopo aver<br />
raggiunto il suo culmine (la quinta) va via via diminuendo, per trapassare nella dissonanza, il cui<br />
culmine si trova immediatamente prima dell’ottava. Viste in questo modo dissonanza e consonanza<br />
risultano come caratteristiche interne dello spazio sonoro: esse sono una tendenza interna del<br />
flusso. Si ha un trapassare <strong>della</strong> dissonanza nella consonanza e viceversa, il tutto gradualmente,<br />
creandosi così due aree, una <strong>della</strong> dissonanza e una <strong>della</strong> consonanza che però non possono essere<br />
distinte con una netta linea di demarcazione. La differenza tra consonanza e dissonanza è realmente<br />
netta soltanto nelle polarità estreme (immediatamente dopo l’unisono e immediatamente<br />
prima dell’ottava).<br />
Annotazioni: La distanza tra le note gioca un ruolo molto importante nella percezione <strong>della</strong> dissonanza<br />
e <strong>della</strong> consonanza. Se prendiamo un intervallo di seconda ed uno di nona risulterà più<br />
dissonante il primo che il secondo. Nel secondo caso i suoni tenderanno ad essere considerati<br />
come differenti.<br />
11. Prendiamo in analisi alcune critiche che potrebbero essere mosse a quest’impostazione. Noi<br />
abbiamo considerato punto nodale <strong>della</strong> dissonanza e <strong>della</strong> consonanza l’intervallo. Abbiamo detto<br />
che prendendo un suono fisso e uno che dall’unisono tende all’ottava, nella prima parte sia ha<br />
un procedere dall’unisono attraverso una dissonanza che va gradualmente diminuendo verso il<br />
punto di massima consonanza (la quinta). Ora mentre un punto di massima consonanza può essere<br />
stabilito non è possibile fare altrettanto per la massima dissonanza che rimarrà un luogo vicino<br />
all’unisono. Quello che può essere generalizzato è che la dissonanza è maggiore quanto minore è<br />
l’intervallo, mentre la consonanza è data dal punto di massima distanza dalla nota fondamentale.<br />
Nella seconda parte dello spazio sonoro si ha un progressivo aumentare <strong>della</strong> dissonanza che<br />
culmina nell’intervallo di ottava. Ora qui l’intervallo rispetto alla nota fondamentale è maggiore<br />
dell’intervallo di quinta, ma può esser fatto notare che nella seconda parte entra in gioco un’altro<br />
rapporto intervallare, cioè quello con l’ottava <strong>della</strong> nota fondamentale: a suo rispetto, partendo<br />
dal punto di massima consonanza, gli intervalli si vanno accorciando. La critica che può essere<br />
mossa è drastica: tutto quello che è stato detto è semplicemente falso. Basti pensare a questo esempio:<br />
un intervallo di tre toni (do-fa#) è molto dissonante, più dissonante <strong>della</strong> quarta (do-fa)<br />
anche se l’intervallo è maggiore, e lo segue il punto di massima consonanza cioè la quinta (do-sol).<br />
Per rispondere a questa critica è sufficiente ricordare il fatto che noi affrontando questo problema<br />
avevamo spostato i termini <strong>della</strong> discussione. Prima di tutto avevamo preso un punto di vista fenomenologico-strutturale,<br />
che riguarda cioè la struttura stessa dello spazio sonoro, rifiutando<br />
l’approccio empirico-psicologico. Poi è stato preso in considerazione lo spazio sonoro nella sua totalità,<br />
rappresentato dall’intervallo d’ottava, rinunciando quindi alla discretezza e a prendere in<br />
analisi i singoli intervalli. Siamo entrati cosi in un nuovo gioco linguistico, dove le parole dissonanza-consonanza<br />
non hanno più il loro senso normale. Quello che è stato dimostrato è quindi quanto<br />
segue: lo spazio sonoro ha in sé una tendenza che è sua propria, gli appartiene. Quindi la rispo-<br />
13
sta che si può dare alla domanda se una terza è o no consonante è la seguente: come faccio a saperlo;<br />
cosa devo comparare e sulla base di cosa? Parlando di un flusso sonoro, di una tendenza<br />
che anima internamente lo spazio sonoro, si mette in evidenza il processo verso un punto di massima<br />
consonanza, processo che è in se dinamico, e non ha senso parlare di oggetti ma solo di fasi<br />
