Quando bevo sono più sincero, fumo troppo ... - Edizioni La Gru
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<strong>Quando</strong> <strong>bevo</strong> <strong>sono</strong> <strong>più</strong> <strong>sincero</strong>,<br />
<strong>fumo</strong> <strong>troppo</strong> perché son nervoso,<br />
non seguo ma non disprezzo la moda,<br />
l’erba mi manda in paranoia!<br />
Vorrei solo un modo per…<br />
Cerco un altro modo per…<br />
Voglio solo un modo per…<br />
Vivere meglio con me!<br />
(Simone Piva & I Viola Velluto)
Collana<br />
Vaudeville<br />
[vod-vil]
© 2011 Alberto De Poli<br />
Tutti i diritti riservati<br />
<strong>Edizioni</strong> <strong>La</strong> <strong>Gru</strong><br />
via S. Caboto, 26 - 35136 Padova<br />
tel. 0499875955 - P.IVA: 04431730284<br />
info@edizionilagru.com<br />
www.edizionilagru.com<br />
© 2011 <strong>Edizioni</strong> <strong>La</strong> <strong>Gru</strong><br />
Prima edizione: novembre 2011<br />
Terza edizione: marzo 2012<br />
ISBN: 978-88-97092-16-2<br />
Illustrazione in copertina: Elaborazione grafica <strong>Edizioni</strong> <strong>La</strong> <strong>Gru</strong><br />
Questo romanzo è opera di fantasia.<br />
Ogni riferimento a persone o fatti della vita reale è puramente casuale.
ALBERTO DE POLI<br />
INCUBI A NORDEST<br />
andata e ritorno
PREFAZIONE<br />
Leggendo il libro di Alberto De Poli ho avuto da subito la sensazione<br />
di trovarmi di fronte ad un Irvine Welsh veneto. De Poli narra la<br />
stessa rabbia, la stessa voglia di fuga sintetica dei protagonisti di Trainspotting.<br />
Ma con una differenza, sì, perché c'è un’enorme differenza<br />
sociale ed economica tra la Scozia grigia di Welsh e il Veneto grigio di<br />
De Poli. <strong>La</strong> differenza sta nel lavoro operaio: un lavoro che manca in<br />
Scozia e che invece in Veneto spesso occupa tutti gli spazi dell’esistenza.<br />
Nei romanzi dello scozzese il tema del lavoro mancante diventa<br />
motivo di disillusione dei suoi giovani protagonisti, di perdita della<br />
speranza, di rabbia, e di voglia di annegare il proprio tempo in qualcosa<br />
che riempia, riempia tutto, anima compresa, per non far pensare.<br />
Mentre nel Veneto, che De Poli narra bene, dove il lavoro tende a fagocitare<br />
tutto, i suoi ragazzi cercano comunque una deriva, una fuga,<br />
un’auto-assoluzione dentro paradisi sintetici, un vero e proprio rifiuto<br />
dei modelli del Veneto che conoscevamo, quello dell'esplosiva ricchezza,<br />
dell'industria invasiva, del progresso che si fa unicamente sviluppo<br />
produttivo e mai umano. Incubi a Nordest coglie bene, benissimo,<br />
questo fondamentale aspetto sociale, e lo narra senza facile sociologia,<br />
o banali moralismi, ma lascia parlare la storia, i protagonisti, la loro<br />
vicenda, spesso sciagurata e dannata, ma sempre viva, reale, quasi nelle<br />
pagine scorresse il sangue di questi ragazzi e non l'inchiostro. Lo stile<br />
narrativo in questo romanzo si fa al servizio dei personaggi, e mai<br />
fine a se stesso. Non vi <strong>sono</strong> evoluzioni stilistiche, giochi dell’autore,<br />
quindi le parole arrivano veloci, diritte, secche, come deve essere la<br />
vera narrativa che nasce dalla vita e non dai salotti letterari. Incubi a<br />
Nordest sale per diritto al ruolo di romanzo dedicato ai figli dimenticati<br />
dal Nordest. Il ruolo dei romanzi che restano nel tempo.<br />
Massimiliano Santarossa
A Gino
PREMESSA<br />
Prima di cominciare volevo darvi solo un piccolo avvertimento,<br />
un consiglio, dirvi una parola da amico. Sì, perché l’amicizia è una cosa<br />
importante.<br />
<strong>La</strong> storia che segue pur<strong>troppo</strong>, o per fortuna, non ha niente a che<br />
fare con maghetti che volano, pietre filosofali o qualsiasi genere di magia.<br />
Non sarei capace di tanto. Questa è la storia di Adriano Biancon e<br />
da queste parti la storia racconta che le pietre te le tirano dietro con<br />
filosofia. E anche se a volte mi è sembrato di vedere bambini che volavano…<br />
giuro che non aveva niente a che fare con la magia.<br />
Sta a voi chiudere qui, andare in cucina, aprire il frigo e vedere se<br />
c’è qualcosa di buono da bere, così, per avere un’alternativa. Altrimenti<br />
sarete i benvenuti nel NDM.
Fucili Fucili e e e colazione<br />
colazione<br />
PARTE PRIMA<br />
NDM (NORDESTDIMMERDA)<br />
ANDATA<br />
Cammino piano, sfioro il marciapiede quasi in punta di piedi,<br />
senza far rumore, mi guardo indietro e i miei amici non ci <strong>sono</strong>; erano<br />
qui un attimo fa, e adesso <strong>sono</strong> spariti, svaniti nel nulla.<br />
Fa freddo, è molto buio. Sto girando attorno a questa casa grigia,<br />
ha le pareti umide e sento uno strano, fastidioso suono plastico entrarmi<br />
nelle orecchie. Cerco di fare meno rumore possibile e continuo<br />
a girarci intorno, giro ma non vedo la fine, non trovo la via di fuga.<br />
Sento dei passi, sento uno strascicare di scarpe e accelero l’andatura,<br />
ma <strong>più</strong> corro e <strong>più</strong> rallento e sento il sangue pulsarmi sulla punta delle<br />
dita.<br />
Ho paura.<br />
<strong>La</strong> frequenza della camminata strusciata si fa sempre <strong>più</strong> viva,<br />
sempre <strong>più</strong> vera e sempre <strong>più</strong> irritante, sento sempre quel tonfo plastico,<br />
mi batte dentro come un martello. Non ho il coraggio di voltarmi e<br />
continuo a girare intorno a questa casa percorrendo sempre la stessa<br />
strada, calpestando sempre questo vecchio marciapiede in cemento.<br />
Comincio a correre <strong>più</strong> forte. Il ronzio plastico è dentro di me, lo<br />
sento, mi sta frantumando la testa e i passi <strong>sono</strong> vicini.<br />
« Fermo! » una voce di donna mi prende da dietro e mi fa inciampare<br />
su una radice di un albero che prima non c’era: è un albero grande,<br />
senza foglie, con un tronco enorme.<br />
Scavata nel tronco, trovo una porta. Mi giro, si spalanca un’ombra<br />
scura, con le spalle larghe e con uno sguardo illuminato da due occhi<br />
felini. <strong>La</strong> donna stringe in mano qualcosa, e quel qualcosa ha tutte le<br />
11
carte in regola per essere la canna di un fucile e sta proprio puntando<br />
verso il mio culo.<br />
« Non sparare. » mi esce un filo di voce ed è come parlassi un’altra<br />
lingua, ma la vecchia dagli occhi gialli felini ha tutte le intenzioni di<br />
premere il grilletto.<br />
« <strong>La</strong> vita è come una grigia porta di plastica. » mi fa.<br />
« Non sparare ti prego! Non ho fatto niente! »<br />
