Leggi il formato PDF - Ordine degli Avvocati di Lecco

QUADRIMESTRALE EDITO DALL’ORDINE AVVOCATI DI LECCO 

Anno XXII - N.1/2012

2 

Fondatore e Direttore Responsabile 

Renato Cogliati 

Stampa: 

MapeR - Renate (Mi) 

Autorizzazione n. 2/91 del tribunale di Lecco 

SOMMARIO 

Il diritto romano con gli occhi a mandorla ……………… pag. 4 

Decalogo del comportamento del magistrato ………… “ 5 

Ancora in tema di opposizione a decreto ingiuntivo …… “ 6 

Lettera idealmente indirizzata alla signora Aliverti ……… “ 7 

Sospensione ai sensi dell’art. 373 c.p.c. dell’esecuzione 

iniziata in base a sentenza civile ……………………… “ 8 

L’attualità della questione carceri …………………… “ 9 

Dalla Germania: Kokon un’alternativa alla mediazione … “ 10 

Diritto e gioco degli scacchi ………………………… “ 10 

Giurisprudenza Deontologica ………………………… “ 12 

Giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense ……… “ 14 

Avvocato, restituisca i documenti! …………………… “ 15 

Sanzionato l’avvocato che mente al legale di controparte 

per costringerlo alla transazione ……………………… “ 17 

Deontologia ………………………………………… “ 19 

VI° Convegno Nazionale ……………………………… “ 20 

Cerco/Offro ………………………………………… “ 21 

In giro per librerie …………………………………… “ 21 

In giro per mostre …………………………………… “ 22

Ai Colleghi del (recentemente rinnovato) Consiglio dell’Ordine Toga Lecchese augura 

buon lavoro. 

Accanto a riconferme, nella misura dei due terzi dei componenti, cinque Consiglieri 

sono nuovi nell’incarico (anche se di questi alcuni erano già stati in Consiglio). 

Ciò consentirà il giusto contemperamento tra l’esperienza e lo stimolo derivante 

dall’entusiasmo della prima volta. Toga è, come in passato, ovviamente a disposizione 

dei Consiglieri e di tutti i Colleghi. 

R.C. 

Presidente Avv. ELENA BARRA 

Segretario Avv. ANTONIO CORTI 

Tesoriere Avv. CESARE RESINELLI 

Commissione istruttoria 

disciplinare 

Coordinatori Avv.ti Graziano Calvi e 

Stefano Pelizzari 

Avv. Graziano Calvi 

Avv. Stefano Pelizzari 

Avv. Nadia Invernizzi 

Avv. Giovanni Liguori 

Avv. Patrizia Pizzi 

Avv. Margherita Cuocolo 

Avv. Roberto Cattaneo 

Avv. Nicola Brenna 

Commissione parcelle – 

Tentativi di conciliazione 

Civile – amministrativo 

Avv. Graziano Calvi 

Avv. Giovanni Liguori 

Penale 

Avv. Umberto Tomalino 

Avv. Luca Marsigli 

Commissione praticanti 

Coordinatori Avv.ti Marzia Patrignani e 

Luca Marsigli 

Avv. Marzia Patrignani 


Avv. Stefano Pelizzari 


Avv. Nadia Invernizzi 

Avv. Patrizia Pizzi 

Commissione formazione 

permanente 

Coordinatori Avv.ti Umberto Tomalino e 

Cesare Resinelli 

Avv. Umberto Tomalino 

Avv. Cesare Resinelli 


Avv. Sergio Vergottini 


Avv. Elena Barra 

Patrocinio a spese dello 

Stato 

Coordinatore Avv. Sergio Vergottini 




Mediazione - Conciliazione 

delle controversie civi- 

li e commerciali – Rapporti 

con l’organismo 

Avv. Margherita Cuocolo 




Referente informatico – 

internet - pct 

Avv. Antonio Corti 

Biblioteca 

Avv. Cesare Resinelli 



Rapporti con i Magistrati 


Avv. Antonio Corti 

Rapporti con Enti Istituzioni 

Associazioni 

C.N.F. : Avv. Elena Barra Avv. Antonio Corti 

U.L.O.F.: Avv. Elena Barra – Avv. Antonio 

Corti 

CAMERA CIVILE: Avv. Patrizia Pizzi 

CAMERA PENALE e LAPEC: Avv. Stefano 

Pelizzari 

A.I.A.F.: Avv. Marzia Patrignani 

A.G.A.L.: Avv. Roberto Cattaneo 

3

Il diritto romano con gli occhi a mandorla 

4 

All’inizio del terzo millennio, la Repub- 

blica Popolare Cinese, nel quadro generale 

di una riorganizzazione del proprio sistema 

giuridico, utilizza i principi del diritto romano 

per adeguare la propria legislazione alle 

nuove esigenze venutesi a creare a seguito 

del tumultuoso sviluppo economico. 

Il programma è stato avviato dal governo 

cinese alla fine dello scorso millennio, 

mediante l’inserimento nella costituzione 

nazionale di una serie di regole destinate a 

garantire l’affermazione, in chiave costruttiva, 

di un’economia di mercato socialista. 

In questa prospettiva, il diritto romano 

ha costituito il fondamento per l’introduzione 

e l’utilizzazione di valori e di principi 

giuridici posti a base del sistema giuridico 

orientale, segnatamente in relazione al 

diritto civile e commerciale: il legislatore 

cinese, infatti, consapevole che il compito 

fondamentale dell’ordinamento giuridico in 

tali settori fosse quello di consolidare e sviluppare 

il sistema economico socialista in 

forza di leggi scritte, finalizzate a prevenire 

ed eventualmente risolvere le contraddizione 

e i conflitti che possono sorgere nella 

vita economica, si è richiamato espressamente 

al diritto romano per cogliere gli 

istituti adatti a favorire, in reciprocamente 

connessa interdipendenza, da un lato, la 

salvaguardia della proprietà; per altro verso, 

la tutela della persona giuridica di ogni 

tipo di impresa. 

In linea generale, il riferimento al diritto 

romano, quale modello di costruzione di 

un moderno sistema giuridico, ha condotto 

alla consapevolezza del legislatore cinese 

in ordine ai seguenti profili, direttamente 

ereditati dalla riflessione della giurisprudenza 

romana: 

a) il valore “oggettivo” della legge rispetto 

alla volontà soggettiva del legislatore: la 

capacità di riflettere correttamente le regole 

“oggettive” dei fenomeni (in particolare, 

come detto, quelli dell’economia 

di mercato) viene collegata all’aspetto 

del diritto naturale (ius naturale) e, in 

particolare, ai principi dell’equità e della 

giustizia; 

b) la valorizzazione del diritto civile e del 

diritto commerciale, correlata alla nascente 

economia di mercato, con particolare 

riguardo al diritto delle persone, il 

cui compito è quello di realizzare un’armonica 

fusione tra l’intervento dello 

Stato e l’autonomia del privato; 

c) la tutela della libertà contrattuale del 

privato. 

Una simile prospettiva di indagine, destinata 

ad attribuire all’opera codificatoria un 

significato anche di natura politica, ha portato 

a risultati concreti, con l’emanazione 

del 2010, della Legge sui contratti e della 

Legge sui diritti reali. 

In tema di contratti, emerge la considerazione 

della tutela dell’iniziativa economica 

privata, che ogni cittadino può esercitare in 

forza di un proprio patrimonio, da gestire 

liberamente con ogni connesso rischio imprenditoriale: 

viene fatto così di pensare 

ai diretti collegamenti con la capacità patrimoniale 

del pater familias che, a Roma, 

era l’unico soggetto titolare di un proprio 

patrimonio e nei cui soli confronti poteva 

esercitarsi un’iniziativa processuale per il 

caso di inadempimento ai vincoli obbligatori; 

del pari, emerge nitido il collegamento 

con la responsabilità adiettizia, che pure 

era riconnessa, nell’economia di sviluppo 

commerciale conseguente all’espansione 

di Roma, alla possibilità dell’unico soggetto 

sui iuris di garantire il terzo nei confronti 

dei sottoposti adibiti ad un’attività commerciale 

marittima o terrestre (exercitor 

navis o institor). 

Quanto ai diritti reali, assume rilievo 

l’inserimento, nel sistema civilistico, della 

proprietà privata e della sua tutela erga 

omnes, con espressi richiami alla azione 

in rem e alla reivindicatio del sistema romanistico, 

ma, in connessa prospettiva, 

anche l’introduzione di un sistema di diritti 

reali minori (iura in re aliena) che proprio 

la riflessione della giurisprudenza romana 

aveva tutelato in forza di azioni modellate a 

tutela dello ius in re propria e che era stato 

originariamente individuato nel modello di 

sfruttamento dell’ager publicus. 

L’esemplificazione potrebbe continuare a 

lungo, ma mette conto di rilevare conclusivamente 

qui come i richiami espressi al 

Corpus Iuris Civilis effettuati da legislatore 

cinese si estendano, più in generale, al 

raggiungimento di quella equità e di quella 

giustizia che fanno del diritto romano un 

modello insuperato: è così argomento di 

profonda riflessione considerare, per un 

verso, che il miliardo e mezzo di persone 

che vivono nella Repubblica Popolare Cinese 

applicheranno un sistema giuridico i 

cui principi sono indissolubilmente legati 

alla nostra tradizione e alla nostra storia; 

per altro verso, che proprio questa nazione 

è stata considerata, specialmente negli 

ultimi anni, una della maggiori cause della 

crisi economica del nostro paese. 

FedeRiCo peRgaMi

Decalogo 

del comportamento 

del magistrato 

1. Sii gentile; 

2. Sii paziente; 

3. Sii dignitoso; 

4. Sii sollecito; 

5. Sii laborioso; 

6. Non prenderti troppo sul serio; 

7. Non abbandonare il senso comune; 

8. Non temere il cambiamento; 

9. Ricordati che non ci sono processi 

non importanti; 

10. Ricordati che anche tu potrai 

essere giudicato. 

Disposizione tratta da un corso di perfezionamento 

sulla professionalità per giudici canadesi. 

5

Ancora in tema di opposizione a decreto ingiuntivo 

Occorre ancora tornare sul tema dell’opposizione 

a decreto ingiuntivo e in particolare 

del termine per la costituzione in giudizio 

dell’opponente. Riassumo la nota vicenda. 

Fino alla sentenza delle Sezioni Unite della 

Cassazione, n. 19246/2010, l’opponente 

che assegnava a parte avversa un termine 

a comparire inferiore a quello ordinario (in 

Tribunale, novanta giorni), doveva costituirsi 

nei cinque giorni successivi la notifica 

della citazione, pena l’inammissibilità del 

giudizio. Altrimenti, nel caso di concessione 

all’opposto (almeno) dei termini ordinari 

a comparire, la costituzione sarebbe potuta 

avvenire entro dieci giorni dalla notificazione. 

Poi però i Giudici di legittimità hanno 

statuito che, in tutti i casi, l’opponente 

avrebbe dovuto costituirsi nel breve lasso 

di tempo di cinque giorni. Da qui il rischio di 

vedersi dichiarate inammissibili le opposizione 

precedentemente proposte e ancora 

pendenti nelle quali ci si era costituiti nel 

6 

termine ordinario. La novità (tra le tante 

di questi tempi offerte dal legislatore) è di 

inizio anno. Con la legge n. 218/2011, pubblicata 

in gazzetta ufficiale il 05/01/2011, 

viene stabilito all’articolo 1 che “Al secondo 

comma dell’articolo 645 del codice di 

procedura civile, le parole: «; ma i termini 

di comparizione sono ridotti a meta’» sono 

soppresse”. In pratica, d’ora in poi le cause 

di opposizione a decreto ingiuntivo sono 

in tutto e per tutto disciplinate come le altre 

di cognizione ordinaria, e quindi la costituzione 

in giudizio dell’opponente deve 

essere fatta nei dieci giorni successivi alla 

notifica. Per inciso, costui non può liberamente 

scegliere di “dimidiare” i termini di 

costituzione e di comparazione; se ha necessità 

in questo senso deve chiedere l’autorizzazione 

preventiva al Presidente del 

Tribunale. E per il passato? Anche a questo 

ha posto rimedio il legislatore, in quanto 

l’articolo 2 della citata legge, ha previsto 

Disegno di Franco Necchi 

che “Nei procedimenti pendenti alla data 

di entrata in vigore della presente legge, 

l’articolo 165, primo comma, del codice 

di procedura civile si interpreta nel senso 

che la riduzione del termine di costituzione 

dell’attore ivi prevista si applica, nel caso 

di opposizione a decreto ingiuntivo, solo 

se l’opponente abbia assegnato all’opposto 

un termine di comparizione inferiore 

a quello di cui all’articolo 163-bis, primo 

comma, del medesimo codice”. Così facendo 

si è evitato il rischio di inammissibilità 

di uno svariato numero di opposizioni pendenti. 