del processo, anche questo intese non in senso statico ma dinamico. Per questo non dobbiamo<br />
dare nessun giudizio sull’intervallo formato da tre toni. La coppia dissonanza/consonanza crea un<br />
nuovo momento di articolazione. La prima articolazione dello spazio sonoro è data dall’ottava<br />
che si ripete ciclicamente nel suo interno e può essere presa come esempio dell’intero spazio sonoro.<br />
La seconda articolazione vista è quella di suoni principali e suoni secondari, cioè alterazioni<br />
dei suoni principali, ma in questa non era stato possibile individuare nessun punto all’interno dello<br />
spazio sonoro. La nuova articolazione che deriva dal rapporto dissonanza/consonanza è data<br />
dalla determinazione di un punto preciso all’interno dell’ottava e <strong>della</strong> determinazione di due intervalli:<br />
quello di quinta e quello di quarta. Tale punto non ha bisogno di giustificarsi come più<br />
gradevole o altro: esso è semplicemente il punto culminante di un’evoluzione: il punto di volta.<br />
Tutto il resto dello spazio risulta come transitorio. Per i greci la parola consonanza («sinfonia») si<br />
poteva applicare solo a due intervalli: a quello di quarta e a quello di quinta, tutto il resto era dissonante.<br />
12. La regola fenomenologica è una regola legata strettamente alla forma e ai modi di manifestazione<br />
del materiale percettivo. Un esempio può essere fornito dal fatto che se una nota ha una<br />
maggiore o una minore durata all’interno di una sequenza o se si trova all’inizio e/o alla fine di<br />
questa, tale nota acquista un peso maggiore all’interno <strong>della</strong> sequenza. Il fatto che in una sequenza<br />
vi siano suoni con un importanza maggiore ed altri con una minore si fonda sul concetto di articolazione<br />
come base per la melodia (considerata in un’accezione massimamente ampia). Le tensioni<br />
presenti all’interno dello spazio sonoro hanno la caratteristica di differenziare la continuità e<br />
fornire una base per il passaggio dal continuo al discreto. Le regole di cui sopra abbiamo dato un<br />
esempio si basano su delle caratteristiche strutturali dello spazio sonoro ma non sono riferite ad<br />
un particolare linguaggio; esse, infatti, potrebbero essere utilizzate in molti modi diversi<br />
all’interno di un progetto espressivo. Possiamo, infatti, supporre l’esistenza di due linguaggi dove<br />
sono presenti regole diametralmente opposte: a) ci deve essere sempre in una sequenza una nota<br />
che ha più peso (viene ripetuta, è più lunga, si trova all’inizio e/o alla fine, ecc.); b) tutte le note di<br />
una sequenza devono avere lo stesso peso. Entrambe le norme presuppongono la validità <strong>della</strong><br />
regola fenomenologica detta sopra. Dopo che abbiamo determinato l’intervallo di quinta nella sua<br />
esistenza fenomenologica, non ci poniamo neppure il problema di come farlo valere espressivamente<br />
in un linguaggio. Quello di cui si ha bisogno è la creazione di una teoria generale <strong>della</strong> <strong>musica</strong>.<br />
Per fare questo è necessario regredire ad un piano prelinguistico per dimostrare l’esistenza di<br />
una grammatica di base.<br />
SIMBOLO<br />
1. Il problema del senso <strong>della</strong> <strong>musica</strong> è stato più volte dibattuto. Le posizioni sono essenzialmente<br />
due: da una parte ci sono quelli che vogliono vedere nella <strong>musica</strong> l’espressione di sentimenti e<br />
pensieri del compositore, dall’altra c’è la posizione dei così detti formalisti che negano tale possibilità.<br />
L’idea dei formalisti, tra i quali bisogna ricordare Stravinsky e Schönberg, può essere riassunta<br />
nel seguente modo: i suoni non sono simboli ma segni. Stravinsky chiarisce dicendo che,<br />
con la frase «L’espressione non è mai stata la proprietà immanente <strong>della</strong> <strong>musica</strong>.» non intendeva<br />
negare l’esistenza di un pensiero e di un emozione alla base dell’ispirazione del compositore, bensì<br />
porre l’attenzione sulla realtà, sulla dimensione dell’essere dell’opera: non importa cosa il compositore<br />
