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TREIA<br />

terra del cuore e del sogno<br />

Testi dal romanzo<br />

di <strong>Dolores</strong> Prato<br />

Giù la piazza<br />

non c’è nessuno


2<br />

Io la chiamerò chiamer paese, ma<br />

essa è città. La restituì alla<br />

dignità civica uun<br />

papa che ne<br />

riscosse un monumento monu librato<br />

nell’aria; ne in<br />

bronzo br il suo<br />

ritratto a<br />

mezzo busto;<br />

iil<br />

resto pietra,<br />

sslancio,<br />

luce;<br />

st sta alto nello<br />

sp spazio come<br />

un<br />

gigantesco<br />

ostensorio e per fondo non potrà<br />

mai avere che il cielo… Voltando le<br />

spalle al Comune si aveva davanti<br />

qualcosa più vicina ad una visione<br />

che a una costruzione. Leggermente<br />

contenuta ai lati, di fronte la Piazza<br />

sfociava nel cielo; non c’era nulla,<br />

cielo e basta.<br />

Solo per limitare il vuoto, una<br />

balaustra di pietra che aveva<br />

nel mezzo un arioso ninfeo tutto<br />

aperto, perché le isolate colonne,<br />

la poca trabeazione, l’accenno di<br />

cupola, pur alzandosi contro il<br />

cielo non lo parasse.<br />

Balaustra e monumento lo<br />

ricamavano, non lo escludevano.<br />

Monumento, giacché in mezzo a<br />

quella nicchia ottica che non lo<br />

riparava, certo, ma lo stagliava<br />

sul cielo, c’era il semibusto di<br />

Pio VI. La balaustra di lontano<br />

sembrava quella di qualsiasi<br />

terrazzo, ma da vicino era<br />

poderosa c’erano anche degli<br />

scalini per arrivarci… Anche<br />

dalle mura di levante vedevo<br />

tutta la terra e tutto il cielo fi no<br />

al loro congiungimento, ma le<br />

stesse cose viste di lassù furono<br />

un’impressione di vuoto nel centro<br />

della vita dove sta il sole del corpo:<br />

la terra s’era sprofondata e il cielo<br />

abbassato.<br />

La balaustra era la cimasa di<br />

una enorme scarpata che andava<br />

giù giù fi no in fondo dove c’era<br />

una cosa che se fosse stata brutta,<br />

avrebbe potuto essere l’inferno<br />

tanto era profonda; ma era<br />

chiara, luminosa, liscia come<br />

un’altra piazza dentro la cornice<br />

di un lungo muricciolo e di due<br />

scalinate: quello era il gioco del<br />

pallone.<br />

3


4<br />

Il bracciale era un<br />

manicotto di legno duro<br />

con grossi spunzoni<br />

come un bugnato a punta di<br />

diamante, attraversato nell’interno<br />

da qualcosa a cui si afferrava la<br />

mano del giocatore.<br />

I giocatori erano vestiti di bianco,<br />

calzoncini corti adorni di pizzi,<br />

legati al ginocchio con nastri sopra<br />

le lunghe calze bianche, scarpe<br />

basse, una giacchetta a sacco piena<br />

di falpalà e di trine come i matinée<br />

delle signore; in vita una sciarpa<br />

di seta colorata pendente da un<br />

lato con frange d’oro. Fiore, fi glio<br />

di Lello il macellaio, alto, quasi<br />

biondo, bellissimo, quando passava<br />

vestito a quel modo pareva un<br />

arcangelo sceso dal cielo.<br />

Per il gioco del pallone ci voleva un<br />

muro. Macerata se l’era costruito<br />

tanto tempo prima che cadesse il<br />

papa, un muro interminabile, si<br />

chiamava lo Sferisterio perchè il<br />

pallone è una sfera.<br />

A Treja c’era il muro, ma non<br />

fabbricato per il gioco, era il muro<br />

che sosteneva la più bella piazza<br />

pensile del mondo…<br />

Da quel gioco del pallone era<br />

uscito un giocatore che se non<br />

era lui, era il diavolo; per la<br />

bravura di quel diavolo trejese, il<br />

recanatese Leopardi scrisse l’ode<br />

A un vincitore nel pallone.<br />

Quando giravo estasiata avanti<br />

ai banchi dei chincaglieri sotto le<br />

Logge… era il nome ad entrarmi<br />

di prepotenza negli occhi tanto<br />

era scritto grosso in una lapide:<br />

“Carlo Didimi”.<br />

5


6<br />

Treja fu il mio spazio,<br />

il panorama che<br />

la circonda la mia<br />

visione: terra del<br />

cuore e del sogno<br />

La città che <strong>Dolores</strong><br />

Prato descrive con<br />

prosa lirica nei suoi<br />

scritti si trova nelle<br />

Marche, in provincia<br />

di Macerata.<br />

La Prato è nata a<br />

Roma nel 1892,<br />

ma, in quanto fi glia<br />

illegittima, viene<br />

cresciuta fi no ai 18<br />

anni a Treia da due<br />

anziani zii, un colto<br />

ed eclettico prete che<br />

vive con la sorella<br />

nubile.<br />

Emozioni e descrizioni<br />

della scrittrice, tanto<br />

minuziose da essere<br />

quasi fotografi che, si<br />

ritrovano nel romanzo<br />

Giù la piazza non c’è<br />

nessuno, edito da<br />

“Noi cominciamo ad essere col<br />

primo ricordo che riponiamo<br />

in magazzino. Il luogo dove<br />

si ebbero i primi avvertimenti<br />

della vita diventa noi stessi. Treja fu il mio<br />

spazio, il panorama che la circonda la mia<br />

visione: terra del cuore e del sogno...<br />

Roma e Treja hanno in comune il mistero del<br />

nome… Da un irrecuperabile mistero nacque<br />

Treja le cui lettere furono sempre su per giù<br />

quelle della terra… Sia che si chiamassero paesi<br />

o città, ma prima dell’annessione, erano tutti<br />

straordinariamente ricchi di valori culturali e<br />

sociali. Nella fi la delle costruzioni sopraelevate<br />

sul lato destro di quel fantastico belvedere a picco<br />

sopra il gioco del pallone, c’era la casa degli<br />