Due osservazioni finali. Posto che il 

nostro ordinamento abbonda di decreti 

legge, non era forse il caso che il Governo 

si interessasse della questione all’indomani 

della sentenza delle Sezioni Unite della 

Cassazione, per evitare il bailame seguito 

a quella pronuncia? Ancora, dovendo mettere 

mano alla disciplina del processo di 

opposizione a decreto ingiuntivo, perché 

non si è deciso di dimezzare “per legge”, 

obbligatoriamente, i termini di costituzione 

e comparizione. L’effetto pratico sarebbe 

stato quello di ridurre il tempo che trascorre 

tra la notifica dell’atto di citazione e la 

prima udienza, senza pregiudizio per le parti. 

Non certamente per l’opponente, e nemmeno 

per l’opposto che, pur avendo meno 

tempo per organizzare la propria difesa 

(comunque relativamente ad una vicenda 

che già conosce avendo per essa chiesto 

appunto l’emissione di decreto ingiuntivo), 

ha il vantaggio di vedere discusso prima 

la eventuale (si fa per dire, perché di fatto 

viene sempre richiesta) istanza di provvisoria 

esecutorietà. 

SeRgio VeRgottini

Lettera idealmente indirizzata alla Signora Aliverti 

Cara Signora Aliverti, 

la notizia della Sua scomparsa, al crepuscolo 

del 2011, mi ha riportato, con non 

poca malinconia, indietro improvvisamente 

nel tempo. 

Conto infatti abbastanza anni di professione, 

da averLa conosciuta come custode 

del nostro Tribunale, nel Palazzo in cui aspiriamo 

a far ritorno, dopo l’attuale fase di 

trasferta. 

Non voglio indulgere al ricordo ovattato, 

oppure ai “quadretti”improntati all’idilliaco, 

ma la mente mi ripropone la Sua figura, 

seduta nella guardiola dell’atrio, al piano 

rialzato di Via Cornelio. 

Era gradito obbligo, ogni mattina, prima 

di iniziare il quotidiano agone giudiziario, 

fermarsi da Lei, per scambiare quattro 

chiacchiere, magari qualche volta anche in 

dialetto. 

Non lo facevamo solamente noi avvocati, 

ma anche magistrati, cancellieri, giornalisti, 

in tanti insomma. 

Si parlava del cosiddetto “più e del 

meno” e cioè del tempo, della situazione 

generale, oppure della famiglia, con le gioie 

e qualche dispiacere che questa reca con 

sé. 

Si trattava di pochi attimi, talora solo di 

accenni, ma il riandare ora ad essi mi induce 

una riflessione, banale si dirà, ma forse 

non del tutto e vorrei esporla in questa lettera 

che idealmente Le indirizzo. 

Il fatto che uomini e donne esercenti 

svariate professioni, magari destinate 

anche a contrapporsi, tuttavia si intrattenessero 

con Lei, all’incirca sulle medesime 

questioni, mette ben in luce il comune 

denominatore che la distinzione di ruoli, 

ranghi ed incarichi non può certo elidere. 

Forse dovremmo ricordarcene più spesso, 

dato che, ai nostri giorni, sembrano prevalere 

steccati individualismi, oppure,magari 

per contrasto o per insaziabile volontà polemica, 

orgogliose rivendicazioni di appartenenza. 

Mi accorgo però che sto scivolando verso 

il predicatorio e dunque mi fermo, anche 

se oso ipotizzare, avendo conosciuto come 

la pensava su certi temi, che Lei sarebbe 

d’accordo su questa conclusione. 

Se così fosse, Lei pronuncerebbe di certo 

uno dei Suoi “Sicur!” che in dialetto di Lecco 

e dintorni, ma anche milanese, significa 

“È proprio così”. 

Accompagnerebbe peraltro la parola con 

quella tipica espressione del volto che Lei 

palesava quando voleva esprimere rammarico 

e preoccupazione nei confronti di 

questo o quell’andazzo che si ponesse in 

contrasto negativo col Suo modo, del tutto 

condivisibile, di concepire i rapporti tra gli 

esseri umani. 

In chiusura, vorrei dunque ringraziarLa, 

perché Lei è stata, a lungo, a favore di quel 

variegato microcosmo in andirivieni da e 

per il Palazzo, una gradevole e simpatica… 

compagnia. 

“Sicur!”, Signora Aliverti, è stato proprio 

così. 

Con affetto. 

enRiCo RigaMonti 


7

Sospensione ai sensi dell’art. 373 c.p.c. della 

esecuzione iniziata in base a sentenza civile 

In sintesi: Costituisce “grave e irreparabile 

danno” legittimante la sospensione 

della esecuzione forzata intrapresa per 

l’adempimento di un obbligo di fare, la 

circostanza che per l’adempimento dell’obbligo 

si renda necessario sospendere l’attività 

produttiva del soggetto cui l’obbligo 

si riferisce. 

Corte di Appello di Milano – Sez. 2 – 

23.12.2009 Pres.: Dr. De Ruggiero – Consigliere 

Dr Saresella Giudice Relatore: Dr.ssa 

Ongania Giudizio di Cassazione - Sospensione 

dell’esecuzione – art. 373 c.p.c. 

- Grave e irreparabile danno - Obblighi di 

fare. 

Il fatto 

La ditta A ottiene una sentenza (in grado 

di appello) che obbliga la ditta B ad eliminare 

le cause delle vibrazioni prodotte da 

due grosse presse. 

Dopo aver notificato regolare atto di 

precetto, la ditta A deposita un ricorso per 

l’esecuzione forzata degli obblighi di fare, 

ai sensi dell’art. 612 c.p.c. 

La ditta B, che nel frattempo aveva proposto 

ricorso per Cassazione avverso la 

sentenza di appello sulla base della quale 

la ditta A procedeva in executivis, depositava 

istanza di sospensione della esecuzione, 

ai sensi dell’art. 373 c.p.c., evidenziando 

come l’intervento di installazione degli 

ammortizzatori sulle presse, determinasse 

la necessità di sospensione della propria 

attività produttiva e che ciò costituisse 

“grave e irreparabile danno” legittimante 

la richiesta di sospensione della esecuzione. 

La Corte di Appello di Milano, con il provvedimento 

riportato in epigrafe, e in apparente 

contrasto con il proprio precedente 

orientamento espresso in subjecta materia, 

accoglieva la richiesta emettendo la 

seguente ordinanza: “Omissis. La Corte rilevato 

che vi è ragione di sospendere l’esecutività 

della sentenza ai sensi dell’art. 373 

c.p.c., solo quanto al capo di condanna al 

facere relativo alla eliminazione delle vibrazioni, 

dal momento che in ogni caso tali 

8 

lavori comportano la necessità di sospendere 

l’attività produttiva, sospende l’esecutività 

della sentenza n. 205/2008 della 

Corte di Appello di Milano limitatamente al 

capo indicato. Omissis”. 

I presupposti applicativi dell’art. 373 

c.p.c. 

La disposizione di cui all’art. 373 c.p.c. è 

molto più “drastica” quanto ai presupposti 

per la concessione del provvedimento di 

sospensione, rispetto alla omologa disposizione 

di cui all’art. 283 c.p.c. in tema di 

sospensione della efficacia esecutiva della 

sentenza di primo grado. 

Mentre l’art. 283 c.p.c. indica quali presupposti 

i “gravi e fondati motivi”, l’art. 

373 c.p.c. fa riferimento al pericolo di “grave 

e irreparabile danno”. 

Occorre evidenziare che sull’art. 283 

c.p.c. esiste anche giurisprudenza di legittimità, 

mentre sull’art. 373 c.p.c. non esistono 

precedenti della Suprema Corte in quanto 

il provvedimento che accoglie o nega la 

domanda di sospensione della esecuzione 

iniziata in forza di sentenza della Corte di 

Appello non è ricorribile in Cassazione . 

Il quadro giurisprudenziale (se si eccettua 

la ordinanza in commento) era ed è 

caratterizzata da una certa “stabilità” nel 

tradurre le citate disposizioni nei seguenti 

termini: 

- I “gravi motivi” richiamati dell’art. 283 

c.p.c. concedono un ampio spazio discrezionale 

al Giudice del gravame, attesa la 

genericità della formulazione adottata e 

pertanto (ferma restando la necessità di 

verificare il fumus boni juris della impugnazione) 

si ammette la concessione del 

beneficio anche in situazioni in cui il danno 

che con il provvedimento di sospensione si 

intende evitare, non sia di per sé irreparabile, 

potendo quindi essere allegato come 

semplicemente “grave”. 

A titolo di esempio si riporta la ordinanza 

della Corte di Appello di Milano, Sez. I 

14.10.2008 in giur. di merito 2009, 6, 1561 

che così recita: “la sospensione della provvisoria 

esecuzione della sentenza di primo 

grado che il giudice d’appello, ai sensi 

dell’art. 283 c.p.c. nel testo novellato dalla 

L. n. 263 del 2005, può disporre in presenza 

di “gravi” e “fondati” è rimessa ad una valutazione 

globale d’opportunità, poiché tali 

motivi consistono per un verso nella delibazione 

sommaria della fondatezza dell’impugnazione 

e per altro verso nella valutazione 

del pregiudizio patrimoniale che il soccombente 

può subire, anche in relazione alla 

difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione 

di quanto pagato, dall’esecuzione 

della sentenza, che può essere inibita 

anche parzialmente se i capi della sentenza 

sono separati”. 

- Il pericolo di “grave e irreparabile danno” 

(art. 373 c.p.c.), è invece inteso come 

pericolo che con l’esecuzione della sentenza 

di appello (nel frattempo impugnata in 

Cassazione) si verifichi una definitiva e non 

più ripristinabile modificazione del bene 

giuridico oggetto della azione esecutiva. 

Si afferma quindi, ad esempio, che non 

costituisce pericolo di “danno grave e irreparabile” 

il fatto di dover pagare una certa 

somma di denaro, né il fatto di dover eseguire 

altri obblighi suscettibili di successiva 

retrocessione (ad esempio, obbligo di 

consegnare una cosa determinata). 

Unico limite è quindi dalla giurisprudenza 

(dalle Corti di Appello) ravvisato nel 

fatto che con l’esecuzione della sentenza 

si verifichi la distruzione (o comunque la 

definitiva modificazione) del bene oggetto 

del comando giudiziale. 

In tali termini si era pronunziata ad 

esempio, la Corte di Appello di Milano con 

ordinanza 22.12.1982 in Rivista di diritto 

Industriale, 1983, II,14. 

Il provvedimento in commento rappresenta 

quindi un significativo discostamento 

dalla interpretazione restrittiva dei presupposti 

applicativi dell’art. 373 c.p.c. ed una 

sostanziale parificazione di tali presupposti 

a quelli previsti dall’art. 283 c.p.c. in tema 

di sospensione della esecutività della sentenza 

di primo grado. 

giuSeppe Muttoni

L’attualità della questione carceri 

Da ogni parte è condivisa l’attuale situazione 

di emergenza del sistema carcerario, 

cui nel recente passato si è tentato 

invano di porre rimedio con provvedimenti 

tampone e mai strutturali, con il risultato 

di spostare soltanto nel tempo il medesimo 

problema, del quale infatti ogni anno ci troviamo 

a discutere. 