abbia pensato scegliendo una nota: una nota rimarrà sempre una nota. Impastando la<br />
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<strong>musica</strong> con i nostri vissuti, i nostri pensieri e sentimenti noi la priviamo del suo essere. L’unica<br />
analisi possibile nella <strong>musica</strong> è quindi quella tecnica. D’altra parte non si può negare l’esplicito<br />
riferimento al mondo reale fatto dai compositori del XIX secolo, riferimento reso palese sia nel<br />
titolo dell’opera (vedi la Pastorale di Beethoven), che nelle dichiarazioni degli autori stessi. Jankélévitch<br />
afferma che «la volontà di non esprimere nulla è la grande civetteria del ventesimo secolo.»<br />
Anche da questa parte si sono giunti a numerosi eccessi: analisi simboliche che sono state fatte,<br />
passo dopo passo, di intere opere.<br />
2. Bisogna affrontare una discussione su quanto detto sopra. Il punto di partenza deve essere il<br />
seguente: data per scontata una critica antipsicologistica, fino a che punto questa deve implicare<br />
una forte presa di posizione formalista? Per “forte presa di posizione formalista” qui si intende<br />
una posizione che non solo nega la possibilità di citazione letterari o riferimenti a quadri, ma che<br />
afferma una chiusura semantica da parte <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. Chiusura che non accetta altra memoria<br />
che quella interna al brano, né altra immaginazione che non serva per delineare collegamenti tra le<br />
note del brano. Senza parlare dei pensieri <strong>musica</strong>li già citati in precedenza. Inoltre il punto di vista<br />
formalista vede gli accostamenti di <strong>musica</strong> e parole o <strong>musica</strong> e mimica, ecc, come pura finzione,<br />
legittimata al massimo dall’accordo sociale. Nel capitolo sul tempo si è già negata la necessità di<br />
legare l’affettività con la <strong>musica</strong> basandosi sulla natura temporale di quest’ultima. Ma negare la<br />
necessità non significa negare la possibilità. Ora se prendiamo i casi estremi dati dalla <strong>musica</strong> orientale<br />
ed in particolare indiana, dove i raga esprimo sentimenti diversi, e si raggiungono estremi<br />
tali da far venir voglia di risolvere la questione usando la risposta più semplice, cioè quella formalista,<br />
ci si accorge che il nostro compito non è tanto porre il limite alla simbolicità, quanto quello<br />
di vedere se tale processo simbolico può avere inizio.<br />
3. I formalisti rifiutano qualsiasi possibilità di simbolismo <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. Ma Hanslick fa notare<br />
che la critica al simbolismo <strong>musica</strong>le viene mossa non tanto al fatto che vi siano dei sentimenti<br />
dietro la <strong>musica</strong>, quanto alla possibilità di determinare tali sentimenti. S. Langer sviluppa quanto<br />
detto da Hanslick dicendo che il sentimento ha una forma e che tale forma avrebbe una certa somiglianza<br />
con la forma <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. L’impostazione <strong>della</strong> Langer è una impostazione semiologica,<br />
in un senso un po’ particolare. Lei rifiuta di considerare la <strong>musica</strong> come un linguaggio, dice<br />
infatti che bisogna distinguere tra «... segni che sono segnali dell’esistenza di qualcosa ...», e segni<br />
che non esplicano questa funzione. Questi ultimi sono i così detti simboli. I simboli si dividono in<br />
linguistici che hanno la proprietà di denotare, e simboli non-linguistici che, appunto, non denotano<br />
nulla, ma hanno un modo diverso di simbolizzare. La simbolizzazione effettuata dalla <strong>musica</strong> si<br />
basa sull’isomorfismo tra la struttura <strong>della</strong> <strong>musica</strong> e quella del sentimento: la Langer parla di<br />
«stretta somiglianza «logica».» Ma proprio nelle questioni del simbolo e <strong>della</strong> forma del sentimento<br />
risiedono i maggiori problemi. Si postula, infatti, che i sentimenti hanno una qualche forma.<br />