Oratoriani, un faro di sapienza e di cultura dove<br />

si tenevano corsi dottrinari come nelle più celebri<br />

università; lì si scriveva, l’Accademia Georgica,<br />

di fronte, ne raccoglieva gli studi e li conserva. Il<br />

processo unitario d’Italia ebbe bisogno di cacciarli<br />

e disperderli anche per adibire a uso burocratico<br />

l’edifi cio. Resta San Filippo la cui facciata mi<br />

pareva fatta un ferro al dritto, uno al rovescio...<br />

Insomma, un’atmosfera carica di storia<br />

mista a poesia che fa dire alla Prato:<br />

“…Avanti l’ospedale lo spazio era limitato da un<br />

muretto poco più alto d’un uomo: una riga tirata<br />

sul cielo, l’orizzonte ne era coperto, al di là non c’era<br />

che un gran cielo, poteva esserci anche il mare sotto,<br />

occludeva lo spazio vicino e allargava a dis<strong>misura</strong><br />

quello lontano. Se Giacomo Leopardi fosse<br />

stato di Treia avrebbe sentito lì il mistero<br />

dell’infi nito…”<br />

I semi che nei negozi “Piante e sementi” stanno<br />

racchiusi in sacchettini di carta, sono piccole<br />

bombe vitali che per esplodere hanno bisogno di<br />

essere sepolte. Noi come loro, loro come noi.<br />

Io fui sepolta nel terremotato ventre di mia<br />

madre, di lì trapiantata in agro romano; messa<br />

a dimora a Treja nella casa del Benefi cio dove<br />

continuò l’inconscia mia crescita.... Io non<br />

appartenevo a Treja, Treja apparteneva a me;<br />

essa non mi aveva chiamata, non gradiva la<br />

mia presenza per le sue strade, nelle sue chiese:<br />

lo vedevo benissimo e anche questo apparteneva<br />

a me. Essa non mi assorbì, come il corpo non<br />

assorbe la spina che ci si è confi ccata; ci fu un<br />

processo di rigetto tra il paese e me. L’unica<br />

a non rigettarmi fu la signora Antonietta,<br />

fenomeno di ilare generosità, ma non era di lì.<br />

Ci stetti poco, l’infanzia, l’età delle carezze;<br />

non me ne fece, io non le appartenevo, essa<br />

apparteneva a me: a mia insaputa me la<br />

portai via...<br />

Chiesa di San Filippo<br />

Quodlibet.<br />

Da allora poco è<br />

cambiato.<br />

Il colore della città è<br />

ancora il caldo ocra<br />

dei mattoni illuminati<br />

dal sole che brilla<br />

nell’aria tersa sullo<br />

sfondo del cielo<br />

azzurro e del verde<br />

della cam pagna.<br />

Percorrendone le<br />

strade e le piazze,<br />

ad ogni angolo se<br />

ne scoprono i tanti<br />

tesori perfetta mente<br />

conservati.<br />

portai via... ad ogni angolo se<br />

Teatro Comunale<br />

7


8<br />

Non seppi mai che<br />

Treja fosse una città<br />

murata; che le Mura<br />

si chiamassero così<br />

perché giravano<br />

all’esterno dell’antica<br />

muraglia.<br />

Trea, Mon tecchio,<br />

Treia, ovvero 25<br />

secoli di storia<br />

che vanno dall’età<br />

romana al medioevo<br />

all’epoca moderna.<br />

Dalla pas seggiata<br />

che costeggia le mura<br />

il panorama spazia<br />

dal Monte Conero ai<br />

Sibillini.<br />

Mura turrite che<br />

ci riportano al<br />

Duecento, i tempi<br />

del Beato Pietro<br />

da Treia, di cui si<br />

parla nei Fioretti<br />

di San Francesco,<br />

e di Federico II, il<br />

cui fi glio Enzo tentò<br />

invano di espu gnarle<br />

attraverso Corrado<br />

Porta Vallesacco<br />

Sul crinale lungo e stretto,<br />

cominciava a settentrione<br />

un’antichissima porta, vecchie<br />

case salivano ripidamente sino<br />

alla spianata del palazzo vescovile strozzata<br />

dal duomo. Di lì, con bei palazzi, una strada<br />

larga saliva, se non proprio ripidamente certo<br />

con forte pendio, fi nché s’appianava sfociando<br />

nella Piazza del Municipio e del monumento<br />

aereo. Pianeggiante riappariva, si riapriva<br />

nella Piazzetta del Teatro: un salotto; si<br />

restringeva, si ramifi cava nell’irregolare<br />

fantastico spazio della Rotonda, precipitava<br />

a destra; a sinistra, quasi dritta, con<br />

breve discesa e breve salita arrivava allo<br />

spazio immenso davanti all’Ospedale: una<br />

sconfi nata piazza d’aria, di luce, di vuoto;<br />

di lì s’entrava in qualche cosa che strade<br />

non erano, vicoli nemmeno; erano passaggi,<br />

scoscendimenti, fossi, tra scure casette<br />

accatastate; era la misteriosa Ojolina che<br />

fi niva in uno slargo informe dove, oltre a<br />

un’interminabile scalinata per salire a un<br />

convento che lì pareva una montagna, e a<br />

un’antichissima porta del paese, c’era un po’<br />

di tutto: salite, discese, casupole e casette,<br />

due chiese, due sagrestie, un pozzo e nessuna<br />

bottega.<br />

Da quel basso ove affondava la pesantezza<br />

del duomo, sensibilmente o no, il crinale<br />

saliva sempre verso mezzogiorno; all’uscita<br />

da Ojolina, da quel sommosso slargo<br />

puntava per l’estrema, ardita, meravigliosa<br />

impennata della roccia che, spezzando di<br />

colpo il paese, protendeva al cielo il torrione di<br />

San Marco.<br />

Fuori c’era uno spazio erboso sotto al<br />

torrione: una prua da cui si vedevano solo<br />

lontananze. Tra il torrione e lo spazio erboso<br />

si congiungevano le Mura. Si diceva così, ma<br />

mura non erano, erano strada: una strada<br />

bianca che girandogli attorno, conteneva il<br />

paese: le Mura di ponente e quelle di levante;<br />

ci si affacciava il dietro delle case e gli orti<br />

sui terrapieni… Non seppi mai che Treja<br />