In tale ottica, a nulla sono serviti o serviranno 

provvedimenti di clemenza o di 

semplice “edilizia penitenziaria”, in quanto 

idonei a modificare contenuti e contenitori, 

lasciando identici problemi strutturali sostanziali 

che soltanto interventi normativi 

seri, chiari e soprattutto concretamente 

applicabili potranno risolvere. 

Gli avvocati penalisti da sempre danno 

voce ai cittadini, trovando purtroppo troppo 

spesso sordità, cecità o provvedimenti in 

senso contrario, con i drammatici risultati 

che tutti possono constatare. 

Il rendersi conto di ripetere da tempo gli 

stessi concetti in cui crediamo non ci mortifica, 

ma aumenta in noi, visto il precipitarsi 

della situazione, la convinzione che non 

esistono alternative alla strada indicata ed 

in particolare, almeno in via indicativa: 

- revisione dell’indiscriminato utilizzo della 

custodia cautelare in carcere, da applicarsi 

UNICAMENTE quando ogni altra 

misura appare REALMENTE inadeguata 

e senza finalità diverse dalla tutela della 

collettività; 

- applicazione in concreto dell’art.275 bis 

cpp con utilizzo della tecnologia GPS; 

- semplificazione e concreta applicazione 

delle procedure di espulsione di cittadini 

stranieri condannati; 

- applicazione immediata, laddove esistano 

i presupposti, delle misure alternative 

alla detenzione in sede esecutiva; 

- modifica delle norme che comportano 

automatismi di natura oggettiva per la 

detenzione in carcere dei condannati, 

ampliando le possibilità di applicazione 

delle misure alternative parametrate 

alle condizioni soggettive degli stessi; 

- introduzione dell’istituto della “messa 

alla prova” anche per gli adulti; 

- introduzione di pene diverse da quelle 

della detenzione in carcere, quali ad 

esempio pene interdittive; 

- ampliamento della possibilità di conversione 

della pena detentiva nella 

corrispondente pena pecuniaria, ripristinando 

un valore giornaliero max di € 

50,00=; 

- ampliamento della possibilità di conversione 

della pena detentiva con quella 

dei lavori di pubblica utilità, anche a favore 

di enti privati, associazioni sportive 

dilettantistiche ed onlus; 

- previsione di istituti che prevedano 

l’estinzione di reati, specie contro il patrimonio, 

a fronte di condotte risarcitorie 

o riparatorie, con introduzione della 

c.d. “mediazione penale” (sospensione 

del processo per consentire accordo 

imputato/p. offesa); 

- potenziare la normativa che consente le 

misure alternative per tossicodipendenti 

ed alcooldipendenti; 

- istituire in ogni carcere commissioni 

permanenti costituite da educatori, psicologi 

ed operatori che offrano in tempi 

rapidi programmi individualizzati ai singoli 

detenuti e che relazionino tempestivamente 

le Autorità preposte a decidere 

delle loro istanze. 

Alla magistratura, che da noi dovrà essere 

ogni volta sollecitata sul punto, chiediamo 

di non tollerare condizioni di detenzione 

che ledano dignità e diritti umani e di non 

consentire la detenzione in carcere, se non 

assolutamente necessaria, in ogni caso di 

accertata incompatibilità per ragioni di salute 

anche mentale, a prescindere dal comportamento 

antigiuridico posto in essere o 

dal grado di pericolosità del detenuto, in 

ossequio alla normativa penitenziaria ed ai 

superiori principi costituzionali ineludibili, 

fondati sul primato della persona umana e 

dei suoi diritti, nonché sulla funzione rieducativa 

della pena e sull’inammissibilità 

di trattamenti contrari al senso di umanità. 

A chi governa chiediamo di rimuovere i 

limiti che impediscono il pieno sviluppo 

della persona umana, anche se detenuta, 

in quanto la restrizione della libertà personale 

non può mai costituire azzeramento 

dei suoi diritti fondamentali. 

Del resto il principio costituzionale che 

sancisce la funzione rieducativa della pena 

non riguarda soltanto le misure alternative 

alla detenzione, ma anche la detenzione 

carceraria in senso stretto, che non può 

essere concepita se non in funzione della 

progressiva rieducazione del detenuto. 

Di qui la necessità di spazi adeguati 

anche in cella, di occasioni trattamentali 

istituzionalizzate e comuni a tutti gli istituti 

carcerari, di opportunità di lavoro interne 

strutturate, coordinate e convenzionate anche 

con aziende private, di interazione tra 

gli operatori interni e gli uffici penali esterni 

a favore di un percorso del condannato 

costantemente monitorato sino al pieno 

reinserimento. 

Compiti dell’avvocatura saranno quelli 

di far valere le proprie istanze attraverso 

i propri rappresentanti in sede legislativa, 

adottare costante vigilanza sulla reale applicazione 

delle norme e sul rispetto delle 

garanzie e dei diritti dei cittadini, e la puntuale 

denuncia di qualsiasi abuso. 

paolo CaMpoRini 


9

Dalla Germania: 

Kokon un’alternativa alla mediazione? 

Kokon: dietro questo nome, che ricorda il 

titolo di un vecchio film di Ron Howard, si 

cela una nuova procedura conciliativa che 

sta prendendo piede in Germania soprattutto 

in materia di diritto di famiglia. 

Il termine, tedesco, significa “bozzolo” 

ed è senz’altro appropriato per descrivere 

questa particolare procedura, introdotta 

per la prima volta circa 20 anni fa negli 

Stati Uniti. 

Lo schema è abbastanza semplice, e per 

certi versi geniale. 

Supponiamo che Tizio e Caia decidano 

che è venuto il momento di separarsi, e 

diamo ovviamente per scontato che il rapporto 

tra le parti sia molto conflittuale: per 

prima cosa Tizio incarica il proprio avvocato 

A e Caia si rivolge al proprio avvocato B. 

Entrambi i legali ricevono il mandato e la 

delega processuale. 

A questo punto, se si esclude la possibilità 

di incardinare un procedimento di mediazione 

“classico”, le parti si troveranno 

presto a scontrarsi in Tribunale. 

10 

E’ in questo momento pre-processuale 

che entra in gioco il KOKON: occorre soltanto 

che le parti siano disposte a sottoporsi 

a tale procedura pre-giudiziale che 

comunque, al pari di quella conciliativa, 

non pregiudica la posizione delle parti nel 

processo. 

Questi i successivi “steps”: 

1) ciascuna parte revoca il mandato al 

proprio legale e ne conferisce uno nuovo, 

ai soli fini conciliativi/stragiudiziali; 

2) ciascun legale rinuncia (al momento di 

accettazione dell’incarico) ad assistere 

il proprio cliente nella eventuale fase 

processuale successiva; 

3) entrambi i legali fungono da mediatori 

e cercano di portare i coniugi alla sottoscrizione 

di una separazione consensuale. 

I vantaggi di questo schema operativo 

sono evidenti: 

- entrambi i legali, sapendo che in caso di 

esito negativo del tentativo di conciliazione 

non potranno seguire la fase giudiziale, 

Diritto e gioco degli scacchi 

Il titolo del presente contributo potrebbe 

lasciare perplesso il lettore. Del resto, l’accostamento 

tra diritto e scacchi non è certo 

usuale, va ammesso. Eppure proprio da un 

siffatto accostamento parte un noto filosofo 

giusrealista per spiegare le dinamiche 

del diritto. Si tratta di Alf Ross (1899-1979), 

giurista e filosofo, formatosi alla scuola del 

giuspositivista (o, come poi lo avrebbe definito 

Ross, del quasi-positivista) Kelsen e 

successivamente passato sotto un nuovo 

maestro, il giusrealista scandinavo Hagerstrom. 

Il paragone del diritto con gli schacchi 

apre “Diritto e giustizia”, celeberrima opera, 

pubblicata nell’anno 1953 in danese e 

poi nel 1958 in inglese. 

Immaginiamo, dunque, di assistere a una 

partita di scacchi. Quello che vedremmo 

sono due persone, una di fronte all’altra 

che muovono dei pezzi di legno su una ta- 

vola composta di otto righe e otto colonne 

di quadrati (caselle) sistemati in modo tale 

che i colori si alternino Ci troviamo – sostiene 

Ross - davanti a una serie di azioni 

umane e noi possiamo ben supporre che 

questi, insieme ad altri processi somatici 

come il respirare, e a processi psicofisici 

ecc., costituiscono una serie di eventi che 

seguono certe leggi biologiche e psicologiche. 

Nondimeno, è ovvio che sarebbe oltre 

ogni ragionevole possibilità dar conto di 

questa serie di eventi spiegando e prevedendo 

le singole mosse degli scacchi su 

basi biologiche e psicologiche. Il problema 

presenta un aspetto completamente 

diverso se passiamo a un altro livello di 

osservazione e interpretiamo la serie degli 

eventi alla luce delle regole e della teoria 

degli scacchi. Certi aspetti dell’intera serie 

degli eventi, le mosse dei pezzi, risultano 

allora azioni rilevanti o significative per gli 

sono “motivati” a collaborare per ricercare 

una soluzione concordata (inoltre, se si raggiunge 

l´ accordo, l´ onorario comprendera´ 

anche la fase contrattuale); 

- entrambe le parti sanno che se non 

troveranno un accordo devono cercarsi un 

nuovo legale che curi la fase giudiziale, che 

deve studiarsi tutta la vertenza, con tutte le 

conseguenze in tema di tempi e costi. 

Ecco quindi spiegato il motivo per cui 

questa procedura viene denominata “bozzolo”: 

le parti e i rispettivi legali si creano 

una specie di involucro che li costringe ad 

una stretta “convivenza” e comunanza di 

motivazioni che, a sua volta, dovrebbero 

facilitare una sollecita definizione del contenzioso. 

Un’ultima annotazione: questa soluzione 

conciliativa ha costi ridotti rispetto alla 

mediazione classica, dal momento che il 

mediatore …. non serve! 

giuSeppe Muttoni 

scacchi; infine è anche possibile ignorare le 

persone dei giocatori e considerare il gioco 

di per se stesso nel suo astratto significato 

(il gioco in un libro di scacchi).Per una 

approfondita comprensione del gioco è importante 

conoscere non solo le regole del 

gioco, ma anche una certa parte della teoria 

del gioco. La probabilità di prevedere la 

prossima mossa aumenta se si tiene conto 

non solo delle regole del gioco, ma anche 

della teoria del gioco e della conoscenza 

che di essa abbia ciascuno dei giocatori. 

Infine v’è pure da tener conto dello scopo 

che guida il gioco dei singoli giocatori. La 

conoscenza di cui stiamo parlando non è 

quella di tipo causale: la connessione è 

quella del significato. 

Orbene – potrebbe obiettare il lettore di 

Ross ma anche il mio lettore – che c’entra 

tutto questo con il diritto? 

Ed ecco, dunque, la risposta di Ross: il

modello degli scacchi può essere inteso 

come un modello semplice di ciò che possiamo 

chiamare un fenomeno sociale. La 

vita sociale umana in una comunità non è 

un caos di azioni individuali isolate l’una 

rispetto all’altra. Essa acquista il carattere 

di una vita di comunità proprio per il fatto 

che numerose azioni individuali (non tutte) 

sono rilevanti ed hanno significato in relazione 

ad un insieme di comuni concezioni di 

regole. Essi costituiscono un tutto significante, 

presentando quella stessa relazione 

reciproca della mossa e della contromossa. 

Anche qui c’è un gioco reciproco che è 

motivato e acquista il suo significato dalle 

regole comuni del gioco sociale. Ed è la coscienza 

di queste regole che rende possibile 

la comprensione e in qualche misura la 

previsione del corso degli eventi. 

Come possiamo individuare queste regole? 

Tre strade sono percorribili, ma solo una 

è ottimale. 

La prima è quella di limitarsi a una osservazione 

esterna delle azioni e rilevazione di 

certe regolarità: tuttavia, essa non ci permette 

di avere una conoscenza completa 

delle regole del gioco. Così facendo, infatti, 

non si potrebbe distinguere le regole dalle 

semplici abitudini (si pensi ad esempio al 

caso di due giocatori di scacchi che, prima 

di muovere l’alfiere, bevano un calice di 

vino rosso). 