Tra forma <strong>della</strong> <strong>musica</strong> e forma del sentimento ci sarebbe una simmetria che è invece esclusa dal<br />
rapporto denotativo. Ora se si postula questo sarebbe possibile anche stabilire un andamento inverso:<br />
cioè data la “forma del sentimento” si può risalire alla forma <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. In altre parole si<br />
arriva ad affermare un’interscambiabilità tra il simbolo e ciò che è simbolizzato. Ci dovrebbero<br />
essere degli indicatori esterni che fanno di un “grafico” il simbolo dell’altro. La Langer risolve<br />
questo problema dicendo semplicemente che la determinazione di cosa è il simbolo e cosa il simbolizzato<br />
si basa sul fatto che uno dei due è più facile da produrre, manipolare ed organizzare.<br />
Ma questa certo non è una risposta adeguata al problema. Un’altra critica deve essere mossa alla<br />
teoria <strong>della</strong> Langer a proposito <strong>della</strong> forma del sentimento. Ciò che deve essere messo in discussine<br />
non è tanto il fatto che il sentimento abbia una forma, quanto il fatto che tutti i sentimenti,<br />
gioia, ira, dolore, hanno tutti uno stesso andamento, che sarebbe quindi «la forma generale <strong>della</strong><br />
vita emotiva.». La simbolicità <strong>della</strong> <strong>musica</strong> si riferirebbe, così, alla forma generale <strong>della</strong> vita emotiva,<br />
e avrebbe un solo senso simbolico. L’impossibilità di determinare il sentimento individuata da<br />
Haslick finisce per risultare un impoverimento.<br />
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4. La critica formalista vuole porre l’accento sulla <strong>musica</strong> in sé, sul «le sue regole immanenti».<br />
Questo porta a liberare la <strong>musica</strong> da tutti quei rivestimenti simbolici che la celavano. In realtà gli<br />
approcci simbolici che vedono nella <strong>musica</strong> l’espressione di sentimenti, ma anche di paesaggi, di<br />
situazioni ecc., criticati dai formalisti, legano la <strong>musica</strong>, la trattengono terra terra. Movendosi<br />
all’interno di un orizzonte formalistico ci si rende conto che una critica del simbolismo, e una differenziazione<br />
<strong>della</strong> <strong>musica</strong> rispetto al linguaggio o alla pittura, dicendo che la <strong>musica</strong> non ha senso,<br />
non soddisfa pienamente il problema: la <strong>musica</strong> non può essere semplicemente una successione<br />
di eventi fisici. Questo porta ad un sublimazione. Il senso interno alla <strong>musica</strong>, privo di qualsiasi<br />
riscontro oggettivo, è non verbalizzabile perché trascende la parola: è un significato ineffabile.<br />
Accanto ad un’accezione letterale del termine ineffabile (ad esempio l’aroma del caffè è ineffabile<br />
ma può essere espresso dalle parole anche se solo l’esperienza può dargli pienezza), possiamo avere<br />
un’accezione esaltata: l’ineffabile è ciò che non può essere espresso con le parole per il fatto<br />
stesso che il linguaggio ha una sua limitatezza. L’ineffabile è quindi una sovrabbondanza di senso<br />
che può essere espressa solo dalla <strong>musica</strong>. C’è una strada che dal formalismo porta a quanto appena<br />
detto. La <strong>musica</strong> del novecento, rivolgendosi al materiale sonoro, non ha negato il grande<br />
messaggio, ma neppure il messaggio troppo grande.<br />
5. A questo punto, bisogna dare una nuova impostazione al problema del senso che è stato fino<br />
ad ora discusso senza seguire un filo logico particolare. Prima di tutto bisogna dire che il «problema<br />
del senso» nasce nella sua formulazione dall’assunzione <strong>della</strong> <strong>musica</strong> come sistema di segni,<br />
a prescindere da quale soluzione viene poi data a tale problema. Ma la <strong>musica</strong> è segno di cosa? Se<br />
non si riesce a fornire una risposta allora siamo in presenza di una ruota che gira a vuoto. Non<br />
prendiamo le mosse dalla <strong>musica</strong> come segno ma ci poniamo nella dimensione dell’ascolto: ora<br />
abbiamo i suoni davanti: «Che cosa possiamo fare con i suoni?» Quali sono le loro possibilità intrinseche?<br />