fosse una città murata; che le Mura<br />

si chiamassero così perché giravano<br />

all’esterno dell’antica muraglia. Eppure<br />

qualche mozzicone lo vedevo, ma era un<br />

pezzetto di paese fatto a quel modo, non<br />

era un superstite; alcune case sorgevano<br />

come vegetazione muraria su qualcosa che<br />

poteva essere roccia o anche resti di muri<br />

amalgamati con i secoli.<br />

Non supponevo il fascino delle rovine. La<br />

Torre di San Marco, per quanto mezzo<br />

diroccata, per me non era una rovina, era,<br />

dopo la Piazza, la cosa più bella del paese...<br />

d’Antiochia. I treiesi<br />

lo vinsero a Porta<br />

Vallesacco che si<br />

erge ancora in tutta<br />

la sua imponenza<br />

come la Torre del-<br />

Via Lanzi<br />

l’On glavina: estremo<br />

baluardo della città<br />

verso sud, risale al<br />

periodo longobardo.<br />

Torre di San Marco<br />

9


10<br />

Ero fi ssa sul nome<br />

Treja: copriva tutta<br />

Roma<br />

Trea, Mon tecchio,<br />

Treia: 25 secoli di<br />

storia segnata dagli<br />

uomini che l’hanno<br />

resa celebre nel<br />

mondo, perché a<br />

Treia, come scrive<br />

la Prato, ci sono<br />

sempre “stati<br />

uomini di studio e<br />

di cultura, laici ed<br />

ecclesiastici”.<br />

Uomini come Luigi<br />

Lanzi, sepolto a<br />

Firenze in Santa<br />

Croce, autore della<br />

prima Storia dell’arte<br />

italiana; come Carlo<br />

Didimi, giocatore di<br />

pallone con il bracciale<br />

e patriota cui Leopardi<br />

ha dedicato una delle<br />

sue cinque canzoni;<br />

come Ilario Altobelli,<br />

frate francescano,<br />

astronomo nonché<br />

matematico, scopritore<br />

dei satelliti di Saturno,<br />

che basterebbe a<br />

giustifi care le parole<br />

della Prato secondo<br />

Nella lunga monotona,<br />

stereotipata parentesi<br />

collegiale, il nome Treja<br />

appariva sulla posta che<br />

arrivava, per tutto il resto<br />

era scomparso, sostituito dal nome del collegio.<br />

Ma dal collegio esplosi a Roma e qui, di colpo,<br />

quando in un labirinto della vecchia città lessi<br />

“Piazza dell’Olmo di Treja”, uscì fuori tutta<br />

la tenerezza fascinosa di quel paese che m’ero<br />

portata dentro senza saperlo. Fu la prima delle<br />

tante epifanie. Ho ricercato quella piazza, non<br />

l’ho più trovata. Forse non c’è, forse non c’è mai<br />

stata. Ma io la vidi quella targa di un’epoca in<br />

cui vicoli, strade, piazze avevano il nome della<br />

loro essenza popolare; vidi il piccolo capriccioso<br />

slargo; l’albero non avrebbe potuto trovarci il<br />

suo centro, stava dove stava, l’olmo di Treja;<br />

non lo toccai. Ero fi ssa sul nome<br />

Treja: copriva tutta Roma.<br />

Ma se il nome di Treja non è<br />

stato mai piantato a Roma<br />

come albero, c’è disperso<br />

come cenere: a Campo de’<br />

Fiori fu arso vivo Pomponio<br />

Rustici, prete di Treja. Questo<br />

è sicuro come è sicuro che Treja<br />

scorre da sempre nelle acque del Tevere. Dove<br />

le discorsive rovine di Faleri raccontano la sua<br />

favola, c’è Treja: è un breve corso d’acqua a<br />

Pinacoteca<br />

nessun altro simile…<br />

Le Mura di levante erano un balcone sinuoso:<br />

davanti a ondulazioni collinose, valli di fi umi,<br />

vallicelle di torrenti, lontanissimo l’orizzonte:<br />

linea interrotta dalla gobba del Conero e da<br />

paesi sopraelevati come diademi turriti; brillio<br />

di lumi palpitanti la notte. Un incavo nel mezzo<br />

della linea riempito da un chiarore: il mare,<br />

mai in sintonia col cielo, sempre più chiaro,<br />

o più scuro. In quella conca di mare chi aveva<br />

vista acuta scorgeva un cupolone come quello<br />

di San Pietro: la casa della Madonna.<br />

Accademia Georgica<br />

la quale “eccetto quei<br />

pochi che non potevano<br />

esserlo, erano tutti dotti<br />

e studiosi i preti di Treja”.<br />

Guardando anche<br />

alla modernità degli<br />

studi agrari dell’<br />

Accademia Georgica,<br />

si può definire la<br />

città come una<br />

strardinaria nicchia<br />

di natura e cultura.<br />

11


12<br />

Pareva P che<br />

la sottostante<br />

roccia r per<br />

successive s<br />

fratture, f fosse<br />

diventata d<br />

mattone m<br />

Nel 291 a.C.<br />

i Piceni si allearono<br />

con i Romani contro<br />

i Galli: Trea era gia<br />

municipium (Tito<br />

Livio X, 10-11).<br />

Come molta parte<br />

del mondo romano,<br />

subì il fascino delle<br />

religioni orientali<br />

ed abbracciò il culto<br />

di Iside. I reperti<br />

egizi custoditi nel<br />

Museo Archeologico<br />

Porta Nuova o delle Scalette<br />

Quel tavolino sotto il quale<br />

nacque la mia coscienza,<br />

stava a metà di un’immensa<br />

sala da pranzo rettangolare<br />

nella casa del Benefi cio. Come<br />

prete lo zio era un benefi ciato, un mansionario;<br />

la casa era un usofrutto del benefi cio...<br />

Questa strada pendente, dove era la casa<br />

del Benefi cio, cominciava sullo slargo della<br />

Rotonda, quella che, venendo dalla piazza,<br />

precipitava a destra. Dico strada, ma strada<br />

non era, era una larga spaccatura creata dal<br />

capriccio delle case quasi mai allineate; una<br />

pareva che volesse voltare le spalle; l’altra che<br />

tentasse di andarsene; con uno spigolo una ci<br />

sporgeva, un’altra se ne ritirava; e ogni tanto<br />