La seconda strada percorribile è quella 

di cercare le regole del gioco nei regolamenti 

ufficiali o nei libri di testo. Ma anche 

in questo caso, la nostra visione del fenomeno 

regolato sarebbe incompleta: è noto, 

infatti, che la prassi non è sempre la stessa 

della teoria, essendo ammissibili delle varianti. 

Non resta dunque che la terza strada, 

quella percorsa da Alf Ross e consistente 

nel ricorrere a un metodo introprospettivo: 

occorre cioè verificare quali norme sono 

effettivamente sentite come socialmente 

vincolanti dai partecipanti al gioco. Sulla 

base del metodo introspettivo, si può affernare 

che una norma degli scacchi è valida 

se in un certo gruppo (tra i giocatori) questa 

norma è effettivamente seguita perchè 

i giocatori si sentono socialmente vincolati 

dalla direttiva contenuta nella norma. Il 

fenomeno degli scacchi diventa proprio fenomeno 

degli scacchi solo quando è posto 

in relazione con le regole degli scacchi e 

viceversa. Le regole degli scacchi sono il 

contenuto ideale astratto (di natura direttiva), 

che rendono possibile, come schema di 

interpretazione, la comprensione del fenomeno 

degli scacchi (le azioni delle mosse e 

i modelli sperimentati di azione) come un 

tutto coerente di significato e di determinazione; 

e insieme ad altri fattori rendono 

possibile la previsione entro certi limiti del 

corso del gioco. Il concetto di regola degli 

scacchi deve essere scomposto in due parti: 

le idee sperimentate di certi modelli di 

comportamento (con l’emozione che le accompagna) 

e il contenuto astratto di queste 

idee, le regole degli scacchi. 

Ma, potrebbe obiettore il lettore oramai 

tediato da questi discorsi, ancora una volta: 

cosa c’entrano gli scacchi con il diritto? 

Secondo Ross, il concetto di “norma valida” 

degli scacchi può funzionare come 

modello per il concetto di “diritto valido”. 

Un largo numero di azioni umane sono 

interpretate come un insieme coerente di 

significati e di determinazione per mezzo 

delle norme giuridiche intese quali schema 

di interpretazione. “Diritto valido” indica 

l’insieme astratto di idee normative che 

servono come schema di interpretazione 

dei fenomeni giuridici in azione, il che implica 

poi che queste norme siano effettivamente 

seguite e seguite perchè esse sono 

sperimentate e sentite come socialmente 

vincolanti. 

Ancora una volta, il mio paziente lettore 

si chiederà dove porta tutta questa discussione. 

In realtà, il punto di approdo è un discorso 

sul concetto di “diritto valido”, che 

prima di Ross ha visto contrapposti filosofi 

giusnaturalisti e giuspositivisti (o quasipositivisti, 

come li chiamerebbe Ross). In 

estrema sintesi, per i giusnaturalisti diritto 

valido era il diritto giusto, ossia conforme a 

diritto naturale. Per i giuspositivisti diritto 

valido era il diritto positivo, ossia il diritto 

esistente posto nel rispetto di certe procedure 

fissate dall’ordinamento. Ross supera 

i difetti di entrambe le impostazioni. 

In particolare rispetto al giusnaturalismo 

la proposta di Ross permette di dissipare 

i dubbi sulla necessità di una spiegazione 

metafisica del concetto di “diritto valido”. 

Con riguardo alla validità degli scacchi non 

parleremmo mai di una validità a priori. 

L’idea, scrive Ross, è ridicola perchè noi 

non prendiamo gli scacchi così sul serio 

come il diritto; ma questo accade perchè 

emozioni più profonde sono connesse con 

il concetto di “diritto”. Diritto valido non è 

dunque (necessariamente) diritto giusto, 

ma non è nemmeno solamente diritto posto. 

Secondo Ross, un sistema giuridico nazionale, 

considerato come un sistema valido 

di norme, può essere definito come 

l’insieme di norme effettivamente operanti 

nella mente del giudice poichè egli le sente 

come socialmente vincolanti e perciò le 

osserva. 

Ed ecco dunque il senso del nostro paragone: 

possiamo comprendere le azioni del 

giudice come risposte sensate a determinate 

condizioni e possiamo inoltre entro 

certi limiti prevederle; così come le regole 

degli scacchi ci rendono comprensibili le 

mosse dei giocatori come risposte sensate 

e ci consentono di prevederle. 

Il comportamento del giudice è una risposta 

a certe condizioni determinate dalle 

norme giuridiche. Questi fatti condizionanti 

acquistano il loro specifico significato di 

atti giuridici solo se interpretati alla luce 

dell’ideologia delle norme. Le norme giuridiche 

funzionano come schemi di interpretazione 

di un insieme corrispondente di atti 

sociali, il diritto in azione, così che si possa 

comprendere tali azioni come un tutto coerente 

di significato e di determinazione e si 

possa inoltre entro certi limiti prevederle. 

La effettività che condiziona la validità 

delle norme può essere ricercata solo 

nell’applicazione giudiziale del diritto e non 

nel diritto in azione tra i privati. 

Non ha alcuna importanza che le persone 

si conformino oppure che sovente 

ignorino la proibizione. Questa irrilevanza 

viene in luce nell’apparente paradosso per 

cui quanto più una regola è effettivamente 

osservata nella vita giuridica extragiudiziale, 

tanto più difficile è l’accertamento della 

validità della norma, avendo le corti minori 

occasioni di manifestare le loro reazioni. 

La validità è una qualità predicabile del 

sistema considerato come un tutto. La prova 

della validità è che il sistema nel suo 

complesso ci consente di capire non solo 

il modo in cui i giudici agiscono ma anche 

che essi agiscono in veste di giudici. Il concetto 

di validità del diritto riposa su ipotesi 

concernenti la vita anteriore del giudice. 

edoaRdo Colzani 

11

Giurisprudenza Deontologica 

Interessante la decisione di seguito riportata 

assunta dal C.d.O. di Bologna che 

integralmente viene riprodotta. 

Viola i doveri di dignità e decoro 

(art.5 c.d.f.) l’avvocato che in udienza 

si rivolga al difensore di controparte 

con tono inadeguato, arrogante e prevaricatore, 

minacciando nei confronti 

dello stesso azioni giudiziarie ad iniziativa 

personale e per conto di terzi, 

ed utilizzando espressioni intimidatorie 

alla presenza di numerosi colleghi, 

ledendo alla controparte l’esercizio 

della difesa e turbando il regolare 

svolgimento delle udienze. 

Non viola il dovere di colleganza 

(art. 22, canone II, c.d.f.) l’avvocato che 

promuova nei confronti di una collega 

due separati procedimenti per ingiunzione 

nella stessa data senza darne 

informazione preventiva al Consiglio 

dell’Ordine, né viola il divieto di promuovere 

plurime azioni nei confronti 

della controparte (art. 49 c.d.f.) allorquando 

la legittimità di entrambe le 

ingiunzioni sia stata accertata con 

sentenza passata in giudicato. 

Non viola i doveri di probità e decoro 

(art. 5 c.d.f.) l’avvocato che, in una 

memoria difensiva depositata in un 

procedimento disciplinare a proprio 

carico, utilizzi espressioni critiche 

dell’operato del Consiglio dell’Ordine 

tali da indurre i singoli Consiglieri ad 

astenersi in tutti i procedimenti disciplinari 

a carico dell’incolpato, qualora 

le espressioni utilizzate siano manifestazione 

del diritto di critica, consentito 

anche in tono polemico e con 

espressioni di forte disapprovazione e 

asprezza, purché non trascendano in 

attacchi personali e non travalichino i 

limiti della continenza e della rilevanza 

funzionale alla propria tesi difensiva. 

Sanzione adeguata è la censura. 

12 

* 

DECISIONE 

Nei procedimenti disciplinari riuniti al 

n. * nei confronti dell’avv. *, incolpato dei 

seguenti 

addebiti: 

(nel procedimento n. *): 

“Essere venuto meno ai principi di decoro 

e dignità propri della classe forense, perché, 

in occasione dell’udienza 14 dicembre 

2001 avanti il Giudice dell’esecuzione del 

Tribunale di *, dott. *, nonché all’udienza 

del 19 dicembre 2001 avanti il Giudice di 

Pace di *, dott. *, si rivolgeva alla controparte, 

avv. * del Foro di * con tono adirato, 

minacciando azioni giudiziarie ad iniziativa 

personale e per conto di terze persone, e 

rivolgeva alla predetta espressioni intimidatorie 

alla presenza di numerosi colleghi, 

turbando in tal modo il regolare svolgimento 

delle udienze e ledendo l’esercizio del 

mandato defensionale alla controparte. 

In * 14 dicembre 2001 e il 19 dicembre 

2001” 

(nel procedimento n. *): 

“Essere venuto meno ai principi di dignità 

e decoro professionali (artt. 12 e 38 r.d.l. 

n. 1578 del 27 novembre 1933) nonché avere 

violato il disposto degli artt. 22, 2° comma, 

e 49 del codice deontologico forense, 

approvato con delibera del 17 aprile 1997 

del C.N.F., per avere promosso nei confronti 

del collega avv.* innanzi al Giudice di Pace 

di * due separati procedimenti per ingiunzione 

nella stessa data del 25 settembre 

2001 senza informarne preventivamente il 

Consiglio dell’Ordine ed aggravando con 

onerose e plurime iniziative giudiziali la situazione 

debitoria della controparte senza 

che ricorressero effettive ragioni di tutela. 

Contestata la recidiva. 

In * il 25 settembre 2001” 

(nel procedimento n.*): 

“per aver violato i doveri di probità e decoro 

della classe forense, perché nella sua 

qualità di incolpato nel procedimento n. 

*/2001 avanti il Consiglio dell’Ordine di * 

depositava presso la Segreteria dello stesso 

Consiglio una memoria destinata alla 

conoscenza del Presidente e di tutti i Consiglieri, 

contenente frasi lesive dell’onore 

degli stessi quali: “si prende atto che i 

sospetti … erano ben fondati. Pur a conoscenza 

(o forse proprio perché a conoscenza) 

… si dà improvvisa accelerazione ad 

un improponibile, grottesca e palesemente 

infondata procedura disciplinare verso il 

sottoscritto. Appare chiara la gravissima 

alterazione che si vuole operare all’interno 

di un autonomo e sacrosanto procedimento 

giudiziario … A meno che la tanto sbandierata 

“indipendenza” di giudizio del Consiglio 

non debba comunque manifestarsi n 

una pronuncia contraria a quella dell’Autorità 

Giudiziaria; parrebbe un tantino aberrante 

…” E poi infine, a pagina 3: “ … si dà 

contestuale comunicazione dell’intenzione 

di inoltrare nei prossimi giorni un esposto 

alla Procura della Repubblica relativamente 

all’intervenuta astensione del Consigliere 

avv. * dalla odierna procedura”; di talchè 

il Presidente e i Consiglieri del Consiglio 

dell’Ordine Forense di * si astenevano dal 

prosieguo del giudizio, presentando altresì 

denuncia-querela alla Procura della Repubblica 

presso il Tribunale di *. 

In * il 30 maggio 2003” 

Fatto e svolgimento del procedimento 

In data 2 agosto 2003 il Consiglio dell’Ordine 

degli Avvocati di * inviava una segnalazione 

nei confronti dell’avv.*, con la quale 

rappresentava che il Consiglio stesso il 

31 luglio 2003 aveva proposto querela nei 

confronti del predetto, avendo egli presentato, 

in qualità di incolpato, nell’ambito 

del procedimento disciplinare n. */2001, 

una memoria che induceva il Presidente e 

i Consiglieri ad astenersi dal prosieguo del 

giudizio, stante la natura ingiuriosa della 

stessa, e a presentare la detta denunciaquerela 

alla Procura della Repubblica presso 

il Tribunale di *. 

Con delibera in 28 luglio 2004 questo 

Consiglio disponeva l’inizio delle indagini

preliminari. 