Ci accorgiamo allora che «la <strong>musica</strong> è anzitutto un insieme di possibilità». Entra in<br />
questione il gioco: il bambino che giocando sperimenta le possibilità combinatorie dei cubi. Stiamo<br />
parlando nuovamente delle origini <strong>della</strong> <strong>musica</strong>. Nello sperimentare le possibilità non c’è<br />
l’intenzione di dire qualcosa. È necessario che prima di tutto i suoni vengano scoperti nel loro essere<br />
e nelle loro possibilità. Ora la «<strong>musica</strong> ha molte origini» ma in tutte è presente quanto è stato<br />
appena detto.<br />
6. Come ritornare alla pluralità delle dimensioni <strong>della</strong> <strong>musica</strong> e quindi anche al problema del suo<br />
senso, che è strettamente collegato con questa, specialmente dopo che si è assunto il principio secondo<br />
cui «la <strong>musica</strong> è eminentemente arte <strong>della</strong> sintassi»? Perché questo avvenga si deve ammettere<br />
che all’interno <strong>della</strong> chiusura «tautologica» <strong>della</strong> <strong>musica</strong> irrompa il mondo, e non solo il<br />
mondo dei sentimenti (mondo interiore), ma il mondo nella sua totalità. Nel fare questo si deve<br />
evitare da una parte di cadere nuovamente all’interno <strong>della</strong> dicotomi cifra/segno, cioè tra la <strong>musica</strong><br />
come mezzo per esprimere ciò che altrimenti sarebbe inesprimibile, e la <strong>musica</strong> come segno a<br />
cui le abitudini hanno attribuito un ambito di referenza più o meno determinato, dall’altra si deve<br />
superare in blocco non solo la suddetta dicotomia, ma anche quel modello rappresentativo che<br />
affiora al di sotto di molti approcci, anche con posizioni diverse. Quest’ultimo ostacolo non si supera<br />
semplicemente appellandosi all’indeterminatezza del simbolizzato. Si riprende<br />
l’impostazione che era stata data al problema: il bambino entra in una stanza dove c’è un grande<br />
organo ed inizia a giocare con i suoni. Perché il bambino decidere di spendere tempo in questo<br />
modo? Perché indugia «senza scopo» presso i suoni? Una possibile risposta a questa domanda<br />
potrebbe essere che egli è catturato dal fascino del suono: i suoni lo attraggono. Prima di accettare<br />
tale risposta si deve riflettere sul suo significato. In precedenza i suoni erano stati definiti attraenti<br />
sulla base <strong>della</strong> loro essere essenzialmente degli eventi temporali ma dire in questo caso che i suoni<br />
hanno attratto il bambino solo per ragioni temporalistiche sembra riduttivo. Nell’impostazione<br />
di questo studio c’era stato da sempre un atteggiamento conoscitivo che tende a superare «la superficie<br />
fenomenologica per raggiungere il terreno delle spiegazioni autentiche». Ora ci tratte-<br />
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niamo proprio su questa superficie, non solo perché «l’ente di cui si tratta è comunque sempre<br />
afferrato su» di essa, ma anche perché «il suono non è ora tenuto fermo come identità soggiacente<br />
alle sue determinazioni, ma ogni sua determinazione rappresenta un possibile punto di innesto<br />
per le operazioni valorizzanti dell’immaginazione. Ciò significa che il suono, entrando nei dinamismi<br />
delle sintesi immaginative, tende a diventare esso stesso, in ogni sua determinazione, un vettore<br />
dell’immaginazione.» Bisogna spiegare che cosa si intende per immaginazione. Si potrebbe definire<br />
come fantasia l’immaginazione che, pur creando delle “variazioni sul tema”, si basa su cose,<br />
oggetti, immagini che fanno in qualche modo riferimento alla realtà. L’immaginazione immaginosa<br />
si basa su «figure» con contorni indeterminati, sorgono «da uno sconfinamento che segnala la<br />
presenza di procedure unificanti che dissolvono, anziché confermarla, l’oggettività stessa. A queste<br />
procedure si deve la transizione che conferisce all’oggettività il carattere di valore immaginativo.<br />
La cosa che è stata valorizzata attraverso le sintesi dell’immaginazione si è risolta, come cosa,<br />