l’apertura di un vicolo che scendeva, un’altra<br />

per quello che saliva; l’incrocio estroso evitava<br />

la croce; quando ne risultava un piccolo slargo,<br />

una casa ci si disponeva come il municipio<br />

davanti al cielo della piazza. In uno di questi<br />

slarghi c’era la fontanella;<br />

una casa s’era tirata indietro,<br />

con l’altra cominciava un<br />

ripido vicolo a cordonata.<br />

Tra questo e la strada il<br />

cuneo spuntato di una casa;<br />

l’amputazione ne era la<br />

facciata larga quanto bastava<br />

per aprirci un portoncino in<br />

basso e una fi nestra in alto.<br />

Poco più su della fontanella<br />

cominciavano a sinistra le<br />

Strade Basse… erano una<br />

strada lungo il fi anco ponente<br />

della collina, sotto il crinale,<br />

diceva noi come il papa.<br />

Cominciava a sinistra con la<br />

casa lamata dei Mosci, quella<br />

casa eccezionale dove la parte<br />

diroccata e puntellata stava<br />

nel basso e sopra, pulita e<br />

intatta la casa di Eugenia<br />

come un bronzo sostenuto<br />

dalla da ricotta. Come fi niva non<br />

sso.<br />

Basse erano le sue case, sia<br />

dda<br />

una parte che dall’altra,<br />

bbenché<br />

quelle volte alle Mura,<br />

ddi<br />

laggiù, risultassero alte;<br />

pa pareva che la sottostante roccia<br />

pe per successive fratture, fosse<br />

di diventata mattone; benché a<br />

dest destra incombessero, altissime,<br />

molte<br />

case che lungo la strada<br />

centra centrale appoggiata sul crinale, erano<br />

medioc mediocri. Verso le Strade Basse esse<br />

volgev volgevano il di dietro con le porte<br />

delle<br />

cantine e dei magazzini quasi<br />

semp sempre chiuse; sopra a quelle porte<br />

gran grandi e disadorne, le finestre a<br />

ddue,<br />

a tre righe, con le persiane più spesso<br />

chiuse che aperte.<br />

Eppure di lassù potevano vedere Pitì e la<br />

Roccaccia come dirimpettai.<br />

Non sempre le case alte volgevano il dorso,<br />

più spesso erano un fi anco o uno spigolo<br />

acuto, storture necessarie per le tante<br />

stradette anguste del pendio sopra alle Strade<br />

Basse. Un groviglio di brevissimi sdruccioli e<br />

vicoletti a sali e a scendi, selciati a cordonata<br />

con mattoni e in mezzo un incavo a canale<br />

per far scorrere l’acqua piovana e quella che<br />

buttavano fuori dalle case; accenni di scalette<br />

ripide e rotte, piccoli slarghi irregolari.<br />

Fare di quell’intrico una piccola proiezione<br />

orizzontale, diffi cile, se non impossibile...<br />

Museo archeologico<br />

Strade basse<br />

sono venuti alla luce<br />

nella zona in cui<br />

sorgeva l’iseo di Trea,<br />

durante gli scavi per<br />

la costruzione del<br />

Santuario del SS.<br />

Crocifisso. Statue<br />

egizie e frammenti,<br />

considerati resti<br />

di copie romane,<br />

furono collocati<br />

sulla facciata del<br />

campanile. Oltre ad<br />

un mosaico, una testa<br />

del dio Serapide ed<br />

una di Iside stessa,<br />

ci sono due pregevoli<br />

prodotti di arte egizia<br />

di epoca tolemaica<br />

più volte richiesti<br />

per l’esposizione nel<br />

corso di mostre a<br />

tema dai più grandi<br />

musei del mondo.<br />

13


14<br />

Lo spirito francescano<br />

aveva attecchito puro<br />

e cresceva senza<br />

innesti<br />

I luoghi di culto<br />

sono sparsi per<br />

tutto il territorio<br />

treiese: cattedrali<br />

imponenti, pievi<br />

nate in prossimità<br />

di eremi ed antichi<br />

monasteri, abbazie di<br />

rara bellezza come<br />

la romanica Santa<br />

Maria in Selva di cui<br />

restano le residenze<br />

dei monaci e la grancia.<br />

Nella Chiesa<br />

di Santa Chiara, in<br />

puro stile barocco,<br />

c’è la statua della<br />

Un movimento della strada,<br />

una fontanella e si era<br />

arrivati ai Zoccolanti. È<br />

lì il profondo di Treja, ma<br />

io non lo sapevo. Dopo la<br />

fontanella ecco nella sua grossa mole il<br />

chiesone del Crocefi sso. Con chiunque io<br />

fossi, quel chiunque faceva una piccola sosta<br />

e guardandolo diceva: “È del Bazzani” A<br />

me non importava di chi fosse, a me pareva<br />

che fosse cosa da città, non da campagna...<br />

Una volta dentro un cenno a un frate, quello<br />

accendeva delle luci, tirava un velo e si vedeva<br />

Gesù in croce colorato come se fosse vero. Noi<br />

si stava già alla sua sinistra a guardargli gli<br />

occhi. Sì, sì, sono aperti, spalancati proprio<br />

no, ma socchiusi, però è vivo. Passavamo a<br />

guardargli gli occhi di fronte. Sono tanto<br />

tanto socchiusi tra le palpebre c’è una<br />

fessurina come un rigo di penna; agonizza.<br />

Passavamo a destra, gli occhi erano chiusi, è<br />

morto. Quel gioco miracoloso mi interessava,<br />

ma passava presto, quello per cui avrei<br />

voluto restare in chiesa tutto il tempo che<br />

volevo, erano gli stendardi. I monti rendevano<br />

omaggio al Crocefi sso, su ogni stendardo la<br />

sua fi gura e il suo nome... Non m’incontrai<br />

mai né col Monte Bianco, né con quello Rosa<br />

che pure incontravo a scuola sulle Alpi.<br />

Probabilmente quelli degli stendardi erano<br />

monti di quelle parti, monti conoscenti del<br />

Crocefi sso…<br />

Lo zio andava spesso “a Fraticelli”, così<br />

lui diceva… si creò in me un’idea vaga<br />

come se quei luoghi fossero stati nei secoli<br />