Il rumore plastico si fa <strong>più</strong> intenso e un nuovo suono picchietta<br />
proprio sopra la mia testa, il sangue continua a pulsare sulla punta delle<br />
mie povere dita. Sono grosse e rotonde.<br />
« Adesso premo il grilletto e la morte sarà come una porta grigia<br />
di plastica. » Si avvicina, io cammino, continuo a girare e rincontro l’albero,<br />
quell’albero grande, quell’albero che ha scavato una porta e quella<br />
porta ha proprio a che fare con il color grigio di plastica. Il rumore<br />
plastico si è placato, ma un suono fastidioso metallico sta prendendo il<br />
suo posto prepotentemente.<br />
Sento uno sparo, ho paura, quel rumore assordante …<br />
« Non voglio morire, non sparare! Non sparar… »<br />
Un altro colpo, ho freddo, quel rumore metallico. Ho freddo, sto<br />
per morire, quel rumore. Stop.<br />
<strong>La</strong> sveglia! È solo la sveglia! Un altro maledetto incubo. Allungo la<br />
mano e tasto sopra il comodino. Pospongo. Cinque minuti, altri cinque<br />
maledetti minuti sotto il tepore delle coperte. <strong>La</strong> realtà si fa strada vagando<br />
per le pareti capillari del mio cervello, mi sto rendendo conto<br />
soltanto adesso che <strong>sono</strong> solo, non ci <strong>sono</strong> i miei amici e nemmeno la<br />
vecchia dagli occhi gialli con il fucile, ci <strong>sono</strong> solo io, qui, al buio della<br />
mia camera da letto. <strong>La</strong> testa mi fa male e qualcosa di acido mi si arrampica<br />
in gola. I postumi della serataccia alcolica punzecchiano le<br />
mie povere tempie.<br />
I cinque minuti passano e la sveglia ricomincia a suonare; prima<br />
di spegnerla definitivamente lancio una gamba fuori dalle coperte, assaggio<br />
quello che mi sta aspettando, questo freddo umido mi fa ritirare<br />
la pelle. Spengo.<br />
Eccomi qua, luridamente conciato in questo merdoso lunedì mattina<br />
di una giornata a caso della mia vita, un’altra giornata color piscia,<br />
un altro giorno feriale da ricominciare. Mi metto seduto sul letto, con i<br />
gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani che mi sorreggono la testa,<br />
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comincio a maledirmi per aver tirato tardi ancora una volta e mi prometto<br />
che questa sera andrò a letto presto. I miei arti inferiori percepiscono<br />
l’impulso elettrico spedito dal cervello e, come per miracolo, si<br />
muovono; come un burattino mi alzo e cerco qualcosa simile a un vestito<br />
che mi protegga da questo freddo umido. Al buio riesco a trovare<br />
una felpa anni ottanta e un paio di pantaloni spugnosi della tuta, li infilo<br />
velocemente e mi metto in posizione eretta. Muovo il primo passo e<br />
sento un formicolio alla gamba sinistra, zoppico, mi stiracchio strada<br />
facendo e vado in bagno a pisciare. Accendo la luce che mi entra in<br />
queste fessure a forma di occhio come piccoli coltelli minuziosamente<br />
affilati, alzo la tavolozza, allargo le gambe e urino. Una bella botta di<br />
sciacquone ed elimino le prove. Apro il rubinetto e mi risciacquo la<br />
faccia con acqua gelida. Mi guardo allo specchio e mi fermo a osservare<br />
quell’immagine che ha visto sicuramente tempi migliori: gli occhi<br />
da matto mi guardano iniettati di sangue, la barba incolta di tre giorni,<br />
le rughe mattutine dei trenta.<br />
Ritorno in camera, accendo la luce e solo adesso vedo la massa di<br />
vestiti sparsi un po’ dappertutto, quindi vado verso la portafinestra e<br />
tiro la tenda ingiallita; con il solito movimento quotidiano do uno<br />
strappo potente alla pesante persiana cigolante e piano piano mi si<br />
presenta quella solita, merdosa, nebbiosa, umida mattina nordestina<br />
del cazzo di fine novembre. Osservo la situazione dall’alto del secondo<br />
piano di quest’anziana palazzina, sperando di vedere qualcosa di nuovo,<br />
ma niente. Sempre la solita statale, sempre il solito pino marittimo<br />
mezzo morto e sempre quella striscia continua di macchine che passa<br />
su questa periferia puzzolente. Rassegnato, con dieci passi – e dico dieci<br />
contati – arrivo nella cucina di questo mini appartamento di quarantasette<br />
metri quadri dove vivo da solo.<br />
Adesso nessuno mi deve disturbare, inizia il rito della colazione<br />
che per me è una cosa importante. Se per un qualsiasi motivo dovesse<br />
essere fatta male, il resto della giornata potrebbe essere compromessa.<br />
Moka Bialetti da due zeppa di caffè Kimbo – non perché sia il <strong>più</strong><br />
buono ma perché era in offerta – pochissimo latte, fette biscottate integrali,<br />
due tipi di marmellate rigorosamente senza zucchero, yogurt e<br />
cereali, miele. Metto una tovaglietta a quadri blu e bianchi sopra il tavolo<br />
color panna ereditato da mia zia Gina e dispongo tutte le cose<br />
appena elencate. Prendo una tazza per lo yogurt e spengo il gas che fa<br />
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antolare la moka. Riempio la scodella con yogurt – preferibilmente<br />
bianco – e un bel po’ di cereali, do due-tre cucchiaiate per mescolare e<br />
sprofondo nella gioia del primo boccone; chiudo gli occhi e godo, adoro<br />
i cereali. Li finisco in un battibaleno e rubo un’ultima palata dal vasetto<br />
dello yogurt.<br />
Mi alzo, vado al fornello dove ho lasciato la moka piena di Kimbo<br />
e la verso tutta dentro una tazza con la scritta Doremì Mister Day. <strong>La</strong><br />
figata è che suona ancora oggi. Ci butto dentro un po’ di latte scremato<br />
e torno a sedermi. Spalmo un paio di fette integrali con la marmellata,<br />
e le inzuppo nel caffèlatte, divorandole. Succhio il liquido rimanente<br />
dalla ciotola e mi butto all’indietro appoggiandomi allo schienale<br />
della sedia in fòrmica rossa; silenzio, trenta secondi di vuoto totale<br />
in venerazione al pasto <strong>più</strong> importante.<br />
Sparecchio e butto tutto nel lavandino, a lavarli ci penserò stasera…<br />
forse. Guardo l’ora, <strong>sono</strong> le sette e trentacinque, come al solito <strong>sono</strong><br />
in ritardo, e come al solito solo adesso comincia la corsa contro il<br />
tempo.<br />
Di nuovo bagno, lavatina di denti e risciacquo con collutorio. Col<br />
cazzo che mi rado! Corro in camera e mi vesto frettolosamente con le<br />
prime cose che mi capitano. Via, veloce come il vento e in quattro e<br />
quattr’otto <strong>sono</strong> davanti alla soglia di casa. Controllo: chiavi di casa, le<br />
ho, portafogli, presente, chiavi della macchina? Eccole! Cellulare. Bene.<br />