in queste sintesi: e poiché esse non debbono essere concepite staticamente, come mere giustapposizioni<br />
di contenuti, il carattere di valore immaginativo consiste essenzialmente in un’inclinazione<br />
dinamica, in una tendenza al movimento, nella manifestazione di una direzione.» [p. 282] È in<br />
questo modo che si ritorna a parlare di senso inteso come direzione, e l’espressione direzione di<br />
senso risulta essere un rafforzativo. L’operare del valore immaginativo non deve essere pensato<br />
come la creazione di immagini e con l’eventuale determinazione di un esplicito rapporto simbolico,<br />
ma deve essere visto nella sua origine mentre si innesta sulla percezione, su ogni singolo suono<br />
che ha in se una grande inquietudine immaginativa. «Nel momento in cui indugiamo presso di essi<br />
prestando il nostro ascolto, avvertiamo così il germinare di un senso attraverso le determinazione<br />
dell’essere.<br />
Per questo motivo riteniamo di poter parlare, per quanto ciò possa forse apparire singolare, di un<br />
senso in rapporto, ad esempio, a una qualità timbrica come tale, volendo con ciò significare che a<br />
partire da essa viene puntata una regione dell’immaginazione, che da essa ha inizio un movimento<br />
che conduce verso quella regione.» [p. 283] Il parlare di una timbrica come, cupa, chiara, ecc. è<br />
un espressione soggettiva di un senso che se reso oggettivo perderebbe quella indeterminatezza<br />
che le è propria. «Ecco dunque in che modo possiamo dire ancora una volta che i suoni sono attraenti.<br />
Al movimento dovuto alla pura forma temporale si aggiunge ora l’attrazione esercitata dalla<br />
materia sonora concreta in quanto essa rappresenta l’inizio di un movimento<br />
dell’immaginazione. Ciò che attrae è il senso stesso, ed esso attrae nello stesso modo di una strada<br />
in discesa.» [p. 283]<br />
7. Il problema del senso <strong>della</strong> <strong>musica</strong> non viene quindi chiamato in causa dalla linguisticità o dalla<br />
non linguisticità di questa, ma dal rapporto tra immaginazione e suono. In questo rapporto<br />
l’immaginazione è un elemento che non ha nulla a che fare con la fantasia, intesa come libera ricostruzione<br />
<strong>della</strong> realtà, che, in un modo o nell’altro, mantiene con il reale un certo rapporto, anche<br />
nei casi più estremi. L’immaginazione nella <strong>musica</strong> è legata strettamente alla percezione, alle figurazioni<br />
sonore e si potrebbe parlare di immaginazione compositiva, combinatoria, «matematica».<br />
Inoltre bisogna dire che l’immaginazione ha la funzione di valorizzare il materiale sonoro stesso.<br />
Si instaura una doppia relazione che rimanda dal materiale sonoro all’immaginazione e vice versa.<br />
La valorizzazione apre il suono ad una molteplicità di relazioni e «il carattere di valore immaginativo<br />
non consiste tanto nella determinazione <strong>della</strong> molteplicità, quanto piuttosto nel mantenimento<br />
dell’apertura» [p. 285]. Se si prende ad esempio la differenza tra il piano e il forte, ci si accorge<br />
che ad ognuno di questi momenti appartiene una caratterizzazione che è sua propria, una coloritura<br />
emotiva che gli appartiene: piano = «intimità, segretezza, solitudine, nostalgia» lontananza<br />
ecc. Forse che allora il suono significa tutte queste cose? Bisogna fare qui una precisazione: prima<br />
di tutto «significare» dovrebbe essere meglio definito, poi non è possibile parlare di «cose» in<br />
quanto si parla di «sensi», inoltre non è possibile dire «tutte» perché non sono numerabili. In fine,<br />
nella frase criticata si presume l’attualità, mentre qui si ha solo un dinamismo immaginativo latente.<br />
Il concetto di dinamismo immaginativo latente può essere collegato con quello di risonanza:<br />
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vedi due diapason che vibrano per risonanza. È possibile riaprire la tematica del simbolo basandosi<br />
sul concepire il senso connesso all’immaginazione, e non ad una dimensione puramente sintattica.<br />