L’avv. *, convocato dal Consigliere relatore 

a rendere dichiarazioni in merito alla 

segnalazione, riteneva di non comparire. 

Con delibera in data 30 novembre 2005 

questo Consiglio apriva il procedimento 

disciplinare nei confronti dell’avv. * con il 

capo di incolpazione in epigrafe. Con successiva 

delibera 8 marzo 2006 veniva fissata 

per lo svolgimento del procedimento 

disciplinare la seduta del 28 giugno 2006. 

Il 26 maggio 2006 l’avv.* presentava 

una memoria in cui evidenziava la natura 

esclusivamente difensiva delle dichiarazioni 

scritte del 30 maggio 2003 che avevano 

dato luogo alla denuncia-querela del Consiglio 

dell’Ordine di * nei suoi confronti e 

chiariva di non avere mai avuto intenzione 

di attentare all’onore e al prestigio del Consiglio 

dell’Ordine. Produceva, tra i vari atti 

e documenti, la richiesta di archiviazione 

del procedimento penale a suo carico da 

parte del Sostituto Procuratore della Repubblica 

di *, il verbale di remissione della 

querela da parte del Consiglio dell’Ordine 

di * nella persona del Presidente avv. * con 

la sua contestuale accettazione. 

All’udienza del 28 giugno 2006 il procedimento 

veniva rinviato al 27 settembre 2006 

e successivamente al 6 dicembre 2006. 

Nel frattempo il Consiglio dell’Ordine di 

*, per astensione di tutti i Consiglieri, trasmetteva 

altri due procedimenti disciplinari 

nei confronti dell’avv. *, aperti a seguito 

di esposti presentati dall’avv. * ( il 28 settembre 

2003 e il 21 luglio 2003) con i capi 

di incolpazione riportati in epigrafe. 

Il 28 novebre2006 l’avv.* faceva pervenire 

due memorie difensive con le quali 

respingeva gli addebiti e, quanto ai procedimenti 

n. * e *, formulava istanza di ammissione 

testimoni. 

Con provvedimento in data 29 novembre 

2006 il Presidente del Consiglio ammetteva 

le prove testimoniali richieste dall’incolpato, 

ma l’Ufficio non poteva darne comunicazione 

all’avv.* essendo risultati inattivi i 

numeri di telefono di studio e di abitazione 

dello stesso. Neppure la Segreteria del 

Consiglio dell’Ordine di * riusciva a contattare 

l’avv. *. 

All’udienza del 6 dicembre 2006 i due 

procedimenti venivano riuniti per connes- 

sione soggettiva. Veniva ascoltato l’esponente 

avv.*, che confermava integralmente 

il contenuto degli esposti e rappresentava 

che le due cause di opposizione a decreto 

ingiuntivo, aventi ad oggetto crediti per 

spese di locazione e condominiali, si erano 

concluse con esito per lui negativo, e non 

aveva proposto appello. 

Veniva ascoltata anche l’avv. *, che confermava 

la dichiarazione scritta in data 

15 ottobre 2002 ai Carabinieri di *. Confermava 

in particolare che in occasione 

dell’udienza del 14 dicembre 2001 avanti il 

Giudice di Pace di *, ove la stessa rappresentava 

l’avv. *, l’avv. *, nell’aula gremita 

di colleghi, aveva ad alta voce minacciato 

azioni dirette ed indirette, nonché denunce 

nei confronti dell’avv.*, tenendo un atteggiamento 

talmente aggressivo da impedirle 

di svolgere serenamente il proprio 

mandato. La stessa condotta veniva tenuta 

dall’avv. * nel corso dell’udienza del 19 dicembre 

2001 alla presenza del solo Giudice 

di Pace e della teste. L’avv.* rappresentava 

che l’avv.* aveva depositato nella stessa 

data due ricorsi per ingiunzione, rispettivamente 

per la quota dei canoni di locazione 

e delle spese condominiali da aprile a 

giugno 2001 dello Studio Legale Associato 

* - *. 

Nessuno dei testi indicati dall’incolpato 

compariva. Il collegio, ritenuta superflua 

l’audizione di ulteriori testimoni, revocava 

l’ordinanza di ammissione dei testi indicati 

dall’incolpato e dichiarava chiusa l’istruttoria. 

Motivi della decisione 

Ritiene il Consiglio che all’esito 

dell’istruttoria dibattimentale debba ritenersi 

sufficientemente provata la responsabilità 

dell’avv.* per gli addebiti di cui al 

capo di incolpazione relativamente al procedimento 

n.*. 

L’avv.* ha, infatti, confermato all’udienza 

odierna con dichiarazioni chiare, precise e 

circostanziate, quanto già affermato il 15 

ottobre 2002 circa il comportamento arrogante 

e prevaricatore dell’avv. * nel corso 

delle udienze del 14 dicembre 2001 e del 

19 dicembre 2001 avanti il Giudice di Pace 

di *. 

Orbene, si osserva che l’avvocato, per 

veste professionale, bene dovrebbe cono- 

scere in cosa consiste un dovere, e la responsabilità 

che a ogni dovere è connessa. 

Tra i doveri che il codice deontologico indica 

vi sono appunto quelli di dignità e decoro, 

intesi: la dignità come lo stato o la condizione 

di rendersi meritevole del massimo 

rispetto; il decoro come la coscienza della 

propria dignità, che si riflette nell’aspetto 

e negli atteggiamenti tenuti nella vita professionale 

e sociale. Comportamenti che 

devono essere consoni ed adeguati alle 

funzioni di assistenza e difesa del cittadino, 

avendo a stelle polari l’etica individuale 

e sociale, oltre che il rispetto delle norme. 

Sostanzialmente doveri che costituiscono il 

substrato di ogni ordinamento giuridico, e 

per la deontologia, il punto di connessione 

tra etica e diritto. 

Non vi è dubbio che la condotta dell’incolpato, 

in occasione delle udienze del 

14 dicembre 2001 e il 19 dicembre 2001 

avanti il Giudice di Pace di *, non sia stata 

consona al proprio stato professionale, né 

adeguata al corretto svolgimento della funzione 

difensiva. 

A nulla rileva l’eventualità che possa 

essere stata la reazione a un’eventuale 

sedimentata situazione di astio per fatti 

pregressi della controparte ( assente in 

entrambe le occasioni), perché ciò non può 

costituire un’esimente sul piano disciplinare 

né rappresentare giustificazione a una 

reazione che ha travalicato il limite della 

correttezza. 

Ritiene, invece, il Collegio che non siano 

da ravvisate elementi ascrivibili alle previsioni 

degli artt. 22, n. 2 e 49 c.d.f. nell’avere 

l’avv. * richiesto due decreti ingiuntivi 

nei confronti dell’avv.* quale coobbligato 

alla corresponsione del canone di locazione 

e delle spese condominiali dello Studio 

Associato *-*. 

Ciò anche alla luce delle modifiche intervenute 

all’art. 22 c.d.f. con delibera del 

27 gennaio 2006 del C.N.F. L’avv. *, infatti, 

con le suddette procedure monitorie, ha 

legittimamente tutelato le proprie fondate 

ragioni, come peraltro accertato anche con 

sentenza definitiva in atti del Giudice di 

Pace di *. Ciò nell’oggettiva impossibilità 

di addivenire a una possibile conciliazione 

con il collega. 

Da ultimo, ritiene il Collegio che non 

13

emergano elementi di rilevanza disciplinare 

nelle condotte contestate all’avv. * 

con riferimento alla memoria depositata 

al Consiglio dell’Ordine di *. Tale atto, infatti, 

come più volte chiarito dall’incolpato 

(memorie del 29 maggio 2003 e 28 settembre 

2006) deve essere interpretato quale 

esclusiva difesa rispetto agli addebiti a lui 

contestati, e non espressione dei una volontà 

offensiva nei confronti del Consiglio 

dell’Ordine: “non vi è mai stata alcuna intenzione 

di attentare all’onore e al prestigio 

dell’Istituzione del Consiglio dell’Ordine 

aldilà delle espressioni e dei toni accesi 

usati”. 

Condividendo un consolidato orientamento 

giurisprudenziale, si deve così affermare 

che nella fattispecie l’avv. * ha 

esercitato il diritto di criticare e comunque 

di manifestare liberamente il proprio pensiero, 

consentito anche in tono polemico 

e con espressioni di forte disapprovazione 

ed asprezza, purchè non trascenda in attacchi 

personali e non travalichi i limiti della 

continenza e alla rilevanza funzionale della 

propria tesi difensiva. 

Vi è poi d’aggiungere che, a seguito dei 

chiarimenti resi dall’avv. *, è stato raggiunto 

un accordo bonario con il Consiglio 

dell’Ordine di *, che ha rimesso la querela 

a suo tempo sporta nei confronti dello 

stesso. 

Alla luce di tutte le circostanze oggettive 

e soggettive della vicenda, come emerse 

dall’istruttoria relativa ai tre procedimenti 

riuniti, appare congrua, per l’unico addebito 

di cui l’avv. * è ritenuto responsabile, la 

sanzione della censura. 

P.Q.M. 

Il Consiglio, visto l’art. 40 del r.d.l. n. 

1578 del 27 novembre 1933, e successive 

modificazioni, dichiara l’avv. * responsabile 

degli addebiti di cui ai capi di incolpazione, 

relativamente al procedimento n.*, e applica 

la sanzione disciplinare della censura; 

assolve l’avv. * dagli addebiti di cui ai capi 

di incolpazione relativi ai procedimenti n.* 

e n.*, per insussistenza di elementi di rilevanza 

disciplinare. 

Così deciso in Bologna, 6 dicembre 2006 

– 29 aprile 2010. 

14 

Giurisprudenza del Consiglio 

Nazionale Forense 

Norme deontologiche 

Ancorché il diritto di critica nei confronti 

di qualsiasi provvedimento giudiziario costituisca 

facoltà inalienabile del difensore, 

tale diritto deve essere sempre esercitato, 

in primo luogo, nelle modalità e con gli 

strumenti previsti dall’ordinamento processuale 

e mai può travalicare i limiti del 

rispetto della funzione giudicante, riconosciuta 

dall’ordinamento con norme di rango 

costituzionale nell’interesse pubblico, 

con pari dignità rispetto alla funzione della 

difesa. Proprio la giusta pretesa di vedere 

riconosciuta a tutti i livelli una pari dignità 

dell’avvocato rispetto al magistrato impone, 

nei reciproci rapporti un approccio 

improntato sempre allo stile e al decoro, 

oltre che, ove possibile, all’eleganza, mai 

al linguaggio offensivo o anche al mero dileggio. 

Le espressioni utilizzate dal professionista 

esorbitano dal diritto di critica, con 

conseguente inconfigurabilità della relativa 

scriminante, allorquando, come nella 

specie, l’avvocato non si limiti ad indicare, 

nell’ambito dell’intervista rilasciata agli organi 

di stampa, le ragioni per cui ritenga 

erronea la decisione del giudice, ma ponga 

in dubbio la stessa capacità del magistrato 

di giudicare in modo sereno e corretto, 

accusando l’organo giudiziario di versare in 

uno stato soggettivo patologico e caratteriale 

(schizofrenia, arroganza e presunzione) 

tale da comprometterne la capacità di 

giudizio e di essere condizionato da finalità 

estranee al processo (giustizialismo). 

* 

Nel nostro ordinamento, mentre per un 

verso non è ammessa la rinuncia tacita 

all’incarico da parte del difensore nominato, 

non può desumersi, da un’unica 

assenza del difensore di fiducia, la configurabilità 

dell’abbandono della difesa. La 

valutazione della condotta processuale 

tenuta dal difensore, dettata dalle più svariate 

ragioni, pur sempre espressione del 

libero autonomo ed inviolabile esercizio 

del diritto di difesa, in assenza di precise 

disposizioni di legge non compete all’autorità 

giudiziaria in generale e men che meno 

al giudice del dibattimento, il cui compito 

in materia è solo quello di garantire all’im- 

putato un’adeguata assistenza, mediante 

l’applicazione dell’istituto della nomina 

del difensore d’ufficio. Ne consegue che la 

mancata presentazione all’udienza da parte 

del difensore non costituisce di per sé 

violazione del mandato idonea ad integrare 

la violazione di doveri deontologici. 