passati, naturale rifugio per santi ribelli,<br />

per santi fuori legge. Quel pezzo di Marca<br />

dov’è Treja fu ospitale per i Fraticelli che,<br />

tutto sommato, erano frati a double face: per<br />

alcuni eretici, per altri santi. A Macerata e<br />

nelle terre vicine, lo spirito francescano aveva<br />

attecchito puro e cresceva senza innesti; erano<br />

terre per Fraticelli.<br />

I Fraticelli di Treja, eremiti del Clareno,<br />

Santa Chiara<br />

stavano in luoghi appartati, vestiti<br />

poveramente, più poveramente vivevano;<br />

vivevano con la fede nella fede di Gioacchino<br />

da Fiore; erano tutti spirituali; volevano<br />

riportare il francescanesimo alla primitiva<br />

letizia. La curiosa denominazione restava da<br />

secoli a testimoniare la vitalità che ebbero<br />

a Treja i Fraticelli.<br />

Mio zio non aveva certo lo spirito dei<br />

Fraticelli, ma il loro carattere sereno e lieto<br />

sì. Che una bambina sentisse quanta ragione<br />

aveva la gente che per quello lo ammirava,<br />

di quello parlava, è segno che la sua serena<br />

letizia era veramente fenomenale... Del<br />

resto anche lui era fatto come tutti di tanti<br />

cartoccetti come le dalie. Nel suo fondo,<br />

nel centro del fi ore, c’era anche un lieto<br />

Spirituale: per pochi soldi, per un pugno di<br />

grano, andava così contento a elemosinare.<br />

SS. Crocifi sso<br />

Madonna di Loreto,<br />

esposta nella Santa<br />

Casa in sostituzione<br />

di quella portata a<br />

Parigi da Napoleone.<br />

Tradizione vuole che<br />

la statua in Santa<br />

Chiara sia quella<br />

originariamente<br />

venerata a Loreto e<br />

che lo scambio, dopo<br />

la restituzione del<br />

prezioso simulacro<br />

da parte dei francesi,<br />

non sia mai avvenuto.<br />

Duomo, Venerdì Santo<br />

15


16<br />

Quello lassù l’ha<br />

fatto lo zio<br />

Se San Francesco è<br />

per la Prato la chiesa<br />

più bella di tutte, la<br />

Catterale, opera di<br />

Andrea Vici, discepolo<br />

del Vanvitelli, viene<br />

considerata uno dei<br />

maggiori templi delle<br />

Marche per ampiezza,<br />

maestosità e purezza<br />

delle linee.<br />

È uno scrigno d’arte<br />

in cui, tra l’altro,<br />

si ammirano (oltre<br />

al ciborio donato<br />

dalla famiglia della<br />

Prato) una tela di<br />

Vin cenzo Pagani, una<br />

pala di Giacomo da<br />

Recanati, un busto<br />

di Papa Sisto V opera<br />

di Bastiano Torrigiani<br />

detto il Bologna una<br />

cui copia si conserva<br />

presso il Victoria and<br />

Albert Museum di<br />

Londra.<br />

Duomo, ciborio<br />

Dopo i palazzi Acquaticci e<br />

Castellani veniva la chiesa<br />

più bella di tutte, San<br />

Francesco, una chiesa senza<br />

archi, senza colonne, senza<br />

pilastri tra i quali le cose bisogna cercarle<br />

come se facessero a nascondarella; in questa<br />

s’entrava e si vedeva tutto; era un<br />

immenso salone col soffi tto altissimo, mo,<br />

tutta luce, tutta colori, tutta quadri ri<br />

e affreschi, tutta cornici e stucchi<br />

dorati, altari, pareti e soffi tto.<br />

Sapevo che il soffi tto l’aveva fatto<br />

lo zio, “opera sua” sentivo dire.<br />

“Quando stava in cima all’armatura” ura”<br />

disse la zia e un’altra volta, dentro o<br />

la chiesa: “Quello lassù l’ha fatto lo zio”,<br />

ma non so se “lassù” era tutto il soffi tto o<br />

qualche particolare. Adesso non lo so, ma<br />

allora lo sapevo: era tutto opera sua e la<br />

maggior parte del tempo stavo in chiesa<br />

guardando il soffi tto. Certo è che indorò,<br />

stuccò. dipinse, restaurò, qualcosa fece lassù,<br />

sul soffi tto, la mano e il cuore di mio zio<br />

nella luce sempiterna…<br />

Il Duomo non aveva facciata, ma solo<br />

quell’entrata principale di fronte all’altar<br />

maggiore, perché era unità, conversione<br />

a un centro, distanze ugauli. Quando lo<br />

ricostruirono, eccetto la torre campanaria,<br />

tutto rifecero, senza alterare la croce greca…<br />

Il ciborio dell’altare del sacramento mi<br />

interessava assai più della lapide che faceva<br />

da sfondo alla sedia del conte Grimaldi.<br />

Nel braccio sinistro della croce, era una<br />

costruzione tutta d’oro, stava sopra un<br />

grande altare isolato e, tolto il breve<br />

spazio per celebrare, l’occupava tutto.<br />

Rappresentava un tempio raccolto intorno<br />

a una grandissima alta cupola con quattro<br />

cupolette minori a croce, come sarebbe stato<br />

San Pietro se non l’avessero allungato. “È<br />

dono dei Ciaramponi” disse la zia più d’una<br />

volta, mai però aggiunse una parola di più…<br />

San Francesco<br />

17


18<br />

Per Pasqua<br />

si facevano<br />

anche i calcioni<br />

La qualità della vita<br />

si <strong>misura</strong> anche dalla<br />

tavola: il calcione di<br />

Treia è riconosciuto<br />

prodotto tradizionale<br />

regionale. re<br />

È un disco di<br />

sfoglia tirata<br />

al mattarello<br />

ripieno di un<br />

impasto i<br />

di<br />

farina,<br />

uova, pecorino, i<br />

zucchero, olio.<br />

Dal caratteristico<br />

sapore agrodolce, è<br />

un prodotto unico<br />

della tradizione<br />

marchigiana.<br />

La Sagra del Calcione<br />

lo propone anche<br />

fritto ed al forno ogni<br />

terza domenica di<br />

maggio, Treia vanta<br />

anche una varietà<br />

autoctona di grano<br />