Pronti, via. Chiudo la porta e do due giri di chiave, scendo le scale<br />
galoppando appositamente per fare rumore e disturbare qualsiasi essere<br />
vivente che nell’eventualità stia dormendo. Apro il portoncino in<br />
alluminio bronzato e vetro smerigliato moka. Sette e quarantatre.<br />
In lontananza vedo la mia vecchia fiat Punto S bianca parcheggiata<br />
al bordo del marciapiede consumato dal tempo. Saluto con un cenno<br />
del capo l’anziana del piano di sopra. Riabbasso la testa e continuo<br />
a camminare trascinando gli scarponi fintiTimberland sull’asfalto; il<br />
freddo umido s’intrufola attraverso la zip del bomber nerolucido con<br />
l’interno arancio, respiro profondamente quest’aria allo smog.<br />
<strong>La</strong> Punto è di fronte a me. Infilo la chiave nella portiera. Sento<br />
scattare la serratura, pigio la maniglia nero-opaco e cerco di non pensare<br />
allo schifo di macchina che ho. Ci entro. L’abitacolo è un misto di<br />
odori di tabacco e polvere ai quali mi <strong>sono</strong> abituato, penso di esserne<br />
ormai assuefatto.<br />
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Lo strato di polvere sul cruscotto fa ormai parte dell’arredamento,<br />
l’opaco dei vetri, il posacenere pieno, i buchetti sui sedili, l’asta<br />
della marcia di un lasco incerto, l’autoradio d’epoca.<br />
Mi do un’occhiata sullo specchietto retrovisore e osservandomi<br />
negli occhi mi dico: « Vai Adri! Diavoloporco! Un altro cazzo di giorno<br />
ti aspetta! »<br />
Infilo la chiave nel quadro e dopo un paio di tentativi a vuoto, tossendo,<br />
il motore mille fuoriproduzione si decide a prendere il via. Levetta<br />
dell’aria calda a chiodo e via, senza un minimo di pre-riscaldamento,<br />
non c’è tempo: l’orologio del cartellino è lì che mi aspetta picchiettando<br />
i secondi. Sette e quarantasette.<br />
Tipolito Tipolito e e CChinatown<br />
C inatown<br />
Per strada corro come un dannato, ormai non faccio <strong>più</strong> caso a<br />
tutto quello che mi circonda, la strada è sempre la stessa, tutto è sempre<br />
uguale: la rossa alla fermata dell’autobus davanti all’edicola e la<br />
sbarbi in bici con lo zaino di Hello Kitty. Sempre uguale, ogni santissima<br />
mattina.<br />
Alle sette e cinquantasei entro, a velocità sostenuta, nei cancelli<br />
della ditta Tipolito Ceolin srl; il parcheggio è dietro il fabbricato dipinto<br />
di un rosso sangue di piccione, le ruote stridono sull’asfalto e in men<br />
che non si dica m’infilo nel primo buco libero che trovo.<br />
Scendo dalla Punto e sbatto la portiera con violenza – non chiudo<br />
a chiave, ho sempre la speranza che qualche anima pia me la rubi così<br />
sarò costretto a cambiarla – quindi corro verso il portoncino d’ingresso<br />
a sbarre verniciate di blu, e mi fiondo a raccattare quel cazzuto cartellino<br />
da timbrare con sopra scritto: nr. 11 Biancon Adriano.<br />
Sette e cinquantotto.<br />
Timbro. Tiro un sospiro di sollievo, anche per oggi ce l’ho fatta, e<br />
come ogni mattina quando oblitero la cartella mi dico: « Devo assolutamente<br />
cambiare lavoro. »<br />
Salgo le scale dove ci <strong>sono</strong> mensa e spogliatoi; la mensa viene usata<br />
anche per fare quelle sfigatissime riunioni sindacali dove c’è un<br />
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merdoso comunista vestito con la giacca marrone, esponente della<br />
CGIL, che urla e sbraita per un’ora difendendo la dignità operaia. Ma<br />
vaffanculo! Stai a casa tua! Tanto non cambia un cazzo e in busta il<br />
giorno dieci ci <strong>sono</strong> sempre quei miserabili mille-e-cento euro.<br />
Entro nello spogliatoio dove <strong>sono</strong> allineati gli armadietti come file<br />
di lapidi. Sono solo, apro lo sportellino di lamiera grigia, il cigolio echeggia<br />
nella stanza, tolgo bomber e pantaloni e mi infilo l’odiosa tuta<br />
blu con macchie a iosa nei <strong>più</strong> svariati colori – la <strong>più</strong> bella patacca è<br />
quella a forma di fiore magenta.<br />
Scendo le scale di corsa, e apro la <strong>più</strong> odiosa porta che io abbia<br />
mai visto in vita mia, non per la bruttezza in sé, è anche una bella porta,<br />
ma simbolicamente è l’inizio della fine, è varcare la soglia dell’inferno,<br />
è l’inizio del calvario. Apro. <strong>La</strong> porta si trova al centro del lungo<br />
corridoio dove <strong>sono</strong> posizionate tutte le macchine da stampa; quella<br />
dove lavoro io si trova a destra, quindi automaticamente vado di là.<br />
Comincio a incrociare i musi ebeti dei miei colleghi, chi mi saluta sorridendo,<br />
chi mi fa un cenno della testa, chi addirittura mi dà una pacca<br />
sulla spalla ed io cerco di fare buon viso. Dopo cinquanta passi circa mi<br />
trovo davanti alla mastodontica macchina da stampa offset a cinque<br />
colori. Stampa in formato duecento per centoquaranta raccapriccianti<br />
centimetri, fogli enormi. Guardo il mostruoso macchinario cominciando<br />
dall’inizio, punto in cui ci <strong>sono</strong> gli aspiratori e i registri, squadro<br />
i cinque inquietanti castelletti (uno per colore) e finisco con il raccoglitore<br />
dei fogli.<br />
Giorgio, il capomacchina, è già lì che sta armamentando sui registri;<br />
non è un cattivo uomo, anche se a me infastidisce, ma forse mi dà<br />
fastidio il solo suo essere individuo dentro questa lurida fabbrica. Alza<br />
il capo, mi vede e come se non aspettasse altro: « Drianooo suu uuu<br />
duuu ruuuuvuur? »<br />
È da anni che ci lavoro insieme, in un certo periodo pensavo lo facesse<br />
apposta, ma è proprio un suo difetto. Non gli esce la voce dalla<br />
bocca, gli esce dal petto e quando parla non si capisce un cazzo, comunque<br />
penso mi abbia chiesto se è l’ora di arrivare, me lo dice ogni<br />
santissima mattina. Mi metto a fare il mio, almeno fino alle dieci non<br />
parlo con la gente che mi circonda; riempio i calamai con l’inchiostro<br />
che andrà a bagnare i tre rulli in caucciù della MAN Roland, che a loro<br />
volta andranno a stampare la carta. Prepariamo tutto per la stampa<br />
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anche con l’aiuto di Mirco, l’altro ragazzo che è in macchina con noi,<br />
così insignificante che a volte mi dimentico della sua esistenza e inviamo<br />
l’armamentario.<br />
Arrivano le dieci e, come di rito, vado alla macchinetta del caffè,<br />
digito un macchiato con poco zucchero, estraggo il bicchierino caldo e<br />
mi dirigo verso i bagni nel piano superiore dove vado a fumarmi la solita<br />
