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Storia della letteratura greca<br />
Gennaro <strong>Perrotta</strong><br />
Principato Editore<br />
Anite<br />
Pag. 381 sg.<br />
“Nacque a Tègea, in Arcadia, e scrisse prevalentemente poesie liriche, oltre che epigrammi. L’età è<br />
incerta: sappiamo <strong>solo</strong> che i suoi concittadini, per onorarla, le innalzarono una statua prima del<br />
290, e che essa è già imitata da Nicia, medico e poeta, amico di Teocrito. Con tutta probabilità fu,<br />
dunque, coetanea di Filita. Di lei ci restano poco più di venti epigrammi. Alcuni di essi sono vere<br />
iscrizioni, composte per commissione dei suoi concittadini: soprattutto iscrizioni sepolcrali. Uno è<br />
un epitaffio per una giovinetta morta prima delle nozze: >. L’epigramma culmimna nela chiusa, che<br />
è una trovata squisitamente ellenistica, ma è così affettuosa e femminea, che non sembra più<br />
nemmeno una trovata. Ma la tendenza più caratteristica di Anite è di rappresentare il paesaggio.<br />
Per la prima volta troviamo espresso in poesia quel sentimento bucolico della natura, che avrà la<br />
sua più genuina espressione in Teocrito, e sarà proprio anche di grandi poeti latini, come Virgilio<br />
nelle Bucoliche ( il sentimento della natura diventerà molto più profondo nel Virgilio delle<br />
Georgiche ), e come Orazio. Anite ama l’ombra dei grandi alberi, che dà ristoro al viandante<br />
affaticato, ascolta con gioia il mormorio d’una fonte che sgorga dalla roccia. Così, in un epigramma<br />
l’invito al viandante stanco viene da un’erma, che sorge in un trivio presso un orto ameno, vicino<br />
al mare : >. Un’altra<br />
tendenza caratteristica di Anite, che sarà poi una tendenza di molti epigrammisti, è la sua simpatia<br />
per gli animali. Essa scrive epitaffi per il gallo, per il delfino, per la cavalletta,per la cicala. Anite è<br />
impeccabile nella lingua e nel metro; semplicità, sobrietà, schiettezza sono le sue doti. Ebbe molti<br />
imitatori: Leonida, Nicia, Teocrito nei primi decenni del III secolo, Mnasalce verso la fine”.
Pag. 99 sg.<br />
Corinna<br />
“Nata a Tanagra in Beozia, questa poetessa fiorì tra la fine del VI secolo e la prima metà del V<br />
secolo. La tradizione la mette spesso in rapporto con Pindaro, del quale sarebbe stata maestra e<br />
rivale fortunata. Secondo un noto aneddoto, un giorno Corinna rimproverò Pindaro perché in un<br />
suo carme aveva dato troppo poco posto ai miti. E Pindaro le diede retta, e compose per i Tebani<br />
un inno che cominciava: >. Questa volta Corinna disse<br />
spiritosamente: >. Naturalmente<br />
nessuno può dire se sia vero o falso l’aneddoto, secondo il quale Corinna avrebbe insegnato a<br />
Pindaro >, come la chiama l’antico biografo di Pindaro. Ma la gara con Pindaro<br />
fu certamente inventata, perché in un suo frammento proprio Corinna biasima un'altra poetessa,<br />
Mirtide d’Antedone, . Gli antichi dividevano<br />
in cinque libri i canti lirici di Corinna; alcuni erano nomi citarodici. <strong>Non</strong> apprezzarono molto la<br />
poetessa: da principio esclusa dal canone alessandrino dei lirici, vi fu aggiunta più tardi, al decimo<br />
ed ultimo posto. Corinna scrive in dialetto beotico, (i frammenti sono giunti a noi nell’ortografia<br />
fonetica del IV secolo a.C.): è questa una vera eccezione, poiché il dialetto della poesia greca è<br />
sempre letterario. La poetessa rinunzia a cantare per tutta la Grecia, ma si contenta di rivolgersi<br />
alle sue contadine, come dice essa stessa: . E cioè , intitolò essa stessa con<br />
grazia modesta alcuni dei suoi carmi.<br />
Corinna cantava non esclusivamente, ma in gran prevalenza, saghe beotiche. Fino a non molti anni or sono avevamo<br />
alcuni titoli (Beoto, Iolao, I Sette contro Tebe, Il ritorno ecc.) e alcuni frammenti insignificanti. Il Ritorno cantava Orione,<br />
il celebre cacciatore del mito, che tornava nella Beozia a conquistarla; un altro poemetto, Tanagra, narrava l’origine di<br />