Il termine “simbolo” è stato definito in vari modi. Senza riaprire questa discussione basterà<br />
dire che qui esso è importante per il tema <strong>della</strong> valorizzazione da cui il problema del simbolo<br />
prende le mosse.<br />
8. Si accetta, quindi, una posizione formalista rivisitata.<br />
9. Il problema del simbolo come è stato riproposto in questo studio è ben lungi dall’occuparsi del<br />
«cosa attraverso la <strong>musica</strong> debba essere espresso e come». Qui si è semplicemente individuata la<br />
struttura e la natura simbolica <strong>della</strong> <strong>musica</strong>: il gioco che deriva dalle combinazioni possibili viene<br />
lasciato ai musicisti. «Come abbiamo ripetuto più volte, l’accento deve essere posto da parte nostra<br />
sul tema <strong>della</strong> possibilità, e proprio per questo è per noi importante dare il massimo rilievo<br />
all’idea <strong>della</strong> molteplicità di dimensioni del <strong>musica</strong>le, un’idea la cui giustificazione e teorizzazione<br />
va certamente oltre la semplice presa d’atto <strong>della</strong> molteplicità dei linguaggi <strong>musica</strong>li.» [p.294] Inoltre<br />
si pone l’accento sul rapporto tra il simbolismo e la realtà. Tra un senso che si popone come<br />
una finzione sovrapposta al brano <strong>musica</strong>le e il senso innegabile. Si fa notare che «nelle distinzioni<br />
elementari del rapido e del lento, dell’alto e del basso, del salire e dello scendere, del continuo<br />
e del discontinuo, dell’aspro e del dolce, del leggero e del pesante, del concordante e del discordante,<br />
e così via, si fa avanti la complessità <strong>della</strong> realtà stessa in tutta la varietà e la ricchezza<br />
delle sue determinazioni.» La <strong>musica</strong> ha molte dimensioni così come molti sono i modi di pensare<br />
dell’uomo. «Nessun pensiero <strong>musica</strong>le potrebbe sorgere se non ci fossero altri pensieri. E sarebbe<br />
certamente sbagliato ritenere che questi altri pensieri non possano in alcun modo penetrare<br />
all’interno del brano, contribuendo a determinare il suo senso.» [p. 295]<br />
Commenti<br />
Quella di <strong>Giovanni</strong> <strong>Piana</strong> è una filosofia <strong>della</strong> <strong>musica</strong> che si colloca prima del fenomeno<br />
<strong>musica</strong>le; che ha il suo punto di partenza nelle manifestazioni fisico acustici ed ha come scopo<br />
quello di spiegare come si possa passare dal suono-segnale a suono <strong>musica</strong>le, scartando a priori la<br />
semplificazione secondo la quale vi sarebbe una differenza ontologica tra i due tipi di manifestazioni.<br />
L’impressione che si ricava dalla lettura di questo libro è quella di tornare sempre a parlare<br />
degli stessi problemi, passando, però, ogni volta ad un livello più profondo. Non può stupire,<br />
quindi, che la reintroduzione del simbolo in <strong>musica</strong> avvenga grazie alla stessa dimensione<br />
dell’ascolto che, nel primo capitolo, serve per svincolare il suono dalla cosa che lo ha prodotto.<br />
<strong>Piana</strong> riflette su dei concetti semplici come la materia, il tempo, lo spazio, il simbolo, e lo<br />
fa partendo sempre da uno stadio pre-linguistico, per poi far scaturire dalle sue osservazioni i pilastri<br />
che reggono qualsiasi genere di <strong>musica</strong>, indipendentemente dalla cultura a cui appartiene.<br />
Alla base di questo c’è una concezione, esposta sin dalla parte introduttiva, di una semplicità disarmante,<br />
ma che nel corso del lavoro trova innumerevoli applicazioni, nei diversi livelli: il senso<br />
nasce sempre dall’incontro di un tempo e di una struttura, dove per ‘tempo’ si intende quello storico-psicologico<br />
di un determinato individuo, e dove per ‘struttura’ si intende una serie di relazioni,<br />
oggettivamente date, non indifferenti.<br />
Il libro di <strong>Piana</strong> costituisce uno strumento indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi<br />
ai problemi che riguardano la comunicazione <strong>musica</strong>le. (a.g.)<br />
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