paglia e a farmi la solita cagata.<br />
Ritornando indietro verso la famigerata porta, do uno sguardo al<br />
reparto legatoria che si trova quasi alla fine del capannone, prima dei<br />
bancali con le risme di carta, e chi mi vedo? Una mangiarisi che butta<br />
in una scatola i volantini appena usciti dalla piegatrice. Mi blocco, ho<br />
la mano appoggiata alla maniglia e la guardo per un istante. <strong>La</strong> passera<br />
orientale alza un attimo la testa e mi dà un’occhiata di schivo per poi<br />
tornare al suo vomitevole lavoro. Guardo ancora un momento per vedere<br />
se alza di nuovo la testa, ma niente.<br />
Apro la porta e vado su. Faccio le scale a due a due e penso a<br />
quanto bello sarebbe scoparsela. Mi chiudo in bagno, attacco la paglia,<br />
cago pensando alla cinese che non fa per niente cagare. Scendo, riapro<br />
la mostruosa porta e lei è ancora lì, china sulla scatola di cartone intenta<br />
a riempirla di volantini. Vado da lei.<br />
« Vedo che abbiamo una nuova collega. » abbaio.<br />
Lei alza la testa e mi guarda timidamente, non so ancora se capisce<br />
la nostra lingua, ma mi toglie subito il dubbio: « Sì. »<br />
« Piacere, Adriano. » e le allungo la mano.<br />
« Meizu. » fa occhi di mandorla stringendomi l’arto.<br />
« Ben arrivata! »<br />
« Glazie. » dice timidamente con ‘sta vocina, abbassando lo sguardo<br />
e continuando a lavorare. Glazie, ha detto glazie, è proprio cinese!<br />
Però, la tipina è proprio una bella topina!<br />
Torno alla mia postazione, girandomi un paio di volte per vedere<br />
se mi guarda e ringrazio iddio che ha fatto capitare qualcosa di diverso<br />
in queste solite odiose giornate feriali. Dopo questa meravigliosa visione<br />
inaspettata arrivo alla MAN Roland e vedo Giorgio nel suo massimo<br />
splendore di operaio. Un uomo alto ma con il baricentro basso, ha<br />
due gambette corte e malfatte, addome tondeggiante, occhio cadente<br />
alla Sylvester Stallone e crapa pelata circondata da un’aureola di peluria<br />
grigio topo.<br />
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« Duu chuuu bisuuuu finuuuu primuuu di mezuuguuu. »<br />
« Eh? » rispondo, anche se ho capito bene che dobbiamo finire<br />
prima di mezzogiorno la risma di carta che è in carico.<br />
Tiro mezzodì e come ogni bastardo giorno mi fermo a mangiare<br />
in mensa. Oggi di primo ho ordinato penne all’amatriciana e per secondo<br />
ho preso lo yogurt, sì, perché o prendi primo e secondo, o<br />
prendi uno dei due con lo yogurt, e visto che mangiare uno dei due è<br />
già una cosa abbastanza rivoltante, preferisco sempre il derivato del<br />
latte.<br />
In mensa mi siedo come al mio solito con Gianni; lui è il mio migliore<br />
amico dentro queste mura, lavora in legatoria ed è mezzo capo e<br />
mezzo pazzo e a me i pazzi piacciono e dal momento che è quello che<br />
di meglio passa il convento, me lo tengo stretto. <strong>La</strong> mensa ha dei piccoli<br />
tavoli verdolini, siamo una quindicina a occuparli, <strong>più</strong> o meno tutti<br />
giorni, e ci dividerei in tre categorie:<br />
Categoria 1: Operaio specializzato rassegnato del cazzo lamentoso<br />
di merda politicante di sinistra. Per necessità sintetica li chiameremo<br />
semplicemente: falliti.<br />
Categoria 2: Minorati in camicia so tutto io. Quelli che lavorano<br />
nel reparto di fotocomposizione davanti a un PC tutto il santo giorno.<br />
Categoria 3: Fatemi uscire da qui. Potremmo racchiudere in questa<br />
categoria due persone, io e Gianni e di una ne <strong>sono</strong> particolarmente<br />
convinto: io.<br />
Ecco, il gruppo dei Falliti comincia a prendere il cibario di seconda<br />
mano dai contenitori in polistirolo termico; loro <strong>sono</strong> sempre i<br />
primi, chissà perché? Si dispongono ai loro posti e iniziano a blaterare<br />
di qualsiasi cosa inutile esista al mondo.<br />
I Minorati fanno sempre un tavolo a parte e al lunedì guai a chi gli<br />
tocca il calcio e infine i Fatemi uscire da qui si siedono sul mitico tavolino<br />
verdino di merda.<br />
« Oh ... Gianni, dimmi un po’ della bernarda cinesina lì. » gli faccio<br />
con gli occhi sgranati e inforchettando la prima penna.<br />
« Bella fighina eh? » – fa lui eccitato e prosegue – « Stamattina arrivo<br />
e me la trovo lì con Giovanni che me la presenta: lei ci darà una<br />
mano alla piegatrice. Io la guardo e tra me e me mi vien voglia di<br />
trombarla subito, ahahah! Chissà poi perché è stata assunta una gialla<br />
con tutti quei testedicazzo che cercano lavoro. Boh, chemondodim-<br />
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merda! » E tira un fendente con la forchetta nel piatto per infilzare uno<br />
gnocco ai quattro formaggi che ha ordinato e che sinceramente a vederli<br />
così sembra ci abbiano messo dentro solo la muffa.<br />
« Beh, io quasi quasi ci provo. »<br />
« ‘Scolta Adri, vacci piano. Guarda che quella è gente strana, magari<br />
sarà stata messa qui dentro chissà per quale ragione, già stamattina<br />
i falliti vociferavano cose assurde, non ti dico i minorati cosa dicevano.<br />
Siamo circondati da uomini di merda. Adri, andiamocene da<br />
qui, scappiamo finché siamo in tempo. Andiamo via, cazzo! »<br />
Lui me la propone sempre la fuga a due, ma se devo andare via da<br />
‘sto posto nebbioso, sicuramente non ci vado con lui. Agli altri tavoli<br />
parlano a voce <strong>troppo</strong> alta per i miei gusti, quindi accelero il ritmo di<br />
masticazione e finisco l’amatriciana che non era proprio da buttar via,<br />
mi spaparanzo lo yogurt al mirtillo ed io e Gianni usciamo. Come<br />
sempre scendiamo la scala chiacchierando e apriamo la maledetta porta,<br />
caffettino alla macchinetta e andiamo in parcheggio ad ascoltare un<br />
po’ di musica dall’autoradio e a fumare una paglia come si deve.<br />
Mi giro e vedo Meizu seduta sul muretto che fa da sostegno alla<br />
rete vicino alla porta d’ingresso, quella del cartellino, lì, da sola. <strong>La</strong><br />
guardo da lontano, seminascosto dal muro rosso sangue di piccione<br />
del capannone, lei è lì, con la testa china, e guarda l’asfalto, sembra in<br />
commemorazione dei morti cinesi che non muoiono mai. Sta da sola,<br />
mi basterebbe andar da lei e attaccare bottone e invece no, <strong>più</strong> la<br />
guardo nella sua triste solitudine d’asfalto e meno ho il coraggio di andarle<br />
a rompere le palle; mi rigiro verso Gianni e mi pento del pensiero<br />
che ho appena avuto.<br />
« Beh, io vado un attimo in bagno … »<br />