turco, il Quarantino<br />

di Treia, base di una<br />

polenta dal sapore<br />

particolare che è<br />

Per Pasqua si facevano anche<br />

i calcioni, enormi agnolotti<br />

ripieni d’un impasto in cui<br />

eccedeva o il formaggio, o la<br />

cioccolata. Pur preferendo questi poco mi<br />

piaceva il dentro, molto l’involucro.<br />

Tagliato un rotondo di sfoglia come un<br />

piattino, ripiegato su se stesso dopo averci<br />

messo il ripieno, bisognava far energica<br />

pressione sui bordi perché col calore del forno<br />

non si aprissero. Quella funzione fu un mio<br />

divertimento: avevo trovato un aggeggio che<br />

non solo premeva, ma ci lasciava un disegno.<br />

Quando tornavano dal forno cercavo quelli e<br />

li guardavo sorridendo…<br />

Andavo a mangiare la polenta…<br />

Sulla fi amma, sotto il camino, dentro al<br />

caldaio attaccato alla catena, Angelina<br />

faceva piovere dalle dita appena appena<br />

vibranti, veli di farina gialla, un pugno<br />

dietro l’altro, diminuiva la farina<br />

del cestello, s’addensava la polenta nel<br />

caldaio; col bastone la rimestava forte<br />

forte, la sbatteva con fatica alla fi ne.<br />

Sul tavolino in mezzo alla cucina c’era<br />

la spianatora; sulla spianatora versava<br />

la polenta che scendeva lenta, pesante; un<br />

grande ovale giallo…<br />

Boccio alto, bello mi sorrideva il caldaio,<br />

retto con due stracci dalle mani di Angelina,<br />

lentamente versava dal suo gran labbro la<br />

gialla polenta fumante; un grande ovale con<br />

qualche lieve insenatura, qualche piccolo<br />

promontorio come in tutte le isole; le forchette<br />

di stagno battevano sulle spianatora…<br />

Lui mi diceva: “Ecco, guarda, ci fa un O, mai<br />

una volta che ci faccia il riccio”. Lei severa,<br />

con l’orciolo dell’olio, da cui ne scendeva un<br />

fi lo, faceva il famoso O e, davvero, senza<br />

neppure l’accenno del riccio, un O ovale<br />

perfetto. Era tutto il condimento della polenta<br />

che a me piaceva tanto. Angelina non mi<br />

guardava, non mi sorrideva, metteva la<br />

forchetta di stagno al mio posto, e basta…<br />

Ognuno con la propria forchetta stendeva<br />

quel poco olio sul pezzo che presumibilmente<br />

avrebbe mangiato; sulla provincia che<br />

gli apparteneva. Avanti a ognuno di noi<br />

si scavava un golfo, tra ognuno di noi si<br />

formava una penisola stretta come un nastro.<br />

Io non l’avrei mangiata, ma qualcuno<br />

mangiava anche quella.<br />

La poca polenta che restava, oramai fredda,<br />

Angelina la tagliava a fette, si staccava<br />

dalla spianatora netta, sotto luccicava,<br />

ammonticchiava i pezzi su un piatto: la<br />

sera, abbrustoliti sulla graticola sarebbero<br />

stati una parte della cena, forse la più<br />

consistente. Anche noi si faceva la polenta,<br />

ma per allegria. Non era come quella dei<br />

poveri. Angelina la rimestava con forza, la<br />

sbatteva, la bastonava con un grosso bastone<br />

lucido, in casa la rimestavano con un lungo<br />

cucchiaione di legno; la versavano sui piatti<br />

piani, la condivano col sugo e nel<br />

mezzo mettevano una salsiccia.<br />

quello gustato dalla<br />

Prato. La Sagra<br />

della Polenta è in<br />

programma ogni<br />

terza domenica di<br />

settembre.<br />

Tra i piatti tipici<br />

tradizionali anche<br />

il ciauscolo, salume<br />

morbido di carne di<br />

maiale da spalmare<br />

su pane fresco o<br />

abbrustolito.<br />

Assaggio obbligato<br />

per i vincisgrassi,<br />

pasta sfoglia tirata<br />

a mano e tagliata<br />

a strisce larghe<br />

sovrapposte e con dite<br />

con ragù di carne e<br />

besciamella.<br />

19


20<br />

C’erano tre zone<br />

che si movevano nel<br />

paese ondeggiando<br />

fra di loro.<br />

Quattro oggi le zone<br />

in cui è ripartito<br />

il variegato popolo<br />

treiese che rivive<br />

nella Disfida del<br />

Bracciale ogni prima<br />

domenica di agosto. I<br />

giocatori, vestiti dei<br />

colori dei quartieri<br />

cittadini, imbrac ciano<br />

il classico manicotto<br />

in legno irto di punte<br />

in cerca di una volata<br />

che la pesante e<br />

velocissima palla di<br />

cuoio rende assai<br />

diffi cile.<br />

La città è pavesata a<br />

festa: l’azzurro è del<br />

Borgo (contadini), il<br />

viola del Vallesacco<br />

(artigiani), il verde del<br />

Cassero (nobili) e il<br />

giallo dell’Onglavina,<br />

per i treiesi Ojolina,<br />

la la zona in cui si<br />

stabilì la la comunità<br />

“Ojolina dicevamo noi, strada<br />

nera, stretta, un poco storta.<br />

Casucce buttate a caso,<br />

emergenti, sprofondate,<br />

sconquassate, molte puntellate: casa e stalla<br />

si fon devano … Da un tetto all’altro, canne<br />

o corde cariche di cenci, cenci alle fi nestre,<br />

cenci sui muri, cenci addosso alla gente.<br />

Quella gente era<br />

un mistero. Una<br />

famiglia per ogni<br />

buco, ma tutti<br />

insieme erano<br />

una cosa sola:<br />

erano i Mòsci. Di<br />

dove venissero,<br />

che cosa facessero, che magia praticassero<br />

non so, certo erano una razza a sé. C’era chi<br />

diceva che facessero le fatture, che di notte<br />

rubassero… Dicevano, ma non era mai né<br />

ieri, né oggi, era chissà quando…<br />

Gli uomini parevano brutti, forse più per<br />

l’espressione e la barba ba non fatta che per i<br />