Non viola i doveri di diligenza, di fedeltà 

e correttezza il professionista che ometta 

di comunicare la sua assenza all’udienza 

senza giustificarla, non potendosi in tale 

comportamento individuare trascuratezza 

degli interessi della parte assistita che, per 

assurdo, potrebbe giovarsi di un tale comportamento. 

* 

Pone in essere un comportamento deontologicamente 

rilevante il professionista 

che ometta di informare il cliente sullo stato 

della causa e, di conseguenza, sull’esito 

della stessa, così venendo meno ai doveri 

di dignità, correttezza e decoro della professione 

forense in violazione degli artt. 

38, 40, e 42 c.d. 

L’omessa restituzione alla cliente della 

documentazione ricevuta dal professionista 

per l’espletamento del mandato va 

deontologicamente sanzionato, atteso che 

ai sensi degli artt. 2235 c.c., 42 c.d. e 66 

r.d.l. n. 1578/33, che espressamente contemplano 

l’obbligo di restituzione, l’avvocato 

non ha diritto alcuno di ritenere gli atti 

e i documenti di causa nel caso in cui la 

parte assistita ne faccia richiesta, né può 

subordinare la restituzione del fascicolo o 

dei documenti al pagamento delle spese e 

dell’onorario. 

* 

Deve ritenersi senz’altro connotata da 

disvalore disciplinare la condotta dell’avvocato 

che, dopo aver ricevuto dai clienti 

il mandato di agire in giudizio per ottenere 

sentenza avente luogo del non concluso 

contratto preliminare di compravendita, 

non solo ometta di compiere l’attività professionale 

richiesta, ma fornisca altresì 

ai clienti false informazioni sia in ordine 

all’avvenuta notifica e trascrizione dell’atto 

di citazione sia in relazione all’andamento 

della causa, mai avviata, malgrado la 

corresponsione in suo favore del relativo 

fondo spese.

Avvocato, restituisca i documenti! 

È punito con la sanzione disciplinare 

della censura l’avvocato 

che omette di restituire al cliente 

tutta la documentazione di cui 

è venuto in possesso nel corso 

dello svolgimento del proprio 

mandato, anche qualora il cliente 

non paghi le sue spese legali. 

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della 

Corte di Cassazione con la sentenza 

n. 24080 del 17 novembre 2011 che hanno 

rigettato il ricorso presentato avverso la 

decisione del Consiglio Nazionale Forense 

confermando quindi la sanzione disciplinare 

della censura inflitta dal Consiglio 

dell’Ordine. 

In particolare la controversia era sorta in 

relazione al provvedimento del Consiglio 

dell’Ordine che puniva l’avvocato con la 

sanzione disciplinare della censura poiché 

non aveva consegnato né al nuovo difensore 

né al cliente, nonostante le ripetute 

richieste, le copie autentiche con formula 

esecutiva di una sentenza che lo stesso 

professionista aveva richiesto allorquando 

il mandato era già stato revocato. 

L’avvocato aveva impugnato tale provvedimento 

avanti al Consiglio Nazionale Forense, 

il quale, con la decisione n. 171, del 

27.10.2010 aveva rigettato l’impugnazione. 

Avverso tale decisione il professionista 

proponeva ricorso alla Corte di Cassazione, 

fondato su quattro motivi. 

In particolare, con il primo motivo l’avvocato 

lamentava la violazione di legge 

e l’incongruenza della motivazione della 

decisione impugnata poiché il Consiglio 

Nazionale non avrebbe ravvisato la contraddittorietà 

della pronuncia del Consiglio 

dell’Ordine che nel dispositivo aveva indicato 

la condanna dell’avvocato ai capi 1 e 

2 mentre nella motivazione l’aveva ritenuto 

responsabile solo per quelli di cui al capo 

2. 

La Corte ha rigettato tale motivo poiché 

la decisione del Consiglio Nazionale 

Forense di considerare l’inesatto richiamo 

nei capi d’incolpazione della decisione del 

Consiglio dell’Ordine come un mero errore 

materiale e che quindi non aveva comportato 

dubbi sul contenuto e sulla condanna 

dell’incolpato, si trattava di valutazione di 

merito non inficiata da vizi logici o giuridici 

né adeguatamente contestata dal ricorrente 

che non aveva riprodotto il testo del 

provvedimento del Consiglio dell’Ordine. 

Con il secondo motivo l’avvocato evidenziava 

come l’ex cliente non gli aveva 

corrisposto alcun compenso e pertanto non 

poteva aver subito alcun danno dalla mancata 

messa in esecuzione della sentenza 

che condannava controparte solo al rimborso 

delle spese legali che l’ex assistito 

non aveva mai pagato. 

Le Sezioni Unite hanno rigettato anche 

tale motivo precisando che l’avvocato 

non può negare o condizionare i diritti del 

cliente o l’adempimento delle prestazioni 

professionali al pagamento delle proprie 

spese legali. 

Anche il terzo motivo, con cui il professionista 

lamentava la violazione di legge e 

l’incongruenza della motivazione precisando 

che la richiesta copie era l’attuazione 

di una precisa volontà del cliente e che in 

ogni caso tali copie erano state puntualmente 

messe a disposizione dell’ex assistito 

senza frapporre alcun ostacolo al loro 

ritiro, è stato rigettato poiché il giudizio del 

Consiglio Nazionale Forense era immune 

da vizi logici o giuridici, avendo individuato 

la responsabilità disciplinare dell’avvocato 

alla luce delle risultanze istruttorie e 

ritenendo dimostrato che il professionista 

aveva adottato comportamenti finalizzati 

ad ostacolare il suo ex cliente. 

Infine, anche il quarto motivo, con cui 

il ricorrente lamentava il fatto che il Consiglio 

Nazionale Forense, pur avendo dedotto 

l’inammissibilità della motivazione 

del Consiglio dell’Ordine, si era limitato a 

confermare la sanzione della censura sulla 

base di argomentazioni diverse da quelle 

del Consiglio dell’Ordine, è stato rigettato, 

poiché, precisa la Corte, il Consiglio Nazionale 

Forense essendo giudice di merito, ha 

la facoltà di confermare la sanzione della 

censura fornendo motivazioni diverse da 

quelle del Consiglio dell’Ordine. 

Alla luce di quanto sopra esposto il ricorso 

è stato rigettato e confermata la sanzione 

disciplinare della censura. 

Di seguito riportiamo la sentenza integrale 

Repubblica Italiana 

In nome del popolo italiano 

La Corte Suprema di Cassazione 

Sezioni Unite Civili 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 

Dott. VITTORIA Paolo - Primo Presidente f.f. 

Dott. DE LUCA Michele - Presidente di Sez. 

Dott. GOLDONI Umberto - Consigliere 

Dott. DI PALMA Salvatore - Consigliere 

Dott. TOFFOLI Saverio - Consigliere 

Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere 

Dott. NOBILE Vittorio - Consigliere 

Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere 

Dott. TIRELLI Francesco - rel. Consigliere 

ha pronunciato la seguente: 

SENTENZA 

sul ricorso proposto da: 

P.D., elettivamente domiciliato in Roma, 

, nello studio dell’avv.*, che lo rappresenta 

e difende per procura in atti unitamente 

all’avv. *; 

- ricorrente - 

nei confronti di: 

Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di * 

e Procuratore Generale presso la Corte di 

Cassazione; 

- intimati - 

per la cassazione della decisione n. 171, 

depositata il 27/10/2010 dal Consiglio Nazionale 

Forense; 

Udita la relazione della causa svolta 

15

nella pubblica udienza dell’8/11/2011 

dal Relatore Cons. Francesco Tirelli; 

Sentito l’avv. *; 

Udita la requisitoria del Pubblico Ministero, 

in persona del Sostituto Procuratore 

Generale Dott. *, il quale ha concluso per il 

rigetto del ricorso. 

La Corte, osserva quanto segue: 

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Svolgimento del processo 

Con atto spedito in data 23/3/2011, l’avv. 

P.D. ha proposto ricorso contro la decisione 

in epigrafe indicata, inviatagli a mezzo 

posta il 21/2/2011 e ritirata il successivo 

24/2/2011. 

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di 

* non ha svolto attività difensiva e la controversia 

è stata decisa all’esito della pubblica 

udienza dell’8/11/2011. 


Dalla lettura della sentenza impugnata 

emerge in fatto che dopo avergli revocato 

ogni mandato, il sig. M.L. ha presentato un 

esposto nei confronti dell’avv. P.D., a carico 

del quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati 

di * ha poi aperto procedimento disciplinare 

per i seguenti capi d’incolpazione: 

1) per avere violato gli artt. 33, 42 e 43 

CDF perché, dopo la revoca della sua nomina 

a difensore avvenuta con racc. r.r. del 25 

luglio 2006, ricevuta il 3 agosto 2006, non 

si adoperava affinché la successione nei 

mandati avvenisse senza danni per l’assistito 

sig. M.L. ed anzi, agiva in senso inverso 

non consegnando la documentazione né 

la contabilità delle spese sostenute ed in 

particolare: a) richiedendo in data 3 novembre 

2006 (e cioè a revoca già avvenuta), 

due copie autentiche con formula esecutiva 

della sentenza n. 789/2006 dei Giudice 

di Pace di *, pronunciata nella causa M. L./ 

Comune di * ed * spa e non consegnandole 

né al cliente né al nuovo difensore precludendo 

e/o comunque rendendo più difficoltosa 

ed onerosa la prosecuzione della difesa 

ed in particolare l’esecuzione del titolo 

in esame; b) non fornendo al cliente e al 

nuovo difensore copia delle fatture relative 

agli assegni fatti sulla Banca Popolare di 

Bergamo per l’importo rispettivamente di 

Euro 250,00, 1.000,00 e 1.400,00, precludendo 

in tal modo e comunque rendendo 

più difficoltosa ed onerosa l’eventuale attività 

di recupero di detti importi e comunque 

non fornendo al cliente informazioni che è 

obbligato a fornire ex art. 42 CDF, comma 2; 

c) non fornendo al cliente e al nuovo difensore 

copia della documentazione inerente 

un sinistro trattato nell’interesse del sig. 

M.L. con la Fondiaria Ass.ni (e in particolare 

copia della quietanza che ha definito 

il sinistro), violando in tal modo il disposto 

di cui all’art. 42 CDF ed impedendo e/o comunque 

rendendo più difficoltosa l’attività 

di verifica inerente la posizione. 

2) Per aver violato gli artt. 5, 6, 7 e 8 CDF 

in quanto, in violazione dei doveri di probità, 

lealtà, correttezza, fedeltà e diligenza 

non consegnava al sig. M.L., suo assistito 

che in più sedi e forme gliene faceva esplicita 

richiesta a far tempo dal 25 luglio - 3 

agosto 2006, i documenti di cui al capo 1)... 

E ciò nonostante esplicito impegno in tal 

senso assunto avanti alla Commissione Disciplinare 

dell’Ordine di * in data 26 marzo 

2007”. 

Citato a giudizio per l’udienza del 6 aprile 

2009, l’avv. P. ha depositato memoria 

ed al termine del dibattimento il Consiglio 

dell’Ordine lo ha assolto da una parte degli 

addebiti, infliggendogli la sanzione della 

censura per la mancata consegna delle 

copie della sentenza del Giudice di pace. 

L’avv. P. si è gravato al Consiglio Nazionale 

Forense che, però, ha rigettato l’appello 

con decisione contro cui l’incolpato ha 

proposto ricorso per cassazione articolato 

in quattro motivi, con il primo dei quali ha 

dedotto violazione di legge ed incongruità 

della motivazione, in quanto il giudice a 

quo avrebbe dovuto riconoscere la insanabile 

contraddittorietà della pronuncia del 

Consiglio dell’Ordine, che nel dispositivo 

aveva riferito la condanna ai capi le e 2, 

mentre nella motivazione l’aveva assolto 

da tali addebiti, ritenendolo responsabile 

di quelli di cui ai punti la e 2. 