Non ce la faccio, è <strong>più</strong> forte di me; pensa se la tipa, nella sua massima<br />
forma di tristezza, ‘stasera si tagliasse le vene, porcodiundiavolo!<br />
Meglio approfittarne subito, ogni lasciata è persa mi diceva sempre<br />
mio nonno.<br />
Vado verso la porta d’ingresso dov’è seduta Meizu; lei è ancora lì<br />
con la testa bassa, sta muovendo il piede disegnando un semicerchio<br />
sull’asfalto, i sassolini e i residui di copertone formano un piccolo arcobaleno<br />
grigio sotto la sua scarpa nera di gomma. Vado verso di lei,<br />
faccio un po’ di rumore con i finti Timberland per farmi notare, ma<br />
sembra che nulla la sposti dalla sua meditazione.<br />
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« Ehilà, allora? » abbozzo. Lei alza la testa, fa un mezzo sorriso e<br />
ripiomba a osservare l’arcobaleno grigio, non dice niente.<br />
« Come ti pare il lavoro? Ti piace? » – un attimo di silenzio e continuo<br />
– « Beh, non è proprio bellissimo, immagino, è un po’ noiosetto…<br />
eh? Se hai bisogno di qualcosa vieni pure da me, senza paura.<br />
Chiama Adriano, ok? »<br />
« Glazie ‘Dliano, tu essele molto buono, ma io stale da sola un pochino,<br />
glazie, glazie, glazie. » e mi butta un sorrisetto.<br />
È proprio carinissima, con ‘sti capelli lunghi corvini raccolti in<br />
una coda di cavallo, ‘sti occhi stretti a mandorla color nero, la pelle olivastro<br />
giallognolo e un corpicino tutto da scoprire. Anche se fa freddo<br />
è seduta lì con un maglioncino di lana rosastro che fa intravedere la<br />
forma del seno.<br />
« Va bene, allora sai dove trovarmi… eheheh. » faccio io con un<br />
sorriso da spastico. « Ciao eh! » chiudo in bellezza.<br />
« Ciao… glazie. »<br />
“Ma quante volte dice glazie?” penso tornando nel bunker.<br />
Sono ormai quasi le tredici e trenta, l’orario d’inizio pomeriggio è<br />
lì che mi aspetta come un gatto col topo.<br />
Mi avvicino alla macchina con la stessa voglia che avrei di mangiarmi<br />
una merda; di solito il pomeriggio non passa un cazzo e soprattutto<br />
di lunedì.<br />
L’abbiocco del dopopranzo mi tiene in ostaggio e fa di tutto per<br />
addormentarmi e farmi finire schiacciato e stampato dalla MAN Roland,<br />
ma io cerco di tenere duro e, come ogni drammatico giorno,<br />
sconfiggo il sonnuto primo pomeriggio e, come si dice, tiro sera facendo<br />
il mio e sbattendomene altamente di quello che fanno gli altri.<br />
Timbro. Mi cambio. Accendo la Punto e fuggo a casa.<br />
Serata Serata Serata col col baffo<br />
baffo<br />
Come ogni lunedì quando arrivo a casa è una liberazione, la vita<br />
in fabbrica penso di non sopportarla <strong>più</strong>, ma non faccio un cazzo per<br />
cambiare le cose; <strong>sono</strong> uno che pensa, <strong>sono</strong> un pensatore nato, sogno<br />
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che venga qualcuno a bussarmi alla porta per offrirmi non so che. Fantastico<br />
a occhi aperti, forse è per questo che faccio tutti quegli incubi;<br />
si contrappongono ai bei sogni che fabbrico quando ho i fanali spalancati,<br />
ma continuo a sprofondare nella merda ogniqualvolta oltrepasso<br />
quella odiatissima soglia, tutte le volte che timbro quel maledetto cartellino.<br />
Ho trent’anni compiuti, ho un conto in banca che fa cagare e abito<br />
in questo buco di appartamento a quattrocentocinquanta euro al<br />
mese e, contando luce, acqua e gas e cibarie varie, non mi resta un<br />
granché per vivere. Bello qui nel ricco Nordest, vero? Diavolodiunporco,<br />
ricco per i ricchi e povero per i poveri. Fatto sta che, come ogni sera,<br />
mi butto su qualcosa da mangiare, magari oggi mi faccio una pasta<br />
con poche pretese e mi dico che c’è anche chi sta peggio.<br />
Finita la cena tiro via piatti e bicchieri e ricordo di aver lasciato<br />
nel lavandino anche le tazze della colazione e, visto che mi ero promesso<br />
di lavarle e che, guardando bene la mia situazione economica la<br />
lavastoviglie non me la posso permettere, faccio uno sforzo e do un bel<br />
lavaggio completo con il detersivo verde al limone che ne basta un tot.<br />
Butto una bella spruzzatina nell’acqua calda e ne esce un sacco di<br />
schiuma. Naturalmente ogni pratica che non sia guardare la televisione<br />
deve essere per forza accompagnata da un po’ di sana musica. Vado<br />
allo stereo dove ho collegato l’I-Pod e seleziono gli album dei Radiohead,<br />
metto l’ultimo, In rainbow, primo pezzo: 15 step. Alzo a manetta<br />
per la felicità dei vicini e parto in azione.<br />
Bene, archiviata la pratica del lavaggio stoviglie, è arrivata l’ora<br />
della seconda cosa in ordine d’importanza dopo la colazione: apertura<br />
del frigo e incontro col Baffo Moretti. Ormai non posso <strong>più</strong> farne a<br />
meno; quella faccia baffuta immortalata sulle lattine è di un familiare a<br />
casa mia che non potrei pensare nella maniera <strong>più</strong> assoluta di rimanerne<br />
sprovvisto. A volte, non so, può mancare lo zucchero, il sale,<br />
l’olio d’oliva, la pasta, la carta igienica… A turno manca sempre qualcosa,<br />
ma l’oro schiumoso baffuto no, quello è sempre presente come<br />
l’eroina nelle vene di un tossico.<br />
Prendo una lattina e strappo la linguetta, la verso nel mio bicchiere<br />
preferito rubato in un pub a Milano – bicchierone originale baffuto<br />
Moretti – e mi vado a stravaccare sul divano Ikea datomi da un amico<br />
che non sapeva <strong>più</strong> cosa farsene.<br />
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È lunedì, e di lunedì in televisione non fanno un cazzo. Ho spento<br />
anche il telefono; sia mai che qualcuno venga a disturbarmi; mi ero<br />
promesso di andare a letto presto, me ne sto a casa col Baffo. Io e lui ci<br />
vogliamo un bene dell’anima. Smanettando un po’ col telecomando mi<br />
fermo su Chi l’ha visto; stanno parlando della sparizione di una ragazza<br />
giovane, da un paio di giorni è scomparsa da casa e non si hanno<br />
<strong>più</strong> notizie. Bionda, statura media, occhi marroni e, quando è uscita di<br />
casa per l’ultima volta, era vestita con un paio di jeans e un piumino<br />
rosso. Non ha problemi di salute, né di mente. Tutto sembra a posto.<br />
Che storia del cazzo, avrà avuto sicuramente qualcosa di meglio<br />
da fare o le starà sui coglioni suo padre o chissà, magari fra un paio<br />
d’ore la trovano cadavere sul litorale di Rimini in un sacco di plastica,<br />
tipo <strong>La</strong>ura Palmer.<br />
Non so perché ma quando comincio a guardare ‘sto programma<br />