lineamenti.<br />

Le donne bellissime o bruttissime,<br />

erano Mòsce. Alte, andatura ndatura superba,<br />

zigomi larghi, bocca grande con<br />

labbra sporgenti, occhi hi stretti e lunghi,<br />

palpebre pesanti sempre pre abbassate,<br />

ne fi ltrava luce di pietra tra nera.<br />

Voce bassa e rauca. Una<br />

Mòscia non avrebbe mai<br />

parlato di testa come certe<br />

vecchie signore… I Mòsci<br />

non solo non si<br />

vedevano mai in chiesa, sa, ma<br />

non si vedevano neppure ure<br />

per il paese. S’incontravano ravano<br />

fi tti fi tti come mosche e nel<br />

giulebbe, solo o Ojolina”… na”…<br />

C’erano tre zone che<br />

si movevano nel paese e<br />

ondeggiando fra di loro. ro. In<br />

quella più alta i titolati, ati, in<br />

quella più bassa gli artigiani e i contadini, in<br />

mezzo tutti gli altri, i piccoli benestanti, gli<br />

impiegati, i professionisti…<br />

Quelle terre prima dell’Annessione furono<br />

una riserva per cacciare titoli di nobiltà…<br />

il papa non era troppo diffi cile…<br />

Anche una distrazione papale poteva<br />

conferire il titolo… Se una signora,<br />

inginocchiata avanti a lui seduto in trono,<br />

si stava chinando al bacio della sacra<br />

pantofola, egli con parole e con gesto la<br />

invitava a rialzarsi, ma poteva avere<br />

dimenticato chi fosse e che distrattamente<br />

dicesse: “Si alzi, si alzi contessa”. Al coniuge<br />

che la seguiva automaticamente diveva conte.<br />

Il titolo era conferito. Nobili, conti, marchesi<br />

non si contavano in città e nella campagna.<br />

Le loro ville erano luoghi incantati, stavano<br />

zitte zitte a occhi socchiusi in una pace<br />

sconfi nata.<br />

Non tanti quanti i preti, ma di fattori ce<br />

n’erano parecchi; dove metterli? Tra i poveri<br />

no, tra gli aristocratici, giammai! tra i ricchi<br />

neppure, se lo fossero stati non avrebbero<br />

lavorato; dovevano essere in una scala rurale<br />

perché si occupavano delle terre di chi le<br />

possedeva e dei relativi contadini…<br />

Il martedì i contadini venivano in paese per<br />

comprare o vendere, vestiti meglio di quando<br />

stavano per i campi, ma non con la muta<br />

buona della festa… La domenica tutti si<br />

vestivano con gli abiti più belli: signori,<br />

artigiani e contadini. Villano in paese voleva<br />

dire maleducato; a me quel nome richiamava<br />

le ville davanti alle quali passavo di corsa<br />

senza mai potermi fermare, neppure per il<br />

salice piangente. Stavano con la terra, con<br />

le piante, con gli animali tutta la settimana<br />

perché anche se venivano in paese il martedì<br />

ci venivano per la terra, per le piante, per<br />

gli animali. La domenica per gironzolare,<br />

per incontrarsi tra di loro e per la Messa<br />

Cantata…<br />

Aprile, il bello tessere e il dolce dormire”.<br />

di zingari calderai<br />

cui <strong>Dolores</strong> Prato si<br />

riferisce chiamandoli<br />

con la versione<br />

treiese dell’eponimo<br />

magiari: Mòsci).<br />

La sfi lata in costume<br />

e gli addobbi delle vie,<br />

ricreano le atmosfere<br />

della prima metà del<br />

secolo d’oro di Carlo<br />

Didimi, l’Ottocento.<br />

Treia apre taverne,<br />

21


22<br />

botteghe artigiane<br />

e portoni centenari.<br />

Se è vero che la città<br />

è testimonial illustre<br />

del bracciale grazie<br />

a Didimi e Leopardi,<br />

è altrettanto vero<br />

che il bracciale<br />

non è l’unico dei<br />

suoi gioielli. In ogni<br />

periodo non mancano<br />

proposte interessanti<br />

di soggiorno tra<br />

gusto, natura, arte e<br />

cultura.<br />

Tra tradizione e<br />

folklore si collocano<br />

le rievocazioni sacre<br />

di Passione e<br />

Presepio Vivente,<br />

quelle ludiche del<br />

Carnevale con i suoi<br />

carri allegorici, gli<br />

appuntamenti con i<br />

sapori delle tipicità<br />

come la Sagra del<br />

Calcione e del Raviolo<br />

(terza domenica di<br />

maggio), la Sagra del<br />

Maialino alla Brace<br />

(luglio) e la Sagra<br />

della Polenta (ogni<br />

terza domenica di<br />

settembre).<br />

Lo dicevano in paese e<br />

non sembrava un vecchio<br />

detto perché dentro qualche<br />

casa c’era ancora il telaio.<br />

Riempiva quasi una stanza; la donna seduta<br />

di dentro, faceva tuttuno con lui: manovrando<br />

pettine, spola e<br />

pedali tesseva la<br />

vita… un’altra<br />

seduta fuori<br />

della porta, al<br />

fi anco sinistro<br />

la conocchia che<br />

s’alzava dritta<br />

come un missile<br />

di canna, fi lava.<br />

Già, a Treja<br />

in quell’epoca<br />

c’era ancora la<br />

conocchia, rocca<br />

diceva il libro<br />

di lettura. Era una canna spezzata a un suo<br />

termine, ma prima che fi nisse in più strisce<br />

alte un palmo, tra una striscia e l’altra infi late<br />

a forza stecchette di canna che gonfi avano<br />

il tratto spezzato; intorno a quel gonfi ore<br />

avvolgevano quel che era da fi lare: lana, lino,<br />

canapa. La mano sinistra traeva il fi lamento,<br />

la destra l’annodava alla cima del fuso e lo<br />

scoccava; quello girava vorticoso torcendo il<br />

fi lo; con una spinta del pollice scioglievano il<br />

nodo e avvolgevano il fi lo ritorto intorno alla<br />

parte centrale del fuso, quella un po’ gonfi a,<br />

tenendone una punta appoggiata alla persona,<br />