Tanagra, la patria della poetessa. Nel 1906 i papiri d’Egitto ci hanno reso frammenti lunghi di due carmi: soltanto di<br />
allora abbiamo un’idea dell’arte di Corinna. Il primo, la Gara tra l’Elicona e il Citerone, raccontava una singolare gara di<br />
canto tra i due monti della Beozia, essendo giudici gli dei: non ci è conservato il canto dell’Elicona, ma soltanto la fine<br />
di quello del Citerone, che cantava la nascita di Zeus. Gli dei, a maggioranza, davano la vittoria al Citerone, e l’Elicona<br />
manifestava il suo dolore facendo cadere macigni dal suo dorso. L’argomento è proprio della poesia popolare, come<br />
provano due canti popolari neogreci che cantano l’agone dell’Ossa e dell’Olimpo. Nell’altro carme, Le Asopidi,<br />
l’indovino Acrefen, figlio di Orione, predice ad Asopo la sorte delle sue nove figlie: tre saranno amate da Zeus, tre da<br />
Posidone, due da Apollo, una da Ermes, e da tutte nasceranno stirpi di eroi valorosi.<br />
I suoi poemetti monodici, probabilmente nomi, sono una specie di ballate epico-liriche che non<br />
hanno grande valore poetico, ma possono piacere per una certa ingenuità e freschezza primitiva. È<br />
un’arte esile e monotona, che conserva il tono della saga popolare. <strong>Non</strong> senza ragione si è pensato<br />
che questi poemetti possono dare in qualche modo un’idea delle ballate eoliche che precedettero<br />
i poemi di Omero: probabilmente sono un lontano eco di esse.
Il metro è semplice e primitivo: strofette di dimetri ionici chiusi da un trimetro nella Gara, di dimetri coriambici nelle<br />
Asopidi, trattati con molta libertà. È sobrio e asciutto lo stile: abbondano i discorsi diretti, anch’essi molto rapidi. Ma<br />
semplicità e sobrietà non bastano a far divenire poesia l’impoetica aridità di Corinna. Recentemente un papiro ci ha<br />
restituito qualche verso dell’inizio del suo Oreste: il carme cominciava con un’invocazione all’Aurora”.<br />
Mero<br />
Pag. 390<br />
“Mero (non Miro) di Bisanzio, moglie di Andromaco soprannominato “filologos” (>), e madre di Omero il giovane, uno dei poeti della Pleiade tragica, scrisse carmi epici,<br />
elegiaci, lirici. È a un dipresso una coetanea di Anite e di Nosside. La sua opera più celebre<br />
era un inno a Posidone, di cui ci resta il primo verso. Del suo carme in esametri intitolato<br />
“Mnemosine” sono conservati dieci versi molto graziosi, che narrano l’infanzia di Zeus a<br />
Creta.<br />
Nulla ci resta delle “Arai”, (>). Con quest’opera Mero iniziò un genere<br />
nuovo, che genere nuovo, che sarà coltivato da Callimaco (nell’Ibis) e da Eurifone, e troverà<br />
imitatori anche nella poesia romana (le Dirae attribuite a Valerio Catone, l’Ibis di Ovidio) ”.<br />
Mirtide<br />
Pag. 93<br />
“La tradizione antica considera Mirtide e Corinna maestre di Pindaro”.<br />
Nosside<br />
Pag. 382 sg.<br />
“Nativa di Locri Epizefiri (nell’attuale Calabria), fiorì intorno al 300, come Anite. Nosside<br />
compose anche carmi melici; ma noi restano soltanto dodici epigrammi. Uno di essi è un<br />
finto epitaffio per lei stessa: >. La poetessa connette essa stessa la<br />
sua arte con quella di <strong>Saffo</strong>, e a <strong>Saffo</strong> assomiglia davvero non soltanto perché celebra con<br />
calde lodi la bellezza delle amiche, ma perché canta ardentemente l’amore. Dice il più bello<br />
dei suoi epigrammi, che è come un programma d’arte e di vita: >. Ingiustamente Nosside è stata ritenuta un’etera. Sette dei suoi epigrammi sono<br />
rivolti a donne; quattro celebrano altrettanti ritratti di amiche dedicati nel tempio di<br />
Afrodite. Queste donne non sono etere, né ad esse Nosside si rivolge come un’etera.
Sembra naturale pensare a un tiaso femminile come quello di <strong>Saffo</strong>. Giustamente<br />
meleagro, nel proemio alla sua Corona, esalta >. Per la sua femminilità squisita, per il suo ardore, per<br />
la sua incantevole grazia, Nosside, più di ogni altra poetessa greca, più della stessa Erinna,<br />
fa pensare a <strong>Saffo</strong> ”.<br />
Paola Tizzano