mi intrippo talmente tanto che spero sempre facciano vedere qualcuno<br />
che ho incrociato la sera prima, magari al pub davanti a una buona<br />
pinta di birra, magari non so, a fare la spesa… Ma quello l’ho visto ieri,<br />
adesso telefono e risolvo il caso: pronto signorina della televisione sotuttoio?<br />
Quello che state cercando è stato con me tutta la sera e mi diceva<br />
che odia la sua famiglia, mi diceva, ma forse solo perché era <strong>troppo</strong><br />
conciato, che è scappato via di casa altrimenti li avrebbe ammazzati<br />
tutti; io pensavo scherzasse in quel momento, eravamo pieni di beveraggio<br />
fin sopra i capelli, ma dopo che ho visto la sua immagine alla<br />
televisione, signorina… Mi sta ascoltando? Quello è capace davvero di<br />
ucciderli tutti… Però una persona simpatica, devo dire, ha pagato tutti<br />
i giri che ci siamo fatti...<br />
Mi sveglio da quello stato di semi incoscienza che mi prende, ma<br />
l’essere protagonista anche una sola maledettissima volta in questa trasmissione<br />
per dire che ho visto qualcuno, non so, mi piacerebbe. Do<br />
una sorsata al baffuto oro giallo e me ne sto lì a vedermi tutte le storie.<br />
Tempo che finisca la trasmissione e di scolarmi tre latte di Baffo e si<br />
fanno le undici di sera. Spengo la tele e mi sposto in camera dove, su<br />
un piccolo mobiletto di recupero, si erge un meraviglioso PC usato,<br />
riesumato da un lavapoco che aveva bisogno di soldi, un’occasione per<br />
affacciarsi nel mondo del web.<br />
Da poco ho aperto anche la mia pagina su Myspace, il mio nickname<br />
è Adrian, sì, non è che mi sia ammazzato con la fantasia per<br />
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trovarne uno <strong>più</strong> originale, ma qualche tempo fa quando andavo a ballare<br />
e farmi di Ex in disco, c’era un dj che portava ‘sto nome e quindi…<br />
Adrian, diavoloporco! Accendo il computer e vado direttamente a vedere<br />
la posta su Gmail, le prime tre righe <strong>sono</strong> in neretto.<br />
Il primo è un messaggio di Ciccio, il mio migliore amico: dice che<br />
ha preso i biglietti per andare a vedere il concerto degli Oasis al Palaverde.<br />
Il secondo è un commento ricevuto da Antonella, una tipa di<br />
Maispeiss, e l’altro è una richiesta di amicizia da parte di una certa Melania999.<br />
Clicco subito sul link che mi porta a fare il login per entrare in<br />
MS. Entro direttamente nella richiesta d’amicizia di ‘sta Melania999.<br />
Porcodiundiavolo! Che razza di figa! Oltre alla richiesta c’è un messaggio<br />
con scritto: Ciao, vorresti fare la mia amicizia o hai delle cose <strong>più</strong><br />
importanti da fare? Bacio Melania. Di cose importanti da fare, oltre<br />
che bere la baffuta birra, in questo momento non ne ho tante; se mi<br />
dici dove abiti tiro il collo alla Punto e arrivo come un razzo, porcoqueldiavolo!<br />
Do un’occhiata al suo space e vedo che ha ventinove anni, single,<br />
cancro e… Repubblica Dominicana?! Ma come? Repubblica Dominicana?<br />
Che cazzo c’entra Santo Domingo con una che si chiama Melania?<br />
Bah, magari ha scritto una stronzata o magari è lì in vacanza o<br />
forse è lì per lavoro; dalle foto dello space noto che è sempre in spiaggia<br />
seminuda con ‘ste due tettine al vento, sempre accerchiata da altre<br />
persone e ne deduco faccia l’animatrice. Niente Punto, mi sa che non<br />
ci arriva neanche in aeroporto il catorcio.<br />
<strong>La</strong> tipa non è on-line, quindi decido di lasciarle un messaggio:<br />
Ciao Melania, aprire la posta e vedere una richiesta di amicizia così è<br />
come ricevere un regalo in un giorno a caso della tua vita, un regalo<br />
inaspettato e quindi così bello. Se ho delle cose <strong>più</strong> importanti da fare?<br />
Certo che no, ma mi devi dimostrare che ne vale la pena. Un bacione,<br />
Adrian. Lo leggo e lo rileggo e mi sembra abbastanza d’impatto. Premo<br />
invio.<br />
Vado a vedere cosa mi ha scritto Antonella nei commenti pubblici<br />
e mi vedo una foto in bianco e nero di un cagnolino che sta dormendo<br />
sopra un cuscino a forma di cuore rosso, solo il cuscino è rosso. Perché<br />
le fighe pensano che noi ci emozioniamo con queste cose della dolcezza,<br />
con le foto tutto sentimento. Poi sotto mi scrive: Buonanotte teso-<br />
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o. Non male come tipa, è una di Mantova, da quello che si vede dalle<br />
foto la carrozzeria non è messa malaccio e se mi fa ancora ‘sti discorsetti<br />
del tesoro mio e compagnia briscola, puoi contarci che a Mantova<br />
ce lo vengo a fare un bel giretto.<br />
<strong>La</strong> luce del video ormai ha cominciato a far parte dell’iride dei<br />
miei occhi, quindi decido che è arrivata l’ora di spegnere e di andare a<br />
recuperare le migliaia di ore arretrate di sonno. Off.<br />
Biancon Biancon & & Co. o.<br />
Sono nato trent’anni fa, in un paesino alle porte di Treviso, un paesetto<br />
che gira intorno alla sua zona industriale. Non è che voglio male<br />
a ‘sto posto, mi ha dato i natali e ci <strong>sono</strong> pure affezionato, solo che negli<br />
ultimi anni ha dovuto cedere alla richiesta immobiliare, e tonnellate<br />
di cemento hanno invaso capillarmente ogni campo per fare spazio a<br />
vomitevoli zone residenziali.<br />
Ricordo quel giorno, lo ricordo come fosse adesso, il giorno in cui<br />
ho capito che la strada del ritorno non c’era, come si dice: il punto di<br />
non ritorno, l’inizio della fine. Dev’essere stato luglio-agosto di un bel<br />
po’ di anni fa. Ero in giro in bici per le stradine, dev’essere stato dopo<br />
pranzo. Pedalavo, e per strada si ergeva un silenzio estivo, caldo, quella<br />
quiete da riposino pomeridiano. Inforcavo la Graziella col manubrio<br />
bombato e con la sella da cross. Girovagavo in cerca di qualche amico,<br />
magari qualcuno era uscito. Stavo gironzolando nella zona così chiamata<br />
da tutti dalle cooperative: un complesso nato nei primi anni ottanta,<br />
dove la gente comprava la casetta del cazzo con il giardinetto del<br />
cazzo. L’unico pezzettino di terra che si era salvato era il campetto di<br />
calcio con le porte senza reti, compagno di mille avventure per generazioni<br />
di ragazzini. Si son giocate partite e campionati storici su quel<br />
minuscolo avanzo di terreno. Ecco, quello spicchio di globo terrestre,<br />
quel manto erboso circondato dalle case, quell’unico posto rimasto indenne,<br />
in quel giorno caldo e silenzioso, lo vidi circondato da una rete<br />