girando l’altra e con la sinistra conducendo il<br />

tratto di fi lo già ritorto.<br />

Poi riprendeva a trarre il fi lo dal pennecchio<br />

passandolo tra le labbra per inumidirlo.<br />

I merletti e la tessitura furono l’antica<br />

industria del paese.<br />

Anche i merletti oramai erano scaduti.<br />

Non conveniva più smerlettare e tessere, le<br />

fabbriche mandavano tutto.<br />

A Treja crescevano i mulini e le fornaci.<br />

Perché ero sola, perché non avevo quello<br />

che avevano gli altri bambini certi episodi<br />

diventavano cippi miliari di una strada<br />

deserta; si dilatavano proprio perché intorno<br />

avevano il deserto. Forse proprio per questa<br />

mia solitudine m’incantavo avanti a tutto,<br />

anche a un ombrello…<br />

La solitudine mi dava le meraviglie, le<br />

meraviglie cancellavano la solitudine…<br />

Mai m’era capitato che qualcuno mi mettesse<br />

a cavalcioni sulle sue ginocchia e ridesse<br />

e scherzasse con me. Non sapevo neppure<br />

che agli altri ragazzini potesse capitare di<br />

stare sulle ginocchia di qualcuno come su<br />

un cavallo a dondolo. “Staccia minaccia”...<br />

mi buttava giù, mi tirava su, mi ributtava<br />

giù, più mi buttava e più godevo. “Staccia<br />

minaccia, buttiamola giù la piazza”...;<br />

cominciava così, non so come continuasse, ma<br />

fi niva con un “giù” lungo e profondo, atroce<br />

e dolcissimo che mi capovolgeva. Emozione<br />

e felicità. Il pavimento era la piazza, io il<br />

br bbrivido iv ivid id ido de dell della lla a ca cadu caduta. duta ta ta.<br />

No Non<br />

n l’ l’ho<br />

ho i iimp<br />

imparata mp m ar arat at ata a la fi lastrocca; quando<br />

te tent tentavo ntavo o di ric rricostruirla,<br />

ic i os o tr trui ui uirl rl rla, a, aarr<br />

arrivata rriv ivat ata a “giù<br />

iù<br />

la pia ppiazza”,<br />

ia iazz z a” a”, , at attimi<br />

mi d’inu d’inutile nuti ti tile le l<br />

at aattesa, te t sa sa, , po poi<br />

i il pen ppensiero<br />

en e si sier ero o co come<br />

me m<br />

se p pparlasse,<br />

ar a la lass ss sse, dic diceva icev eva a “G “Giù<br />

iù l lla<br />

la a<br />

pi piaz piazza az azza za z nnon<br />

non o c’è<br />

’è nes nessuno”. essu su suno no ”. .<br />

An Anch Anche ch c e ad ades adesso esso s se, nnel<br />

nel<br />

te tent tentativo ntat at ativ iv ivo o di ffar<br />

f ffar<br />

ar rris<br />

rrisorgere<br />

is i or o ge g re<br />

il r<br />

resto, es esto to, , ca cant cantileno nt ntil il ilen en e o “S “ “Staccia ta tacc ccia ia<br />

mi mina minaccia, na nacc cc ccia ia i , bu butt buttiamola ttia ia iamo mo mola la giù g ggiù<br />

iù i<br />

la ppia<br />

p ppiazza”<br />

iazz zz a” e s ssfo<br />

sforzo fo f rz rzo o un una<br />

re rresurrezione su surr rr r ez ezio io i ne<br />

ch che<br />

e no non<br />

n<br />

av aavviene, vi vien ene, e, d<br />

ddi<br />

di i<br />

pe pper r sè è a aarr<br />

arriva: rr r iv iva: a:<br />

“G “ “Giù iù lla<br />

la<br />

pi ppiazza azza za non nnon<br />

on<br />

c’ c’è<br />

è ne nnessuno”. ss ssun un u o” o .<br />

DOLORES PRATO NASCE A<br />

ROMA IL 12 APRILE 1892.<br />

DAI CINQUE AI DICIOTTO ANNI<br />

VIVE A TREIA. APPRENDE LE<br />

PRIME NOZIONI IN CASA DEGLI<br />

ZII; DAL 1901-1902 AL<br />

1910 STUDIA NEL COLLEGIO<br />

SALESIANO DELLA VISITAZIONE,<br />

A TREIA; COMPLETA I SUOI<br />

STUDI A ROMA, SINO ALLA<br />

LAUREA. RITORNA NELLE<br />

MARCHE COME INSEGNANTE<br />

DI LETTERE PRESSO SCUOLE DI<br />

SAN GINESIO E DI MACERATA;<br />

SUCCESSIVAMENTE È TRASFERITA<br />

A SANSEPOLCRO, IN TOSCANA,<br />

E INFINE A ROMA, DOVE SI<br />

STABILISCE DEFINITIVAMENTE.<br />

PUBBLICA ARTICOLI DI CULTURA,<br />

SPECIALMENTE ROMANA,<br />

PRESSO VARI QUOTIDIANI.<br />

RESTA TUTTAVIA QUASI DEL<br />

TUTTO SCONOSCIUTA E ANCHE<br />

DUE VOLUMI RIMANGONO<br />

RIMAN<br />

SEMICLANDESTINI. LA SCOPERTA SC<br />

DELLA PRATO AVVIENE QUANDO Q<br />

LA SCRITTRICE HA COMPIUTO COM<br />

OTTANTASETTE ANNI, GRAZIE<br />

ALLA PUBBLICAZIONE PRESSO P<br />

EINAUDI DEL RACCONTO<br />

RACC<br />

AUTOBIOGRAFICO GIÙ G LA<br />

PIAZZA NON C’È NESSUNO NE<br />

(1980). SUCCESSIVA SUCCESSIVAMENTE<br />

MONDADORI (1997) (199 E<br />

QUODLIBET (2009) (2009 NE<br />

PUBBLICANO L’EDIZIONE<br />

L’EDI<br />

INTEGRALE. MUORE IL 13<br />

LUGLIO 1983 NELLA CLINICA C<br />

“VILLA DEI PINI” AD AANZIO.<br />

B UONA PARTE DEGLI D<br />

SCRITTI SONO CONSERVATI CONSER A<br />

FIRENZE PRESSO L’ARCHIVIO<br />

L’AR<br />

CONTEMPORANEO G. G B.<br />

VIEUSSIEUX.


0733 217357 - 0733 215919<br />

Come e dove<br />

Auto/Bus<br />

Autostrada A14: uscita Civitanova<br />

Marche + Superstrada 77 uscita<br />

Pollenza (8 km da Treia) oppure<br />

uscita Porto Recanati + Provinciale 571<br />

+ Statale 77 fi no a deviazione per Treia<br />

Treno<br />

Stazione di Macerata + bus 15 km<br />

Aereo/Nave<br />

Aeroporto di Ancona + bus 65 km<br />

Porto di Ancona + bus 55 km<br />

Comune di Treia ©Tutti i diritti riservati.<br />

È vietata la riproduzone parziale o totale del materiale<br />

A chi<br />

www.doloresprato.it<br />

www.disfi dadelbracciale.it<br />

www.treia.biz<br />

www.treia.sinp.net<br />

I.A.T<br />

tel. 0733 217357<br />

Associazione Pro Loco<br />

tel. 0733 215919<br />

Municipio<br />

tel. 0733 218750<br />

empatia.com ph. Pablo&Neruda, Archivio Comune di Treia

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