Con il secondo motivo, l’avv. P. ha sostenuto 

che il sig. M. non gli aveva corrisposto 

alcun compenso, per cui non poteva aver risentito 

nessun danno dalla mancata messa 

in esecuzione della sentenza del Giudice di 

pace, il quale si era limitato a condannare 

il Comune di * solo al rimborso di quelle 

spese legali che il M. non aveva, in realtà, 

mai pagato. 

Con il terzo motivo, l’avv. P. ha nuovamen- 

te dedotto la violazione di legge e l’incongruenza 

della motivazione, sottolineando 

da un lato che la richiesta delle copie non 

aveva rappresentato un atto processuale o, 

in ogni caso, un’iniziativa arbitraria, bensì 

la semplice attuazione di una precisa 

volontà del M. e, dall’altro, che dal canto 

suo non era tenuto ad andare a consegnarle, 

ma soltanto a metterle a disposizione 

come, del resto, aveva puntualmente fatto 

senza frapporre alcun ostacolo al loro ritiro 

da parte dell’ex cliente che, anzi, aveva dovuto 

ad un certo punto citare addirittura in 

giudizio per costringerlo a prendere quanto, 

solo apparentemente, invocava. 

Con il quarto motivo, l’avv. P. ha infine 

lamentato che pur avendo egli dedotto la 

inammissibilità della motivazione dal Consiglio 

dell’Ordine, che aveva giustificato 

l’applicazione della censura con l’esistenza 

di altri procedimenti disciplinari non ancora 

conclusi, il Consiglio Nazionale non aveva 

minimamente risposto, ma si era limitato a 

confermare la sanzione sulla base di argomentazioni 

diverse da quelle utilizzate dal 

Consiglio locale. 

Così riassunte le difese del ricorrente, 

osserva il Collegio che secondo il Consiglio 

Nazionale Forense, l’inesatto richiamo dei 

capi d’incolpazione operato dal dispositivo 

della decisione del Consiglio dell’Ordine 

era stato il frutto di un mero errore materiale 

che aveva determinato una semplice 

discrepanza chiaramente percepibile e, 

perciò, incapace d’ingenerare ragionevoli 

dubbi sul contenuto e le ragioni della 

condanna dell’incolpato che, infatti, aveva 

impugnato in modo ampio ed articolato, 

mostrando così di non aver risentito alcun 

pregiudizio del suo diritto di difesa. Trattandosi 

di valutazione di merito non inficiata 

da vizi logici o giuridici né adeguatamente 

contestata dall’incolpato, che in violazione 

del principio di autosufficienza del ricorso 

non ha nemmeno riprodotto il testo del 

provvedimento del Consiglio dell’Ordine, il 

primo motivo del ricorso dev’essere di conseguenza 

rigettato. 

Parimenti da rigettare è anche il secondo 

motivo, a proposito del quale è sufficiente 

sottolineare che l’inadempimento del M. 

agli obblighi su di lui gravanti nei rapporti 

interni con il proprio difensore, non poteva 

comportare il venir meno del suo interesse 

a disporre del titolo esecutivo per ottene-

e, nei rapporti esterni con il Comune, il 

pagamento delle somme da quest’ultimo 

dovute. 

Quanto al terzo motivo, giova innanzitutto 

precisare che il Consiglio Nazionale 

non si è interrogato sulla natura, processuale 

o meno, della richiesta delle copie né 

ha sostenuto che l’avv. P. avrebbe dovuto 

spingersi a consegnarle anziché limitarsi a 

metterle a disposizione, ma si è attenuto 

alle risultanze istruttorie, ritenendo ampiamente 

dimostrato dalle raccomandate 

in atti, nonché dalle dichiarazioni del M. e 

del suo nuovo difensore, che ad un certo 

punto della vicenda l’incolpato aveva cominciato 

a porre in essere una condotta 

finalizzata ad ostacolare il suo ex cliente. 

In un quadro del genere, ha osservato il 

Consiglio Nazionale, risultava irrilevante 

accertare se la richiesta delle copie fosse 

stata o meno fatta su sollecitazione del M., 

perché anche a prescindere dal fatto che la 

presentazione dell’istanza era avvenuta tre 

mesi dopo la revoca del mandato e, cioè, 

quando l’ex dente aveva già più volte do- 

mandato la restituzione della documentazione, 

quello che in realtà contava era che 

l’avv. P. non poteva non sapere che la loro 

mancata acquisizione avrebbe impedito al 

M. di procedere in forma esecutiva. 

Malgrado tale consapevolezza, l’avv. P. 

si era però “univocamente mosso nella direzione 

di evitare la consegna delle copie 

della sentenza, ed” era “questo l’atteggiamento 

sostanziale che” andava iscritto a 

suo carico, “nessun rilievo potendosi dare 

a declaratorie di disponibilità” cui, al di là 

delle forme, erano “puntualmente seguiti 

atteggiamenti di segno” esattamente contrario. 

In considerazione di quanto sopra, il Consiglio 

Nazionale ha quindi concluso per la 

sussistenza della responsabilità disciplinare 

dell’avv. P., esprimendo in tal modo 

un giudizio che non può essere sindacato 

in questa sede perché basato su di una ricostruzione 

dell’accaduto immune da errori 

logici o giuridici. 

Pure il terzo motivo del ricorso dev’essere, 

pertanto, rigettato al pari, d’altronde, 

del quarto, in relazione al quale sembra 

sufficiente rilevare che a fronte di una motivazione 

incongrua del Consiglio dell’Ordine, 

il CNF non era certo vincolato a darne 

atto e ad annullare di conseguenza la 

sanzione della censura, in quanto essendo 

anche lui giudice del merito (C. Cass. n. 

8429 del 2004 e 15972 del 2009), ben poteva 

legittimamente confermarla sulla base 

di considerazioni diverse che, nel caso di 

specie, sono state ragionevolmente indicate 

nella “rilevanza del comportamento illecito” 

e nel mancato compimento di “alcun 

atto emendativo” da parte dell’incolpato. 

Nulla per le spese, stante il mancato 

svolgimento di attività difensiva da parte 

del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di 

* e la natura di parte in senso solo formale 

del Procuratore Generale presso la Corte di 

Cassazione. 

P.Q.M. 

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. 

Sanzionato l’avvocato che mente al legale di 

controparte 

Di seguito riportiamo la sentenza integrale 

Repubblica Italiana 

In nome del popolo italiano 

La Corte Suprema di Cassazione 

Sezioni Unite Civili 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 

Dott. ROVELLI Luigi Antonio - Primo Presidente 

f.f. 

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Presidente 

Sezione 

Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere 

Dott. MASSERA Maurizio - Consigliere 

Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere 

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno - Consigliere 

Dott. CAPPABIANCA Aurelio - Consigliere 

Dott. D’ALESSANDRO Paolo - Consigliere 

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - rel. 

Consigliere 

ha pronunciato la seguente: 

sentenza 

sul ricorso 16203-2011 proposto da: 

G.M., elettivamente domiciliata in 

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA 

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e 

difesa da sè medesima; 

- ricorrente - 

contro 

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, CON- 

SIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI 

DI ; 

- intimati - 

avverso la decisione n. 64/2011 del CON- 

SIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata 

il 21/04/2011; 

udita la relazione della causa svolta nella 

pubblica udienza del 15/11/2011 dal Consigliere 

Dott. MARIA ROSARIA SAN GIOR- 

GIO; 

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale 

Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha 

concluso per il rigetto del ricorso. 

Svolgimento del processo 

1. - Con decisione depositata il 1 aprile 

2009, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati 

di irrogò la sanzione 

della censura all’avv. G.M. per essere 

venuta meno al dovere di correttezza, 

lealtà e colleganza, inducendo nell’avvocato 

D.N.M., rappresentante della controparte 

in una controversia successoria, 

l’erroneo convincimento che i tre libretti 

al portatore recanti somme che rappre- 

17

sentavano il credito litigioso ed erano 

vincolati all’esito della causa o della 

transazione fossero nella sua disponibilità, 

senza mai smentire la circostanza e 

giustificando di volta in volta la mancata 

restituzione con i più svariati argomenti, 

ed in tal modo impedendo all’avv. D.N. 

di attivarsi per il recupero della somma. 

L’avv. G. impugnò la decisione sulla base 

di tre motivi. 

2. - Il Consiglio Nazionale Forense, con 

decisione depositata il 21 aprile 2011, 

ha rigettato il gravame, osservando che 

dalla documentazione acquisita, e, in 

particolare, dalle cinque missive inviate 

dall’avv. G. al collega D.N., emergeva la 

esattezza della valutazione del C.O.A.: 

da esse, infatti, risultavano le diverse 

giustificazioni via via addotte per la 

mancata restituzione dei libretti, in nessun 

caso attinenti alla vera ragione, e 

cioè la mancata disponibilità degli stessi, 

mentre per la prima volta solo nella 

memoria difensiva presentata al CO.A., 

che le aveva contestato la mancata messa 

a disposizione del collega dei libretti, 

cinque mesi dopo l’inizio della citata 

corrispondenza, era stata affermata tale 

circostanza. Il comportamento dell’avv. 

G., determinato dalla volontà di indurre 

il collega in errore al fine di guadagnare 

tempo per studiare la propria strategia 

processuale e ritardare la realizzazione 

de diritto della controparte, non era 

giustificabile alla luce dello scopo della 

difesa degli interessi del cliente. 

3. - Per la cassazione di tale decisione ricorre 

l’avv. G. sulla base di quattro motivi. 


1. - Con il primo motivo di ricorso si lamenta 

la violazione dell’art. 56, in relazione 

al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, 

art. 38, nonchè dell’art. 22 del codice 

deontologico forense, del principio di 

ragionevolezza nell’ipotesi di illecito 

disciplinare ascritto all’incolpato, violazione 

degli artt. 622, 380 e 381 c.p., art. 

88 c.p.c., e artt. 7, 8, 9, 12, 36 e 40 del 

citato codice deontologico, e sviamento 

di potere R.D.L. n. 1578 del 1933, ex art. 

56 e art. 3 Cost.. Sarebbe affetta da irragionevolezza 

la sussunzione dello specifico 

comportamento contestato alla 

ricorrente nel precetto generale di cui al 

18 

R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, che fa 

divieto di commettere fatti non conformi 

al decoro e alla dignità professionale. Si 

osserva al riguardo che rientra tra i doveri 

del difensore quello di non compiere 

atti che possono recare danno al proprio 

assistito: il diritto di difesa prevale sul 

rapporto di colleganza. Nè è rinvenibile 

nella disciplina del processo civile un 

obbligo per la parte e per il suo difensore 

di essere completo nelle allegazioni nè 

di avvantaggiare la controparte, salva la 

ricorrenza del dolo revocatorio: e ciò che 

è processualmente lecito non può essere 

deontologicamente scorretto. 

2.1. - La censura non merita accoglimento. 

2.2. - Posto che le previsioni del codice 

deontologico forense hanno la natura di 

fonte meramente integrativa dei precetti 

normativi e possono ispirarsi legittimamente 

a concetti diffusi e generalmente 

compresi dalla collettività, il Consiglio 

Nazionale Forense non è vincolato alla 

definizione dell’illecito quale scaturisce 

dal testo delle disposizioni del codice 

deontologico forense, essendo libero di 

individuare l’esatta configurazione della 

violazione tanto in clausole generali 

richiamanti il dovere di astensione da 

contegni lesivi del decoro e della dignità 

professionale, quanto in diverse 

norme deontologiche, o anche di ravvisare 

un fatto disciplinarmente rilevante 

in condotte atipiche non previste da 

dette norme (v., sul punto, Cass., S.U., 

sentt. 13/6/2011, n. 12903; 7/7/2009, n. 

15852). 

2.3. - Nella specie, il C.N.F. ha motivatamente 

ritenuto che, nella specie, l’avv. 