arancione in plastica, quelle che si usano nei cantieri. I miei occhi non<br />
potevano credere a quello a cui stavano assistendo. Forse ho avuto il<br />
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mio primo pensiero da grande, la mia prima ribellione interna che non<br />
poteva far altro che implodere: non riuscivo a credere che avessero bisogno<br />
proprio di quel pezzo di terra per fare delle case. Adesso ci <strong>sono</strong><br />
un sacco di appartamenti, un tabaccaio che vende anche i giornali, un<br />
bar e una parrucchiera, poi un negozio di abbigliamento e una schifosissima<br />
agenzia immobiliare. Grazie ragazzi, in quel giorno caldo e silenzioso<br />
avete fatto sognare un ragazzino con la Graziella truccata,<br />
grazie! ANDATEVENE TUTTI AFFANCULO!<br />
Sono nato in un freddissimo Novembre in un ospedale malconcio<br />
che adesso viene usato come centro per la tossicodipendenza. Quel<br />
giorno ci son state un po’ di complicazioni; non era proprio la mia ora<br />
ma il dottore, appena visitata mia madre, ha deciso di tirarmi fuori.<br />
Dev’essere stato tipo un arresto cardiaco o qualcosa del genere,<br />
non <strong>sono</strong> mai voluto andare a fondo, quello che so è che sto in questo<br />
cazzo di mondo e non se ne parla <strong>più</strong>. Il ricordo della mia infanzia è<br />
bello, o meglio, mettiamola così, non ho dei brutti ricordi; la mia è<br />
sempre stata una di quelle famiglie normali e per normali intendo<br />
normali e basta.<br />
Qui la normalità è basata sul lavoro e per la maggior parte delle<br />
persone normale è anche l’ignoranza che invade qualsiasi piccolissima<br />
strada, qualsiasi posto ti circondi e, come sangue nelle vene, si espande<br />
nell’edicola, nei bar e in tutte le teste della gente che ti circonda. Sempre<br />
salvo eccezioni e forse io non <strong>sono</strong> una di quelle, ma almeno non<br />
faccio finta di niente.<br />
Tornando alla mia famiglia, di quella normale famiglia, mia madre<br />
è quella che merita l’altare. Lei è la mamma che tutti vorrebbero<br />
avere: oltre ad essere stata una bellissima donna è stata anche una bravissima<br />
persona, <strong>troppo</strong> fuori dal mondo per capire che forse poteva<br />
fare di <strong>più</strong>, con la testa offuscata da quella generazione del dopoguerra<br />
vissuta in mezzo ai campi, con poche distrazioni e tanti doveri, sposatasi<br />
<strong>troppo</strong> presto e mamma di quattro figli maschi all’età di trent’anni.<br />
Ha passato una vita ad accudire e non è mai stata ricambiata per tutti<br />
quegli sforzi.<br />
Sì, quattro bambocci maschi, anzi quasi quattro, perché mio fratello<br />
Michele non è proprio un maschio vero e proprio, ha sempre avuto<br />
fin da bambino quell’aria da checca, ed essere un frocio a Treviso,<br />
soprattutto negli anni della sua adolescenza, non è stato sicuramente<br />
25
facile, sia per il paese conservatore in cui viveva, sia per un padre che<br />
gli rompeva i coglioni.<br />
Eh già… mio padre, Benito Biancon…<br />
Col vecchio non è che abbia mai avuto una grande storia d’amore.<br />
Ci siamo sempre evitati. Qualcuno potrebbe parlare di incompatibilità<br />
di carattere, ma io la vedo <strong>più</strong> come un padre che ha saputo farlo solo<br />
rompendo le palle, scrivendo un milione di regole e doveri e lasciando<br />
bianca la pagina dei diritti. Adesso è in pensione, con la sua pancia e<br />
con la sua poltrona, l’orto, la passione per la pesca e con il vizio del beveraggio<br />
pesante.<br />
Ricordo le serate in cui rientrava ubriaco, mi veniva a smarronare<br />
per via della scuola e mi biascicava parole dall’alito aspro, al gusto di<br />
vino di bettola nordestina. Menava, eccome se menava. Se qualcuno<br />
sgarrava in famiglia, lui alzava quelle sue schifose mani da maniscalco,<br />
grandi e tozze, con lo sporco di nero sotto le unghie, tatuato nei lunghi<br />
anni di lavoro nell’officina meccanica come operaio specializzato.<br />
Penso che Michele sia quello che ne ha prese di <strong>più</strong>, povero cristo,<br />
ma avere un figlio diverso per mio padre era come essere senza un coglione.<br />
Adesso penso se ne sia fatto una ragione, ma ha sofferto un casino.<br />
Povero Michi e povero vecchio! Gli altri due fratelli <strong>sono</strong> Alessandro<br />
detto Ale e Cristiano detto Tano. Siamo nati così: Ale-Adri-<br />
Michi-Tano.<br />
Ale è il mio preferito, anche se non si dovrebbero avere delle preferenze,<br />
ma il fra’ <strong>più</strong> grande è sempre il fra’ <strong>più</strong> grande e come tale è<br />
motivo di emulazione. Lui non è uno di quelli che si fa le seghe, lui<br />
tromba con una regolarità simile a quella di andare al cesso; ogni tanto<br />
penso a Michi che forse, trovandosi in assenza di materia prima, si è<br />
buttato sugli scarichi delle fogne degli uomini. Ale è uno di quei ragazzi<br />
di successo, adesso ha trentadue anni, bellino, alto, moro con i capelli<br />
impomatati all’indietro, sempre vestito bene, con la macchina bella<br />
in affitto e un lavoro da rappresentante. Ha preso tutto dalla mamma,<br />
quel viso con i lineamenti dolci, ma con la mascella scavata da attore<br />
ollivudiano e l’occhio a spiffero di un verdastro marcio.<br />
Di Cristiano che dire? Tano è quello <strong>più</strong> piccolino, in questo momento<br />
si vive i suoi vent’anni, con tutti i pro e i contro, ma una cosa la<br />
so di sicuro: se li sta passando sulla cresta dell’onda, e qui ci stanno<br />
dentro tutti i pro, ma per vivere sulla cresta dell’onda in casa Biancon,<br />
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e lo dico per esperienza personale, devi fare i conti con i calcinculo di<br />
Benito. Lui, come me, ha avuto dalla mamma i capelli, gli altri particolari<br />
della faccia li ha presi dal padre, le orecchie grandi e il naso corvino,<br />
ma tutto sommato sembra che le sbarbate lo trovino interessante;<br />
non sarà come Ale, ma di certo non è come Michele.<br />
Oltre a essere checca, Michi è anche il <strong>più</strong> bruttino dei fra’, ma il<br />
ragazzo ha testa, eccome se ha testa: è l’unico della famiglia che ha fatto<br />
l’università, a Bologna, quella lì degli artisti, il DAMS, è uscito con il<br />
massimo dei voti ed è riuscito anche a mantenersi agli studi. Se fosse<br />
stato per il vecchio, dopo la terza media avrebbe fatto il netturbino e<br />
invece adesso si sta specializzando nel campo della moda!<br />
Poi ci <strong>sono</strong> io. Per fortuna ho preso poco dal vecchio. Dicono che<br />
assomiglio alla mia mammina e tutto il bene che le voglio penso sia<br />
dovuto anche a questo.<br />
Ogni tanto glielo dico ancora: « Ma perché non mi hai dato anche<br />
le tue orecchie? » Senza ridere, glielo dico serio, quasi incazzato e lei<br />
mi guarda sempre al solito modo, con quelle due meravigliose fessure<br />
scure, con quella bellissima faccia dolce e spigolosa segnata ancora dalla<br />
bellezza ormai andata e mi dice: « Amore… io ce l’ho messa tutta! »<br />
E lì la bacio e me la abbraccio.<br />
Adolf Adolf<br />
Adolf<br />
Ormai la settimana è passata e quando arriva giovedì si intravede<br />
il traguardo, la vita dentro queste quattro enormi mura in cemento<br />
armato prefabbricato diventa leggermente <strong>più</strong> vivibile: è come se si<br />
sentisse il pro<strong>fumo</strong> del fine settimana all’orizzonte, una sensazione che<br />
può capire solo chi ha vissuto la fabbrica.<br />
<strong>La</strong> MAN Roland sta già girando a pieno regime da un paio d’ore e<br />
quindi, come di rito, si va a bere il caffettino e ad adocchiare occhi di<br />
mandorla che si sta mollando un po’. Mi incammino verso la macchinetta<br />
del caffè mimando una bevuta e facendo gestacci a Giorgio, lui fa<br />
sìssì con la testa ed emette un rantolo indecifrabile, tira una bestemmia<br />
a Mirco che sta lì impalato a guardare.<br />
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Mentre sto inserendo la chiavetta, alzo la testa e mi vedo arrivare<br />
l’Adolfo Ceolin, il capo dei capi, nonché il titolare della premiata ditta.<br />
Come lo scorgo nella sua inimitabile camminata a pancia in fuori con<br />
le mani dietro la schiena, mi irrigidisco; è brutto essere sgamati a non<br />
fare un cazzo, ma me ne sbatto e continuo. Lo sento avvicinarsi, sta<br />
canticchiando a mo’ di trombone il suo solito motivetto, sentito e risentito.<br />
Simpaticamente lo chiamiamo Adolf, non perché sia un nazista di<br />
merda, ma solo perché non ci passa un cazzo e va bene così. L’uomo,<br />
ormai sulla sessantina inoltrata, è fondamentalmente un bravo cristiano,<br />
con tutti i difetti e pregi che hanno i capi. A sentire i ritardati degli<br />
operai è uno che non capisce una sega, che non sa lavorare, che l’azienda<br />
l’ha messa su con i soldi della moglie e bla bla bla.<br />
Dicevo, i suoi sessant’anni li porta discretamente bene se non fosse<br />
per quell’inguardabile pancia gonfia come la pappagorgia di una rana<br />
in amore. Alto, sarà sull’uno e novanta, capelli radi ma tenuti sul<br />
lungo e tirati all’indietro in presa stagna con una fiala di lacca puzzolente,<br />
pelle ruvida olivastra e denti rovinati da anni di tabagismo acuto.<br />
« Biancon. » mi fa con la voce impostata mentre estraggo il macchiato<br />
dalla macchinetta.<br />
« Ehilà, buongiorno sior Ceolin, bella giornata oggi, eh? » gli vomito<br />
addosso col sorriso a trentadue denti.<br />
« Seh, bella giornata del cazzo. ‘Cogiuda, ‘stamattina proprio non<br />
va… e poi quando vedo gli uomini fermi che <strong>bevo</strong>no il caffè, mi girano<br />
ancora di <strong>più</strong>. AH-AH-AH! » ridacchia tossendo e risucchia un po’ di<br />
catarro, lo mastica e lo ingurgita e aggiunge gracchiando: «Dai, offrimi<br />
un caffè, ‘cogiuda! »<br />
Anche il caffè devo offrire allo stronzo, io che guadagno mille-ecento<br />
ti devo pure buttare il caffè! E scommetto pure che mi scrocchi<br />
la paglia, figlio di una meravigliosa donna di strada.<br />
Preme col suo ditone un espresso, mi guarda e mi fa: «Allora, come<br />
siamo presi con la Benetton? » intendendo la campagna pubblicitaria<br />
e nel mentre estrae il bicchierino marrone e dà una mescolata col<br />
cucchiaino trasparente.<br />
« Eh… come siamo messi. <strong>La</strong> MAN Roland gira che è una meraviglia,<br />
mi sa che la prossima settimana finiamo fuori tutto. » faccio io<br />
col petto in fuori, poi do l’ultimo sorso di caffè e lancio il bicchiere.<br />
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« Ma come? » – chiede lui un po’ alterato – « Giorgio mi aveva<br />
detto che per ‘sta settimana finivamo. ’Codiungiuda! »<br />
« Mi scusi Ceolin, ma ho un urgente bisogno di andare al bagno. »<br />
gli dico con la bocca tirata mimando l’imminente cagata in arrivo e<br />
cercando di tagliare i ponti.<br />
« Dai Biancon, offrimi una sigaretta, e va cagar... AH-AH-AH! » e<br />
tira un’altra bolsega catarrosa prendendo la paglia dal pacchetto che<br />
gli porgo. Eccolo lì, lo sapevo che mi scroccava anche la cicca, porcodiundiavolo!<br />
Ma dai, gliela do volentieri allo stronzo, tutto sommato<br />
mi è simpatico l’Adolf.<br />
Prendo la porta e vado su a svuotare le viscere. Scendo leggiadro<br />
come una piuma e faccio il solito odiato tragitto di ritorno verso il mostro,<br />
ma… sembra proprio una voce cinese questa!<br />
« ’Dlianoo! »<br />
Sento ‘sto vocio da lontano che fluttua nell’aria fino a raggiungere<br />
il mio grosso apparato uditivo e mi fa girare la testa per guardare da<br />
dove proviene. Meizu mi sta chiamando? Bene! E che diavolo vuole?<br />
<strong>La</strong> vedo che mi fa il gesto con la mano come a dire vieni qua e ride la<br />
cinese. Cammino verso di lei a velocità sostenuta, non facendo trasparire<br />
l’emozione, e tengo lo sguardo basso e serio.<br />
« Ciao Meizu, dimmi cara. » dico con gentilezza e sorriso a palla.<br />
« Ciao ‘Dliano, volevo linglazialti pelché sei l’unico che qui pallale<br />
con me, volevo solo dilti glazie. » Ride e fa lo sguardo dolce.<br />
« Ma scherzi, ci mancherebbe, a me piacciono tutte le persone,<br />
non ho assolutamente pregiudizi, non giudico una persona per il suo<br />
colore della pelle, te l’ho già detto, di me ti puoi fidare e se hai bisogno<br />
sai che <strong>sono</strong> qui. » dico tutto di un fiato e, visto che ci <strong>sono</strong>, prendo la<br />
palla al balzo e le chiedo: « Cosa dici se una di ‘ste sere andiamo a berci<br />
una birretta insieme, eh? »<br />
Lei mi guarda con quegli occhietti dolci e in quel momento mi<br />
chiedo che cosa ci sia venuta a fare una fighetta mangiarisi così in questo<br />
posto merdoso, ma il mio pensiero viene troncato dalla sua risposta:<br />
« Va bene, volentieli. » Mi fa un sorrisetto guardandomi di sfuggita,<br />
ma non appena incrocia il mio sguardo si ritira come una lumaca<br />
nel suo guscio e vedo che le guance le diventano un po’ rosse.<br />
« Allora ok, son contento che mi hai chiamato, adesso vado, non<br />
vorrei arrivasse Adolf. » e scappo.<br />
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