G. abbia manifestato la volontà di indurre 

il collega in errore con l’omissione voluta 

di una circostanza decisiva, quale la 

detenzione dei libretti in capo ad altri, e 

che ciò abbia costituisca comportamento 

strumentale per ritardare la realizzazione 

del diritto altrui facendo divenire 

il collega di controparte strumento inconsapevole 

della realizzazione del suo 

disegno dilatorio, ed ha ritenuto che tale 

comportamento, per la sua ambiguità, 

costituisca violazione di quei doveri di 

correttezza, lealtà e colleganza che sono 

ricompresi nel più ampio precetto di cui 

al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 38, comma 

1, e specificamente disciplinati dagli 

artt. 6 e 22 del codice deontologico. 

3. - Con il secondo motivo si deduce la 

omessa e insufficiente motivazione su 

fatto controverso decisivo. La decisione 

del C.N.F. prescinde totalmente da fatti 

decisivi prospettati dall’attuale ricorrente, 

e, in particolare, dal fatto che la 

sentenza in relazione alla quale l’avv. 

D.N. pretendeva i libretti per l’incasso 

atteneva a domanda preliminare di riduzione 

per lesione di legittima e alla 

domanda di divisione di asse ereditario 

costituito da somma di danaro depositata 

in banca e rappresentata da tre libretti 

cointestati ai due eredi e vincolati 

all’esito del giudizio o transazione. Detta 

decisione era una sentenza parziale relativa 

alla prima fase dell’accertamento 

preliminare del contenuto del diritto del 

legittimario leso, cliente della ricorrente, 

e fino al momento della formazione 

del giudicato su di essa non si sarebbe 

potuto procedere alla fase della formazione 

delle quote nè a quella successiva 

dell’attribuzione delle stesse. Tali 

temi, che non sorreggevano, secondo 

la ricorrente, l’asserita doverosità di comunicare 

il luogo di conservazione dei 

libretti per consentire alla controparte 

di procedere esecutivamente, erano stati 

inutilmente rappresentati al CO.A. e, 

successivamente, al C.N.F., che, però, 

non li ha considerati. Mancherebbero, 

comunque, nella decisione impugnata i 

requisiti strutturali dell’argomentazione. 

4.1. - Anche tale censura è infondata. 

4.2. - Risulta, invero, inconferente il richiamo 

alla natura del giudizio divisorio ed 

alla fase in cui si colloca in esso la sentenza 

in relazione alla quale l’avv. D.N. 

chiedeva i libretti per l’incasso, atteso 

che la contestazione mossa alla attuale 

ricorrente era quella di un comportamento 

integrante un non lineare percorso 

difensivo, essendo le giustificazioni addotte 

a motivazione della indisponibilità 

ad un incontro finalizzate alla realizzazione 

del complessivo disegno volto a far 

permanere una situazione di ambiguità 

che inducesse il legale di controparte a 

confidare nella possibilità di raggiungere 

una definizione stragiudiziale della controversia. 

5. - Con la terza doglianza si deduce error 

in procedendo, violazione dell’art. 112 

c.p.c., violazione della corrispondenza 

tra chiesto e pronunciato, nullità della 

sentenza. La decisione impugnata omette 

- si osserva nel ricorso - di pronunciar-

si sulla terza censura, relativa alla errata 

determinazione dell’entità dell’offesa 

all’etica forense ed alla inadeguatezza 

della sanzione irrogata. Il C.N.F. avrebbe 

errato nei non delibare la proporzionalità 

della sanzione con riferimenti al caso 

concreto. 

6. - Il motivo è infondato, sol che si consideri 

che la decisione del C.N.F. si sofferma 

specificamente sul punto della 

adeguatezza della sanzione irrogata, 

considerando equa quella della censura, 

avuto riguardo alla condotta ambigua e 

contraddittoria dell’incolpata, tra l’altro 

protratta nel tempo e dettata da un preciso 

disegno dilatorio. 

7. - Con il quarto motivo, si lamenta la violazione 

del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 

56 in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, 

nonchè la violazione dell’art. 111 Cost., 

per la motivazione carente/inesistente 

con conseguente nullità della pronuncia 

per difetto di requisito di forma indispensabile. 

Si denuncia la carenza della 

esposizione dei motivi di fatto e di diritto 

della decisione, la quale sarebbe passata 

dalla enunciazione dei fatti di prova, 

costituiti dalle lettere della attuale ricorrente, 

al giudizio di responsabilità disciplinare 

senza esplicitare quali sarebbero 

le frasi che violano i doveri di colleganza 

ed il decoro professionale, quali le circostanze 

da cui inferire l’elemento soggettivo 

dell’illecito, quale il fine sotteso. 

8.1. - La doglianza è destituita di fondamento. 

8.2. - La decisione impugnata contiene 

una articolata e dettagliata descrizione 

dei fatti posti a suo fondamento, ed una 

puntigliosa ed analitica ricostruzione del 

percorso logico che ha indotto il C.N.F. 

a ravvisare nei fatti esposti la violazione 

contestata, alla luce del comportamento 

tenuto dalla incolpata e delle ragioni e 

finalità che lo avevano orientato. 

9. - Conclusivamente, il ricorso deve essere 

rigettato. Non v’è luogo a provvedimenti 

sulle spese, non essendo stata svolta attività 

difensiva dagli intimati. 

P.Q.M. 

La Corte rigetta il ricorso. 

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio 

delle Sezioni Unite civili, il 15 novembre 

2011. 

Deontologia 

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di 

Bologna ha espresso due pareri di interesse 

generale in risposta a quesiti sottopostigli. 

Si chiedeva: 

“a) se sia possibile agire nei confronti 

di un proprio cliente, per recupero 

delle spettanze maturate, rinunciando 

al mandato nella causa nella 

quale il proprio credito professionale 

è maturato, senza tuttavia rinunciare 

al mandato in altre cause dello stesso 

cliente; b) se sia possibile revocare la 

rinuncia al vincolo di solidarietà ex 

art. 68 della legge professionale forense 

espressa in una transazione già 

sottoscritta dalle parti ma non ancora 

perfezionata in quanto subordinata 

all’avverarsi della condizione del pagamento. 

Il Consiglio, all’esito del riferimento e 

della discussione, delibera di esprimere 

parere negativo su entrambi i quesiti, in 

particolare ritenendo che sia contrario ai 

doveri sanciti agli articoli 35 (rapporto di fiducia), 

37 (conflitto di interessi) e 46 (azioni 

contro la parte assistita per il pagamento 

del compenso) c.d.f. il mantenimento di 

alcuni mandati a fronte della rinuncia al 

mandato in altra causa e dell’esperimento 

dell’azione giudiziale nei confronti del 

cliente per il recupero del proprio credito 

professionale; e che sia incompatibile con 

quanto previsto all’art.32 c.d.f. (divieto di 

impugnazione della transazione raggiunta 

con il collega), oltre che con i generali 

doveri di lealtà e correttezza (art. 6 c.d.f.) 

e fedeltà (art. 7 c.d.f.), revocare la propria 

dichiarazione di rinuncia alla solidarietà 

forense formalmente espressa in una scrittura 

di transazione la cui esecuzione sia in 

corso.” 

“se sia compatibile, dal punto di vista 

deontologico, per un Avvocato aggiungere 

al proprio titolo anche quello 

di mediatore, iscritto al registro degli 

organismi di conciliazione ex Dlgs. n. 

28/10, con possibilità di pubblicizzare 

anche tale secondo titolo (ad esempio 

in biglietti da visita, targa all’esterno 

dello studio, carta intestata, ecc.), e se 

sia possibile alternativamente come 

Avvocato o come mediatore (non nello 

stesso caso con entrambe le vesti e 

funzioni). 

Il Consiglio, all’esito del riferimento e 

della discussione, delibera di esprimere 

parere negativo sulla possibilità di aggiungere 

al titolo di Avvocato quello di 

“mediatore” e comunque di pubblicizzare 

quest’ultimo, non apparendo ciò conforme 

ai precetti degli artt. 17 e 17 bis c.d.f., anche 

richiamando quanto stabilito da questo 

Consiglio in materia di “settori di esercizio 

dell’attività professionale” e di “materie di 

attività prevalente” con la propria circolare 

attuativa e interpretativa del regolamento 

del C.N.F. sulla formazione professionale 

continua; e di esprimere parere favorevole, 

allo stato della legislazione, affinché un 

Avvocato che abbia conseguito il titolo di 

mediatore professionale, quindi iscritto al 

registro degli organismi di conciliazione ex 

Dlgs n.28/10, possa esercitare anche tale 

seconda funzione, purchè naturalmente nel 

rispetto di tutti i precetti deontologici e in 

particolare di quelli dettati dagli articoli 9 

(segretezza e riservatezza), 10 (indipendenza) 

e 37 (conflitto di interessi).” 


19

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Gherardo Colombo, Il perdono responsabile. 

Perché la punizione non è 

lo strumento idoneo per recuperare le 

persone alla società, 

Adriano Salani editore, Milano, 2011 

Si può educare il bene attraverso il 

male? Il tema trattato da Gherardo Colombo 

in questo libro è di viva attualità. 

Il dibattito sulla funzione della pena, sul 

reinserimento del reo nella società, sulla 

opportunità del perdono nei confronti 

del reo si ripropongono ogni qualvolta un 

Ministro della Giustizia o il Parlamento 

sollevino il problema delle carceri. Ma si 

pone anche tutte le volte in cui all’opinione 

pubblica sono sottoposti casi di 

cronaca nera e giudiziaria tali da creare 

turbamento nelle coscienze accompagnato 

a una voglia di giustizia (in senso 

retributivo). 

Il problema è di una certa delicatezza e 

non si può certo pretendere di risolverlo 

sulla base di quello che ci suggerisce la 

nostra “pancia”. 

In questo senso, il contributo di Gherar- 

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do Colombo si contraddistingue per il tentativo 

di trattare il tema in maniera ampia, 

a partire da una analisi approfondita della 

nostra società, evidenziando la necessità 

di superare il tradizionale concetto di pena, 

sviluppando un nuovo approccio culturale 

fondato su tre concetti chiave: regola, responsabilità, 

perdono. 

Dello stesso autore si segnala: 

Gherardo Colombo, Il peso della libertà 

– riflessione contenuta in Fëdor Dostoevskij, 

Il grande inquisitore, 

Adriano Salani editore, Milano, 2010 

Millecinquecento anni dopo la sua morte, 

a Siviglia, Cristo torna sulla terra. Cammina 

per le strade della città spagnola dove, 

alla presenza di tutti i cittadini, il cardinale 

Grande Inquisitore sta consegnando al 

rogo un centinaìo di eretici. Il suo arrivo è 

silenzioso, eppure il popolo lo riconosce, lo 

circonda, è pronto a seguirlo. Ma in quel 

momento il Grande Inquisitore attraversa 

la piazza, si ferma a guardare la folla, 

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ed interna allo studio un praticante 

senza esperienza. 

Avv. Renato Cogliati tel. 348 

5115544 

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incupito. Poi ordina alle sue guardie di 

catturare Cristo e rinchiuderlo in prigione. 

Nell’oscurità del carcere, il vecchio e 

potente ministro della Chiesa pronuncia 

contro il Messia un fortissimo atto d’accusa, 

condannandolo a morte. In questo 

episodio dalla dignità autonoma dei Fratelli 

Karamazov, Fëdor Dostoevskij afferma 

il proprio pensiero filosofico-religioso: 

la libertà dell’essere umano si basa 

su una fede senza dogmi e miracoli, 

senza gerarchie e autorità, contrapposta 

alla dottrina che in nome di un mandato 

superiore e indiscutibile sottrae agli uomini 

la consapevolezza di sé e il libero 

arbitrio. Sulla straordinaria attualità di 

questa riflessione si incentra il saggio di 

Gherardo Colombo, Il peso della libertà: 

la massima sofferenza dell’uomo sta 

infatti in questa contraddizione, vivere 

divise tra il desiderio di una tutela che 

lo sollevi dal tormento del decidere e 

l’aspirazione alla libertà individuale. Un 

conflitto che coinvolge tutti i popoli, in 

tutte le epoche, più che mai cruciale 

nella modernità. 

21

In giro per mostre... A cura di Renato Cogliati 

22 

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23

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